lunedì 16 giugno 2008

l’Unità 16.6.08
Avviso d’emergenza
di Furio Colombo


L’invio di reparti militari armati
nelle strade delle grandi città
rende unica l’Italia in Europa.
Le intercettazioni vietate stanno
già raccogliendo l’opposizione
netta di tutta l’Europa libera

Voci di estremo allarme si alzano nel Paese in cui un nuovo governo aveva fatto finta, sulle prime, di essere normale, un qualunque governo di destra europeo. Improvvisamente annuncia di seguito - e si prepara a imporre per decreto e con l’approvazione automatica della sua maggioranza - una serie di leggi con cui inventa un clima di tensione e paura. E risponde a quel clima inventato con leggi liberticide, anticostituzionali e contro il diritto di sapere. L’opinione pubblica libera e informata viene proclamata il nemico da eliminare. Si rivela il volto del nuovo governo. Come è stato detto da Antonio Di Pietro, è un volto che evoca paesi ad alto rischio come la Colombia. Ecco alcune voci che descrivono il nostro Paese oggi.
Stefano Rodotà: «Siamo di fronte a un fenomeno che l’Italia ha conosciuto in altri decenni: le leggi speciali.
Giovanni Sartori: «La Carta della prima Repubblica non è stata abolita perché non c’è più bisogno di rifarla. La si può svuotare dall’interno. Basta paralizzare la magistratura. Alla fine il potere politico comanda da solo».
Marco Travaglio: «Personalmente annuncio fin d’ora che continuerò a informare i lettori senza tacere nulla di quello che so. Continuerò a pubblicare atti di indagine e intercettazioni che riuscirò a procurarmi, come ritengo giusto e doveroso al servizio dei cittadini. Lo farò in base all’art. 21 della Costituzione e all’art. 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo».
Eugenio Scalfari: «Attenti al risveglio. Può essere durissimo. Può essere il risveglio di un Paese senza democrazia».
Ecco che cosa è accaduto: militarizzazione del territorio «per ragioni strategiche»; uso dei soldati per il pattugliamento delle aree urbane; divieto quasi assoluto delle intercettazioni telefoniche nelle indagini, con limiti scandalosi e risibili (interrompere dopo tre mesi, non poterle utilizzare se si accerta un nuovo reato!) per le poche intercettazioni possibili; impunità (ancora non si sa per che cosa) al primo ministro garantita dal ritorno del vergognoso «lodo Schifani». Torna il passato e torna al peggio. Rivediamolo.
***
Un giorno dell’anno 2002, il secondo anno di direzione de l’Unità rinata e rifondata (non più di partito, non più vincolata ad alcuna ortodossia, ispirata alle battaglie «liberal» della stampa anglosassone, pragmatica e intransigente) direttore e il condirettore di questo nuovo corso (ovvero Antonio Padellaro e io) si sono presentati a una assemblea di senatori Ds per spiegare perché nel descrivere le imprese del governo Berlusconi di allora, fondato su una serie di «leggi vergogna», di «leggi ad personam» e di progetti di svuotamento o annullamento della seconda parte della Costituzione (in modo da colpire, sterilizzandoli, i principi democratici fondanti della prima parte della Costituzione, da cui nasce la nostra libertà) perché l’Unità usasse ripetutamente e con piena convinzione la parola «regime».
L’accusa era di estremismo. Ma uno strano estremismo. Non eravamo colpevoli di squilibri e tensioni ideologiche. Il nostro singolare e mal tollerato estremismo non si misurava sulla causa dei lavoratori ma sulle accuse al primo ministro. Dicevamo che godeva della speciale potenza, di una ricchezza immensa e che usava liberamente, impunito, i vantaggi di un gigantesco conflitto di interessi che gli consentiva di governare insieme il pubblico e il privato e di bloccare le informazioni, stava dando segni sempre più chiari di tracimare ogni argine, passare ogni limite, e piegare norme e leggi, anche europee, ai suoi interessi privati. Già allora l'operare politico di Berlusconi era come una bomba a grappolo. Ogni nuovo colpo assestato ai codici italiani portava immediate conseguenze private per il legislatore-beneficiario, un serie di distorsioni e anomalie estranee all’Europa nel sistema giuridico e una catena di conseguenze di fatto su soggetti estranei, come il blocco o l’impossibilità di decine di altri processi o la cancellazione di fatto di altre azioni penali.
Ma l’accusa è rimasta, come se si fosse trattato di un ossessione privata e personale. La frase tipica era: dire «regime» è una sciocchezza.
Un governo può essere più o meno buono ma la nostra democrazia è intatta».
Non era intatta. E ci è voluto un referendum popolare per cancellare le gravi ferite arrecate alla costituzione. Una legge elettorale clamorosamente antidemocratica è ancora in vigore, e sono rimaste intatte tutte le leggi vergogna e ad personam che hanna reso ridicola o brutta l’immagine italiana nel mondo democratico ai tempi del primo Berlusconi.
***
Ed eccoci arrivati alla nuova prova mortale a cui è sottoposta adesso la democrazia italiana. In nome di un dialogo che - ormai deve essere evidente ed è certo chiaro ai milioni di cittadini che hanno votato Pd - sarà impossibile, la opposizione continua a esprimersi con i toni garbati e rispettosi della normale vita democratica. Quei toni, quanto alle civilissime intenzioni che esprimono, fanno onore a chi le usa. O meglio, facevano onore a chi voleva ostinarsi a credere nella normalità, forse in base al sempre atteso ma raro miracolo della fede che muove le montagne.
Ma niente è normale nella situazione italiana che stiamo vivendo.
Tutta l’energia, la bravura tecnica e la forza politica che ci servirebbe in un mondo attanagliato da una crisi gravissima, per proteggere i cittadini dai danni più gravi, collaborare fra noi e collaborare col mondo, vengono dirottati in alcune ossessioni che riguardano esclusivamente interessi personali o politici di alcune persone in Italia.
È un delitto contro il Paese, spinto dentro strade senza sbocco, tenuto stretto in una morsa di paura insensata. La militarizzazione del territorio serve per coprire l’incapacità di risolvere il problema dei rifiuti al modo facile e immediato che era stato sbandierato in campagna elettorale. Berlusconi, incapace di capire e di risolvere la questione, ricorre all’occupazione militare.
L’invio di reparti militari armati nelle strade delle grandi città esalta la paura, inventa una emergenza, rende unica l’Italia in Europa (e certo i fucili spianati di soldati non addestrati all’ordine pubblico non è un invito al turismo) e - se ci fossero i problemi che, per fortuna non ci sono - aggraverebbe i rischi di incidenti. Comunque, farà sparire provvisoriamente i criminali, che sanno come riorganizzarsi, e lascerà gli immigrati isolati e spaventati a fare da esca per le ronde militari. Bisognerà pure arrestare qualcuno. Quanto alle intercettazioni vietate, esse stanno già raccogliendo l’opposizione netta di tutta l’Europa libera, giornalisti, giuristi, difensori dei diritti civili. È bene annunciare per tempo, anche in Italia, la disobbedienza civile per evitare di farsi complici di un progetto estraneo al diritto, alla Costituzione, ai codici europei e italiani, e al buon senso. Perché è impensabile che un governo voglia fare sua la battaglia per creare uno scudo salva- malfattori. Ma se questo è lo scopo, dovrà avere tutta l’opposizione che merita. Speriamo che il Partito Democratico si renda conto che questa è la sua battaglia, pena la caduta in un vuoto senza storia.

l’Unità 16.6.08
Opposizione troppo morbida?
Sondaggio fa discutere il Pd


«Dobbiamo praticare
un antiberlusconismo
democratico. E sulle
politiche riformiste
coinvolgiamo la sinistra»
«Non siamo stati
rinunciatari, non cediamo
all’angoscia dei sondaggi
Ma deve emergere la
nostra idea di futuro»

Opposizione troppo morbida? O addirittura remissiva, come indica un 40% degli elettori Pd nell’ultimo sondaggio di Mannheimer? Tra i democratici si discute, ma tra i fedelissimi di Veltroni non ci sono dubbi: «Non si torna al 2001, al replay dell’antiberlusconismo che poi ci ha portati a fare l’Unione». D’accordo anche Bersani, mentre Enrico Morando manda un messaggio chiaro al centrodestra: «Sul dialogo vogliamo vedere fatti concreti rapidamente, non bastano le chiacchiere: entro l’estate si modifichino i regolamenti parlamentari per cambiare la sessione di bilancio». E Nicola Latorre: «Le riforme istituzionali non si fanno a maggioranza, ma finora sul dialogo abbiamo sentito solo chiacchiere, non ci sono proposte concrete».
No, il Pd non ha nessuna voglia di tornare all’antiberlusconismo del 2001. Certamente questa non sarà la strada seguita dal gruppo dirigente che si ritrova attorno a Walter Veltroni. Non basta il rimprovero dell’Economist sul Pd troppo morbido verso il Cavaliere, e neppure il sondaggio di Renato Mannheimer che vede un 41% di elettori democratici bocciare l’opposizione come troppo «remissiva». E non basta neppure l’analisi di Eugenio Scalfari che fotografa una opposizione «fragile» e «sonnolenta» davanti all’incipit di una dittatura berlusconiana.
Il Loft non torna indietro, non si lascerà tentare dalle sirene “girotondine”. «No al replay del 2001, che ci ha portato a mettere insieme una coalizione inefficace come l’Unione», è il ragionamento che si fa nella cerchia di Veltroni. Dove si sottolinea un altro dato del sondaggio di Mannheimer: per il 53% degli elettori di centrodestra l’opposizione del Pd è «equilibrata». «Significa che i nostri argomenti fanno breccia dall’altra parte: per tornare a vincere non c’è altra strada, prendere a Berlusconi una fetta di voti moderati. Non basta galvanizzare i nostri elettori». Nello staff di Veltroni la convinzione è che «nei contenuti la nostra opposizione è ferma, non c’è nessun provvedimento della maggioranza su cui abbiamo votato a favore. Il punto è comunicare meglio i nostri risultati, come quello su Rete4: e non è facile con questo clima di giubilo che c’è tra i grandi media, giornali e tv, e il governo».
Enrico Morando, coordinatore del governo ombra, è esplicito: «Non so se qualcuno ha nostalgie per il 2001, io sono convinto che dobbiamo stare lontano da quel clima come dalla peste. E non vorrei che scivolassimo senza accorgercene verso quel tipo di opposizione 2001-2006, un disastro: non c’era un solo tema su cui l’opposizione parlamentare avesse elaborato una proposta credibile. L’unico collante era dire no e fare ostruzionismo, ma proposte zero, perché non eravamo d’accordo fra di noi». Quanto all’Economist, Morando è netto: «Dire che stiamo facendo un piacere a Berlusconi è una sonora stupidaggine». Più insidioso quel 40% di elettori che giudicano «remissiva» l’opposizione. «È un segnale d’allarme che va colto. Per questo dobbiamo pretendere che le chiacchiere sul dialogo si traducano entro tre mesi in iniziative concrete di riforma, a partire dai regolamenti parlamentari. Altrimenti, se è solo teatro, questo presunto clima di dialogo è dannoso per il Paese e per il Pd». Morando lancia una proposta al centrodestra, che è quasi un ultimatum: «Prima delle ferie bisogna cambiare la legge di contabilità e i regolamenti parlamentari per avere una sessione di bilancio ordinata, senza il caos degli anni scorsi. Sarebbe una dimostrazione che il dialogo serve a qualcosa».
Il problema di una opposizione più incisiva non coglie di sorpresa Pierluigi Bersani, che da settimane sprona il suo partito ad alzare i toni in Parlamento e non solo. «Non mi stupisce quel 40% -ragiona Bersani con i suoi - è normale che ci si chieda di fare di più, ma non possiamo tornare al 2001, alle discussioni sul regime. Il punto è costruire il profilo del Pd, poi sarà più facile anche fare l’opposizione». Nicola Latorre, braccio destro di D’Alema, invita a «non cedere all’angoscia dei sondaggi». «Finora abbiamo fatto il nostro dovere, non siamo stati rinunciatari- spiega- ma questo non si percepisce abbastanza anche perché non emerge ancora la nostra idea di futuro». «Contro i provvedimenti deteriori di questo governo, come quelli sull’immigrazione e la militarizzazione delle città- prosegue Latorre- dobbiamo essere durissimi. Ma se e quando si inizierà a discutere di riforme istituzionali è chiaro che non si fanno a colpi di maggioranza». «Ma dico se perché finora - ammette Latorre- ci sono state solo chiacchiere, non c’è nulla sul tavolo».
E Rosy Bindi spiega: «Dobbiamo praticare un “antiberlusconismo democratico”. Come la Dc praticò l’anticomunismo democratico non alleandosi mai con la destra ma tenendo l’elettorato di destra su posizioni moderate, così il Pd deve praticare un antiberlusconismo democratico sconfiggendo la destra e Berlusconi con politiche riformiste sulla quali far convergere anche la sinistra radicale». E dall’ala sinistra del Pd Vincenzo Vita avverte: «Dobbiamo evitare che passi l’idea di un clima di pacificazione, fare una opposizione netta e intransigente come ha fatto Veltroni sulle intercettazioni. Sui temi sociali, invece, il lavoro che abbiamo da fare è ancora moltissimo».

Il SONDAGGIO. 41% degli elettori Pd: opposizione remissiva

Secondo un sondaggio di Renato Mannheimer, pubblicato ieri dal Corriere della Sera, il 41% degli elettori del Pd giudica «troppo remissiva» l’opposizione. Ma il 53% degli elettori di centrodestra la trova «equilibrata».
E Scalfari su Repubblica sferza i democratici: di fronte «all’incipit di una dittatura» berlusconiana, l’opposizione appare «fragile» e «sonnolenta». E ancora: «Quale dialogo nel momento in cui viene militarizzato il Paese nei settori più sensibili della democrazia?». «È evidente», prosegue Scalfari, che l’ipotesi di dialogo sulle riforme istituzionali «condiziona inevitabilmente il tono dell’opposizione», tanto da trasformare in questioni secondarie i contrasti di merito sui singoli provvedimenti.

l’Unità 16.6.08
Minniti: fomentano la paura
rischiamo la deriva autoritaria
di Federica Fantozzi


Si va dalle ronde cittadine all’esercito per strada. Onorevole Minniti, lei è ministro ombra dell’Interno: siamo in emergenza?
«No, il problema è che questo governo affronta il tema sicurezza, importante e sentito dalla gente, dal versante emotivo. Attraverso una politica di annunci ripetuti e ridondanti pensa di cavalcare un sentimento diffuso, ma commette un grave errore che potrebbe produrre danni radicali».
Quali danni?
«La paura forse aiuta a vincere le elezioni ma non a governare. Qui si produce emergenza per sostenere risposte di carattere emergenziale. Ma le politiche di sicurezza hanno due grandi nemici: proprio le reazioni emotive ed emergenziali».
Quindi, secondo lei, il governo sbaglia tutto?
«Sbaglia approccio. L’uso dei militari con funzioni di ordine pubblico non ha precedenti. Neanche ai tempi bui del terrorismo o durante la sfida a Cosa Nostra. Né calza il paragone con i Vespri: allora era un esercito di leva che svolgeva un presidio, ora è un esercito professionale addestrato per compiti più importanti nel mondo».
Per i soldati è una diminutio?
«La questione è duplice. Da un lato si chiamano le forze armate a un improprio compito di supporto. Mandando un messaggio sbagliato perché chi vede una camionetta in piazza vede un Paese fuori controllo. Si evocano scenari molto più drammatici come il Kosovo, l’Irlanda del Nord di qualche anno fa o Gerusalemme».
E dall’altro lato?
«Si mette in imbarazzo la polizia, come hanno detto i sindacati. Si mortifica il loro impegno. E mischiare profili professionali diversi può innescare un gigantesco corto circuito».
Lega e An sostengono che la gente invoca sicurezza senza se e senza ma.
«È fuori dal mondo basare questi temi sui sondaggi. Con un’operazione d’immagine a rischio di eterogenesi dei fini perché emerge il volto di un’Italia in difficoltà. Di fondo vedo un’idea che torna a galla: l’approccio alla sicurezza con una forte curvatura militare. Quando il Carroccio voleva controllare le coste con le navi militari, fu impedito dalle convenzioni internazionali».
Eppure, da Cacciari a Zanonato, l’idea ai sindaci del Pd non dispiace. E all’Elba le spiagge sono off limits per i vu cumprà.
«Bisogna distinguere tra il contrasto alle merci contraffatte, dove è forte il ruolo della criminalità organizzata e su cui anche il Pd si è misurato, e il salto di qualità che si innesca con l’uso dei militari. Sono situazioni diverse».
Le ronde servono?
«Dimostrano la schizofrenia di una maggioranza che oscilla come la pallina del flipper: dai paracadutisti in città al fai-da-te del privato che si organizza. È un’enorme contraddizione. Così si acuiscono le paure, non si rendono più sicuri i cittadini».
Scalfari denuncia la militarizzazione della vita civile, la voglia di giornalismo servile, lo svuotamento costituzionale. È l’«incipit di una dittatura»?
«Ci sono segnali non tranquillizzanti. Si rischia uno slittamento progressivo verso derive autoritarie. Serve prudenza. gli allarmi devono essere proprzionati alla realtà dei fatti».
Un sondaggio mostra che questa opposizione non piace al 40% dei suoi elettori. State sbagliando qualcosa? Siete troppo gentili?
«Quella dell’opposizione too fair è più una vulgata che realtà. Noi siamo stati fermi e netti contro il reato di clandestinità, contro i limiti alle intercettazioni, sul caso Rete4. Il punto è che dopo 40 giorni la maggioranza si scopre contraddittoria, chiudendosi a riccio appena trova un compromesso. Non hanno voluto inserire nel decreto i nostri emendamenti contro la violenza sulle donne perché temono di riaprire un accordo fragilissimo».
La disciplina sulle intercettazioni va bene così come è?
«Bisogna essere rigorosi sulla tutela della privacy. Ma non convince, nella proposta del governo, il voler mettere questo sacrosanto argomento in relazione con la libertà delle indagini. Torna la schizofrenia: da un lato c’è il totem della sicurezza, dall’altro si rende inefficace uno dei principali strumenti delle inchieste».

l’Unità 16.6.08
Bocca: «Berlusconi elimina ciò che gli dà noia
Non c’è il fascismo, ma la logica è la stessa»
di Sandra Amurri


«Tutto quello che fa lo fa
per interesse personale
L’arma del potere è la
corruzione. In Italia
l’autoritarismo è in atto»

La Federazione europea dei giornalisti ha redatto un documento di condanna del ddl sulle intercettazioni esortando il Parlamento a non tramutarlo in legge. Giovanni Sartori di fronte al pericolo del non poter più raccontare niente ha sentito il dovere di mettere in guardia i cittadini dai «dittatori democratici». Marco Travaglio dalle pagine de l’Unità ha annunciato che farà disobbedienza civile contro una legge «illiberale e liberticida» lanciando l’appello «Arrestateci tutti».
Ora arriva forte come una roccia la voce di uno dei padri del giornalismo italiano, Giorgio Bocca: «Si continua a dibattere se c’è o no un ritorno al fascismo. Così come è stato, certamente non è possibile per una semplice situazione storica ma il ritorno ad un autoritarismo è già in atto». Sono trascorse da poche le 16 di domenica quando Giorgio Bocca dalla sua casa milanese pronuncia queste parole che gelano. Tentare di ammorbidire la durezza delle convinzioni facendogli notare che non tutto è perduto di fronte al pericolo che impedirà di fatto ai giornalisti di rispondere al loro dovere primario, quello di informare i cittadini anche sui processi in corso, si rivela inutile: «Questa legge è la conseguenza del modo di Berlusconi di pensare la politica. Così come ha fatto leggi personali ora fa intercettazioni personali. Ciò che gli dà noia lo elimina, lo modifica, lo stravolge». Proviamo a ricordargli che la corruzione è stato inserita tra i reati per i quali si potrà ancora utilizzare le intercettazioni, che la legge non avrà effetto retroattivo e, dunque, non potrà servire a cestinare le intercettazioni già disposte, comprese quelle che lo riguardano, ma Bocca non si lascia incantare dal serpente: «Non ho una cultura giuridica, non sono in grado di capire, di cogliere le distinzioni. Il presidente Napolitano parla, lui ascolta e cambia, la Lega punta i piedi, lui concede e questa è la prova che Berlusconi è un abile manovratore. Conosco molto bene l’uomo e so che tutto quello che fa lo fa per interesse personale. Lui sa che chi esercita il potere decide ciò che i cittadini devono sapere e credere. Non dimentichiamoci che l’Italia ha accettato che Andreotti non fosse stato amico dei mafiosi, esattamente come si voleva. Lui ha capito che la querela con risarcimento danni, non era un’arma punitiva efficace, allora ha pensato che bisognasse intimidire i giornalisti con la prigione. Così nessuno saprà che tacciono».
Il silenzio dura qualche secondo, quasi a riprendere fiato poi Bocca con rabbia e tono di sfida dice: «Sto riabilitando Mussolini, almeno lui i giornalisti li pagava molto, guadagnavano più dei generali, adesso i loro stipendi fanno ridere. L’arma del potere è la corruzione. Non c’è il fascismo ma la logica è la stessa». Autoritarismo senza via d’uscita, dunque. È l’amara conclusione? «Siamo nella mani di Dio!», esclama Bocca. Come dire che le mani degli uomini sono inermi, rassegnate, impotenti e le loro coscienze ormai prive della capacità di indignarsi, di ribellarsi ai «dittatori democratici» come li definisce Sartori.

l’Unità 16.6.08
Malavenda: «Con questo ddl, addio alla cronaca giudiziaria». D’Amati: sarà la Guantanamo per la libertà di stampa


«La cronaca giudiziaria con il disegno di legge proposto da Alfano non si potrà più fare». L’avvocato Caterina Malavenda è tra i maggiori esperti italiani sul diritto dell’informazione. Assiste da anni il Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, Panorama, la Rai, Sky. E oggi sottolinea che il disegno di legge del governo Berlusconi modifica di fatto il codice di procedura penale e introduce palesi controsenso: «I giornalisti, se passa così il testo, potranno scrivere che un indagato è stato arrestato, ma non si potrà dire perché è finito in cella». Chi scrive qualcosa facendo riferimento agli atti giudiziari sarà punito con l’arresto da uno a tre anni e con l’ammenda fino a 1.032 euro per ogni articolo pubblicato. «Le due pene, detentiva e pecuniaria - spiega Malavenda - non sono alternative, ma congiunte. Il che significa che il carcere è sempre previsto». Per non parlare dei problemi disciplinari a cui si va incontro, visto che la procura che indaga il cronista per le violazioni previste dal ddl dovrà avvertire l’Ordine dei giornalisti affinché lo sospenda per tre mesi dalla professione. E chi insiste a informare rischia anche di essere licenziato. «L’editore, per non vedere condannata anche la sua impresa, deve dimostrare di aver adottato tutte le precauzioni contro le violazioni della nuova legge». La conclusione dell’avvocato è ironica quanto amara: «Per i giornalisti che non vogliono correre problemi basterà che non diano più notizie e saranno tranquilli».
Un altro avvocato esperto di diritto dell’informazione come Domenico D’Amati punta comunque l’attenzione su un altro aspetto del provvedimento: «La magistratura potrebbe sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale perché il disegno di legge sulle intercettazioni limita la sua autonomia. La norma costituzionale che sarebbe violata è l’articolo 112, che prevede l’obbligo per il pm di esercitare l’azione penale. Questa norma verrebbe svuotata se il pm non avesse i mezzi per condurre l’azione penale». Per il presidente del comitato giuridico di Articolo21 se il ddl verrà approvato «Berlusconi avrà il suo caso Guantanamo davanti alla Corte Costituzionale»: «Il primo magistrato cui sarà chiesto di condannare alla reclusione un giornalista per aver dato notizia delle malefatte di qualche esponente della casta, emerse da intercettazioni in sede giudiziaria, manderà gli atti alla Consulta perché annulli la nuova legge». Non solo: «Non mancheranno certo di pronunciarsi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la Corte di Giustizia dell’Ue. Perché la libertà di stampa è tutelata non solo dalla nostra Costituzione ma anche dai trattati internazionali che l’Italia ha firmato dopo essere uscita dal tunnel del ventennio».

l’Unità 16.6.08
Legge bavaglio, insorge anche la stampa Ue
Ferma condanna della Federazione europea dei giornalisti: va bloccata, in Italia un vento illiberale
di Simone Collini


«SOTTO OSSERVAZIONE» per il «vento illiberale» che spira dalle nostre parti. Il disegno di legge sulle intercettazioni diventa un «caso italiano» in Europa. La Federazione europea dei giornalisti, riunita a Berlino per l’assemblea annuale, ha votato all’unanimità un
documento che condanna duramente il disegno di legge strenuamente difeso da Berlusconi e dal Guardasigilli Alfano, che prevede misure disciplinari e l’arresto da uno a tre anni per i cronisti che pubblichino informazioni riguardanti le inchieste giudiziarie. Il dito viene puntato sulla «scusa della privacy», sventolata dal centrodestra per approvare di un provvedimento che «mette il bavaglio ai giornalisti e impedisce ai cittadini di essere informati su temi d’interesse pubblico compresi nelle inchieste giudiziaria». Un modo di procedere che per l’organizzazione è palesemente «contrario ai principi universali dei diritti dei media e della loro funzione nelle democrazie moderne: i giornalisti, infatti, non devono nascondere le informazioni d’interesse generale, sia originate da fonti libere sia da fonti confidenziali, che essi hanno il dovere di proteggere».
Dopo l’allarme lanciato da giudici, avvocati esperti di diritto dell’informazione e giornalisti di casa nostra a insorgere è dunque la Federazione dei giornalisti europei, che rappresenta oltre 200 mila cronisti di tutti i paesi dell’Unione e che dall’inizio degli anni ‘60 difende il diritto all’informazione. La preoccupazione dei vertici dell’organizzazione è che il provvedimento del governo Berlusconi crei un precedente pericoloso per l’intera Europa: «Il progetto di legge del governo italiano è contrario alle convenzioni internazionali e alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo», si legge nel documento approvato all’unanimità ieri a Berlino. «La Federazione europea dei giornalisti mette sotto osservazione la vicenda e condurrà in ogni sede d’interesse europeo un’iniziativa sociale e etica per la libertà e la qualità del lavoro dei giornalisti. Venti illiberali per tentare di condizionare l’informazione soffiano qua e là in Europa e quello italiano è un caso d’osservazione e mobilitazione professionale e civile».
A Berlino, in rappresentanza dell’Italia, c’erano presidente, segretario e direttore della Fnsi Roberto Natale, Franco Siddi e Gianfranco Tartaglia. E alla nostra delegazione la Federazione europea ha assicurato che farà ancora sentire la sua voce in futuro. Nel documento approvato all’unanimità si annuncia infatti il sostegno della Feg al sindacato dei colleghi italiani «nel suo contrasto, nella sua opposizione contro il disegno di legge» e si fa «appello al Parlamento italiano a non approvarlo o a modificarlo profondamente».
La Fnsi incassa e si prepara alla battaglia. Domani si riunisce in seduta straordinaria la giunta del sindacato dei giornalisti. Sarà l’occasione per valutare se percorrere immediatamente la strada dello sciopero, una forma di lotta peraltro già adottata quando venne varato dal governo Prodi il disegno di legge Mastella sullo stesso tema. Non è però escluso che come primo strumento si ricorrerà ad altre iniziative, per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’argomento.
Perché il punto per l’Fnsi è non soltanto denunciare, come pure fa il responsabile Comunicazione del Pd Paolo Gentiloni, che «si è resa la vita più facile ai delinquentii è reso più difficile il lavoro di magistrati e giornalisti », ma far capire che con questo provvedimento si ledono non i diritti specifici di una categoria, ma il diritto di tutti i cittadini a conoscere fatti rilevanti e a formarsi consapevolmente un’opinione. Ecco perché Giuseppe Giulietti lancia a editori e giornalisti la proposta di uscire nei prossimi giorni con una prima pagina simulata, come se la legge sulle intercettazioni fosse stata già approvata, sulla clinica Santa Rita di Milano o su un altro importante fatto di cronaca. Che, nota il portavoce di Articolo 21, «così o sarebbe ignoto o verrebbe semplicemente cancellato».

l’Unità 16.6.08
Violenza alle Donne: Amo perciò Uccido


IL LIBRO Tredici giornaliste e scrittrici - tra loro Dacia Maraini, Elena Gianini Belotti, Lia Levi, Elena Doni, Maria Serena Palieri, Chiara Valentini - raccontano dodici mesi di violenza sulle donne nel nostro Paese. Ne emerge un quadro agghiacciante: quella in corso è una vera mattanza. E avviene per lo più in famiglia

4500 LE DENUNCE PER VIOLENZE, abusi, aggressioni, sporte nel 2006 da donne a polizia e carabinieri, stando ai dati registrati dal ministero dell’Interno.
112 LE DONNE UCCISE nel 2006 da un marito, un fidanzato o un ex, vittime cioè di un «amore criminale».

91,6% È LA PERCENTUALE DEGLI STUPRI che, secondo una ricerca elaborata dall’Istat e presentata nel 2007, non viene denunciata. Percentuale che cresce quando si parla di aggressioni non sessuali: passa infatti sotto silenzio il 96% delle ingiurie fisiche subite, per mano maschile, dalle donne.
1 MILIONE E 150MILA È il numero delle donne vittime di violenza negli ultimi 12 mesi, stando sempre all’indagine Istat presentata a febbraio del 2007.

Per gentile concessione dell’editore Laterza pubblichiamo ampi stralci dell’introduzione al volume «Amorosi assassini», in libreria da questa settimana. Nel rispetto della normativa sulla protezione dei dati personali, nel libro sono stati usati nomi di fantasia, se necessario, pur in aderenza alla realtà dei fatti descritti.

È la punta di un iceberg quella che emerge nelle pagine di questo libro. Abbiamo raccolto, in ordine cronologico, circa trecento casi di violenza inflitta a donne da mano maschile, avvenuti in Italia nel corso di un anno, il 2006. Si tratta di casi accomunati da due caratteristiche: primo, essi sono diventati pubblici, ne hanno scritto, cioè, agenzie di stampa e giornali.
Secondo, se ciò è successo è perché erano delitti per i quali vigeva, per il magistrato, la procedibilità d’ufficio, oppure perché essi sono stati denunciati dalle vittime. Insomma: si tratta di omicidi o tentati omicidi, oppure si tratta di stupri o di tentativi di stupro o, ancora, di aggressioni o violenze d’altro genere. Ed ecco che l’iceberg, oltre questa punta, sotto i nostri occhi comincia ad allargarsi. Per ogni stupro o aggressione denunciati, per ogni omicidio scoperto, quante violenze contro le donne rimangono coperte dal silenzio?
Il non detto e il buio sono condizioni che non permettono quantificazioni aritmetiche certe. Si sa che nel 2006 sono state 112 le donne uccise da un marito, un fidanzato o un ex, vittime cioè di un «amore criminale», come diceva il titolo di una bella trasmissione di Raitre. Mentre nel nostro paese diminuisce il numero generale degli omicidi, aumentano quelli di cui sono vittime le donne. Il ministero dell’Interno ha registrato, poi, negli stessi dodici mesi 4500 denunce per violenze, abusi, aggressioni, sporte da donne a polizia e carabinieri. E la più recente e approfondita ricerca in proposito condotta in Italia, quella elaborata dall’Istat, durata ben cinque anni e presentata il 21 febbraio 2007 a Palazzo Chigi, basata su un campione di venticinquemila donne tra i 16 e i 70 anni, ha dato un risultato agghiacciante: in Italia il 91,6% degli stupri non viene denunciato; la percentuale cresce quando si parla di aggressioni non sessuali: passa sotto silenzio il 96% delle ingiurie fisiche subite, per mano maschile, dalle donne.
Facciamo un po’ i conti: intorno a quel 6%, in media, di aggressioni che arrivano agli onori delle cronache c’è un mare immenso di violenze delle quali non si sa niente. Accorpando abusi sessuali e aggressioni fisiche: «Negli ultimi 12 mesi il numero delle donne vittime di violenza ammonta a 1 milione e 150 mila», si legge nell’indagine Istat. Ma non è finita, l’iceberg cresce e si allarga ancora, perché la violenza non è solo fisica. Violenza sono le molestie sessuali nei luoghi di lavoro così come lo stalking, cioè la persecuzione ossessiva.
Ma perché noi autrici, questo libro, abbiamo voluto scriverlo? Perché ci siamo rese conto che in Italia, più che nel resto del mondo ricco e democratico, è in corso, inavvertito, un cortocircuito.
Negli anni a cavallo tra la fine dei Sessanta e i Settanta si è svolta la grande guerra di liberazione, quel femminismo che - ha detto qualcuno - è l’unica rivoluzione che il Novecento ha potuto consegnare, senza necessità di abiure, al nuovo secolo. Ed è anche a partire dalla sua pressione che, a cominciare dagli anni Settanta, nel nostro paese è cominciata la produzione di leggi che danno corpo all’articolo 3 della Costituzione e sanciscono o promuovono una parità effettiva tra i sessi: divorzio, tutela delle ragazze madri, consultori familiari, riforma del diritto di famiglia, pari condizioni sul lavoro, interruzione volontaria di gravidanza, violenza sessuale.
Trent’anni dopo, le leggi le abbiamo, se non tutte, quasi: ma nel paese reale qualcosa di oscuro sta avvenendo. È in corso un fenomeno che non è un azzardo affermare abbia due facce. La prima è quella luminosa che ci ipnotizza ogni sera: il modello femminile che, di varietà in talk show in serial, ci impone la tv, il medium ancora più popolare e più pervasivo. Giovani e giovanissime, più nude che coperte, ruotanti come girasoli intorno a un maschio, che sia il conduttore o il marito da conquistare, ignoranti e oche: queste sono le italiane-tipo che ci propone la tv. Quale rapporto hanno con le italiane vere? Scarso.
Interrogativi che potrebbero estendersi ad altri luoghi dove si costruisce il modello femminile: la moda, per esempio, che dagli anni Ottanta ha imposto un’idea di donna costretta a essere sempre adolescente, esageratamente aggressiva quanto a sex appeal o, per converso, svestita come se uscisse da un’aggressione.
L’altra faccia del fenomeno in corso nel nostro paese è buia. È, appunto, il continente che esploriamo in queste pagine. È la violenza non simulata dagli stilisti e dai pubblicitari, ma quella vera che di settimana in settimana, di mese in mese, di anno in anno, si consuma: uomini che picchiano, feriscono, uccidono, stuprano. La violenza contro le donne - comunque essa si declini - è la conseguenza dello stato delle relazioni tra i due sessi. E questi uomini, viene spontaneo pensarlo, non sono più i patriarchi sicuri di se stessi e del brutale diritto che esercitavano nell’Italia dell’altro ieri, contadina e arcaica. Sono uomini che reagiscono in questo modo a un potere che sfugge. La maggioranza degli omicidi è per mano di coniugi o fidanzati, oppure di ex. Ma, anche quando la vittima non è, concretamente, la moglie o l’amante o la ragazza, spesso - nei casi di stupro - s’intravede uno sfondo vendicativo di rivalsa.
All’interno della cronologia che scandisce le pagine abbiamo usato lo zoom per quindici storie. Perché leggere un elenco di casi, nella successione lunga un anno, rende il fenomeno visibile e non più ignorabile. Ma entrare dentro alcune di queste vicende ci aiuta in un altro senso: ci consegna sia la particolarità di ciascuna, sia i tratti che esse hanno in comune.
È un dato statistico che la maggioranza delle violenze si consumino in famiglia. E il fatto che a questo si appaia: e cioè che le vittime di violenze in famiglia, vuoi per la connivenza dell’ambiente, vuoi per l’isolamento in cui vivono, vuoi perché ricattate sul piano affettivo o economico, hanno più difficoltà a sporgere denuncia. È questo il copione che si ripete in tre delle storie qui raccontate, in apparenza diverse: il caso di Teresa Spini, immigrata con la famiglia dalla Sicilia al Nord, uccisa a coltellate dal marito alla presenza dei figli mentre riposava nella sua camera da letto; la vicenda di Carmen, moglie peruviana di un italiano, sfuggita a un’incredibile persecuzione psicologica subita per anni da parte del marito; ma anche una vicenda che ha fatto scalpore, quella di Hina, la ragazza pakistana uccisa a Brescia dal padre con la complicità dei parenti, perché voleva comportarsi da italiana, girare in jeans e vivere col suo ragazzo.
Il caso di Hina è finito sulle prime pagine dei giornali non perché di regola ciò avvenga, in questo tipo di crimini, ma perché era il primo caso di delitto d’onore alla pakistana avvenuto nel nostro paese, ed era la dimostrazione che quel tipo di cultura musulmana (per alcuni commentatori diventato «la» cultura musulmana tout court) non è conciliabile con le nostre regole. Per paradosso noi italiani, che questo tipo di crimine l’abbiamo tollerato fino al 1981, l’abbiamo stigmatizzato senza attenuanti solo quando esso è avvenuto in «casa d’altri».
La religione, ma non quella musulmana, bensì quella cattolica, è un ingrediente importante anche nel contesto culturale in cui matura un’altra vicenda: quella di padre Fedele, il frate rinviato a giudizio perché avrebbe abusato della suora che lo serviva.
Molte delle donne picchiate, uccise o violentate pagano per avere detto un «no». Diceva di no Hina. Lo diceva Jennifer Zacconi, uccisa dall’amante al nono mese di gravidanza, perché non aveva voluto abortire. Diceva no al genere maschile nel suo complesso Paola, la donna stuprata da due ragazzi in Versilia perché omosessuale.
Due casi che abbiamo indagato ci dicono, invece, che è falso il luogo comune secondo il quale la violenza coniugale sarebbe più frequente dove fioriscono povertà e ignoranza. Può darsi che ciò fosse vero nell’Italia arcaica. Oggi, in certi casi, non è più così: anzi, può essere la donna colta, con un buon lavoro, insomma autonoma, che rischia di mandare maggiormente in crisi la sicurezza psicologica del suo compagno. L’ex marito di Francesca Baleani, personaggio in vista con incarichi prestigiosi nella sua città, Macerata, e G.S., medico, sono i due colti borghesi che nel 2006 hanno attentato, con fantasiosa sanguinaria efferatezza, alla vita delle mogli (non riuscendoci per un soffio il primo, il secondo sì). Resta il fatto che la miseria, il basso livello di istruzione e l’emarginazione sono un terreno di coltura per la violenza, come testimoniano, purtroppo, molte di queste vicende nate negli ambienti dell’immigrazione.
Un copione che poi, nonostante tutto, continua a entrare in moto quasi per automatismo è il rovesciamento dell’accusa sulla vittima, quando si parla di stupro: ma lei ci stava? Marta, la tredicenne violentata da un branco di coetanei e filmata con il videotelefonino, agli occhi dei genitori dei colpevoli, ma purtroppo anche del gip, deve «dimostrare» che lei non voleva, che quella non era un’orgia consenziente, era uno stupro. E così, Marta è costretta a convivere con i coetanei che l’hanno violentata: perché il gip ritiene che gli arresti domiciliari siano sufficienti e che, anzi, i ragazzini debbano continuare ad andare a scuola. E questo ci porta a un altro dolente dato ricorrente: la promiscuità tra vittima e aggressore, consentita anche a colpevolezza dimostrata, e non percepita - da chi giudica e sentenzia - come un fatto grave, disturbante, psicologicamente nocivo per la vittima. E anche potenzialmente nefasto.
È la situazione in cui si è venuta a trovare Francesca Baleani, il cui ex marito, dopo aver tentato di ucciderla e averla gettata in fin di vita dentro un cassonetto per i rifiuti, è stato ospitato in una struttura per il recupero di tossicodipendenti a soli 14 chilometri dalla casa dell’ex-moglie per aver accusato disturbi mentali: una situazione così pesante che la donna ha scritto al ministro Mastella, invocandone il trasferimento.
I crimini maturati all’interno di una coppia lasciano una scia: un prima e un dopo. A Parma Aldo Cagna uccide la ragazza che l’ha lasciato, Silvia, dopo anni di persecuzioni, minacce, molestie, stalking sistematico inutilmente denunciati da Silvia, dai suoi amici e familiari alle forze dell’ordine. Il prima - ci dice questo delitto - è il tempo durante il quale certi episodi di stalking, se segnalati, devono prontamente mettere in allarme chi ha il compito di garantire la nostra sicurezza di cittadine. Il dopo è un futuro al quale dovrebbe guardare il giudice che emette la sentenza. Purtroppo sono proprio il «prima» e il «dopo» che, nel nostro sistema giudiziario, costituiscono un buco nero: in Italia è scarsa la prevenzione, così come è scarsa la certezza della pena.
È dalla Spagna che arriva l’esempio della legge contro la violenza di genere in vigore dal 2005: è nata sull’onda dell’emergenza quando nel paese il numero delle donne uccise in un anno ha toccato i settanta, cioè nemmeno i due terzi di quelle uccise in Italia. La normativa spagnola guarda all’intero contesto in cui la violenza matura, così come alle cause che inducono le donne a non denunciarla. Tra gli strumenti più innovativi, i tribunali di genere e i 430 nuovi procuratori specializzati. Le prime risultanze danno un forte aumento delle denunce: s’è rotto il muro del silenzio.
Per pensare in grande, però, ciò che avviene bisogna prima vederlo. È questo lo scopo che, anzitutto, ci proponiamo con questo libro: ecco la mattanza sistematica che si svolge sottotraccia, ecco la pagina oscura della storia dei rapporti tra uomini e donne che, in Italia, corre in questi anni.

l’Unità 16.6.08
Immigrazione, morti sul lavoro
Chi paga sono sempre i deboli
di Luigi Cancrini


Mio figlio lavorava da tre anni in nero. Quando è caduto da una impalcatura e si è rotto tutte e due le gambe, la macchina di qualcuno che passava di là l’ha portato in Ospedale. È stato allora che hanno cominciato a venire. Offrendo soldi e minacciando davanti a tutti: medici ed infermieri che non avevano il coraggio di dire nulla. Qualsiasi cosa perché mio figlio non dicesse quello che era accaduto. Abbiamo paura. La denuncia non l’abbiamo fatta. Se la legge di cui si parla in questi giorni sarà approvata davvero, il criminale sarà lui, mio figlio. Il paese da cui veniamo è molto povero. Le leggi, da noi, non proteggono tutti. Pensavamo che in Italia ed in Europa le cose andassero in modo diverso. Ci siamo sbagliati ma non è facile ora tornare indietro.
Lettera firmata

Ho tentato di riassumere la sua lettera ed il suo lungo sfogo con tutta l’attenzione possibile. Dall’interno di un sentimento, acuto, di vergogna e di impotenza. Di vergogna perché sono italiano e mi dispiace che il mio paese si presenti così agli occhi di chi ci viene per lavorare. Di impotenza perché la mia mente ha cercato inutilmente, mentre leggevo, di immaginare qualcuno a cui rivolgermi, qualcuno a cui dirle di rivolgersi. Malinconicamente concludendo che ha ragione lei, che è meglio che suo figlio non faccia nulla dopo che un sussulto di orgoglio e di paura vi ha impedito di accettare la mancia che vi veniva offerta da gente con cui è meglio non aver niente a che fare: oggi, in alcune zone di questo paese ed in quella in particolare in cui questi fatti sono accaduti non c’è rappresentante dello Stato, infatti, in grado di tutelare quello che, in linea di principio, sarebbe un vostro diritto.
Di incidenti del lavoro nelle zone di Gomorra parla del resto esplicitamente Roberto Saviano in un capitolo significativamente intitolato "Cemento armato". Di edilizia "si muore, scrive a pag. 237, in continuazione. La velocità delle costruzioni, la necessità di risparmiare su ogni tipo di sicurezza e su ogni rispetto d’orario. Turni disumani nove-dieci ore al giorno compreso sabato e domenica. Cento euro a settimana la paga con lo straordinario notturno e domenicale di cinquanta euro ogni dieci ore. I più giovani se ne fanno anche quindici. Magari tirando coca. Quando si muore nei cantieri si avvia un meccanismo collaudato. Il corpo senza vita viene portato via e viene simulato un incidente stradale. Lo mettono in un’auto che poi fanno cadere in scarpate o dirupi, non dimenticando di incendiarla prima. La somma che l’assicurazione pagherà verrà girata alla famiglia come liquidazione. ..Quando il mastro è presente il meccanismo funziona bene. Quando è assente spesso il panico attanaglia gli operai. E allora si prende il ferito grave, il quasi cadavere e lo si lascia quasi sempre vicino a una strada che porta all’ospedale. Si passa con la macchina si adagia il corpo e si fugge. Quando proprio lo scrupolo è all’eccesso si avverte un’autoambulanza. Chiunque prende parte alla scomparsa o all’abbandono del corpo quasi cadavere sa che lo stesso faranno i colleghi qualora dovesse accadere al suo corpo di sfracellarsi o infilzarsi. E così si ha una specie di diffidenza nei cantieri. Chi ti è a fianco potrebbe essere il tuo boia, o tu il suo. Non ti farà soffrire, ma sarà lui che ti lascerà crepare da solo su un marciapiede o ti darà fuoco in un’auto. Tutti i costruttori sanno che funziona in questo modo. E le ditte del sud danno garanzie migliori. Lavorano e scompaiono e ogni guaio se lo risolvono senza clamore. Io so e ho le prove. E le prove hanno un nome."
È in uno stato di questo tipo, mi dico, che caleranno i provvedimenti (di cui oggi il Governo parla con tanta fierezza e lei parla con tanta tristezza e timore) sull’immigrazione clandestina. Ho risposto due settimane fa in questa stessa rubrica dedicata ai diritti negati alla lettera di Antonella Ciurlia che mi segnalava, in nome dei 70.000 pediatri di base, il modo in cui (minacciare di) fare della clandestinità un reato significha tenere lontani dalle risposte sanitarie e assistenziali centinaia di migliaia di clandestini e, con loro, tutti i bambini che hanno la sfortuna di avere per genitori dei clandestini. Quello che mi sembra doveroso segnalare oggi, di fronte ad una lettera come la sua, è il modo in cui il crimine di chi lucra sulla salute e sulla vita dei lavoratori utilizzandoli in nero e senza preoccuparsi delle misure di sicurezza inutilmente richieste dalle nostre leggi verrà ulteriormente facilitato dalla paura di dover pagare con la prigione certa di chi ha commesso il reato di clandestinità il tentativo di denunciare chi ti ha sfruttato mettendo a rischio la tua salute e la tua vita.
C’è qualcosa di bieco e di sporco nel modo in cui gran parte della stampa e della televisione italiana (quelle che per giorni e giorni sputarono fango sui rumeni dopo l’omicidio commesso da un romeno balordo a Roma) hanno sottovalutato o messo sotto silenzio la notizia dei due piccoli imprenditori italiani che hanno ucciso un giovane rumeno dopo avergli fatto stipulare una assicurazione sulla vita. Il premio dell’assicurazione, lo avevano costretto a indicare sul contratto, doveva andare a loro per cui uccidere un rumeno era evidentemente normale. Quello che sta accadendo in questo paese ora che la destra governa con la benedizione di un papa (pronto a dimenticarsi dello sfruttamento dei lavoratori di ogni persecuzione degli emigranti di fronte ad un premier che gli promette di finanziare le scuole private cattoliche) è un qualche cosa di veramente orribile anche per merito (colpa) di questi media orrendi nella loro fatua amoralità.
Quello cui stiamo arrivando, mi dico a volte, è un clima, un livello di inciviltà cui la peggior Democrazia cristiana non ci avrebbe portato. Anche perché, forse, quello che c’era una volta era il PCI a darti costantemente l’idea di un luogo, morale e fisico, in cui avresti potuto condividere e incardinare la protesta nei confronti delle cose che fanno male alla coscienza di un essere umano normale. In cui avresti potuto portare suscitando una solidarietà attiva un dramma come quello che lei mi segnala. Collegandolo al lavoro quotidiano ed organico di una opposizione capace di farsi sentire con chiarezza e con determinazione. Capace di porre dei limiti alla deriva populista e vigliacca del potere: quella cui stiamo purtroppo andando incontro oggi nel paese in cui quelli che contano sembrano soprattutto gli interessi convergenti di un Presidente del Consiglio, dell’imprenditoria legale di Confindustria e di quella illegale della camorra. Con la benedizione di un Papa che sembra aver dimenticato (perfino lui!) la capacità di distinguere il bene dal male.

Repubblica 16.6.08
I nostri indiani si chiamano zingari
di Adriano Prosperi


E se domani, in Italia, avvenisse qualcosa di simile a quello che si è visto l´11 giugno scorso a Ottawa? Qui da noi non se ne è parlato, ma è stata una scena emozionante a giudicare dalle fotografie comparse sulle prime pagine dei giornali canadesi. Si vedeva in piedi a sinistra il primo ministro Stephen Harper e davanti a lui seduto, il delegato dell´assemblea delle "First Nations" – quelli che noi, per l´errore di Cristoforo Colombo, continuiamo a chiamare Indiani d´America: si chiama Phil Fontaine, nel suo nome anglo-francese è iscritta la storia dei successivi padroni europei del Canada, ma il caratteristico copricapo di piume che sembra uscito da un film di John Ford rivela la sua identità di "Grande Capo" indiano.
In una cerimonia solenne il primo ministro ha presentato le scuse del governo ai nativi per la politica di assimilazione seguita dal Canada nei loro confronti: nel corso di molti anni, dall´800 fino al 1970, più di 150.000 bambini indiani furono strappati alle loro famiglie in tenera infanzia e obbligati a frequentare le scuole cristiane di stato. Qui, diventati ostaggi di un potere incontrollato mascherato di buone intenzioni, subirono ogni genere di violenza, inclusi naturalmente gli abusi sessuali. Tremende testimonianze di quel che subirono sono state proposte pubblicamente in quella cerimonia dell´11 giugno, davanti alla folla di membri delle "First Nations" che si stipava nelle tribune del Parlamento o seguiva la ripresa televisiva dell´evento in tutto il Canada. Il primo ministro ha detto fra l´altro: "E´ stato un errore separare i bambini da culture e tradizioni ricche e vibranti; questo ha creato un vuoto in molte vite e in tante comunità. Di questo chiediamo perdono". Lo ascoltava tra gli altri la più vecchia dei circa 80.000 studenti delle scuole cristiane oggi viventi, Marguerite Wabano, che ha 104 anni.
Nella sua replica Phil Fontaine ha accolto la domanda di perdono. E´ finito così un incubo del moderno razzismo che ha devastato molte vite, finite poi nell´alcoolismo e nella droga. Restano incancellabili le esperienze e i dolori di tante persone: ma il risarcimento morale ha la sua importanza, assai più di quello in danaro che le vittime avranno il diritto di chiedere.
Una storia lontana da noi? non tanto. ll riconoscimento di colpa canadese colpisce al cuore la cultura europea di quei missionari e di quei coloni che così gran posto hanno ancora nell´orgoglioso senso di sé degli europei. Ne esce sconfitta la convinzione di superiorità culturale che continua assurdamente a dominare nelle scuole di ogni ordine e grado e nel modo di percepire il proprio passato. Si continua a scrivere e a parlare della scoperta dell´America e della "civilizzazione" operata dai portatori della civiltà cristiana occidentale. Eppure basterebbe la testimonianza di Aléxis de Tocqueville che nell´800 descrisse il degrado fisico e mentale di popoli un tempo fieri e vigorosi (Bartolomé de las Casas li aveva paragonati agli eroi dell´antichità pagana) trasformati dall´alcool e dall´asservimento coloniale in relitti umani. Oggi i blandi tentativi di rilettura critica della storia sono frenati dall´urgenza di un clima di guerra che si è aperto sotto la sciagurata parola d´ordine dello "scontro di civiltà".
Ma non affrettiamoci troppo a sfumare le responsabilità europee ed italiane nella lontananza di colpe secolari e di eventi di un altro continente. Anche nella casa Europa è accaduto qualcosa di simile alla vicenda canadese. I nostri Indiani si chiamano zingari. Ci oppone la stessa barriera culturale tra stanziali e nomadi che oppose in America il popolo delle praterie ai costruttori di città. Quella barriera non ha operato solo nel portare al genocidio degli zingari nei Lager nazisti, di cui comunque non si parla abbastanza. Ci vorrebbe troppo spazio per tentare un elenco anche sommario degli orrori dell´eugenetica europea e dello stillicidio quotidiano di volgari pregiudizi. Un romanzo di Mario Cavatore, "Il seminatore", e un articolo di "Le Monde diplomatique" ripreso dal "Manifesto" hanno ricordato di recente in Italia quello che nella civile Svizzera del ‘900 è stato fatto dall´Opera di soccorso "Enfants de la grande-route", creata nel 1926 sotto l´egida della istituzione svizzera Pro-Juventute. Con una vera caccia al nomade centinaia di bambini furono strappati ai genitori e messi in orfanotrofi o affidati a famiglie svizzere per finire per lo più in ospedali psichiatrici e in prigioni. Si voleva "sradicare il male del nomadismo" e invece si realizzò quello che l´allora consigliere federale Ruth Dreyfuss bollò nel 1998 come "un tragico esempio di discriminazione e persecuzione di una minoranza che non condivide il modello di vita di una maggioranza".
In Italia la forza del pregiudizio alimenta oggi una violenza quotidiana che ha nei bambini rom e sinti le vittime predestinate. Le radici storiche di questa violenza sono remote. Profondamente radicato e sordo a ogni evidenza è il pregiudizio che accusa gli zingari di rubare i bambini "nostri". Intanto ogni giorno si hanno nuovi esempi di come noi rubiamo agli zingari i bambini "loro" per trasferirli in istituti e di come la nostra società impedisca a quei bambini la possibilità di una vita normale. Le prigioni italiane ospitano - per così dire - un numero molto alto di zingari e chi le volesse visitare vedrebbe scene di giovanissime madri che allattano i loro piccoli o li tengono con sé. Bambini che nascono prigionieri. Altri preferiscono soluzioni più spicce. E´ difficile dimenticare l´episodio di cui fu protagonista quel nostro concittadino che anni fa regalò una bambola esplosiva a una bambina che chiedeva l´elemosina. La bambina non morì. Ma il suo corpo restò segnato per sempre da quella versione italiana dello "scontro di civiltà": perse un occhio e parte della mano destra. Il delinquente era l´esecutore armato dai sentimenti di una collettività concorde e omertosa. Ciò gli permise di restare anonimo e di non pagare per l´infamia senza nome che aveva commesso. Oggi l´opinione dominante degli italiani chiede che tutti gli zingari siano messi in galera o vengano espulsi dall´Italia. Sono in prima fila tra i clandestini. E tra loro c´è anche quel bambino nato pochi giorni fa in un ospedale fiorentino da una madre zingara: clandestina la madre, clandestino fin dalla nascita il figlio. La prigione dove forse finiranno è la risposta di un paese che non si cela dietro l´eugenetica e che non ha né i mezzi né l´ipocrisia della beneficenza svizzera. Il governo in carica ha raccolto una investitura popolare anche su questo punto e ha dato segno di volerla tradurre in misure concrete: parole che vogliono suonare rassicuranti - carcere, tolleranza zero, condanne esemplari - alimentano ogni giorno la crescente sindrome di paura e di odio di un paese spaventato.
E se domani... - se domani, in Italia, il primo ministro canadese trovasse qualcuno disposto a imitarlo, se qualcuno dicesse alto e forte che la differenza culturale è un valore?

Repubblica 16.6.08
Alexandre Kojève un ateo alla corte di dio
A quarant'anni dalla morte escono una biografia e un suo libro
di Antonio Gnoli


Morì nel giugno del 1968 a Bruxelles. Aveva visto e vissuto la rivoluzione bolscevica, e la rivolta studentesca gli parve un gioco da ragazzi Decretò la fine della storia
"Il filosofo della domenica" e "L´ateismo" saranno presentati questa sera a Roma
È stato una delle grandi menti del ´900. Per Bataille e Queneau fu una guida spirituale

Durante una delle rare conferenze, che con piglio snobistico amava ancora tenere, malgrado gli impegni da alto funzionario dello Stato francese, Alexandre Kojève fu colto da una crisi cardiaca. Era il 1968. Morì nel pieno della contestazione studentesca, alla quale aveva guardato con somma ironia. Morì a Bruxelles, ai primi di giugno. Morì, come muore un enigma. Alcuni infatti si chiesero chi fosse stato veramente quell´uomo ricco di sottigliezze e di humour, refrattario alle luci della ribalta e da qualcuno rimpianto come una delle grandi teste filosofiche del Novecento. Pochi allora seppero fornire una risposta decente o semplicemente adeguata. In vita non aveva pubblicato quasi nulla e su quel leggendario seminario tenuto all´École pratique des Haute Études tra il 1933 e il 1939, da tempo era sceso il silenzio. Chi ricordava più quel russo dall´aria dolcemente tagliente mentre affilava il pensiero sul metallo della Fenomenologia di Hegel? Certo Georges Bataille e Raymond Queneau conservavano di lui l´idea che fosse la loro guida spirituale. Indiscutibilmente Aron lo considerava un genio della parola. Leo Strauss si divertiva a spedire i suoi allievi americani a far conoscenza a Parigi di questo strano intellettuale, che andando via da Mosca, dove era nato nel 1902, aveva scelto la Francia come patria di elezione. Ma per il resto, solo l´alta burocrazia francese, nella quale era entrato dal 1945, poteva delibare la versatilità e l´acribia spirituale di questo insolito dotto. Altrove, negli ambienti dell´esistenzialismo e dell´impegno, c´era stata la rimozione. Quasi che la statura del personaggio fosse troppo ingombrante e, in definitiva, provocatoria per essere assimilata a qualche docile parrocchia, magari dall´odore sartriano.
Da quei quarant´anni dalla sua scomparsa il fantasma Kojève ha preso forma e colore sorprendenti. Si pubblicano i suoi libri (molti dei quali postumi), l´ultimo in ordine di apparizione è dedicato all´ateismo e su di lui escono saggi, e ricostruzioni a metà strada tra il profilo intellettuale e biografico. Bella e documentatissima quella che Marco Filoni gli ha dedicato (Il filosofo della domenica, edito da Bollati Boringhieri, pagg. 259, euro 19). Sia de L´ateismo (curato da Elettra Stimilli e Marco Filoni, tradotto dal russo da Claudia Zonghetti, edizioni Quodilibet, pagg 182, Euro 22) che de Il filosofo della domenica, ne parleranno stasera alle 18 nella libreria romana di Bibli Roberto Esposito, Giacomo Marramao, insieme ai curatori.
Per tutta la vita quest´uomo raffinato e oziosamente determinato a convincere i suoi uditori che davanti avevano semplicemente la reincarnazione dell´ultimo grande hegeliano, cercò nella paradossalità la forma più efficace del suo pensiero. Qualunque gesto, ipotesi, scelta, ossessione, risultato marciava sotto le insegne del paradosso. Paradossale, infatti, che si paragonasse a Dio, che considerava, come ci ricorda Filoni, un collega. Paradossale che da quel grande incantatore filosofico di serpenti che si era dimostrato, avesse chiuso con le Università, le Écoles, i Collèges, le Accademie e si fosse dato alla grigia arte del funzionariato statale. Paradossale che egli fosse uno stalinista al servizio della democrazia. Paradossale che avesse scritto di fisica quantistica per parlare di religione. Paradossale che avesse sentenziato che la storia (quell´impasto di violenza e politica, di nazione e impero) era finita. Paradossale che un uomo mondanamente raffinato - come poteva esserlo un russo della buona borghesia postzarista - avesse preferito vivere nel sobborgo di Vanves piuttosto che nella scintillante Parigi. Ma questo era Kojève: uno che se ne infischiava delle conclusioni comuni. Un sofista allenatissimo a smontare le ovvietà del pensiero.
C´è una foto che risale alla metà degli anni Venti e che lo ritrae come parte di un singolare e affascinante terzetto. Kojève è seduto a una tavola imbandita insieme all´amante, Cecile Leonidovda Soutak e allo zio, il pittore Vasilij Kandinskij. Sopra alla tovaglia bianca si vedono tra l´altro bicchieri, piatti, una bottiglia di Champagne. Cecile è protesa verso l´aristocratica figura di Kandinskij che sembra intenzionato ad accogliere le confidenze della donna, la quale trattiene un braccio sulle spalle di Kojève che, leggermente chino, sta bevendo, forse della birra. La mano che gli sfiora la nuca è in quel momento il solo serio legame tra il filosofo e gli altri due. Per il resto, concentrato com´è sulla coppa, appare estraneo alla conversazione e agli sguardi incrociati della donna e dello zio. Non è solo una scena colma di artificio cinematografico. Nella quale ci si poteva imbattere nella Berlino del 1925. Non è solo un perfetto fotogramma di un possibile Harold Lloyd mentre prepara la gag dello Champagne versandoselo sulla camicia. È che quella foto ci mostra esattamente il modo di Kojève di stare contemporaneamente dentro e fuori dalla piena vita. Ne è ai margini per meglio conoscerne i segreti del centro. E anche questo in fondo era uno dei tanti paradossi che amava interpretare: essere invisibile, come del resto era Dio.
Per questo russo cresciuto con il pane dell´apocalisse (assai efficace la ricostruzione che ne fa Filoni), Dio diventò un´ossessione talmente forte da rovesciarsi paradossalmente nel suo contrario, cioè in una forma di radicale ateismo. Al tema in questione Kojève dedicò un testo del 1931. La posizione del giovane filosofo, che da qualche anno si era trasferito a Parigi, è netta: «Per l´ateo non esiste nulla al di fuori del mondo». Per il teista, figura che si contrappone in un certo senso all´ateo, «Dio è solamente un qualcosa, ma è un qualcosa "d´altro" dall´"uomo nel mondo"». Il guaio, osserva Kojève, è che il teista non riesce a dimostrare che cosa sia questo "altro" senza in qualche modo riportarlo alla datità del nostro mondo. L´ateo, insomma, avrebbe la meglio se non fosse che anche nel suo ragionamento si nasconde il paradosso. Se non esiste nulla al di fuori del mondo è in quel "nulla" che si dovrebbe collocare Dio. «E il nulla non può essere dato, ma noi ne parliamo, foss´anche solo per dire che non se ne può parlare». Questo paradosso non è specifico del ragionamento dell´ateo. Tanto è vero, che in un testo del 1929 di Heidegger, Che cos´è la metafisica, che Kojève ha letto e apprezzato, viene posta la questione filosofica fondamentale (come rileva opportunamente Elettra Stimilli nella postfazione) del problema del negativo, ovvero della creazione del nulla.
Non è il caso qui di addentrarci in sottigliezze concettuali. Il testo sull´ateismo precede di due anni il corso sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, dove verrà riaffermata con forza l´idea che l´intero sistema filosofico messo in piedi da Hegel è ateo. Sono molti i punti di contatto fra lo scritto del 1931 e l´Introduction à la lecture de Hegel, che vedrà la luce grazie alla cura di Queneau nel 1947. Basti pensare alla ripresa dei temi dell´angoscia e della paura della morte per coglierne la continuità di pensiero. Ma è soprattutto nella declinazione del concetto di "desiderio" non già o non semplicemente come desiderio di qualcosa ma soprattutto come "desiderio del desiderio" che si individua lo stretto nesso tra il desiderio come assenza e il nulla da cui esso ha origine.
Kojève immaginò che l´ateismo non fosse la pura e semplice banalizzazione della questione divina, ma la sua più complessa realizzazione filosofica. Non parlava da laico, ma da teologo senza Dio. E tuttavia ossessionato dal suo fantasma. Ma se fosse stata solo l´ossessione a guidarne il pensiero ci troveremmo davanti a un caso di rilevanza psichiatrica. La verità è che nella testa di questo filosofo, che finì col preferire le geishe alle signore parigine, c´era l´ambizione di ricollocare l´uomo nel mondo senza più quelle scissioni, tragedie, lacerazioni che l´idea stessa di Dio provoca. Ambiva a una "vita piena", che oggi, con qualche azzardo, chiameremmo "post-umana", dove il dolore e la pesantezza sono soppiantati dall´ironia e dalla saggezza.

Repubblica 16.6.08
Correggio. Alla galleria borghese di Roma
Sessanta opere, tra dipinti e disegni, tra cui la celebre "Danae"
Fu attratto dalla mitologia e dal culto dell´"antico" evocato nel titolo della rassegna
di Cesare De Seta


La vita del Correggio, al secolo Antonio Allegri, trascorse tra il paese nativo da cui prese nome, Parma e Mantova: in questo piccolo spazio, ma pur denso di significato e ricco di una rimarchevole cultura figurativa - massime Mantegna ma anche Lorenzo Costa e Francesco Francia - maturò una delle personalità più eccentriche del Rinascimento italiano.
Di lui neppure la data di nascita del 1494, dedotta dalle Vite del Vasari, è del tutto sicura, mentre lo è quella della morte nel 1534. Tuttavia in pochi decenni il pittore emiliano offrì di sé prove che l´hanno reso celebre e la sua arte è tra quelle destinate a crescere nel tempo, non patendo le offese che a piene mani distribuisce la ruota della fortuna. Nulla comunque di paragonabile al destino eroico di Raffaello, Michelangelo e Tiziano.
Dalla scarna biografia vasariana (1550, cautamente aggiornata nel 1568) non molto sappiamo, né di Allegri c´è rimasta una sola lettera: ma da una lettera a Federico Gonzaga sappiamo che morì lasciando la famiglia in "buona facultà". E questo è di certo un segno che la sua fu una presenza ben riconosciuta già al suo tempo. Le commesse più lontane vennero da Bologna, Modena e Reggio Emilia e dunque fu pittore "provinciale" ma solo nel senso topografico della parola: raffaellesco per naturale vocazione la sua arte apre nuovi orizzonti all´arte del Cinquecento con gli spettacolosi affreschi della Camera di San Paolo e del duomo di Parma. Ma la sua fortuna non può paragonarsi con la fama universale che baciò i grandi contemporanei di stanza nei molti centri artistici d´Italia.
Ora la mostra "Correggio e l´antico", a cura di Anna Coliva, messa a punto da un programma di Claudio Strinati, alla Galleria Borghese (fino al 14 settembre), propone una monografica con sessanta tra dipinti e disegni, posti a diretto confronto con marmi celebri della statuaria antica.
Qui veniamo al dunque: fu l´Allegri a Roma nel 1518-19? Molti, a partire da David Ekserdjian, sostengono questo partito con buone ragioni, ma non retto da prove documentarie. Di esse possiamo farne a meno senza nulla perdere nell´ammirare il pittore. Certo che la mitologia l´attrasse e segnò molte sue tele, ma il culto dell´antico era sapere e lievito comune agli artisti del tempo, anche se mai misero piede a Roma: la Bella Italia era disseminata di tali reperti anche se non tutti avevano la rilevanza di Leda con il cigno e Eros, di Afrodite con Eros o della Ninfa che sono nella villa romana.
L´educazione di Cupido e Venere e Cupido addormentati spiati da un satiro risalgono entrambi a metà degli anni venti e sono prova evidente di come il talento del pittore volgesse verso un senso di tenerezza e di serenità che è altrove rispetto alle prime tele in cui grazia devozionale, affetti e sentimento religioso sono cifra dominante.
Un capolavoro della Borghese è la Danae, insuperata icona di ideale femminino che ci trascina, con un colpo d´ala, un secolo e più avanti. A nessun Tiziano o Raffaello può essere comparata, perché la dea del Correggio è una donna del nostro tempo, è una Julia Roberts dipinta intorno al 1531-2: ha gambe sottili, seno piccolo e sodo, braccia affusolate, un corpo che non patirà mai l´offesa della cellulite. È appoggiata a due guanciali gonfi, un braccio dolcemente abbandonato mentre l´altro solleva un lenzuolo, coadiuvata in questo gesto da un genio alato, perché la nuvola-Giove piova dentro di lei. Erotismo, certo, e nella foggia più sottile e impalpabile che si possa immaginare. Una sottile vena si percepisce ed è quella della pelle che respira su corpo che ricorda l´anatomia della statuaria antica.
La stessa vena erotica è nelle coeve Ratto di Ganimede ed in Giove ed Io che vengono dal Kunsthistorisches di Vienna; esse sono parte di quattro tele sugli amori di Giove tratte dalle Metamorfosi di Ovidio. Furono commissionate da Federico Gonzaga forse per donarle a Carlo V, incoronato imperatore a Bologna, con la Danae e la Leda di Berlino, malridotta e assente per ragioni ovvie. Il bellissimo fanciullo dal corpo prassitelico vola in cielo rapito dall´aquila-Giove, ma più che rapito sembra avvinghiarsi alle piume del rapace: nel suo volto non c´è paura, ma piuttosto sorpresa.
Straordinario il paesaggio che digrada su vari piani con tinte virate dal verde all´azzurro, con in evidenza una roccia leonardesca e un cane a muso alzato: una sequenza paesistica che ha un suo pendant nel fondo del Noli me tangere; ma qui, nella composizione del Prado, la presenza del Cristo e della Maddalena ha un forza preponderante che mette in secondo piano il fondo paesistico dai toni verde muschio e bruni. Nel ratto del pastorello invece il paesaggio non è sfondo, ma deuteragonista della composizione, come non frequentemente accade nell´opera del Correggio o, per meglio dire, con tanta programmatica intensità.
Indugio sempre sui paesaggi perché servono a capire qualcosa anche di un pittore che paesaggista in senso proprio non fu. Giove ed Io è il più misterioso e inafferrabile dipinto di Correggio: la bella Io è sorella germana di Danae-Julia Roberts, per quel corpo snodato a serpentina con la schiena tesa come corda di violino e la coscia che s´attacca felicemente all´incavo della natica affondata in un panno, da cui si intravede il monte di Venere e lieve peluria. Si può ben dire che l´iconografia femminile "fecit saltus", questo è il Correggio che più ci prende e persino seduce per la calibrata e sottesa misura delle sue forme che non a caso eccitarono Stendhal e D´Annunzio.
Di Francis Haskell in catalogo (Motta editore) ritroviamo un bel saggio sulla fortuna critica. In mostra si può godere anche il Correggio più devozionale, ma vien voglia di correre a Parma. Le gamme del suo repertorio sono davvero molte e molto diverse tra loro: ma il termine dell´antico evocato nel titolo della mostra conduce inevitabilmente a quanto fin qui sottolineato.
C´è una vena, infine, che direi proto espressionista che s´evince con evidenza nella tela del Louvre di Venere e Cupido spiati da un Satiro: la torsione del morbido corpo della dea ha un´intensità anch´essa erotica, di un erotismo non taciuto ma persino scandalosamente esibito. E si fa fatica a pensare che il pittore sia lo stesso della melensa Madonna Campori o della medesima incantata ad adorare il bambino agli Uffizi.

Repubblica 16.6.08
Leonard Cohen. Dopo 15 anni torna sul palco la magnifica ossessione
di Giuseppe Videtti


A 73 anni il cantautore canadese è di nuovo in scena a Dublino con tre concerti per 50 mila persone che lo hanno accolto con una interminabile standing ovation. E a luglio in Italia

La commozione inizia ancora prima della musica, quando Leonard Cohen arriva sul palco con i sei musicisti e le tre coriste. L´applauso del pubblico è reboante, interminabile, una standing ovation composta che suona come un grazie: per cinquant´anni di musica e poesia, e per essere tornato dopo 15 anni di assenza dalle scene a un´età, 73 anni, in cui da un artista ci si aspettano solo scampoli di revival. «Grazie, amici», riesce solo a dire. Poi si toglie il Borsalino, lo appoggia all´altezza del cuore e fa un inchino che dura minuti, finché la platea non si placa e lui, per non commuoversi, cambia discorso. «Guardate che cielo magnifico», dice, prima di dare il via alla band e sfoggiare una voce profonda, cavernosa, intatta, nel primo dei venticinque capolavori in programma, Dance me to the end of love. Una canzone d´amore e di morte eseguita con una sensualità struggente.
Il cantautore canadese ha aperto a Dublino con tre concerti per 50 mila persone (l´ultimo ieri sera) un tour europeo che lo vedrà impegnato fino a settembre, 42 spettacoli sold out in 14 paesi. Due date previste anche in Italia: il 27 luglio a Lucca e il 28 a Roma. «È tanto tempo che non ci si vede», dice agli uomini (anche ragazzi) che lo ammirano, alle donne (soprattutto ragazze) che lo divorano con gli occhi. «Non vorrei allarmarvi, ma probabilmente è anche l´ultima». E intanto si concede un´estate da rockstar, con esibizioni anche nei festival frequentati solo da giovanissimi, come Glastonbury (il 29 giugno per 150 mila spettatori) e Benicassim (il 20 luglio). Il 27 giugno esce The collection, un cofanetto con le ristampe di cinque cd irrinunciabili, dall´esordio discografico del 1968 (quello letterario era iniziato dieci anni prima) a Ten new songs, scritto nel 2001 con Sharon Robinson. Il 30 giugno il compositore Philip Glass presenterà a Villa Adriana, a Tivoli, The book of longing, un´opera di novanta minuti realizzata con ventidue poemi dell´amico Cohen (il doppio cd è stato pubblicato dalla Nonesuch) con repliche il 18 settembre a Torino e il 20 a Milano.
La commozione, sul prato del Royal Hospital Kilmainham, un ospedale militare del XVII secolo che ora ospita un museo d´arte moderna, inizia ancor prima che tutti abbiano preso posto, quando Damien Rice, cantautore cult di Dublino, regala fuori programma un set fulminante di venti minuti che se fosse stampato su disco andrebbe a ruba. Quattro canzoni disperate - voce e chitarra - l´antipasto perfetto per aprire le danze del grande incantatore. «Non sono mai stato fan di nessuno, l´unica mia ossessione musicale è Leonard Cohen», confessa Rice, che appena qualche mese fa ha interpretato una versione lancinante di Hallelujah nella serata in cui il maestro è stato introdotto nella Rock´n´Roll Hall of Fame. Rice ha centrato il punto. Cohen è una magnifica ossessione: quando si piega sul microfono e la voce si diffonde così persuasiva e potente, ci si rende immediatamente conto del vuoto che la sua assenza aveva lasciato. The future, Ain´t no cure for love, Democracy, sono canzoni che nessuno dei suoi discepoli, neanche il più devoto, potrebbe rendere con più autorevolezza. Né Bono né Nick Cave, né Michael Stipe né lo scomparso Jeff Buckley sarebbero in grado, con la sola voce, di scatenare le emozioni con cui il cantapoeta canadese investe gli ascoltatori solo sfiorando le prime note di Bird on the wire e Suzanne (delle sue composizioni sono state incise 1.330 cover).
Amore, sesso, religione, mitologia: il suo repertorio non è straripante come quello di Dylan, ma secondo a nessuno. A differenza di Dylan, Cohen non ha mai voluto fare il cantautore a tempo pieno. È nato scrittore e poeta, poi negli anni Sessanta ha fatto rock´n´roll - letteralmente - con Judy Collins sognando la California e con Janis Joplin sballando al Chelsea Hotel, ma poi ha scelto l´eremitaggio in un´isola greca, ha dosato le apparizioni e i dischi e, alla fine, per quasi un decennio, si è ritirato in un monastero buddista, dove c´incontrammo la prima volta, a prendersi cura di Roshi, il suo vecchio maestro. Disse: «L´ho fatto perché ho paura di me stesso, sono un bambino di sessant´anni con sogni folli». Da quella full immersion di umiltà riemerse nel 1996. Ci rivedemmo in città, lui era in doppiopetto e Borsalino, come stasera, e come stasera profumava di vétiver e fumava una sigaretta dietro l´altra. Disse: «Sono tornato a Los Angeles, perché, come mi ha insegnato Roshi, non c´è via d´uscita da Babilonia. Il paradiso non è su questa terra» (avrebbe presto scoperto che in sua assenza lo avevano frodato per cinque milioni di dollari).
Le sue canzoni, riproposte con questi magnifici musicisti, non profumano di fior di loto, ma di sangue, sudore e lacrime, gli umori di Babilonia. In my secret life e Who by fire lo vedono protagonista, con Sharon Robinson, di duetti affiatati che trasudano sensualità, se non di più. I due si tengono con gli occhi, mentre mettono in scena l´eterno tormento degli amanti. Anche quando recita e gli strumenti tacciono - Anthem e A thousand kisses deep - lo fa con una gravità e un potere che pretendono rispetto e attenzione. Gli applausi arrivano alla fine, quando l´artista gigioneggia a passo di valzer (Take this waltz), si abbandona a un languido swing (I´m your man, Gypsy wife, Boogie Street), diventa perentorio e incalzante nelle composizioni letterariamente più complesse (If it be your will, First we take Manhattan). È commovente vedere la platea che ondeggia sulle note di Hallelujah, l´inno pop che ha lo stesso potere magico, religioso, liberatorio di "Let it be" dei Beatles. Quando rientra in scena per il terzo bis, lascia quei fan - che per tutta la sera ha chiamato friends e mai ladies and gentlemen - con una canzone, I tried to leave you, che è più di un abbraccio, ma anche un improbabile, crudele arrivederci: «Non lo nego, ho cercato di lasciarvi / Ho chiuso il libro su di noi almeno cento volte / Buonanotte, miei cari, spero siate soddisfatti / Sono di nuovo al lavoro per farvi sorridere».

Corriere della Sera 16.6.08
Scontro in Provincia I laici: è anticostituzionale
Una legge di Bolzano: «Le scuole diffondano le radici cristiane»
di Marisa Fumagalli


Divisi il presidente e la vice, il testo passa
La legge si applica ad asili, elementari e medie inferiori. Gli oppositori: «È in atto un processo di evangelizzazione»

BOLZANO — L'Alto Adige, la scuola, il cristianesimo. E la rana di Kippenberger: cioè la «scandalosa» scultura (un anfibio verde inchiodato alla croce, con la lingua fuori e il boccale di birra nella mano destra), esposta al Museinon di Bolzano, che nelle scorse settimane ha suscitato clamore in città, facendo insorgere i cattolici più intransigenti, con il sostegno delle gerarchie ecclesiastiche e del presidente Luis Durnwaldner, impegnato a chiederne la rimozione. Sembra incredibile, eppure le polemiche attorno a questa opera dell'artista tedesco hanno creato il clima favorevole affinché il Consiglio provinciale approvasse una legge scolastica (asili, elementari e medie inferiori) che, nell'articolo 1 (comma C) introduce quel concetto rimasto fuori dalla Costituzione europea, nonostante le discussioni e le pressioni. Tra le politiche d'indirizzo educativo, la Provincia di Bolzano ha inserito «la diffusione e il rafforzamento del pensiero e della cultura europea, fondata su radici cristiane». «È vero, la rana di Kippenberger ci ha messo del suo — conferma Arnold Tribus, direttore del quotidiano, laico e corsaro, Tageszeitung
—. Poiché si stava varando la riforma dell'istruzione, ecco che si è avuto gioco facile ad influenzare il dibattito». «Ma vuole tutta la verità? — continua —. A ottobre si vota e questa, a mio parere, è una manovra preelettorale. La SVP di Durnwaldner sta perdendo qualche colpo. Si si cerca di recuperare a destra».
Anche se i supporter del codicillo contestato minimizzano e puntualizzano («è scritto cultura cristiana, che io intendo nel senso più ampio», fa notare la pasionaria sudtirolese Eva Kloz), i contrari parlano di obiettivi di «evangelizzazione ». «È una legge anticostituzionale », insiste Tribus. «Non mi pare che questo sia il momento. In Alto Adige e in Italia », ribatte Laura Gnecchi, neodeputata del Pd e vicepresidente della Giunta Provinciale di Bolzano. L'onorevole Gnecchi aveva tentato una mediazione, proponendo di emendare il comma C con un testo più articolato («conoscenza» invece di «diffusione e rafforzamento », «cultura classica, ebraismo e cristianesimo», invece di «cristianesimo»), senza tuttavia riuscire nell'intento. Il fronte trasversale ha fatto muro. Dalla sua, aveva 5 consiglieri su 35 tra i quali, il «dissidente» liberal/forzista Alberto Pasquali. Che si è preso una bacchettata dalla collega Michaela Biancofiore, onorevole di punta del Pdl. «Resto convinta che il mio emendamento sarebbe potuto passare se non fosse scoppiata la bufera attorno alla rana di Kippenberger. Determinante è stato l'intervento del vescovo, Wilhelm Egger. Sembrava che a Bolzano, la religione cattolica fosse minacciata». Durissimo il j'accuse all'articolo della discordia, da parte del presidente del Consiglio provinciale (leader dell'opposizione interetnica), Riccardo Dello Sbarba. «Questa legge toglie ogni cenno all'interculturalità e al plurilinguismo, l'essenza di questa terra», ha dichiarato al
Corriere dell'Alto Adige. E dire che la Klotz avrebbe voluto inserire nel testo anche il concetto di «patrimonio culturale tirolese ». «Sì, intendevo richiamarmi allo Statuto Catalano», conferma. Sul comma C, il suo pensiero è netto: «La cultura cristiana non c'entra con il fondamentalismo cattolico».

Corriere della Sera 16.6.08
Intercettazioni e dintorni
A sinistra. La dittatura come alibi per non guardarsi dentro
di Paolo Franchi


Fascismo, seppure inteso in senso lato. Regime, anche se debole. Vita pubblica che si militarizza. Come si può anche solo immaginare di aprire un dialogo, se si pensa che il governo batta simili strade?

Piero Sansonetti, convinto che Tremonti proponga sì terapie inaccettabili, ma nella diagnosi colga nel segno. Certo, in giro non si vede un Mussolini, non sono all'ordine del giorno fondazioni di imperi, nessuna ora suonata dal destino minaccia di battere nuovamente sui colli fatali di Roma. Ma, se per fascismo intendiamo una svolta illiberale e autoritaria, secondo Sansonetti ci siamo: è esattamente quello che sta capitando. Davanti agli occhi di tutti. Sull'onda di un consenso (non solo dei ceti medi impoveriti) che non accenna a scemare, anzi. Senza incontrare troppe resistenze.
Tremonti ovviamente intendeva dire un'altra cosa. Ma non c'è dubbio che, tirando in ballo il fascismo, abbia toccato un nervo tradizionalmente scoperto della sinistra italiana (non solo quella propriamente detta che, a dire il vero, su questo terreno si muove con più cautela), e ne abbia evocato qualche tic. Ragionando per la prima volta in pubblico sulle ragioni della sconfitta, Fausto Bertinotti ha parlato di una Repubblica ormai non più antifascista, ma solo «a-fascista »: in Italia, ha sostenuto, sta prendendo forma un «regime leggero». E se Bertinotti ha optato per un ossimoro almeno nelle intenzioni prudente, altri preferiscono giudizi più severi e definitivi, prendendo spunto soprattutto dalle misure (discutibili) del governo sulle intercettazioni e da quelle (discutibilissime, e anche peggio) sull'utilizzo dei soldati in strada per dare man forte alle forze di polizia. Su Repubblica,
Giuseppe D'Avanzo parla di un Berlusconi intento a dimostrare che «per governare la crisi italiana è costretto a separare lo Stato dal diritto », con il soldato chiamato a farsi questurino, il giudice chierico, il giornalista laudatore: per questa via, sostiene, la vita pubblica italiana si militarizza. Eugenio Scalfari gli dà ragione. «Non sarà fascismo», scrive, «ma certamente è un allarmante incipit verso una dittatura che si fa strada in tutti i settori sensibili della vita democratica, complici la debolezza dei contropoteri, la passività dell'opinione pubblica e la sonnolenta fragilità delle opposizioni ». Si potrebbe continuare a lungo, ma possiamo già ricapitolare. Fascismo, seppure inteso in senso assai lato. Regime, anche se debole. Stato che si separa dal diritto. Vita pubblica che si militarizza. Incipit di una dittatura. Se è così, altro che clima nuovo, altro che democrazia dell'alternanza. Basterebbe meno, molto meno, per chiamare alla più drastica e radicale delle opposizioni. Come si può anche solo immaginare di aprire un dialogo ravvicinato, e oltre tutto sul tema dei temi, la riforma delle istituzioni, con un governo e una maggioranza che battono simili strade? Come si può tener viva, in un simile contesto, anche solo l'idea di una reciproca legittimazione tra le forze in campo, se una, quella che governa, ha scelto di incamminarsi su una via che porta dritto al regime, anzi, alla dittatura, e forse a un fascismo più o meno soft, e l'altra, quella che si oppone, è tenuta, o dovrebbe esserlo, a difendere la democrazia? Nessun dubbio. Non si può. Basta sonnecchiare.
Si svegli, se ne è capace, il Partito democratico. Si svegli, se ne è capace, Walter Veltroni. Si svegli, se ancora c'è, la sinistra. Prima che sia troppo tardi.
Svegliarsi. Benissimo, ce n'è bisogno. Ma per fare esattamente che cosa, oltre che per indignarsi, nessuno lo spiega: gli appelli al risveglio delle opposizioni suonano così drammatici e magari solenni, ma anche poco convincenti. Forse perché sono poco convincenti le analisi che li sorreggono, e ancor meno i mostri (il regime, il fascismo alle porte) evocati alla bisogna. Oltretutto sono, a grandi linee, sempre gli stessi, dalla prima vittoria di Berlusconi nell'ormai lontano 1994 in poi, nonostante in tutti questi anni regimi non ne siano stati instaurati e anzi il centrosinistra abbia avuto modo di governare per quasi una legislatura e mezza. Denunciare con parole di fuoco il rischio che quello che non è capitato sinora stia per succedere adesso è sicuramente più facile, ma altrettanto sicuramente meno produttivo, che guardare impietosamente dentro questo quindicennio e dentro se stessi per provare a essere oggi sul serio opposizione, domani o dopodomani governo. Era davvero inevitabile che la transizione italiana avesse un esito di destra? E adesso, non c'è nulla di più utile da fare che denunciare la svolta autoritaria?
«Non c'è Annibale alle porte, non ci sarà un passaggio di regime. C'è una nuova destra di governo e di amministrazione da sottoporre ad analisi e da contrastare nella decisione, con uno scatto di pensiero e di azione». Recita così la prima delle undici tesi messe a punto dal Centro per la riforma dello Stato, un pensatoio classico, e certo non sospettabile di moderatismo, della sinistra italiana presieduto da Mario Tronti, per avviare la riflessione sulla stagione politica che si è aperta lo scorso aprile, con la doppia sconfitta del grande partito di centrosinistra e della piccola e malcerta aggregazione di sinistra. Sottoporre (di più e meglio) ad analisi per contrastare (di più e meglio) nella decisione. Può darsi che queste siano espressioni dal sapore antico. Ma si fatica a immaginarne di più moderne, e soprattutto di più efficaci, per delle opposizioni sconfitte che intendano risalire la china.

domenica 15 giugno 2008

l’Unità 15.6.08
Nelle Marche. A Matelica «Potere e splendore» restituisce un volto a una civiltà cancellata dai romani
Da un picchio a un popolo: storia e ricchezze dei Piceni
di Marco Innocente Furina


Finora erano solo un’ombra. Un nome o poco più. Narra la leggenda che raggiunsero le loro sedi storiche durante una Ver sacrum (primavera sacra), una migrazione rituale in cui i giovani della tribù andavano alla ricerca di nuove terre. Li condusse là, sull’Appennino che guarda l’Adriatico il loro animale totem, il picchio. Picus, in latino da cui Piceni, Picenti, Picentini. Ovvero i giovani del Picchio. Lo stesso uccellino che ora appare sulla stemma della regione Marche. Forse là, sul medio Adriatico, c’era già qualcuno ad attenderli, un’ancora più misteriosa civilizzazione orientale. I Pelasgi sono quasi un fantasma, ma nel nome di Ascoli i linguisti ritrovano echi dell’antica Anatolia. Chissà.
Occuparono le terre che vanno dall’attuale provincia di Pesaro sino a quella di Teramo in Abruzzo, poi, dopo la conquista romana, se ne persero le tracce, ma ora questa bella esposizione organizzata nelle Marche nell’entroterra maceratese - Potere e splendore. Gli antichi Piceni a Matelica - restituisce loro un volto. Ne emerge una civiltà originale, ricca, a tratti fastosa, pienamente inserita nella vita e nei traffici mediterranei di quei tempi lontani. Bronzi di tutti i tipi, monili, armature, scudi, elmi, lance, carri di battaglia, scettri finemente intarsiati raccontano di una popolo guerriero che ambiva a imitare il lusso e gli stili di vita dell’aristocrazie etrusche e greche della Penisola con cui erano da poco entrati in contatto. Ecco allora, da una sepoltura femminile provenire un’olla gigante, vasi, raffinati attrezzi bronzei per la cucina, un’onoichoe, una sorta di brocca decorata. Il tumulo di un principe-guerriero ci restituisce le immancabili armi, coltelli impreziositi da manici d’avorio lavorati, che ci parlano di scambi con paesi lontani, un carro da battaglia, due levrieri che riposano accanto al giovane principe sacrificati nella speranza di chissà quali cacce ultraterrene. Lo stile dei reperti è quello internazionale del tempo, detto orientalizzante: quando quel popolo aprì gli occhi sulla storia, fu abbagliato dalle grandi civiltà del vicino oriente e ne mutuò le espressioni formali. Come gli etruschi loro vicini o i greci che solcavano il mare fino ad Ancona e Numana.
Reperti sono affiorati in grande quantità un po’ dappertutto in questa vallata appenninica ricca di acque e di miele, coltivata a vigna, frutteti e grano. I più solerti negli scavi furono al solito i tombaroli. Si raccontano in paese strane storie, di ritrovamenti casuali: una trentina d’anni fa giocando a «ruzzola», la ruota si perse dietro un cespuglio. Dalle fratta riemerse pure una statuetta di bronzo, poi venduta per tre pezzi di stoccafisso… Ma per fortuna qui si è saputa e voluta scrivere un’altra storia. Il sindaco-archeologo di Matelica, Patrizio Gagliardi è riuscito a far passare nei regolamenti comunali una norma che prevede la presenza obbligatoria dei funzionari della Soprintendenza per ogni nuovo lavoro di scavo. E così man mano che la città s’espandeva e i sepolcri circolari degli antichi Piceni venivano alla luce a centinaia, gli archeologi hanno potuto salvare e catalogare i reperti. Così è nato il museo archeologico della cittadina quattro anni fa. «Archeologia preventiva», l’hanno chiamata. Solo buon senso verrebbe da dire, se l’amore per la storia non fosse merce rara nel nostro paese. E anche grazie a questa sensibilità che gli antichi Piceni non sono più solo un nome sui libri di storia o una mera indicazione geografica. La ricchezza delle scoperte in questa valle angusta, stretta tra due fila di monti, aggiunge un nuovo tassello alla nostra conoscenza della protostoria italica e fa di questa cittadina una tappa obbligata per la comunità scientifica. E infatti la mostra è già stata richiesta da alcuni dei più importanti musei archeologici d’Europa, un bel biglietto da visita per la regione. Anche perché in un vaso sono stati trovati semi di vite, che dimostrano l’antichità della vocazione vitivinicola delle colline marchigiane. E qui sono già tutti sicuri: non può trattarsi che del nostro verdicchio.

Potere e splendore Gli antichi Piceni a Matelica
Matelica Palazzo Ottoni Fino al 31 ottobre

l’Unità 15.6.08
La lezione di Vanna Marchi
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Possiamo permetterci un po' di revisionismo storico? Di quello buono, s'intende: di quello che "la storia è continua, costante e indefessa revisione del sapere acquisito"… Quella roba lì, insomma. E possiamo applicarlo a Vanna Marchi e Stefania Nobile? Mica per urtare la sensibilità di una gran massa di povera gente truffata, ci mancherebbe. Solo perché, dal momento che ce le hanno arrestate di nuovo, qualcuno dovrà pur dire quello che molti non dicono. Ripercorrere le gesta e rendere chiaro, una volta per sempre, il ruolo storico di mammà - in primis - e della figlia nelle vicende del costume nazionale; e il significato profondo di una figura come quella di Mario Pacheco Do Nascimento, quel Maestro di Vita che da quando non c'è più ha gioco facile Baumann ad arricchirsi scrivendo che la vita contemporanea è incasinata.
Diciamolo subito: la Marchi ha sbagliato un solo colpo, in vita sua. Un bel giorno scelse di passare dalle alghe dimagranti a un prodotto più esclusivo. Lanciò un profumo, la sua essenza: Flag. Che noi, che ne comprammo in quantità per fidanzate e amiche, possiamo dire che era veramente fetente. Certo: ebbe, per prima, l'idea di associare direttamente carisma e fascino di una personalità assoluta (la sua) agli olezzi di un liquido giallognolo in packaging ultra kitsch. Fatto sta che l'operazione andò malissimo. Troppo avanti, come canta Er Piotta, per l'Italia di allora. Dunque problemi finanziari mica da ridere; di lì l'idea di cominciare a vendere il sale a prezzi salatissimi (che, pure qui, se in questo paese ci fosse vera libertà di concorrenza nessuno mai l'avrebbe incriminata per alcunché).
Ma il punto non è questo: il punto è che noi ricordiamo - sì, noi ricordiamo - quel garage di Ozzano nell'Emilia da cui la Nostra cominciò a trasmettere le sue prime televendite. Aveva un negozio, la Vanna: e capì, prima di ogni altro, che con una telecamera sgangherata si poteva trasmettere su qualche tivvù locale e attirare clienti nella bottega. Di lì al successo la strada fu breve e il percorso travolgente. "Le trasmissioni che hanno fatto storia - stando ad Aldo Grasso - sono il "Vanna Marchi Show" su Rete A (dalle 23 all'1 di notte) e "Accendi un'amica", condotta da Guido Angeli e trasmessa la domenica mattina su Antenna Sicilia e TeleElefante". Di lei un giovane Vittorio Sgarbi scrisse, nel 1985, sull'Europeo: "Il fenomeno che mi è sembrato così insolito si chiama Vanna Marchi. Questo nome non è legato a una serie di film o a commedie brillanti o a inchieste di attualità, bensì alla vendita di diete e cosmetici. Il suo spazio dunque è quello pubblicitario, anche se i tempi lunghi, circa due ore, sono quelli di una trasmissione. Ciò che colpisce in questo spettacolo di recitazione pura, per così dire selvaggia, è che non avviene niente; noi siamo chiamati ad assistere a un monologo come quelli di Dario Fo o Carmelo Bene...".
Vanna Marchi è stata la prima a richiamare la donna italiana a un orgoglio estetico viscerale: le sue crociate contro l'adipe avevano il sapore di una guerra santa contro la grottesca opulenza della modernità, combattuta con il piglio e il fervore emiliano di chi, per accento, consuetudine con le tagliatelle e frequentazioni con una qualche "Cesira", ha dalla sua tutta la genuinità del mondo. Non solo ha creato un modello televisivo unico e ammaliante: è stata anche mattatrice della tivvù quella buona quella che si vuole di serie A. Tanto da frequentare i divani del Maurizio Costanzo Show; tanto da stabilire un record di vendite di biglietti della Lotteria Italia nell'edizione di Fantastico '88-'89; tanto da meritarsi un ruolo nei Promessi sposi del trio Marchesini-Solenghi-Lopez. E ci ha regalato un'autobiografia scritta con Adriana Treves; e un rap (non poteva che intitolarsi "D'accordo?!") divenuto per qualche tempo un tormentone da Blob. Infine, ha mostrato all'Italia tutta, attraverso la shockante mutazione di sua figlia, i mali che possono venire dalle lampade abbronzanti; e di lì ci ha condotti per mano in una dimensione più spirituale, venata di misticismo di matrice brasileira. Senza mai disdegnare l'eventuale botta di culo di una vincita al lotto; senza mancare di sacrificarsi alla coscienza di questo Paese, che crede alle inchieste di Striscia la notizia come gli americani credettero a Bob Woodward e Carl Bernstein, consacrando definitivamente il potere inquisitorio delle Veline.
Ora la Vanna e la Stefania finiscono nuovamente dietro le sbarre. Lei, che era tornata a dirigere un centro estetico a Carpi, e la figlia, che lavorava in un bar milanese, sono state arrestate perché si teme che possano fuggire all'estero o reiterare i loro reati. A dirla tutta, pare che il divieto di espatrio fosse scaduto due anni e otto mesi fa: come dire, tempo per fuggire ce n'è stato a iosa. Quanto alla reiterazione del reato: beh, manca il Maestro di Vita e senza lui difficile imbroccare i numeri al Lotto e preparare i talismani e gli amuleti contro le influenze maligne. Al più si può tornare a vendere qualche alga, che non ha mai fatto male a nessuno. Ma quale televisione trasmetterebbe mai una televendita della Marchi? Non basterebbe interdirla da quella attività? E anche fosse: chi acquisterebbe mai i suoi prodotti? O forse non c'è più, in Italia, la sacrosanta libertà di lasciarsi truffare un po'? D'accordo, le gesta della "ditta Marchi" si sono dimostrate, nel tempo, odiose assai. E hanno nuociuto a tanti poveri sprovveduti. Non sappiamo se la loro abiezione cancellerà definitivamente altrettanti, e altrettanto spaventevoli, meriti storici. Sappiamo, tuttavia, che questo arresto, solo una virgola in una vicenda penale annosa e tortuosa, ripropone un uso dello strumento penale e della detenzione come sanzione quali vie esclusive per controllare una questione che, piuttosto, ha a che fare col costume e col consumo. Insomma, davvero il carcere è l'unico modo per far star buona una 66enne (oops, l'abbiamo detto) troppo energica e la sua figliola devastata dal troppo collagene?
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it

Corriere della Sera 15.6.08
L'osservatorio Gli elettori e il comportamento dell'opposizione
Il Pd delude il 40% dei suoi: troppo remissivo
di Renato Mannheimer


Il governo continua di settimana in settimana a vedere incrementati la popolarità e il consenso di cui gode presso l'elettorato. Anche se, negli ultimi giorni, una quota crescente (benché sempre minoritaria) di coloro che inizialmente avevano sospeso la propria opinione sull'esecutivo in attesa di verificare il suo operato, inizia ad esprimere qualche scetticismo. Ma la valutazione definitiva sul governo è, per quasi tutti, di fatto rinviata alla fine del periodo della cosiddetta «luna di miele» (grossomodo alla fine dell'estate), quando i cittadini trarranno i primi bilanci sui risultati dell'azione della compagine guidata da Berlusconi.
Intanto, però, si diffonde in misura sempre maggiore nel Paese la percezione di una forte inadeguatezza dell'iniziativa dell'opposizione, a fronte della capacità propositiva del governo. In realtà, nelle inchieste di opinione condotte più di recente, il giudizio sull'opposizione risulta dividere il Paese in parti pressoché eguali tra loro: metà dei cittadini ne approva l'operato, in misura più o meno convinta, e metà, viceversa, esprime una valutazione di segno opposto. L'atteggiamento critico è più frequente tra i giovanissimi e, ciò che riveste un significato politico ancora maggiore, tra gli operai e i lavoratori subordinati in genere, ove l'opinione negativa sull'azione dei partiti di opposizione supera il 51%.
In linea di principio, l'atteggiamento critico verso l'opposizione è più presente (53%) tra quanti, alle ultime elezioni, hanno votato per le forze di centrodestra. Ma è interessante rilevare come il giudizio di insufficienza per il Pd e gli altri partiti di opposizione, sia diffusissimo anche tra chi in aprile aveva scelto il centrosinistra: tra costoro, addirittura il 42% esprime oggi una valutazione negativa sull'operato dell'opposizione nei primi mesi di vita del governo. Specialmente il Pd viene accusato di avere scarsa capacità propositiva, di possedere poca iniziativa e, secondo alcuni, di essere talvolta troppo «subordinato» verso ciò che viene proposto dall'esecutivo in carica. Per la verità, di fronte alla richiesta diretta di formulare un giudizio esplicito sul comportamento dell'opposizione nell'ultimo periodo, poco più di metà dell'elettorato nel suo complesso lo definisce «equilibrato». Ma questa opinione positiva (o, se si vuole, «assolutoria») proviene paradossalmente in misura maggiore dalle fila dei votanti per le forze di governo (ove è espressa dal 53%) che da quelle degli elettori dell'opposizione stessa (50%). Tra questi ultimi, infatti, più del 40% giudica Veltroni e alleati «troppo remissivi ».
In definitiva, l'opinione pubblica sembra, in questo primo periodo di esistenza dell'esecutivo, punire assai più l'opposizione del governo. Concordando col titolo del recente commento sull'Italia dell'Economist, secondo cui «Veltroni rischia di essere fin troppo gentile con Berlusconi».

Corriere della Sera 15.6.08
Bilanci Il 16 giugno 1958 l'esecuzione di Nagy. Lo storico Federigo Argentieri rievoca la sua battaglia per far cambiare posizione al Pci sull'Ungheria
Budapest '56, ferita aperta a sinistra
Le complicità di Togliatti, il continuismo di Reichlin, gli errori di Craxi, le rimozioni di Veltroni
di Antonio Carioti


«Tutto cominciò nel 1979, quando venni inviato a Budapest da Massimo D'Alema per rappresentare i giovani comunisti ai vertici della Fmjd, un'organizzazione internazionale di osservanza sovietica». Nel Pci lo storico Federigo Argentieri ha combattuto a lungo perché il partito cambiasse posizione sulla rivoluzione ungherese del 1956, sconfessando Palmiro Togliatti e la sua scelta di approvare non solo l'intervento dell'Urss, ma anche la condanna a morte del comunista riformatore Imre Nagy, capo del governo magiaro durante la rivolta, impiccato mezzo secolo fa, il 16 giugno 1958. Fu una battaglia difficile, che Argentieri considera vinta solo in parte: «Non condivido il modo in cui Walter Veltroni rimuove il passato e finge di non essere mai stato comunista. La storia non si può ignorare: bisogna rivisitarla criticamente».
A tal proposito Argentieri ritiene che Enrico Berlinguer fosse sulla buona strada già nel 1968: «Fu il comunista più deciso nel condannare il soffocamento della Primavera di Praga, come dimostrano anche i documenti sovietici che Victor Zaslavsky sta per pubblicare sulla rivista Ventunesimo Secolo. Berlinguer conosceva bene l'Urss ed era convinto della necessità di staccarsene. Mosca lo considerava un nemico e sono certo che il suo strano incidente stradale in Bulgaria, nel 1973, fu un tentativo del Kgb per assassinarlo, come del resto pensava anche lui». Però Berlinguer rifiutò l'ipotesi di un approdo socialdemocratico. «Finita la solidarietà nazionale, il suo radicalismo in politica interna fu disastroso. Ma credo che fosse dovuto anche all'esigenza di coprirsi le spalle a sinistra, per bloccare i tentativi dei sovietici di creargli problemi nel partito in seguito alla sua dura condanna del colpo di Stato in Polonia, nel dicembre 1981».
Anche Argentieri passò i suoi guai: «A Budapest, circondato da un'ostilità glaciale, sostenni la linea del Pci contro la messa al bando di Solidarnosc. E presi a interrogarmi sul 1956: se si condannava un'azione di forza limitata come quella del generale Jaruzelski, che in fondo aveva il vantaggio di evitare un'invasione sovietica, come si poteva mantenere una valutazione positiva sul bagno di sangue avvenuto a Budapest 25 anni prima?».
Il ritorno in Italia, nel 1982, segna l'inizio di una fase di studi: «Andai a lavorare all'Istituto Gramsci: qui, con l'appoggio di Adriano Guerra, approfondii le mie ricerche fino a preparare una tesi di laurea sulla rivoluzione ungherese che smentiva pienamente l'interpretazione ufficiale del Pci. Ma capivo che, pubblicandola da solo, avrei fatto la figura della mosca cocchiera, senza ottenere effetti politici. Accolsi così il suggerimento di Giancarlo Pajetta, che mi disse di contattare un senatore comunista di Torino, Lorenzo Gianotti, il quale stava lavorando a sua volta sull'insurrezione di Budapest».
Ne nacque il libro a quattro mani L'ottobre ungherese,
uscito nel 1986, che divenne un caso politico. «Fu un macigno nello stagno, perché Gianotti lo segnalò al suo amico Giuliano Ferrara, il quale consigliò a Bettino Craxi di uscire allo scoperto. Così il leader socialista chiese al Pci di riabilitare Nagy, suscitando un vespaio. D'Alema subì rimbrotti per avermi appoggiato, ma mi difese. Luciano Lama e Paolo Spriano si schierarono a favore di Nagy. Ma gran parte del partito cercò di salvare capra e cavoli, attraverso contorsioni che si sforzavano di giustificare la fedeltà alla lezione di Togliatti. Penso a Giuseppe Boffa e soprattutto ad Alfredo Reichlin, che all'epoca dell'esecuzione di Nagy era direttore dell'Unità e non ha mai detto una parola di autocritica: padronissimo, ma mi lascia assai perplesso che proprio a lui sia stato affidato il compito di scrivere il programma del Partito democratico. Ho più rispetto per Armando Cossutta, che è sempre stato un filosovietico coerente. Quello che non accetto è il tentativo di tenere insieme posizioni incompatibili in una logica di continuismo esasperato, tipicamente togliattiana, che alla fine si rivela soltanto opportunistica ».
Così il 1986 fu un'occasione mancata: «Purtroppo Berlinguer era morto e il successore Alessandro Natta mostrò limiti enormi: nell'anniversario della rivoluzione si recò in Ungheria a visitare Janos Kadar, l'uomo portato al potere dai sovietici, senza rendersi conto di come sarebbe stato interpretato il suo gesto. Ci vollero pressioni enormi per indurlo ad esprimere qualche parola di rispetto per Nagy. Anche per questo l'anno dopo fu sostituito, in modo un po' brusco, da Achille Occhetto, che però aveva ereditato l'anticraxismo berlingueriano e non aveva le idee molto chiare sul da farsi».
Intanto al Cremlino era arrivato l'innovatore Mikhail Gorbaciov: «Quando fu riabilitato Nikolaj Bukharin, vittima del grande terrore nel 1938, il Psi riprese l'offensiva. Io fui l'unico del Pci a partecipare a un polemico convegno socialista sullo stalinismo, nel marzo 1988. Tuttavia la nuova generazione comunista era più sensibile all'esigenza di rompere con il passato. Utilissimo a tal proposito fu il contributo di Miklos Vasarhelyi, un dissidente ungherese che era stato processato con Nagy. Realizzai con lui un libro intervista: buon conoscitore dell'Italia, toccò le corde giuste per indurre il Pci a una svolta netta».
L'occasione fu la cerimonia organizzata a Parigi in onore di Nagy, nel trentesimo anniversario dell'esecuzione, dal grande esule ungherese François Fejtö, recentemente scomparso: «La partecipazione di Piero Fassino, in rappresentanza del Pci, ebbe un forte significato politico. Claudio Martelli, anche lui presente, mi parve molto seccato. L'anno dopo era il 1989 e a Budapest, in un Paese ormai avviato verso la democrazia, ci furono i solenni funerali di Nagy e degli altri martiri della rivoluzione, sempre il 16 giugno: insieme a Fassino ci andò anche Occhetto. E di nuovo i socialisti non la presero bene: credo che il Psi abbia svolto un ruolo assai positivo nell'incalzare il Pci, ma abbia poi sbagliato nel volerlo azzerare. Craxi pensava di occupare l'intero spazio della sinistra, togliendo di mezzo i comunisti, mentre stava al governo con la Dc: un progetto palesemente irrealistico. E poi anche il Psi era stato stalinista e non poteva limitarsi a rimuovere quel suo passato senza rifletterci sopra».
È il settarismo, secondo Argentieri, che ha affossato la sinistra: «La svolta della Bolognina sfociò nel nulla, perché Occhetto era disposto a tutto fuorché a proclamarsi socialdemocratico. Ma anche il Psi si accanì inutilmente contro il Pds. E così certe incrostazioni sopravvivono ancora oggi, nonostante l'apertura degli archivi sovietici voluta da Boris Eltsin, una figura che andrebbe rivalutata. Nel 1996 pubblicai in allegato all'Unità un libro, La rivoluzione calunniata
(poi ripubblicato da Marsilio), nel quale dimostravo che Togliatti aveva non solo approvato, ma sollecitato l'intervento sovietico. E in precedenza avevo trovato documenti da cui risultava che il leader del Pci aveva preventivamente avallato l'esecuzione di Nagy, pur chiedendo a Kadar di rimandarla a dopo le elezioni italiane del 1958 (come in effetti avvenne). Ma molti fanno finta di niente: all'Istituto Gramsci, nonostante gli sforzi positivi del direttore Silvio Pons, è cresciuta una generazione che, patrocinata dal presidente Giuseppe Vacca, ancora difende il continuismo togliattiano. Se gli eredi del Pci non fanno davvero i conti con la loro storia, la sinistra non uscirà dal vicolo cieco in cui si trova».

Corriere della Sera Salute 15.6.08
Violenza sulle donne. Le cifre della vergogna in Europa e negli Usa
«Femicidio»: le italiane sono meno a rischio
Troppe però subiscono soprusi fisici e psicologici
di Angelo de'Micheli


Soltanto il 18,2% delle donne giudica la violenza subita in famiglia un autentico reato

Su 20 Paesi, l'Italia è al 17˚ posto per numero di donne uccise, seguita solo da Svezia e Cipro. Ai primi posti Ungheria e Usa
L'amore è come la luna. Se ne vede una faccia. L'altra faccia dell'amore la cogliamo solo nei casi estremi quando approda alla cronaca nera che ci parla di violenze, stupri, maltrattamenti e omicidi. Ma nel 95% dei casi non se ne sa nulla: su 100 donne maltrattate solo cinque denunciano i loro persecutori. E non è un dato solo italiano: in tutta Europa questa è la percentuale del silenzio. «La realtà Italiana non è però la peggiore — sottolinea la professoressa Isabella Merzagora, titolare della cattedra di criminologia alla facoltà di Medicina di Milano, ospite di un convegno organizzato dalla Provincia che ha riunito esperti da tutta l'Europa. «I dati di Eures-Ansa si focalizzano sul rischio più grave: quello di omicidio. Su venti Paesi europei analizzati, l'Italia si colloca al 17% posto, seguita da Svezia e Cipro. Il Paese in cui si corrono i rischi maggiori di "femicidio" è l'Ungheria, gli Usa sono al secondo posto, seguiti da Romania, Slovacchia, Austria e Slovenia. Va a questo punto precisato che in tutti gli Stati — tranne i Paesi Bassi — la metà o più dei "femicidi" avviene a opera di partner passati o presenti. In Italia la percentuale è al 75%».
Ma quanto è elevata la probabilità, per un'italiana, di sperimentare la violenza nel senso più generale del termine? Secondo uno studio del 2006 dell' Istat, condotto su un gruppo rappresentativo di donne fra i 16 e i 70 anni, risulta che 6 milioni e 743 mila italiane sono state vittime di violenza fisica o sessuale (dallo stupro ai rapporti indesiderati) o psicologica (dalle intimidazioni al controllo della libertà personale) o di tentate violenze, nel corso della loro vita. Il che significa un italiana su tre, ma in Germania la percentuale è quasi del 40% considerando "solo" le violenze fisiche. In Italia, le violenze in generale sono opera del partner nel 93% dei casi; per quanto riguarda le violenze sessuali , colpevole è il compagno nel 69,7% ; nel 17,4% un conoscente e solo nel 6,2% uno sconosciuto. I casi più gravi di violenza, gli omicidi, sono più frequenti al Nord dove si registra con il 68% dei casi. Al Nord — hanno spiegato gli esperti del convegno milanese — le donne possono più facilmente sottrarsi ad una convivenza opprimente grazie alle maggiori opportunità di trovare indipendenza economica e questo scatena la violenza. Il momento più a rischio è proprio quello in cui la donna dichiara di volersene andare o comunica di avere un nuovo compagno. L'ultimo appuntamento, con il pretesto, o l'obiettivo, di "chiarire", è sovente l'occasione di nuove violenze: il rischio è altissimo, nel 75% dei casi la donna è vittima di aggressioni. Che fare? Mai presentarsi da sole all'incontro chiarificatore, suggeriscono assai pragmaticamente gli esperti.
«Non è però la vecchia gelosia a far degenerare la situazione, ma la fragilità dell'uomo nella gestione della separazione affettiva e coniugale — precisa la professoressa Merzagora —. È il fatto di dover accettare una decisione non voluta, di perdere una proprietà più che un affetto a scatenare la rabbia».
Ma la violenza si può prevedere, prevenire? «La violenza fisica e quella psicologica non sono l'effetto di una momentanea follia, — dice l'esperta — sono il risultato di un terreno preparato giorno dopo giorno in un clima di terrore in cui l'isolamento della donna, creato ad arte dal partner, le toglie ogni possibilità di sostegno, di confronto, di condivisione con altre donne. In sostanza viene meno una "rete sociale" cui far riferimento e dove trovare aiuto. Anche la gravidanza può diventare un problema: ci sono uomini che sono bambini cronici, sentono il figlio come un intruso, una minaccia per il loro narcisismo, e si sfogano come rabbia e con la violenza fisica».
«Chi abusa — prosegue Merzagora — spesso non si sente in colpa e trova facile far passare la compagna per visionaria, minando sempre di più una autostima che in queste donne è già fragile. Quanto alle violenze psicologiche, meno eclatanti ma altrettanto devastanti, quando si vive in coppia si conoscono bene le debolezze dell' altro e si ha buon gioco nel colpirlo facilmente, soprattutto umiliandolo».
«La soluzione a questi problemi — conclude Merzagora — passa attraverso campagne di sensibilizzazione, di informazione, centri di sostegno che aiutino le donne a non sentirsi isolate, colpevoli, diverse, e che forniscano aiuti concreti: dalle residenze protette ai pareri legali, sostegni tali da far superare la barriera del silenzio e impedire un'escalation di violenze. E i servizi socio- assistenziali dovrebbero servire per gli interi nuclei familiari in difficoltà».

Stalking. Un Persecuzione che spesso si trasforma in aggressione

È una parola che sta diventando familiare: stalking, in inglese: "fare la posta". E' uno dei reati per i quali, secondo la normativa in discussione, le intercettazioni telefoniche potrebbero essere consentite senza limitazioni. Chi opera lo stalking adotta comportamenti intrusivi, di sorveglianza, attua ripetuti tentativi di comunicare. I dati dell'Osservatorio nazionale per lo stalking, ci dicono che un italiano su 5 è stato oggetto di stalking e che nell'80% dei casi le vittime sono donne. Più del 55% degli autori di queste molestie è un ex partner. Gli psicologi spiegano che gli autori spesso sono soggetti fragili che non sopportano il rifiuto. Le ricerche dicono però che dalla fragilità nasce la violenza: il 50% dai casi di aggressione fisica e sessuale su donne è preceduto dallo stalking.

l Sole 24 Ore Domenica 15.6.08
Hannah e i suoi camerati
Secondo il concetto di totalitarismo della Arendt, il fascismo non fu tale fino al '38, mentre lo erano il nazismo e la Russia di Stalin. Ma la tesi non convince
di Emilio Gentile

Per la studiosa tedesca un regime non si poteva defìnire totalitario senza il terrore e un dittatore dalla mente criminale

Nel suo libro Le origini del totalitarismo, pubblicato nel 1951, Hannah Arendt dedicava al fascismo poche e sparpagliate osservazioni, che complessivamente superano appena la lunghezza di una pagina. Sui seicentotrenta titoli elencati nella bibliografia, le pubblicazioni che riguardano il fascismo, fra le migliaia di opere che pure erano disponibili in tedesco, inglese o francese, nel periodo in cui la studiosa tedesca compose il suo libro, non superano le dita di una mano, e nessuna è una storia del fascismo o uno studio del suo sistema politico. Nonostante ciò, poche interpretazioni del fascismo hanno avuto tanta ampia e durevole influenza su molti studiosi che, nell'ultimo mezzo secolo, si sono occupati del fascismo e del totalitarismo, quanto l'interpretazione proposta da Arendt nell'ambito del suo studio sul totalitarismo.
Un' analisi critica del giudizio della Arendt sul fascismo risulta importante se consideriamo che tale giudizio ha segnato una svolta decisiva nell'analisi e nell'interpretazione sia del fascismo sia del totalitarismo, rispetto a tutte le precedenti interpretazioni, che erano state elaborate nei decenni precedenti da studiosi come Luigi Sturzo, Hans Kohn, Michael Florinsky, Raymond Aron, Alfred Cobban, Carlton Hayes, Emil Lederer, Sigmund Neumann. Malgrado le loro differenti e opposte ideologie, tutti questi studiosi, nella loro analisi del totalitarismo, avevano considerato il fascismo un regime totalitario, non perché tale il fascismo si proclamava, ma perché essi riscontravano nel regime fascista le caratteristiche tipiche dei regimi a partito unico sorti in Europa dopo la Prima guerra mondiale. Poiché il problema del totalitarismo e il termine stesso hanno avuto origine dal fascismo, la negazione del carattere totalitario del fascismo, asserita dalla Arendt, investe l'intero problema del totalitarismo. Infatti, gran parte delle idee fondamentali che costituiscono l'interpretazione del totalitarismo elaborata dalla Arendt erano state già esposte dagli studiosi citati, nessuno dei quali escludeva il fascismo dal totalitarismo. L'unica novità, nell'interpretazione della Arendt, era la definizione del terrore come la «vera essenza» della forma totalitaria di governo. Il terrore non era ovviamente ignorato dai precedenti studiosi del totalitarismo, ma nessuno di essi lo aveva considerato l'essenza del totalitarismo.
La Arendt parla genericamente di movimenti totalitari e semitotalitari sparsi nell'Europa dopo la Grande guerra, ma alla fine dalla sua analisi emerge che il nazionalsocialismo era l'unico movimento totalitario, mentre, sostiene senza esitazione la Arendt, la dittatura bolscevica, fino al 1930, non fu la creatura di un movimento totalitario. Fu Stalin, sostiene la studiosa, che trasformò «la dittatura di partito unico in un regime totalitario», e soltanto a Stalin la Arendt attribuisce la colpa di aver predisposto le condizioni per instaurare il totalitarismo, pienamente sviluppato con il terrore di massa. Nel caso della Germania, la Arendt sostiene invece che il nazionalsocialismo fu un movimento totalitario fin dalle origini, ma divenne un regime totalitario soltanto dopo il 1938, anzi, precisa la studiosa, lo divenne soltanto durante la Seconda guerra mondiale, ma neppure allora fu un «totalitarismo pienamente sviluppato» perché, spiega la Arendt, soltanto «se la Germania avesse vinto la guerra avrebbe conosciuto una dittatura totalitaria pienamente sviluppata». Così, neppure il nazionalsocialismo, che secondo la Arendt fu l'unico movimento veramente totalitario prima della conquista del potere, divenne mai un totalitarismo pienamente sviluppato.
Il rapporto fra movimento totalitario e regime totalitario, nell'interpretazione della Arendt, rinlane oscurato da numerose contraddizioni, che vanno oltre il caso della Russia e della Germania. Infatti, occupandosi della Cina comunista la studiosa afferma che le caratteristiche totalitarie del partito comunista cinese erano presenti fin dall'inizio, e si inasprirono negli anni Sessanta durante il conflitto russo cinese, e aggiunge che nel periodo iniziale della dittatura comunista in Cina ci fu un terrore di massa che provocò circa quindici milioni di vittìme, ma, precisa la studiosa, «se questo fu terrore, e lo fu certamente, era un terrore diverso, e qualunque siano stati i suoi risultati, non decimò la popolazione». Quindi, conclude, non si poteva applicare al regime comunista cinese, nonostante quindici milioni di vittime, l'attributo di totalitarismo autentico perché, sostiene la Arendt, «il "pensiero" di Mao Tse-tung non seguiva nella scia lasciata da Stalin (e da Hitler, in questo campo), perché non era un assassino per istinto, e in lui il sentimento nazionalista, tipico in tutti i movimenti di rivolta anticoloniale, fu forte abbastanza da porre dei limiti al dominio totale».
In sostanza, nell'interpretazione della Arendt il totalitarismo appare come una sorta di fenomeno intermittente, che appare e scompare, oppure come una pianta che in un Paese, la Russia, nasce e cresce senza avere radici; in un altro, la Germania, ha radici ma tarda a nascere e a crescere; in un altro, l'Italia, non ha radici, non nasce e non cresce, ma poi la studiosa lascia intendere che comunque il totalitarismo sarebbe apparso anche in Italia dopo il 1938. In tal modo, però, l'intera questione della natura dei movimenti totalitari, dei regimi totalitari, delle loro somiglianze e differenze è avvolta in una nebbia teorica, mentre emergono evidenti, chiari, netti e perentori affermazioni e giudizi non preceduti, né accompagnati, né seguiti da argomentazioni coerenti, e spesso fondati su dati storici inattendibili o inesistenti.
Da queste considerazioni sorge un'ultima questione, forse la più importante, perché investe l'intera interpretazione del totalitarismo proposta dalla Arendt e il suo giudizio sul fascismo. Come abbiamo visto, la studiosa tedesca ripeteva continuamente che il fascismo non era totalitario. Tale giudizio è stato recepito da molti studiosi del fascismo e del totalitarismo, che tuttora lo ripetono come fosse un'interpretazione inconfutabile e definitiva, senza tener in nessun conto i risultati della ricerca storica che ne ha da tempo dimostrato la infondatezza. Ma tutti costoro trascurano di notare che la stessa Arendt aveva posto le premesse per rimettere in questione il suo giudizio, quando affermava che il fascismo non fu totalitario «fino al 1938». Forse la Arendt intendeva, con questa precisazione, dire che il fascismo dopo il 1938, adottando l'antisemitismo come ideologia di Stato, trasformò la dittatura di «partito al di sopra dei partiti» in un regime totalitario, come era accaduto in Russia dopo il 1930 e in Germania dopo il 1938? E inoltre: se il partito bolscevico non era un movimento totalitario, come poté diventare totalitario per l'iniziativa di un solo individuo, e poi cessare nuovamente di essere totalitario dopo la morte dello stesso individuo, come, secondo la Arendt, avvenne dopo la morte di Stalin? Può un solo individuo dalla mente criminaIe trasformare in un regime totalitario una dittatura di partito, nata da un movimento non totalitario, senza trovare gli strumenti per la trasformazione nella dittatura esistente, la quale, di conseguenza, non può essere esclusa dal totalitarismo? E se il fascismo divenne totalitario dopo il 1938, quali furono le radici e le cause di questa trasformazione: erano nel movimento e nel regime fascista prima del 1938 o dipesero soltanto, come in Russia, dalla volontà di un individuo?
Su tutte queste questioni, che sono decisive per comprendere la natura del totalitarismo e il suo significato nella storia del Novecento, il silenzio della Arendt è rimasto totale.

«La via italiana al totalitarismo», di Emilio Gentile, nella nuova edizione riveduta e ampliata (pagg. 414, € 26,50), uscirà da Carocci giovedì 19 giugno.

«L'eredità? Nei partiti»
di Emilio Gentile

Per molti antifascisti la peggiore eredità del fascismo non era la continuità delle istituzioni statali e pubbliche create dal regime e incorporate nello Stato repubblicano, quanto e soprattutto un certo modo di concepire e praticare la politica, che il partito fascista aveva coltivato per un ventennio, coinvolgendo per la prima volta nella storia degli italiani, milioni di uomini e donne nelle sue organizzazioni di massa... Il fascismo non aveva creata il conformismo, scriveva De Ruggiero nel 1946, ma l'aveva aggravato «rendendo obbligatoria e coattiva una tendenza che già spontaneamente si affermava vittoriosa. La democrazia, che oggi succede al fascismo, non porta un rimedio a quel male, ma ne racchiude in sé gli stessi germi... La fine del fascismo ha lasciato una società modellata sul conformismo e avvezzata a esso, ma senza più una norma unica e comune cui conformarsi. [...] In sede politica, noi avvertiamo questo fenomeno nei partiti, ciascuno dei quali conserva in sé tracce indelebili del "Partito", nelle sue gerarchie, nelle sue omertà, nelle sue intolleranze».
Per eredità del totalitarismo fascista, la cultura liberale intendeva inoltre «lo spirito e lo stile politico del fascismo», cioè, come precisava «Risorgimento liberale» nel maggio 1945. «la intolleranza, la sopraffazione, l'accettazione supina della mistica di partito con il relativo corollario del fine che giustifica i mezzi, la tendenza di certi movimenti a costituirsi come stati nello Stato e ad agire come gli eserciti in territorio occupato, che hanno come sola legge la propria necessità»... Insieme al misticismo politico, dall'eredità che il totalitarismo fascista lasciava alla neonata democrazia scaturiva la «mistica del Partito», come la definiva il repubblicano Mario Ferrara nel 1949, cioè l'esaltazione del primato del partito come organizzazione alla quale l'individuo deve aderire con disciplina e dedizione integràli: «Anche per coloro che si dicono democratici e liberali il Partito è diventato un mondo chiuso e tirannico del quale non si può fare a meno e in nome del quale si abdica a ogni dignità morale e, talora, alla dignità umana pura e semplice».
Se il conformismo e il misticismo politico erano mali del fascismo trasmessi alla democrazia, altrettanto grave era un'altra tendenza del totalitarismo fascista che pareva avesse contagiato i partiti della democrazia, cioè la tendenza a organizzare le masse con appelli al settarismo fanatico, e la loro propensione a prevaricare lo Stato per i loro interessi, producendo così, dopo l'esperienza del dominio del partito unico, una nuova forma di dominio partitico, che fu definito, fin dai primi anni dell'Italia repubblicana, con il termine "partitocrazia "... L'eredità del fascismo non consiste soltanto nella continuità degli apparati statali e del personale dirigente, che passò senza patire epurazione dallo Stato fascista allo Stato repubblicano.
L'eredità dell'esperienza fascista è stata rintracciata anche nella perpetuazione di un modo di concepire e praticare la politica di massa, nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari, nella propensione a coltivare una prassi di "partitizzazione" delle istituzioni pubbliche.

Il Sole 24 Ore Domenica 15.6.08
Il Bene in balìa della fortuna
Perché l'idea di separare la giustizia dagli accidenti della sorte si è rivelata illusoria. Non basta liberarsi dagli dèi
di Remo Bodei

«Vergogna e necessità» di Bernard Williarns è una penetrante analisi della moralità dei Greci. Conoscevano già colpe e responsabilità. Oggi sono di nuovo attuali per il loro senso della tragicità dell' esistenza, trascurato dai moderni
di Remo Bodei

A introdurre la distinzione tra «civiltà della vergogna» e «civiltà della colpa» è stata l'antropologa americana Ruth Benedict nel preparare uno studio per le forze armate degli Stati Uniti in vista di una possibile invasione del Giappone (resa poi inutile dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki). Il rapporto, pubblicato in forma di libro nel 1946 e intitolato Il crisantemo e la spada, contribuì a fissare questa divisione, ripresa e amplificata da due eminenti studiosi dell'antichità: Eric Dodds, in I greci e l'irrazionale, del 1951, e Arthur W. H. Adkins, in La morale dei Greci da Omero ad Aristotele, del 1960.
Con diverse sfumature, le loro tesi coincidono nell'affermare che, nelle società con forte impronta militare e aristocratica, la vergogna non ha valore morale, in quanto dipende dal giudizio altrui. Gli eroi omerici, nella fattispecie, agirebbero solo in funzione delle aspettative dei loro pari nell'ambito dell'onore e del coraggio. Solo a partire dal V secolo a.c., contando sull'allentamento dei vincoli etici della famiglia e della tribù, la democrazia ateniese avrebbe messo gli individui di fronte alla personale responsabilità delle loro azioni. Con la sua dottrina del peccato originale e con il sacramento della confessione, sarebbe stato, tuttavia, il cristianesimo ad istillare nelle persone e nelle istituzioni la civiltà della colpa, assurta a una superiore dignità nel rendere la colpa stessa il frutto marcio della libertà.
Il passaggio dalla civiltà della vergogna alla civiltà della colpa costituirebbe dunque un netto e definitivo progresso morale, il cui culmine viene raggiunto, sul piano filosofico, dal soggetto kantiano - che, assolutamente libero da qualsiasi condizionamento esterno, agisce sulla base di «imperativi categorici» -, e, sul terreno politico, dal liberalismo, che presuppone scelte coscienti da parte degli individui.
Bernard Williams sfida queste concezioni attraverso il suo caratteristico metodo della «descrizione filosofica di una realtà storica», che si serve di concetti thick, densi di concretezza, e non thin, sottili ed esangui come spesso accade nelle generalizzazioni di certi filosofi. Mostra così quanto falsa sia l'immagine convenzionale degli eroi omerici come amorali, poiché privi, nell'agire, di intima motivazione e di autonoma volontà e, pertanto, di sensi di colpa: «A me sembra che, nel mondo omerico, ci sia quanto basta delle concezioni essenziali dell'azione per la vita umana: la capacità di deliberare, di decidere, di agire, di fare degli sforzi, di sopportare». Questo non significa negare che vi siano stati progressi nella morale e proporre un anacronistico ritorno all'etica greca. Al contrario, lo sguardo di Williams è volto all'attualità: l'indagare i poemi omerici, la tragedia classica o il ruolo delle teorie di Platone e Aristotele, ci aiuta a comprendere meglio noi stessi e a sottoporre a esame critico la nostra presunzione di essere liberi decisori, dotati di un'identità tanto granitica da prescindere dalla necessità e dalla casualità delle situazioni. Tale confronto con gli albori della nostra cultura è oggi tanto più indispensabile, in quanto vacillano quelle certezze che avevano a lungo sorretto l'etica dell'Occidente.
Sul piano storico-filologico Williams constata che la nozione di vergogna, nel mondo greco, non dipende esclusivamente dalla paura di essere scoperti dalle persone sbagliate nel momento sbagliato. Essa ha, inoltre, un'estensione più ampia, inglobando aspetti di ciò che noi chiamiamo "colpa". Il fatto che questo termine non abbia equivalenti nella lingua greca, non esclude l'esperienza della colpa (sarebbe illuminante leggere il testo di Williams in parallelo con il volume di Douglas Cairns, Aidos. The Psychology and Ethics oJ Honour and Shame in Ancient Greek Literature, Oxford, Clarendon Press, 1993).
Diversamente da Nietzsche, un pensatore ammirato da Williams, in Vergogna e necessità le obbligazioni morali non affondano le loro radici - al pari della Genealogia della morale - in punizioni corporali ormai dimenticate e interiorizzate, per cui sarebbe stato il ripetuto, ma rimosso, taglio della mano ai ladri a trasformarsi in angoscia della coscienza morale dinanzi alla possibile violazione del comandamento «non rubare». Se è vero, per Williams, che «le esperienze più primitive della vergogna hanno a che fare con la vista e l'essere visto», mentre la colpa affonda «le sue
radici nell'ascolto», nel «risuonare In se stessi della voce del giudizio», bisognerebbe però riconoscere che la voce della coscienza (almeno nella forma del dissenso di Antigone o del demone di Socrate) risulta più potente e cogente nella tragedia e nella filosofia del V secolo rispetto al periodo arcaico.
Ciò che più sta a cuore a Williams è far vedere come il concetto moderno di individuo agente in sintonia con le proprie libere scelte omette un dato di cui i greci erano ben consapevoli: che ciascuno di noi è esposto al caso e alla necessità, ai rovesci di fortuna e alla coercizione della natura o della volontà altrui, come il nascere uomo o donna o l'essere ridotto in schiavitù. Ne consegue che la nostra identità è fragile e non separabile dalle circostanze esterne, dai condizionamenti naturali e storici (un tema che Williams ha acutamente affrontato in Sorte morale).
Le filosofie di stampo kantiano e il liberalismo esigono che fortuna e necessità «non prendano il posto di considerazioni di giustizia».
Credono in tal modo di arginare tali elementi di disturbo o di cacciarli fuori della cornice delle istituzioni, affidandosi alla speranza di mitigare il potere del caso e della necessità sugli individui o di «mostrare che ciò che non può essere mitigato non è ingiusto». La modernità è però in grado di offrire solo una «libertà metafisica», l'astratta convinzione che le nostre decisioni non dipendono da imposizioni esterne. Essa spinge così in secondo piano quanto non solo Marx, ma anche Stuart Mill, aveva osservato: che «gli ostacoli reali alla nostra libertà non sono metafisici, ma psicologici, sociali e politici». Rimuoverli non è facile; anche dopo esserci liberati dal timore che esistano poteri e necessità sovrannaturali - come gli dèi o il destino - che c'impongono determinati corsi d'azione.
I poemi omerici e le tragedie greche ci ricordano quel che spesso dimentichiamo: il nostro essere in gran parte ancora in balia dei capricci del caso e sotto il giogo della nècessità.

Bernard WiUiarns, «Vergogna e necessità», il Mulino, Bologna, pagg. 234, € 25,00.

Il Sole 24 Ore Domenica 15.6.08
Addio mia concubina
Negli anni ruggenti della Contriforma, quando la battaglia contro le eresie fu vinta, gli amori proibiti, fino a quel momento leciti, entrarono nel mirino della Chiesa
di Massimo Firpo

È sotto gli occhi di tutti il fatto che il matrimonio, inteso come vincolo giuridico (e sacramentale per i cattolici) di una coppia eterosessuale non può esaurire il magmatico e mutevole universo dei rapporti affettivi, delle pratiche sessuali, delle forme di convivenza di adulti consenzienti, e che pertanto lo stesso concetto tradizionale di famiglia sta conoscendo mutamenti profondi. Le iniziative di legge sulla regolamentazione delle coppie di fatto hanno occupato in tempi recenti le prime pagine dei giornali, e in merito la Chiesa di Roma non ha mancato di far sentire la sua prevedibile voce per contrastare il riconoscimento di pur minimi diritti ai protagonisti di forme alternative di convivenza che, evidentemente, non sono soltanto il deplorevole esito dei processi di secolarizzazione, del relativismo culturale, del dilagante edonismo che il magistero papale non si stanca di denunciare, ma riflettono mutamenti sociali profondi e inarrestabili, che riguardano la condizione della donna, il lavoro, l'educazione dei figli eccetera. Il problema esiste, insomma, e deve (o dovrebbe) essere affrontato in termini di civile tolleranza, senza presunti monopoli ideologici.
Tanto più che esso è sempre esistito, per l'impossibilità di coartare entro rigidi scherni normativi l'irriducibile pulsione di sentimenti, affetti, passioni, desideri che si annida nel cuore di uomini e donne. Non è quindi sugli «amori proibiti» in quanto tali che il nuovo libro di Giovanni Romeo si sofferma, ma sul delinearsi e affermarsi della loro repressione da parte dell'istituzione ecclesiastica tra Cinque e Seicento, negli anni ruggenti della Controriforma, quando la battaglia contro il dilagare delle eresie anche al di qua delle Alpi era stata ormai vinta e la Chiesa poté dedicarsi a un sempre più capillare controllo dei pensieri, delle pratiche sociali, dei comportamenti deifedeli, utilizzando sia gli strumenti pastorali della pedagogia e della persuasione sia, e sempre più intensamente, quelli repressivi della punizione e della condanna. Solo nel 1514, del resto, il Concilio lateranense V aveva proibito il concubinato dei laici, e solo con molta fatica riuscirono infine a imporsi i canoni tridentini che vietavano la diffusissima prassi delle convivenze prematrimoniali tra fidanzati. Certo, si trattava di una questione delicata, non solo perché comportava di spiare nelle case e nei letti della gente, ma anche perché all'indomani della conclusione del Concilio di Trento concubinato e famiglie di fatto allignavano largamente anche nel clero, di cui occorreva salvaguardare il prestigio, mentre il rispetto del voto di castità via via impostosi non avrebbe fatto altro che alimentare nelle sue fila una ipersensibilità per le questioni sessuali (peraltro destinata a lunga e tenace fortuna), da cui sarebbero scaturiti nuovi e gravi problemi, quali - per esempio - la solicitatio ad turpis durante la confessione o forme di esasperato misticismo in cui la presunzione di impeccabilità avrebbe consentito e alimentato disordini gravissimi nei conventi femminili.
Il bel libro di Giovanni Romeo si focalizza su Napoli, allora la più grande città europea, brulicante di vita, di uomini, di miseria, di espedienti, di creatività popolare, e segue con grande [mezza, sulla base di una documentazione ricchissima e in molti casi di straordinaria suggestione, il progressivo imporsi della Chiesa su reati che in passato erano di esclusiva competenza dello Stato o di foro misto (non solo il concubinato, ma anche la bigamia, l'adulterio, la sodomia), usando se necessario il grimaldello inquisitoriale in virtù del sospetto che comportamenti ralmente eteronomi nascondessero idee logicamente eterodosse. Debolissime furono nella capitale del Regno le resistenze giurisdizionali dell'autorità politica, incapace di porre un freno all'affermarsi della Chiesa quale unica tutrice della morale pubblica. Di qui l'avvio di una nuova politica di occhiuta sorveglianza e severa repressione (scomuniche, multe, punizioni infamanti, carcere, sepoltura in terra sconsacrata) contro ogni forma di convivenza e relazione non sancita dal vincolo matrimoniale, che poté avvalersi di nuovi ed efficacissimi strumenti per il controllo delle coscienze quali la confessione frequente, propagandata soprattutto dai gesuiti, e la verifica della comunione pasquale.
Contro questa dirompente offensiva rigorista dell'autorità ecclesiastica, contro le sue pretese di «entrare con forza nella vita quotidiana» e di «combattere senza tregua tutte le idee e le pratiche ritenute lesive dell'ortodossia, anche quelle più insignificanti, da sempre trascurate o rimesse allo zelo pastorale di vescovi, curati e confessori» (p. VII): non mancarono tuttavia moltepli resistenze, variamente modulate nel popolo, nella borghesia, nel ceto aristocratico fatte di espedienti, artifici, ipocrisie, talora anche grazie alla saggezza pastorale di parroci pronti a chiudere un occhio, ma anche della scelta di "tenersi" la scomunica e talora addirittura di plateali proteste e rabbiose ribellioni, spesso all'origine di ulteriori più gravi guai per i malcapitati, quasi sempre donne, ferite nell'onorabilità, talora costrette a separarsi dai figli, spesso rimaste prive di ogni forma di sostentamento. Da questo tenace «impegno moralizzatore» (p. 165) di vescovi e vicari per imporre alla società un severo «governo della sessualità» (p. 73), certo responsabile di molte sofferenze e approdato infine a scarsi risultati emerge un quadro tutt'altro che edificante del cosiddetto «disciplinamento» tridentino. L'intransigenza con cui la Chiesa cercè di regolare la vita sessuale e familiare dei fedeli contrasta vistosamente, per esempio, con la sostanziale tolleranza nei confronti del flagello dell'usura, evidentemente ritenuto di rilevanza morale assai inferiore al concubinato. Nel suo riflettere una scala di priorità, anch'essa destinata a lunga durata, è questo un dato su cui riflettere, anche perché - come sempre - solo nelle sue radici storiche il presente può rivelarsi intelligibile.

Giovanni Romeo, «Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione», Laterza, Roma-Bari, pagg. 256, € 18,00.

Il Sole 24 Ore Domenica 15.6.08
Democrazia radicale
di Sebastiano Maffettone

Fabbrica di Porcellana di Antonio (Toni) Negri riunisce una serie di lezioni te-nute al Collège de France nel 2004-5. Presentato con il sottotitolo fin troppo ambizioso «per una nuova grammatica della politica», questo libro rappresenta tuttavia un tentativo serio e articolato di costruire una teoria politica radicale basata su presupposti complessi e tra loro differenti. Tali presupposti sono essenzialmente tre: una ricostruzione critica del post-moderno; una riproposizione generalizzante della biopolitica; e least but not last una riformulazione del neo-marxismo caratteristico dell' autore.
Il postmoderno è reso necessario dalla rottura radicale della nozione di potere. Rottura questa dovuta, a sua volta, agli esiti più evidenti della globalizzazione e alla crisi della sovranità. Anticipato da Nietzsche, il postmoderno ha vissuto a cavallo tra tre ipotesi diverse: quella debolista alla Rorty-Vattimo; quella che cerca di sfruttare i margini del sistema alla maniera di Derrida; quella più esplicitamente critica come in Deleuze e Foucault. Delle tre ipotesi sul postmoderno, solo la terza viene giudicata davvero significativa da Negri.
Per comprendere la sua scelta, però, bisogna prima capire come il sistema della biopolitica imponga una nuova forma di sussunzione reale della società sotto il capitale. Il che vuoI dire, in altre parole, passare attraverso gli altri due momenti centrali nel percorso del libro, sarebbe a dire la biopolitica e il marxismo. La biopolitica, secondo la fruttuosa invenzione di Foucault, rappresenta la trasformazione contemporanea della cura del potere dalla vita singola alla popolazione nel suo complesso. Il marxismo entra in gioco attraverso il mutamento delle forze di produzione dal vecchio fordismo in nuove forme di terziario rese evidenti dal lavoro intellettuale.
Proprio in questo modo, la forza produttiva finisce con l'identificarsi con la popolazione nel suo complesso, su cui insistono i "dispositivi" di controllo del sistema capitalistico. Tali dispositivi sono ubiquiti, per cui sorge il problema di come possa emergere dal loro interno una forza resistente. Una possibilità del genere è data innanzitutto dalla natura ambigua di ogni dispositivo, che genera automaticamente una sorta di antidoto a se stesso. La scoperta foucaultiana, attraverso il lavoro anticipatorio di Deleuze, di una produzione di soggettività in eccedenza genera così la questione della creatività e della differenza. Su queste ultime, la "moltitudine" costruisce una sua ontologia collettiva della resistenza. La quale - in nome del "comune" - sfocia, a sua volta, in una possibilità ulteriore di democrazia radicale.
Come sempre in Negri, la parte analitica supera in qualità quella normativa, e il destino della «libertà comune» appare in fin dei conti legato a un filo assai sottile. Inoltre, l'autore ripresenta nel volume per lo più materiale da lui già adoperato. Ma lo fa con un ordine e una sistematicità non sempre garantiti altrove. Cosa che rende la lettura complessivamente utile e piacevole.

Antonio Negri, «Fabbrica di Porcellana. Per una nuova grammatica politica» (traduzione dal francese di Marcello lari), Feltrinelli, Milano, pagg.156, €16,00.