martedì 17 giugno 2008

Psichiatri Oggi Bimestrale Giugno 2008 N.3
Periodico di attualità psichiatrica diretto da Pier Luigi Scapicchio
Novello nel segno di García Márquez: vivere per raccontarla
1968. Un’associazione, un ministro, una legge
Eliodoro Novello, Giovanni Del Missier, Claudia Dario
Padova, Roma

La storia di questi trent’anni della 180 è anche la storia delle sue celebrazioni. Cominciammo dopo due anni, al Congresso Nazionale SIP di Catania, organizzato in modo magnifico da Uccio Rapisarda e dal suo giovanissimo braccio destro Eugenio Aguglia. Nella splendida cornice del Teatro Bellini, duemila persone tra psichiatri ed accompagnatrici in abito da sera (perché dopo ci si trasferiva per la cena al Castello Ursino, illuminato da centinaia di fiaccole) ascoltarono per la prima volta un’apertura congressuale “non scientifica”. Niente clinica, si esaminavano i primi dati dell’applicazione della legge. Ed io, che avevo l’onere dell’apertura, mi lanciai in arditi riferimenti a Thomas Kuhn per sostenere che quella sera stavamo ugualmente facendo scienza, anche se non parlavamo di ricerca e di malattie. Immaginate la mia sorpresa nel leggere, vent’anni dopo, la stessa argomentazione nello scritto di Michele Schiavone riportato in queste pagine. La seconda celebrazione fu quella per il decennale. Tre grandi convegni per le tre fasce geografiche del Paese a Gardone, Trevi e Palermo. Entrarono nella SIP, quell’anno, moltissimi e prestigiosi colleghi collocati sulle posizioni di Psichiatria Democratica, ai quali non venne negata la doppia appartenenza. Fu un momento storico per noi: si riconosceva finalmente, aldilà degli schematismi ideologici, che tutta la psichiatria italiana stava con la 180 e non remava contro. I trent’anni, è storia di oggi, sono stati ricordati con una conferenza stampa in maggio a Milano. Il programma della celebrazione era stato pensato per rendere edotti i giornalisti partecipanti che la SIP ha smesso di guardare alla storia e guarda invece al futuro, alla psichiatria che sarà. Mi sembra, dopo trent’anni, un atto di intelligenza culturale, che personalmente mi sento di condividere. Psichiatri Oggi dedica questo terzo numero del 2008 alla 180, seguendo un percorso essenzialmente culturale. Ma c’è ancora un pezzo di storia che nessuno ha fino ad oggi raccontato in modo organico, e che vede la luce anche grazie alle nostre ripetute sollecitazioni: quello che riguarda l’azione dell’AMOPI (l’Associazione Medici Ospedali Psichiatrici Italiani) dalla metà degli anni sessanta fino al settantotto. L’AMOPI era un sindacato di categoria, indispensabile in quanto i medici manicomiali avevano uno status giuridico diversissimo dagli altri medici ospedalieri (nonché gli stipendi, inferiori del 50%!) e dipendevano, unici e soli, dalle Province. Ma in realtà essa si trasformò quasi subito in un formidabile propulsore culturale, che contribuì in modo determinante al raggiungimento della 180. Questo articolo riproduce, come anticipazione editoriale, un capitolo di un volume sulla stagione delle riforme psichiatriche, ossia sulla storia della psichiatria italiana dalla legge Mariotti alla 180, che vedrà la luce alla fine di quest’anno. Ringraziamo, non solo per l’autorizzazione a pubblicarlo ma soprattutto per l’impegno e la passione profusi nella certosina analisi delle fonti, i curatori del volume Mario Paolo Dario, Giovanni Del Missier, Andrea Piazzi, Ester Stocco e Luana Testa. L’articolo ha come primo nome quello di Eliodoro Novello, psichiatra padovano che fu una delle colonne portanti dell’AMOPI e che ricordo, infaticabile tra Padova e Roma, nei mesi di stesura della 180. A lui invio un saluto particolare ed un ringraziamento affettuoso per tutto ciò che ha realizzato nella sua vita professionale. Se oggi non esistono più i manicomi e se è stata sconfitta la logica che li sosteneva, è merito anche suo e di quel manipolo di intellettuali che creò e sviluppò l’AMOPI. (PLS)

Nella fiera degli anniversari della storia della psichiatria, che in questo 2008 hanno occasione di venire alla ribalta, trova posto il 1978 e la legge 180 che fu promulgata in quell’anno, ma la memoria a lungo termine della psichiatria sembra arrestarsi lì, incapace di retrocedere di altri 10 anni e raggiungere il 1968, non per gli ovvi tributi alla “contestazione giovanile” ma per rendere omaggio ad una legge che il Parlamento approvò il 18 marzo di quell’anno, che fu detta legge Mariotti ma che avrebbe benissimo meritato l’appellativo di legge AMOPI. Di fronte ai nomi Mariotti o AMOPI nei colleghi più giovani, che ignorino questa fondamentale tappa legislativa che tanto ha inciso sulla assistenza psichiatrica pubblica, risuona il quesito manzoniano “chi eran costoro? ”. È di questo tratto importante della nostra storia che vogliamo raccontare: della legge 431/68, e di coloro che più la vollero: Mariotti e l’AMOPI.

LA LEGGE
Iniziamo proprio dalla legge chiamata «Provvidenze per l’assistenza psichiatrica », che viene ratificata dal presidente della Repubblica Saragat, presentata dal Presidente del Consiglio Aldo Moro ma voluta dal ministro della Sanità il sen. Mariotti. Essa, con i suoi 12 articoli, provoca tre grandi mutamenti nel modo di percepire la assistenza psichiatrica pubblica e il ruolo dello psichiatra. Il primo mutamento è conseguenza dell’art. 4 «Ammissione volontaria e dimissioni» che permette al malato che chieda di ricoverarsi volontariamente, con la sola accettazione del medico di guardia, di evitare la segnalazione di tale ricovero al Procuratore, precedentemente obbligatoria per il Direttore come prescritto dall’art. 53, che dal 1909 regolamentava i ricoveri volontari e che la vigente legge 14-2- 1904 «Disposizioni sui manicomi e sugli alienati» risalente a Giolitti non prendeva neanche in considerazione. Ma, cosa ancora più innovativa, ciò che mutava completamente lo status del ricoverato volontario non era tanto la possibilità di ricoverarsi di sua sponte, che abbiamo visto preesisteva, quanto -incredibile! - la facoltà di chiedere di essere dimesso su sua volontà, eventualmente anche contro il parere dei sanitari come qualunque altro paziente di un qualunque altro ospedale generale1. Ciò acquista pregnanza enorme se si pensa che fino ad allora i ricoveri volontari, per l’art. 53, entravano nello stesso iter giuridico-amministrativo dei ricoveri coatti, ovvero, alla scadenza del mese di osservazione provvisoria, doveva, a seconda della pericolosità, o esser dimesso o automaticamente venir internato in via definitiva. Evidenziamo qui una importante conseguenza della precedente impostazione: per la legge 36/1904 coloro che ricadevano nel “dovere” di esser ricoverati, cioè i “pericolosi e scandalosi”, erano in conclusione i soli ad avere il “diritto” di un ricovero gratuito, per tutti gli altri malati mentali nessuna assistenza pubblica. Solo col Regolamento del 1909 viene ammessa (con l’art. 6, 49 e 50) una unica eccezione: il ricovero in reparti o istituti speciali per quei «mentecatti cronici tranquilli, epilettici innocui, cretini, idioti ed, in generale, individui colpiti da infermità mentale inguaribile, non pericolosi a sé e agli altri » che non siano affidabili a nessuno all’esterno. L’art. 4 ha quindi un enorme valore non solo pratico ma anche simbolico: è con esso che il manicomio diventa - anche nominalmente - l’ospedale psichiatrico aperto a tutti e l’alienato diventa un paziente. La psichiatria inizia a (ri) entrare nella medicina. Il secondo mutamento è poi di straordinario impatto, responsabile ne è l’art. 11 «Abrogazione». Era accaduto infatti nel 1930, con la promulgazione del codice Rocco, che il legislatore fascista riuscisse addirittura a peggiorare l’impianto custodialistico e repressivo della 36/1904 introducendo nel codice di procedura penale l’art. 604 n 2, che così recitava «Nel casellario giudiziale si iscrivono (…) i provvedimenti con i quali il giudice ha ordinato il ricovero delle persone in manicomio e la revoca di tale provvedimento». Se già con il 1904 lo psichiatra era diventato custode e carceriere dei malati, ora nel 1930 sono quest’ultimi ad acquisire lo status di delinquenti, e il cerchio si chiude. Ebbene, l’art. 11 mette fine a questa infamia abrogando il passaggio incriminato dell’art. 604 c. p.p. Crediamo non sia eccessivo porre chi lungamente si è battuto (psichiatri e legislatori) per tale abrogazione sullo stesso piano di tutti coloro che da Pinel in poi hanno voluto affrontare la malattia mentale con metodo medico e non poliziesco. L’alienato riacquista la sua dignità di paziente grazie all’art. 4, ma è con l’art. 11 che cessa di essere considerato un delinquente. E arriviamo, infine, alla terza mutazione che riguarda fondamentalmente l’identità professionale dello psichiatra e (parzialmente) i suoi luoghi di lavoro. Si tratta per quest’ultimo aspetto dei primi tre articoli che trattano della “Struttura interna dell’ospedale psichiatrico”, del “Personale dell’ospedale” e del “Personale dei centri di igiene mentale”. Con essi innanzitutto si ridimensiona una caratteristica dei vecchi manicomi: l’enorme disparità tra l’affol lamento di malati e la scarsità di sanitari, con l’introduzione del limite di 125 posti per ogni divisione a cui devono far capo almeno tre medici, una assistente sociale e 40 infermieri. Oltre all’assunzione di psichiatri, infermieri e assistenti sociali vengono inoltre stimolate le Amministrazioni Provinciali ad istituire Centri di igiene mentale con un loro Direttore e personale specializzato (psicologi e pedopsichiatri) e con ciò formalmente viene riconosciuta l’esigenza di una attività psichiatrica anche fuori del contesto ospedaliero, sia sul versante terapeutico, il malato psichiatrico non deve più stare necessariamente a letto e isolato socialmente, sia su quello preventivo (a cui allude il termine “igiene”) e riabilitativo. Per ciò che riguarda invece il primo aspetto non dimentichiamo che fino al 1968 gli psichiatri pubblici da 60 anni erano equiparati al ruolo di impiegati funzionari della Provincia (dipendevano dal Ministero dell’Interno e non della Sanità) e i loro emolumenti di gran lunga inferiori, fino ad un terzo, a quello dei loro colleghi degli altri ospedali. Con questa legge, nei suoi articoli di natura finanziaria e giuridica, viene raggiunta l’equiparazione del personale medico e ausiliario a quello degli ospedali generali con adeguamento del trattamento economico al personale ospedaliero2. In questo modo, tra l’altro, è possibile l’attuazione del tempo pieno in ospedale con vantaggi sia terapeutici per i pazienti che formativi per il personale. È veramente un mondo che cambia, che si risveglia da un letargo di sessant’anni e si rimette in cammino. Ma come si è arrivati a questa svolta? Agli inizi del 1968 in quel volgere di fine inverno si sta avviando a conclusione anche la quarta legislatura3 e con essa la speranza di vedere discussa in Parlamento la riforma organica della assistenza psichiatrica4 il cui disegno di legge è ormai arenato al Senato dove vi è giunto nel settembre precedente, quando ecco accadere due fatti ravvicinati: il 7 febbraio in Commissione igiene e sanità della Camera l’On. Marcella Balconi (PCI-PSIUP), di fronte all’impossibilità temporale di approvare la legge organica, propone di presentare almeno uno stralcio delle norme più urgenti e sulle quali ci sia convergenza di opinioni per avviare a soluzione il problema della precarietà e dell’insufficienza dell’assistenza psichiatrica. Il 9 febbraio viene definitivamente approvata la riforma ospedaliera e diventa Legge dello Stato quanto fortemente voluto da Mariotti con l’intento di «democratizzare, programmare e umanizzare gli ospedali»5; e intanto la proposta della legge stralcio al contrario si scontra con un forte ostruzionismo. A questo punto il 15 febbraio l’AMOPI, l’organizzazione che raccoglie il 95% degli psichiatri pubblici, scende in sciopero a tempo indeterminato in quanto «ritengono non più tollerabili: la persistenza dell’annotazione dei malati di mente nel Casellario giudiziario, paragonando così una particolare situazione morbosa ad una condanna per un comune reato. L’assistenza psichiatrica in Ospedale, dimostratasi per la maggior parte dei casi inadeguata alle esigenze sanitarie e sociali, per le ben note ristrettezze e insufficienza di mezzi disponibili per tali servizi. L’ingiusta, persistente e intollerabile sperequazione del trattamento economico dei Medici degli Ospedali Psichiatrici a confronto con quelli degli altri medici opedalieri». 6 Lo sciopero, a cui aderiranno più dell’85% degli psichiatri ospedalieri e che si interromperà solo il 20 febbraio, riuscirà nel suo intento di dare la spallata finale che consentirà, nonostante ulteriori ostruzionismi e ostacoli, di far finalmente licenziare dal Parlamento la legge stralcio n. 431 il 18 marzo 1968. Subito il ministro trionfante esprime tutto il suo compiacimento7 e ne ha ben donde, avendo inseguito questo obiettivo per oltre due anni e anzi avendo immediatamente mostrato fin dalla sua nomina a ministro (22 luglio ’64) le migliori intenzioni di smuovere la paludosa, immobile e mefitica situazione della assistenza psichiatrica pubblica. Ma il pur generoso e sincero interesse del socialista Mariotti, per una illuministica riforma dall’alto, non basterebbe da solo e, d’altra parte, a far volgere le sorti della ultima decisiva battaglia non è certo il telegramma che il Presidente della Società Italiana di Psichiatria, Prof. Mario Gozzano, invia il 17 febbraio 68 (durante lo sciopero) al Presidente del Consiglio dei Ministri, On. Aldo Moro8, per perorare l’abrogazione del art. 604 cpp.

L’ASSOCIAZIONE
L’impegno politico culturale di Mariotti non avrebbe successo (anche se solo nella veste di una legge stralcio) se non avesse avuto molte volte al suo fianco e altrettante volte di fronte in strenua ma civile dialettica, una organizzazione sindacale che come lui, più di lui, ha da congratularsi con se stessa per la (ahimè parziale) vittoria. È l’AMOPI, sigla anonima che all’inizio (e vedremo poi perché solo all’inizio) indica l’Associazione Medici Ospedali Psichiatrici Italiani, l’organizzazio ne degli psichiatri pubblici che rivela una sua particolare compattezza, tenacia e concretezza, che si rivelano decisive. Compattezza: essa è capace di raggiungere e accogliere in sé più del 95% degli psichiatri impegnati nell’assistenza pubblica a tutti i livelli, come direttori, primari, aiuti e assistenti. Tenacia: essa è capace di organizzare in poco più di un anno a sostegno delle sue rivendicazioni ben quattro scioperi9 di cui due ad oltranza, a grande partecipazione e non indolori, data la “scarsa disponibilità” delle Autorità giudiziarie ad accettare tale forma di lotta da parte di medici, e pure psichiatri! Concretezza: le sue rivendicazioni non sono mai astratte, ideologiche, a partenza da una progettualità formulata da di fuori o calata dall’alto ma partono dal vissuto quotidiano duro, faticoso, negletto, in cui le amare considerazioni sulla propria situazione lavorativa non sono mai staccate da quelle speculari sulla situazione esistenziale dei propri pazienti, gli uni e gli altri messi a umiliante confronto con quella degli altri colleghi e degli altri degenti negli ospedali generali o specializzati. Il 5 dicembre 1959 a Napoli nel suo primo Congresso l’AMOPI si costituisce come associazione (Presidente Prof. Puca) che, come recita l’art. 1 dello Statuto, ha come scopo «inquadrare in una organizzazione professionale e sindacale tutti i sanitari dei pubblici Ospedali psichiatrici, nell’intento di tutelare efficacemente i loro interessi materiali e morali, individuali e collettivi, di promuovere il progresso edilizio, scientifico, curativo e tecnico degli Ospedali psichiatrici, e di interessarsi presso gli organi competenti di tutti i provvedimenti legislativi ed amministrativi che riguardano la categoria e gli Ospedali psichiatrici»10. Così dopo mezzo secolo di inerzia e passività gli psichiatri cominciano la loro “lunga marcia” nelle istituzioni che darà i suoi primi risultati nove anni dopo. L’inizio della 4° legislatura (28 aprile 1963) vede lasciarsi alle spalle vari tentativi rimasti incompiuti di riformare l’assistenza psichiatrica, p.es. il Disegno di legge ministeriale del 1961 e il Progetto di legge dell’Unione Province d’Italia del 1962, ma è proprio in quel 1963 che l’attività della associazione spicca il volo. Infatti, al terzo Congresso Nazionale (Napoli, 11 giugno 1963), dopo duro scontro elettorale, viene chiamato a guidare l’AMOPI un nuovo e combattivo consiglio direttivo che fa capo come Presidente al Prof. Ferdinando Barison, direttore O. P. di Padova e prestigiosa figura di studioso e ricercatore, e come Segretario al Prof. Mario Barucci, medico di sezione O. P. “V. Chiarugi” di Firenze11 presso cui si stabilisce l’ufficio di Presidenza e la Segreteria dell’Associazione e che è la instancabile mente organizzativa e unificante dell’AMOPI. Subito dopo, a settembre, vede la luce il primo numero dei “mitici” Bollettini AMOPI «che si augura di divenire la lucida coscienza che faccia dell’AMOPI un organismo vivente»12, e noi abbiamo ampiamente attinto a tale lucida coscienza per monitorare e apprezzare la vita di tale organismo. Preziose pubblicazioni per la conoscenza di molta parte della Storia della psichiatria italiana, andrebbero adeguatamente archiviate. Fin da subito si evidenzia agli iscritti (520 nel ’63 e 780 nel ’6513) quanto e come l’attività dell’AMOPI si caratterizzi per due aspetti, quello sindacale p. d. e quello culturale, che non rimangono mai disgiunti ma si intrecciano e si rafforzano l’un l’altro. È un sindacalismo di conio moderno quello che viene espresso a Firenze dal Dott. Gianfranco Zeloni14 e dal Prof. Barucci15 e a Padova dal Dott. Eliodoro Novello16, i medici più impegnati su questo piano. Scrive Zeloni nel 1963: «È da evitare una visione settoriale di sindacalismo ristretto al solo scopo di miglioramenti economici e delle condizioni di lavoro. [Siccome] in un O. P. tutto è connesso con la terapia: dalle mura, alle strutture organizzative interne, agli orari di lavoro dei medici e degli infermieri, [di conseguenza] la categoria medica deve avere funzione dirigente e costruttiva nella soluzione dei problemi dell’O. P. una presenza attiva nella gestione aziendale». «Nell’azienda l’elemento umano è solo il lavoratore ed è giusto che venga considerato il fattore più importante, nell’ospedale invece esiste il malato, elemento umano non lavoratore altrettanto importante e del quale bisogna tenere presenti necessità e diritti da accordare con le necessità e i diritti dei medici e degli infermieri. Il sindacalismo medico è anche difesa delle necessità dei malati: difesa contro errori delle amministrazioni, difesa contro leggi dello stato inadatte alla soluzione dei problemi di tecnica psichiatrica. Il sindacato moderno: una forma attuale di impegno sociale». 17 Ribadisce Barucci nel 1964 e 1965: «Dobbiamo soprattutto sentirci i sindacalisti dei nostri malati», 18 «Un primo aspetto sindacale del problema è l’organizzazione unitaria dei servizi, studiarne la realizzazione è nostro dovere sindacale. Ed anche prepararci con pazienza e umiltà ai nuovi compiti, migliorando le nostre capacità superando certe resistenze, uscendo da certi comodi rifugi mentali, riformando noi stessi prima ancora delle nostre istituzioni». 19 Ratifica nel 1967 Novello, l’unico psichiatra (insieme a L. Giamattei) il cui nome è sempre presente nei vari Consigli direttivi che contrassegnano l’arco esistenziale dell’AMOPI: «Non vogliamo un sindacalismo della dignità offesa, o dei privilegi da conservare ad ogni costo, o corporativo che ci faccia arroccare nella narcisistica contemplazione della nostra bravura e della nostra superiorità tecnica, o rigido, incapace di modificare i propri schemi, di variare i propri obiettivi, o disarmato, che non sappia o non voglia ricorrere ai metodi comuni della lotta sindacale ».

LA PSICHIATRIA DI SETTORE
Il tema della politica sanitaria è il nodo dove avviene l’intreccio tra aspetti sindacali p. d.( le pensioni, il tempo pieno ecc.) e aspetti culturali psichiatrici, essa si esprime nella proposizione piena e convinta di una ben precisa opzione tecnica: la psichiatria di settore. Un tipo di assistenza psichiatrica organizzata secondo i concetti dell’OMS che già vantava realizzazioni in Francia, Olanda e Inghilterra. Vengono perciò presentati in Italia autorevoli esperti stranieri: H. Duchenne di Parigi, D. Buckle dell’OMS, H. Vermorel e R. Lambert della Savoia francese, e P. Bailly-Salin, sia con interventi sul Bollettino sia invitati al grande «Convegno sulle realizzazioni e prospettive in tema di organizzazione unitaria dei servizi psichiatrici» organizzato dalla Amministrazione Provinciale di Varese d’intesa con l’AMOPI il 20-21 marzo 1965 e dedicato esplicitamente al “settore”. In questo Convegno20 numerose voci parlano a favore di questa opzione a cui fanno capo le esperienze di Bologna, Como, Firenze, Gorizia, Milano, Pesaro, Ravenna, Trento, Varese. Tra i “settorialisti” ricordiamo il Prof. Edoardo Balduzzi di Varese, il Dott. C. Coen Giordana di Genova, il Dott. Edelweiss Cotti di Bologna, il Dott. Franco Mori di Firenze e tanti altri che rappresentano la linea vincente, nonostante la fiera opposizione di pochi “antisettorialisti” come il Prof. Diego De Caro di Torino, capofila dei più “anziani” direttori come A. M. Fiamberti21 di Varese, M. Benvenuti di Arezzo, G. Padovani di Genova, Failla di Nocera Inf., A. Muratorio di Pisa, in genere di orientamento neurobiologico. Per illustrare “il settore” ci sembra doveroso lasciare la parola al presidente dell’AMOPI il Prof. Barison, l’aristocratico rappresentante della psichiatria colta, che fin dal 1963 propugna l’interesse dell’associazione per: «L’assistenza territoriale, cioè la tendenza moderna della psichiatria ad adattare l’assistenza a naturali ripartizioni topologiche della popolazione in modo che ad ogni settore di popolazione corrispondano specifici organismi psichiatrici che assicurino una assistenza unitaria e continua in tutti i servizi, da quelli profilattici ai ricoveri». 22 Quindi il principio basilare è: unità e indivisibilità della prevenzione, cura ospedaliera e post-ospedaliera, e riabilitazione da parte di una medesima equipe multiprofessionale di curanti. Questo aprirsi al territorio comporterà nel 1966, nonostante forti tensioni interne, cambiamenti anche formali sia nella denominazione dell’associazione, sia nello Statuto. La stessa sigla AMOPI va a significare ora Associazione Medici Organizzazioni Psichiatriche Italiane, laddove la lettera O non indica più Ospedali, e così pure, per es. nel art. 1 dello Statuto; non si parla più solo di “sanitari dei pubblici Ospedali Psichiatrici” ma anche “dei servizi di assistenza psichiatrica ad essi collegati” con l’intento esplicito di rappresentare “l’intero settore dell’assistenza psichiatrica. ”23

IL MINISTRO
L’AMOPI è insomma una giovane associazione che muovi i primi passi alla ricerca di una identità quand’ecco il 22 luglio 1964 diventa ministro della Sanità, alla sua prima legislatura, il Sen. Mariotti, 52 anni fiorentino, dottore in economia e socialista, con cui inizia un rapporto vivacissimo e passionale fatto di avvicinamenti entusiastici e allontanamenti deludenti che durerà quattro lunghi anni. Per capire il clima politico culturale del momento rammentiamo che la quarta legislatura è iniziata da pochi mesi allorché Aldo Moro costituisce nel dicembre 1963 il primo governo organico di centro-sinistra con Pietro Nenni vicepresidente. I governi di centro- sinistra sono caratterizzati da programmi di rinnovamento sociale e politico e dalla intenzione di incidere sulle strutture burocratiche, economiche e sociali per renderle più rispondenti alle esigenze delle masse lavoratrici. Il 22 luglio 1964 decolla il secondo governo Moro e con esso la carriera politica e parlamentare di Luigi Mariotti ed il suo feeling per il Ministero della Sanità, di cui sarà il titolare per ben quattro governi (Moro II e III, Rumor III e Colombo I). Egli sarà anche Ministro dei Trasporti e infine vicepresidente della Camera dei Deputati (presieduta da P. Ingrao) fino al 197924. Il combattivo Mariotti è socialista e crede nelle riforme, i suoi obiettivi sono il sistema ospedaliero e l’as sistenza psichiatrica, si mette subito al lavoro e a ottobre insedia la nuova Commissione incaricata di redigere un progetto per la riforma della legislazione psichiatrica, ne fanno parte tra gli altri il Prof. Gozzano presidente SIP, il Prof. De Sanctis presidente Lega Igiene mentale, Prof. Barison presidente AMOPI, il Prof. Callieri per l’Università e il Prof. Martinotti dell’O. P. di Roma. Il punto alto della luna di miele con l’AMOPI è la sua partecipazione l’anno dopo al quarto Congresso Nazionale dell’AMOPI (Arezzo 2 luglio 1965) dove peraltro il suo lungo, convinto e ben documentato intervento25 già rivela in nuce i problemi che di lì a poco si manifesteranno. Egli infatti non è affatto un ministro assente e disinteressato, né compiacente e passivo di fronte ai “tecnici” di cui farebbe a meno se potesse (non ebbe gran seguito la Commissione...), egli ha una sua ben precisa concezione della società, dei rapporti sociali (e quindi della psichiatria) e infine del suo ruolo istituzionale. Attento ai temi, oltre che della cura, della prevenzione e della riabilitazione, ai «rapporti tra individuo società e stato, tre aspetti inscindibili, con l’uomo libero che diventa misura di tutti i valori, e non il denaro», egli non lascia indifferente l’uditorio quando afferma che «una società come la troviamo nella legge del 1904 isola una parte della società, perché la ritiene pericolosa per la società globale, sopprime la possibilità all’individuo di essere restituito alla vita e quindi ne distrugge la libertà individuale e i principi animatori della società stessa; mentre se l’uomo è libero ci si può invece opporre a certe alternative politiche su cui molto spesso confluiscono il malcontento e l’inquietudine di precarie esistenze e che politicamente possono avere uno sbocco che pregiudica la libertà dell’uomo». Nessun ministro della Sanità si era mai espresso in tal modo e con tale convinzione ad un convegno di psichiatri pubblici. 26 Ma poi non liberandosi del tutto dall’idea che «il casellario giudiziario non possa non essere sostituito da un qualche cosa che registri un po’ questi tipi di malati che talvolta possono essere anche pericolosi» finisce per attirarsi vibrate «proteste nell’uditorio» laddove tocca un punto cruciale: il rapporto medico-paziente al fine di sottrarre il controllo del malato all’arbitrio del medico curante («se domani il controllo di questi malati fosse riservato esclusivamente al medico vuol dire essere soggetto al controllo dello stesso medico vita natural durante, e i medici potrebbero strumentalizzarlo a fini privati, in quanto essendo uomo egli ha una parte sublime capace di conquiste, sacrifici e solidarietà, ma c’è anche una parte istintiva che può portare a compiere cose distruttive verso il malato». Partendo da queste premesse antropologiche è logico che, nonostante tutte le migliori intenzioni, la necessità del controllo uscita dalla porta rientra dalla finestra, costringendo perciò il Ministro a proporre una sorta di “anagrafe psichiatrica” gestita dal medico provinciale, per le certificazioni a tutela dello Stato (per i concorsi pubblici) e del cittadino (nei confonti del suo curante), inutile dire che su ciò l’attrito con l’AMOPI è vistoso.

LO SCONTRO
Tale attrito si accentua quando tra luglio e dicembre arrivano all’AMOPI varie bordate da parte del Ministro, la prima è la conoscenza dello schema di disegno di legge27 da lui presentato al Consiglio dei Ministri. Esso, malgrado contenga l’abrogazione della Legge 36/1904 e l’art. 604, n 2 del c. p.p., manda grandemente disattese le aspettative degli psichiatri che immediatamente rispondono punto su punto, specialmente, ma non solo, per l’istituzione della “anagrafe psichiatrica” per coloro che siano «affetti da disturbi psichici accertati, pregiudizievoli per l’ammalato e la società, compresi nell’elenco che sarà inserito ». La seconda bordata ha però un effetto ancora maggiore. Il Corriere della Sera del 20 settembre 1965 pubblica un articolo dove si leggeva «Il ministro della sanità, sen Luigi Mariotti, intervenuto ieri mattina al cinema Odeon alla cerimonia indetta dall’AVIS (…) ha ricordato la dolorosa situazione dei degenti in molti ospedali psichiatrici, dove il medico fa una rapida comparsa al mattino e poi sparisce per l’intera giornata, così che quegli ospedali assomigliano piuttosto a “Lager di sterminio o a bolge dantesche”». Questo articolo dà inizio ad una vivace “polemica”. Seguono delle interpellanze parlamentari e inchieste televisive28, fioccano le proteste da parte dell’AMOPI, della SIP, della FNOOM, da assessori provinciali e da singoli psichiatri, segnaliamo in particolare il comunicato stampa del Consiglio direttivo dell’AMOPI che termina con questa affermazione: «La vecchia legge sui “manicomi e gli alienati” deve essere riformata non per evitare le carenze igieniche di un dato ospedale o gli ipotizzati sequestri di persona: per garantirci da questi e da quelle sono sufficienti le disposizioni della Legge vigente e del Codice Penale. La legge va riformata invece perché tutta l’Assistenza psichiatrica deve essere organizzata su basi e concetti diversi ispirati alla mutata realtà sociale ed alla evoluzione delle tecniche terapeutiche (…) ». Si alternano lettere aperte di protesta e risposte concilianti del Ministro, che nella sostanza non ritratta ma anzi ribadisce le sue gravi affermazioni «E non mi si accusi di voler “generalizzare” in quanto il verificarsi di gravissimi episodi dimostra che non si tratta di casi isolati, bensì di crisi del sistema ». La polemica divenne aspra a dicembre con la pubblicazione da parte del Ministero della Sanità di un “Libro bianco sulla riforma ospedaliera” redatto dai giornalisti G. Giannelli e V. Raponi, che denunciando e stigmatizzando in generale il mondo ospedaliero non manca di mostrare il lato oscuro e vergognoso della gestione manicomiale, risultato di molteplici fattori amministrativi, politici e culturali. All’epoca molto fu scritto e l’AMOPI irritata difese la categoria per ragioni d’ufficio e rispose con un “contro-libro bianco”29 che contiene «considerazioni e documenti dell’AMOPI per un più esatto e completo “Libro bianco sulla riforma ospedaliera”», tuttavia Mariotti aveva le sue ragioni. Si assiste in definitiva ad un ben vivace “gioco delle parti” tra il Ministro e l’AMOPI fatto di botte (uso di materiale sensazionale e scandalistico da un lato) e risposte (difese della categoria e proposte di riforma generale dall’altro), il cui bersaglio immediato è smuovere la sensibilità dell’opinione pubblica ma lo scopo finale è stimolare la “pigrizia” dei legislatori. Il 15 marzo 1966 il Sen. Mariotti viene riconfermato ministro della Sanità nel nuovo governo Moro (il terzo).

EPILOGO
È il 1967, il tempo stringe essendo nel penultimo anno di legislatura e occorrono forze nuove per uno scontro finale che si prospetta arduo, e così nel suo quinto Congresso Nazionale30 (Perugia, 3 giugno 1967) l’AMOPI si dà un nuovo Presidente e al posto di Barison “sindacalista tranquillo” subentra alla testa dei circa 900 medici dell’associazione il Prof. Barucci mentre diventa Segretario il Dott. Zeloni; entrambi di Firenze ben contribuiscono con il noto spirito “polemico” toscano al momento fortemente dialettico. Infatti il tema sindacale di fondo di questo interessante Congresso è il dibattito tormentato sullo strumento dello sciopero e il suo uso nello specifico, visto che i ben tre scioperi degli ultimi sei mesi non hanno sortito effetto. A questo riguardo significativo è l’intervento dell’On. Prof. ssa Marcella Balconi31, che accennando alla possibilità di una “piccola riforma” se non si potesse giungere ad una riforma radicale, induce tra gli astanti la cognizione del forte pericolo che passi anche questa legislatura senza riforma psichiatrica. Di passaggio, non possiamo fare a meno di segnalare questo interessante Congresso per alcune altre note intellettualmente stimolanti per un lettore di oggi. Il Prof. Balduzzi e il Dott. L. Massignan di Udine demistificano l’uso degli psicofarmaci a 15 anni dalla loro introduzione e denunciano l’equivoco che il loro boom abbia trasformato la psichiatria, essi anzi hanno contribuito a «un gravissimo tradimento della psichiatria rendendo il rapporto col malato superficiale». Non lontano dal tema suddetto il Prof. Barucci e il Prof. Barison propongono e perorano la scissione delle cattedre di neurologia e psichiatria, che «sono due cose diverse» e che si effettuerà solo nel 1976. Infine a questo convegno fa la sua apparizione con apprezzati interventi il Prof. Orsini di Genova che 11 anni dopo rivestirà un ruolo determinante nel portare a compimento la riforma psichiatrica con la 180/1978. Il 20 settembre 1967 viene presentato il Disegno di legge del Ministro e con ciò questa storia si avvia verso l’ultima fase già raccontata all’inizio di questo lavoro, a cui rimandiamo.

“COL SENNO DI POI…”
Nelle attuali rievocazioni del 1968 e dei suoi multiformi riflessi sulla società legale e civile si sente spesso l’affermazione che, diversamente da altri Paesi (Francia, USA), dove il movimento fu una fiammata per quanto intensa, in Italia durò più a lungo con esiti e ricadute di varia natura e valore, e che lo spartiacque successivo fu il 1978 e il delitto Moro. Pensiamo che non sia troppo azzardato estendere alla psichiatria quanto sopra. Ci chiediamo: perché il 1968 psichiatrico fu solo una tappa e dovette aspettare il 1978 per trovare il suo naturale compimento? Non è questa la sede per esplorare tale percorso e le sue eventuali alternative inesplorate o le ragioni di quel “particolare” compimento. Certo però possiamo concludere con certezza su quelle che furono le lacune e inadempienze (soprattutto legislative) della 431/1968 e che avviarono la necessità storica della 180/1978. La “grande riforma” presentata dal Consiglio dei Ministri nel disegno di legge 2422 del 20 settembre 67 finiva con l’articolo 59 “Abrogazione” che così recitava «La legge 14 febbraio 1904 n. 36 è abrogata (…). È altresì abrogato l’articolo 604 n. 2 del codice di procedura penale (…) »; purtroppo questa “grande riforma” non arrivò mai in aula. Chissà, se fosse stata approvata… La necessità di proporre in fretta e furia un disegno di legge stralcio (n. 4939) che fosse convertibile in legge costrinse tutti coloro che avevano a cuore l’assistenza psichiatrica ad accontentarsi di una “piccola riforma” che pur abrogando il fascista art. 604 n. 2 cpp, manteneva ancora vigente la giolittiana 36/1904. In questo modo la legge stralcio andava ad aggiungersi alla precedente, migliorando di gran lunga la situazione di quei pazienti che volevano curarsi in ospedale, per i quali era stato formulato l’art. 4 (vedi sopra il cap. “La legge”) e che trovarono finalmente una risposta adeguata nel servizio pubblico permettendo agli psichiatri di essere medici e curare, ma non incise né modificò sostanzialmente quella degli altri. Chi erano gli altri? Erano quei malati che (dopo il regolare mese di osservazione) non volevano curarsi e che appartenevano fondamentalmente a due categorie: o quelli che, provenendo dai ricoveri coatti, erano ancora pericolosi a sé e agli altri o quei «mentecatti cronici tranquilli, epilettici innocui, cretini, idioti ed, in generale, individui colpiti da infermità mentale inguaribile, non pericolosi a sé e agli altri »32. Il destino di entrambe queste due categorie era il ricovero definitivo e di essi continuarono ad occuparsi gli psichiatri, nella funzione (non terapeutica) di custodia dei primi e di assistenza dei secondi, e per essi rimase vigente la legge del 1904, perché la legge stralcio apriva (finalmente) l’Ospedale psichiatrico ma non chiudeva ancora il Manicomio. E per essi continuò il movimento riformatore degli psichiatri (in cui ritroveremo alcuni dei protagonisti33 di questo 1968) che infatti ebbe come cavalli di battaglia i due temi rispettivamente della pericolosità (su cui si articola il dilemma coercizione/libertà) e della emarginazione (con l’alternativa abbandono/ riabilitazio ne). Ma, come si dice, questa è un’altra storia che ci accingiamo a raccontare. Desideriamo vivamente ringraziare coloro le cui preziose testimonianze, generosamente condivise con noi, hanno reso possibile questa ricerca storica: il Prof. Gianfranco Zeloni, il Prof. Bruno Orsini, il Prof. Giuseppe Francesconi.

1 Ovviamente i medici di fronte al manifestarsi di situazioni di pericolo potevano sempre ricorrere al ricovero coatto.
2 Anche se bisognerà aspettare la legge 515/1971 per regolare lo stipendio con una indennità non pensionabile e in pratica solo nel 1977 si raggiungerà l’equiparazione.
3 Essa si concluderà il 4-6-1968.
4 A cui fanno riferimento due progetti di legge (l’803 del On. De Maria D.C. presentato il 5-12-1963 e il 2185 della On. Marcella Balconi P.C.I.-P.S.I.U.P. presentato il 13-3-1965) e il disegno di legge n. 2422 presentato il 20-9-1967 al Senato dal ministro Sen. Luigi Mariotti P.S.I.
5 cfr Bollettino AMOPI, anno IV n. 5 settembre 1966,p. 321.
6 cfr Bollettino AMOPI, anno VI n. 3, maggio 1968, pag 57.
7 Cfr. Bollettino AMOPI anno VI n. 3, maggio 1968, pag 81.
8 Cfr. Bollettino AMOPI anno VI n. 3, maggio 1968, pag 64-65.
9 Il 15 e 16 dicembre 1966, il 16-18 marzo 1967, 18-26 aprile 1967 e il 15-20 febbraio 1968, quest’ultimi due ad oltranza.
10 Art. 1 dello Statuto, in Bollettino AMOPI anno I, n.1 settembre 1963, frontespizio.
11 Altri componenti del Consiglio sono G. Padovani Dir. O. P. Genova, E. Failla Dir. O. P. di Nocera Inferiore, M. Benvenuti Dir. O. NP. di Arezzo, C. Coen-Giordana Prim. O. P. di Genova, E. Cotti Prim. O. P. di Bologna. B. Buffa Prim. O. NP. di Vercelli, L. Giamattei Assist. O. P. di Napoli, E. Novello Assist. O.P. di Padova, G. Zeloni Assist. O. P. di Firenze.
12 Cfr. Bollettino AMOPI anno I, n.1 settembre 1963, Presentazione p. 1.
13 Nel 1963, cfr. Bollettino AMOPI anno I, n.1 settembre 1963, p. 23. cfr. Bollettino AMOPI anno III n. 5, settembre 1965, p. 214.
14 Cfr. Bollettino AMOPI anno III n. 5, settembre 1965, p. 243. Cfr. Bollettino AMOPI, anno V n. 5 settembre 1967, p.194.
15 Cfr. Bollettino AMOPI anno III n. 5, settembre 1965, p. 213.
16 cfr Bollettino AMOPI, anno V n. 5 settembre 1967, p.205, p. 227.
17 Cfr. Bollettino AMOPI anno I, n.2 novembre 1963, p. 63.
18 Cfr. Bollettino AMOPI anno II n. 4, luglio 1964, p. 151.
19 M. Barucci Sintesi critica nei riflessi legislativi e sindacali in Atti del Convegno sulle realizzazioni e prospettive in tema di organizzazione unitaria dei servizi psichiatrici. Varese, 20-21 marzo 1965, p. 230.
20 Cfr. Atti del Convegno sulle realizzazioni e prospettive in tema di organizzazione unitaria dei servizi psichiatrici. Varese,
20-21 marzo 1965
21 Autore della “leucotomia transorbitaria di Fiamberti” e di una cura della schizofrenia con la acetilcolina.
22 Cfr. Bollettino AMOPI anno I, n.1 settembre 1963, p. 22. Per una completa e dettagliata disamina Cfr. dott. Franco Mori
(O.P. Firenze) in Bollettino AMOPI anno II, n.2 novembre 1963, p.65.
23 Cfr. Bollettino AMOPI anno IV, n. 3 maggio 1966, p. 101.
24 Luigi Mariotti, a partire dalla persecuzione politica durante il fascismo diventa uno dei grandi protagonisti della vicenda politica e culturale di Firenze e della Toscana nel secondo dopoguerra. Decorato al merito della Sanità pubblica nel corso dei
festeggiamenti per il suo novantesimo compleanno, morirà il 24 dicembre 2004.
25 Discorso del Sig. Ministro della Sanità, Sen. Luigi Mariotti al Congresso Nazionale AMOPI, cfr. Bollettino AMOPI anno III n. 5 settembre 1965, p.189-197.
26 A precedenti congressi erano intervenuti due ministri della sanità: Sen. Monaldi (1959) e Sen. Jervolino (1962).
27 Cfr. Bollettino AMOPI anno III n. 5, settembre 1965, p. 249.
28 Cfr. Bollettino AMOPI anno IV n. 1 p. 48. Cfr. Bollettino AMOPI anno IV n. 3 p. 217.
29 E. Balduzzi, M. Barucci, G. Zeloni (a cura di) Urgenza di una legge per la sanità mentale. Tecniche e costume del rinnovamento psichiatrico. Suppl. Bollettino AMOPI IV n. 2, marzo 1966.
30 Cfr. Bollettino AMOPI anno V n. 4 e 5
31 Prima firmataria del progetto di legge 2185 del 13 marzo 1965.
32 Per quest’ultimi si risolse in gran parte l’aspetto formale con la trasformazione del ricovero coatto in volontario ma non quello sostanziale della loro collocazione.
33 10 anni dopo ritroveremo ancora l’AMOPI nella veste di Novello, Renzoni, Zeloni, Giamattei, Erba, Francesconi, Pagano e, in altro ruolo, Orsini.
l’Unità 17.6.08
Il Pd non entrerà nell’Internazionale socialista
di Andrea Carugati


DUE CERTEZZE: gli europarlamentari del Pd siederanno in un unico gruppo. E il Pd non andrà da solo a Strasburgo, nel senso che non si collocherà tra i non allineati e non cercherà di costruire una nuova famiglia raccattando qualche deputato in giro per l’Europa. I democratici stringeranno un patto federativo con il gruppo Pse, le cui modalità operative non sono state ancora definite, senza però entrare nel Pse. E neppure, afferma Pierluigi Castagnetti, «nell’Internazionale socialista o in qualche altra internazionale». Questo il risultato raggiunto dai big del Pd, che ieri hanno discusso del dossier per oltre 5 ore nella nuova sede del Nazareno: da Veltroni a Franceschini, D’Alema, Fioroni, Castagnetti, Bersani, Fassino, Gentiloni, Bettini, Bindi. Assente Rutelli, che nei giorni scorsi aveva assunto la posizione più dura sul no al Pse, impegnato all’estero come presidente del Copasir.
Non facile la composizione tra le due anime, gli ex Ds e gli ex Margherita. Con i primi, D’Alema e Fassino in testa, molti netti nell’escludere l’idea, caldeggiata dagli ex Dl (soprattutto Parisi e i rutelliani), di dare vita vita a un gruppo nuovo, dialogante con socialisti e liberali ma senza un rapporto privilegiato con il Pse. Sarebbe stata proprio la mediazione di D’Alema, con la proposta di rinunciare ad una adesione del Pd all’Internazionale socialista, a sbloccare la situazione. E così gli ex popolari accettano la federazione con il Pse ma incassano l’idea che il Pd stia fuori dall’Internazionale, di cui D’Alema è ancora vicepresidente. Gli ex Dl su questo hanno insistito: il Pd non dovrebbe neppure partecipare come “osservatore” ai lavori dell Is come fanno invece i Democratici Usa. Non è un caso che proprio Pierluigi Castagnetti, il primo ad aprire il caso una decina di giorni fa, all’uscita parli di «rapporto federale» con il Pse e rimarchi la mancata adesione all’Is. Tema che però non compare nelle dichiarazioni ufficiali affidate a Lapo Pistelli, responsabile delle relazioni internazionali. «La costruzione di un campo riformista in Europa è il nostro obiettivo- ha spiegato-. Questo significa avere a che fare con forze che in gran parte militano nel campo socialista». E tuttavia «non ci si limiterà ad aderire al Pse». Pistelli riconosce che «ci sono idee diverse» su come procedere nel rapporto con il Pse, ma questo tema sarà approfondito nei prossimi mesi. «Se vogliamo esportare la nostra novità non lo possiamo fare in solitudine», dice Pistelli.
Alla fine c’è tra tutti la consapevolezza che è stato affrontato un nodo molto complicato e che si sono fatti dei passi avanti, pur con una certa fatica. «È la prima volta che non ci parliamo mezzo di interviste, e nessuno ha usato la parola “mai”», dice Pistelli. Soddisfatto Veltroni, tra gli ex Ds non mancano le perplessità sul nodo dell’Internazionale socialista, ma si incassa positivamente l’aver evitato «di relegarci in un angoletto in Europa nel nome della nostra novità».

l’Unità 17.6.08
Una nuova democrazia? Fondiamola sull’amore
Luce Irigaray intervistata da Maria Serena Palieri


Se alla parola «filosofia» dessimo il significato di «saggezza dell’amore» anziché «amore della saggezza» come si è fatto per duemila anni?

Oggi i cittadini sono come bambini in ascolto del Capo. La trappola è nel fatto che il Capo è stato eletto da noi stessi. Nostra è la colpa

Ségolène e Hillary candidate alle massime cariche sono una vera rottura col passato? Senza un programma «da» donne c’è il rischio di screditare il nostro sesso

«Chiedere l’uguaglianza, come donne, mi sembra un’espressione sbagliata per un obiettivo reale. A chi o a che cosa vogliono essere uguali le donne? Agli uomini? A una retribuzione? A un impiego pubblico? Uguali a quale modello?
Perché non uguali a se stesse?»

Si intitola La via dell’amore l’ultimo saggio della filosofa che, dal 1974 e dallo «scandalo» di Speculum, è punto di riferimento del pensiero femminile. Un testo che propone una provocazione radicale. Lei stessa ce la spiega

Filosofia: parola composta, dal greco, a partire da due altre, «amore» e «saggezza». Ma queste due, una volta mescolate, a quale terzo nuovo senso danno luogo? Da due millenni e mezzo diciamo che filosofia significa «amore della saggezza». E se, invece, significasse «saggezza dell’amore»? Cosa sarebbe successo, insomma, se nella storia umana la saggezza fosse stata regolata dall’amore? Luce Irigaray, filosofa e psicanalista, dopo trentaquattro anni di cammino tenace - è del 1974 lo «scandaloso» successo di Speculum, il saggio con cui decostruiva Freud, Platone e Hegel, tra gli altri, per indagare nel continente ignoto dell’identità e della sessualità femminile, del 1984 il saggio che poneva un primo mattone della sua originale teoria successiva, Etica della differenza sessuale, del 1992 quello in cui cominciava a saggiare l’idea di una «polis» aperta ai due sessi, Io, tu, noi, per una cultura della differenza - è arrivata in questo 2008 nelle nostre librerie, per Bollati Boringhieri, con un testo dal titolo magnificamente innocente, La via dell’amore. Di innocente, in questo pamphlet, c’è lo sguardo con cui Irigaray, studiosa settantottenne, partendo da quello slittamento di senso di una parola bimillenaria, «filosofia», finisce per leggere con incandescente radicalismo il nostro tempo. «La tradizione occidentale ha privilegiato la sapienza a discapito dell’amore. E l’uomo occidentale ha confuso poi la sapienza col dominio sulla natura, compresa la natura propria e quella dell’altro. Perché l’ha fatto? Perché doveva emergere dal mondo materno, inteso come natura, e invece di risolvere la cosa in termini di relazione nella differenza, ha scelto la via del dominio sul mondo naturale, mondo materno compreso»: così Irigaray riassume, per noi, quel mistero delle origini. «Forse in un primo tempo non poteva fare altrimenti» aggiunge. «E la mia ipotesi è che l’uomo abbia bisogno ora che la donna si individui in quanto donna per aiutare lui, l’uomo, ad uscire dal mondo materno». Nell’ultimo decennio alcuni studiosi (uomini) si sono avventurati a parlare di «fine della storia»: stop, l’evoluzione umana è arrivata al capolinea. Per Luce Irigaray sembra sia vero il contrario: siamo a un inizio. Con un’avvertenza: «La liberazione femminile, se avviene solo “contro” gli uomini, non servirà a granché. Anche i separatismi, che pure hanno avuto una funzione storica, sono da superare, salvo che come strategia puntuale per ottenere certi diritti» osserva.
In un momento in cui la democrazia collassa fare un discorso sulla saggezza dell’amore e la relazione a due può sembrare un lusso. Lo è? Oppure quella che Irigaray propone è un’altra idea di democrazia, una democrazia radicale?
«Nella cosiddetta democrazia, secondo me, la gente è diventata troppo dipendente, i cittadini sono come bambini, in ascolto di quanto decide il capo. La trappola è nel fatto che il capo è stato eletto da noi stessi. Così, i disastri della democrazia sarebbero comunque colpa nostra. Dunque, cerco di dire che la gestione della città, la gestione di noi stessi e dei rapporti tra di noi, invece, deve essere a carico nostro. La politica è compito di noi tutti e tutte, non solo dei politici. La politica, e in particolare la democrazia, spesso, hanno lavorato più a separare i cittadini che ad avvicinarli. Il mio discorso punta a riannodare queste relazioni, facendo leva sulla potenza estrema - per chi la sa vedere - della differenza. L’amore è alla nostra portata e rifondare la società civile è compito di noi tutti e tutte. Intendo la parola “amore” in senso forte, non debole, non paternalistico né sentimentale, amore come rispetto dell’umano, nella sua totalità. La mia perdita di fiducia nella politica risale a molti anni fa. È allora che ho deciso che, anziché criticare e aspettare, dissipando così salute ed energia, da subito potevo usarle, invece, per creare legami. Ho cominciato, cioè, a lavorare sul “due”. Rifondare la relazione a due è il mezzo per rifondare la società civile. Puoi farlo ogni giorno, dieci volte al giorno, e a sera hai fatto qualcosa».
Il saggio affronta anche il rapporto tra religione e filosofia. La questione religiosa è, in questo momento, scabrosa. Lei come la intende?
«Io vivo in Francia. Sono politicamente laica. Trovo che l’avanzata dei fondamentalismi, e le crisi politiche che ne conseguono, derivino dal fatto che la filosofia, come detto all’inizio, si sia disinteressata dell’amore, a favore della sapienza governata dal Logos. Ma, siccome l’amore fa parte dell’umano, esso è finito delegato alla religione. E questo ha creato un disastro. Sia nella religione, che in politica».
Il saggio ha come bersaglio polemico anche il nuovo universo, informatico, nel quale viviamo. E quello che lei ha definito «capitalismo intellettuale». Perché?
«Non definisco l’informatica in quanto tale come capitalismo intellettuale, ma l’uso che alcuni ne possono fare e le conseguenze di un uso generalizzato di essa. Il linguaggio dell’informatica deriva dalla logica occidentale che ha creato un mondo parallelo a quello della vita, dove esistono le differenze. L’informatica, con la sua logica binaria, estranea alla vita, appartiene a questo mondo parallelo. Per sfuggire a questo dominio dobbiamo cercare di tornare a un linguaggio concreto, carnale, fatto di rispetto della stessa natura e di relazione tra noi. Prendiamo il silenzio: l’informatica non sa cosa sia, il silenzio è qualcosa che non è né bene né male, ma è un luogo dove ci si può incontrare, nel rispetto delle nostre differenze, ed elaborare un mondo comune, a partire da trasformazioni dei rispettivi mondi. L’informatica non sa cosa sia il silenzio, nemmeno l’intimità. La nostra logica occidentale corrisponde a un linguaggio che nomina il reale per appropriarsene, ma così lo immobilizza, lo uccide in qualche modo. Noi diciamo “un albero” e, nel dirlo, cancelliamo la vita, le trasformazioni che un albero vive in primavera, in autunno, in inverno. La logica occidentale è anzitutto un padroneggiare il mondo in una maniera mentale: ad esempio dire “un castagno” parla prima al cervello, invece parlare di “questo castagno qui in fiore” si rivolge a tutto il nostro essere. Insomma, io cerco di tornare a, o di inventare, un linguaggio carnale, che tocchi, che corrisponda al nostro essere totale e che ci consenta di comunicare in quanto viventi».
Lei contrappone «familiarità» a «intimità». Valorizzando la seconda a scapito della prima. Perché?
«La familiarità è ciò che ci unisce in un passato comune attraverso abitudini, costumi: io e te siamo dello stesso paese, condividiamo la nostra casa di famiglia, abbiamo vissuto insieme quell’evento... La familiarità è legata al passato. Ci incarcera nel nostro modo di vivere, nella nostra propria lingua. Ci impedisce quindi di avvicinarci all’altro: all’altro sesso, all’altra generazione, allo straniero. Ci impedisce di creare intimità con l’altro, attraverso le differenze».
Nel suo saggio parla anche della «fabbricazione di bellezza» e della «fabbricazione di erezione». Insomma, parlando di «saggezza dell’amore» si finisce a parlare di lifting e Viagra...
«Non andiamo perfino verso la fabbricazione dello stesso corpo? La nostra sapienza prima ha voluto dominare la natura, ora vuole fabbricare la natura al posto di lasciarla essere e crescere. Per la natura non c’è più posto. Se si fosse coltivata un po’, invece, la saggezza dell’amore, di tutto questo non ci sarebbe bisogno: la relazione carnale basterebbe per farci apprezzare i nostri corpi come sono, dei corpi che sarebbero d’altronde più seducenti perché più vivi, come si può verificare nelle culture che coltivano il respiro, l’energia della vita al posto di inventare artifici per mascherarla».
Ma l’informatica, che ci dona l’ubiquità, così come la velocità che ci consente di raggiungere ogni angolo del pianeta, non accentuano la vicinanza? Non aiutano a comunicare?
«Lo crede? Ha visto il numero di persone che parlano ormai da sole per strada? E che si arrabbiano se tu interrompi il loro parlare da soli? E che, quando non parlano da soli per strada parlano a casa col loro computer? In fedeltà a una nostra tradizione occidentale, le persone si parlano sempre più in assenza di una presenza carnale: le dita toccano molto i tasti del computer ma poco il corpo dell’altro. In noi esseri umani, poi, ci sono ritmi diversi: i ritmi di digestione, cuore, respiro, parola, pensiero. Le macchine ci stanno riducendo a un ritmo uniforme, a un ritmo perfino solo mentale. E questo è pericoloso...».
Luce Irigaray cosa pensa di questo mondo del 2008, in cui ci sono state donne candidate a cariche mai avute prima: Ségolène Royal all’Eliseo, Hillary Clinton alla Casa Bianca?
«Alle donne che si candidano chiedo di presentare un programma “da” donne. Altrimenti temo che facciano perdere credibilità al nostro sesso. Vedo molte donne che vogliono diventare uomini, per entrare in politica. Ho paura che le donne stiano lentamente omologandosi. Il totalitarismo più sottile, oggi, è l’omologazione. E se perdiamo l’ultima carta della differenza sessuale, da dove rifonderemo la democrazia? Io vedo fondamentalismi, denaro, violenza. Per la democrazia abbiamo bisogno di differenze. Puntare solo sull’uguaglianza è sbagliato. È molto impegnativo costruire una cultura rispettosa delle differenze, partendo dalla differenza tra noi, perché questo richiede una rivoluzione nel nostro modo di pensare. Tuttavia è necessario farlo oggi: è la vita stessa che è a rischio, in particolare perché ci manca la possibilità di sperare in un futuro. Bisogna riaffidare a ciascuno e ciascuna il compito di costruire un futuro possibile per l’umanità».
E un programma politico da donne in cosa dovrebbe consistere?
«Io penso che il mio modo di pensare e di parlare siano fedeli alla mia appartenenza al sesso femminile, sono basati sulla mia esperienza di donna. Dopo aver lavorato per anni sulla sessuazione del discorso ho capito che, in modo più colto, sono fedele alla ragazza che sono stata: privilegio, cioè, il dialogo fra soggetti, fra due soggetti differenti, senza considerare genealogie o gerarchie, e preferisco il presente e il futuro al passato. Fare una politica “da”, “di” donna esige per prima cosa di cambiare il modo tradizionale di parlare,per esprimersi come donna pur rispettando la differenza dell’altro. Significa entrare in un’altra logica, in cui la relazione con l’altro, nella sua singolarità, prevale sulla relazione con l’oggetto, con il denaro. Ciò richiede di scoprire e utilizzare un linguaggio che rimane sensibile, toccante, senza cancellare però i limiti delle rispettive identità o mondi. Bisogna curare l’aspetto creativo, performartivo della parola».
È anche da qui che passa la «via dell’amore»?
«In effetti una politica “di” donne potrebbe corrispondere a una saggezza dell’amore. È una saggezza che le donne devono acquistare e coltivare, sia a livello pubblico che privato. Ovviamente essa non può limitarsi a imporre nella vita pubblica le sole cose consentite alle donne nella nostra tradizione: sentimenti più o meno infelici e rivendicativi. Importa che scopriamo, invece, una libertà positiva e non solo negativa, cioè non l’essere libere malgrado o contro gli uomini, ma esserlo per noi stesse e per un’opera che corrisponda al nostro essere. È un peccato che le donne spendano tuttora la loro energia nel litigare con gli uomini o nel diventare uomini. Non sarebbe meglio affermare i propri valori ed elaborare una nuova cultura, una cultura che cerchi di dialogare con l’altro, con tutte le forme di altri?».

l’Unità 17.6.08
Legge 40, tra coscienza e incoerenza
di Maria Antonietta Farina Coscioni


Non ho alcuna intenzione di polemizzare con la mia collega Paola Binetti: non ha firmato, dice, la mozione di centotrenta parlamentari della maggioranza e dell’Udc per chiedere di ritirare le linee guida alla legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita emanate dall’ex ministro della Salute Livia Turco; però si dice «disposta a sostenerla in Aula». È un suo diritto di parlamentare, ed esercita secondo la sua coscienza le sue prerogative costituzionalmente garantite. Però posso incidentalmente annotare un filo di incoerenza? Da una parte Paola Binetti rivendica ogni volta che crede il primato del suo “sentire” e della sua coscienza sulle posizioni del gruppo politico cui ha aderito; dall’altra - come ha fatto l’altro giorno - rimprovera a noi radicali eletti nel Pd di aver presentato progetti di legge e di cercare di rappresentare posizioni note che fanno parte della nostra storia, del nostro Dna. L’indipendenza e la libertà di coscienza vale se ci si chiama Binetti, vale meno se, per esempio, ci si chiama Farina Coscioni?
Per entrare nel merito della questione: la mozione del centro-destra chiede che il governo intervenga su un provvedimento che viene definito «contestabile nel merito e nel metodo», e che rischierebbe di promuovere «una inaccettabile cultura eugenetica», in quanto scardinerebbe i principi della legge 40 «travisando l’intento terapeutico che essa tentava faticosamente di conservare».
È bene, visto che si usano certe espressioni forti (e infondate) cercare di fare un po’ di chiarezza. Cominciamo allora col dire che l’emanazione delle linee guida ha posto la parola fine a una situazione di mancato rispetto della legge; si tratta di un provvedimento che costituisce un passo in avanti verso la scelta autonoma e responsabile della donna, pur nei margini - angusti - previsti dalla legge 40. L’aver eliminato per esempio il divieto di analisi reimpianto che non sia limitata all’analisi osservazionale, altro non fa che recepire le sentenze della magistratura da una parte; dall’altra fornisce un quadro di maggiori garanzie per i portatori di malattie genetiche trasmissibili. Come si fa a definire tutto questo “cultura eugenetica”?
Più che intervenire per peggiorare una situazione già difficile per le coppie che intendono accedere alla fecondazione assistita, come di fatto suggerisce la mozione del centro-destra, penso che si debba operare perché le possibilità aperte con le linee-guida siano aperte anche a pazienti non sterili e non solo chi è infetto da Hiv o epatite.
Le precedenti linee-guida erano scadute nell’agosto 2007. Con Marco Cappato e numerosi militanti e dirigenti dell’Associazione Luca Coscioni, abbiamo, con l’azione della “lotta nonviolenta”, con uno sciopero della fame di “dialogo” chiesto che venisse presa una decisione, quale essa fosse, per uscire dall’illegalità in cui si era precipitati. Alla fine, anche a costo di ruvidezze e incomprensioni con Livia Turco - ministro del governo Prodi di cui eravamo gli “ultimi giapponesi” - l’obiettivo è stato conseguito.
Immediatamente, e sapientemente alimentate da oltretevere, l’essere usciti da questo stato di illegalità è stato salutato da una quantità di polemiche, attacchi e condanne; attacchi culminati con l’iniziativa parlamentare del centro-destra. Non solo cercheremo di contrastare questa posizione, ma opereremo perché siano ulteriormente ampliati i margini, strettissimi, lasciati dalla legge 40, convinti come siamo che la modifica profonda e radicale della legge costituisca la condizione indispensabile: aperti al confronto e al dialogo con tutti, senza scomuniche, condanne, anatemi.
In questo siamo confortati dall’importante, significativa, presa di posizione del professor Giuseppe Testa, dell’Istituto europeo di oncologia, che su TuttoScienze de la Stampa invita a evitare «interventi legislativi che ostacolino l’intero ambito della ricerca. I divieti ad ampio spettro svuotano di senso lo stesso strumento giuridico. Altra cosa è invece un attento regime di regolazione, che indirizzi l’evoluzione sia della scienza sia della società, oltre alle nostre concezioni dell’esser genitori». Meglio non si potrebbe dire.
Deputata radicale nel Pd
ma.farinacoscioni@radicali.it

Corriere della Sera 17.6.08
Dietro le quinte «Io e il Pd? Sono un simpatizzante»
D'Alema in campo: allontaniamo da noi i sospetti di un inciucio

di Maria Teresa Meli

La cautela del segretario
Veltroni e la fondazione dell'ex ministro: vorrei capire di che cosa si tratta veramente e quali sono i suoi reali scopi

ROMA — «Dobbiamo fare di tutto per evitare di dare l'impressione che stiamo inciuciando con Silvio Berlusconi anche perché non sarebbe possibile farlo, come non è possibile farsi dettare l'agenda dal governo»: è con questa frase che negli ultimi giorni Massimo D'Alema accoglie compagni di partito ed ex alleati del centrosinistra che vanno a parlare con lui.
E sicuramente l'eco di quelle parole sarà giunta anche a Walter Veltroni, mentre sul tavolo gli arrivavano i sondaggi riservati assai meno rassicuranti di quelli pubblici. L'uscita di ieri che lascia presagire la rottura del dialogo con la maggioranza non è stata quindi estemporanea: il segretario l'ha preparata anche in vista di un'assemblea costituente che rischiava di trasformarsi in un passaggio più che difficile per Veltroni. Il leader del Pd è sempre molto attento alle mosse di D'Alema, ma in questi ultimi tempi lo è ancora di più. Di recente si è anche lamentato del fatto che sia nata un'associazione di parlamentari vicini a Italianieuropei presieduta da Paolo De Castro, un personaggio a metà tra D'Alema e Prodi: «Vorrei capire di che cosa si tratta e quali sono i suoi reali scopi».
Eppure D'Alema non sembra intenzionato a tuffarsi nelle beghe di partito. Non per ora almeno. Tant'è vero che in questo periodo, scherzando, l'ex titolare della Farnesina si autodefinisce «un simpatizzante del Pd», come a marcare le distanze e a lasciare intendere che lui non ha intenzione alcuna di organizzare l'ennesima corrente. Piuttosto, D'Alema, con le iniziative della «sua» Fondazione sembra voler disegnare la fisionomia di un altro partito, del Pd che vorrebbe, per intendersi. Diverso da quello di Veltroni, indubbiamente, ma non significa che la guerra interna cominci adesso.
La dimostrazione che D'Alema non intenda andare allo scontro diretto, Veltroni in realtà l'ha avuta anche ieri, nella riunione del caminetto del partito. In quel consesso si è parlato per ben quattro ore e mezzo della collocazione europea del Pd. L'ex ministro degli Esteri ha dato una mano al segretario per venir fuori da quell'ingarbugliata questione. Fino al punto di proporre che i Ds, che attualmente aderiscono all'Internazionale socialista, ne escano, mentre il Pd vi entri ma come osservatore esterno, alla stregua del Partito Democratico americano e del Partito del Congresso indiano. Un modo per respingere l'offensiva rutelliana e per rassicurare gli ex popolari, un'ipotesi non da poco, visto che Piero Fassino, nella riunione, si è alterato: «Andiamoci piano con queste cose!».
Ma la diffidenza nei confronti di D'Alema resta tutta. Ed è inutile che l'ex titolare della Farnesina dica: «Spero che Walter capisca che quel che faccio con la Fondazione è utile al Pd». Infatti è con sospetto che i veltroniani guardano al seminario di oggi sulle politiche istituzionali, promosso da D'Alema, guest star Casini. Quel che temono è che da lì D'Alema faccia trapelare la sua posizione sulla riforma elettorale delle europee: no a uno sbarramento che renda la vita impossibile all'Udc e a Rifondazione. Anche per questa ragione Veltroni, ieri, ha tenuto a precisare di essere favorevole a una soglia del 3 per cento e non del 5, come chiesto da Berlusconi. Anche se non ha specificato se vuole trattare anche sul restringimento dei collegi elettorali, il che produrrebbe di fatto uno sbarramento più alto del 3 per cento: un'ipotesi, questa, invisa sia al Prc che all'Udc.
Insomma, Veltroni, tanto più dopo l'ecatombe siciliana è perennemente sul chi vive e non poteva non esserlo anche sul fronte «dialogo sì, dialogo no», tanto più che Berlusconi non gli sta ancora offrendo la sponda della riforma elettorale. Ed è perciò, per prevenire possibili dissensi o offensive dalemiane, che ha irrigidito la linea del Pd. Ma i suoi continuano a dirgli che non basta, che l'unico modo per salvarsi è andare al congresso anticipato. Però gli ex ppi, con cui Veltroni ha fatto asse, non vogliono le assise. E il segretario rischia di restare in mezzo al guado...

Corriere della Sera 17.6.08
Sd «Riconoscere che la destra è egemonica nel Paese»
Fava: subito un'autocritica L'autosufficienza fa danni
di G. Fre.


Due mesi fa abbiamo fatto i funerali alla sinistra, difficile ricostruire in poche settimane

ROMA — «Lo Tsunami». Così lo chiama, mentre ancora si stanno contando le schede. Atteso, naturalmente, perché nessuno nel campo del centrosinistra si era fatto illusioni. Ma qualche speranza di non finire del tutto spazzati via, sì, c'era ancora ieri mattina. Claudio Fava, che ha raccolto il testimone di Fabio Mussi alla guida della Sinistra democratica, parla di «un'onda breve delle elezioni di aprile»: «Non ci sono state idee da mettere al servizio del centrosinistra e del Paese dopo la sconfitta delle Politiche. È difficile dopo che si è andati separati alle urne, spiegando i pregi dello strappo, ricucire e ricostruire un'idea di governo in poche settimane».
E infatti, il centrosinistra si è presentato «a geometria variabile». Ma nondimeno, ha perso ovunque e male.
«Due mesi fa abbiamo fatto il funerale alla sinistra, non è che si può ricostruirla così in fretta. È ovvio che gli elettori salgano sul carro dei vincitori ».
Da dove comincerebbe?
«Dal superamento del mito malato dell'autosufficienza del centro e della sinistra, dalla ricostruzione delle ragioni dell'alternativa, prendendo atto che la destra è cultura egemonica nel Paese».
Di solito la sinistra riesce a esprimere candidati migliori sul territorio, questa volta non è successo?
«No, alcuni candidati del centrosinistra sono molto dignitosi, è un problema politico, bisognerebbe avere la forza e il coraggio di fare autocritica ».
Lo dice al suo partito o a Veltroni?
«Lo dico al Pd, che è distratto da altre esigenze in questo momento. L'autocritica per loro è un tabù. Hanno scelto di esorcizzare la sconfitta, di non parlarne. Ne sussurrano solo quando serve per contarsi».
E in casa sua?
«Noi essendo fuori dal Parlamento, almeno possiamo fare un'autocritica più severa».

Corriere della Sera 17.6.08
Omosessuali per natura o per scelta? Una risposta da Stoccolma
Studiato il «cervello gay» È simile a quello delle donne
di Adriana Bazzi


MILANO — Dopo il gene gay, ecco il cervello omosex: gli uomini omosessuali condividono con le donne etero caratteristiche cerebrali simili. Stesso discorso per le lesbiche: i loro due emisferi assomigliano più a quelli di un uomo che di una donna etero.
E si riapre così il dibattito fra chi sostiene che l'omosessualità è una questione puramente biologica e chi invece la interpreta come il prodotto di un condizionamento ambientale.
La nuova ricerca, appena pubblicata sulla rivista scientifica Pnas,
parla in generale di forma del cervello e, in particolare, di una sua zona, l'amigdala, legata alle emozioni e all'umore.
Così, secondo un gruppo di ricercatori svedesi dello Stockholm Brain Institute, il cervello delle donne omosessuali e degli uomini etero è leggermente asimmetrico, con l'emisfero di destra lievemente più largo di quello di sinistra, mentre il cervello di uomini omosessuali e donne etero non lo è.
Non contenti, poi, di aver sottoposto 90 volontari alla risonanza magnetica per ottenere questi risultati (l' esame permette di «fotografare » con estrema precisione un organo), Ivanka Savic e Per Lindstrom hanno pensato anche di ricorrere alla Pet (la tomografia a emissione di positroni che invece consente di vedere il funzionamento di un organo) per valutare l'amigdala, una piccola zona del cervello che è coinvolta nelle reazioni allo stress. E hanno dimostrato che gay e donne etero condividono lo stesso tipo di organizzazione dei collegamenti fra neuroni, così come lesbiche e uomini etero ne condividono altri, il che potrebbe spiegare come i gay siano emotivamente più simili alle donne.
Se però queste differenze siano responsabili dell'orientamento sessuale o ne siano la conseguenza è ancora tutto da verificare. E le numerose ricerche condotte fino a oggi non sono mai riuscite a dimostrare definitivamente una vera diversità biologica fra omosessuali ed eterosessuali.
Nel 1993 aveva fatto scalpore uno studio pubblicato su una rivista di tutto rispetto, l'americana Science, a firma di Dean Hamer, secondo il quale esisteva un gene dell'omosessualità, ma nessuno lo ha poi confermato. Due anni prima un altro ricercatore, Simon LeVay ( che ha poi scritto il libro «Sexual brain», il cervello sessuale) aveva sostenuto che gay e donne presentavano una certa area del cervello più piccola rispetto agli uomini etero e aveva scatenato polemiche a non finire.
Oggi la maggior parte degli scienziati pensa che alla base di molti comportamenti umani (compreso quello sessuale) esista un fattore biologico (forse anche genetico), sul quale poi interviene l'ambiente sia fisico, che culturale.
Gli stessi ricercatori svedesi si chiedono se le differenze fra i due emisferi cerebrali abbiano origine già nell'utero o si sviluppino poi dopo la nascita e alla fine concludono che probabilmente l'ambiente uterino prima e l'ambiente in cui poi vive il bambino abbiano entrambi la loro influenza. Del resto c'è anche chi ha ipotizzato che i gay raramente sono figli unici, ma più spesso sono secondogeniti (per questi ultimi la probabilità di essere omosessuali è del 30 per cento) o terzogeniti (in questo caso la probabilità aumenta ancora): sarebbe lo stesso organismo materno a «difendersi» contro i maschi, creando condizioni «femminilizzanti».

Causa o effetto Il nodo resta
Sono anni che si studiano i diversi tipi di omosessuali per capire se le loro inclinazioni sono il risultato di un'impostazione biologica naturale, congenita o acquisita in un periodo molto precoce dell'esistenza, o di una libera scelta di vita. Le implicazioni di questa analisi dovrebbero apparire abbastanza evidenti, sempre che l'opinione pubblica sia disposta a prestare fede alle parole della scienza. È anche evidente che un posto ideale nel quale andare a cercare qualcosa di diverso fra individui del genere è il cervello, la centralina di comando di tutto il nostro essere. Prima ancora di comparare i cervelli di individui omosessuali e non, si è ovviamente cercato di caratterizzare quelli dei maschi e quelli delle donne per paragonarli. Fino a questo momento si è concluso abbastanza poco anche su questo piano, malgrado le perentorie asserzioni che si possono trovare a vario titolo sulla carta stampata. Certo qualche differenza fra uomini e donne è stata trovate: le donne sono più brave con il linguaggio e i maschi con il trattamento delle figure nello spazio.
Una cosa è certa: i disturbi del linguaggio sono più frequenti e più gravi nei maschi che nelle femmine.
Questo fatto è stato interpretato come un generico maggior grado di simmetria del cervello femminile. I risultati dello studio di Stoccolma sembrano andare in questa direzione e sembrano quindi abbastanza promettenti. Quello che aggiungono di nuovo è che anche il cervello dei maschi omosessuali sarebbe più simmetrico di quello dei maschi eterosessuali. Sarà vera gloria? Difficile dirlo al momento; e rimane soprattutto aperto l'interrogativo se le differenze osservate, anche se confermate, debbano considerarsi una causa o un effetto dello stile di vita praticato. E non è certo una questione da poco.

Repubblica 17.6.08
"Guai a farci schiacciare su tentazioni girotondine"
Walter teme il processo interno "Dall´assemblea voto di fiducia"
E contro la fronda la carta del congresso anticipato
di Goffredo De Marchis


Fassino nel fronte di chi preferisce le assise nel 2008 per decidere dove stare in Europa
Latorre: il dialogo era diventato un totem ideologico, e non aveva nulla di concreto

ROMA - «Non dobbiamo farci schiacciare su tentazioni girotondine. Ma a queste condizioni il dialogo si chiude qui». Walter Veltroni non può che prendere atto dell´escalation che viene dal fronte berlusconiano. «Il confronto sulle riforme l´ho sempre cercato nell´interesse del Paese, mica per fare un piacere al Cavaliere. E continuerò a farlo, ma solo se arrivano segnali nuovi dal governo». Il pericolo adesso è che un altro cardine della linea politica del segretario del Pd venga messo sotto accusa all´assemblea di venerdì e sabato. Ma lui è deciso a difendersi. Su questo e su gli altri mille fronti aperti dopo la sconfitta elettorale. Tenendosi sempre buona la carta del congresso anticipato in cui far uscire allo scoperto i nemici interni. Ma cominciando dalla relazione di apertura in cui fisserà i paletti chiedendo in sostanza quello che alla sede del Partito democratico chiamano «un voto di fiducia».
In queste ore si sono fermati tutti i canali tra il Pd e il Pdl. Compreso il principale, quello che lega Veltroni e Gianni Letta, sottosegretario a Palazzo Chigi. Bloccato il dialogo sulle norme antiframmentazione, sulla legge delle Europee, sui regolamenti parlamentari e sulla nuova formula per la sessione di bilancio alla quale stava lavorando Enrico Morando. Dice Salvatore Vassallo, uno dei delegati alle riforme del Pd: «La linea del dialogo continua ad essere giusta, ma è evidente che così non si va avanti. Quello che è successo sul lodo Schifani è gravissimo. Per noi e immagino per il presidente Napolitano». Fioccano adesso i protagonisti dell´«io l´avevo detto». Da Arturo Parisi a Rosy Bindi. Al dalemiano Nicola Latorre che argomenta così la sua bocciatura della condotta veltroniana: «Questa storia del dialogo era diventata una sorta ideologia - dice a Otto e mezzo - . Quasi un totem. A me non è mai piaciuta. Anche perché non si è mai trasformata in qualcosa di concreto». Insomma, bisogna parlare con chi ha le orecchie per sentire, non con chi è sempre uguale a se stesso. Come farà oggi Massimo D´Alema nel seminario di Italianieuropei sulle riforme dove l´invitato principale è Pier Ferdinando Casini.
C´è dunque il problema di linea politica evocato da Veltroni in queste settimane per chiedere un vero confronto interno. L´occasione più adeguata perché le differenze vengano allo scoperto è l´assemblea nazionale. Ma Beppe Fioroni, capo dell´organizzazione del Pd, avverte i pasdaran veltroniani: «Il congresso si fa quando ci sono gli iscritti al partito, basta leggere lo statuto. Siccome gli iscritti non ci sono, le assise si celebreranno nell´autunno del 2009». Esiste un fronte che non vuole mettere in discussione la segreteria adesso. Ma Veltroni vuole a tutti i costi evitare «l´unanimismo di facciata». Dice Paolo Gentiloni, rutelliano: «Il segretario sul dialogo è stato coerente. Ha cercato tutte le chance possibili. Ma se le riforme diventano il paravento del governo per fare delle norme ad personam, il paravento lo dobbiamo far saltare».
Il Berlusconi che getta la maschera diventa un nuovo ostacolo sulla strada di Veltroni. Si aggiunge alle correnti che proliferano, alle critiche sulla sconfitta negata e alla questione delle collocazione internazionale che ieri è esplosa in un "caminetto" convocata dal segretario. C´è l´accordo di massima per una federazione degli eletti del Pd con i socialisti nel prossimo europarlamento. E il Partito democratico non si iscriverà né all´Internazionale socialista né a quella liberale. Ma Rutelli, Parisi, Castagnetti frenano sull´avvicinamento al Pse. Questo complica tutto, rende questa vicenda simbolica potenzialmente distruttiva, rischiera il partito in una divisione tra Ds e Margherita. E a chiedere un congresso anticipato su questo punto adesso c´è anche Piero Fassino.

Repubblica 17.6.08
Rita Borsellino: "L´elettorato non si riconosce più nei partiti"
"Ormai prevale la sfiducia la sinistra rinuncia alle urne"


ROMA - «Alla gente qui non interessa più nulla, prevale la sfiducia, la consapevolezza che poco o nulla potrà cambiare fin quando i partiti resteranno così distanti, incapaci di ascoltare e dialogare. E la ribellione ormai si esprime così, col non voto». Rita Borsellino è stata l´ultima candidata di sinistra alla Regione siciliana a riportare un risultato dignitoso: 43% contro Cuffaro, due anni fa. Dopo di lei, che il 3 luglio tornerà alla politica attiva con l´associazione "Un´altra storia", il diluvio.
Percentuali che superano in qualche caso l´80%, otto province su otto al Cdl. Che lettura dare di questa debacle?
«La più inquietante è che c´è tutto un elettorato di centrosinistra talmente sfiduciato da rinunciare al voto. Dobbiamo capirne le ragioni e invertire il trend. Altrimenti è la fine».
Perché accade, secondo lei?
«Molto semplicemente perché non si riconosce nei partiti, in questi partiti di opposizione. Nei suoi uomini, spesso calati dall´alto. Ci sarà un perché se il Pd schiera una delle sue perdine di punta come la Finocchiaro alle regionali e raccoglie quel risultato (30%-ndr). L´attenuante è la poca esperienza e lo scarso radicamento di Pd e Sinistra arcobaleno, il loro sbandamento».
Non sarà che il centrosinistra non ha saputo esprimere il nuovo nelle candidature?
«Il paradigma sta tutto nel caso Catania. Nella città "nera" per eccellenza, dove il Pdl di Scapagnini ha lasciato macerie, tra dissesto finanziario e disastri amministrativi, il centrosinistra è stato capace di presentarsi con quattro candidature. Straperdendo. Una pura follia. Voglia di autodistruzione».
È ancora possibile ripartire? Come?
«Con molta umiltà, dal basso. Bisogna tornare a parlare con la gente. O rendiamo i siciliani partecipi del cambiamento o gli elettori a noi più vicini rinunceranno perfino a esercitare il diritto di voto».
(c. l.)

Repubblica 17.6.08
L’alto commissario Onu, Boldrini: difficile comprendere il ritmo dei viaggi
Quel cimitero nel canale di Sicilia "Diecimila annegati in dieci anni"
Ogni 100 arrivi, 5 vittime. E l´accordo con Gheddafi non funziona
di Giovanni Maria Bellu


Nel 2003 si parlava di pattugliamenti congiunti. Poi il leader libico ci ripensò
Ma la fretta di giungere in Italia prima che scatti la tolleranza zero non spiega tutto

Quella di ieri non è "l´ultima strage". La verità è che "l´ultima strage" non esiste. Ogni tanto accade che muoiano più persone tutte assieme. Ma la morte nel Mediterraneo è un fatto quotidiano, di routine. L´ennesimo SOS è arrivato poche ore fa agli uffici dell´Acnur, l´Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati.
C´era una barca in difficoltà in qualche punto del Mediterraneo. Uno dei passeggeri, un somalo, ha telefonato a un parente residente in Italia. E il parente ha chiamato l´Alto commissariato che, come sempre, ha girato la segnalazione alle autorità marittime. «Succede molto spesso», dice la portavoce Laura Boldrini.
Se si aggiungono le segnalazioni che arrivano direttamente alle Capitanerie di porto - anche i "clandestini", infatti, hanno i satellitari e un´agenda coi numeri di emergenza - si comprende perché gli addetti ai lavori non sono rimasti affatto sorpresi.
Quanto è accaduto il 7 giugno scorso ai 150 partiti dal porto libico di Zuwarah, nel dicembre del 1996 era successo ai 283 indiani, pakistani e tamil dello Sri Lanka annegati davanti a Portopalo di Capo Passero; il 19 marzo era capitato a una quarantina dei 380 tunisini che si erano imbarcati a Zawia e che, dopo nove ore di navigazione verso l´Italia, si sono trovati in difficoltà, hanno invertito la rotta, sono tornati in prossimità della costa e sono stati accolti a fucilate dalla polizia di Gheddafi.
Le stime più prudenti parlano di diecimila morti annegati negli ultimi dieci anni sulle rotte tra l´Africa e le nostre coste meridionali. Se si considera che ogni anno arrivano via mare circa ventimila migranti, si ha un´idea di quanto sia alta la possibilità di morire nel mare nostrum: per ogni cento "clandestini" che arrivano, cinque annegano. E si ha anche qualche indicazione sull´efficacia dell´inasprimento delle pene, dell´istituzione del reato di immigrazione clandestina, del prolungamento del periodo di permanenza nei centri di detenzione. Si tratta di sanzioni tutto sommato blande davanti alla pena capitale che il Mediterraneo commina tutti i giorni senza processo, con i criteri delle decimazioni naziste, colpendo indiscriminatamente donne e bambini.
Per questo gli addetti ai lavori sono scettici rispetto all´ipotesi che attribuisce l´aumento delle tragedie del mare alla fretta. La fretta di raggiungere l´Italia prima che la nuova legislazione della cosiddetta "tolleranza zero" entri pienamente in vigore. Quanto sta accadendo in questi giorni non è diverso da quanto è accaduto negli ultimi anni. L´immagine dei disperati che si erano salvati la vita aggrappandosi alla gabbia per la pesca dei tonni - gli "uomini tonno", come furono chiamati - è apparsa in tutti i giornali del mondo un anno fa. Ha avuto molta meno risonanza una vicenda identica accaduto alla fine del mese scorso. Eppure c´era una novità importante: le "donne tonno". E sabato scorso si è stati sul punto di avere anche i "bambini-tonno" somali. Purtroppo non ce l´hanno fatta. Sono annegati a largo della Valletta sotto gli occhi dei loro genitori.
«E´ molto difficile - dice Laura Boldrini - individuare delle cause specifiche che spieghino l´andamento delle partenze e degli sbarchi. L´esperienza ci ha insegnato che nemmeno il criterio meteorologico aiuta a capire. A volte c´è tempo bello e le partenze sono contenute. A volte le condizioni del mare sono cattive e gli sbarchi aumentano».
Tuttavia cinque anni fa si ebbe l´impressione di aver individuato almeno una delle cause del fenomeno. Nel 2003, a giugno, il pure allora premier Berlusconi cominciò a parlare di un accordo tra l´Italia e il governo libico. Prevedeva la realizzazione di pattugliamenti congiunti e, soprattutto, la fornitura di una serie di materiali: gommoni, visori notturni, jeep e anche un migliaio di body bag, sacchi per cadaveri. Di colpo, tra il 20 e il 30 giugno, gli sbarchi s´interruppero. Salvo poi riprendere a luglio, poco prima di una visita a Tripoli del ministro dell´Interno dell´epoca, Giuseppe Pisanu. La trattativa era ripartita e Gheddafi aveva alzato la posta.
Da allora i rapporti con la Libia sono diventati sempre più intensi. Uno degli ultimi atti del governo Prodi è stato il finanziamento, con sei milioni e 243mila euro, di un nuovo patto, siglato il 29 dicembre del 2007, "per fronteggiare il fenomeno dell´immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani".
Salvo qualche sporadica partenza dalla Tunisia e, per la nuova rotta che porta alla coste meridionali della Sardegna, dall´Algeria, i boat people partono dalla terra di Gheddafi. I trafficanti di esseri umani agiscono là. E hanno a disposizione una quantità immensa di materia prima: gli stranieri, per la stragrande maggioranza africani neri provenienti dal Sudan, dal Ciad, dal Niger e dal Corno d´Africa, oltre che dall´Egitto, sono oltre due milioni. Dopo averli accolti negli anni Novanta in nome della "solidarietà panafricana" Gheddafi ha cominciato a respingerli nel deserto da dove erano venuti, con percentuali di mortalità non diverse da quelle del Mediterraneo. Ma la massa dei disperati è ancora là ed è disposta a tutto pur di raggiungere l´Europa. Ne avrebbe qualche diritto. Secondo i dati dell´Alto commissariato, a un quinto dei migranti che giungono in Italia via mare vengono riconosciuti l´asilo politico o la protezione umanitaria. Cioè non sono "clandestini". Ma questo lo si scopre nel momento in cui arrivano. Quando i più fortunati possono raccontare la loro storia.

Repubblica 17.6.08
Il mondo gay giudica la ricerca. Paola Concia (Pd): "Irrilevante un campione di 90 persone". Mancuso: si dimostra che non è contro natura
"È una stupidaggine". E gli omosex si dividono
È un pò come dire che si nasce malati. Invece si tratta di una condizione legata al desiderio sessuale
di Paola Coppola


ROMA - «Ben felice di avere un cervello uguale a quello di una donna etero». Aurelio Mancuso scherza e confessa: «Mi fa sorridere tutto questo concentrarsi a spiegare le ragioni dell´omosessualità». Il presidente nazionale dell´Arcigay però vuole leggere lo studio pubblicato su Pnas in chiave positiva, «perché viene da Stoccolma e non da Roma», dice. Quindi, commenta: «Dimostrare che l´omosessualità deriva da differenze neurobiologiche innate forse servirà a far mettere l´anima in pace a qualcuno, perché significa dimostrare che anche l´omosessualità è in natura e non contro natura».
Stroncatura dalla deputata del Pd e militante del movimento dei diritti dei gay, Anna Paola Concia: «È una stupidaggine, un campione di 90 persone non dimostra nulla». Sulle differenze neurobiologiche individuate: «Non credo che l´omosessualità sia innata. L´orientamento sessuale è reversibile e nella vita può cambiare». E ancora: «Ha più a che fare con il desiderio: certo, dal punto di vista sociale, tranquillizza pensare che uno nasce gay, un po´ come dire: "È nato malato", più difficile incardinare il desiderio sessuale».
Ride di quello che chiama «un accanimento a trovare una spiegazione scientifica dell´omosessualità», la presidente nazionale di Arci Lesbica, Francesca Polo: «Bella scoperta», dice, «mi ricorda quando hanno misurato le dita per vedere quanto erano lunghe quelle dei gay». E chiede: «I finanziamenti per le ricerche non potrebbero essere usati in modo più intelligente? Infine sui risultati: «Non mi cambia nulla sapere che ho il cervello più simile a quello di un uomo etero, semmai preferirei avere gli stessi soldi di un maschio bianco etero. Né questa scoperta cambia il quadro in termini di rivendicazione di diritti e lotta alla discriminazione».

Repubblica 17.6.08
I bimbi italiani strappati alla Somalia
"Voglio scuse per chi si è suicidato. Per chi è depresso. Per mia madre e per i nostri figli"
di Francesca Caferri


Le cronache del tempo raccontano che negli anni dell´Afis - fra il 1950 e il ‘60 - le relazioni miste erano una questione ben nota alle autorità italiane: «Non esagero dicendo che la maggior parte ha la madama, qualcuno anche sposato», scriveva nel 1951 riferendosi agli italiani di Somalia l´arcivescovo di Mogadiscio, Venanzio Filippini. Da quelle relazioni nacquero centinaia - almeno 600 secondo i documenti dell´epoca - di bambini, tutti con un destino segnato: «I funzionari italiani arrivavano dalle nostre madri quando noi avevamo uno, due anni - racconta Gianni Mari, presidente dell´associazione italo-somali - il discorso era sempre lo stesso: il bimbo avrebbe avuto un destino migliore con gli italiani. Promettevano un´educazione, un lavoro futuro, cibo tutti i giorni. E le nostre madri, giovani e allontanate dalle comunità per aver avuto una storia con uno straniero, dicevano sì». Così la maggior parte dei bambini figli di coppie miste finì nei collegi cattolici della Somalia, dove venivano battezzati ed educati secondo i programmi scolastici di Roma: «Dovevamo parlare solo italiano, dimenticare la lingua delle nostre madri e il loro paese. Non c´era nulla a ricordarci l´altra metà di noi. La nostra parte somala doveva semplicemente sparire», ricorda ancora Mari. Nel corso degli anni le madri diventavano fantasmi lontani mentre i padri spesso non erano mai esistiti.
La storia andò avanti così fino alla fine del mandato italiano in Somalia: di lì in poi si pose il problema di rimpatriare i minori, ormai sradicati nel loro stesso paese. «Arrivammo in Italia. Soli. Qui scoprimmo che non eravamo neanche italiani: la maggior parte di noi era apolide, perché senza riconoscimento paterno non c´era nazionalità. Eravamo malvisti nei collegi religiosi, perché considerati bastardi e in più di pelle scura. Subimmo insulti razziali, violenze, soprusi, pedofilia. Chi di noi ne è uscito è una persona forte. Ma molti non ce l´hanno fatta: si sono suicidati o sono in preda alla depressione», conclude Mari.
Oggi, a distanza di quasi 60 anni, lo Stato è pronto ad ammettere per la prima volta la propria responsabilità per le sofferenze della signora Lucia, del signor Mari e di centinaia di bambini come loro. Lo fa con l´ufficialità di un disegno di legge firmato dal Viminale: un risultato importante paragonato ai decenni di silenzio. Un risultato che però non basta a molti dei protagonisti di questa storia. «Pretendo che ci si chieda scusa», dice Antonio Murat, 59 anni. Il signor Murat è uno dei pochi "fortunati" che alla nascita fu riconosciuto dal padre e porta il suo cognome. «Mi portarono in collegio in Somalia che avevo 3 o 4 anni - racconta - mio padre mi riconobbe, ma non fu mai presente. Venni in Italia da solo, quando diventai maggiorenne, e poco dopo mia madre morì, senza che l´avessi rivista. Dei soldi non mi importa nulla, ma qualcuno deve chiedere scusa a me e a lei per averci divisi». La voce di Antonio si incrina, dal portafoglio tira fuori una vecchia foto in bianco e nero: è la mamma, giovanissima e bellissima. «Io invece voglio tutto, voglio anche i soldi - interrompe Mauro Caruso - e di una pensione minima Inps, come quella che prevede la legge (500 euro circa, ndr) non so cosa farmene». Il signor Caruso si presenta come «un italiano con la pelle di pigmentazione scura». In lui, il dolore che in Muras è sfociato in malinconia si trasforma in rabbia: a differenza di molti altri italiani, suo padre non fece mancare nulla alla compagna somala e ai quattro figli avuti da lei. Compresa la cittadinanza italiana. Ma un giorno morì e alla porta suonarono i funzionari di Roma: il fratello e le sorelle di Mauro furono portati in Italia. Lui, che aveva un anno, rimase con la madre fino al 1974 quando fu costretto a partire a suo volta. «Entrai in collegio a Roma e ne uscii a 18 anni: ero solo. Mia madre era in Somalia, i miei fratelli erano estranei di cui non ricordavo nulla. Avevo sulle spalle un carico di soprusi che avrebbe potuto trasformarmi in un killer: invece ho fatto mille lavori, ma la mia fedina penale è sempre rimasta immacolata. È l´unica cosa bianca che ho», conclude tagliente. «Erano ragazzini rifiutati sia dall´uno che dall´altro lato», ricorda Don Antonio Allais, sacerdote torinese che negli ‘70 assunse la patria potestà di decine di piccoli apolidi di origini somale e imbastì cause su cause perché fosse riconosciuta loro la cittadinanza italiana. Le vinse, regalando ai suoi protetti un´identità su cui cominciare a costruirsi una vita: «Ma un passaporto non sana le ferite: restarono degli sradicati, senza affetti e trattati male da tutti».
Negli anni, il caso degli italo-somali è rimasto a galleggiare nelle pastoie della burocrazia italiana: qualche interrogazione parlamentare negli anni ‘60, lettere degli ex bambini alla presidenza della Repubblica e al Parlamento europeo. Carte bollate, promesse e nessun fatto, fino a quando due anni fa il Comitato contro la discriminazione e l´antisemitismo del Viminale non decise di prendere in mano il loro dossier e, dopo decine di controlli e audizioni, mise a punto il disegno di legge sugli indennizzi: «Lo Stato è arrivato tardi - ammette il prefetto Mario Morcone, presidente del Comitato - speriamo con questa legge di rimediare almeno in parte alle sofferenze». La speranza del prefetto lo scorso anno è andata frustrata, perché non i due milioni di euro necessari per dare copertura finanziaria al disegno di legge non si trovarono: Morcone è pronto riprovare a settembre, quando si comincerà a discutere della prossima finanziaria.
Come tutti, la signora Lucia spera che i soldi vengano fuori, ma per lei è chiaro che questo non basterà a chiudere i conti con il passato: «Voglio delle scuse per chi ha vissuto la mia stessa storia e si è suicidato. Per chi è depresso. Per le nostre madri, stritolate da questa vicenda quando erano poco più che bambine. Per i nostri figli, che non devono vederci come dei bastardi. Un misero foglio di carta in cui si parla di soldi e non di responsabilità di certo non mi basta».

Repubblica 17.6.08
L´intervista. Angelo Del Boca, storico del colonialismo
"Mai fatti i conti con il passato"


Angelo Del Boca, storico del colonialismo, è il maggiore esperto delle relazioni fra l´Italia e le sue colonie sia negli anni del fascismo che in quelli successivi alla Seconda guerra mondiale.
Professor Del Boca, come nasce l´idea di affidare all´Italia appena uscita sconfitta dalla guerra l´amministrazione della Somalia?
«Fu l´Italia a chiederlo all´Onu. In realtà il governo aveva chiesto l´amministrazione di tutte le ex colonie, sia quelle fasciste che quelle pre-fasciste. L´Onu fece capire che non c´era speranza, avevamo perso la guerra e Stati Uniti e Gran Bretagna si opponevano. Come premio di consolazione, ci diedero la Somalia. Lì furono spediti funzionari dell´ex ministero per l´Africa, per la maggior parte fascisti di provata fede. Questo nonostante l´Italia fascista avesse lasciato un pessimo ricordo di sé: la Somalia uscì dal colonialismo depredata».
Perché furono mandati ex fascisti a governare il paese?
«Quando lo chiesi a un alto funzionario di allora mi rispose: "Si fa il fuoco con la legna che si trova". Non è certo stata una bella cosa. Non a caso, fu messa a punto una Costituzione che non era adatta per la Somalia e che fu alla base della successiva disgregazione del paese».
Come erano i rapporti fra gli italiani e i somali?
«Tesi, eravamo gli ex colonizzatori, non ci amavano».
Dunque le relazioni fra gli italiani e le donne locali non erano gradite...
«Certo che no, anche se furono numerose, soprattutto fra i militari del corpo di spedizione. Gli italiani non godevano di buona fama e in più non sposavano quasi mai le ragazze che mettevano nei guai. Per le giovani la gravidanza era motivo di vergogna e i figli non erano ben visti dalle comunità locali».
I bambini di allora denunciano di essere stati sottratti alle madri: perché avvenne?
«Immagino che fu il frutto di una pietà tipicamente cattolica. Si pensò "questi bambini non sono il frutto di amori consacrati ma non possiamo abbandonarli". Senza dubbio furono discriminati nei collegi e in Italia ma non so quanto sarebbe stato meglio in Somalia».
Perché c´è voluto tanto tempo perché questa storia diventasse pubblica e ci fosse una legge di compensazione? E perché anche ora non si chiede scusa a queste persone?
«Ci sono moltissime storie ancora sepolte negli archivi: ogni tanto escono. Non c´è un perché vero sul silenzio di questi anni. Per quanto riguarda la legge, posso dire che in Italia non c´è mai stata la volontà di fare i conti con il passato delle colonie, con gli errori di allora. Tanto meno con quello successivo».
(fr. caf.)

Repubblica 17.6.08
Cosa resta di una vocazione
una professione divisa tra scandali ed etica
di Ignazio Marino


Quando ero malato in ospedale ho iniziato a riflettere meglio sul mio mestiere
Gli ospedali pubblici stanno diventando terreno di conquista da parte della politica

«Dottore, mi affido alle sue mani». Quante volte un medico si sente dire queste parole? E quante volte dovrebbe ricordarle nel momento in cui affronta l´impegno, e la sfida, di ridare la salute ad un altro essere umano? Quante responsabilità in gesti e comportamenti che alla lunga per noi medici possono diventare abitudine. Prima di iniziare un intervento chirurgico o una terapia, ci si dovrebbe porre il problema di quante sofferenze dovrà sopportare il paziente, quanti aghi infilati nelle vene, quante sonde introdotte nel corpo, quanti effetti collaterali dovuti ai farmaci e quale peso psicologico legato al dolore della malattia e alla speranza nella cura. Purtroppo tutto questo, nella maggior parte dei casi, non fa parte delle preoccupazioni dei medici che si concentrano sui risultati da raggiungere ma forse non tengono in giusta considerazione le difficoltà del percorso. Per fare un esempio, è probabile che se un paziente ricoverato in ospedale non riesce a dormire perché spaventato e teso, il medico gli prescriverà un sonnifero, molto difficilmente si fermerà a parlare con lui per chiedergli il perché delle sue ansie e cercare di tranquillizzarlo con la sua presenza. In entrambe le situazioni alla fine il sonno arriverà ma i percorsi per raggiungere l´obiettivo sono stati molto diversi.
Io ho iniziato a riflettere più seriamente sul mio modo di fare il medico quando mi sono trovato dall´altra parte della barricata, da paziente ammalato, ricoverato in un letto di ospedale e con il medico che mi dice: la situazione è grave, dobbiamo operarti subito. Subito, ma siamo sicuri? Non possiamo ascoltare un´altra opinione prima di portarmi in sala operatoria? E se non mi risveglio più per l´anestesia? Sono domande banali ma assolutamente comprensibili ed umane. Per questo è fondamentale che ogni persona nel momento in cui si trova in difficoltà, a fare i conti con la malattia e con il dolore, abbia la certezza che il medico di fronte a lui è un professionista competente e preparato e che si può fidare. È inaccettabile, oltre che scoraggiante, avere il dubbio che quel medico abbia come suo primo interesse il denaro o che ricopra una posizione di responsabilità per appoggi politici o amicizie. Per questo sostengo che vadano introdotti nel nostro sistema sanitario criteri che valutino esclusivamente il merito e la qualità dei risultati: la politica deve cessare di gestire la sanità e lasciare che le scelte tecniche vengano fatte dai tecnici. La politica deve avere l´interesse e la passione per progettare la sanità, che è una cosa diversa dal gestire. Per questo andrebbero modificati i meccanismi di nomina delle figure apicali degli ospedali. Il metodo purtroppo comune delle indicazioni e delle segnalazioni politiche andrebbe sostituito con regole trasparenti, non aggirabili, necessarie a garantire il buon funzionamento delle strutture ospedaliere e dei servizi sanitari in genere. Punti irrinunciabili sono: una formazione specifica, una competenza documentabile e il processo di selezione reso pubblico su Internet.
Se si trattasse solo di una questione di metodo, il problema sarebbe abbastanza facile da affrontare. Ma nel nostro paese si fatica a fare passi avanti per motivi culturali profondamente radicati, che non riguardano solo la medicina ma attraversano ogni settore della società. Ed è così che veniamo riconosciuti anche all´estero: gli italiani sono dotati di grandi capacità, intuizione e generosità umana profonda, ma solo in ambito individuale o nel contesto familiare. Quando c´è da mettere il proprio talento a disposizione di un progetto più ampio, per il bene comune, la generosità viene meno per lasciare spazio a comportamenti individualistici e distaccati. È un problema di grande portata perché impedisce il generale progresso della società in termini culturali, e costituisce un limite allo sviluppo di uno Stato efficiente, solidale, dove tutto funziona meglio grazie al contributo del singolo al bene comune.
Quando parliamo di sanità questo modo di agire può diventare pericoloso perché se un medico pone i propri interessi personali davanti a quelli dei pazienti, il rischio è di arrivare ad aberrazioni estreme, a veri e propri crimini come quelli della clinica Santa Rita di Milano. Senza ricordare tanto orrore, basta pensare agli scandali di medici che timbrano il cartellino in ospedale ma passano tutta la giornata in clinica, alle truffe ai danni del Servizio Sanitario Nazionale (quante volte abbiamo sentito di rimborsi anche per cure di pazienti deceduti da tempo), alle liste d´attesa talora gonfiate per spingere i malati a rivolgersi al privato dove il medico che visita è lo stesso dell´ospedale.
A rigor del vero i medici non hanno vita facile, vivono sotto la pressione di pazienti sempre più esigenti, che non si fidano e non accettano l´inesorabilità di alcune malattie; sul versante amministrativo subiscono i controlli di manager inflessibili che interpretano il loro compito solo nel rispetto del bilancio, vincolando l´attività dei reparti al budget stabilito.
La medicina di oggi è anche un grande business di cui i medici inevitabilmente fanno parte. La logica del "più operi più guadagni" è più diffusa di quanto non si creda, all´estero ed anche in Italia; non dovrebbe essere accettata da chi lavora in sanità ma purtroppo lo è, soprattutto nel privato.
E questo è un altro tema che andrebbe affrontato con serenità. La separazione ideologica tra pubblico e privato, le divisioni tra chi accusa, generalizzando, il pubblico di essere fonte di spreco e inefficienza o chi afferma che il privato ha come unico interesse il profitto sono anacronistiche e dovrebbero essere superate da una visione che porti alla valutazione dei risultati.
Entrambi, pubblico e privato, dovrebbero avere pari dignità, assolvere agli stessi compiti nell´interesse dei malati, seguire le stesse regole ed essere sottoposti ai medesimi controlli e verifiche. Questo dovrebbe valere per le amministrazioni ma soprattutto per chi lavora a contatto con i malati. Non mi spiego, per esempio, come il governo possa aver immaginato una norma che permetta di detassare gli straordinari agli infermieri che lavorano in clinica privata ma non a quelli degli ospedali.
Purtroppo oggi assistiamo a fenomeni preoccupanti per cui gli ospedali pubblici rischiano di diventare terreno di conquista da parte della politica mentre le strutture private lavorano spesso esclusivamente nell´ottica di raccogliere quanti più rimborsi possibili dalle amministrazioni regionali. Anche per questo sarebbe importante avere nel nostro paese un sistema di valutazione che valga per tutti, basato non sulla produttività tout court ma sulla qualità delle cure, misurabile con semplici indicatori come il tasso di sopravvivenza dei pazienti, le complicanze dopo un intervento, l´incidenza delle infezioni, l´appropriatezza delle terapie rispetto alla diagnosi e via di seguito. L´introduzione di un meccanismo di questo genere non è difficile dal punto di vista del metodo ma lo è concettualmente perché pochi in Italia sono favorevoli alla verifica del proprio lavoro e difficilmente si accetta di essere valutati, ed eventualmente premiati o sanzionati, sulla base dei risultati ottenuti.
Tuttavia, sarebbe un passo avanti determinante per migliorare la qualità dell´assistenza e contribuire a fare dell´Italia un paese moderno, al passo con ciò che accade nel resto del mondo.
Io credo che l´Italia possa farlo questo passo ma serve la volontà e l´impegno da parte dei medici di riappropriarsi di un ruolo centrale nella gestione della sanità e un salto di qualità da parte della classe politica che non si occupi di occupare posizioni ma di proporre innovazioni nell´organizzazione della società e progettare il futuro.

Repubblica 17.6.08
Il termine "medico" deriverebbe dal verbo latino "medeor" che significa "rimediare". In età imperiale, la pratica della medicina è promossa a scienza vera e propria: nasce una figura professionale riconosciuta
La lunga storia delle critiche a una professione necessaria
Amati e odiati già nell´antica Roma
di Giorgio Cosmacini


Medicus, la parola e la storia: il configurarsi della parola nello svolgersi della storia, non è univoco. Medico dal latino medeor, mederi, «rimediare», ma in senso più stretto «medicare»: è una prima ipotesi, forse la più attendibile. Fin dall´antichità romana il termine si è, per così dire, specializzato, assumendo un significato terapeutico vero e proprio: «risanare, curare, aver cura».
Medico come «curante». Nella Roma repubblicana, Plauto (254 - 184 a.C.), nella commedia intitolata La corda grossa (Rudens) fa dialogare così due dei suoi personaggi: «Sei medico?». «No, non sono medico, ho una lettera in più».
«Sei dunque mendìco?». Tra mendicus e medico c´era il divario di una lettera, ma nella vita sociale del tempo non c´era una grande differenza tra i due. Il medico era un uomo che aveva come sola risorsa quella di aver cura di altri uomini, ricevendone in cambio un obolo di riconoscenza. Senza lucrare, forniva egli stesso il medicamentum. Chiunque avesse avuto bisogno del suo aiuto, poteva trovarlo, a ogni ora del giorno e della notte, nella taberna medica, una bottega a metà strada tra l´ambulatorio e il dispensario.
Però Platone, con la sapienza espressa nelle Leggi, aveva riconosciuto che nella Grecia post-ippocratica c´erano già «due specie di quelli che si chiamano medici»: i medici degli schiavi e i medici degli uomini liberi. I primi «fanno come un tiranno superbo e tosto si scostano» dallo schiavo malato. I secondi «danno informazioni allo stesso ammalato» e «non prescrivono nulla prima di aver persuaso per qualche via il paziente, preparandolo docile all´opera loro».
Torniamo alla parola, che – come si vede – è un guscio lessicale dai vari significati. Nella Roma cesarea, Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) nell´opera De lingua latina dedicata a Cicerone convalida l´ipotesi che fa derivare medicus da medeor. Però nella Roma imperiale, quando Aulo Cornelio Celso (I secolo d.C.) scrive il trattato De medicina, il termine "medico" ricorre nello scritto con relativa minor frequenza di altri vocaboli che pur riconoscono la medesima radice linguistica. In compenso chi esercita la cura è passato di grado: ora è colui che possiede la scientia medendi.
La pratica è stata promossa a scienza, il mestiere a professione. Nella bassa latinità, o nell´alto Medioevo, Isidoro di Siviglia (560-636), nella parte propriamente medica dell´opera enciclopedica intitolata Etymologiae od Origines e comprendente tutto quanto lo scibile, fa risalire l´etimologia di medicina a modus, cioè alla "giusta misura" che deve guidare chi la professa. «Per questo» scrive Isidoro, «la medicina è chiamata seconda filosofia, poiché entrambe le discipline sono complementari all´uomo». In tal senso si può ribadire ciò che aveva già detto Claudio Galeno (130-200 d.C.), medico dell´imperatore Marco Aurelio e dei suoi figli: «Il migliore dei medici sia anche filosofo».
Dopo Isidoro, è il medico ebreo Mosè Maimonide (1135-1204) a far risalire il termine medicina a medietas, o "arte del giusto mezzo", lontana da difetti ed eccessi, da penuria od opulenza, ed esercitata da chi cura non solo con "giustezza", cioè con misura, ma anche con "giustizia", cioè con equità. Siamo nel basso Medioevo, quando a Salerno nasce e fiorisce la prima Scuola di medicina, i cui docenti sono chiamati magistri, "maestri salernitani". L´arte medica, professata al suo maggior livello, è un´"arte magistrale".
Peraltro, nello stesso periodo storico, i licenziati dalle neonate Università – a Bologna come a Padova, a Parigi come a Montpellier – sono detti physici piuttosto che medici, sia perché la "fisica" era la scienza della natura (ivi compresa la natura umana), sia perché era opportuna una distinzione – di ruolo, di classe, di censo – dai chirurghi, lavoratori manuali bassolocati e meno retribuiti. La distinzione era recepita dai primi regolamenti ospedalieri, in età rinascimentale. Nel 1508 il primo documento a stampa sull´ordinamento di un grande ospedale – il milanese Ospedale Maggiore – fissava la dotazione di personale medico in «quattro physici, uno per braccio de la crocera, et altri tanti chirurghi similmente distribuiti».
Facoltà e collegi, corporazioni e consuetudini fissavano i cardini di una tradizione durevole, che peraltro ammetteva il formarsi, in antitesi, di una controtradizione iatrocritica o addirittura iatrofobica. Non aveva scritto Pindaro, in una delle sue Odi pitiche, che lo stesso semidio della medicina, Asclepio (l´Esculapio dei latini), «era stato messo in catene dal guadagno»? E l´usignolo di Valchiusa, Francesco Petrarca, nelle sue Invectivae contra medicum, non aveva definito «colore di medico» il giallore riflesso sul volto di chi scrutava l´urina nel bicchiere e nel contempo pensava in cuor suo al denaro da lucrare? «Il tuo pallore è dovuto alla tua cupidità», aveva scritto Petrarca: «Tu ragguardi l´urina e il tuo pensiero è nell´oro».
Il filone storiografico di critica della medicina ha anch´esso una tradizione di lunga durata, che va da Catone il Censore a Ivan Illich (Nemesi medica, 1977) passando attraverso molti altri esponenti tra cui Bernardino Ramazzini (1633-1714), assai più noto, giustamente, come autore del magistrale trattato Sulle malattie dei lavoratori (contemplante anche il primo caso noto d´inquinamento industriale dell´aere padano) che per aver descritto, degli appartenenti alla propria categoria professorale, «il buon umore, quando tornano a casa ben carichi di denaro». «Io ho osservato - scrive Ramazzini - che i medici non stanno mai tanto male quando nessuno sta male».
Qualunquismo denigratore o coscienza autocritica? Il medico ippocratico delle origini – in Grecia era detto iatròs – è nato con una propria tèchne peculiare, comprendente il buon metodo (il metodo clinico) e la giusta morale (l´etica del "giuramento d´Ippocrate"). Se il metodo è buono e l´etica non è un´etichetta, adesa in modo posticcio alla professione per tacitarne la cattiva coscienza, il medicus, il "curante" d´ogni tempo e d´ogni luogo, non ha da temere critiche di sorta. Da curante competente e disponibile, egli resta il punto di forza e di resistenza che regge tutto quanto il sistema.

Repubblica 17.6.08
L´incertezza della cura. In un campo così variegato come quello biologico è difficile stabilire se per quel singolo paziente un trattamento sia indicato oppure no
Perché la medicina estende sempre più il suo campo d´azione
Così diventiamo tutti ammalati
di Marco Bobbio


Michel Foucault: Medici e malati non sono coinvolti con pieno diritto nello spazio della malattia; essi vengono tollerati come altrettante perturbazioni difficilmente evitabili…

Max Weber: Il medico cerca con tutti i mezzi di conservare la vita al moribondo… La medicina non si chiede se e quando la vita valga la pena di esser vissuta

Guido Ceronetti: Il medico ha di fronte il dolore, non il mistero dell´essere, non un enigma teologico insolubile. (Ne sarebbe schiacciato per sempre)

Jean Baudrillard: Spossessato delle sue difese, l´uomo diventa completamente vulnerabile alla scienza… Sbarazzato dei suoi germi, diventa vulnerabile alla medicina

Il professor Clifton K. Meador, docente all´Università di Nashville nel Tennessee, si trova una sera a cena con un nutrito gruppo di amici. Parlando del più e del meno, il discorso scivola su questioni di salute. Con grande sorpresa, scopre che nessuno dei suoi amici è davvero sano: alcuni hanno il colesterolo elevato, a uno è stata diagnosticata un´anemia lieve, a una signora hanno appena consegnato il referto di uno striscio vaginale definito "dubbio", a due signori è stato comunicato che la prova da sforzo "non è normale" e alcuni soffrono di problemi di disagio personale o sociale. Tutti prendono quotidianamente qualche medicina.
Meador riflette sul fatto che ormai le persone sane stanno scomparendo e scrive un articolo, che verrà pubblicato sul New England Journal of Medicine, una prestigiosa rivista medica, provando a immaginare come vivrà l´ultimo uomo sano. Sarà completamente occupato a eseguire esami del sangue, delle urine e delle feci, visite mediche generiche e specialistiche, esplorazioni periodiche di ogni orifizio, esami accurati della pelle, sottoponendosi ad attività fisica calibrata e a una dieta rigorosa (che dovrà continuamente variare, aggiornandosi ai risultati delle ultime ricerche).
Dalla pubblicazione di quell´articolo sono trascorsi quattordici anni e la situazione è probabilmente peggiorata. Il numero di persone "non sane", badate bene, non dico ammalate, sta aumentando vertiginosamente. Si ha l´impressione che il benessere sia ormai limitato da un perenne stato di malattia e sostenuto da controlli e trattamenti continui. Per capire cosa stia succedendo, proviamo a riflettere su due questioni delicate.
Prima questione. Perché la medicina ha esteso il proprio campo di intervento a tal punto da coinvolgere praticamente tutti? In modo profetico, nel 1976 Ivan Illich preconizzava in Nemesi medica, l´espropriazione della salute, che «l´effetto inabilitante prodotto dalla gestione professionale della medicina ha raggiunto le proporzioni di un´epidemia. Il nome di questa nuova epidemia, iatrogenesi, viene da iatros, l´equivalente greco di medico e da genesis, che vuol dire origine». Da allora, la malattia è diventata sempre più spesso una merce, oggetto di profitti. Se vengono curate solo le persone realmente ammalate, ci si limita a quel ristretto gruppo di pazienti che ha bisogno di un intervento medico per stare meglio. Per espandersi, il mercato della salute ha bisogno invece di una crescente domanda. Una volta che tutti gli ammalati sono stati intercettati e sono più o meno presi in un ingranaggio diagnostico-terapeutico, il mercato si deve estendere a quelli che non hanno nulla, e che, a loro dire, sono sani. Bisogna allora attivare alcuni meccanismi, spesso sorretti dalla buona intenzione di migliorare la salute: l´induzione del bisogno (si suscita nella gente la paura di malattie e di invalidità future, prospettando il rischio di un accidente), il travisamento dei dati scientifici (si presentano i risultati delle ricerche in modo da enfatizzare quelli positivi e minimizzare quelli negativi), l´anticipazione della diagnosi (si iniziano a prescrivere medicine per valori di "anormalità" sempre più bassi), la creazione di nuove malattie (si fa credere che comuni disturbi siano vere e proprie malattie da curare), la prescrizione per indicazioni non appropriate (si prescrivono farmaci approvati per la cura di una malattia, a pazienti che hanno altre malattie), le campagne di sensibilizzazione (si diffonde la consuetudine di indire la giornata, la settimana o l´anno di una certa affezione, per indurre le persone sane a preoccuparsi e sottoporsi a esami e a visite).
Seconda questione. I trattamenti prescritti sono tutti utili e può succedere che si arrivi al punto di sottoporre un paziente a un intervento chirurgico non necessario? In questi giorni è stato sollevato il dubbio, da accertare nel prosieguo dell´indagine giudiziaria, che alla clinica Santa Rita di Milano venissero eseguiti inutili interventi chirurgici. Se verranno confermati, i comportamenti criminosi dovranno essere perseguiti, anche per non gettare discredito sui medici e sulle strutture sanitarie. Non ritengo però che si possano dividere i medici tra i tantissimi onesti, che prescrivono solo cure essenziali e appropriate e i pochi disonesti, che speculano su ignari pazienti. La realtà è molto più sfumata.
Noi medici ci troviamo sempre ad assumere decisioni in condizioni di incertezza. In un campo così variegato, come quello biologico, è difficile stabilire se per quel singolo paziente un trattamento (medico o chirurgico) sia indicato oppure no. Sappiamo, in molte circostanze, cosa potrebbe succedere in media a pazienti con condizioni simili; non possiamo però prevedere cosa capiterà proprio a lui. In ogni decisione possono anche intervenire interessi personali: non solo quelli di tipo economico che sono evidenti, riprovevoli, mal tollerati, controllabili e sanzionabili.
Proprio per questo i controlli non dovrebbero limitarsi agli aspetti formali e quantitativi (facili da verificare), da affidare a impiegati che esaminano il rispetto delle procedure. Si sa che i disonesti sono abilissimi a produrre rendiconti formalmente perfetti; se le procedure di controllo sono cavillose è più facile che venga preso nella rete chi dedica più tempo ai pazienti che alle relazioni. È ora di cambiare mentalità: bisogna entrare nel merito degli interventi per verificare l´appropriatezza delle scelte, la qualità delle prestazione, l´efficacia dei risultati.

Repubblica 17.6.08
La voce. Un documento storico nascosto negli archivi
Ecco i nastri del processo farsa
di Imre Nagy


La condanna a morte era già stata decisa e al leader della rivoluzione non restava che difendersi fieramente sapendo che era inutile
Io, qui, accuso l´ala stalinista del partito di aver provocato la dura escalation delle violenze
Sono un capro espiatorio della crisi in cui è stato gettato il riscatto delle classi sfruttate

BERLINO. «Vostro onore, io non voglio chiedere la grazia. Sono vittima d´un grave errore giudiziario, voi mi condannate, io dovrò sacrificare la mia vita, ma credo che presto o tardi il popolo ungherese e la classe operaia internazionale mi proclameranno innocente dei crimini per cui oggi voi mi condannate». Dai vecchi nastri magnetici, la voce di Imre Nagy risuona ancora forte, pronuncia un "j´accuse" dopo l´altro, carica del coraggio della disperazione. È un documento eccezionale, quello custodito negli archivi di Stato ungherese. Dopo un lungo braccio di ferro, la fondazione Open society archive, finanziata dal miliardario-filantropo d´origine magiara Gyoergy Soros, ha ottenuto di farlo ascoltare. Una volta sola, a pochi testimoni. Quei lunghi nastri, cinquantadue ore di registrazione, documentano passo per passo il mostruoso processo-farsa intentato dal regime di Kàdàr contro il leader della rivoluzione del 1956 e i suoi compagni, e conclusosi con la sua condanna a morte. L´interrogatorio staliniano diventa un duello, un dialogo politico tra il giudice Ferenc Vida e Nagy stesso.
È un grande colpo mediatico, anche se per un pubblico ristrettissimo, quello che la fondazione sponsorizzata da Soros ha portato a segno. Per la prima volta, la tragica fine di Imre Nagy torna come un flashback sotto i nostri occhi, con la viva voce del protagonista e dei giudici comunisti che lo interrogano.
I fatti storici sono noti, basta richiamarli in breve. Nel cupo dopoguerra dell´Est, il vassallo magiaro di Stalin, Màtyàs Ràkosi, getta l´Ungheria nel disastro: l´industrializzazione pesante forzata riduce il paese alla miseria e alla fame di massa, il terrore poliziesco tiene in piedi il regime incarcerando centomila prigionieri politici. Sull´onda della destalinizzazione a Mosca e del "rapporto segreto" di Kruscev al 20esimo congresso del Pcus, a Budapest come a Varsavia i comunisti riformatori tentano la riscossa. Gli eroi del momento erano Gomulka e Ochab in Polonia, in Ungheria Imre Nagy e il generale Pàl Maléter. Nagy tenta riforme, s´ispira alla sinistra occidentale. Ma la violenza dell´Avo, l´odiata polizia segreta, scatena tumulti di piazza.
È la rivoluzione: l´esercito è con Nagy e con gli insorti, contro le truppe dell´Avo e contro il primo tentativo d´intervento sovietico. Dal 23 ottobre al 4 novembre 1956, Budapest vive giorni indimenticabili di libertà. Poi Mosca decide l´invasione: Panzerdivisionen e truppe scelte dell´Armata rossa schiacciano nel sangue l´insurrezione dopo feroci battaglie. Centinaia di migliaia di civili fuggono verso l´Austria nella neve. E qui, con la sconfitta dell´ottobre ungherese, il dramma personale del comunista dal volto umano Imre Nagy diventa catarsi.
Nagy si rifugia all´ambasciata jugoslava, a un passo da Piazza degli Eroi. Kàdàr, messo al potere dai russi, gli promette l´immunità se si consegnerà vivo, ma è una menzogna. Nagy viene arrestato, passa due anni atroci di prigione in Romania, poi nel giugno 1958 Kàdàr lo fa processare. I nastri e altri documenti degli archivi segreti, dice la fondazione Open society archive, provano le responsabilità di Kàdàr. Lui che poi si seppe dare l´immagine di dittatore riformista e umano, di padre del «comunismo del gulasch», ne esce malissimo. Mosca infatti aveva ordinato ai suoi proconsoli di Budapest «severità ma anche magnanimità» verso Nagy. Kàdàr decise che era meglio eliminare quel pericoloso rivale, quell´eurocomunista ante litteram.
I nastri di Budapest fanno venire i brividi. Suona un gong, è l´inizio del processo e della registrazione. «Imputato Nagy, in considerazione della sua età le accordo il permesso di sedersi durante gli interrogatori», tuona il giudice. «Protesto per il carattere segreto del processo», ribatte Nagy. Seguono le 52 ore dei sette lunghi giorni del processo-farsa. E Nagy l´imputato, in un ultimo scatto di coraggio e di fierezza, diventa Nagy l´accusatore. Si difende, controbatte parola per parola al giudice e al pubblico ministero, rivendica la sua vita da militante. Sa che tutto viene registrato, è come se parlasse al suo popolo e al mondo, ma sa anche che al massimo lo avrebbero ascoltato in un futuro lontano.
«Imputato Nagy, lei è accusato di tradimento dell´ordine della democrazia popolare e della patria socialista», tuona il giudice. Nagy si difende, impassibile. «Io, Nagy Imre, sono comunista da una vita. Divenni comunista da prigioniero di guerra in Russia nel 1916. Partecipai alla Rivoluzione d´Ottobre. Nella Seconda guerra mondiale lottai contro il fascismo, lavorai come propagandista per la Nkvd».
Lei è un traditore, non dimentichiamo i fatti, attacca la pubblica accusa. Nagy non si scompone. Chiede che tutto il racconto della sua vita venga messo agli atti. «Anche il mio lavoro da operaio, prego, compagni: frequentai con successo un corso di formazione professionale di fabbro meccanico».
L´interrogatorio si trasforma in duello. E´ sempre il giudice che perde per primo la calma e alza la voce. Grida, e Nagy gli risponde anche lui gridando ma calmo e dignitoso. «Confessi, imputato», dicono i signori in nero del tribunale, «un complotto preparò la rivolta, e la rivolta incluse coscientemente nei suoi ranghi estremisti di destra. Fu una controrivoluzione». «No, falso», replica Nagy. «Fu un tentativo di democratizzare il socialismo. Io, qui davanti a voi, accuso l´ala stalinista del partito: furono loro, chiedendo l´intervento sovietico, a provocare l´escalation delle violenze, i linciaggi, le brutalità in strada. Ma il mio programma politico non era controrivoluzionario. Sulle orme del 20mo congresso del Pcus, e seguendo anche le idee dei compagni nei paesi capitalisti, io volevo democratizzare il socialismo!».
«Imputato, taccia, la smetta o le tolgo la parola!», tuona il giudice in preda alla collera. «Questo è il processo a suo carico, non una dimostrazione politica!». Ma Nagy non demorde. Dalla sua voce, resa da quei vecchi nastri, si deduce cosa si agita nel suo animo. Lui, comunista da una vita, conosce ormai il sistema in cui ha creduto e vorrebbe ancora credere. Sa che non ha speranze, sa che il processo si concluderà con la sua condanna a morte. Non parla per difendersi, ma tenta con tenacia sovrumana di lasciare le sue idee immortalate per i posteri, nella registrazione.
«Mi sento un capro espiatorio», replica calmo ma deciso. Un capro espiatorio della crisi in cui lo stalinismo ha gettato l´idea nobile del riscatto delle classi sfruttate. E poi aggiunge, più volte, il particolare decisivo: «Lo pensavamo in molti che democratizzare il socialismo era necessario. Lo pensava anche il compagno Kàdàr, era schierato con me prima di cambiare parte della barricata».
Il settimo giorno del processo è il giorno del giudizio. La corte legge la sentenza: pena capitale per tradimento dell´ordine della democrazia popolare e della patria socialista. Nagy, nella voce conservata sui nastri, non si mostra scosso. E pronuncia le sue ultime parole: «Mi ritengo vittima di un grave errore, di un errore giudiziario. Nella situazione in cui mi trovo in questo momento, un solo pensiero mi consola. E´ la fede, la certezza che io, Imre Nagy, presto o tardi sarò proclamato innocente dal popolo magiaro e dalla classe operaia internazionale. Mi assolveranno loro dalle gravi accuse di cui voi oggi mi dichiarate colpevole, e per le quali oggi io devo sacrificare la mia vita. Non voglio supplicarvi, non vi implorerò per chiedere la grazia».
E´ l´ultimo nastro, registrato il 15 giugno 1958 nel tribunale popolare di Budapest. All´alba dell´indomani, Nagy viene condotto al patibolo. I suoi celebri occhialini tondi, scrisse poi un poeta dissidente, gli caddero mentre saliva i gradini verso la forca.
L´audizione dei nastri per un piccolo pubblico è stata una tantum. Ora le registrazioni sono di nuovo sotto chiave, perché la scadenza dei 30 anni dalla morte degli interessati oltre la quale decade il segreto di Stato non è ancora trascorsa per tutti i protagonisti: il giudice Vida è morto in un ospizio nel 1990. I nastri possono essere ascoltati di nuovo solo con permesso speciale dell´archivio di Stato magiaro. Nel piccolo pubblico, l´altro giorno, sedeva una fragile, elegante signora, Judit, vedova del generale Maléter. «Mi vengono i brividi», ha confessato a un collega tedesco, «era come se il mio Pàl sedesse poche file davanti a me».

il Riformista 17.6.08
L'anniversario del veltronismo
di Peppino Caldarola


Sicilia amarissima. Dopo il voto politico e il disastro alle regionali, viene il colpo finale delle mini-amministrative. Elettori in calo, ma centro-destra trionfante alle provinciali e alle comunali. Risultato atteso, ma non meno devastante. Qualche mese fa, nell'ultima riunione dell'Assemblea nazionale del Pd, convocata per lanciare l'imminente campagna elettorale, una radiosa Anna Finocchiaro fu elevata, ancorché donna, al Soglio per la rinascita di una terra che lei retoricamente definì «madre». Prese meno voti della umile Borsellino di qualche anno prima, se ne tornò a Roma e, come tutti gli sconfitti della sinistra, fece ancora carriera.
Il voto siciliano di ieri non aiuta Veltroni. Neppure i suoi oppositori stanno meglio. La Sicilia, in questo, è equivicina. Tuttavia alla vigilia della Terza Assemblea Nazionale del Pd era logico sperare in una indulgenza dei siciliani. Fra qualche giorno, infatti, il parlamentone democratico si riunisce in un ribollire di correnti e fondazioni. La prima Assemblea fu sbrigativa e trionfante. Il leader era festoso, i suoi grandi elettori rassegnati alla sua apoteosi. Della seconda abbiamo detto. Poi è andata come è andata. Ora siamo alla Terza. Prodi se ne sta andando, i prodiani mordono il freno, i dalemiani, che non esistono, ci saranno, i veltroniani stanno evaporando. Il vero dilemma dell'Assemblea nazionale è che doveva essere convocata ma nessuno sa più perché. Non c'è la posta in gioco. Veltroni è talmente in discussione che nessuno lo attacca frontalmente.
I più accorti fra i dirigenti del Pd temono lo scioglimento e la scissione, gli altri stanno a guardare, tutti hanno vendette contro tutti, una classe dirigente affollata di portaborse tira a campare. Gli ex popolari trionfano a piazza del Nazareno e piangono in periferia. Per gli ex Ds accade il contrario. Lungimirante Sposetti, che non ha disperso il prezioso patrimonio post-comunista. Il 20 può accadere tutto e niente. Lo spettro del socialismo europeo agita i sonni di Rutelli e Bindi. Il Veltroni, che ieri ha lamentato gli «strappi» del governo su giustizia e sicurezza, lascia presagire che l'unica novità dell'assemblea sarà il ritorno all'opposizione pura e dura, favorita dalle norme rinvia-processi decise dal Cavaliere. Walter tornerà al correntone e Massimo al dialogo? Andremo e ve lo racconteremo.
La verità è che siamo a un anno di veltronismo e sembra già un secolo. Dodici mesi fa si erano appena conclusi i congressi Ds e Margherita, trionfalmente pilotati verso la nascita del Pd. L'opposizione interna ai Ds si preparava a fuoriuscire. Appena partita, la locomotiva del Pd si bloccò. La stella di Prodi declinava giorno dopo giorno e le candidature di Fassino, Finocchiaro, Rutelli, della coppia Bersani-Letta, di Bindi, sembravano poco adatte a sanare le guerre intestine e a far ripartire il convoglio. In questa empasse il nucleo storico Ds-Margherita elaborò la soluzione Veltroni, superando antichi veti. La svolta, lungamente preparata da incontri segreti, conciliaboli e indiscrezioni giornalistiche, avvenne il 20 giugno, data anniversaria scelta oggi per la Terza Assemblea del Pd, quando Fassino e D'Alema si dichiararono pronti ad accettare (o subire) Veltroni come leader. Il sindaco di Roma accettò l'investitura col discorso pronunciato al Lingotto di Torino il 27 giugno.
Chi incontrava Veltroni in quei giorni traeva l'immagine di un uomo politico nuovo, determinato, pronto ad una scommessa che avrebbe cambiato il sistema politico italiano. In un tripudio generale, che troverà consensi di massa nelle primarie del 14 ottobre, Veltroni iniziò il suo breve viaggio alla guida della sinistra. Oggi, un anno dopo, la stella di Veltroni sembra declinare velocemente.
Il Veltroni vecchio si è mangiato quello nuovo. Nei giorni dell'ascesa il nuovo leader colpì per la forza con cui inglobava nella sinistra temi considerati ostici: la sicurezza, il primato dell'impresa, l'occidentalismo, il bipartitismo perfetto e rispettoso dell'avversario. Dal Lingotto in poi fu un susseguirsi di impegnative affermazioni che definirono il profilo di una formazione riformista ma non di sinistra, che sta accanto e non nella socialdemocrazia, che è severa con chi delinque, fa la faccia feroce agli immigrati clandestini, sposa le tesi di Ichino e di Nicola Rossi. L'autoriforma del sistema politico è stato il culmine di questo processo. Bipartitismo imposto dall'alto con il rifiuto delle vecchie coalizioni, messa in soffitta dell'antiberlusconismo. Il Cavaliere si entusiasmò per il nuovo competitor e lo preferì a D'Alema. Il dopo-Bolognina sembrava compiersi con l'erede naturale di Achille Occhetto.
La partita si gioca e si perde nelle poche settimane impegnate a sventare le elezioni anticipate. Mentre Veltroni sgombera il campo da vecchie burocrazie e ne inventa di nuove, il governo Prodi agonizza e viene assassinato dal caso Mastella. Che fare? La soluzione sembra semplice. Prima di tutto viene la legge elettorale. Berlusconi sembra disponibile al punto da sposare la proposta «spagnola» elaborata dallo spin doctor principale di Walter, il professor Vassallo. Veltroni potrebbe sfidare l'avversario interno (D'Alema), favorevole al sistema tedesco, e quello esterno (da Tremonti alla sinistra). Ma per farlo deve strutturare l'asse con Berlusconi immaginando in concreto un nuovo governo bipartisan. Qui Veltroni si arrende e trasforma il dialogo con l'allora opposizione in una specie di gioco del cerino acceso che Berlusconi gli lascia, infine, tra le mani.
La campagna elettorale è tradizionalmente veltroniana. Candidati civetta a far da richiamo mentre le burocrazie selezionano i propri laudatores, programma fotocopia di quello della destra, protagonismo del leader democratico in un paese che sogna solo la guida berlusconiana. Infine l'asse con Di Pietro che punisce tutte le antiche sinistre e premia il vero nemico del processo di rinnovamento del centro-sinistra, il partito giustizialista.
Il veltronismo finisce qui e, come nel gioco dell'oca, ritorna alla casella di partenza. Il resto è cronaca di un'opposizione ombra, di un dibattito che torna al pre-giugno 2007, di un partito mai nato. Sparisce il partito liquido, resta il dissenso sull'affiliazione internazionale, si strutturano le correnti. Crescono gli apolidi di sinistra. Un Pd solo e diviso, tentato dal neo-giustizialismo per contenere Di Pietro e contrastare le norme ad personam di Berlusconi, si sfarina. Il 20 giugno di questo si dovrebbe parlare.