mercoledì 18 giugno 2008

Corriere della Sera 18.6.08
E adesso Walter cerca Rifondazione
Incontro con Giordano, la mossa per spiazzare i rivali interni
di Maria Teresa Meli


Dietro le quinte Il segretario cambia linea anche sulle alleanze. Garanzie anti-sbarramento alle Europee

ROMA — Fino a lunedì era stato un ultimatum: Veltroni si riproponeva di scrivere la parola fine al dialogo con Berlusconi nella riunione dell'assemblea costituente del suo partito che inizia dopodomani. Ma ieri il segretario del Pd ha anticipato i tempi ed è apparso su più di un telegiornale per sancire la rottura con il premier.
Veltroni cambia la linea con cui si era presentato sin dall'inizio, prima ancora che cominciasse la campagna elettorale. Veltroni cambia linea, e non solo sul dialogo con la maggioranza. Il segretario del Pd muta la rotta anche sul fronte delle alleanze. Lui che aveva fatto del presentarsi da solo il «must» elettorale del suo partito, ora sembra riflettere anche sul tema delle alleanze. Tant'è vero che ieri mattina ha incontrato l'ex segretario di Rifondazione Franco Giordano. Un colloquio richiesto da Veltroni, che avrebbe dovuto rimanere riservato per i problemi precongressuali del Prc, ma che qualcuno dalla sede del Pd ha reso noto in via ufficiosa.
A Giordano il numero uno del Partito democratico ha anticipato la decisione di chiudere con il dialogo e ha spiegato che il Pd versione autarchica non c'è più. Questa volta — è stato il succo del discorso che Veltroni ha fatto all'ex leader di Rifondazione comunista — ci siamo presentati da soli, ma in futuro dovremo ragionare sulle alleanze. E per mostrare che le sue non sono solo parole buttate là il segretario del Pd ha assicurato a Giordano che il suo partito non asseconderà i progetti berlusconiani di creare una soglia di sbarramento alta per le elezioni europee.
La repentinità con cui Veltroni ha cambiato linea, cavandosi dall'impaccio di questi giorni, è il segno di una nuova strategia del leader che non intende farsi mettere sotto dagli avversari interni, ma li anticipa e li spiazza. Le difficoltà e i rischi a cui stava andando incontro e che avrebbero potuto creargli dei problemi nell'assemblea costituente di venerdì e sabato hanno convinto il leader ad accelerare il mutamento di rotta. Sul fronte della giustizia, la rottura, del resto, era inevitabile: l'atmosfera nel centrosinistra sembra essere quella dei tempi dei girotondi e la concorrenza di Antonio Di Pietro si fa pressante. Tant'è vero che più di un esponente del Pd — da Furio Colombo a Lidia Ravera che certamente non possono essere considerati ostili a Veltroni — ha aderito alla giornata della giustizia promossa da MicroMega e lodata da Di Pietro. E sulla necessità di fare un'opposizione più dura insistevano in questi giorni personaggi che sicuramente non si possono definire giustizialisti come Pierluigi Bersani: «Ci vuole un'opposizione dura, senza il timore di contrastare scelte del governo che possono essere popolari ma che saranno negative per il Paese».
Il tema delle alleanze rappresentava per il segretario un altro cruccio. Dentro il partito non erano pochi quelli che lo criticavano per la decisione di continuare a far giocare il Pd da solo anche dopo le elezioni: da Bersani a D'Alema, passando per Arturo Parisi che rimpiangeva l'Ulivo del tempo che fu. E sono suonati come dei campanelli d'allarme gli abboccamenti tra Fausto Bertinotti, Franco Giordano e l'ex ministro degli Esteri. Già, D'Alema si era spinto fino ad avvertire Rifondazione che dall'incontro tenutosi a palazzo Chigi tra Veltroni e Berlusconi sarebbe scaturita una legge elettorale per le europee fatta apposta per produrre la scomparsa della sinistra anche a Strasburgo. Ma Veltroni non ha nessuna intenzione di farsi rinfacciare una scelta che prima delle politiche tutti, o quasi, avevano definito «coraggiosa». Perciò anche in questo caso il segretario Pd è pronto all'aggiustamento di rotta. Se il Prc pensa a come rimettersi in gioco ci sarà lui a fare da sponda e non D'Alema.
Sminare il campo dell'assemblea costituente non è cosa semplice, ma Veltroni ci sta provando e ci sta anche riuscendo. Il segretario del Pd sfodera un nuovo volto, più decisionista di quello di prima, anche se non quanto vorrebbero i suoi fedelissimi. Il segretario, infatti, non si spinge fino a giocare la carta del congresso, ma all'assemblea ribadirà che la linea del partito la fa lui e non le fondazioni, che possono solo contribuire all'elaborazione politiCambio di strategia co-culturale del Pd.
Il neo-antiberlusconismo del leader del Pd può servire anche a stendere una cortina sulle elezioni siciliane. Sì, perché c'è anche quel pessimo voto nel «cahier de doléances» di molti esponenti del Pd. «Non possiamo certo fare finta di niente di fronte a questo risultato », spiegava ieri Bersani ad alcuni compagni di partito. «Una sconfitta annunciata », diceva Beppe Fioroni, cercando, con quell'«annunciata», di stemperare l'amaro dell'insuccesso. Comunque, del voto siciliano discuterà oggi il coordinamento ristretto del Pd, che dovrà affrontare anche il nodo che Veltroni non è ancora riuscito a sciogliere. Quello della presidenza del partito. Che fare? Respingere le dimissioni di Romano Prodi, come deciso inizialmente? O limitarsi al voto sulla relazione del segretario e sulla direzione del partito, lasciando cadere la spinosa questione? Comunque vada, l'idea è quella di non eleggere un altro presidente, né ora, né in futuro.
Maria Teresa Meli

Corriere della Sera 18.6.08
Il caso Bolzaneto-Diaz
Effetto-decreto sul G8 In salvo i poliziotti, processo solo ai no global
di Marco Imarisio


ROMA — Piccoli effetti collaterali da emendamento. Se la modifica al decreto sicurezza passa così com'è, in materia di G8, vedi alla voce Genova 2001, i colpevoli sono da una parte sola. Addio Bolzaneto, addio Diaz.
Le forze dell'ordine uscirebbero immacolate dal disastro di quei giorni, mentre l'unico procedimento già arrivato alla sentenza di primo grado è quello che condanna 25 manifestanti per devastazione e saccheggio, ipotesi di reato con pene previste che vanno dagli 8 ai 15 anni, e quindi restano fuori dalla sosta ai box imposta dall'emendamento blocca-processi.
Ma per Bolzaneto e Diaz la fermata equivale ad un capolinea. Tutti i reati che vedono coinvolti rispettivamente 45 persone tra poliziotti e medici e 29 tra funzionari e agenti sarebbero caduti in prescrizione nel 2009. Già così la sentenza di primo grado avrebbe avuto solo valore morale, oltre a dare il via ai risarcimenti per le vittime, nessuna conseguenza sul piano penale per gli eventuali colpevoli. Il «congelamento» dei due processi però equivale alla loro eutanasia, perché al momento della ripresa i tempi sarebbero strettissimi, basterebbero un minimo intralcio, un difetto di notifica, i ruoli pieni del tribunale o il cambio di un membro dei collegi giudicanti, per dichiarare prescritti i reati. Se il verdetto per i fatti della scuola Diaz era previsto a novembre, la beffa è doppia per Bolzaneto, «bruciata» sul traguardo.
La sentenza per le torture avvenute nella caserma sulle alture di Genova era prevista per il 16 luglio.
Se davvero andrà così, si verificherebbe lo scenario previsto dai più nichilisti tra i reduci di Genova, convinti fin dall'inizio che non vi sarebbe mai stata giustizia, neppure in tribunale, e contrapposti a quella parte di ex no global che conservava invece fiducia nello Stato. Dice Luca Casarini che «Berlusconi traduce in legge la rimozione bipartisan del G8 già intravista con il governo Prodi». «Un'atroce beffa dopo 7 anni di indagini e udienze», afferma il comitato Verità e giustizia, mentre Amnesty Italia ironizza sulla «sfortunata coincidenza». Nel complesso, poca roba. Reazioni isolate e di nessun peso. Sette anni dopo, Genova 2001 si chiude (forse) in un silenzio assordante.

Corriere della Sera 18.6.08
Nella nuova raccolta di saggi del filosofo compaiono anche Dummett, Odifreddi e Calasso
Severino: è destino, saremo felici
«Il modo d'essere dell'uomo appaga la sua volontà di salvezza»
di Armando Torno


Orizzonti
«Siamo destinati a qualcosa che è infinitamente di più di tutto quanto il più insaziabile dei desideri può volere»

Abbiamo incontrato Emanuele Severino nella casa di Brescia, tra i suoi libri, accanto al pianoforte e ai ricordi che abitano discretamente le stanze dove vive e lavora. Esce oggi Immortalità e destino
(Rizzoli, pp. 198 e 18.50), raccolta di saggi dove invita a camminare «attorno all'altura a cui da tempo tentano di volgersi» i suoi scritti. Sulla scrivania del filosofo ci sono due grossi volumi ottocenteschi con le opere di Platone, editi da Didot, con il testo greco e la traduzione latina di Marsilio Ficino. «La più bella mai realizzata», ci confida con un sorriso.
Questo libro di Severino si presta a molteplici riflessioni, giacché in esso vi sono pagine che chiariscono tematiche a lui care, ma non ne mancano di divulgative e polemiche, dove si parla, tra l'altro, di filosofia contemporanea. Con sorpresa appare Michael Dummett, noto professore di logica a Oxford, qui ripreso anche perché crede che la ragione abbia la possibilità — non ancora realizzata — di dimostrare l'esistenza di Dio; né viene tralasciato un cenno all'ostilità tra Popper e Wittgenstein; inoltre si ricordano Gustavo Bontadini, Gianni Vattimo, Carlo Sini, Vincenzo Vitiello, Salvatore Natoli, Roberto Calasso e altri. Tra questi ecco «l'amico» Piergiorgio Odifreddi, con il quale Severino ebbe un vivace scambio di opinioni. Ne riportiamo uno stralcio, scegliendo una battuta dove ci sembra sia rimasto del sale: «Ama le freddure, ma è forse il caso di rassicurare i lettori che non lo sapessero: sta scherzando... non sempre tira fuori le sue barzellette migliori». Sullo sfondo, pagina dopo pagina, scorrono i grandi riferimenti cari a Emanuele Severino, da Heidegger a Gentile, da Nietzsche a Kant a Hegel.
In codesti saggi c'è anche la possibilità di conoscere meglio le problematiche dell'autore, la sua ricerca teoretica. Per tal motivo gli chiediamo d'acchito il significato delle parole dell'avvertenza, dove ricorda che «questo libro si aggiunge ai precedenti perché crede di mostrare altri percorsi lungo i quali, come la cima tra i pini, l'altura si intravede». Severino sottolinea: «Il cammino di cui parlo è il linguaggio e l'altura non va intesa come un semplice tentativo di tenersi in alto ma è il destino».
Il primo capitolo, che dà il titolo all'opera, è dedicato non a caso a «Immortalità e destino». All'origine di esso ci fu una conferenza che l'autore tenne anni fa in Italia. Il ritmo di scrittura è quello fascinoso, noto al vasto pubblico: «Il divenire del mondo è il comparire e lo scomparire degli eterni. Illusione il loro uscire e il loro ritornare nel nulla». In calce gli chiediamo di aggiungere qualcosa, di mostrare le eventuali implicazioni con la nostra esistenza. Prosegue: «Già ora, da vivi, gli uomini sono avvolti da una "veglia assoluta" che è infinitamente più radicale di ogni incontrovertibilità e di ogni procedura critica della ragione... È all'interno di essa che si mostra la destinazione dell'uomo a cose che egli non spera né suppone. L'uomo non è ciò che il mito e la ragione gli fanno credere di essere, ma è lui stesso, nel profondo, ad essere questa "veglia assoluta". In essa appare l'infinito allargarsi di se stessa, cioè la sua Gloria; il suo accogliere tratti sempre più ampi del Tutto, ossia della Gioia che l'uomo, da ultimo, è».
Severino si interrompe. I silenzi che seguono le sue parole si riempiono, come di consueto, di sguardi che chiedono se tutto è chiaro, se deve soffermarsi su qualcosa. Anni di insegnamento lo hanno abituato a non abbandonare mai l'interlocutore, come invece usano fare i politici quando sono alle prese con qualche idea. Per questo lo invitiamo a chiosare quel «destino» che è nel titolo del libro. Riprende il discorso: «Nei miei scritti tale "veglia assoluta" è indicata dalla parola "destino", costruita in modo analogo a termini quali de-amare, de-vincere, dove il de esprime l'intensificazione dell'amare e del vincere, sì che il de-stino è l'intensificazione estrema dello "stare", cioè dell'inamovibilità in cui consiste la "veglia assoluta"». Dopo un'altra breve pausa: «Il destino è l'apparire di ciò che è, ossia degli essenti. Nel destino appare che ogni essente è se stesso e non diventa altro da sé, e dunque è eterno».
Non gli lasciamo finire la frase che stava affrontando il tema «il variare del mondo è il sopraggiungere degli eterni nell'apparire» e chiediamo se l'immortalità del titolo è correlata a quanto il senso comune pensa della nostra fine. Chiarisce con calma: «Nell'isolamento della terra, la fede nel divenir altro porta alla luce la volontà di salvezza e di potenza. Nel suo significato essenziale la morte è il divenir altro (ossia è l'impossibile); e da sempre i mortali hanno tentato di vincere la morte diventando altro da ciò che essi sono: uccidendo il Dio, come Adamo, o diventandone gli alleati, come Gesù. Hanno tentato di vincere la morte con la morte».
Poi Severino ricorda che i suoi scritti indicano qualcosa che apparentemente «non può non sembrare esorbitante e velleitario» ma che tuttavia è possibile esprimere con l'affermazione di Eraclito: «Sono attesi gli uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano né suppongono». A questo punto aggiunge: «Da cose che sono infinitamente "di più" di ciò che essi desiderano, suppongono, sperano di ottenere». Una pausa, un sorriso, e mentre sistema i due volumi di Platone precisa: «Infinitamente "di più" di ciò verso cui vuole condurre la stessa speranza cristiana, e dunque "di più" di ogni "immortalità" e di ogni "resurrezione della carne" che a speranze di questo genere sono connesse». Ancora un brevissimo silenzio. Poi conclude: «Siamo destinati a qualcosa che è infinitamente "di più" di tutto quanto il più insaziabile dei desideri può volere».

Repubblica 18.6.08
Intesa contro il bipartitismo all´incontro promosso da Italianieuropei e altre fondazioni
D’Alema chiama sinistra e Casini prove per una nuova alleanza
Seminario rilancia il proporzionale. Ma Veltroni non va
di Goffredo De Marchis


All´assemblea costituente il segretario del Pd affronterà il nodo delle correnti

ROMA - La prova di un "nuovo centrosinistra", che dovrebbe andare da Casini a Cesare Salvi, passando per D´Alema, Rutelli e Bassanini. «Sì, si può dire che ieri è stata disegnata una possibile alleanza per il futuro», commenta Salvi. Per il momento l´intesa si limita alle riforme istituzionali ed elettorali. Mancano parecchi passaggi per definire una coalizione diversa dalle attuali e non sono cose da poco: economia, stato sociale, politica estera. Ma sul rilancio del parlamentarismo, la critica al bipartitismo che piace invece a Veltroni e Berlusconi, l´attacco al presidenzialismo strisciante all´italiana, l´accordo è solido. Tanto che il seminario a porte chiuse organizzato ieri da Italianieuropei, Astrid, Fondazione Basso, Crs, Glocus, Fondazione Mezzogiorno Europa, Quarta Fase, Istituto Sturzo e Socialismo 2000 diventerà un convegno pubblico a metà luglio. E da quell´appuntamento uscirà una piattaforma organica di riforme, praticamente una proposta alternativa allo schema su cui hanno lavorato i leader di Pd e Pdl in questi mesi, capace di scombinare i giochi in vista del referendum elettorale della prossima primavera. Al centro del nuovo progetto c´è naturalmente il sistema elettorale tedesco, quasi un proporzionale puro.
Al seminario sulle riforme, quattro ore di discussione con 70 partecipanti, non c´era Walter Veltroni, che ha declinato l´invito. Per la segreteria del Pd ha partecipato Dario Franceschini con Salvatore Vassallo, l´autore del testo di riforma su cui si sono confrontati i poli prima del voto. Raccontano di una tenaglia D´Alema-Casini che ha messo in difficoltà l´architettura istituzionale costruita dall´ala veltroniana. Ma Franceschini e Vassallo sapevano di essere in minoranza in questo contesto. D´Alema ha premesso: «Le fondazioni non si occupano direttamente del dialogo tra maggioranza e opposizione. Contribuiscono però a definire un impianto culturale solido che aiuta il confronto, naturalmente». Come dire che il Pd deve dotarsi di una sua agenda di riforme, non può farsela dettare dal Cavaliere e con quella presentarsi al tavolo. Detto questo, l´ex titolare della Farnesina spiega che al convegno di metà luglio verrà invitato anche il governo. Possibili sponde alternative a Berlusconi di questo "cartello" di associazioni? Giulio Tremonti e la Lega. Soprattutto con la spada di Damocle referendaria che pende sulla testa del Carroccio.
Naturalmente questa agenda ha connotati opposti alla proposta del vertice democratico. Muove dal sistema tedesco che Vassallo al seminario liquida così «non è in campo», rimbeccato dal dalemiano Roberto Gualtieri: «Basta mettercela». Franceschini usa il massimo della cautela possibile, ma difende la scelta del Pd di correre liberi, di «essere il baricentro di un´alleanza» in una logica che ai molti oppositori presenti appare simile all´"autosufficienza". D´Alema è su un´altra linea. Boccia persino l´elezione diretta dei presidenti di regione, frutto di una svolta parlamentarista evidente. Dall´altra parte Pier Ferdinando Casini condanna il governo ombra anche con una certa ironia: «Consiglio al Pd di non cercare ancora l´istituzionalizzazione di questo strumento. Non fa molta strada e si rivelerà un favore a Berlusconi». D´Alema condivide la critica. L´ex ministro degli Esteri e il leader dell´Udc si scambiano anche un bigliettino complice (il primo lo invia al secondo) mentre parlano altri oratori.
L´attivismo delle fondazioni, sospettate di essere delle correnti mascherate, sarà uno dei nodi che Veltroni dovrà sciogliere all´assemblea costituente di venerdì e sabato. Il segretario è intenzionato a difendere l´impostazione di fondo del Partito democratico, a cominciare dalla scelta di «andare liberi» al voto. Chiederà di non dare vita a un´organizzazione basata sulle correnti. Poi sfiderà chi ha un´idea diversa a venire allo scoperto, a parlare a viso aperto. Non evocherà il congresso anticipato, ma c´è sempre la replica di sabato per annunciare che «la parola deve passare ai fondatori del Pd» se viene messo in discussione l´intero impianto. Cioè alle primarie sulla leadership, ai tre milioni e mezzo del 14 ottobre.

Repubblica 18.6.08
Sinistra, parole chiare per spiegare la sconfitta
di Corrado Augias


Caro Augias, il suo giornale ha pubblicato giorni fa un ampio stralcio dell'analisi di Bertinotti dal titolo: «Perché la sinistra ha perso». Non sono riuscito ad andare oltre la metà. Riporto un periodo a caso: «L'ingresso della destra nella modernizzazione, candidandosi ad essere la forza più vocata ad accompagnarla, l'ha deideologizzata, consentendole di recuperare poi scampoli e tracce delle diverse tradizioni della destra e di ricomporle in una politica definita proprio sulle risposte da dare alla crisi sociale e politica e istituzionale provocata dalla stessa modernizzazione».
Ciò posto, penso che la sinistra abbia meritatamente perso, credo che gli italiani non ne possano più di un linguaggio così inutilmente complicato.
Gian Carlo Zoletto giancazol@alice. it

Fausto Bertinotti viene dalla scuola marxista dove si insegnava che la prima cosa nell'agire politico è «l'analisi scientifica» della «situazione reale». Faccio subito un altro esempio, stimolato dalla lettera del signor Claudio Falcioni che chiede: «Quanto sarà contento il famigerato Marco Ferrando, deputato comunista che si vantava, pur facendo parte della maggioranza, di non aver votato il finanziamento delle missioni all'estero. Ora ha raggiunto lo scopo, dopo aver contribuito a far cadere il guerrafondaio governo Prodi. Il nuovo governo si accinge a cambiare le regole d'ingaggio per i nostri soldati com'era facilmente prevedibile». Ferrando e Bertinotti sono agli estremi opposti. Il primo non ha fatto alcuna analisi, né scientifica né d'altro tipo. Ha solo dato ascolto alla sua purezza politica o alla sua vanità. Probabilmente a un misto delle due cose. Comunque si è collocato al di sopra, o al di sotto, della situazione.
Bertinotti, no. L'ex presidente della Camera in quella riunione ha cercato di applicare il vecchio metodo del socialismo detto scientifico ed è su questo che bisogna valutarlo. La sua analisi continuava dando, per esempio, questo quadro della nuova destra: «Un potente arlecchino che rispecchia la scomposizione della società, il frantumarsi anche delle soggettività forti, un arlecchino che miscela i suoi colori e le sue cento tessere con gli istinti che animano la società civile confezionando un'idea generale di restaurazione che poi rinvia alla società trasformandola in politica, senza che però ne abbia più l'apparenza: una sottile proposta di complicità». Se si legge con attenzione, si vede che l'analisi è corretta, che le cose stanno proprio così, che così infatti le descrivono molti commentatori ed editorialisti. La nuova destra fa politica, eccome se la fa; però dando l'impressione di non farla. Segue gli istinti sociali profondi e li trasforma in leggi e decreti, rende la società sua complice e se ne serve per diventare maggioranza politica.
Va tutto bene, ma non si potrebbe dirlo in modo che tutti capiscano? Magari con l'aggiunta di una sana autocritica? S'insegnava anche questa, un tempo, nelle scuole marxiste.

l’Unità 18.6.08
I contrassegni dell’orrore
di Fulvio Abbate


Lo scrittore “collaborazionista” Louis-Ferdinand Céline sosteneva che i nazisti erano da ritenere “ragionieri dello sterminio” a pieno titolo. In questo senso, hanno trovato, nel tempo, molti allievi diligenti, convinti della bontà del brevetto criminale. Le cifre dei morti, l’ampiezza del genocidio messo in atto dal potere tedesco durante gli anni Quaranta del secolo scorso, rendono attendibili le sue parole. Chiunque potrà verificare le annotazioni, gli appunti, i dettagli della loro impresa criminale, consultando gli archivi della Gestapo, delle SS o della Wehrmacht, dove, sotto i simboli della svastica e della testa di morto («Totenkopf»), fissati ai loro berretti, è segnata ogni cosa utile all’annientamento, alla riduzione in schiavitù: indumenti, effetti personali, nazionalità, orientamento politico o razziale che riguardi, come dice Primo Levi, i “sommersi”, ossia coloro che nessuno poté, o volle, salvare dai lager, dal consuntivo mortuario della “soluzione finale”. Un “ragioniere dello sterminio” non si accontenta di cancellare le proprie vittime dall’anagrafe civile, desidera che la fine di queste sia segnata nei registri di un’anagrafe parallela, non meno burocraticamente meticolosa, affinché la pena resti impressa, annotata nei verbali del potere, dell’autorità, del controllo, della sottomissione, e infine della morte. Da qui, la necessità di rendere riconoscibili a distanza gli internati, attraverso un contrassegno apposto sugli indumenti dell’universo concentrazionario, come uno strumento di lavoro: triangolo rosso per i “politici”; verde per i “comuni”; nero per gli “asociali” o “antisociali” (cioè disabili fisici e mentali, vagabondi, prostitute e lesbiche); blu per gli “immigrati”, gli “apolidi”, ma anche per i combattenti rifugiati all’estero della Spagna repubblicana; viola per i Testimoni di Geova; rosa per gli omosessuali; marrone per gli individui appartenenti alle popolazioni nomadi di origine Rom o Sinti. Su tutto, la stella gialla imposta agli ebrei già nei ghetti. Un casellario ulteriore, quindi. Il casellario della selezione umana, razziale e culturale voluta dal “Nuovo Ordine”, l’ordine codificato, appunto, dai ragionieri dello sterminio. Non è detto che si debba sempre arrivare agli estremi rimedi, ma il razzista non pone limiti alla provvidenza. Ironia della storia, la tavola sinottica ufficiale, necessaria per spiegare l’uso dei contrassegni in ogni possibile variante e combinazione, compilata dalle oscure mani di un illustratore al servizio degli uffici preposti al perfetto funzionamento della fabbrica di selezione e morte del “Reich millenario”, assomiglia a una tempera del Paul Klee più alfabetico, più terso e struggente. Ironia della memoria. Sembrerebbero pensieri remoti, scaduti, e invece talvolta viene il sospetto che non sia affatto così, si arriva addirittura a pensare che certi eventi possano ripetersi, tornare perfino utili insieme alle catene di montaggio della morte, della selezione quotidiana, così l’altra giorno un amico gallerista e poeta in servizio civile nella piazza d’armi di Roma, Enzo Mazzarella, mi ha buttato giù dal letto con una telefonata per raccontarmi la sua ultima idea, «giusto perché non si dica che nessuno fa caso a certe cose». In breve, ad Enzo è venuto in mente di chiamare a raccolta gli artisti che collaborano da anni con la sua galleria di via Monserrato chiedendo loro di realizzare ciascuno un’opera sul tema dei contrassegni dei lager, possibilmente a partire da un titolo che, sebbene in apparenza irrelato, «Gli altri», serve a ragionare intorno alla dignità degli individui, al di là dell’appartenenza razziale, politica, ideologica. Non avrà la stessa eco della prossima ostensione della «Sacra Sindone di Cristo», ma è pur sempre un segno di buona volontà, un modo concreto di sottrarsi all’indifferenza, un modo di negare che l’unica identità degli artisti coincida oggi con la propria partita Iva. Sì, Enzo, è davvero già qualcosa.
f.abbate@tiscali.it

il Riformista 18.6.08
Cade l'ultimo mito della nuova stagione
Veltroni va all'opposizione senza se e ma
di Stefano Cappellini


E adesso? Walter Veltroni se l'è chiesto a lungo, un giorno intero, prima di prendere la parola e ridare una linea al Pd dopo il ritorno in scena del Berlusconi anti-giudici. Un ritorno che lo ha spiazzato, che ha occluso tutti i canali diplomatici Pd-Pdl e ha incrinato, se non abbattuto, l'ultimo pilone strategico della «nuova stagione» veltroniana, quello del dialogo e del superamento della guerra civile italiana. Un'altra botta pesante, per l'ex sindaco di Roma, arrivata alla vigilia della delicata assemblea costituente democratica di venerdì, nelle ore in cui il voto delle amministrative siciliane certifica l'estinzione del Pd nell'isola, e che si somma alla disfatta elettorale del 14 aprile, alla sconfitta di Roma, ai sondaggi in picchiata, alla proliferazione delle correnti ostili, alla presidenza del partito vacante dopo la scomunica di Romano Prodi (ieri con una lettera l'ex premier si è dimesso anche dal vertice del Pde). Una sequela di disgrazie sufficiente a stroncare leadership più solide di quella di Veltroni. Il quale invece non solo resiste ma rilancia. Il premier ombra ha deciso, per quanto possibile, di volgere a proprio favore l'ultimo dei rovesci e di farne la base per una ripartenza. Il Pd va all'opposizione. Senza se e senza ma. Non cadrà in «tentazioni girotondine» - questo ha assicurato l'ex sindaco di Roma a tutti i suoi interlocutori - ma chiude la linea di credito a Berlusconi. E si prepara a una traversata del deserto molto diversa da quella immaginata.
Dopo essersi consultato con tutti i suoi più stretti collaboratori e aver benedetto l'ostruzionismo del Pd nella seduta di ieri del Senato, il segretario del Pd ha scelto di svoltare: «Il dialogo si chiude per responsabilità di Berlusconi», ha dichiarato al Tg3. Un medium non scelto a caso: è prima di tutto al suo elettorato che il leader ha voluto parlare, provando a fugare una volta per tutte i dubbi di un'opposizione troppo morbida, pigra e lenta di riflessi, opinione registrata nelle ultime settimane da tutti i principali istituti di sondaggio. «Io e il Pd - ha proseguito - abbiamo cercato in questi mesi di portare l'Italia fuori dal passato, ma evidentemente c'è chi vuole tenere il paese inchiodato al passato. In un mese siamo stati per due volte in Parlamento costretti a discutere degli interessi personali del presidente del Consiglio». Ergo, non è il Pd che cambia linea, «le conclusioni le ha tratte Berlusconi quando ha strappato la tela di un dialogo possibile. Non è un problema di fiducia personale, ma di serietà».
Paradossalmente il nuovo scenario di contrapposizione - l'opposto di quello programmato nelle stanze del Loft - può aiutare Veltroni a scavallare meglio lo scoglio della costituente. La svolta gli offre la possibilità di concentrare la sua relazione sulla novità, lasciando in secondo piano questioni più imbarazzanti. Le alleanze, per esempio: ieri il leader del Pd ha incontrato l'ex segretario del Prc Franco Giordano, ritornando così indietro anche sulla «separazione consensuale» da Rifondazione. Di fatto, del Pd disegnato in campagna elettorale è rimasto poco. Veltroni è costretto a chiedere all'assemblea un voto sulla sua relazione per rilanciare la leadership: inviterà gli oppositori interni a parlare subito, sfidando la minaccia di congresso anticipato, o a tacere per almeno un anno. Otterrà un nuovo via libera, quasi certamente, ma l'appuntamento resta pieno di insidie.
In queste ore Goffredo Bettini e Beppe Fioroni sono al lavoro per chiudere la lista per la direzione, ma non si esclude la presentazione di liste alternative. Dalla platea di quasi 3 mila delegati ci si attendono mozioni a sorpresa e non si escludono contestazioni. Arturo Parisi si presenta con l'intenzione di rinfacciare al leader tutti gli errori sin qui commessi. Rosy Bindi, che lavora a una mozione per respingere le dimissioni di Prodi, ha affondato il colpo sul voto siciliano: «Questo risultato conferma che il Pd non c'è ancora». Francesco Rutelli, che ieri ha riunito a consulto l'area di cattolici democrat che fa a lui riferimento, ha aderito alla crociata anti-bipartitica di Massimo D'Alema, lanciata ieri ufficialmente al seminario delle fondazioni "anti-veltroniane". In più sulla costituente, e sull'umore dei delegati popolari, incombe la questione della collocazione europea del Pd, tutt'altro che risolta nonostante il lungo caminetto dell'altroieri.

Corriere della Sera Roma 18.6.08
Ricerche Le novità in uno studio di Claudia La Malfa
Pinturicchio pinxit
Una guida sulle sue opere a Roma
di Pietro Lanzara


Bernardino di Betto da Perugia, detto Pinturicchio, fu pittore più fortunato che valente. Lo sostenne Giorgio Vasari nelle «Vite»: «ancor che facesse molti lavori e fusse aiutato da diversi, ebbe nondimeno molto maggior nome che le sue opere non meritarono». La mostra di Perugia e Spello, che si è chiusa domenica e che è stata curata da Vittoria Garibaldi, ha favorito la riscoperta di un artista al quale Claudia La Malfa dedica ora un «Itinerario romano» (Silvana Editoriale) al quale seguirà in autunno «La seduzione dell'antico: le pareti dipinte di Pintoricchio a Roma».
La guida, dedicata ai luoghi romani del pittore, è stata presentata dall'autrice, da Francesco Buranelli, presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni dei 550 anni dalla nascita dell'artista, da Roberto Cecchi, direttore generale per il Patrimonio artistico al ministero dei Beni culturali.
La cronologia dei lavori di Pinturicchio a Roma risulta nella nuova ricerca radicalmente diversa da quella tradizionale. «Il suo primo lavoro indipendente in città», spiega Claudia La Malfa, «viene identificato con la decorazione della cappella della Rovere a Santa Maria del Popolo fra il 1477 e il 1479, dieci anni prima della indicazione che lo collocava fra il 1488 e il 1490. Dello stesso numero di anni arretra, fra il 1481 e il 1483, il ciclo di affreschi nelle sale di rappresentanza del cardinale Domenico della Rovere ai Borghi, nel palazzo dei Penitenzieri. In quel periodo Pinturicchio partecipava alla decorazione della Cappella Sistina. Nel 1483 si colloca l'esecuzione del ciclo di affreschi nella cappella della famiglia umbra Bufalini all'Aracoeli, capolavoro della maturità. Innocenzo VIII gli affidò il lavoro nelle stanze e logge della sua villa privata, il Casino del Belvedere, per il quale Andrea Mantegna affrescò la cappellina privata. Mentre Alessandro VI Borgia, subito dopo la sua elezione nel 1492, lo volle per il suo appartamento in Vaticano, l'impresa più straordinaria dell'ultimo quarto del Quattrocento a Roma». Qui sono appena iniziati i restauri nella Sala dei Santi.
Papa Pio III chiamò Pinturicchio a Siena, dove l'artista morì più tardi nel 1513, per gli affreschi della Libreria Piccolomini nella Cattedrale, celebranti la vita dello zio Enea Silvio Piccolomini, Pio II.
«La vera fortuna di Pinturicchio », commenta Claudia La Malfa, «fu di trovarsi a Roma nel momento della scoperta della Domus Aurea ma fu suo merito reinterpretare, da lì, il linguaggio pittorico degli antichi per le necessità della Curia: nei palazzi privati, negli appartamenti pontifici, nelle cappelle familiari delle chiese. Fu il primo a riscoprire le grottesche anticipando Raffaello e il Peruzzi. Fu anche il primo a creare una struttura prospettica e illusionistica alla quale attinse Michelangelo per la volta della Sistina».
Pinturicchio fortunato? Il giudizio negativo del Vasari non gli rende giustizia. O, forse, aveva ragione Machiavelli a sostenere che la fortuna non esiste per se stessa e «dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle».

Liberazione 18.6.08
Un impegnativo intervento di Bertinotti e il silenzio della stampa "di sinistra"
di Arcangelo Leone de Castris


Stupisce che l'impegnativa relazione di Bertinotti (le ragioni di una sconfitta, per il seminario romano del 12 u.s.) dal vostro giornale pubblicata in buona parte la parte critica, non abbia suscitato commenti di qualsiasi genere nella stampa "di sinistra": oggi, 15 giugno, mi risulta che solo "Liberazione" ha pubblicato un ottimo pezzo, del solito tempestivo Lussurgiu D'Avossa, non già dedicato all'ex leader di Rifondazione, ma prodotto comunque dal bisogno e dalla volontà di fissare alcuni punti essenziali di una riflessione durata almeno due mesi (dalla scomparsa parlamentare della vera sinistra). Nel seminario si era detto, con Bertinotti, che in quell'evento funereo era scoppiata in frantumi l'eterna forma-partito: e questo significava, almeno per me esplicitamente, l'ultimo atto del fallimento della rivoluzione comunista d'Occidente. I frantumi sopravvivono ancora oggi. Nell'insieme, pur con gesti separati, hanno prodotto da un po' di tempo un malaugurato trasferimento: il passaggio politico e morale del conflitto esterno, tra le classi, al conflitto interno, tra le parti del partito perciò in via d'estinzione. Dopo quasi due secoli di conquista e di contraddizioni (guadagni implicati di rischi e di perdite), il processo di liberazione del lavoro-persona umana, la strategia della volontà che impegna l'umore dell'intelligenza, ecco sembrano ad alcuni di noi un'ascesa interrotta, vacillante e precaria più del muro di Berlino. Ebbene, prima di chiedere e chiedersi "che fare", non può sospendersi il bisogno di riflettere. Di pensare. Di pensare che fare. Se, ad esempio, Bertinotti ha dedicato un breve ed ultimo spazio al rapporto presente-futuro, se ha usato una discrezione inversamente proporzionale alla sciatta disinvoltura aproblematica e astratta che in questo periodo ha accumunato tanti piccoli leader italo-europei o separati in casa, Lussurgiu sembra aver compreso chiaramente che dentro la sfera della riflessione si sta accentuando l'immagine della società che si muove: soggetti produttivi che si incontrano al di qua del mercato e restaurano così il conflitto di classe che tanto politicismo (compreso il nostro) aveva trasceso e rimosso. Le gambe della rivoluzione pur immature sono già in rivolta. Non si tratta di attendere una autonoma impossibile disarmata rivoluzione sociale: contro di essa ha creduto di guadagnare povere pseudofilosifiche vittorie, l'autonomia della politica, quella malizia comica ipersoggettiva ispirata qui da qualche barbarie di Siviglia, o di contro abusata dal buonismo incosciente di qualche ragazzo filo-americano della via Pal.
Quelli che pensano non sono autonomi, né machiavellici (equivocamente amorali) né incivilmente asociali già vecchi nell'era post moderna. Pensano, anche per altri, affinché pensiamo tutti. Dobbiamo per caso, per questo, definirli un po' troppo sovrastrutturali? Allora era sovrastrutturale Gramsci, tanto politico e scommettitore da essere da tutti voi rimosso, e definito utopico. Hanno paura delle utopie, come la sua, che segnano la via alla storia. Utopista sarebbe dunque Dante e Federico secondo, e Campanella, Leopardi, Pirandello, Giovanni XXIII. Era utopista di tutti, quell'altro sognatore matematico che continuate a ignorare, a rimuovere. Marx ha detto: «Le idee dominanti sono le idee della classe dominante». Senza saperlo, noi tutti siamo stati dominati dalle idee della classe dominante. E' questo il problema, compagni?

Aprile on line 16.6.08
Confronti a sinistra
Presenti Giordano, Ferrero, Crucianelli, Nerozzi, Vita, Fava, Craxi
di Emiliano Sbaraglia


Nella redazione di "Aprile" il primo incontro dopo la sconfitta elettorale dello scorso aprile. L'analisi della situazione politica e sociale, unita all'intenzione di costruire insieme un concreto modello alternativo all'attuale governo delle destre. Presenti Giordano, Ferrero, Crucianelli, Nerozzi, Vita, Fava, Craxi

Se sabato 14 giugno al Centro Congressi Frentani di Roma era andata in scena la prima puntata di una collaborazione "in fieri" tra l'associazione "Sinistra per il Paese" e la componente "A Sinistra" del Pd, la tavola rotonda organizzata e svoltasi nella mattinata di lunedi nella sede del nostro quotidiano-web e del mensile "Aprile", va considerata come il primo vero confronto "vìs a vìs" tra quelle forze di sinistra uscite a dir poco malconce dal risultato elettorale dello scorso 13 e 14 aprile.

Una iniziativa alla quale hanno partecipato l'ex segretario Prc Franco Giordano, l'ex ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero; il parlamentare Vincenzo Vita, il senatore Paolo Nerozzi, l'attuale coordinatore di Sinistra democratica Claudio Fava, l'ex sottosegretario agli Esteri Famiano Crucianelli e Bobo Craxi, dichiaratosi subito felice di aver ricevuto un invito non così scontato. A moderare il dibattito il direttore di "aprileonline.info", Carla Ronga; presenti anche alcuni giornalisti di altre testate.

A rompere gli indugi ci pensa Vincenzo Vita, che individua l'importanza di questo incontro nella discussione di temi quali le questioni sociali, le libertà, i diritti, la pace: temi oramai desueti nel dibattito politico e culturale del nostro paese, ma che devono tornare più che mai nell'agenda dell'attuale opposizione parlamentare, proprio per dare voce alle anime politiche non rappresentate in Parlamento dopo la debàcle determinata dal risultato delle ultime elezioni. Una politica che si compia attraverso un nuovo sistema di relazioni, per penetrare nel quotidiano farsi del tessuto sociale nazionale.

Franco Giordano raccoglie l'invito, pur sottolineando che dell'opposizione parlamentare da parte del Pd di cui ha appena parlato Vita ("rigorosa, pragmatica, forte") lui ne ha ancora visto traccia. L'esponente Prc non nasconde le responsabilità del suo partito e della sinistra in genere per la pesante sconfitta subìta, ma nota che lo stesso tipo di autocritica non è stato fatto dal Pd, che pure ha perso anche lui. "L'accelerazione del modello americano imposta da Walter Veltroni ha contribuito alla sconfitta della Sinistra Arcobaleno -sono state le parole di Giordano-, senza con questo voler negare le nostre colpe". L'ex segretario di Rifondazione è dunque d'accordo nel proporre un modello alternativo di società, da contrapporre a quello autoritario che il governo Berlusconi sta rendendo ogni giorno più visibile; ma da parte sua il Pd deve iniziare ad evidenziare chiaramente dagli scranni parlamentari una opposizione ben diversa da quella fatta vedere sino ad ora. Suggerimento che indirettamente sembra essere raccolto dallo stesso Veltroni,il quale quasi simultaneamente annuncia un'inversione di rotta rispetto alla "Politica del dialogo" portata avanti con il capo del Pdl.

Anche per Claudio Fava (con un aereo pronto a partire senza di lui ma che comunque ha voluto essere presente al forum) bisogna ricominciare declinando in forme diverse la parola opposizione, per far fronte alle aberrazioni di un governo, che nei primi due mesi di attività è riuscito a muoversi soprattutto a favore delle pendenze del premier, e che in tema di sicurezza, piuttosto della vera e propria ecatombe rappresentata dalle continue morti sui luoghi di lavoro, riesce a far passare come emergenza assoluta il furto di un portafoglio al Pigneto, magari facendo passare sotto silenzio il 2,9% del Pil rappresentato dal giro d'affari della ‘Ndrangheta. Ma la sinistra ha anche bisogno di ciò che Fava definisce un "bagno d'umiltà semantica", oltre che guardare ai problemi reali del paese, senza ragionare nei termini di una "pura coalizione" tesa soltanto a ricostruire una forza di opposizione in virtù del difficile momento che si vive.

Da parte sua, Famiano Crucianelli invita tutti a risparmiare tatticismi e furbizie, cercando soltanto di trovare accordi con quelli che in molti, a mezza bocca, chiamano "i padroni veri del Pd". Anche perché, guardando con a bocce ferme al voto dell'aprile scorso, una vasta area di elettorato di sinistra ha votato Pd, e di questo bisogna tener conto. Così come, per immaginare una concreta alternativa di sinistra a questa maggioranza, un lavoro comune appare a questa punto inevitabile, prendendo come ulteriore elemento di analisi il fatto che non soltanto in Italia, ma in pratica in quasi tutto il resto d'Europa, è la destra a governare. Crucianelli individua nella scissione tra riformismo e radicalità le radici della "lunga sconfitta", intendendo con tale espressione le origini di una difficoltà elettorale del centrosinistra italiano, iniziato già dopo "la svolta della Bolognina". L'ex sottosegretario agli esteri confessa la sua preoccupazione per un "reazionarismo profondo in vastissimi settori della società"; mentre, dal punto di vista strettamente politico, non accetta l'accusa lanciata da Giordano al Pd ("la discussione interna c'è, forse non è resa troppo pubblica..."), e invita il sindacato a non chiudersi solo ed esclusivamente nel proprio terreno di azione e rappresentanza.

Chi non si sente completamente d'accordo con questa chiave di lettura è Paolo Ferrero, che pur condividendo molto di quanto ascoltato e giudicando positivo l'incontro, indica la ragione principale della sconfitta ne rapporto saltato tra pratica politica e costruzione di un conflitto sociale, perché "senza forza sul piano sociale non si costruisce né alternativa né alternanza". Secondo Ferrero il problema del governo e dell'alleanza è stato quello di non aver avuto sufficiente contatto con la base sociale; conseguentemente il nodo da sciogliere è una "ricostruzione dei nessi sociali", visto che, più che una guerra "basso-alto", il conflitto sociale si è pian piano andato trasformando in una guerra tra poveri. E, paradossalmente, questa condizione "coatta" extraparlamentare potrebbe essere la migliore per tornare a ricostruire molecolarmente gli elementi di sinistra sul piano sociale.

Per Bobo Craxi, che ringrazia dell'invito quasi del tutto inatteso citando l'"aver compagno al duol scema la pena", ci sono tre questioni fondamentali da affrontare: quella di carattere istituzionale, resa ancor più urgente delle prime mosse di questo governo; il pericoloso passaggio sociale dal "novismo" a un "revisionismo" di non buon auspicio; la questione laica, che significa rispetto per la chiesa da parte della politica, ma non subalternità di quest'ultima ad essa. Una chiesa che, non a caso, sta modernizzando le sue forme di attrazione religiosa e di comunicazione con fedeli o potenziali tali, riflessione che suggerisce a Paolo Ferrero un piccolo inciso su come la Chiesa (che sta approfittando del vuoto politico-culturale in atto) ricostruì il proprio consenso dalle fondamenta, ripartendo dagli oratori (la base), dopo aver subìto le pesanti sconfitte su aborto e divorzio. Quello che ora dovrebbe fare la sinistra italiana.

Paolo Nerozzi torna invece sulle cause della sconfitta, anch'egli andando a ritroso nel tempo, ed evidenziando com alcune classi sociali di riferimento della sinistra ormai non votino dal 1994. E non solo in Italia. Citando il libro del ministro Giulio Tremonti, Nerozzi sottolinea che le ultime dieci pagine del saggio "La paura e la speranza" abbiano un programma ben definito, un progetto politico e sociale, assolutamente non condivisibile, ma c'è, che unisce conservatorismo e religione, protezionismo e ipotesi di nuovo mercato. Un impianto che a sinistra è mancato e manca ancora.
Bisogna quindi cambiare il mo di fare politica, perché anche il mondo che ci troviamo a vivere non è più lo stesso.

Ma andare oltre il Novecento, riprende Vita, significa ripensare nuove forme politiche e culturali (da cui il suo favore alla collaborazione tra "Sinistra per il paese" e "A Sinistra"), che allontanino il "paese virtuale" cui la sinistra pensava di riferirsi, in luogo di un "paese reale" con il quale confrontarsi: perché il paese, prima di essere rappresentato, deve essere decifrato (Fava). Ma la velocità dei cicli imposta dalla società postmediatica, continua Vita, potrebbe lasciare spazio e speranza di mettere in difficoltà la destra ben prima di quanto si pensi.

Una nota d'analisi positiva quest'ultima, supportata anche da Crucianelli, critico laddove si è mancato di individuare, nel bene e nel male, il potenziale costituito dal fenomeno-globalizzazione, che soprattutto significa trasformazione in continua evoluzione: e le chiavi di lettura che hanno la meglio oggi (in Italia riassumibili per sommi capi con il trinomio di lunga memoria Dio-Patria-Famiglia), più che una risposta potrebbero entro breve rivelarsi un palliativo.

Ecco perché è importante farsi trovare pronti per una risposta-proposta alternativa, che sia una risposta-proposta vera. Ecco perché i partecipanti a questo incontro hanno promesso di rivedersi presto. Magari per istituire un tavolo permanente, e un confronto periodico.

Corriere del Mezzogiorno 18.6.08
Il prezzo del velo
«La guerra dell'Islam contro le donne» nel libro di Giuliana Sgrena
di Rossella Trabace


E' soltanto un simbolo, il velo. Il segno di una sudditanza morale e materiale difficile da smantellare. Anche se le donne musulmane lottano da anni per affrancarsi. «Ho voluto evidenziare proprio questo. Nei paesi arabi esistono movimenti di donne che si battono per i diritti universali, gli stessi per i quali ci siamo battute noi e che ancora oggi - qui da noi - vengono a volte messi in discussione. Insomma, il femminismo nei paesi musulmani non è un fenomeno importato, ma è un movimento che esiste da molti anni. In Egitto risale addirittura agli inizi del 1900».
Certo, la situazione non è omogenea, esistono molte differenze fra quel che succede in Marocco, in Algeria, Tunisia, rispetto, per esempio, a quanto accade in Serbia, Iraq, Arabia Saudita, Iran, Bosnia-Erzegovina. Anche se resta il filo di quella subalternità femminile presente in tracce anche nei paesi più evoluti, come quelli dell'Africa settentrionale. E quello di Giuliana Sgrena è proprio un reportage a tutto campo, che tiene conto anche della situazione nei paesi occidentali nei quali la ricerca dell'integrazione è ormai una necessità. Tutto questo è finito fra le centosessanta pagine di Il prezzo del velo, sottotitolo La guerra dell'Islam contro le donne (Feltrinelli, Milano 2008, euro 13), vincitore del Premio Città di Bari 2008 per la saggistica. Che la stessa autrice verrà oggi a presentare, ospite dell'assessorato comunale alle Culture, nel corso di un incontro che si svolgerà nel pomeriggio (ore 19.30) sulla terrazza superiore del Fortino Sant'Antonio, dove la giornalista del Manifesto dialogherà con l'assessore Nicola Laforgia, con la semiolinguista Patrizia Calefato e con Rosina Basso Lobello, docente di Storia e Filosofia, in un dibattito moderato da Giusi Giannelli, del Centro cultura e documentazione delle donne di Bari.
Lei, la Sgrena, nella redazione esteri del Manifesto si è sempre interessata del mondo arabo, affacciandosi nei teatri di guerra per documentare l'impatto dei conflitti sulla vita della gente comune. E' così che ha conosciuto tante donne, in Algeria come in Marocco, in Afghanistan come in Iraq. E' così che ha scelto di raccontarne la condizione e le battaglie, volendo scalfire prima di ogni cosa quello che definisce il «relativismo culturale» radicato nei paesi europei e soprattutto in Italia, dove il dibattito, dice, è piuttosto «arretrato».
Quali le posizioni?
«C'è una destra che considera tutto quello che succede nel mondo musulmano espressione di una cultura arretrata, quasi selvaggia, e una sinistra per molti versi reticente, che ritiene di valorizzare quelle realtà, quelle culture, senza entrare nel merito, accettando tutto quello che avviene e finendo per giustificare non soltanto l'uso del velo, ma anche altri comportamenti e altre forme di oppressione».
Non è la prima volta che si occupa di questi temi, anni fa aveva già firmato un libro. Qualcosa è cambiato da allora ad oggi?
«Ci sono paesi nei quali non è cambiato nulla. Penso all'Arabia Saudita, dove proprio non c'è traccia di miglioramenti. Lì le donne addirittura non possono guidare, uscire da sole, né decidere alcunché. In altri paesi la situazione è peggiorata notevolmente: in Iraq a causa della guerra, in Palestina per il diffondersi del fondamentalismo... Mentre in Algeria, per esempio, c'e stata una revisione del codice della famiglia. Certo, non sono state accettate tutte le richieste dei movimenti femminili, ma sono state eliminate molte restrizioni. Il paese più avanzato, dal punto di vista dell'uguaglianza fra uomo e donna, è certamente la Tunisia, anche se molte conquiste restano ancora sulla carta».
Mentre è recente, per esempio, il divieto di infibulazione in Egitto.
«Come dicevo, in Egitto c'è una tradizione consolidata di battaglie femministe. Basti pensare che lì hanno avuto la prima donna ministro nel 1956... Da noi Tina Anselmi è stata nominata nel 1976, ben vent'anni dopo».
Se il velo è il simbolo della condizione femminile nei paesi arabi. esiste un velo anche per le donne occidentali?
«Eviterei questo paragone, posso dire però che ci sono due facce della stessa medaglia: nei paesi musulmani il corpo della donna viene nascosto, velato, per evitare ogni provocazione; in Occidente, invece il corpo dela donna viene spogliato. Sono due modi diversi, opposti, di trattare la donna come un oggetto».

La Stampa Tuttoscienze 18.6.08
Che guardoni questi neuroni specchio
Neuroscienze. Si accendono se vediamo un film porno
La prova che il desiderio sessuale è “questione di testa”
di Giulia Caterina


La visione di grazie femminili attiva la parte del cervello detta opercularis
«Questa ricerca infrange un tabù antico sull’eccitazione nei maschi»

Ancora loro, i neuroni specchio. Stavolta sono considerati come i primi responsabili dell’eccitazione di fronte ai film hard. Le cellule cerebrali diventate celebri per la capacità di attivarsi mentre osserviamo le azioni altrui, come se fossimo noi a compierle, espandono ancora il loro raggio d’azione e, adesso, a loro si attribuisce la capacità di scatenare risposte «automatiche», quasi incontrollabili, erezione compresa. È cerebrale, quindi, la scintilla che accende il desiderio sessuale, secondo la ricerca di un team dell’Université de Picardie «JulesVerne» ad Amiens, in Francia. Gli scienziati hanno misurato la risposta mentale di un gruppo di «cavie» maschili di fronte alla visione di vari tipi di filmati, tra cui un film a luci rosse, valutando i cambiamenti che avvenivano sia nel cervello (visibili grazie alla risonanza magnetica funzionale) sia nel pene. Harould Mouras e i suoi collaboratori hanno notato che «l’aumentare del volume dell’organo maschile è correlato all’attivazione di un’area, la pars opercularis, in cui si manifesta proprio l’attività dei neuroni specchio». Si è anche scoperto che «la loro attivazione precede l’eccitazione e la conseguente erezione». Vilayanur Ramachandran, direttore del «Center for Brain and Cognition» allaUniversity of California at San Diego è una delle «star» degli studi su queste cellule cerebrali, definisce il test come «coraggioso» e si è congratulato perché è la dimostrazione che i neuroni specchio contribuiscono a rompere un tabù sulla sessualità. «È perfettamente possibile che queste cellule giochino un ruolo fondamentale nell’attrazione per la pornografia», ma - aggiunge - è necessario approfondire gli esperimenti per capirne di più. «Molte strutture cerebrali sembrano essere coinvolte, non solo la pars opercularis, e al momento la risonanza magnetica funzionale non è abbastanza accurata per rivelare che cosa accade in “frame” temporali tanto brevi». E che ci vogliano altri studi lo pensa anche VittorioGallese, che fa parte del gruppo coordinato da Giacomo Rizzolatti all’Università di Parma e che negli Anni 90 scoprì l’esistenza dei neuroni specchio. «I soggetti dovevano dare una risposta premendo un bottone e c’era, quindi, una componente motoria che potrebbe aver contribuito ad attivare l’area in cui sono presenti questi neuroni - sottolinea Gallese -. In più non c’è un controllo che abbia dimostrato che quest’area, attivata durante l’osservazione di scene erotiche, sia poi la stessa che si “accende” quando si fa davvero del sesso. Mi sembra che ci sia unpo’ la corsa a mettere l’etichetta “neuroni specchio” su tutto. Sarei quindi cauto prima di affermare che sono implicati nel controllo dell’erezione». Le ricerche continuano. Di certo - sostiene lo studio di Peter Enticott della Monash University di Melbourne in Australia -, l’attività di questi neuroni ci aiuta non solo a comprendere le attività e le intenzioni altrui, ma anche le loro emozioni.

La Stampa 18.6.08
«Negli Stati Uniti decine di innocenti condannati in questo modo»
Tre domande a G. B. Cassano psichiatra
di Antonella Mariotti


Ricordi cancellati da un trauma, per anni, poi un sogno rivelatore, talmente attendibile da far condannare un sacerdote per uno dei reati più abietti: violenza sessuale su una bambina di nove anni proseguita per anni. Ma al sogno che si trasforma in prova giudiziaria non crede il professor Giovanni Battista Cassano direttore del Dipartimento di Psichiatria, dell'Università di Pisa.
Perché professore? Non è possibile che quel ricordo rimosso torni in versione onirica e sia attendibile?
«No, nella maniera più assoluta. Se lo condannano avranno delle forti conferme obiettive, delle prove inconfutabili. Negli Usa ci sono stati casi emblematici di errori giudiziari basati sui sogni delle presunte vittime. Si trattava di padri fustigati e condannati per ricordi di violenze subite dalle figlie, che poi si sono rivelate inesistenti. Quello dei ricordi che ritornano dopo averli rimossi è un terreno molto pericoloso, che non può essere portato in un'aula di tribunale».
La vittima si è sottoposta a centinaia di sedute di psicoterapia, ed è il terapeuta che le ha fatto ricordare quell'evento traumatico.
«Se questa ragazza va dallo psicanalista è un soggetto con sindrome post-traumatica. La violenza sessuale negli anni dell'infanzia provoca disturbi, ma è raro che si veda una grande patologia se non c'è una familiarità alla psicopatologia. Si possono presentare disturbi della condotta alimentare, o personalità borderline. I meccanismi della rimozione sono un campo molto delicato, adesso sappiamo che alcuni farmaci possono indurre amnesie temporanee, come il valium o le benzodiazepine, specialmente per eventi che si verificano durante il sonno e le ore notturne».
Esistono farmaci che inducono l'amnesia, non ne esistono altri per ricordare?
«Ci sono farmaci "attivanti" ma non è detto che attivino quello specifico circuito della memoria. Il meccanismo della memoria è complesso e in tutto il cervello. Può darsi che mettendo in modo un circuito vicino a quello interessato metto in moto anche l'altro. Ma lo stato emozionaI e di quella esperienza è spezzettata in mille frammenti e non è possibile con un farmaco ricostruire quell'evento. E poi in soggetti suggestionabili è possibile assistere alla proiezione nel passato di eventi del presente».
SEMINARIO NAZIONALE, 5 LUGLIO 2008
Di chi è la politica? Le diverse forme e modi dell’agire politico


Promosso nell'Assemblea del 19 aprile a Firenze “Per una sinistra unita e plurale” - gruppo di lavoro “Forme della politica”
Luogo: Firenze
Sede: Palazzo Vecchio, piazza della Signoria

SCHEMA DEI LAVORI
INIZIO: ore 9.30
apertura dei lavori: Anna Picciolini
interventi introduttivi: Maria Luisa Boccia, Pino Ferraris, Paul Ginsborg, Giulio Marcon
GRUPPI DI LAVORO: ore 11-ore 16.30 ( pausa pranzo ore 13.30-14.30)
PLENARIA FINALE con report gruppi di lavoro: ore 17-19
per informazioni e adesioni: info@xsinistraunitaeplurale.it

martedì 17 giugno 2008

Psichiatri Oggi Bimestrale Giugno 2008 N.3
Periodico di attualità psichiatrica diretto da Pier Luigi Scapicchio
Novello nel segno di García Márquez: vivere per raccontarla
1968. Un’associazione, un ministro, una legge
Eliodoro Novello, Giovanni Del Missier, Claudia Dario
Padova, Roma

La storia di questi trent’anni della 180 è anche la storia delle sue celebrazioni. Cominciammo dopo due anni, al Congresso Nazionale SIP di Catania, organizzato in modo magnifico da Uccio Rapisarda e dal suo giovanissimo braccio destro Eugenio Aguglia. Nella splendida cornice del Teatro Bellini, duemila persone tra psichiatri ed accompagnatrici in abito da sera (perché dopo ci si trasferiva per la cena al Castello Ursino, illuminato da centinaia di fiaccole) ascoltarono per la prima volta un’apertura congressuale “non scientifica”. Niente clinica, si esaminavano i primi dati dell’applicazione della legge. Ed io, che avevo l’onere dell’apertura, mi lanciai in arditi riferimenti a Thomas Kuhn per sostenere che quella sera stavamo ugualmente facendo scienza, anche se non parlavamo di ricerca e di malattie. Immaginate la mia sorpresa nel leggere, vent’anni dopo, la stessa argomentazione nello scritto di Michele Schiavone riportato in queste pagine. La seconda celebrazione fu quella per il decennale. Tre grandi convegni per le tre fasce geografiche del Paese a Gardone, Trevi e Palermo. Entrarono nella SIP, quell’anno, moltissimi e prestigiosi colleghi collocati sulle posizioni di Psichiatria Democratica, ai quali non venne negata la doppia appartenenza. Fu un momento storico per noi: si riconosceva finalmente, aldilà degli schematismi ideologici, che tutta la psichiatria italiana stava con la 180 e non remava contro. I trent’anni, è storia di oggi, sono stati ricordati con una conferenza stampa in maggio a Milano. Il programma della celebrazione era stato pensato per rendere edotti i giornalisti partecipanti che la SIP ha smesso di guardare alla storia e guarda invece al futuro, alla psichiatria che sarà. Mi sembra, dopo trent’anni, un atto di intelligenza culturale, che personalmente mi sento di condividere. Psichiatri Oggi dedica questo terzo numero del 2008 alla 180, seguendo un percorso essenzialmente culturale. Ma c’è ancora un pezzo di storia che nessuno ha fino ad oggi raccontato in modo organico, e che vede la luce anche grazie alle nostre ripetute sollecitazioni: quello che riguarda l’azione dell’AMOPI (l’Associazione Medici Ospedali Psichiatrici Italiani) dalla metà degli anni sessanta fino al settantotto. L’AMOPI era un sindacato di categoria, indispensabile in quanto i medici manicomiali avevano uno status giuridico diversissimo dagli altri medici ospedalieri (nonché gli stipendi, inferiori del 50%!) e dipendevano, unici e soli, dalle Province. Ma in realtà essa si trasformò quasi subito in un formidabile propulsore culturale, che contribuì in modo determinante al raggiungimento della 180. Questo articolo riproduce, come anticipazione editoriale, un capitolo di un volume sulla stagione delle riforme psichiatriche, ossia sulla storia della psichiatria italiana dalla legge Mariotti alla 180, che vedrà la luce alla fine di quest’anno. Ringraziamo, non solo per l’autorizzazione a pubblicarlo ma soprattutto per l’impegno e la passione profusi nella certosina analisi delle fonti, i curatori del volume Mario Paolo Dario, Giovanni Del Missier, Andrea Piazzi, Ester Stocco e Luana Testa. L’articolo ha come primo nome quello di Eliodoro Novello, psichiatra padovano che fu una delle colonne portanti dell’AMOPI e che ricordo, infaticabile tra Padova e Roma, nei mesi di stesura della 180. A lui invio un saluto particolare ed un ringraziamento affettuoso per tutto ciò che ha realizzato nella sua vita professionale. Se oggi non esistono più i manicomi e se è stata sconfitta la logica che li sosteneva, è merito anche suo e di quel manipolo di intellettuali che creò e sviluppò l’AMOPI. (PLS)

Nella fiera degli anniversari della storia della psichiatria, che in questo 2008 hanno occasione di venire alla ribalta, trova posto il 1978 e la legge 180 che fu promulgata in quell’anno, ma la memoria a lungo termine della psichiatria sembra arrestarsi lì, incapace di retrocedere di altri 10 anni e raggiungere il 1968, non per gli ovvi tributi alla “contestazione giovanile” ma per rendere omaggio ad una legge che il Parlamento approvò il 18 marzo di quell’anno, che fu detta legge Mariotti ma che avrebbe benissimo meritato l’appellativo di legge AMOPI. Di fronte ai nomi Mariotti o AMOPI nei colleghi più giovani, che ignorino questa fondamentale tappa legislativa che tanto ha inciso sulla assistenza psichiatrica pubblica, risuona il quesito manzoniano “chi eran costoro? ”. È di questo tratto importante della nostra storia che vogliamo raccontare: della legge 431/68, e di coloro che più la vollero: Mariotti e l’AMOPI.

LA LEGGE
Iniziamo proprio dalla legge chiamata «Provvidenze per l’assistenza psichiatrica », che viene ratificata dal presidente della Repubblica Saragat, presentata dal Presidente del Consiglio Aldo Moro ma voluta dal ministro della Sanità il sen. Mariotti. Essa, con i suoi 12 articoli, provoca tre grandi mutamenti nel modo di percepire la assistenza psichiatrica pubblica e il ruolo dello psichiatra. Il primo mutamento è conseguenza dell’art. 4 «Ammissione volontaria e dimissioni» che permette al malato che chieda di ricoverarsi volontariamente, con la sola accettazione del medico di guardia, di evitare la segnalazione di tale ricovero al Procuratore, precedentemente obbligatoria per il Direttore come prescritto dall’art. 53, che dal 1909 regolamentava i ricoveri volontari e che la vigente legge 14-2- 1904 «Disposizioni sui manicomi e sugli alienati» risalente a Giolitti non prendeva neanche in considerazione. Ma, cosa ancora più innovativa, ciò che mutava completamente lo status del ricoverato volontario non era tanto la possibilità di ricoverarsi di sua sponte, che abbiamo visto preesisteva, quanto -incredibile! - la facoltà di chiedere di essere dimesso su sua volontà, eventualmente anche contro il parere dei sanitari come qualunque altro paziente di un qualunque altro ospedale generale1. Ciò acquista pregnanza enorme se si pensa che fino ad allora i ricoveri volontari, per l’art. 53, entravano nello stesso iter giuridico-amministrativo dei ricoveri coatti, ovvero, alla scadenza del mese di osservazione provvisoria, doveva, a seconda della pericolosità, o esser dimesso o automaticamente venir internato in via definitiva. Evidenziamo qui una importante conseguenza della precedente impostazione: per la legge 36/1904 coloro che ricadevano nel “dovere” di esser ricoverati, cioè i “pericolosi e scandalosi”, erano in conclusione i soli ad avere il “diritto” di un ricovero gratuito, per tutti gli altri malati mentali nessuna assistenza pubblica. Solo col Regolamento del 1909 viene ammessa (con l’art. 6, 49 e 50) una unica eccezione: il ricovero in reparti o istituti speciali per quei «mentecatti cronici tranquilli, epilettici innocui, cretini, idioti ed, in generale, individui colpiti da infermità mentale inguaribile, non pericolosi a sé e agli altri » che non siano affidabili a nessuno all’esterno. L’art. 4 ha quindi un enorme valore non solo pratico ma anche simbolico: è con esso che il manicomio diventa - anche nominalmente - l’ospedale psichiatrico aperto a tutti e l’alienato diventa un paziente. La psichiatria inizia a (ri) entrare nella medicina. Il secondo mutamento è poi di straordinario impatto, responsabile ne è l’art. 11 «Abrogazione». Era accaduto infatti nel 1930, con la promulgazione del codice Rocco, che il legislatore fascista riuscisse addirittura a peggiorare l’impianto custodialistico e repressivo della 36/1904 introducendo nel codice di procedura penale l’art. 604 n 2, che così recitava «Nel casellario giudiziale si iscrivono (…) i provvedimenti con i quali il giudice ha ordinato il ricovero delle persone in manicomio e la revoca di tale provvedimento». Se già con il 1904 lo psichiatra era diventato custode e carceriere dei malati, ora nel 1930 sono quest’ultimi ad acquisire lo status di delinquenti, e il cerchio si chiude. Ebbene, l’art. 11 mette fine a questa infamia abrogando il passaggio incriminato dell’art. 604 c. p.p. Crediamo non sia eccessivo porre chi lungamente si è battuto (psichiatri e legislatori) per tale abrogazione sullo stesso piano di tutti coloro che da Pinel in poi hanno voluto affrontare la malattia mentale con metodo medico e non poliziesco. L’alienato riacquista la sua dignità di paziente grazie all’art. 4, ma è con l’art. 11 che cessa di essere considerato un delinquente. E arriviamo, infine, alla terza mutazione che riguarda fondamentalmente l’identità professionale dello psichiatra e (parzialmente) i suoi luoghi di lavoro. Si tratta per quest’ultimo aspetto dei primi tre articoli che trattano della “Struttura interna dell’ospedale psichiatrico”, del “Personale dell’ospedale” e del “Personale dei centri di igiene mentale”. Con essi innanzitutto si ridimensiona una caratteristica dei vecchi manicomi: l’enorme disparità tra l’affol lamento di malati e la scarsità di sanitari, con l’introduzione del limite di 125 posti per ogni divisione a cui devono far capo almeno tre medici, una assistente sociale e 40 infermieri. Oltre all’assunzione di psichiatri, infermieri e assistenti sociali vengono inoltre stimolate le Amministrazioni Provinciali ad istituire Centri di igiene mentale con un loro Direttore e personale specializzato (psicologi e pedopsichiatri) e con ciò formalmente viene riconosciuta l’esigenza di una attività psichiatrica anche fuori del contesto ospedaliero, sia sul versante terapeutico, il malato psichiatrico non deve più stare necessariamente a letto e isolato socialmente, sia su quello preventivo (a cui allude il termine “igiene”) e riabilitativo. Per ciò che riguarda invece il primo aspetto non dimentichiamo che fino al 1968 gli psichiatri pubblici da 60 anni erano equiparati al ruolo di impiegati funzionari della Provincia (dipendevano dal Ministero dell’Interno e non della Sanità) e i loro emolumenti di gran lunga inferiori, fino ad un terzo, a quello dei loro colleghi degli altri ospedali. Con questa legge, nei suoi articoli di natura finanziaria e giuridica, viene raggiunta l’equiparazione del personale medico e ausiliario a quello degli ospedali generali con adeguamento del trattamento economico al personale ospedaliero2. In questo modo, tra l’altro, è possibile l’attuazione del tempo pieno in ospedale con vantaggi sia terapeutici per i pazienti che formativi per il personale. È veramente un mondo che cambia, che si risveglia da un letargo di sessant’anni e si rimette in cammino. Ma come si è arrivati a questa svolta? Agli inizi del 1968 in quel volgere di fine inverno si sta avviando a conclusione anche la quarta legislatura3 e con essa la speranza di vedere discussa in Parlamento la riforma organica della assistenza psichiatrica4 il cui disegno di legge è ormai arenato al Senato dove vi è giunto nel settembre precedente, quando ecco accadere due fatti ravvicinati: il 7 febbraio in Commissione igiene e sanità della Camera l’On. Marcella Balconi (PCI-PSIUP), di fronte all’impossibilità temporale di approvare la legge organica, propone di presentare almeno uno stralcio delle norme più urgenti e sulle quali ci sia convergenza di opinioni per avviare a soluzione il problema della precarietà e dell’insufficienza dell’assistenza psichiatrica. Il 9 febbraio viene definitivamente approvata la riforma ospedaliera e diventa Legge dello Stato quanto fortemente voluto da Mariotti con l’intento di «democratizzare, programmare e umanizzare gli ospedali»5; e intanto la proposta della legge stralcio al contrario si scontra con un forte ostruzionismo. A questo punto il 15 febbraio l’AMOPI, l’organizzazione che raccoglie il 95% degli psichiatri pubblici, scende in sciopero a tempo indeterminato in quanto «ritengono non più tollerabili: la persistenza dell’annotazione dei malati di mente nel Casellario giudiziario, paragonando così una particolare situazione morbosa ad una condanna per un comune reato. L’assistenza psichiatrica in Ospedale, dimostratasi per la maggior parte dei casi inadeguata alle esigenze sanitarie e sociali, per le ben note ristrettezze e insufficienza di mezzi disponibili per tali servizi. L’ingiusta, persistente e intollerabile sperequazione del trattamento economico dei Medici degli Ospedali Psichiatrici a confronto con quelli degli altri medici opedalieri». 6 Lo sciopero, a cui aderiranno più dell’85% degli psichiatri ospedalieri e che si interromperà solo il 20 febbraio, riuscirà nel suo intento di dare la spallata finale che consentirà, nonostante ulteriori ostruzionismi e ostacoli, di far finalmente licenziare dal Parlamento la legge stralcio n. 431 il 18 marzo 1968. Subito il ministro trionfante esprime tutto il suo compiacimento7 e ne ha ben donde, avendo inseguito questo obiettivo per oltre due anni e anzi avendo immediatamente mostrato fin dalla sua nomina a ministro (22 luglio ’64) le migliori intenzioni di smuovere la paludosa, immobile e mefitica situazione della assistenza psichiatrica pubblica. Ma il pur generoso e sincero interesse del socialista Mariotti, per una illuministica riforma dall’alto, non basterebbe da solo e, d’altra parte, a far volgere le sorti della ultima decisiva battaglia non è certo il telegramma che il Presidente della Società Italiana di Psichiatria, Prof. Mario Gozzano, invia il 17 febbraio 68 (durante lo sciopero) al Presidente del Consiglio dei Ministri, On. Aldo Moro8, per perorare l’abrogazione del art. 604 cpp.

L’ASSOCIAZIONE
L’impegno politico culturale di Mariotti non avrebbe successo (anche se solo nella veste di una legge stralcio) se non avesse avuto molte volte al suo fianco e altrettante volte di fronte in strenua ma civile dialettica, una organizzazione sindacale che come lui, più di lui, ha da congratularsi con se stessa per la (ahimè parziale) vittoria. È l’AMOPI, sigla anonima che all’inizio (e vedremo poi perché solo all’inizio) indica l’Associazione Medici Ospedali Psichiatrici Italiani, l’organizzazio ne degli psichiatri pubblici che rivela una sua particolare compattezza, tenacia e concretezza, che si rivelano decisive. Compattezza: essa è capace di raggiungere e accogliere in sé più del 95% degli psichiatri impegnati nell’assistenza pubblica a tutti i livelli, come direttori, primari, aiuti e assistenti. Tenacia: essa è capace di organizzare in poco più di un anno a sostegno delle sue rivendicazioni ben quattro scioperi9 di cui due ad oltranza, a grande partecipazione e non indolori, data la “scarsa disponibilità” delle Autorità giudiziarie ad accettare tale forma di lotta da parte di medici, e pure psichiatri! Concretezza: le sue rivendicazioni non sono mai astratte, ideologiche, a partenza da una progettualità formulata da di fuori o calata dall’alto ma partono dal vissuto quotidiano duro, faticoso, negletto, in cui le amare considerazioni sulla propria situazione lavorativa non sono mai staccate da quelle speculari sulla situazione esistenziale dei propri pazienti, gli uni e gli altri messi a umiliante confronto con quella degli altri colleghi e degli altri degenti negli ospedali generali o specializzati. Il 5 dicembre 1959 a Napoli nel suo primo Congresso l’AMOPI si costituisce come associazione (Presidente Prof. Puca) che, come recita l’art. 1 dello Statuto, ha come scopo «inquadrare in una organizzazione professionale e sindacale tutti i sanitari dei pubblici Ospedali psichiatrici, nell’intento di tutelare efficacemente i loro interessi materiali e morali, individuali e collettivi, di promuovere il progresso edilizio, scientifico, curativo e tecnico degli Ospedali psichiatrici, e di interessarsi presso gli organi competenti di tutti i provvedimenti legislativi ed amministrativi che riguardano la categoria e gli Ospedali psichiatrici»10. Così dopo mezzo secolo di inerzia e passività gli psichiatri cominciano la loro “lunga marcia” nelle istituzioni che darà i suoi primi risultati nove anni dopo. L’inizio della 4° legislatura (28 aprile 1963) vede lasciarsi alle spalle vari tentativi rimasti incompiuti di riformare l’assistenza psichiatrica, p.es. il Disegno di legge ministeriale del 1961 e il Progetto di legge dell’Unione Province d’Italia del 1962, ma è proprio in quel 1963 che l’attività della associazione spicca il volo. Infatti, al terzo Congresso Nazionale (Napoli, 11 giugno 1963), dopo duro scontro elettorale, viene chiamato a guidare l’AMOPI un nuovo e combattivo consiglio direttivo che fa capo come Presidente al Prof. Ferdinando Barison, direttore O. P. di Padova e prestigiosa figura di studioso e ricercatore, e come Segretario al Prof. Mario Barucci, medico di sezione O. P. “V. Chiarugi” di Firenze11 presso cui si stabilisce l’ufficio di Presidenza e la Segreteria dell’Associazione e che è la instancabile mente organizzativa e unificante dell’AMOPI. Subito dopo, a settembre, vede la luce il primo numero dei “mitici” Bollettini AMOPI «che si augura di divenire la lucida coscienza che faccia dell’AMOPI un organismo vivente»12, e noi abbiamo ampiamente attinto a tale lucida coscienza per monitorare e apprezzare la vita di tale organismo. Preziose pubblicazioni per la conoscenza di molta parte della Storia della psichiatria italiana, andrebbero adeguatamente archiviate. Fin da subito si evidenzia agli iscritti (520 nel ’63 e 780 nel ’6513) quanto e come l’attività dell’AMOPI si caratterizzi per due aspetti, quello sindacale p. d. e quello culturale, che non rimangono mai disgiunti ma si intrecciano e si rafforzano l’un l’altro. È un sindacalismo di conio moderno quello che viene espresso a Firenze dal Dott. Gianfranco Zeloni14 e dal Prof. Barucci15 e a Padova dal Dott. Eliodoro Novello16, i medici più impegnati su questo piano. Scrive Zeloni nel 1963: «È da evitare una visione settoriale di sindacalismo ristretto al solo scopo di miglioramenti economici e delle condizioni di lavoro. [Siccome] in un O. P. tutto è connesso con la terapia: dalle mura, alle strutture organizzative interne, agli orari di lavoro dei medici e degli infermieri, [di conseguenza] la categoria medica deve avere funzione dirigente e costruttiva nella soluzione dei problemi dell’O. P. una presenza attiva nella gestione aziendale». «Nell’azienda l’elemento umano è solo il lavoratore ed è giusto che venga considerato il fattore più importante, nell’ospedale invece esiste il malato, elemento umano non lavoratore altrettanto importante e del quale bisogna tenere presenti necessità e diritti da accordare con le necessità e i diritti dei medici e degli infermieri. Il sindacalismo medico è anche difesa delle necessità dei malati: difesa contro errori delle amministrazioni, difesa contro leggi dello stato inadatte alla soluzione dei problemi di tecnica psichiatrica. Il sindacato moderno: una forma attuale di impegno sociale». 17 Ribadisce Barucci nel 1964 e 1965: «Dobbiamo soprattutto sentirci i sindacalisti dei nostri malati», 18 «Un primo aspetto sindacale del problema è l’organizzazione unitaria dei servizi, studiarne la realizzazione è nostro dovere sindacale. Ed anche prepararci con pazienza e umiltà ai nuovi compiti, migliorando le nostre capacità superando certe resistenze, uscendo da certi comodi rifugi mentali, riformando noi stessi prima ancora delle nostre istituzioni». 19 Ratifica nel 1967 Novello, l’unico psichiatra (insieme a L. Giamattei) il cui nome è sempre presente nei vari Consigli direttivi che contrassegnano l’arco esistenziale dell’AMOPI: «Non vogliamo un sindacalismo della dignità offesa, o dei privilegi da conservare ad ogni costo, o corporativo che ci faccia arroccare nella narcisistica contemplazione della nostra bravura e della nostra superiorità tecnica, o rigido, incapace di modificare i propri schemi, di variare i propri obiettivi, o disarmato, che non sappia o non voglia ricorrere ai metodi comuni della lotta sindacale ».

LA PSICHIATRIA DI SETTORE
Il tema della politica sanitaria è il nodo dove avviene l’intreccio tra aspetti sindacali p. d.( le pensioni, il tempo pieno ecc.) e aspetti culturali psichiatrici, essa si esprime nella proposizione piena e convinta di una ben precisa opzione tecnica: la psichiatria di settore. Un tipo di assistenza psichiatrica organizzata secondo i concetti dell’OMS che già vantava realizzazioni in Francia, Olanda e Inghilterra. Vengono perciò presentati in Italia autorevoli esperti stranieri: H. Duchenne di Parigi, D. Buckle dell’OMS, H. Vermorel e R. Lambert della Savoia francese, e P. Bailly-Salin, sia con interventi sul Bollettino sia invitati al grande «Convegno sulle realizzazioni e prospettive in tema di organizzazione unitaria dei servizi psichiatrici» organizzato dalla Amministrazione Provinciale di Varese d’intesa con l’AMOPI il 20-21 marzo 1965 e dedicato esplicitamente al “settore”. In questo Convegno20 numerose voci parlano a favore di questa opzione a cui fanno capo le esperienze di Bologna, Como, Firenze, Gorizia, Milano, Pesaro, Ravenna, Trento, Varese. Tra i “settorialisti” ricordiamo il Prof. Edoardo Balduzzi di Varese, il Dott. C. Coen Giordana di Genova, il Dott. Edelweiss Cotti di Bologna, il Dott. Franco Mori di Firenze e tanti altri che rappresentano la linea vincente, nonostante la fiera opposizione di pochi “antisettorialisti” come il Prof. Diego De Caro di Torino, capofila dei più “anziani” direttori come A. M. Fiamberti21 di Varese, M. Benvenuti di Arezzo, G. Padovani di Genova, Failla di Nocera Inf., A. Muratorio di Pisa, in genere di orientamento neurobiologico. Per illustrare “il settore” ci sembra doveroso lasciare la parola al presidente dell’AMOPI il Prof. Barison, l’aristocratico rappresentante della psichiatria colta, che fin dal 1963 propugna l’interesse dell’associazione per: «L’assistenza territoriale, cioè la tendenza moderna della psichiatria ad adattare l’assistenza a naturali ripartizioni topologiche della popolazione in modo che ad ogni settore di popolazione corrispondano specifici organismi psichiatrici che assicurino una assistenza unitaria e continua in tutti i servizi, da quelli profilattici ai ricoveri». 22 Quindi il principio basilare è: unità e indivisibilità della prevenzione, cura ospedaliera e post-ospedaliera, e riabilitazione da parte di una medesima equipe multiprofessionale di curanti. Questo aprirsi al territorio comporterà nel 1966, nonostante forti tensioni interne, cambiamenti anche formali sia nella denominazione dell’associazione, sia nello Statuto. La stessa sigla AMOPI va a significare ora Associazione Medici Organizzazioni Psichiatriche Italiane, laddove la lettera O non indica più Ospedali, e così pure, per es. nel art. 1 dello Statuto; non si parla più solo di “sanitari dei pubblici Ospedali Psichiatrici” ma anche “dei servizi di assistenza psichiatrica ad essi collegati” con l’intento esplicito di rappresentare “l’intero settore dell’assistenza psichiatrica. ”23

IL MINISTRO
L’AMOPI è insomma una giovane associazione che muovi i primi passi alla ricerca di una identità quand’ecco il 22 luglio 1964 diventa ministro della Sanità, alla sua prima legislatura, il Sen. Mariotti, 52 anni fiorentino, dottore in economia e socialista, con cui inizia un rapporto vivacissimo e passionale fatto di avvicinamenti entusiastici e allontanamenti deludenti che durerà quattro lunghi anni. Per capire il clima politico culturale del momento rammentiamo che la quarta legislatura è iniziata da pochi mesi allorché Aldo Moro costituisce nel dicembre 1963 il primo governo organico di centro-sinistra con Pietro Nenni vicepresidente. I governi di centro- sinistra sono caratterizzati da programmi di rinnovamento sociale e politico e dalla intenzione di incidere sulle strutture burocratiche, economiche e sociali per renderle più rispondenti alle esigenze delle masse lavoratrici. Il 22 luglio 1964 decolla il secondo governo Moro e con esso la carriera politica e parlamentare di Luigi Mariotti ed il suo feeling per il Ministero della Sanità, di cui sarà il titolare per ben quattro governi (Moro II e III, Rumor III e Colombo I). Egli sarà anche Ministro dei Trasporti e infine vicepresidente della Camera dei Deputati (presieduta da P. Ingrao) fino al 197924. Il combattivo Mariotti è socialista e crede nelle riforme, i suoi obiettivi sono il sistema ospedaliero e l’as sistenza psichiatrica, si mette subito al lavoro e a ottobre insedia la nuova Commissione incaricata di redigere un progetto per la riforma della legislazione psichiatrica, ne fanno parte tra gli altri il Prof. Gozzano presidente SIP, il Prof. De Sanctis presidente Lega Igiene mentale, Prof. Barison presidente AMOPI, il Prof. Callieri per l’Università e il Prof. Martinotti dell’O. P. di Roma. Il punto alto della luna di miele con l’AMOPI è la sua partecipazione l’anno dopo al quarto Congresso Nazionale dell’AMOPI (Arezzo 2 luglio 1965) dove peraltro il suo lungo, convinto e ben documentato intervento25 già rivela in nuce i problemi che di lì a poco si manifesteranno. Egli infatti non è affatto un ministro assente e disinteressato, né compiacente e passivo di fronte ai “tecnici” di cui farebbe a meno se potesse (non ebbe gran seguito la Commissione...), egli ha una sua ben precisa concezione della società, dei rapporti sociali (e quindi della psichiatria) e infine del suo ruolo istituzionale. Attento ai temi, oltre che della cura, della prevenzione e della riabilitazione, ai «rapporti tra individuo società e stato, tre aspetti inscindibili, con l’uomo libero che diventa misura di tutti i valori, e non il denaro», egli non lascia indifferente l’uditorio quando afferma che «una società come la troviamo nella legge del 1904 isola una parte della società, perché la ritiene pericolosa per la società globale, sopprime la possibilità all’individuo di essere restituito alla vita e quindi ne distrugge la libertà individuale e i principi animatori della società stessa; mentre se l’uomo è libero ci si può invece opporre a certe alternative politiche su cui molto spesso confluiscono il malcontento e l’inquietudine di precarie esistenze e che politicamente possono avere uno sbocco che pregiudica la libertà dell’uomo». Nessun ministro della Sanità si era mai espresso in tal modo e con tale convinzione ad un convegno di psichiatri pubblici. 26 Ma poi non liberandosi del tutto dall’idea che «il casellario giudiziario non possa non essere sostituito da un qualche cosa che registri un po’ questi tipi di malati che talvolta possono essere anche pericolosi» finisce per attirarsi vibrate «proteste nell’uditorio» laddove tocca un punto cruciale: il rapporto medico-paziente al fine di sottrarre il controllo del malato all’arbitrio del medico curante («se domani il controllo di questi malati fosse riservato esclusivamente al medico vuol dire essere soggetto al controllo dello stesso medico vita natural durante, e i medici potrebbero strumentalizzarlo a fini privati, in quanto essendo uomo egli ha una parte sublime capace di conquiste, sacrifici e solidarietà, ma c’è anche una parte istintiva che può portare a compiere cose distruttive verso il malato». Partendo da queste premesse antropologiche è logico che, nonostante tutte le migliori intenzioni, la necessità del controllo uscita dalla porta rientra dalla finestra, costringendo perciò il Ministro a proporre una sorta di “anagrafe psichiatrica” gestita dal medico provinciale, per le certificazioni a tutela dello Stato (per i concorsi pubblici) e del cittadino (nei confonti del suo curante), inutile dire che su ciò l’attrito con l’AMOPI è vistoso.

LO SCONTRO
Tale attrito si accentua quando tra luglio e dicembre arrivano all’AMOPI varie bordate da parte del Ministro, la prima è la conoscenza dello schema di disegno di legge27 da lui presentato al Consiglio dei Ministri. Esso, malgrado contenga l’abrogazione della Legge 36/1904 e l’art. 604, n 2 del c. p.p., manda grandemente disattese le aspettative degli psichiatri che immediatamente rispondono punto su punto, specialmente, ma non solo, per l’istituzione della “anagrafe psichiatrica” per coloro che siano «affetti da disturbi psichici accertati, pregiudizievoli per l’ammalato e la società, compresi nell’elenco che sarà inserito ». La seconda bordata ha però un effetto ancora maggiore. Il Corriere della Sera del 20 settembre 1965 pubblica un articolo dove si leggeva «Il ministro della sanità, sen Luigi Mariotti, intervenuto ieri mattina al cinema Odeon alla cerimonia indetta dall’AVIS (…) ha ricordato la dolorosa situazione dei degenti in molti ospedali psichiatrici, dove il medico fa una rapida comparsa al mattino e poi sparisce per l’intera giornata, così che quegli ospedali assomigliano piuttosto a “Lager di sterminio o a bolge dantesche”». Questo articolo dà inizio ad una vivace “polemica”. Seguono delle interpellanze parlamentari e inchieste televisive28, fioccano le proteste da parte dell’AMOPI, della SIP, della FNOOM, da assessori provinciali e da singoli psichiatri, segnaliamo in particolare il comunicato stampa del Consiglio direttivo dell’AMOPI che termina con questa affermazione: «La vecchia legge sui “manicomi e gli alienati” deve essere riformata non per evitare le carenze igieniche di un dato ospedale o gli ipotizzati sequestri di persona: per garantirci da questi e da quelle sono sufficienti le disposizioni della Legge vigente e del Codice Penale. La legge va riformata invece perché tutta l’Assistenza psichiatrica deve essere organizzata su basi e concetti diversi ispirati alla mutata realtà sociale ed alla evoluzione delle tecniche terapeutiche (…) ». Si alternano lettere aperte di protesta e risposte concilianti del Ministro, che nella sostanza non ritratta ma anzi ribadisce le sue gravi affermazioni «E non mi si accusi di voler “generalizzare” in quanto il verificarsi di gravissimi episodi dimostra che non si tratta di casi isolati, bensì di crisi del sistema ». La polemica divenne aspra a dicembre con la pubblicazione da parte del Ministero della Sanità di un “Libro bianco sulla riforma ospedaliera” redatto dai giornalisti G. Giannelli e V. Raponi, che denunciando e stigmatizzando in generale il mondo ospedaliero non manca di mostrare il lato oscuro e vergognoso della gestione manicomiale, risultato di molteplici fattori amministrativi, politici e culturali. All’epoca molto fu scritto e l’AMOPI irritata difese la categoria per ragioni d’ufficio e rispose con un “contro-libro bianco”29 che contiene «considerazioni e documenti dell’AMOPI per un più esatto e completo “Libro bianco sulla riforma ospedaliera”», tuttavia Mariotti aveva le sue ragioni. Si assiste in definitiva ad un ben vivace “gioco delle parti” tra il Ministro e l’AMOPI fatto di botte (uso di materiale sensazionale e scandalistico da un lato) e risposte (difese della categoria e proposte di riforma generale dall’altro), il cui bersaglio immediato è smuovere la sensibilità dell’opinione pubblica ma lo scopo finale è stimolare la “pigrizia” dei legislatori. Il 15 marzo 1966 il Sen. Mariotti viene riconfermato ministro della Sanità nel nuovo governo Moro (il terzo).

EPILOGO
È il 1967, il tempo stringe essendo nel penultimo anno di legislatura e occorrono forze nuove per uno scontro finale che si prospetta arduo, e così nel suo quinto Congresso Nazionale30 (Perugia, 3 giugno 1967) l’AMOPI si dà un nuovo Presidente e al posto di Barison “sindacalista tranquillo” subentra alla testa dei circa 900 medici dell’associazione il Prof. Barucci mentre diventa Segretario il Dott. Zeloni; entrambi di Firenze ben contribuiscono con il noto spirito “polemico” toscano al momento fortemente dialettico. Infatti il tema sindacale di fondo di questo interessante Congresso è il dibattito tormentato sullo strumento dello sciopero e il suo uso nello specifico, visto che i ben tre scioperi degli ultimi sei mesi non hanno sortito effetto. A questo riguardo significativo è l’intervento dell’On. Prof. ssa Marcella Balconi31, che accennando alla possibilità di una “piccola riforma” se non si potesse giungere ad una riforma radicale, induce tra gli astanti la cognizione del forte pericolo che passi anche questa legislatura senza riforma psichiatrica. Di passaggio, non possiamo fare a meno di segnalare questo interessante Congresso per alcune altre note intellettualmente stimolanti per un lettore di oggi. Il Prof. Balduzzi e il Dott. L. Massignan di Udine demistificano l’uso degli psicofarmaci a 15 anni dalla loro introduzione e denunciano l’equivoco che il loro boom abbia trasformato la psichiatria, essi anzi hanno contribuito a «un gravissimo tradimento della psichiatria rendendo il rapporto col malato superficiale». Non lontano dal tema suddetto il Prof. Barucci e il Prof. Barison propongono e perorano la scissione delle cattedre di neurologia e psichiatria, che «sono due cose diverse» e che si effettuerà solo nel 1976. Infine a questo convegno fa la sua apparizione con apprezzati interventi il Prof. Orsini di Genova che 11 anni dopo rivestirà un ruolo determinante nel portare a compimento la riforma psichiatrica con la 180/1978. Il 20 settembre 1967 viene presentato il Disegno di legge del Ministro e con ciò questa storia si avvia verso l’ultima fase già raccontata all’inizio di questo lavoro, a cui rimandiamo.

“COL SENNO DI POI…”
Nelle attuali rievocazioni del 1968 e dei suoi multiformi riflessi sulla società legale e civile si sente spesso l’affermazione che, diversamente da altri Paesi (Francia, USA), dove il movimento fu una fiammata per quanto intensa, in Italia durò più a lungo con esiti e ricadute di varia natura e valore, e che lo spartiacque successivo fu il 1978 e il delitto Moro. Pensiamo che non sia troppo azzardato estendere alla psichiatria quanto sopra. Ci chiediamo: perché il 1968 psichiatrico fu solo una tappa e dovette aspettare il 1978 per trovare il suo naturale compimento? Non è questa la sede per esplorare tale percorso e le sue eventuali alternative inesplorate o le ragioni di quel “particolare” compimento. Certo però possiamo concludere con certezza su quelle che furono le lacune e inadempienze (soprattutto legislative) della 431/1968 e che avviarono la necessità storica della 180/1978. La “grande riforma” presentata dal Consiglio dei Ministri nel disegno di legge 2422 del 20 settembre 67 finiva con l’articolo 59 “Abrogazione” che così recitava «La legge 14 febbraio 1904 n. 36 è abrogata (…). È altresì abrogato l’articolo 604 n. 2 del codice di procedura penale (…) »; purtroppo questa “grande riforma” non arrivò mai in aula. Chissà, se fosse stata approvata… La necessità di proporre in fretta e furia un disegno di legge stralcio (n. 4939) che fosse convertibile in legge costrinse tutti coloro che avevano a cuore l’assistenza psichiatrica ad accontentarsi di una “piccola riforma” che pur abrogando il fascista art. 604 n. 2 cpp, manteneva ancora vigente la giolittiana 36/1904. In questo modo la legge stralcio andava ad aggiungersi alla precedente, migliorando di gran lunga la situazione di quei pazienti che volevano curarsi in ospedale, per i quali era stato formulato l’art. 4 (vedi sopra il cap. “La legge”) e che trovarono finalmente una risposta adeguata nel servizio pubblico permettendo agli psichiatri di essere medici e curare, ma non incise né modificò sostanzialmente quella degli altri. Chi erano gli altri? Erano quei malati che (dopo il regolare mese di osservazione) non volevano curarsi e che appartenevano fondamentalmente a due categorie: o quelli che, provenendo dai ricoveri coatti, erano ancora pericolosi a sé e agli altri o quei «mentecatti cronici tranquilli, epilettici innocui, cretini, idioti ed, in generale, individui colpiti da infermità mentale inguaribile, non pericolosi a sé e agli altri »32. Il destino di entrambe queste due categorie era il ricovero definitivo e di essi continuarono ad occuparsi gli psichiatri, nella funzione (non terapeutica) di custodia dei primi e di assistenza dei secondi, e per essi rimase vigente la legge del 1904, perché la legge stralcio apriva (finalmente) l’Ospedale psichiatrico ma non chiudeva ancora il Manicomio. E per essi continuò il movimento riformatore degli psichiatri (in cui ritroveremo alcuni dei protagonisti33 di questo 1968) che infatti ebbe come cavalli di battaglia i due temi rispettivamente della pericolosità (su cui si articola il dilemma coercizione/libertà) e della emarginazione (con l’alternativa abbandono/ riabilitazio ne). Ma, come si dice, questa è un’altra storia che ci accingiamo a raccontare. Desideriamo vivamente ringraziare coloro le cui preziose testimonianze, generosamente condivise con noi, hanno reso possibile questa ricerca storica: il Prof. Gianfranco Zeloni, il Prof. Bruno Orsini, il Prof. Giuseppe Francesconi.

1 Ovviamente i medici di fronte al manifestarsi di situazioni di pericolo potevano sempre ricorrere al ricovero coatto.
2 Anche se bisognerà aspettare la legge 515/1971 per regolare lo stipendio con una indennità non pensionabile e in pratica solo nel 1977 si raggiungerà l’equiparazione.
3 Essa si concluderà il 4-6-1968.
4 A cui fanno riferimento due progetti di legge (l’803 del On. De Maria D.C. presentato il 5-12-1963 e il 2185 della On. Marcella Balconi P.C.I.-P.S.I.U.P. presentato il 13-3-1965) e il disegno di legge n. 2422 presentato il 20-9-1967 al Senato dal ministro Sen. Luigi Mariotti P.S.I.
5 cfr Bollettino AMOPI, anno IV n. 5 settembre 1966,p. 321.
6 cfr Bollettino AMOPI, anno VI n. 3, maggio 1968, pag 57.
7 Cfr. Bollettino AMOPI anno VI n. 3, maggio 1968, pag 81.
8 Cfr. Bollettino AMOPI anno VI n. 3, maggio 1968, pag 64-65.
9 Il 15 e 16 dicembre 1966, il 16-18 marzo 1967, 18-26 aprile 1967 e il 15-20 febbraio 1968, quest’ultimi due ad oltranza.
10 Art. 1 dello Statuto, in Bollettino AMOPI anno I, n.1 settembre 1963, frontespizio.
11 Altri componenti del Consiglio sono G. Padovani Dir. O. P. Genova, E. Failla Dir. O. P. di Nocera Inferiore, M. Benvenuti Dir. O. NP. di Arezzo, C. Coen-Giordana Prim. O. P. di Genova, E. Cotti Prim. O. P. di Bologna. B. Buffa Prim. O. NP. di Vercelli, L. Giamattei Assist. O. P. di Napoli, E. Novello Assist. O.P. di Padova, G. Zeloni Assist. O. P. di Firenze.
12 Cfr. Bollettino AMOPI anno I, n.1 settembre 1963, Presentazione p. 1.
13 Nel 1963, cfr. Bollettino AMOPI anno I, n.1 settembre 1963, p. 23. cfr. Bollettino AMOPI anno III n. 5, settembre 1965, p. 214.
14 Cfr. Bollettino AMOPI anno III n. 5, settembre 1965, p. 243. Cfr. Bollettino AMOPI, anno V n. 5 settembre 1967, p.194.
15 Cfr. Bollettino AMOPI anno III n. 5, settembre 1965, p. 213.
16 cfr Bollettino AMOPI, anno V n. 5 settembre 1967, p.205, p. 227.
17 Cfr. Bollettino AMOPI anno I, n.2 novembre 1963, p. 63.
18 Cfr. Bollettino AMOPI anno II n. 4, luglio 1964, p. 151.
19 M. Barucci Sintesi critica nei riflessi legislativi e sindacali in Atti del Convegno sulle realizzazioni e prospettive in tema di organizzazione unitaria dei servizi psichiatrici. Varese, 20-21 marzo 1965, p. 230.
20 Cfr. Atti del Convegno sulle realizzazioni e prospettive in tema di organizzazione unitaria dei servizi psichiatrici. Varese,
20-21 marzo 1965
21 Autore della “leucotomia transorbitaria di Fiamberti” e di una cura della schizofrenia con la acetilcolina.
22 Cfr. Bollettino AMOPI anno I, n.1 settembre 1963, p. 22. Per una completa e dettagliata disamina Cfr. dott. Franco Mori
(O.P. Firenze) in Bollettino AMOPI anno II, n.2 novembre 1963, p.65.
23 Cfr. Bollettino AMOPI anno IV, n. 3 maggio 1966, p. 101.
24 Luigi Mariotti, a partire dalla persecuzione politica durante il fascismo diventa uno dei grandi protagonisti della vicenda politica e culturale di Firenze e della Toscana nel secondo dopoguerra. Decorato al merito della Sanità pubblica nel corso dei
festeggiamenti per il suo novantesimo compleanno, morirà il 24 dicembre 2004.
25 Discorso del Sig. Ministro della Sanità, Sen. Luigi Mariotti al Congresso Nazionale AMOPI, cfr. Bollettino AMOPI anno III n. 5 settembre 1965, p.189-197.
26 A precedenti congressi erano intervenuti due ministri della sanità: Sen. Monaldi (1959) e Sen. Jervolino (1962).
27 Cfr. Bollettino AMOPI anno III n. 5, settembre 1965, p. 249.
28 Cfr. Bollettino AMOPI anno IV n. 1 p. 48. Cfr. Bollettino AMOPI anno IV n. 3 p. 217.
29 E. Balduzzi, M. Barucci, G. Zeloni (a cura di) Urgenza di una legge per la sanità mentale. Tecniche e costume del rinnovamento psichiatrico. Suppl. Bollettino AMOPI IV n. 2, marzo 1966.
30 Cfr. Bollettino AMOPI anno V n. 4 e 5
31 Prima firmataria del progetto di legge 2185 del 13 marzo 1965.
32 Per quest’ultimi si risolse in gran parte l’aspetto formale con la trasformazione del ricovero coatto in volontario ma non quello sostanziale della loro collocazione.
33 10 anni dopo ritroveremo ancora l’AMOPI nella veste di Novello, Renzoni, Zeloni, Giamattei, Erba, Francesconi, Pagano e, in altro ruolo, Orsini.