giovedì 19 giugno 2008

l’Unità 19.6.08
D’Alema: non faccio correnti, basta con la cultura del sospetto
intervista di Ninni Andriolo


Al seminario Italianieuropei dell’altro giorno c’è stata la preoccupazione per un presidenzialismo di fatto
È allarmante che si stigmatizzi chi cerca di produrre idee e si festeggi invece il correntismo proliferante
La Costituente dovrebbe avviare una riflessione aperta per costruire un grande partito plurale

«A me non interessa fare una corrente». Massimo D’Alema, alla vigilia dell’assemblea costituente del Pd convocata per domani a Roma, spiega nell’intervista a l’Unità di essersi stancato di una cultura del sospetto che accusa di “opacità” la Fondazione Italianieuropei . «Nulla è più trasparente. La cosa che crea diffidenza forse è che non ci riuniamo per chiedere posti, ma per fare analisi e proporre idee». E sul futuro del Pd chiede un confronto aperto, non «una conta interna».

MASSIMO D’ALEMA Il 14 aprile, poi lo choc di Roma, ora la Sicilia: «Alle politiche non c’è stata una doppia vittoria, nostra e del centrodestra. No, ha vinto Berlusconi, per noi sconfitta di medio periodo». «Eravamo partiti con l’idea di stare da soli, poi si è detto che non siamo per l’autosufficienza, ora cerchiamo alleati...»
Presidente D’Alema, il dato delle amministrative siciliane va oltre la sconfitta Pd del 14 aprile. Più che un campanello d’allarme suona la sirena…
«Il voto della Sicilia, che viene dopo quello di Roma, contiene la verità del risultato del 14 aprile. Alle politiche non c’è stata una doppia vittoria, del centrodestra e nostra. Le elezioni le ha vinte Berlusconi. Questo non significa che noi non abbiamo ottenuto, comunque, il risultato di aver messo in campo una grande forza politica. Abbiamo perso, però. E la nostra è una sconfitta di medio periodo. Di fase, come ho cercato di dire fin dall’inizio. E se non corriamo ai ripari rischiamo un progressivo ridimensionamento».
Aumenta l’astensionismo tra gli elettori del centrosinistra, segno di un malessere crescente…
«C’è un fenomeno di demotivazione del nostro mondo che nasce anche dalla percezione di un voto non competitivo. In Sicilia, in particolare, con l’Udc nel centrodestra, pur con una certa differenziazione, c’è il rischio che la dialettica politica si sviluppi dentro un unico campo».
Il dato siciliano non può essere considerato come un incidente locale, non crede?
«Penso che si debba guardare in faccia la realtà di una sconfitta seria. E di un allarme al quale bisogna rispondere con uno sforzo capace di chiamare a raccolta tutte le forze di cui dispone questo partito. Spero che dall’Assemblea del 20 e 21 parta un messaggio di impegno comune, di sforzo unitario. E che si guardi a un lavoro di medio periodo per la costruzione ed il radicamento del Pd».
Le energie del Pd non sono state coinvolte pienamente?
«Vedo tantissime persone, anche di valore, che potrebbero essere coinvolte molto di più in un impegno comune. Il senso dell’Assemblea costituente dovrebbe essere quello di avviare una riflessione aperta e non già quello di realizzare una conta interna. Lo sforzo va volto alla costruzione di un grande partito plurale, in grado di valorizzare le sue diverse realtà. Nessuno può illudersi che i problemi che abbiamo di fronte si possano risolvere in tempi brevi. Si tratta di impostare questo processo nel modo giusto».
Dentro il Pd ci sono linee diverse, palesi o meno, che si confrontano e si scontrano?
«Noi eravamo partiti dall’idea che dovevamo stare da soli, poi si è spiegato che non siamo per l’autosufficienza e adesso siamo impegnati nella ricerca di alleati. Un’evoluzione ragionevole, che dimostra come le differenze, se mai vi fossero state, si sono consumate lungo la strada. La verità è che, come è naturale dopo una sconfitta di questa portata, stiamo scontando un periodo di messa a punto. Eravamo partiti da una certa analisi, quella dei due vincitori e della possibilità di un dialogo per mettere mano rapidamente al processo di innovazione del sistema politico-istituzionale in un senso fortemente bipolare. Mi pare che questa ipotesi sia tramontata e adesso ne stiamo prendendo atto. Dove sarebbe il contrasto di linee?».
Tra chi vorrebbe rinnovare e chi no, ad esempio…
«Fatico a vedere questa raffigurazione del tutto propagandistica per cui dentro il Pd ci sarebbero da una parte la linea del rinnovamento e dall’altra le forze conservatrici. Siamo in una fase in cui questo partito viene precisando tono, contenuto e carattere della sua opposizione».
Nel frattempo Berlusconi cambia stile e va all’attacco alle toghe…
«Il governo si rifugia in una politica di annunci che ha solo un connotato simbolico. Lo stesso ricorso all’esercito per presidiare i rifiuti o per pattugliare le città è segno chiaro di questa tendenza. In un Paese che ha 300mila addetti alla sicurezza, non credo che tremila soldati nelle città possano risolvere il problema. Una scelta, peraltro, che rischia di essere offensiva per le Forze Armate. Ma che tende a inviare il messaggio di un governo forte che non esita a utilizzare i militari. Viceversa, più che un governo forte, io vedo una certa confusione e l’assunzione di misure che sono scatole vuote non utili per il Paese».
Allude alle proposte sugli immigrati?
«Il paradosso è che si moltiplica l’immigrazione clandestina - con le tragedie che si susseguono nel Canale di Sicilia - mentre si discute del reato di clandestinità. Che ha efficacia zero al netto di un messaggio truculento che punta solo a elevare il consenso».
E in politica estera?
«La campagna elettorale è stata giocata all’insegna delle regole d’ingaggio da modificare in Libano e del "no" al dialogo con Hezbollah o con Hamas. Ora in Libano si è fatto l’accordo di governo con Hezbollah. E Israele ha trattato con Hamas, attraverso l’Egitto, con i complimenti della Ue. A riprova che non si può fare la pace con metà dei palestinesi e senza fermare il conflitto a Gaza. Si è fatto quello si doveva fare, che scatenò gli attacchi del centrodestra nei miei confronti».
E la mancata presenza dell’Italia nel gruppo cinque più uno sull’Iran?
«Quello fu un errore del governo Berlusconi nel 2003. E oggi, magari grazie a un più forte allineamento filo Bush, si pensava che l’Italia potesse entrare in quel gruppo. Così non è stato».
Serve un congresso per definire meglio il profilo d’opposizione del Pd?
«I congressi possono essere momenti importanti e necessari. Ci sono congressi ordinari, che vengono alla normale scadenze. Se, invece, si chiedono congressi straordinari, bisogna avere chiare le loro finalità. Ho sentito dire che volevamo fare un’assise del nostro partito che avesse come obiettivo il rilancio programmatico e il consolidamento organizzativo. Altro, invece, sarebbe fare un congresso sulla leadership. Ma questo mi sembra che non lo chieda nessuno».
Presidente, dialogo chiuso, quindi, con Berlusconi?
«Ritengo un fatto positivo che vi possa essere un dialogo con la maggioranza. Non propongo affatto di ripiegare verso la demonizzazione dell’avversario, che tra l’altro è una pratica che non mi è mai appartenuta, nemmeno quando era tanto di moda. Non vorrei, adesso, che si determinasse uno scambio di ruoli e che, dopo essere stato messo sotto processo per "inciucismo", mi si accusasse di un anti berlusconismo primitivo. Il problema non è questo. Ma l’analisi della situazione, la valutazione realistica di quali siano i margini di questo dialogo e gli obiettivi che si vogliono raggiungere».
Veltroni ha chiesto a Berlusconi di togliere di mezzo le norme per congelare i suoi processi. Se questo dovesse accadere il dialogo potrebbe ripartire?
«Ci sono due ordini di problemi. Uno, certamente, è il fatto che le gravi forzature di natura anche istituzionale che Berlusconi sta introducendo rendono il dialogo molto difficile. Siamo tornati a quegli atteggiamenti che hanno gravemente compromesso la vita politica italiana. Poi c’è un altro aspetto che riguarda il dialogo sulle riforme istituzionali e che io ritengo auspicabile. Questo, però, richiede da parte nostra una messa a punto della piattaforma istituzionale con la quale andiamo al confronto. Perché il dialogo è un metodo, che va benissimo, ma che va commisurato ai fini, al consenso e alle alleanze che si realizzano intorno a essi».
L’incontro di martedì promosso da Italianieuropei è stato letto come prova di una nuova alleanza che va da Salvi a Casini…
«Italianieuropei, che viene presentata come una corrente, esiste da dieci anni. Da quando, cioè, il Pd non era nella testa di nessuno. Ma è oggetto, oggi, di una violenta campagna di disinformazione di alcuni quotidiani. Per una istituzione culturale che collabora con tante personalità del mondo della cultura, essere descritta come corrente politica può creare problemi. C’è quasi la volontà di metterci a tacere. Un giorno è la riunione della corrente di D’Alema, il giorno dopo è l’assemblea del nuovo centrosinistra…».
Ci spieghi cosa è accaduto l’altro ieri, allora…
«Insieme ad altre fondazioni, che ringrazio, a cominciare da Astrid, abbiamo fatto un seminario scientifico del quale è stato protagonista un gruppo di costituzionalisti e giuristi tra i maggiori del nostro Paese. C’erano alcune personalità politiche dell’opposizione che hanno collegamenti con alcune delle fondazioni promotrici dell’incontro. Mi ha colpito la convergenza di analisi, la preoccupazione sulla deriva di una sorta di presidenzialismo di fatto, senza regole, che sta prendendo piede nel nostro Paese. Si è discusso di come si riorganizza una democrazia funzionante a partire dalla necessaria opera di ricostruzione dei partiti, dall’efficienza delle istituzioni, dal corretto rapporto tra esecutivo e assemblee elettive. Nello spirito della semplificazione della vita politica, fatto molto positivo, che però non può andare a discapito della rappresentanza e della legittimazione delle istituzioni. Altro che espediente di lotta politica, quindi».
Sotto accusa è l’"opacità" della fondazione Italianieuropei…
«Ma si è anche detto, subito dopo, che quelle dichiarazioni erano state travisate dalla stampa. In realtà, nulla è più trasparente di Italianieuropei. Il nostro patrimonio è inalienabile, i nostri bilanci sono pubblici. Leggo sui giornali di correnti che si riuniscono, legittimamente aggiungo io. La cosa che crea diffidenza, forse, è che noi non ci riuniamo per chiedere posti, ma per fare analisi e proporre idee. Questo evidentemente crea sospetto. È allarmante che in un grande partito democratico ci si accanisca contro chi cerca di produrre idee e si festeggi, invece, il correntismo proliferante. Il Pd dovrebbe considerarci come una risorsa».
Anche fuori dal Pd le attribuiscono l’obiettivo di un "partito nel partito". C’è perfino il progetto di una televisione….
«Ho letto cose inaudite. C’è molto provincialismo, per la verità. Il Partito socialista francese è un fiorire di club e di centri di iniziativa. Al Gore ha una Tv molto innovativa e interessante. Stiamo parlando delle forme moderne di organizzazione della politica».
Le spinte centrifughe non è che rafforzino il Pd, però…
«Non c’è nessuna spinta centrifuga. Io, tra l’altro, sono contrario alla demonizzazione delle correnti. In questo ci vedo un riflesso vetero staliniano che resta tra noi malgrado i cambiamenti...».
Legittima anche una sua corrente, quindi?
«A me non interessa fare una corrente, l’ho detto e lo ripeto. Non ho finalità legate agli equilibri politici all’interno del Partito democratico. Non ho chiesto nulla, né incarichi, né presidenze, né vicepresidenze. Diceva Formica che le correnti nascono da grandi ideali, ma finiscono per essere sindacati di tutela del ceto politico. Ecco io ritengo legittime le correnti, ma ritengo sgradevole se si partisse dalla seconda fase».
Un partito di componenti, correnti e fondazioni ha bisogno di una leadership a cui venga riconosciuto un forte potere di sintesi…
«È chiaro che un partito così articolato ha bisogno di una forte sintesi, di organismi dirigenti autorevoli e pienamente rappresentativi. Spero che questo sia uno dei principali obiettivi dell’Assemblea costituente. Il nostro è un partito che ha una genesi plurale e le diverse componenti tendono a rimanere in collegamento tra di loro. Certo, è una dialettica ancor oggi, purtroppo, legata più alle provenienze che al futuro. Tutto questo non va demonizzato. Penso, però, che il vero problema di oggi sia quello di rimescolare le carte e di mettere in circolazione idee, culture, modi di pensare diversi. Da qui nasce l’idea di affiancare alla fondazione anche un’associazione di persone che intendono partecipare all’elaborazione di idee nuove».
La stessa che oggi conterebbe un terzo dei parlamentari Pd? Ma quella viene indicata come riprova del "partito nel partito"…
«Si scrivono cose ridicole. Anche per prudenza nei confronti di tutte queste polemiche, abbiamo deciso di presentare questa associazione dopo l’Assemblea costituente. Lo faremo a Roma il 24 giugno, crediamo che debba essere composta da parlamentari, e esponenti del mondo della cultura, da chi vuol collaborare con la fondazione, con le sue iniziative. Per farli vivere anche in giro per il Paese e per arricchire i nostri collegamenti con il mondo scientifico. L’idea, quindi, è quella di un’istituzione culturale di tipo nuovo. Ci muoviamo nell’ambito del Pd, ma non siamo un’associazione di membri del Pd. E non ci spetta quindi una quota negli organismi del Pd…».

l’Unità 19.6.08
L’allarme del centrosinistra: sospesi e prescritti i picchiatori del G8
Da Melandri a Orlando e Pinotti, la denuncia dei parlamentari liguri del Pd. La deputata dell’Idv Mura: «Un fatto gravissimo»
di Nedo Canetti


Il parlamentare europeo Vittorio Agnoletto chiede a Napolitano di non firmare la legge di conversione del decreto

Tra i circa 100mila processi che l’emendamento salva Berlusconi al decreto sulla sicurezza sospende per un anno, ci sarebbe anche quello per i fatti del G8 di Genova del 2001. Lo denunciano i parlamentari liguri del Pd (i ministri ombra Roberta Pinotti e Giovanna Melandri, Luigi Lusi, Claudio Gustavano, Andrea Orlando, Francesco Garofani, Sabina Rossa e Mauro Tullo); la deputata dell’Idv, Silvana Mura e Italo Di Sabato, responsabile dell’Osservatorio sulla repressione Prc. «È gravissimo - scrivono deputati e senatori del Pd - che il governo disponga, in questo modo, di sospendere il procedimento che vede imputati poliziotti, agenti di polizia penitenziaria, funzionari e medici (45) accusati di pestaggi e altre violenze ai danni di manifestanti nella caserma di Bolzaneto» e 29 funzionari e poliziotti per l’irruzione nella scuola Diaz. Ed è paradossale che gli unici condannati sarebbero i manifestanti, perché il procedimento a loro carico ha raggiunto una fase processuale fuori della portata del provvedimento governativo, mentre il processo agli altri imputati rischia di finire nel nulla.
Quel famigerato emendamento stabilisce la sospensione dei processi penali per fatti punibili con meno di 10 anni di reclusione, commessi sino al 30 giugno 2002, che si trovino in uno stato compreso tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado. È il caso del processo di Genova, nel quale tutte le imputazioni - lesioni, calunnie, falso - comportano pene inferiori ai 10 anni. Si aggiunga che, nel 2009, alla ripresa dei processi, sarebbero necessari nuovi calendari e nuove notifiche che, per le vicende del G8, sarebbero tanto numerosi da far precipitare rapidamente tutto in prescrizione.
Anche per questo colpo di spugna - rileva Mura - An mostra tanto entusiasmo per l’emendamento e ieri il capogruppo del Pdl a Palazzo Madama, Maurizio Gasparri, si è profuso in appassionati interventi per difenderlo dalla critiche dell’opposizione? «Una beffa» attacca Di Sabato. Tutto questo - sottolineano i parlamentari liguri - «lascerebbe così un’ombra sulle Forze dell’Ordine, la cui stragrande maggioranza ha compiuto, in quei giorni, come fa oggi, il proprio dovere». «Se queste norme diventeranno legge - chiosano - vorrebbe dire che davvero la legge non è uguale per tutti, ma che esistono cittadini più cittadini degli altri». Il Prc lancia una «straordinaria mobilitazione contro il tentativo reiterato di calpestare le garanzia costituzionali». Il parlamentare europeo, Vittorio Agnoletto, ha chiesto al Presidente della Repubblica di non firmare la legge di conversione del decreto, mentre i legali dei manifestanti stanno già valutando a presentare eccezioni di incostituzionalità.

l’Unità 19.6.08
Si può condividere la buona sorte?
di Dijana Pavlovic


Domenica 8 giugno tutti noi Rom dei Balcani abbiamo avuto dalla Serbia una notizia che ci ha rattristato molto: è morto Saban Bajramovic, il re della musica Rom, considerato uno dei dieci più grandi jazzisti del mondo. Aveva 72 anni, era nato in Serbia nel 36, nella sua vita ha scritto e ha composto più di 700 canzoni. Come tutti i Rom di quella generazione non aveva studiato e la sua educazione musicale l'aveva ricevuta dalla strada. A diciannove anni fuggì dall'esercito per motivi e fu condannato a tre anni di carcere per diserzione. Davanti alla corte marziale dichiarò che nessuno può punirlo tanto quanto lui è in grado di sopportare e così la pena gli fu aumentata di due anni mezzo che lui utilizzò per imparare a leggere e scrivere. Il risultato furono altre punizioni perché leggeva invece di lavorare.
Con la sua orchestra ha fatto il giro del mondo suonando con i più grandi jazzisti e venne proclamato re della musica rom quando venne invitato in persona da Nehru e Indira Gandi, ritornando così nel nostro Paese d'origine. Nell'ultima intervista concessa pochi giorni prima di morire si era lamentato che dopo 40 anni di musica non aveva una pensione e aveva dei problemi economici. Allora il ministro della Cultura è andato a trovarlo e il governo ha deciso di concedergli una pensione ma la notizia non ha fatto in tempo a farlo felice: era già morto. Al suo funerale c'era anche il presidente della Serbia Borislav Tadic che nel suo discorso ha ringraziato i Rom per aver condiviso con i serbi la buona e la cattiva sorte. Questo mi ha fatto ricordare che questo inverno, mentre ero in Serbia, ho visto in televisione un servizio su tre ragazzi Rom che suonavano nella via principale di Belgrado facendosi notare per il loro talento naturale. Lo Stato ha allora deciso di dargli una borsa di studio per permettergli di frequentare la scuola musicale.
Tutto questo succede in un paese nostro vicino, considerato barbaro ancora oggi anche se solo pochi anni fa anche gli aerei italiani sono andati a esportarvi la democrazia con le bombe.
Oggi qui, nella opulenta e civile Milano, ragazzi come Eduard, un bambino rom con un grande talento per il violino, vengono cacciati con le loro famiglie da qualsiasi luogo senza che nessuna istituzione si preoccupi del loro futuro. Eduard viveva nel campo di via S. Dionigi, andava a scuola, studiava il violino, sognava di andare al Conservatorio. Poi è stato sgomberato. Il sogno del conservatorio è svanito. Adesso la sua scuola è la metropolitana. A lui di questo Paese tocca solo la cattiva sorte.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità Roma 19.6.08
Una calibro nove per il vigile romano
Approvata all’unanimità dalla Giunta la delibera sul regolamento dell’armamento degli agenti di pubblica sicurezza
Per loro, in dotazione, anche manganelli di gomma e spray antiaggressioni. Preoccupate la Silp-Cgil e la Fsp-Ugl
di Massimiliano Di Dio


Vigili urbani pronti alle armi. In arrivo pistole semiautomatiche calibro nove, manganelli di gomma e spray antiaggressioni. Da portare a casa a fine turno. È l’annuncio della Giunta Alemanno che ieri ha approvato all’unanimità la delibera sul regolamento dell’armamento degli agenti di pubblica sicurezza.
Pressoché quasi tutti gli oltre 6mila vigili urbani della capitale, salvo impedimenti nell’abilitazione e la possibilità di dichiararsi obiettore di coscienza. E se ora tocca ai sindacati di categoria e al consiglio comunale dare il via definitivo, dentro e fuori la municipale non mancano le perplessità.
Questo in sintesi il motto: «A cosa serve comprare una pistola e metterla in mano a un vigile urbano se poi non si hanno le risorse per far fronte ad armerie e corsi di addestramento?». Dal Campidoglio nessuna risposta. Ma il passato parla chiaro. «In vent’anni di servizio con l’arma non ho mai fatto una visita di controllo - racconta Mauro Cordova, presidente dell’Associazione romana vigili urbani - Eppure potevo non avere più i requisiti per tenere in mano una pistola. Ci sono vigili che hanno avuto stati d’ansia, depressione, esaurimento e continuano a girare armati».
Cordova era uno dei 1500 agenti capitolini già armati. Poi per un problema di salute ha deciso di riconsegnare la pistola. Ma è anche quello che nel 2006 aveva «regalato» polemicamente all’ex sindaco Veltroni 600 pistole in dotazione ad altrettanti vigili urbani.
Il suo sì all’armamento infatti non cambia, «Subiamo troppe aggressioni», ma ora avverte: «Solo con criteri ben precisi». Difficile non pensare ai diciotto articoli previsti nel regolamento per dotare di pistola e tanto altro i vigili urbani della capitale.
Agli agenti, oltre alla sciabola prevista per i componenti della squadra d’onore del Comando generale e «per esclusiva esigenza di difesa personale degli operatori previa autorizzazione del ministero dell’Interno», arrivano infatti anche «spray anti aggressione» e «mazzette distanziatrici in gomma di 50-60 centimetri, di peso inferiore ai 500 grammi».
I vigili con le armi preoccupano alcuni sindacati di polizia. «L’armamento della municipale andrebbe valutato caso per caso, servizio per servizio» spiega Gianni Ciotti, segretario generale Silp-Cgil. Incalza a sorpresa anche Antonio Scolletta, coordinatore nazionale Fsp-Ugl, sigla vicino al centrodestra: «L’utilità di una pistola in mano a un vigile - polemizza - va dimostrata. Non ci si può abbandonare alla facile retorica dell’armiamoci tutti. Meglio pensare a illuminare le strade. La municipale dovrebbe funzionare meglio su attività come la lotta alla contraffazione o di polizia annonaria, così da consentire ai poliziotti di occuparsi del controllo del territorio».
Troppe armi in giro, è l’altra preoccupazione. E la pistola, si legge nel regolamento, «è assegnata in dotazione individuale e in via continuativa». Ovvero non deve essere riconsegnata a fine servizio. Qui entra in gioco l’altra annosa, e costosa, questione: le armerie. Al momento ce n’è una sola al Comando generale. «Gli agenti armati sono già costretti a portare le pistole a casa» conferma Cordova. L’Fsp-Ugl per voce sempre di Scolletta sottolinea: «Nei comandi più grandi occorrerebbero armerie da sorvegliare giorno e notte con costi elevati per un’Amministrazione comunale».

Corriere della Sera 19.6.08
Dall'ex ministro e dalla giornalista prc due articoli sulla necessità di evitare derive estremiste
Lanzillotta-Gagliardi, donne contro i «signor no»
di Fabrizio Roncone


ROMA — C'era da leggere, ieri, su Liberazione e su Europa. C'erano due donne della politica italiana che firmavano editoriali importanti, non scontati, lasciando intravedere un nuovo (o vecchio?) orizzonte anti-Berlusconi.
Linda Lanzillotta e Rina Gagliardi sono due donne molto distanti. La Gagliardi è di sinistra, da sempre e profondamente di sinistra e scrive (ed è un piacere leggerla, poiché possiede il dono — raro — della scrittura) sul quotidiano di Rifondazione. È stata anche senatrice di Rifondazione. È pisana, rapida, intellettualmente disponibile, lucida.
La Lanzillotta — nell'ultimo governo Prodi fu ministro per gli Affari regionali, mentre suo marito, Franco Bassanini, che pure il ministro l'aveva fatto più volte, rimase al palo — con ironia, si descrive invece da sola: «Può dire che, nel Pd, sono la rappresentante dell'ala laico-liberal del rutellismo». È molto legata, politicamente, a Francesco Rutelli. E, dunque, ciò che dice, e scrive, va sempre un po' letto in controluce.
E così arriviamo alla strana, sorprendente sintonia che sembra di cogliere nei due editoriali in questione. Quello della Lanzillotta ha questo titolo: «Eppure dovremo dire anche dei sì». Succo del ragionamento: a Berlusconi diremo tutti i no necessari, ma è chiaro «che vorremmo dire dei sì almeno su alcune decisioni annunciate, le quali sembrano proprio riprendere proposte avanzate dal governo Prodi e poi bloccate, o parzialmente vanificate, da resistenze opposte».
La Gagliardi scrive sotto un titolo pure eloquente: «Non ci salverà un nuovo girotondismo ». Per capirci: l'idea di ributtarla sulle «solite imprecazioni quotidiane contro il Berlusca », è un'idea vecchia, destinata a fallire.
La domanda appare scontata, Rina Gagliardi. Entrambe vi dichiarate contrarie a combattere Berlusconi con la tradizionale ondata di «no»: questo cosa significa?
«Credo che alla Lanzillotta, dire tanti "no" non piaccia perché le sembra un comportamento troppo radicale, gruppettaro, barricadero. A me, invece, star lì a dire sempre e solo "no" non piace perché mi pare una radicalità solo apparente. Ci risolvi il quotidiano, dai un po' di soddisfazione ai tuoi che ti vedono con la faccia scura davanti a Berlusconi, ma poi?». Ecco, appunto: poi? «Berlusconi fingerà di ascoltarci e continuerà a governare, con i suoi metodi, per altri dieci anni. Perciò, per sottrarci a questo destino, io dico che serve un progetto politico ampio». Gagliardi, senta: Veltroni che incontra l'ex segretario di Rifondazione Giordano, un colloquio che doveva essere riservato e che invece diventa pubblico. Non è che... «Io penso che Veltroni abbia capito due cose. Primo: collaborare con Berlusconi è impossibile. Secondo: il Pd è un partito importante, ma tecnicamente costruito per governare. Quindi...». Se Veltroni vuol provare a fare un'opposizione... «Che sia definibile tale, è chiaro che non oggi, e forse nemmeno domani, ma insomma prima o poi dovrà aprirsi ad alleanze diverse...».
Linda Lanzillotta, ha sentito? «Eh!». Cosa? «Meglio tardi che mai, certi ragionamenti... Però, beh, io voglio ricordare a tutti che se l'Unione ha fallito, qualche motivo ci sarà pur stato. O no?». Più di uno, sembra di ricordare. «Più di uno. Detto questo... è chiaro che...». Cosa è chiaro? Prosegua. «Occorre rintracciare tutti coloro che hanno una visione comune del futuro di questo Paese: ed è qui, sulla condivisione dei progetti, che si gioca il futuro delle alleanze». Quindi lei sarebbe d'accordo a... «Alt». Come alt? «Io non aggiungo altro».

Corriere della Sera 19.6.08
La Russa: ma i caccia non bombarderanno
L'Italia risponde a Bush Presto in Afghanistan altri quattro «Tornado»
Kandahar, parte l'offensiva anti-talebani
In azione nel Sud le forze Nato e afghane: impegnati oltre mille soldati, uccisi più di trenta miliziani
di Maurizio Caprara


ROMA — E' possibile che l'annuncio ufficiale sia dato a fine mese, quando il segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer dovrebbe incontrare a Roma Silvio Berlusconi. Ma è ormai ben più di un'ipotesi l'invio in Afghanistan di quattro «Tornado» italiani, cacciabombardieri che secondo il ministro della Difesa Ignazio La Russa avrebbero «compiti di perlustrazione e non compiti, mai, di bombardamento». E la prospettiva, di sicuro gradita a George W. Bush, si fa più concreta mentre nel Sud del Paese tuttora insidiato dai talebani, fuori dalla città di Kandahar, si è sviluppata un'offensiva della Nato e dell'esercito nazionale che ha portato alla morte di almeno 36 guerriglieri. Nel giro di 48 ore, in altri punti dell'Afghanistan le forze alleate hanno contato sei caduti: quattro britannici, tra i quali la prima donna dall'inizio della guerra nel 2001, due di nazionalità imprecisata in una zona controllata dagli americani e dieci feriti. Ai quali vanno aggiunti due morti tra i soldati afghani e circa 1.500 famiglie sfollate per ripararsi da bombe e pallottole.
L'argomento della partenza di altri aerei italiani è riemerso ieri in occasione di due informative dei ministeri della Difesa e degli Esteri. La Russa ne ha parlato ai margini di una seduta di commissione al Senato sostenendo che dalla Nato «non c'è stata una richiesta specifica, c'è stato solo un pour parler » e che il numero dei Tornado da fornire all'International security assistance force (Isaf) «non potrebbe essere superiore a quattro». Confermata, comunque, la disponibilità a mandarli: «Se gli alleati ci chiedono che per una copertura anche del nostro contingente vi sia un impiego anche di Tornado italiani, non si può dire che sia una richiesta irragionevole».
Il capo del servizio Stampa della Farnesina Pasquale Ferrara, nella stessa giornata, si è espresso così: «Siamo in una fase di studio. L'incontro con il segretario generale della Nato sarà l'occasione per rendere evidenti tutti gli elementi di questa possibile iniziativa ».
Di certo il ruolo degli aerei non ha tra i suoi limiti soltanto quelli indicati dagli strumenti di bordo. Esistono i vincoli dell'articolo 11 della Costituzione: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente (...) alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia(...) ». In Afghanistan i circa 2.600 militari italiani sono inquadrati nei 49.300 dell'Isaf, forza con truppe di 40 Paesi. L'offensiva nel distretto di Arghandab, via di accesso a Kandahar, ha impiegato elicotteri con missili, aerei e un migliaio tra soldati Nato e afghani. Stando al ministero della Difesa di Kabul, la morte di 20 degli uccisi è dovuta a un bombardamento della Nato. Quest'ultima non ha confermato. La britannica che ha perso la vita nella provincia di Helmand avrebbe fatto parte degli
Intelligence corps. Era su un mezzo colpito da una bomba a Est di Lashkar Gah. Dal 2001 i britannici caduti sono 106. Nei giorni scorsi, il Pentagono ha informato che in maggio il numero delle vittime americane e alleate ha superato quelle contate in Iraq.

Corriere della Sera 19.6.08
Il dibattito Il confine tra utilitarismo e morale: filosofi e ricercatori studiano il giusto equilibrio tra le principali esigenze dell'uomo
Ragione e desiderio così nasce la libertà
La lezione di Spinoza e della scienza: perché è impossibile separare il cuore dal cervello e l'anima dal corpo
di Giulio Giorello


Non solo logica, non solo sentimento

Il convegno cui fa riferimento l'articolo è stato promosso dalla Società filosofica italiana (Sfi), insieme con la Società di logica e filosofia delle scienze (Silfs) e l'assessorato alla Cultura della Provincia di Milano. All'incontro dal titolo «La filosofia, le scienze» hanno partecipato tra gli altri Laura Boella, Maria Luisa Dalla Chiara, Maurizio Ferraris, Elio Franzini, Michele Lenoci, Franco Lo Piparo, Salvatore Natoli, Stefano Poggi Giorgio Vallortigara, Guglielmo Tamburrini. Il convegno si è tenuto il 4 e il 5 giugno scorsi allo Spazio Oberdan di Milano.

«L'esperienza, non meno che la ragione, insegna che gli esseri umani credono di essere liberi solo perché sono consapevoli delle proprie azioni ma ignari delle cause da cui sono determinate, e inoltre che i decreti della mente non sono altro che gli appetiti stessi, e perciò sono differenti a seconda della diversa disposizione del corpo». Non è un caso che sia stato un biologo (ma che viene dalla fisica) — Edoardo Boncinelli — a ricordarmi di recente queste parole dell'Ethica di Baruch Spinoza. Esse toccano il problema filosofico per eccellenza, quello della libertà. Lo aveva già individuato Aristotele, quando aveva definito l'animale uomo come «una mente che desidera» e insieme «un desiderio che ragiona» — per usare l'efficace traduzione di Franco Lo Piparo. L'Ethica spinoziana contiene un'ampia trattazione di tali appetiti o desideri che scaturiscono dagli affetti umani, cioè dai modi con cui il nostro corpo interagisce con l'ambiente e dalle idee di tali interazioni che emergono alla nostra coscienza. Critico di qualunque separazione tra materia e spirito, Spinoza ammonisce i filosofi a non dimenticare il corpo quando si appassionano (forse anche troppo) al destino dell'anima e gli psicologi a non trascurare la materia del cervello quando si dedicano alla genesi delle idee.
Antonio Damasio ama ricordare la sua visita alla casa di Spinoza a Rijnsburg in una assolata mattina (6 luglio 2000), con l'unica compagnia di un gatto nero «all'apparenza tranquillo e assorto», in attesa di una «giornata estiva adatta alla filosofia». Ne è nato un libro affascinante dedicato a «emozioni, sentimenti, cervello» ( Alla ricerca di Spinoza, Adelphi 2003), in cui il neurobiologo ha pazientemente ricostruito alla luce delle attuali conoscenze la geometria dei desideri delineata da quel pensatore solitario che era considerato la «pecora nera» da protestanti e cattolici della sua Amsterdam, per non dire dei suoi ex correligionari ebrei che lo avevano persino «maledetto». Per Spinoza la vita è contrassegnata da una naturale tendenza a preservarla. Ciò è reso possibile in ogni organismo dall'equilibrio delle differenti funzioni e dalla conseguente regolazione dei processi vitali. Un simile «meccanismo» si dispiega attraverso gli affetti (come la gioia o il dolore) ed è modulato dagli appetiti. Questa è la ragione, commenta Damasio, per cui emozioni e sentimenti sono a un tempo essenziali per la sopravvivenza e la conoscenza.
Come si è accennato sopra, il cosiddetto libero arbitrio non sarebbe che un nome per l'ignoranza. Ma ciò non vuol dire che nel sistema spinoziano non ci sia posto per la libertà, da intendersi invece come riduzione dei vincoli esteriori all'azione umana e insieme come processo di chiarificazione dei motivi interiori. L'essere umano è sì in balia degli affetti, ma vive anche la passione della conoscenza. Anzi, come scrive Damasio, è in grado di essere sempre più consapevole della fragilità della propria esistenza e di «trasformarla in un interesse». Per di più questo interesse si riflette da un individuo all'altro, plasmando non poche delle forme di esperienza condivisa, come mostrano alcune tra le più importanti scoperte degli ultimi vent'anni nell'ambito delle neuroscienze.
Diceva Spinoza: «Quanto più uno è in grado di ricercare il proprio utile, tanto più è dotato di virtù. Al contrario, quanto più uno trascura di conservare il proprio utile, tanto più è impotente». A pochi anni dal testo di Damasio e a più di tre secoli dall'Ethica, questo tipo di utilitarismo è tutt'altro che egoismo — come vuole uno stereotipo diffuso. Piuttosto, esso è alla radice della stessa vita associata, ove gli esseri umani tramutano situazioni di pura competizione per le risorse in occasioni di cooperazione. Tutto questo avviene attraverso una percezione razionale dei propri interessi, senza nessun appello a valori comuni o ad assoluti religiosi. È da qui che mi pare opportuno partire per una democrazia pluralistica che tenga conto della differenza delle idee come della diversità dei corpi. C'è chi la bolla sbrigativamente come «relativismo», mentre alcuni temono che questo tipo di approccio riduca i cosiddetti valori a semplici preferenze.
Mi si obietta: se la libertà sta nel superamento delle costrizioni ai movimenti e alle azioni dei soggetti, perché non si dovrebbero lasciare allora spazio a pedofili o a sadici che, dopo tutto, potrebbero invocare a giustificazione le loro voglie o i loro appetiti? La risposta è semplice: come ben sanno sia i teorici dell'utilitarismo sia i migliori dei loro critici, vanno accettate le preferenze che riguardano noi e non quelle che coinvolgono altri! Ovvero agli altri non dovremmo nemmeno fare quello che vorremmo fosse fatto a noi: potrebbero avere gusti differenti. Questa regola ci mette al riparo non solo da sadici, pedofili, eccetera, ma anche da benefattori inopportuni. Per dirla ancora con Spinoza, «chi per semplice affetto si adopera perché gli altri amino ciò che egli ama e vivano secondo il suo sentimento agisce solo per impulso e perciò è odioso specialmente a quelli che trovano piacere in altre cose». Sotto questo profilo, mi paiono odiosi in egual misura sadici, pedofili e fanatici di ogni risma.
Si ritrova così non solo il principio liberale negativo per cui tutto (o quasi) va bene, purché non comporti danno altrui, ma anche l'ideale positivo della più ampia fioritura umana, se si interpreta il detto spinoziano che «l'uomo deve essere un Dio per l'uomo » come la proliferazione di esempi di vita che vengono proposti agli altri senza per questo essere imposti.
Lungo questa via emerge la convergenza virtuosa tra ricerca scientifica e dimensione politica. In occasione di un recente convegno organizzato dalla Società filosofica italiana (4-5 giugno), dal titolo «La filosofia, le scienze» e motivato anche dall'insofferenza per la retorica di chi ripete stancamente che «la scienza non pensa», ho volutamente preso le mosse dall'idea spinoziana per cui le dimostrazioni scientifiche sono da intendere come i veri «occhi della mente». E la stessa filosofia non sarebbe altro che l'organo che di quegli occhi deve sapere fare buon uso.
La ragione e il desiderio: la scalata dell'uomo verso la libertà (illustrazione Corbis)

Repubblica 19.6.08
Gli irriducibili della laicità
di Anais Ginori


La procedura non è facile, serve impegno e vocazione. Primo, mettere le mani sul certificato di battesimo originale, che non è cosa semplice. Magari è stato perso in qualche trasloco, magari è custodito da una vecchia zia-madrina. Senza di quello, non si va avanti. Rintracciati il nome del sacerdote, il luogo, la data e l´ora della cerimonia, si deve inoltrare una richiesta in triplice copia: alla parrocchia dove è avvenuto il battesimo, a quella dove si risiede e al vescovo di competenza. Le prime richieste vengono ignorate. È anche un modo per lasciare un tempo di riflessione. La propria volontà, quindi, deve essere manifestata con forza, all´occorrenza sollecitare con raccomandate. I "teo-no", tecnicamente apostati, non si scoraggiano. In Francia, avanza un manipolo di irriducibili della laicità. Militano contro l´ingerenza della religione nella vita pubblica, nell´epoca dei "teocon" e dei "teodem". Ora che Sarkozy ha riabbracciato il dialogo con il Vaticano, il movimento in favore degli "sbattezzati" prende nuova linfa. In duecento hanno rinnegato quest´anno la religione cattolica, pretendendo pure il certificato. Alcuni di questi hanno riportato in auge una vecchia istituzione della Rivoluzione francese, il battesimo civile che oggi si celebra in alcuni quartieri di Parigi con tanto di madrina e padrino repubblicano. Invece del culto mariano, quello di Marianne.

Repubblica 19.6.08
Il nuovo fascismo. Che cosa resta di quell’eredità
di Simonetta Fiori


"Un lascito va rintracciato nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari e degli interessi dello Stato"

ROMA. Soltanto uno storico come Emilio Gentile, non nuovo a interpretazioni "scomode", poteva inoltrarsi in un terreno non facile come l´eredità del totalitarismo fascista nell´Italia contemporanea. Un´eredità rintracciata non solo nella continuità degli apparati statali e del personale dirigente, traslocati senza epurazione dal regime fascista a quello repubblicano. Né soltanto nella lunga presenza in Italia del più forte partito neofascista europeo, che dopo il lavacro di Fiuggi partecipa al governo del paese e oggi occupa la terza carica dello Stato. L´eredità fascista - è la tesi di Gentile - va rintracciata anche "nel modo di concepire e praticare la politica di massa" nella lunga età repubblicana, "nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari", "in quella costante confusione tra gli interessi dei partiti e gli interessi dello Stato" che ha minato la democrazia.
L´occasione per questa inedita riflessione è l´uscita della terza edizione de La via italiana al totalitarismo, ormai un classico degli studi sul fascismo, tradotto in Europa e in America Latina, ora arricchito di tre nuovi capitoli che investono anche il tema dell´eredità del totalitarismo (Carocci, pagg. 422, euro 26,50). Solo la conoscenza storica del ventennio nero può servire a fare i conti con il suo ingombrante retaggio nel costume, nella mentalità e nei comportamenti degli italiani durante gli ultimi sessant´anni. «Invece prevale ancora oggi la tendenza a caricaturizzare il fascismo, liquidato come regime da operetta, oppure ad alleviarne le gravi responsabilità, quasi non ci fosse mai stato. Tutto quello che il fascismo ha rappresentato come distruzione della democrazia e umiliazione d´una collettività è stato cancellato».
Lei ha coniato la formula "defascistizzazione del fascismo". Un´operazione che ha molti responsabili, anche nella cultura antifascista.
«Sì, vi hanno contribuito molto antifascisti oltre che neofascisti o ex fascisti non pentiti, naturalmente con opposti propositi. Per molti anni ha prevalso a sinistra l´immagine d´un regime ventennale sciolto come neve al sole, una dittatura fondata sul niente, solo violenza e opportunismo, sostanzialmente una "nullità storica". Per Norberto Bobbio non è mai esistita una cultura fascista, il fascismo era solo "un´ideologia della negazione". Franco Venturi inventò l´espressione "il regime delle parole". Guido Quazza arrivò perfino a confinarlo nel mondo degli "epifenomeni politici". Debbo confessare che, ancora alla metà degli anni Settanta, mettere in discussione la tesi della "nullità storica" del fascismo significava per molti fare apologia del fascismo».
Parla per esperienza diretta?
«Quando pubblicai Le origini dell´ideologia fascista, nel 1975, fui accusato da Quazza di voler riabilitare il fascismo. Un assurdo storiografico».
Poi c´erano gli ex fascisti o i nostalgici che avevano tutto l´interesse di annacquare la ferocia dittatoriale del fascismo.
«Sì, l´immagine oscillava tra la caricatura e l´indulgenza, specie nella comparazione con il nazismo o lo stalinismo. Cominciò a circolare la tesi che dura tutt´oggi del fascismo modernizzatore, e niente altro. Soprattutto si negava che il regime fosse stato una "dittatura intenzionale", ma piuttosto "preterintenzionale", nata per caso. Questa era la tesi del Movimento Sociale, fino agli anni Ottanta. Mentre tra gli storici, quando pure oggi parlano di totalitarismo fascista, alcuni negano poi il sostantivo con aggettivi come "zoppo", "tronco", "imperfetto" e simili».
Gli stessi protagonisti del fascismo fecero di tutto per ridimensionare le proprie responsabilità.
«Dopo il 1945, vari artefici del regime ci hanno rivelato che in fondo o non erano stati veramente fascisti o erano stati fascisti dissidenti, critici od ostili alla politica totalitaria, come fecero Bottai, Grandi, Federzoni. Forse, se fosse stato vivo Starace, avrebbe sostenuto d´essere stato solo un maestro di educazione fisica per il benessere degli italiani. Un´autoassoluzione impossibile in Germania».
Conseguenza di questo diffuso "negazionismo" fu la rimozione della categoria di "totalitarismo", secondo lei essenziale per la comprensione del fascismo e del Novecento.
«Una categoria che è stata a lungo rimossa dalle scienze politiche e dagli studi storici. Eppure serve a definire un metodo che fu esportato in Europa proprio dal nostro paese. La stessa parola "totalitarismo" fu usata la prima volta dagli antifascisti italiani».
Quando c´era un regime a partito unico?
«No, tre anni prima. E in questa precocità è la genialità della definizione. Pochi mesi dopo la marcia su Roma, quando il governo era ancora parlamentare, personalità come Amendola, Sturzo e Salvatorelli presero a usare il nuovo vocabolo. In fondo il sistema parlamentare non era ancora molto dissimile da quello delle altre democrazie europee, però essi osservarono il partito fascista e come operò per conquistare il potere. Ne colsero la natura di "partito-milizia", incompatibile con la democrazia e inevitabilmente portato a creare "un sistema totalitario"».
Un´intuizione che però poi s´è persa per strada.
«Negli anni Venti e Trenta ebbe grande fortuna, in Europa e negli Stati Uniti, anche grazie agli scritti di Sturzo come Fascism and Italy. Ma dopo la guerra, la categoria di totalitarismo riferita al fascismo fu messa da parte per diversi motivi. Ho detto della "defascistizzazione del fascismo" nella cultura antifascista: il "nulla" non può avere carattere totalitario. Aggiungo che l´uso del termine totalitarismo per indicare il sistema sovietico lo rendeva sospetto agli occhi di intellettuali che simpatizzavano per il Pci».
Ma in questa liquidazione ebbe un grande peso Hannah Arendt, a cui lei dedica un capitolo di severa e argomentata critica.
«Ancora non riesco a capire come una studiosa intellettualmente onesta come lei possa essere stata così approssimativa e confusa. Nel suo libro Le origini del totalitarismo, pubblicato nel 1951, la Arendt escludeva - fino al 1938 - il carattere totalitario del fascismo. In realtà le sue fonti erano inconsistenti, materiali di propaganda fascista e citazioni di seconda mano. Anche la bibliografia è lacunosa: mi stupisce che non avesse mai letto Fascism and Italy di Sturzo o i saggi di Raymond Aron. Sul piano del metodo, poi, le sue pagine hanno molte incongruenze e contraddizioni».
Ma influenzò radicalmente storici come Acquarone e De Felice. E anche Aron cambiò opinione dopo aver letto il suo libro.
«Sì, la cosa incredibile è che nessuno si è preso mai la briga di andare a verificare le sue tesi. Cosa sapeva veramente la Arendt del fascismo italiano? La sua identificazione del totalitarismo con lo sterminio di massa era così forte ed evidente che sembrò a tutti persuasiva in via definitiva. Nel caso di Acquarone e De Felice, credo agisse in sottofondo un´altra motivazione: una visione sostanzialmente riduttiva del fascismo come autoritarismo sgangherato, che non ebbe mai la coerenza feroce del nazismo e del comunismo. In seguito, De Felice cambiò giudizio».
Questa lettura riduttiva è stata anche favorita dalla mancanza di un Olocausto fascista.
«Non avendo il fascismo la responsabilità d´uno sterminio di massa, esso è potuto scivolare tra le fessure dei totalitarismi nazista e comunista, scuotendosi di dosso lo stigma di regime totalitario».
Ancora oggi la destra postfascista sembra incerta su questa definizione.
«Anche lì c´è molta confusione, mancano ragionamenti articolati. Nel momento in cui Fini riconosce il valore etico e politico dell´antifascismo, rinnega il fascismo e il suo carattere totalitario. Ma è solo una mia deduzione. Il 25 aprile, per il presidente della Camera, è "liberazione dai totalitarismi": ma nel suo discorso non è detto chiaramente che uno di quei totalitarismi fu il fascismo italiano. La confusione, a dirla tutta, alberga anche altrove: diffusa è la resistenza a prendere sul serio il totalitarismo fascista».
Eppure non manca una preziosa memorialistica di tanti giovani che documentarono "l´atmosfera totalitaria" del regime, il suo carattere pervasivo e avvolgente.
«Sì, mi capita di citare spesso una bella pagina di Eugenio Scalfari sulla sua gioventù sotto il fascismo. Se ci fossimo affidati a queste testimonianze, oggi saremmo più consapevoli non solo dell´esperienza totalitaria del fascismo ma anche delle conseguenze esercitate sul modo di far politica in democrazia».
Lei rintraccia questa eredità soprattutto nell´uso dello Stato per fini di partito.
«Sì, la "mistica del partito" che prevale su tutto, come la definiva il repubblicano Mario Ferrara, anche il coinvolgimento emotivo delle masse. Gramsci fu tra i pochi a comprendere che il totalitarismo - libero dallo sterminio di massa - è una tecnica politica che può essere applicata continuamente in una società di massa. Potrebbe essere adottata anche oggi. Una tecnica che punta a uniformare l´individuo e le masse in un pensiero unico, usando il controllo dell´informazione».
Lei pensa che la nostra democrazia sia così fragile da consentire tentativi autoritari?
«Oggi in Europa una dittatura non sarebbe possibile, ma sempre più mi domando se la democrazia non stia diventando una recita: nessuno ci impedisce di essere democratici - siamo liberi di votare, di criticare chi ci governa, di esprimere le nostre opinioni. Compiamo riti democratici, anche con convinzione. Ma le decisioni le prendono in pochi, ai governati non rimane che assecondarle. Una democrazia recitativa».

il Riformista 19.6.08
Avanti popolo. Socialismo reale: Tremonti tassa i petrolieri, sconta le bollette e distribuisce la carta per i viveri
Robin Hood? Era un fascista


Robin Hood fascista, eroe-bandito, no-global. Un profilo complesso ma inevitabile per un celebre ladro divenuto eroe leggendario che ridistribuisce ai poveri, forse, ricchezze sottratte ai ricchi, con rapine a mano armata. Un legittimista cattolico capace però di dialogare con i musulmani, morto impiccato e, comunque, disegnato da Walt Disney come una volpe. Forse perché, machiavellicamente, il fine giustifica i mezzi. A fine 2008, infine, dovrebbe essere pronto un film di Ridley Scott, con Russel Crowe, che smonta il mito romantico di Robin Hood.
La provocazione del Robin Hood "fascista" l'ha lanciata l'altro ieri Giuseppe De Rita, segretario del Censis, criticando il revival di Sherwood lanciato da Giulio Tremonti. A rilanciare, ci pensa il professor Franco Cardini, che si candida a far parte del gruppo di Robin Hood. «Se Tremonti fa Robin Hood, che poi era chiamato Roberto dei Boschi, quindi possiamo chiamare Giulio Tremontino dei Boschi, io sto con lui - ci dice - potrei fare Fra Tac, ho tutti i requisiti che servono: sono grasso, filo-francescano, un teologo mancato, bevo molto e mi piace l'arrosto. Certo, Tremonti in calzamaglia non ce lo vedo bene, ma il carisma ce l'ha. Basta che non porta Bondi e Pera, nella foresta di Sherwood, mentre ci vedrei benissimo Gianni Alemanno, lui può fare Little John», ride Cardini. Che non è pienamente d'accordo con De Rita, sul fascismo di Robin Hood, e rettifica. «È pre-fascismo il suo - sostiene».
«Sul piano antropologico - prosegue Cardini - è vero che Robin Hood appartiene alla tradizione dell'homo selvaticus, propria della mitologia decadentista, che storicamente parlando è stata fatta sua dal totalitarismo del ‘900. Ma rispetto al fascismo, Robin Hood è il ribelle a una autorità fittizia, non è un campione di libero arbitrio, la sua reazione è legittimista. È contro Giovanni Senza Terra, che è inetto e cattivo, ma agisce nel nome del buon Re Ricardo. Che poi era un criminale. Robin Hood agisce come De Maistre insegna, in nome di un ordine cosmico superiore. È mitologia, una leggenda antropologica, che a me piace molto e spero che Tremontino Dei Boschi porti a termine la sua missione. Più simile a Fra' Diavolo che Von Salomon».
Secondo lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, De Rita ha ragione, Robin Hood è fascista. «Tutti i banditi, i briganti son fascisti. Sulla scia di Ernest Junger, tutti coloro che vivono al limitare della foresta non possono essere che definiti fascisti. Perché si caricano di un decisionismo che sopperisce alla mancanza di ordine costituito, al vuoto che crea ingiustizia. Anche nell'etimo, il bandito è colui che è messo al bando. E oggi il fascismo è bandito. In Italia non se ne può parlare e la destra sociale, che propone giustizia sociale, sconta ancora questa condanna».
Parli di Robin Hood e pensi a Sherwood, storica radio di Padova dei no global. Per Luca Casarini «Robin Hood non è fascista, però Tremonti si sta dimostrando un grandissimo politico, perché produce immaginario, e l'immaginario oggi non è sovrastruttura, ma società. La Robin Tax mi piace perché fa rima con la Tobin tax, ma bisogna vedere cosa farà Tremonti di quello che promette. Comunque ha capito dalla Lega, che tutti hanno sottovalutato, il valore collettivo del folklore, del dio Po, che tanto prendevamo in giro. La sinistra, questa capacità di produrre immaginario, non ce l'ha». Fascista no, ma tremontiano, Robin Hood, sì. «Anche se Tremonti in calzamaglia va bene giusto per Mel Brooks».
Non resta che tornare al punto di partenza. Al professor De Rita, appunto, e alla sua accusa di fascismo per Robin Hood. «Mi ha colpito una frase di Fausto Bertinotti, diceva che non ci sono conflitti sociali, ma si è innescata la pretesa. I nuovi poveri, o i ceti impoveriti, pretendono che qualcuno pensi a loro. Questa pretesa è raccolta da chi sostiene di interpretare i loro bisogni. Figure come quella di Robin Hood, uomini della provvidenza che interpretano i bisogni del popolo, sono fenomeni fascisti. Robin Hood praticamente sostiene di agire in nome del popolo, il popolino, che oggi è il ceto medio, impoveritosi e impaurito. Ma decidere quello che il popolo vuole, quello che bisogna fare in nome loro, è fascista. Quando ho sentito la frase di Tremonti sulla crisi del ceto medio che porterà a un nuovo fascismo mi ha spinto a fare questa riflessione. Tremonti ha ragione, ma la ricetta, come immagine, è pericolosa. Il fascismo vero, quello mussoliniano, era fatto da grandi inventori, più che interpreti, dei bisogni del popolo, un popolo che non voleva conflitti ma pretendeva. Così è nata l'Iri, l'Opera nazionale maternità infanzia, le colonie, l'Enac… Ora non c'è più il popolino degli anni '30, ma un ceto medio impoverito e impaurito, che ha la stessa pretesa, anzi, persino maggiore, che qualcuno risolva i suoi problemi. C'è domanda di mediazione politica più che di soluzioni vere a problemi sociali». Con questo, conclude De Rita, «non volevo certo dire che sono soluzioni fasciste quelle di Tremonti. Anzi. Lui ha colto il pericolo di un ceto medio in declino. Ammetto che io stesso, un cantore della cetomedizzazione dell'Italia, ho visto in ritardo questo declino. Lui l'ha visto per tempo. Ma Robin Hood è la risposta sbagliata».
(mastra)

il Riformista 19.6.08
il Nazareno tirato per la giacca dai due giornali che l'hanno sostenuto
Scalfari spinge il Pd sull'Aventino, Mieli lo ritira giù


La più corrosiva è stata la Jena di Riccardo Barenghi che da un bel po' si è trasferita dal Manifesto comunista al quotidiano della Fiat. Dalla Stampa di martedì diciassette: «E se domani Scalfari scrive che bisogna dialogare con Berlusconi, Veltroni che fa, ricambia linea?». L'allusione è all'editoriale del Fondatore di Repubblica di domenica scorsa, in cui l'ennesimo strappo ad personam del premier su emendamenti anti-Mills e probabile lodo-Schifani bis è accostato alla parola «dittatura». A Scalfari, poi, si sono adeguati sia il leader del Pd, che ha dichiarato chiuso il dialogo con il Cavaliere dopo due mesi di «opposizione mielosa intesa come degenerazione del mielismo», come malignano nella redazione sulla Cristoforo Colombo, sia il direttore Ezio Mauro, che l'altro giorno ha scritto un editoriale chiaro sin dal titolo: «Il vero volto del Cavaliere». E dire però che anche Repubblica , come il rivale dirimpettaio del Corriere della Sera , fino a qualche giorno fa, e sin dai tempi del discorso veltroniano del Lingotto di Torino, aveva accompagnato e sostenuto la discontinuità del Pd rispetto all'antiberlusconismo unionista di Prodi. Se non altro per una questione di crudo realismo, come hanno dimostrato in questi mesi le ricognizioni domenicali del sociologo Ilvo Diamanti sull'Italia. Analisi in cui emergono soprattutto gli evidenti spostamenti culturali del paese sulla sicurezza e sul nordismo, quest'ultima pubblicata proprio domenica scorsa. E senza contare, infine, la copertina del numero dell'Espresso in edicola, un'inchiesta sull'«Inferno Notte» italico («Da Torino a Bari, da Padova a Napoli. In viaggio sulle Volanti della polizia. Tra insicurezza e impunità, esasperazione e ferocia, violenza e droga. Mentre l'immigrazione crea allarme anche nei centri di provincia. E il lavoro delle forze dell'ordine procede tra ostacoli e sfiducia») che da molti è stata considerata come un assist perfetto al pacchetto sicurezza di Maroni.
Tutto questo, però, è come se si fosse liquefatto di fronte al ritorno del Caimano. Dalla sponda nuova del realismo ci si è tuffati subito per raggiungere l'antica riva identitaria anti-berlusconiana propugnata dal Fondatore e che potrebbe anche garantire un recupero di copie, visto che da mesi Repubblica è sotto il tetto delle 600mila. Non ha mutato la sua linea, invece, il Corriere di Paolo Mieli. Certo, non sono passati inosservati gli articoli in prima della penna giudiziaria di Luigi Ferrarella, che una settimana fa in tandem con Carlo Bonini di Repubblica fece a pezzi il ddl sulle intercettazioni, ma a contare è soprattutto la sostanza politica degli editoriali liberal tendenti a destra di Angelo Panebianco e Piero Ostellino, usciti in successione uno dopo l'altro. Panebianco, martedì scorso: «Non se ne sentiva la mancanza ma la notizia è ufficiale: è tornato il regime con annessi attentati alla Costituzione e derive autoritarie. La sinistra dura e pura, quella che oggi vuole dare lo sfratto a Walter Veltroni per connivenza col nemico, torna agli argomenti di sempre». E Ostellino, ieri, ha scritto come dovrebbe comportarsi «un'opposizione responsabile», ossia «riformista» e senza «pulsioni rivoluzionarie». Un distinzione «sottile» ma fondamentale: «Un'opposizione responsabile evita di tradurre un singolo episodio parlamentare in una teoria generale del crimine e di sostenerla davanti al paese, per dimostrare che con un governo criminale è impossibile instaurare un rapporto fisiologico».
Insomma, il Corriere mielista, in piena sintonia con la grande borghesia industriale del nord, non abbandona la postazione del dialogo, anche ora che Veltroni marcia in direzione dipietrista e aventiniana, come dimostrano i banchi vuoti dell'opposizione ieri al Senato. Dalla redazione di Repubblica giudicano «strambi e bizzarri gli editoriali del Corriere » e per certi versi anche «divertenti se non fosse che la situazione è drammatica». E aggiungono: «Tirano per la giacca Veltroni quando è stato Berlusconi a fare tutto da solo, il leader del Pd ha solo subìto con sorpresa quello che è successo». Da via Solferino ribattono che «stavolta nessuno ha potuto impedire la torsione impressa da Scalfari, invece in tutte le democrazie occidentali si può criticare duramente il governo per un provvedimento senza per questo spezzare il filo del dialogo».
Fatto sta che in tempi di «clima nuovo» e di «clima cambiato», il leader del Pd era riuscito nell'impresa di riunire i "partiti" di Corriere e Repubblica . Adesso gliene rimane uno solo. Sempre che, come nota la Jena, il Fondatore non cambi idea e linea e dica a Veltroni di riprendere il dialogo.

Il Messaggero 19.6.08
Fiori Nastro: «I pericoli sono isolamento e depressione»
intervista di Francesca Filippi


ROMA «Il videogioco di per sè non fa male, ma è l’abuso a creare dipendenza. Sa perché si parla di epilessia da videogame? Perchè il videogioco con le forti luci intermittenti causa, nei bambini predisposti al disturbo che si sottopongono ad un eccessivo uso del mezzo, forti convulsioni, fino allo svenimento».
Paolo Fiori Nastro, docente di psichiatria presso la prima facoltà di medicina e chirurgia del policlinico Umberto I di Roma, sui danni provocati dall’eccessico utilizzo di videogame non ha dubbi: «l’ambiente familiare deve vigilare, domandarsi come mai bambini e minorenni stanno troppe ore davanti alla Play-station. Anch’io ho tre figli, ma non li lascio mezza giornata davanti al videogioco, né permetto che vedano troppa televisione o che facciano un uso smodato di Internet».
Facile a dirsi, difficile metterlo in pratica.
«Ma la scusa dei genitori sempre indaffarati non regge. I segnali per capire che qualcosa non va nei nostri figli ci sono, eccome. Per prima cosa fuggono dalla socialità. Si rifugiano nel computer, nella musica dell’I-Pod e nel videogioco, tutte attività che isolano. Bisogna intervenire per tempo».
“L’intervento precoce nella psicosi” è anche il tema del convegno che questa mattina si svolge al Sant’Andrea di Roma. Di che si tratta?
«É una giornata di studio organizzata dalla cattedra di psichiatria della facoltà di medicina del Sant’Andrea. Lo scopo è quello di firmare un manifesto per chiedere alla politica soldi anche per la prevenzione. Se non si interviene per tempo, se non si comprende il significato di certi segnali, come ad esempio il rifiuto del ragazzo ad andare a scuola, di uscire di casa, la sua mancanza di interessi, la depressione, non gli si da nessuna possibilità».
Si spieghi meglio.
«Va aiutato, altrimenti si isola. Dobbiamo fare in modo che possa condividere il suo malessere con persone competenti, affinché non si senta unico responsabile del problema».
F.FIL.

mercoledì 18 giugno 2008

Corriere della Sera 18.6.08
E adesso Walter cerca Rifondazione
Incontro con Giordano, la mossa per spiazzare i rivali interni
di Maria Teresa Meli


Dietro le quinte Il segretario cambia linea anche sulle alleanze. Garanzie anti-sbarramento alle Europee

ROMA — Fino a lunedì era stato un ultimatum: Veltroni si riproponeva di scrivere la parola fine al dialogo con Berlusconi nella riunione dell'assemblea costituente del suo partito che inizia dopodomani. Ma ieri il segretario del Pd ha anticipato i tempi ed è apparso su più di un telegiornale per sancire la rottura con il premier.
Veltroni cambia la linea con cui si era presentato sin dall'inizio, prima ancora che cominciasse la campagna elettorale. Veltroni cambia linea, e non solo sul dialogo con la maggioranza. Il segretario del Pd muta la rotta anche sul fronte delle alleanze. Lui che aveva fatto del presentarsi da solo il «must» elettorale del suo partito, ora sembra riflettere anche sul tema delle alleanze. Tant'è vero che ieri mattina ha incontrato l'ex segretario di Rifondazione Franco Giordano. Un colloquio richiesto da Veltroni, che avrebbe dovuto rimanere riservato per i problemi precongressuali del Prc, ma che qualcuno dalla sede del Pd ha reso noto in via ufficiosa.
A Giordano il numero uno del Partito democratico ha anticipato la decisione di chiudere con il dialogo e ha spiegato che il Pd versione autarchica non c'è più. Questa volta — è stato il succo del discorso che Veltroni ha fatto all'ex leader di Rifondazione comunista — ci siamo presentati da soli, ma in futuro dovremo ragionare sulle alleanze. E per mostrare che le sue non sono solo parole buttate là il segretario del Pd ha assicurato a Giordano che il suo partito non asseconderà i progetti berlusconiani di creare una soglia di sbarramento alta per le elezioni europee.
La repentinità con cui Veltroni ha cambiato linea, cavandosi dall'impaccio di questi giorni, è il segno di una nuova strategia del leader che non intende farsi mettere sotto dagli avversari interni, ma li anticipa e li spiazza. Le difficoltà e i rischi a cui stava andando incontro e che avrebbero potuto creargli dei problemi nell'assemblea costituente di venerdì e sabato hanno convinto il leader ad accelerare il mutamento di rotta. Sul fronte della giustizia, la rottura, del resto, era inevitabile: l'atmosfera nel centrosinistra sembra essere quella dei tempi dei girotondi e la concorrenza di Antonio Di Pietro si fa pressante. Tant'è vero che più di un esponente del Pd — da Furio Colombo a Lidia Ravera che certamente non possono essere considerati ostili a Veltroni — ha aderito alla giornata della giustizia promossa da MicroMega e lodata da Di Pietro. E sulla necessità di fare un'opposizione più dura insistevano in questi giorni personaggi che sicuramente non si possono definire giustizialisti come Pierluigi Bersani: «Ci vuole un'opposizione dura, senza il timore di contrastare scelte del governo che possono essere popolari ma che saranno negative per il Paese».
Il tema delle alleanze rappresentava per il segretario un altro cruccio. Dentro il partito non erano pochi quelli che lo criticavano per la decisione di continuare a far giocare il Pd da solo anche dopo le elezioni: da Bersani a D'Alema, passando per Arturo Parisi che rimpiangeva l'Ulivo del tempo che fu. E sono suonati come dei campanelli d'allarme gli abboccamenti tra Fausto Bertinotti, Franco Giordano e l'ex ministro degli Esteri. Già, D'Alema si era spinto fino ad avvertire Rifondazione che dall'incontro tenutosi a palazzo Chigi tra Veltroni e Berlusconi sarebbe scaturita una legge elettorale per le europee fatta apposta per produrre la scomparsa della sinistra anche a Strasburgo. Ma Veltroni non ha nessuna intenzione di farsi rinfacciare una scelta che prima delle politiche tutti, o quasi, avevano definito «coraggiosa». Perciò anche in questo caso il segretario Pd è pronto all'aggiustamento di rotta. Se il Prc pensa a come rimettersi in gioco ci sarà lui a fare da sponda e non D'Alema.
Sminare il campo dell'assemblea costituente non è cosa semplice, ma Veltroni ci sta provando e ci sta anche riuscendo. Il segretario del Pd sfodera un nuovo volto, più decisionista di quello di prima, anche se non quanto vorrebbero i suoi fedelissimi. Il segretario, infatti, non si spinge fino a giocare la carta del congresso, ma all'assemblea ribadirà che la linea del partito la fa lui e non le fondazioni, che possono solo contribuire all'elaborazione politiCambio di strategia co-culturale del Pd.
Il neo-antiberlusconismo del leader del Pd può servire anche a stendere una cortina sulle elezioni siciliane. Sì, perché c'è anche quel pessimo voto nel «cahier de doléances» di molti esponenti del Pd. «Non possiamo certo fare finta di niente di fronte a questo risultato », spiegava ieri Bersani ad alcuni compagni di partito. «Una sconfitta annunciata », diceva Beppe Fioroni, cercando, con quell'«annunciata», di stemperare l'amaro dell'insuccesso. Comunque, del voto siciliano discuterà oggi il coordinamento ristretto del Pd, che dovrà affrontare anche il nodo che Veltroni non è ancora riuscito a sciogliere. Quello della presidenza del partito. Che fare? Respingere le dimissioni di Romano Prodi, come deciso inizialmente? O limitarsi al voto sulla relazione del segretario e sulla direzione del partito, lasciando cadere la spinosa questione? Comunque vada, l'idea è quella di non eleggere un altro presidente, né ora, né in futuro.
Maria Teresa Meli

Corriere della Sera 18.6.08
Il caso Bolzaneto-Diaz
Effetto-decreto sul G8 In salvo i poliziotti, processo solo ai no global
di Marco Imarisio


ROMA — Piccoli effetti collaterali da emendamento. Se la modifica al decreto sicurezza passa così com'è, in materia di G8, vedi alla voce Genova 2001, i colpevoli sono da una parte sola. Addio Bolzaneto, addio Diaz.
Le forze dell'ordine uscirebbero immacolate dal disastro di quei giorni, mentre l'unico procedimento già arrivato alla sentenza di primo grado è quello che condanna 25 manifestanti per devastazione e saccheggio, ipotesi di reato con pene previste che vanno dagli 8 ai 15 anni, e quindi restano fuori dalla sosta ai box imposta dall'emendamento blocca-processi.
Ma per Bolzaneto e Diaz la fermata equivale ad un capolinea. Tutti i reati che vedono coinvolti rispettivamente 45 persone tra poliziotti e medici e 29 tra funzionari e agenti sarebbero caduti in prescrizione nel 2009. Già così la sentenza di primo grado avrebbe avuto solo valore morale, oltre a dare il via ai risarcimenti per le vittime, nessuna conseguenza sul piano penale per gli eventuali colpevoli. Il «congelamento» dei due processi però equivale alla loro eutanasia, perché al momento della ripresa i tempi sarebbero strettissimi, basterebbero un minimo intralcio, un difetto di notifica, i ruoli pieni del tribunale o il cambio di un membro dei collegi giudicanti, per dichiarare prescritti i reati. Se il verdetto per i fatti della scuola Diaz era previsto a novembre, la beffa è doppia per Bolzaneto, «bruciata» sul traguardo.
La sentenza per le torture avvenute nella caserma sulle alture di Genova era prevista per il 16 luglio.
Se davvero andrà così, si verificherebbe lo scenario previsto dai più nichilisti tra i reduci di Genova, convinti fin dall'inizio che non vi sarebbe mai stata giustizia, neppure in tribunale, e contrapposti a quella parte di ex no global che conservava invece fiducia nello Stato. Dice Luca Casarini che «Berlusconi traduce in legge la rimozione bipartisan del G8 già intravista con il governo Prodi». «Un'atroce beffa dopo 7 anni di indagini e udienze», afferma il comitato Verità e giustizia, mentre Amnesty Italia ironizza sulla «sfortunata coincidenza». Nel complesso, poca roba. Reazioni isolate e di nessun peso. Sette anni dopo, Genova 2001 si chiude (forse) in un silenzio assordante.

Corriere della Sera 18.6.08
Nella nuova raccolta di saggi del filosofo compaiono anche Dummett, Odifreddi e Calasso
Severino: è destino, saremo felici
«Il modo d'essere dell'uomo appaga la sua volontà di salvezza»
di Armando Torno


Orizzonti
«Siamo destinati a qualcosa che è infinitamente di più di tutto quanto il più insaziabile dei desideri può volere»

Abbiamo incontrato Emanuele Severino nella casa di Brescia, tra i suoi libri, accanto al pianoforte e ai ricordi che abitano discretamente le stanze dove vive e lavora. Esce oggi Immortalità e destino
(Rizzoli, pp. 198 e 18.50), raccolta di saggi dove invita a camminare «attorno all'altura a cui da tempo tentano di volgersi» i suoi scritti. Sulla scrivania del filosofo ci sono due grossi volumi ottocenteschi con le opere di Platone, editi da Didot, con il testo greco e la traduzione latina di Marsilio Ficino. «La più bella mai realizzata», ci confida con un sorriso.
Questo libro di Severino si presta a molteplici riflessioni, giacché in esso vi sono pagine che chiariscono tematiche a lui care, ma non ne mancano di divulgative e polemiche, dove si parla, tra l'altro, di filosofia contemporanea. Con sorpresa appare Michael Dummett, noto professore di logica a Oxford, qui ripreso anche perché crede che la ragione abbia la possibilità — non ancora realizzata — di dimostrare l'esistenza di Dio; né viene tralasciato un cenno all'ostilità tra Popper e Wittgenstein; inoltre si ricordano Gustavo Bontadini, Gianni Vattimo, Carlo Sini, Vincenzo Vitiello, Salvatore Natoli, Roberto Calasso e altri. Tra questi ecco «l'amico» Piergiorgio Odifreddi, con il quale Severino ebbe un vivace scambio di opinioni. Ne riportiamo uno stralcio, scegliendo una battuta dove ci sembra sia rimasto del sale: «Ama le freddure, ma è forse il caso di rassicurare i lettori che non lo sapessero: sta scherzando... non sempre tira fuori le sue barzellette migliori». Sullo sfondo, pagina dopo pagina, scorrono i grandi riferimenti cari a Emanuele Severino, da Heidegger a Gentile, da Nietzsche a Kant a Hegel.
In codesti saggi c'è anche la possibilità di conoscere meglio le problematiche dell'autore, la sua ricerca teoretica. Per tal motivo gli chiediamo d'acchito il significato delle parole dell'avvertenza, dove ricorda che «questo libro si aggiunge ai precedenti perché crede di mostrare altri percorsi lungo i quali, come la cima tra i pini, l'altura si intravede». Severino sottolinea: «Il cammino di cui parlo è il linguaggio e l'altura non va intesa come un semplice tentativo di tenersi in alto ma è il destino».
Il primo capitolo, che dà il titolo all'opera, è dedicato non a caso a «Immortalità e destino». All'origine di esso ci fu una conferenza che l'autore tenne anni fa in Italia. Il ritmo di scrittura è quello fascinoso, noto al vasto pubblico: «Il divenire del mondo è il comparire e lo scomparire degli eterni. Illusione il loro uscire e il loro ritornare nel nulla». In calce gli chiediamo di aggiungere qualcosa, di mostrare le eventuali implicazioni con la nostra esistenza. Prosegue: «Già ora, da vivi, gli uomini sono avvolti da una "veglia assoluta" che è infinitamente più radicale di ogni incontrovertibilità e di ogni procedura critica della ragione... È all'interno di essa che si mostra la destinazione dell'uomo a cose che egli non spera né suppone. L'uomo non è ciò che il mito e la ragione gli fanno credere di essere, ma è lui stesso, nel profondo, ad essere questa "veglia assoluta". In essa appare l'infinito allargarsi di se stessa, cioè la sua Gloria; il suo accogliere tratti sempre più ampi del Tutto, ossia della Gioia che l'uomo, da ultimo, è».
Severino si interrompe. I silenzi che seguono le sue parole si riempiono, come di consueto, di sguardi che chiedono se tutto è chiaro, se deve soffermarsi su qualcosa. Anni di insegnamento lo hanno abituato a non abbandonare mai l'interlocutore, come invece usano fare i politici quando sono alle prese con qualche idea. Per questo lo invitiamo a chiosare quel «destino» che è nel titolo del libro. Riprende il discorso: «Nei miei scritti tale "veglia assoluta" è indicata dalla parola "destino", costruita in modo analogo a termini quali de-amare, de-vincere, dove il de esprime l'intensificazione dell'amare e del vincere, sì che il de-stino è l'intensificazione estrema dello "stare", cioè dell'inamovibilità in cui consiste la "veglia assoluta"». Dopo un'altra breve pausa: «Il destino è l'apparire di ciò che è, ossia degli essenti. Nel destino appare che ogni essente è se stesso e non diventa altro da sé, e dunque è eterno».
Non gli lasciamo finire la frase che stava affrontando il tema «il variare del mondo è il sopraggiungere degli eterni nell'apparire» e chiediamo se l'immortalità del titolo è correlata a quanto il senso comune pensa della nostra fine. Chiarisce con calma: «Nell'isolamento della terra, la fede nel divenir altro porta alla luce la volontà di salvezza e di potenza. Nel suo significato essenziale la morte è il divenir altro (ossia è l'impossibile); e da sempre i mortali hanno tentato di vincere la morte diventando altro da ciò che essi sono: uccidendo il Dio, come Adamo, o diventandone gli alleati, come Gesù. Hanno tentato di vincere la morte con la morte».
Poi Severino ricorda che i suoi scritti indicano qualcosa che apparentemente «non può non sembrare esorbitante e velleitario» ma che tuttavia è possibile esprimere con l'affermazione di Eraclito: «Sono attesi gli uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano né suppongono». A questo punto aggiunge: «Da cose che sono infinitamente "di più" di ciò che essi desiderano, suppongono, sperano di ottenere». Una pausa, un sorriso, e mentre sistema i due volumi di Platone precisa: «Infinitamente "di più" di ciò verso cui vuole condurre la stessa speranza cristiana, e dunque "di più" di ogni "immortalità" e di ogni "resurrezione della carne" che a speranze di questo genere sono connesse». Ancora un brevissimo silenzio. Poi conclude: «Siamo destinati a qualcosa che è infinitamente "di più" di tutto quanto il più insaziabile dei desideri può volere».

Repubblica 18.6.08
Intesa contro il bipartitismo all´incontro promosso da Italianieuropei e altre fondazioni
D’Alema chiama sinistra e Casini prove per una nuova alleanza
Seminario rilancia il proporzionale. Ma Veltroni non va
di Goffredo De Marchis


All´assemblea costituente il segretario del Pd affronterà il nodo delle correnti

ROMA - La prova di un "nuovo centrosinistra", che dovrebbe andare da Casini a Cesare Salvi, passando per D´Alema, Rutelli e Bassanini. «Sì, si può dire che ieri è stata disegnata una possibile alleanza per il futuro», commenta Salvi. Per il momento l´intesa si limita alle riforme istituzionali ed elettorali. Mancano parecchi passaggi per definire una coalizione diversa dalle attuali e non sono cose da poco: economia, stato sociale, politica estera. Ma sul rilancio del parlamentarismo, la critica al bipartitismo che piace invece a Veltroni e Berlusconi, l´attacco al presidenzialismo strisciante all´italiana, l´accordo è solido. Tanto che il seminario a porte chiuse organizzato ieri da Italianieuropei, Astrid, Fondazione Basso, Crs, Glocus, Fondazione Mezzogiorno Europa, Quarta Fase, Istituto Sturzo e Socialismo 2000 diventerà un convegno pubblico a metà luglio. E da quell´appuntamento uscirà una piattaforma organica di riforme, praticamente una proposta alternativa allo schema su cui hanno lavorato i leader di Pd e Pdl in questi mesi, capace di scombinare i giochi in vista del referendum elettorale della prossima primavera. Al centro del nuovo progetto c´è naturalmente il sistema elettorale tedesco, quasi un proporzionale puro.
Al seminario sulle riforme, quattro ore di discussione con 70 partecipanti, non c´era Walter Veltroni, che ha declinato l´invito. Per la segreteria del Pd ha partecipato Dario Franceschini con Salvatore Vassallo, l´autore del testo di riforma su cui si sono confrontati i poli prima del voto. Raccontano di una tenaglia D´Alema-Casini che ha messo in difficoltà l´architettura istituzionale costruita dall´ala veltroniana. Ma Franceschini e Vassallo sapevano di essere in minoranza in questo contesto. D´Alema ha premesso: «Le fondazioni non si occupano direttamente del dialogo tra maggioranza e opposizione. Contribuiscono però a definire un impianto culturale solido che aiuta il confronto, naturalmente». Come dire che il Pd deve dotarsi di una sua agenda di riforme, non può farsela dettare dal Cavaliere e con quella presentarsi al tavolo. Detto questo, l´ex titolare della Farnesina spiega che al convegno di metà luglio verrà invitato anche il governo. Possibili sponde alternative a Berlusconi di questo "cartello" di associazioni? Giulio Tremonti e la Lega. Soprattutto con la spada di Damocle referendaria che pende sulla testa del Carroccio.
Naturalmente questa agenda ha connotati opposti alla proposta del vertice democratico. Muove dal sistema tedesco che Vassallo al seminario liquida così «non è in campo», rimbeccato dal dalemiano Roberto Gualtieri: «Basta mettercela». Franceschini usa il massimo della cautela possibile, ma difende la scelta del Pd di correre liberi, di «essere il baricentro di un´alleanza» in una logica che ai molti oppositori presenti appare simile all´"autosufficienza". D´Alema è su un´altra linea. Boccia persino l´elezione diretta dei presidenti di regione, frutto di una svolta parlamentarista evidente. Dall´altra parte Pier Ferdinando Casini condanna il governo ombra anche con una certa ironia: «Consiglio al Pd di non cercare ancora l´istituzionalizzazione di questo strumento. Non fa molta strada e si rivelerà un favore a Berlusconi». D´Alema condivide la critica. L´ex ministro degli Esteri e il leader dell´Udc si scambiano anche un bigliettino complice (il primo lo invia al secondo) mentre parlano altri oratori.
L´attivismo delle fondazioni, sospettate di essere delle correnti mascherate, sarà uno dei nodi che Veltroni dovrà sciogliere all´assemblea costituente di venerdì e sabato. Il segretario è intenzionato a difendere l´impostazione di fondo del Partito democratico, a cominciare dalla scelta di «andare liberi» al voto. Chiederà di non dare vita a un´organizzazione basata sulle correnti. Poi sfiderà chi ha un´idea diversa a venire allo scoperto, a parlare a viso aperto. Non evocherà il congresso anticipato, ma c´è sempre la replica di sabato per annunciare che «la parola deve passare ai fondatori del Pd» se viene messo in discussione l´intero impianto. Cioè alle primarie sulla leadership, ai tre milioni e mezzo del 14 ottobre.

Repubblica 18.6.08
Sinistra, parole chiare per spiegare la sconfitta
di Corrado Augias


Caro Augias, il suo giornale ha pubblicato giorni fa un ampio stralcio dell'analisi di Bertinotti dal titolo: «Perché la sinistra ha perso». Non sono riuscito ad andare oltre la metà. Riporto un periodo a caso: «L'ingresso della destra nella modernizzazione, candidandosi ad essere la forza più vocata ad accompagnarla, l'ha deideologizzata, consentendole di recuperare poi scampoli e tracce delle diverse tradizioni della destra e di ricomporle in una politica definita proprio sulle risposte da dare alla crisi sociale e politica e istituzionale provocata dalla stessa modernizzazione».
Ciò posto, penso che la sinistra abbia meritatamente perso, credo che gli italiani non ne possano più di un linguaggio così inutilmente complicato.
Gian Carlo Zoletto giancazol@alice. it

Fausto Bertinotti viene dalla scuola marxista dove si insegnava che la prima cosa nell'agire politico è «l'analisi scientifica» della «situazione reale». Faccio subito un altro esempio, stimolato dalla lettera del signor Claudio Falcioni che chiede: «Quanto sarà contento il famigerato Marco Ferrando, deputato comunista che si vantava, pur facendo parte della maggioranza, di non aver votato il finanziamento delle missioni all'estero. Ora ha raggiunto lo scopo, dopo aver contribuito a far cadere il guerrafondaio governo Prodi. Il nuovo governo si accinge a cambiare le regole d'ingaggio per i nostri soldati com'era facilmente prevedibile». Ferrando e Bertinotti sono agli estremi opposti. Il primo non ha fatto alcuna analisi, né scientifica né d'altro tipo. Ha solo dato ascolto alla sua purezza politica o alla sua vanità. Probabilmente a un misto delle due cose. Comunque si è collocato al di sopra, o al di sotto, della situazione.
Bertinotti, no. L'ex presidente della Camera in quella riunione ha cercato di applicare il vecchio metodo del socialismo detto scientifico ed è su questo che bisogna valutarlo. La sua analisi continuava dando, per esempio, questo quadro della nuova destra: «Un potente arlecchino che rispecchia la scomposizione della società, il frantumarsi anche delle soggettività forti, un arlecchino che miscela i suoi colori e le sue cento tessere con gli istinti che animano la società civile confezionando un'idea generale di restaurazione che poi rinvia alla società trasformandola in politica, senza che però ne abbia più l'apparenza: una sottile proposta di complicità». Se si legge con attenzione, si vede che l'analisi è corretta, che le cose stanno proprio così, che così infatti le descrivono molti commentatori ed editorialisti. La nuova destra fa politica, eccome se la fa; però dando l'impressione di non farla. Segue gli istinti sociali profondi e li trasforma in leggi e decreti, rende la società sua complice e se ne serve per diventare maggioranza politica.
Va tutto bene, ma non si potrebbe dirlo in modo che tutti capiscano? Magari con l'aggiunta di una sana autocritica? S'insegnava anche questa, un tempo, nelle scuole marxiste.

l’Unità 18.6.08
I contrassegni dell’orrore
di Fulvio Abbate


Lo scrittore “collaborazionista” Louis-Ferdinand Céline sosteneva che i nazisti erano da ritenere “ragionieri dello sterminio” a pieno titolo. In questo senso, hanno trovato, nel tempo, molti allievi diligenti, convinti della bontà del brevetto criminale. Le cifre dei morti, l’ampiezza del genocidio messo in atto dal potere tedesco durante gli anni Quaranta del secolo scorso, rendono attendibili le sue parole. Chiunque potrà verificare le annotazioni, gli appunti, i dettagli della loro impresa criminale, consultando gli archivi della Gestapo, delle SS o della Wehrmacht, dove, sotto i simboli della svastica e della testa di morto («Totenkopf»), fissati ai loro berretti, è segnata ogni cosa utile all’annientamento, alla riduzione in schiavitù: indumenti, effetti personali, nazionalità, orientamento politico o razziale che riguardi, come dice Primo Levi, i “sommersi”, ossia coloro che nessuno poté, o volle, salvare dai lager, dal consuntivo mortuario della “soluzione finale”. Un “ragioniere dello sterminio” non si accontenta di cancellare le proprie vittime dall’anagrafe civile, desidera che la fine di queste sia segnata nei registri di un’anagrafe parallela, non meno burocraticamente meticolosa, affinché la pena resti impressa, annotata nei verbali del potere, dell’autorità, del controllo, della sottomissione, e infine della morte. Da qui, la necessità di rendere riconoscibili a distanza gli internati, attraverso un contrassegno apposto sugli indumenti dell’universo concentrazionario, come uno strumento di lavoro: triangolo rosso per i “politici”; verde per i “comuni”; nero per gli “asociali” o “antisociali” (cioè disabili fisici e mentali, vagabondi, prostitute e lesbiche); blu per gli “immigrati”, gli “apolidi”, ma anche per i combattenti rifugiati all’estero della Spagna repubblicana; viola per i Testimoni di Geova; rosa per gli omosessuali; marrone per gli individui appartenenti alle popolazioni nomadi di origine Rom o Sinti. Su tutto, la stella gialla imposta agli ebrei già nei ghetti. Un casellario ulteriore, quindi. Il casellario della selezione umana, razziale e culturale voluta dal “Nuovo Ordine”, l’ordine codificato, appunto, dai ragionieri dello sterminio. Non è detto che si debba sempre arrivare agli estremi rimedi, ma il razzista non pone limiti alla provvidenza. Ironia della storia, la tavola sinottica ufficiale, necessaria per spiegare l’uso dei contrassegni in ogni possibile variante e combinazione, compilata dalle oscure mani di un illustratore al servizio degli uffici preposti al perfetto funzionamento della fabbrica di selezione e morte del “Reich millenario”, assomiglia a una tempera del Paul Klee più alfabetico, più terso e struggente. Ironia della memoria. Sembrerebbero pensieri remoti, scaduti, e invece talvolta viene il sospetto che non sia affatto così, si arriva addirittura a pensare che certi eventi possano ripetersi, tornare perfino utili insieme alle catene di montaggio della morte, della selezione quotidiana, così l’altra giorno un amico gallerista e poeta in servizio civile nella piazza d’armi di Roma, Enzo Mazzarella, mi ha buttato giù dal letto con una telefonata per raccontarmi la sua ultima idea, «giusto perché non si dica che nessuno fa caso a certe cose». In breve, ad Enzo è venuto in mente di chiamare a raccolta gli artisti che collaborano da anni con la sua galleria di via Monserrato chiedendo loro di realizzare ciascuno un’opera sul tema dei contrassegni dei lager, possibilmente a partire da un titolo che, sebbene in apparenza irrelato, «Gli altri», serve a ragionare intorno alla dignità degli individui, al di là dell’appartenenza razziale, politica, ideologica. Non avrà la stessa eco della prossima ostensione della «Sacra Sindone di Cristo», ma è pur sempre un segno di buona volontà, un modo concreto di sottrarsi all’indifferenza, un modo di negare che l’unica identità degli artisti coincida oggi con la propria partita Iva. Sì, Enzo, è davvero già qualcosa.
f.abbate@tiscali.it

il Riformista 18.6.08
Cade l'ultimo mito della nuova stagione
Veltroni va all'opposizione senza se e ma
di Stefano Cappellini


E adesso? Walter Veltroni se l'è chiesto a lungo, un giorno intero, prima di prendere la parola e ridare una linea al Pd dopo il ritorno in scena del Berlusconi anti-giudici. Un ritorno che lo ha spiazzato, che ha occluso tutti i canali diplomatici Pd-Pdl e ha incrinato, se non abbattuto, l'ultimo pilone strategico della «nuova stagione» veltroniana, quello del dialogo e del superamento della guerra civile italiana. Un'altra botta pesante, per l'ex sindaco di Roma, arrivata alla vigilia della delicata assemblea costituente democratica di venerdì, nelle ore in cui il voto delle amministrative siciliane certifica l'estinzione del Pd nell'isola, e che si somma alla disfatta elettorale del 14 aprile, alla sconfitta di Roma, ai sondaggi in picchiata, alla proliferazione delle correnti ostili, alla presidenza del partito vacante dopo la scomunica di Romano Prodi (ieri con una lettera l'ex premier si è dimesso anche dal vertice del Pde). Una sequela di disgrazie sufficiente a stroncare leadership più solide di quella di Veltroni. Il quale invece non solo resiste ma rilancia. Il premier ombra ha deciso, per quanto possibile, di volgere a proprio favore l'ultimo dei rovesci e di farne la base per una ripartenza. Il Pd va all'opposizione. Senza se e senza ma. Non cadrà in «tentazioni girotondine» - questo ha assicurato l'ex sindaco di Roma a tutti i suoi interlocutori - ma chiude la linea di credito a Berlusconi. E si prepara a una traversata del deserto molto diversa da quella immaginata.
Dopo essersi consultato con tutti i suoi più stretti collaboratori e aver benedetto l'ostruzionismo del Pd nella seduta di ieri del Senato, il segretario del Pd ha scelto di svoltare: «Il dialogo si chiude per responsabilità di Berlusconi», ha dichiarato al Tg3. Un medium non scelto a caso: è prima di tutto al suo elettorato che il leader ha voluto parlare, provando a fugare una volta per tutte i dubbi di un'opposizione troppo morbida, pigra e lenta di riflessi, opinione registrata nelle ultime settimane da tutti i principali istituti di sondaggio. «Io e il Pd - ha proseguito - abbiamo cercato in questi mesi di portare l'Italia fuori dal passato, ma evidentemente c'è chi vuole tenere il paese inchiodato al passato. In un mese siamo stati per due volte in Parlamento costretti a discutere degli interessi personali del presidente del Consiglio». Ergo, non è il Pd che cambia linea, «le conclusioni le ha tratte Berlusconi quando ha strappato la tela di un dialogo possibile. Non è un problema di fiducia personale, ma di serietà».
Paradossalmente il nuovo scenario di contrapposizione - l'opposto di quello programmato nelle stanze del Loft - può aiutare Veltroni a scavallare meglio lo scoglio della costituente. La svolta gli offre la possibilità di concentrare la sua relazione sulla novità, lasciando in secondo piano questioni più imbarazzanti. Le alleanze, per esempio: ieri il leader del Pd ha incontrato l'ex segretario del Prc Franco Giordano, ritornando così indietro anche sulla «separazione consensuale» da Rifondazione. Di fatto, del Pd disegnato in campagna elettorale è rimasto poco. Veltroni è costretto a chiedere all'assemblea un voto sulla sua relazione per rilanciare la leadership: inviterà gli oppositori interni a parlare subito, sfidando la minaccia di congresso anticipato, o a tacere per almeno un anno. Otterrà un nuovo via libera, quasi certamente, ma l'appuntamento resta pieno di insidie.
In queste ore Goffredo Bettini e Beppe Fioroni sono al lavoro per chiudere la lista per la direzione, ma non si esclude la presentazione di liste alternative. Dalla platea di quasi 3 mila delegati ci si attendono mozioni a sorpresa e non si escludono contestazioni. Arturo Parisi si presenta con l'intenzione di rinfacciare al leader tutti gli errori sin qui commessi. Rosy Bindi, che lavora a una mozione per respingere le dimissioni di Prodi, ha affondato il colpo sul voto siciliano: «Questo risultato conferma che il Pd non c'è ancora». Francesco Rutelli, che ieri ha riunito a consulto l'area di cattolici democrat che fa a lui riferimento, ha aderito alla crociata anti-bipartitica di Massimo D'Alema, lanciata ieri ufficialmente al seminario delle fondazioni "anti-veltroniane". In più sulla costituente, e sull'umore dei delegati popolari, incombe la questione della collocazione europea del Pd, tutt'altro che risolta nonostante il lungo caminetto dell'altroieri.

Corriere della Sera Roma 18.6.08
Ricerche Le novità in uno studio di Claudia La Malfa
Pinturicchio pinxit
Una guida sulle sue opere a Roma
di Pietro Lanzara


Bernardino di Betto da Perugia, detto Pinturicchio, fu pittore più fortunato che valente. Lo sostenne Giorgio Vasari nelle «Vite»: «ancor che facesse molti lavori e fusse aiutato da diversi, ebbe nondimeno molto maggior nome che le sue opere non meritarono». La mostra di Perugia e Spello, che si è chiusa domenica e che è stata curata da Vittoria Garibaldi, ha favorito la riscoperta di un artista al quale Claudia La Malfa dedica ora un «Itinerario romano» (Silvana Editoriale) al quale seguirà in autunno «La seduzione dell'antico: le pareti dipinte di Pintoricchio a Roma».
La guida, dedicata ai luoghi romani del pittore, è stata presentata dall'autrice, da Francesco Buranelli, presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni dei 550 anni dalla nascita dell'artista, da Roberto Cecchi, direttore generale per il Patrimonio artistico al ministero dei Beni culturali.
La cronologia dei lavori di Pinturicchio a Roma risulta nella nuova ricerca radicalmente diversa da quella tradizionale. «Il suo primo lavoro indipendente in città», spiega Claudia La Malfa, «viene identificato con la decorazione della cappella della Rovere a Santa Maria del Popolo fra il 1477 e il 1479, dieci anni prima della indicazione che lo collocava fra il 1488 e il 1490. Dello stesso numero di anni arretra, fra il 1481 e il 1483, il ciclo di affreschi nelle sale di rappresentanza del cardinale Domenico della Rovere ai Borghi, nel palazzo dei Penitenzieri. In quel periodo Pinturicchio partecipava alla decorazione della Cappella Sistina. Nel 1483 si colloca l'esecuzione del ciclo di affreschi nella cappella della famiglia umbra Bufalini all'Aracoeli, capolavoro della maturità. Innocenzo VIII gli affidò il lavoro nelle stanze e logge della sua villa privata, il Casino del Belvedere, per il quale Andrea Mantegna affrescò la cappellina privata. Mentre Alessandro VI Borgia, subito dopo la sua elezione nel 1492, lo volle per il suo appartamento in Vaticano, l'impresa più straordinaria dell'ultimo quarto del Quattrocento a Roma». Qui sono appena iniziati i restauri nella Sala dei Santi.
Papa Pio III chiamò Pinturicchio a Siena, dove l'artista morì più tardi nel 1513, per gli affreschi della Libreria Piccolomini nella Cattedrale, celebranti la vita dello zio Enea Silvio Piccolomini, Pio II.
«La vera fortuna di Pinturicchio », commenta Claudia La Malfa, «fu di trovarsi a Roma nel momento della scoperta della Domus Aurea ma fu suo merito reinterpretare, da lì, il linguaggio pittorico degli antichi per le necessità della Curia: nei palazzi privati, negli appartamenti pontifici, nelle cappelle familiari delle chiese. Fu il primo a riscoprire le grottesche anticipando Raffaello e il Peruzzi. Fu anche il primo a creare una struttura prospettica e illusionistica alla quale attinse Michelangelo per la volta della Sistina».
Pinturicchio fortunato? Il giudizio negativo del Vasari non gli rende giustizia. O, forse, aveva ragione Machiavelli a sostenere che la fortuna non esiste per se stessa e «dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle».

Liberazione 18.6.08
Un impegnativo intervento di Bertinotti e il silenzio della stampa "di sinistra"
di Arcangelo Leone de Castris


Stupisce che l'impegnativa relazione di Bertinotti (le ragioni di una sconfitta, per il seminario romano del 12 u.s.) dal vostro giornale pubblicata in buona parte la parte critica, non abbia suscitato commenti di qualsiasi genere nella stampa "di sinistra": oggi, 15 giugno, mi risulta che solo "Liberazione" ha pubblicato un ottimo pezzo, del solito tempestivo Lussurgiu D'Avossa, non già dedicato all'ex leader di Rifondazione, ma prodotto comunque dal bisogno e dalla volontà di fissare alcuni punti essenziali di una riflessione durata almeno due mesi (dalla scomparsa parlamentare della vera sinistra). Nel seminario si era detto, con Bertinotti, che in quell'evento funereo era scoppiata in frantumi l'eterna forma-partito: e questo significava, almeno per me esplicitamente, l'ultimo atto del fallimento della rivoluzione comunista d'Occidente. I frantumi sopravvivono ancora oggi. Nell'insieme, pur con gesti separati, hanno prodotto da un po' di tempo un malaugurato trasferimento: il passaggio politico e morale del conflitto esterno, tra le classi, al conflitto interno, tra le parti del partito perciò in via d'estinzione. Dopo quasi due secoli di conquista e di contraddizioni (guadagni implicati di rischi e di perdite), il processo di liberazione del lavoro-persona umana, la strategia della volontà che impegna l'umore dell'intelligenza, ecco sembrano ad alcuni di noi un'ascesa interrotta, vacillante e precaria più del muro di Berlino. Ebbene, prima di chiedere e chiedersi "che fare", non può sospendersi il bisogno di riflettere. Di pensare. Di pensare che fare. Se, ad esempio, Bertinotti ha dedicato un breve ed ultimo spazio al rapporto presente-futuro, se ha usato una discrezione inversamente proporzionale alla sciatta disinvoltura aproblematica e astratta che in questo periodo ha accumunato tanti piccoli leader italo-europei o separati in casa, Lussurgiu sembra aver compreso chiaramente che dentro la sfera della riflessione si sta accentuando l'immagine della società che si muove: soggetti produttivi che si incontrano al di qua del mercato e restaurano così il conflitto di classe che tanto politicismo (compreso il nostro) aveva trasceso e rimosso. Le gambe della rivoluzione pur immature sono già in rivolta. Non si tratta di attendere una autonoma impossibile disarmata rivoluzione sociale: contro di essa ha creduto di guadagnare povere pseudofilosifiche vittorie, l'autonomia della politica, quella malizia comica ipersoggettiva ispirata qui da qualche barbarie di Siviglia, o di contro abusata dal buonismo incosciente di qualche ragazzo filo-americano della via Pal.
Quelli che pensano non sono autonomi, né machiavellici (equivocamente amorali) né incivilmente asociali già vecchi nell'era post moderna. Pensano, anche per altri, affinché pensiamo tutti. Dobbiamo per caso, per questo, definirli un po' troppo sovrastrutturali? Allora era sovrastrutturale Gramsci, tanto politico e scommettitore da essere da tutti voi rimosso, e definito utopico. Hanno paura delle utopie, come la sua, che segnano la via alla storia. Utopista sarebbe dunque Dante e Federico secondo, e Campanella, Leopardi, Pirandello, Giovanni XXIII. Era utopista di tutti, quell'altro sognatore matematico che continuate a ignorare, a rimuovere. Marx ha detto: «Le idee dominanti sono le idee della classe dominante». Senza saperlo, noi tutti siamo stati dominati dalle idee della classe dominante. E' questo il problema, compagni?

Aprile on line 16.6.08
Confronti a sinistra
Presenti Giordano, Ferrero, Crucianelli, Nerozzi, Vita, Fava, Craxi
di Emiliano Sbaraglia


Nella redazione di "Aprile" il primo incontro dopo la sconfitta elettorale dello scorso aprile. L'analisi della situazione politica e sociale, unita all'intenzione di costruire insieme un concreto modello alternativo all'attuale governo delle destre. Presenti Giordano, Ferrero, Crucianelli, Nerozzi, Vita, Fava, Craxi

Se sabato 14 giugno al Centro Congressi Frentani di Roma era andata in scena la prima puntata di una collaborazione "in fieri" tra l'associazione "Sinistra per il Paese" e la componente "A Sinistra" del Pd, la tavola rotonda organizzata e svoltasi nella mattinata di lunedi nella sede del nostro quotidiano-web e del mensile "Aprile", va considerata come il primo vero confronto "vìs a vìs" tra quelle forze di sinistra uscite a dir poco malconce dal risultato elettorale dello scorso 13 e 14 aprile.

Una iniziativa alla quale hanno partecipato l'ex segretario Prc Franco Giordano, l'ex ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero; il parlamentare Vincenzo Vita, il senatore Paolo Nerozzi, l'attuale coordinatore di Sinistra democratica Claudio Fava, l'ex sottosegretario agli Esteri Famiano Crucianelli e Bobo Craxi, dichiaratosi subito felice di aver ricevuto un invito non così scontato. A moderare il dibattito il direttore di "aprileonline.info", Carla Ronga; presenti anche alcuni giornalisti di altre testate.

A rompere gli indugi ci pensa Vincenzo Vita, che individua l'importanza di questo incontro nella discussione di temi quali le questioni sociali, le libertà, i diritti, la pace: temi oramai desueti nel dibattito politico e culturale del nostro paese, ma che devono tornare più che mai nell'agenda dell'attuale opposizione parlamentare, proprio per dare voce alle anime politiche non rappresentate in Parlamento dopo la debàcle determinata dal risultato delle ultime elezioni. Una politica che si compia attraverso un nuovo sistema di relazioni, per penetrare nel quotidiano farsi del tessuto sociale nazionale.

Franco Giordano raccoglie l'invito, pur sottolineando che dell'opposizione parlamentare da parte del Pd di cui ha appena parlato Vita ("rigorosa, pragmatica, forte") lui ne ha ancora visto traccia. L'esponente Prc non nasconde le responsabilità del suo partito e della sinistra in genere per la pesante sconfitta subìta, ma nota che lo stesso tipo di autocritica non è stato fatto dal Pd, che pure ha perso anche lui. "L'accelerazione del modello americano imposta da Walter Veltroni ha contribuito alla sconfitta della Sinistra Arcobaleno -sono state le parole di Giordano-, senza con questo voler negare le nostre colpe". L'ex segretario di Rifondazione è dunque d'accordo nel proporre un modello alternativo di società, da contrapporre a quello autoritario che il governo Berlusconi sta rendendo ogni giorno più visibile; ma da parte sua il Pd deve iniziare ad evidenziare chiaramente dagli scranni parlamentari una opposizione ben diversa da quella fatta vedere sino ad ora. Suggerimento che indirettamente sembra essere raccolto dallo stesso Veltroni,il quale quasi simultaneamente annuncia un'inversione di rotta rispetto alla "Politica del dialogo" portata avanti con il capo del Pdl.

Anche per Claudio Fava (con un aereo pronto a partire senza di lui ma che comunque ha voluto essere presente al forum) bisogna ricominciare declinando in forme diverse la parola opposizione, per far fronte alle aberrazioni di un governo, che nei primi due mesi di attività è riuscito a muoversi soprattutto a favore delle pendenze del premier, e che in tema di sicurezza, piuttosto della vera e propria ecatombe rappresentata dalle continue morti sui luoghi di lavoro, riesce a far passare come emergenza assoluta il furto di un portafoglio al Pigneto, magari facendo passare sotto silenzio il 2,9% del Pil rappresentato dal giro d'affari della ‘Ndrangheta. Ma la sinistra ha anche bisogno di ciò che Fava definisce un "bagno d'umiltà semantica", oltre che guardare ai problemi reali del paese, senza ragionare nei termini di una "pura coalizione" tesa soltanto a ricostruire una forza di opposizione in virtù del difficile momento che si vive.

Da parte sua, Famiano Crucianelli invita tutti a risparmiare tatticismi e furbizie, cercando soltanto di trovare accordi con quelli che in molti, a mezza bocca, chiamano "i padroni veri del Pd". Anche perché, guardando con a bocce ferme al voto dell'aprile scorso, una vasta area di elettorato di sinistra ha votato Pd, e di questo bisogna tener conto. Così come, per immaginare una concreta alternativa di sinistra a questa maggioranza, un lavoro comune appare a questa punto inevitabile, prendendo come ulteriore elemento di analisi il fatto che non soltanto in Italia, ma in pratica in quasi tutto il resto d'Europa, è la destra a governare. Crucianelli individua nella scissione tra riformismo e radicalità le radici della "lunga sconfitta", intendendo con tale espressione le origini di una difficoltà elettorale del centrosinistra italiano, iniziato già dopo "la svolta della Bolognina". L'ex sottosegretario agli esteri confessa la sua preoccupazione per un "reazionarismo profondo in vastissimi settori della società"; mentre, dal punto di vista strettamente politico, non accetta l'accusa lanciata da Giordano al Pd ("la discussione interna c'è, forse non è resa troppo pubblica..."), e invita il sindacato a non chiudersi solo ed esclusivamente nel proprio terreno di azione e rappresentanza.

Chi non si sente completamente d'accordo con questa chiave di lettura è Paolo Ferrero, che pur condividendo molto di quanto ascoltato e giudicando positivo l'incontro, indica la ragione principale della sconfitta ne rapporto saltato tra pratica politica e costruzione di un conflitto sociale, perché "senza forza sul piano sociale non si costruisce né alternativa né alternanza". Secondo Ferrero il problema del governo e dell'alleanza è stato quello di non aver avuto sufficiente contatto con la base sociale; conseguentemente il nodo da sciogliere è una "ricostruzione dei nessi sociali", visto che, più che una guerra "basso-alto", il conflitto sociale si è pian piano andato trasformando in una guerra tra poveri. E, paradossalmente, questa condizione "coatta" extraparlamentare potrebbe essere la migliore per tornare a ricostruire molecolarmente gli elementi di sinistra sul piano sociale.

Per Bobo Craxi, che ringrazia dell'invito quasi del tutto inatteso citando l'"aver compagno al duol scema la pena", ci sono tre questioni fondamentali da affrontare: quella di carattere istituzionale, resa ancor più urgente delle prime mosse di questo governo; il pericoloso passaggio sociale dal "novismo" a un "revisionismo" di non buon auspicio; la questione laica, che significa rispetto per la chiesa da parte della politica, ma non subalternità di quest'ultima ad essa. Una chiesa che, non a caso, sta modernizzando le sue forme di attrazione religiosa e di comunicazione con fedeli o potenziali tali, riflessione che suggerisce a Paolo Ferrero un piccolo inciso su come la Chiesa (che sta approfittando del vuoto politico-culturale in atto) ricostruì il proprio consenso dalle fondamenta, ripartendo dagli oratori (la base), dopo aver subìto le pesanti sconfitte su aborto e divorzio. Quello che ora dovrebbe fare la sinistra italiana.

Paolo Nerozzi torna invece sulle cause della sconfitta, anch'egli andando a ritroso nel tempo, ed evidenziando com alcune classi sociali di riferimento della sinistra ormai non votino dal 1994. E non solo in Italia. Citando il libro del ministro Giulio Tremonti, Nerozzi sottolinea che le ultime dieci pagine del saggio "La paura e la speranza" abbiano un programma ben definito, un progetto politico e sociale, assolutamente non condivisibile, ma c'è, che unisce conservatorismo e religione, protezionismo e ipotesi di nuovo mercato. Un impianto che a sinistra è mancato e manca ancora.
Bisogna quindi cambiare il mo di fare politica, perché anche il mondo che ci troviamo a vivere non è più lo stesso.

Ma andare oltre il Novecento, riprende Vita, significa ripensare nuove forme politiche e culturali (da cui il suo favore alla collaborazione tra "Sinistra per il paese" e "A Sinistra"), che allontanino il "paese virtuale" cui la sinistra pensava di riferirsi, in luogo di un "paese reale" con il quale confrontarsi: perché il paese, prima di essere rappresentato, deve essere decifrato (Fava). Ma la velocità dei cicli imposta dalla società postmediatica, continua Vita, potrebbe lasciare spazio e speranza di mettere in difficoltà la destra ben prima di quanto si pensi.

Una nota d'analisi positiva quest'ultima, supportata anche da Crucianelli, critico laddove si è mancato di individuare, nel bene e nel male, il potenziale costituito dal fenomeno-globalizzazione, che soprattutto significa trasformazione in continua evoluzione: e le chiavi di lettura che hanno la meglio oggi (in Italia riassumibili per sommi capi con il trinomio di lunga memoria Dio-Patria-Famiglia), più che una risposta potrebbero entro breve rivelarsi un palliativo.

Ecco perché è importante farsi trovare pronti per una risposta-proposta alternativa, che sia una risposta-proposta vera. Ecco perché i partecipanti a questo incontro hanno promesso di rivedersi presto. Magari per istituire un tavolo permanente, e un confronto periodico.

Corriere del Mezzogiorno 18.6.08
Il prezzo del velo
«La guerra dell'Islam contro le donne» nel libro di Giuliana Sgrena
di Rossella Trabace


E' soltanto un simbolo, il velo. Il segno di una sudditanza morale e materiale difficile da smantellare. Anche se le donne musulmane lottano da anni per affrancarsi. «Ho voluto evidenziare proprio questo. Nei paesi arabi esistono movimenti di donne che si battono per i diritti universali, gli stessi per i quali ci siamo battute noi e che ancora oggi - qui da noi - vengono a volte messi in discussione. Insomma, il femminismo nei paesi musulmani non è un fenomeno importato, ma è un movimento che esiste da molti anni. In Egitto risale addirittura agli inizi del 1900».
Certo, la situazione non è omogenea, esistono molte differenze fra quel che succede in Marocco, in Algeria, Tunisia, rispetto, per esempio, a quanto accade in Serbia, Iraq, Arabia Saudita, Iran, Bosnia-Erzegovina. Anche se resta il filo di quella subalternità femminile presente in tracce anche nei paesi più evoluti, come quelli dell'Africa settentrionale. E quello di Giuliana Sgrena è proprio un reportage a tutto campo, che tiene conto anche della situazione nei paesi occidentali nei quali la ricerca dell'integrazione è ormai una necessità. Tutto questo è finito fra le centosessanta pagine di Il prezzo del velo, sottotitolo La guerra dell'Islam contro le donne (Feltrinelli, Milano 2008, euro 13), vincitore del Premio Città di Bari 2008 per la saggistica. Che la stessa autrice verrà oggi a presentare, ospite dell'assessorato comunale alle Culture, nel corso di un incontro che si svolgerà nel pomeriggio (ore 19.30) sulla terrazza superiore del Fortino Sant'Antonio, dove la giornalista del Manifesto dialogherà con l'assessore Nicola Laforgia, con la semiolinguista Patrizia Calefato e con Rosina Basso Lobello, docente di Storia e Filosofia, in un dibattito moderato da Giusi Giannelli, del Centro cultura e documentazione delle donne di Bari.
Lei, la Sgrena, nella redazione esteri del Manifesto si è sempre interessata del mondo arabo, affacciandosi nei teatri di guerra per documentare l'impatto dei conflitti sulla vita della gente comune. E' così che ha conosciuto tante donne, in Algeria come in Marocco, in Afghanistan come in Iraq. E' così che ha scelto di raccontarne la condizione e le battaglie, volendo scalfire prima di ogni cosa quello che definisce il «relativismo culturale» radicato nei paesi europei e soprattutto in Italia, dove il dibattito, dice, è piuttosto «arretrato».
Quali le posizioni?
«C'è una destra che considera tutto quello che succede nel mondo musulmano espressione di una cultura arretrata, quasi selvaggia, e una sinistra per molti versi reticente, che ritiene di valorizzare quelle realtà, quelle culture, senza entrare nel merito, accettando tutto quello che avviene e finendo per giustificare non soltanto l'uso del velo, ma anche altri comportamenti e altre forme di oppressione».
Non è la prima volta che si occupa di questi temi, anni fa aveva già firmato un libro. Qualcosa è cambiato da allora ad oggi?
«Ci sono paesi nei quali non è cambiato nulla. Penso all'Arabia Saudita, dove proprio non c'è traccia di miglioramenti. Lì le donne addirittura non possono guidare, uscire da sole, né decidere alcunché. In altri paesi la situazione è peggiorata notevolmente: in Iraq a causa della guerra, in Palestina per il diffondersi del fondamentalismo... Mentre in Algeria, per esempio, c'e stata una revisione del codice della famiglia. Certo, non sono state accettate tutte le richieste dei movimenti femminili, ma sono state eliminate molte restrizioni. Il paese più avanzato, dal punto di vista dell'uguaglianza fra uomo e donna, è certamente la Tunisia, anche se molte conquiste restano ancora sulla carta».
Mentre è recente, per esempio, il divieto di infibulazione in Egitto.
«Come dicevo, in Egitto c'è una tradizione consolidata di battaglie femministe. Basti pensare che lì hanno avuto la prima donna ministro nel 1956... Da noi Tina Anselmi è stata nominata nel 1976, ben vent'anni dopo».
Se il velo è il simbolo della condizione femminile nei paesi arabi. esiste un velo anche per le donne occidentali?
«Eviterei questo paragone, posso dire però che ci sono due facce della stessa medaglia: nei paesi musulmani il corpo della donna viene nascosto, velato, per evitare ogni provocazione; in Occidente, invece il corpo dela donna viene spogliato. Sono due modi diversi, opposti, di trattare la donna come un oggetto».

La Stampa Tuttoscienze 18.6.08
Che guardoni questi neuroni specchio
Neuroscienze. Si accendono se vediamo un film porno
La prova che il desiderio sessuale è “questione di testa”
di Giulia Caterina


La visione di grazie femminili attiva la parte del cervello detta opercularis
«Questa ricerca infrange un tabù antico sull’eccitazione nei maschi»

Ancora loro, i neuroni specchio. Stavolta sono considerati come i primi responsabili dell’eccitazione di fronte ai film hard. Le cellule cerebrali diventate celebri per la capacità di attivarsi mentre osserviamo le azioni altrui, come se fossimo noi a compierle, espandono ancora il loro raggio d’azione e, adesso, a loro si attribuisce la capacità di scatenare risposte «automatiche», quasi incontrollabili, erezione compresa. È cerebrale, quindi, la scintilla che accende il desiderio sessuale, secondo la ricerca di un team dell’Université de Picardie «JulesVerne» ad Amiens, in Francia. Gli scienziati hanno misurato la risposta mentale di un gruppo di «cavie» maschili di fronte alla visione di vari tipi di filmati, tra cui un film a luci rosse, valutando i cambiamenti che avvenivano sia nel cervello (visibili grazie alla risonanza magnetica funzionale) sia nel pene. Harould Mouras e i suoi collaboratori hanno notato che «l’aumentare del volume dell’organo maschile è correlato all’attivazione di un’area, la pars opercularis, in cui si manifesta proprio l’attività dei neuroni specchio». Si è anche scoperto che «la loro attivazione precede l’eccitazione e la conseguente erezione». Vilayanur Ramachandran, direttore del «Center for Brain and Cognition» allaUniversity of California at San Diego è una delle «star» degli studi su queste cellule cerebrali, definisce il test come «coraggioso» e si è congratulato perché è la dimostrazione che i neuroni specchio contribuiscono a rompere un tabù sulla sessualità. «È perfettamente possibile che queste cellule giochino un ruolo fondamentale nell’attrazione per la pornografia», ma - aggiunge - è necessario approfondire gli esperimenti per capirne di più. «Molte strutture cerebrali sembrano essere coinvolte, non solo la pars opercularis, e al momento la risonanza magnetica funzionale non è abbastanza accurata per rivelare che cosa accade in “frame” temporali tanto brevi». E che ci vogliano altri studi lo pensa anche VittorioGallese, che fa parte del gruppo coordinato da Giacomo Rizzolatti all’Università di Parma e che negli Anni 90 scoprì l’esistenza dei neuroni specchio. «I soggetti dovevano dare una risposta premendo un bottone e c’era, quindi, una componente motoria che potrebbe aver contribuito ad attivare l’area in cui sono presenti questi neuroni - sottolinea Gallese -. In più non c’è un controllo che abbia dimostrato che quest’area, attivata durante l’osservazione di scene erotiche, sia poi la stessa che si “accende” quando si fa davvero del sesso. Mi sembra che ci sia unpo’ la corsa a mettere l’etichetta “neuroni specchio” su tutto. Sarei quindi cauto prima di affermare che sono implicati nel controllo dell’erezione». Le ricerche continuano. Di certo - sostiene lo studio di Peter Enticott della Monash University di Melbourne in Australia -, l’attività di questi neuroni ci aiuta non solo a comprendere le attività e le intenzioni altrui, ma anche le loro emozioni.

La Stampa 18.6.08
«Negli Stati Uniti decine di innocenti condannati in questo modo»
Tre domande a G. B. Cassano psichiatra
di Antonella Mariotti


Ricordi cancellati da un trauma, per anni, poi un sogno rivelatore, talmente attendibile da far condannare un sacerdote per uno dei reati più abietti: violenza sessuale su una bambina di nove anni proseguita per anni. Ma al sogno che si trasforma in prova giudiziaria non crede il professor Giovanni Battista Cassano direttore del Dipartimento di Psichiatria, dell'Università di Pisa.
Perché professore? Non è possibile che quel ricordo rimosso torni in versione onirica e sia attendibile?
«No, nella maniera più assoluta. Se lo condannano avranno delle forti conferme obiettive, delle prove inconfutabili. Negli Usa ci sono stati casi emblematici di errori giudiziari basati sui sogni delle presunte vittime. Si trattava di padri fustigati e condannati per ricordi di violenze subite dalle figlie, che poi si sono rivelate inesistenti. Quello dei ricordi che ritornano dopo averli rimossi è un terreno molto pericoloso, che non può essere portato in un'aula di tribunale».
La vittima si è sottoposta a centinaia di sedute di psicoterapia, ed è il terapeuta che le ha fatto ricordare quell'evento traumatico.
«Se questa ragazza va dallo psicanalista è un soggetto con sindrome post-traumatica. La violenza sessuale negli anni dell'infanzia provoca disturbi, ma è raro che si veda una grande patologia se non c'è una familiarità alla psicopatologia. Si possono presentare disturbi della condotta alimentare, o personalità borderline. I meccanismi della rimozione sono un campo molto delicato, adesso sappiamo che alcuni farmaci possono indurre amnesie temporanee, come il valium o le benzodiazepine, specialmente per eventi che si verificano durante il sonno e le ore notturne».
Esistono farmaci che inducono l'amnesia, non ne esistono altri per ricordare?
«Ci sono farmaci "attivanti" ma non è detto che attivino quello specifico circuito della memoria. Il meccanismo della memoria è complesso e in tutto il cervello. Può darsi che mettendo in modo un circuito vicino a quello interessato metto in moto anche l'altro. Ma lo stato emozionaI e di quella esperienza è spezzettata in mille frammenti e non è possibile con un farmaco ricostruire quell'evento. E poi in soggetti suggestionabili è possibile assistere alla proiezione nel passato di eventi del presente».