venerdì 20 giugno 2008

l’Unità 20.6.08
Accuse, sospetti, minacce
Il Prc sull’orlo della scissione
di Simone Collini


Il rischio è la scissione prima ancora di arrivare al congresso. E un teso faccia a faccia tra Franco Giordano e Paolo Ferrero non ha disinnescato la mina. Il fatto è che da quando sono cominciati i congressi di circolo, quelli che di fatto decidono chi vince, la temperatura dentro Rifondazione comunista si è impennata. Le accuse che reciprocamente si rivolgono i sostenitori della mozione Vendola e quelli della mozione Ferrero-Grassi sono pesanti. Si va da quella di gonfiare i tesseramenti a quella di impedire a operai e migranti di partecipare alle votazioni, da quella di sospendere d’autorità i congressi per avere il tempo di interrogare i nuovi iscritti a quella di voler far decidere le sorti del Prc da simpatizzanti di Sinistra democratica.
Da parte della mozione Ferrer-Grassi già è stata avanzata la richiesta di «non omologare» alcuni congressi. Per altri è stato chiesto di invalidare i voti dei nuovi tesserati. La mozione Vendola ha risposto dicendo che questi «inquietanti episodi minacciano di inquinare la limpidezza del confronto interno».
Un colloquio tra Giordano e Ferrero c’è stato ieri nella sede della Direzione del partito. «Se hai dei sospetti sui tesseramenti fai le tue verifiche - ha detto il primo al secondo - ma basta con le accuse immotivate». L’ex ministro ha però soltanto ribadito che è «inaccettabile» far decidere le sorti del partito dall’esterno, «dagli iscritti dell’ultimo minuto». Ferrero ha interpretato le parole di Giordano come un non voler ammettere che ci sono delle anomalie nel tesseramento. Giordano ha interpretato le parole di Ferrero come una minacciata richiesta di annullamento che incombe su chissà quanti altri congressi di circolo. I due si sono lasciati senza giungere a un chiarimento. E ora tanto tra i bertinottiani (sostenitori della necessità di avviare un processo costituente della sinistra) quanto tra i ferreriani (contrari alla costituente e convinti che il Prc debba ripartire dal radicamento sociale) si inizia a temere che a Chianciano, dal 24 al 27 luglio, ci andrà solo chi vuole farsi una vacanza alle terme. Perché la fine di Rifondazione comunista sarà decretata molto prima.
A chi giova? I bertinottiani dicono che Ferrero, Grassi e gli altri iniziano a rendersi conto che Vendola prenderà oltre il 50% e vogliono impedire la ratifica di un tale risultato. Ferrero, Grassi e gli altri dicono che i bertinottiani iniziano a rendersi conto che Vendola si fermerà sotto il 50% e vogliono impedire la ratifica di un tale risultato.
Il primo caso è scoppiato a Massafra, in provincia di Taranto. I sostenitori della mozione Vendola hanno denunciato che quelli della mozione Ferrero-Grassi non hanno fatto votare tre operai precari dell’Ilva che erano assenti al momento delle votazioni perché di turno in fabbrica, «con ciò contravvenendo a una precisa norma del regolamento congressuale». I ferreriani hanno risposto che la norma dello statuto dice semplicemente che chi è assente alle due chiame non può votare. Poi è scoppiato il caso Bologna: «Gli orari e la sede di svolgimento del congresso del Circolo Migranti sono stati spostati d’autorità, rendendo non più facile ma assai più difficoltosa la partecipazione dei migranti iscritti», hanno lamentato con un comunicato interno i bertinottiani.
Ma soprattutto, il punto della discordia sono i tanti nuovi iscritti. E ad Arezzo è esploso in tutta la sua virulenza: «La parte conclusiva del congresso cittadino - si legge in una nota della mozione Ferrero-Grassi fatta circolare nella federazione - è stata “occupata” da persone da sempre esterne al partito, reclutate nelle ultime settimane, con il solo obiettivo di cancellarne l’esistenza e di scioglierlo in una indistinto contenitore vicino al Pd» (il dito viene puntato su uno dei nuovi iscritti, che in passato aveva già preso la tessera di Sd). Prima hanno chiesto di «non omologare» il congresso, poi (e lunedì quando si riunirà la commissione congressuale l’otterranno) di invalidare i 46 voti dei nuovi iscritti.
Ma oltre a «una lettera che impone la riconsegna di tutte le tessere già consegnate ai nuovi iscritti» (la cui esistenza viene smentita da Ferrero) è soprattutto la pratica avviata a Brescia a non piacere ai bertinottiani: «È stata disposta la sospensione del congresso per dar modo alle commissioni provinciali di “interrogare” uno per uno i nuovi iscritti, al fine di vagliare la loro purezza politica e ideologica nonché le ragioni della loro adesione al Prc», denunciano facendo tra l’altro notare che i nuovi tesserati sono da anni iscritti Fiom. «Una pratica letteralmente inaudita, sconosciuta ai partiti della sinistra italiana persino negli anni più bui della loro storia».
I bertinottiani hanno scritto una lettera al presidente del comitato di garanzia chiedendo un incontro dei primi cinque firmatari delle mozioni per «chiarire la situazione». Ma Ferrero sta pensando a un incontro con i primi firmatari delle altre tre mozioni di minoranza. Non ci vorrà molto per sapere come andrà a finire.

l’Unità 20.6.08
Lo stupro tra i crimini di guerra, l’emergenza arriva all’Onu
La violenza sessuale sulle donne spesso è un’arma nei conflitti. Gli Usa vogliono punirla ma non riconoscono la Corte penale internazionale
di Roberto Rezzo


LA VIOLENZA sessuale contro le donne nelle aree di guerra è stato l’argomento che ha dominato l’ultima riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
La speciale seduta è stata introdotta dalla segretaria di Stato americano Condoleezza Rice. Un obiettivo dichiarato all’ordine del giorno: implementare la risoluzione 1325 - approvata il 31 ottobre 2000 - che per la prima volta include lo stupro fra i crimini di guerra. E per tutti questi anni rimasta lettera morta.
Il dossier Unifem denuncia una situazione che ha la portata di una tragedia umanitaria. Donne e bambini rappresentano la schiacciante maggioranza delle vittime in tutti i più recenti conflitti. Stupro e violenza sessuale sono sistematicamente impiegati per terrorizzare, umiliare e dominare il nemico.
Sono armi non convenzionali capaci di distruggere intere comunità per le generazioni a venire. «Ma non si tratta solo di un problema umanitario - sottolinea Rice - È un problema che investe la sicurezza nazionale e internazionale. Perché le donne sono una parte fondamentale del tessuto economico e sociale». Negli ambienti diplomatici l’iniziativa ha raccolto un vasto consenso, suscitando insieme non poche perplessità.
Il sottosegretario agli Esteri Vincenzo Scotti, primo rappresentante del governo Berlusconi a intervenire al Palazzo di Vetro, ha annunciato che l’Italia «sta per finanziare» con un milione di euro un programma di monitoraggio e prevenzione in Liberia. «Partecipiamo a questa iniziativa al massimo livello. Esattamente come ci siamo impegnati per la moratoria internazionale sulle esecuzioni capitali. L’attenzione dell’Italia per questi temi non cambia a seconda dei governi». Le resistenze più forti sono venute dalla Cina e dalla Russia, convinte che il tema della violenza sessuale esuli dalle competenze del Consiglio di Sicurezza. Una posizione di minoranza. Le vere questioni sono altre, a cominciare da come si passa dalle dichiarazioni d’intenti ai fatti.
Uno degli aspetti più allarmanti del dossier Unifem riguarda l’impunità della violenza contro le donne. La Corte Penale Internazionale dell’Aia ha competenza su questi crimini qualora i singoli governi locali manchi d’intervenire. Il suo statuto è entrato in vigore il 1 luglio del 2002 con il Trattato di Roma. Su 192 Stati membri dell’Onu, solo 104 lo hanno ratificato. Gli Stati Uniti hanno firmato il trattato ma l’amministrazione Bush si è rifiutata di ratificarlo. Ufficialmente per timore che il suo personale civile e militare possa essere oggetto di persecuzioni giudiziarie motivate politicamente.
E resta il fatto che gli Stati Uniti, in questo momento alla presidenza del Consiglio di Sicurezza, sponsorizzano un’iniziativa contro la violenza e per l’affermazione della legalità che è in palese contrasto con le trattative condotte su altri scacchieri. È di questi giorni la notizia che il governo iracheno ha respinto la richiesta di Washington di assicurare l’immunità permanente dalle leggi irachene per il personale sia civile che militare di stanza in Iraq. Compresi i dipendenti delle società che lavorano in appalto per il Pentagono o il dipartimento di Stato. Baghdad ha motivato la decisione citando anche numerosi episodi di violenza contro le donne da parte di suddetto personale. E un rapporto del Congresso accusa l’amministrazione Bush di complicità negli abusi verificatisi a Guantanamo, Abu Graib e in Afghanistan.
Il documento menziona esplicitamente torture e violenza sessuale nei confronti dei prigionieri.
Scotti - incontrando i giornalisti prima della riunione - assicura che la bozza di risoluzione all’esame del Consiglio di Sicurezza fa riferimento all’importanza di allargare il numero dei Paesi che aderiscono al trattato di Roma.
Un passaggio indispensabile per dare forza, credibilità ed efficacia alla Corte Penale Internazionale. In realtà il testo del documento si limita a ricordare che il Trattato di Roma esiste. E Marcello Spatafora, l’ambasciatore italiano presso le Nazioni Unite, si affretta a correggere il tiro: «Il numero di Paesi che sottoscrivono uno statuto non è una questione prioritaria in questa fase. L’importante è che i caschi Blu e tutto il personale dell’Onu presente nelle aree di conflitto sia preparato e in grado di affrontare il problema della violenza contro le donne».

l’Unità 20.6.08
Dal Ruanda all’ex Jugoslavia
le cifre delle violenze


Il Fondo di Sviluppo delle Nazioni per le Donne (Unifem) stima che il 70% delle vittime nei conflitti armati sono civili. La stragrande maggioranza di questi sono donne e bambini. L’agenzia Onu denuncia che le donne sono sempre più percepite come un obiettivo da parte dei belligeranti, che adottano una «strategia del terrore» come metodo di guerra. In questo contesto le donne possono essere violentate, rapite, costrette a gravidanze forzate e ridotte in schiavitù. Lo statuto di Roma della Corte Penale Internazionale è il primo strumento internazionale che include la violenza sessuale tra i crimini contro l’umanità (art. 7) e i crimini di guerra (art. 8). Quasi la metà delle persone sotto processo presso la Corte Penale e gli altri tribunali internazionali sono accusate di stupro o di violenza sessuale, sia in quanto esecutori che mandanti. Fenomeni di violenza nei confronti delle donne sono stati registrati in quasi ogni conflitto internazionale o civile: Afghanistan, Burundi, Ciad, Colombia, Costa d’Avorio, Congo, Iraq, Liberia, Perù, Ruanda, Sierra Leone, Cecenia, Darfur, Sudan, Nord Uganda ed ex Jugoslavia.
In Ruanda mezzo milione di donne sono state violentate durante il genocidio del 1994; 60mila sono state vittima di violenza sessuale durante il conflitto tra Croazia e Bosnia-Erzegovina; in Sierra Leone i casi di violenza sessuale contro le donne sfollate sono stati 64mila. Al termine della sua visita in Darfur il relatore Speciale Onu per la violenza contro le donne ha riportato testimonianze di donne che pur essendo state vittime di violenza, incontrano forti difficoltà nell’accesso alla giustizia e alla tutela sanitaria. Il coordinatore Onu per l’Emergenza Umanitaria, visitando la regione del Sud Kivu nella Repubblica Democratica del Congo, ha riferito che dal 2005 sono stati riportati 32mila casi di violenza sessuale. Tutte le cifre sono approssimate per difetto.
Unifem denuncia che la protezione e il sostegno alle donne vittime della violenza nelle zone di guerra e nella fase post-conflitto sono ancora inadeguati. La generale impunità di cui godono i colpevoli aggrava la situazione, fungendo da incentivo alle violenze. A otto anni dall’adozione della risoluzione 1325, l’agenzia Onu rileva come resta ancora molto da fare per rafforzare i meccanismi di prevenzione, d’indagine, di raccolta informazioni e di riparazione per le vittime. E molto resta da fare anche sul piano della partecipazione delle donne ai processi di pace.

Corriere della Sera 20.6.08
L'intervista «D'Alema non capisco che mondo vuole, stimo Prodi però la riscossa non verrà da lui»
Ingrao: Berlusconi? Non è il nazifascismo
«Ma è un avversario e Veltroni ha capito tardi che ogni alleanza è impossibile»
di Monica Guerzoni


Paragoni sbagliati Non farei paragoni con l'incarnazione più grave di un regime reazionario per il quale il mondo ha pagato milioni di morti

ROMA — La svolta di Veltroni? «Condivisibile, ma tardiva». E D'Alema? «Non capisco che mondo vuole». Il grande vecchio del Pci e i «nipotini » del Pd. Pochi li conoscono bene come Pietro Ingrao, 93 anni, parlamentare per mezzo secolo e, nel 1976, primo comunista a salire sullo scranno di presidente della Camera. E ora che li osserva a distanza dal salotto della sua casa romana — tra la foto del «Che» e quelle dei biondissimi nipoti — l'autore di Volevo la luna ne parla con severo e affettuoso rispetto. Consiglia loro di non cedere alle sirene girotondine che gridano al «regime » e infine li assolve, giustificandone la sconfitta con quella, «molto più grande », del comunismo.
Ha fatto bene Veltroni a strappare la tela del dialogo?
«Assolutamente sì. A dire il vero è una posizione che io condivido da tempo».
L'aver chiuso il confronto non rischia di riportarci indietro, allo scontro del '92? E le riforme, che fine faranno?
«Quelle riforme le ho ritenute da tempo un assurdo e non per "chiusura", ma perché credo di conoscere la politica — pessima, secondo me — del presidente del Consiglio. E non mi pare che le vicende delle ultime settimane avessero portato mutamenti.
Da molto tempo io considero Berlusconi un avversario da combattere e non un possibile alleato ».
Veltroni lo ha capito tardi?
«Direi proprio di sì».
È d'accordo con chi ritiene che la svolta improvvisa del leader del Pd sia stata condizionata dai giornali?
«Mi sembra una spiegazione troppo gracile. A me pare che Veltroni abbia dovuto verificare nei fatti che Berlusconi non è solo un uomo di destra, ma anche un leader reazionario. Quanto a me, faccio una grande fatica a immaginare un'alleanza con lui».
C'è aria di Girotondi, a sinistra c'è chi grida al «regime». Ma si può definire «dittatura» il governo Berlusconi?
«Io non farei paragoni con la dittatura fascista. Sono avversario di Berlusconi, ma il nazifascismo è stato di certo un'altra cosa: forse l'incarnazione più grave di un regime reazionario, per il quale il mondo ha pagato milioni di morti e rovine inenarrabili».
Oggi si riunisce l'Assemblea Costituente del Pd. È giusto chiedere a Romano Prodi di non lasciare la presidenza?
«Ho stima di Prodi. Ma — con tutto il mio profondo rispetto — penso che non sia da lui che possa venire la svolta necessaria per la riscossa delle forze democratiche di sinistra e di centro. Le quali, guai a dimenticarlo, escono da una durissima sconfitta e hanno una fortissima sete di rinnovamento».
Dallo staff di Veltroni si alzano voci critiche contro la fondazione culturale di Massimo D'Alema, sospettata di essere una corrente. Lei come la vede, dal momento che nel Pci le correnti erano vietate?
«Sulle correnti ci sono stati scontri pesanti nel Pci. E io ho pagato parecchio perché sostenevo la "pratica del dubbio", al punto di finire ai margini del partito di cui ho fatto parte a lungo e con passione».
Qual è oggi il ruolo dell'ex premier?
«Ho forte stima di D'Alema anche se ho attraversato momenti anche pesanti di dissidio e di scontro con lui. Adesso però — lo dico con franchezza — non ho chiara la strategia a cui s'affida. Un demonietto maligno forse potrebbe dire che la sua proposta politica non è chiara nemmeno nelle parole che dice. Forse mi sbaglio, però negli anni più recenti l'ho visto come in posizione di attesa. È intelligente, acuto e furbo, ma che mondo vuole?».
E Veltroni? Non è anche colpa sua se a Roma ha vinto Alemanno?
«Mi sembra che Veltroni abbia dato parecchio al cammino di questa città. Il Campidoglio ha conosciuto più volte e a lungo una direzione comunista e sarebbe ingiusto — e anche un po' ridicolo — dimenticare ciò che i rossi hanno dato a questa città simbolo. Gianni Alemanno non lo conosco, tuttavia gli direi di riflettere su ciò che è stato il Campidoglio diretto dai rossi».
Veltroni, D'Alema, Fassino, Bettini... I sogni degli ex ragazzi del Pci-Pds-Ds si sono realizzati solo in parte e spesso si ritrovano in lotta l'uno contro l'altro. Perché?
«La prego, non mi faccia questa domanda! Posso solo dirle che, prima di loro, c'è una sconfitta più grande che li scavalca ed è la sconfitta del comunismo. Loro sono stati ragazzi in quel mondo che guardava a Marx e a Gramsci, nei cui testi c'erano risposte segnate da errori anche pesanti. Quel vincolo ha inciso su di noi in modo straordinario».
Nichi Vendola o Paolo Ferrero, per ricostruire Rifondazione?
«Non credo sia la questione essenziale che sta di fronte al mondo di Rifondazione. In quel campo, a cui io sono più che vicino, c'è necessità stringente di una riflessione. E non solo su scelte e responsabilità di vertice, ma sulle idee e sul volto di una sinistra di fronte ai grandi e gravi antagonisti che sono il nocciolo decisivo della destra mondiale. E che stanno prima di tutto in America».

Corriere della Sera 20.6.08
Cordone ombelicale Un nuovo divieto alla conservazione
di Margherita De Bac


ROMA — No alla conservazione «personale» del cordone ombelicale.
L'ordinanza che vieta la pratica «autologa solidale», scadenza 30 giugno, è stata prorogata fino al 29 febbraio dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. Il via libera, tuttavia, sembra solo rinviato, come spiega Francesca Martini, sottosegretario con delega alla Salute: «Stiamo elaborando linee guida che serviranno alle Regioni per accreditare le strutture pubbliche e private — dice la Martini —. Sono favorevole.
Non c'è motivo di negare questa possibilità. Purché non diventi una moda e purché non costituisca un costo per il servizio sanitario. Quindi ci sarà un ticket. Le donne devono sapere che la comunità scientifica ha molti dubbi sull'utilità delle staminali del cordone. Chiederemo ai ginecologi di aiutarci a fare informazione». L'unica alternativa restano i centri stranieri. La conservazione del cordone è prevista dal decreto Milleproroghe che però subordinava l'introduzione del nuovo sistema alla presenza di una rete di biobanche, di cui al momento non c'è ancora il disegno.
L'ordinanza di divieto contiene una sola deroga. Sì alla conservazione privata solo se in famiglia ci sono casi di malattie potenzialmente curabili con trapianto di staminali. Si parla di autologa solidale quando il sangue cordonale viene messo a disposizione della comunità dal legittimo proprietario. L'unica banca privata su suolo italiano è il Bioscience di San Marino. Altri centri offrono un diverso tipo di servizio: il sangue viene raccolto in Italia e inviato in strutture straniere, soprattutto in Svizzera e in Inghilterra. Nel 2007 sono stati esportati circa 5 mila cordoni, la richiesta di autorizzazioni al ministero della Salute è in vorticoso aumento. Diminuite invece le donazioni.
«Mai proroga fu più inopportuna e intempestiva. L'Italia si potrebbe allineare al resto del mondo e invece rinuncia», è critica Donatella Poretti, deputata radicale. Chiede al governo «di non perdere l'opportunità e di mettersi al passo con le direttive europee» Luca Marini, presidente di Assobiobanche, l'associazione delle imprese che si occupano di ricerca e servizi in questo settore. Secondo Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro nazionale trapianti, la rete italiana è di ottimo livello: «Sono perplesso sull'uso autologo. Mancano prove su applicazioni di staminali cordonali autologhe».

Corriere della Sera 20.6.08
Lo studio Le università di Illinois e New Mexico analizzano gli amori di 35 mila uomini. La ricerca su «New Scientist»
La formula dei mascalzoni: ecco perché piacciono alle donne
di G. S.


LONDRA — La formula scientifica del successo con le donne è la «triade oscura» nella psiche del maschio. Parola degli scienziati delle università del New Mexico e dell'Illinois che hanno studiato la psicologia di 35.200 soggetti in 57 Paesi, hanno incrociato i dati con le loro conquiste femminili e le loro infatuazioni maschili e poi hanno elaborato la teoria. Le donne sono attratte dalla
dark triad caratteriale dell'uomo: narcisismo ossessivo; ricerca psicopatica dell'emozione; capacità machiavellica di ingannare e approfittare delle situazioni.
Il professor Peter Jonason, presentando la ricerca sulla rivista New Scientist, ha usato espressioni cliniche: «Questi tratti rappresentano una strategia di successo nell'evoluzione della specie, perché procurando al maschio dotato di "triade oscura" un gran numero di partner per attività sessuale, assicurano una discendenza ». In caso contrario, la disapprovazione sociale per i narcisisti ingannatori avrebbe portato da secoli all'estinzione del tipo. «La strategia ha funzionato, visto che invece abbiamo ancora questi tratti in circolazione».
Lo studio conclude anche che uno dei segreti del successo del genere «maschio mascalzone» è dovuto alla sua relativa rarità: se ce ne fossero di più in circolazione, le donne imparerebbero a conoscerli meglio e starebbero in guardia. I professori di psicologia del comportamento, dunque, arrivano alla stessa conclusione di molti genitori che non smettono mai di ammonire le figlie dai rischi di incontrare «il tipo sbagliato». Gli scienziati americani cedono anche alla tentazione di compiacere l'orgoglio britannico (e così la notizia ieri è stata ripresa da tutti i giornali londinesi di qualità, dal progressista
Guardian al conservatore Daily Telegraph)
e per dare un volto al loro «uomo della triade oscura» evocano James Bond. «L'agente 007 dei libri di Ian Fleming è un tipo poco raccomandabile, a volte spiacevole, molto estroverso e al quale piace fare nuove esperienze, uccidere persone e avere molte donne». Qualche critico ricorda che oltre ad essere poco raccomandabile, Bond forse portava anche un po' male: le sue amanti, a partire dalla prima, Vesper Lynd, finiscono tutte ammazzate.
Conquistatori Sean Connery in James Bond, Georges Simenon (disse: «Ho avuto 10 mila amanti»), Marlon Brando e Norman Mailer, tutti «mascalzoni»

Corriere della Sera 20.6.08
L'assassinio di Gentile e la sentenza di Togliatti
di Sergio Romano


Rileggendo una pagina della storia del nostro Paese, mi sono imbattuto in questa domanda: «Perché fu assassinato il filosofo Giovanni Gentile?». La sua morte, avvenuta a Firenze nel 1944, non è stata del tutto chiarita, se non sbaglio. Dico questo, perché alcuni storici ipotizzano che dietro quel delitto ci siano stati i servizi segreti inglesi, mentre per alcuni altri ci sarebbe una pista che porta al vecchio Partito comunista, senza peraltro escludere altre tesi a me sconosciute. Può aiutarmi a capire come andarono le cose?
Michele Toriaco
Torremaggiore (Fg) Caro Toriaco,

La prima delle due ipotesi da lei prospettate è contenuta in un libro affascinante di Luciano Canfora («La sentenza») apparso presso l'editore Sellerio nel 1985. Canfora applicò alla lettura dei documenti (un articolo di Concetto Marchesi, un articolo di Togliatti, le notizie diramate dalla Bbc e una sorta di necrologio del filosofo apparso a Ginevra con una sconcertante preveggenza nel giorno stesso della morte) la stessa accattivante perizia filologica con cui ha letto più recentemente il papiro di Artemidoro. Per quanto mi riguarda, tuttavia, continuo a pensare che il caso sia meno misterioso di quanto lei pensi e che le responsabilità comuniste siano evidenti.
È vero, tuttavia, che l'assassinio di Giovanni Gentile di fronte alla villa fiorentina che lo ospitava, il 15 aprile 1944, suscitò immediatamente illazioni e sospetti. Il filosofo aveva aderito al fascismo repubblicano, aveva accettato incarichi innocui ma simbolici, come la presidenza dell'Accademia d'Italia, aveva pronunciato discorsi d'intonazione nazional- fascista e aveva fatto un'affettuosa visita a Mussolini nella sua villa sul Lago di Garda. Ma si servì della sua autorità per deplorare la crudeltà delle bande fasciste, invocare la pace civile degli italiani e intervenire presso il prefetto per salvare la vita di persone arrestate e condannate a morte. Vi era quindi tra i fascisti fiorentini, nelle settimane che precedettero la sua uccisione, un partito degli intransigenti per cui il filosofo era diventato un pericoloso esempio di lassismo morale e ideologico.
Ma sull'identità e sull'affiliazione politica degli uccisori non esistono dubbi. L'assassinio fu opera di un Gap fiorentino, guidato da un uomo, Bruno Fanciullacci, che venne arrestato tre mesi dopo e morì, per non parlare, gettandosi dalla finestra della villa in cui era stato interrogato e torturato. Secondo lo storico Sergio Bertelli, l'ordine sarebbe stato impartito da un gruppo di intellettuali comunisti fiorentini che decisero la morte del filosofo senza consultare il Cln della città, dove i rappresentanti del partito d'Azione erano legati a Gentile da vecchia amicizia. Agivano sulla base di istruzioni provenienti dalla direzione del partito? È questo il punto in cui la vicenda si complica. Qualche settimana prima lo storico Concetto Marchesi, già rettore dell'Università di Padova, aveva scritto in Svizzera un articolo polemico contro Gentile e i suoi inviti alla riconciliazione nazionale. L'articolo apparve anonimo su un giornale clandestino dei comunisti milanesi in una versione che terminava con queste parole: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: MORTE!». Le parole conclusive non appartenevano al testo di Marchesi ed erano state aggiunte da Girolamo Li Causi. Ma divennero parole di Marchesi quando Palmiro Togliatti riprodusse l'articolo su Rinascita
dell'1 giugno 1944 e lo fece precedere da una nota intitolata «Sentenza di morte» di cui Sergio Bertelli ha ritrovato il testo autografo. Eccolo: «Questo articolo di Concetto Marchesi venne pubblicato nel numero 4 (marzo 1944) della rivista del Partito comunista
La nostra lotta che si pubblica clandestinamente nelle regioni occupate dai tedeschi. Esso venne scritto in risposta a un miserando e vergognoso appello di Giovanni Gentile alla "concordia", cioè al tradimento della patria, apparso nel Corriere della Sera
fascista. Poche settimane dopo la divulgazione di questo articolo, che suona come atto di accusa di tutti gli intellettuali onesti contro il filosofo bestione, idealista, fascista e traditore dell'Italia, la sentenza di morte veniva eseguita da un gruppo di giovani generosi e la scena politica e intellettuale italiana liberata da uno dei più immondi autori della sua degenerazione. Per volere ed eroismo di popolo, giustizia è stata fatta».
Non è importante quindi chiedersi se gli uccisori di Firenze abbiano eseguito un ordine impartito da Togliatti. Vi sono casi in cui l'avallo a posteriori ha il valore di una sentenza.

Corriere della Sera 20.6.08
Lo studioso Francesco Berto racconta il teorema che ha cambiato la scienza moderna
Non solo matematica sugli impervi sentieri del genio Kurt Gödel
di Giuseppe Galasso


L'aneddoto più bello su Kurt Gödel è di Albert Einstein che diceva di essere andato a Princeton «solo per avere il privilegio di camminare insieme a Gödel sulla via di casa». Era un'ammirazione meritata. Il teorema per cui Gödel entrò nella storia della scienza è stato definito da Rebecca Goldstein (studiosa di filosofia, e anche narratrice) insieme al principio di indeterminazione di Heisenberg e alla relatività di Einstein la terza gamba di quel tripode di cataclismi teorici che sono stati percepiti come un terremoto nella profondità dei fondamenti delle «scienze esatte» e ci hanno condotti «in un mondo sconosciuto che quasi un secolo dopo stiamo ancora lottando per renderci conto di dove, esattamente, siamo arrivati».
Detto in parole poverissime, il teorema di Gödel dimostrava, nel 1931, che qualsiasi teoria matematica in guisa di sistema formale e coerente contenente l'aritmetica elementare (ossia la teoria dei numeri interi naturali) è «sintatticamente incompleta ». Per la logica matematica un sistema è sintatticamente incompleto se nel suo linguaggio si incontrano formule di cui non si può dimostrare né la verità, né la falsità. In altri termini (mi si passi l'esempio) è come se nella grammatica di una lingua si formulassero regole di cui non si possa dire se siano corrette o scorrette. Gödel smentisce così in modo radicale che, data l'inevitabilità di proposizioni indecidibili, si possano costruire nell'universo dei numeri sistemi formali in cui tutto sia conosciuto o conoscibile, e lascia, quindi, aperti e indecisi gli esiti di qualsiasi sistema. La logica matematica prevede, però, anche un'altra incompletezza, quella semantica, se gli sviluppi di un sistema portano a formulare proposizioni non appartenenti al sistema stesso (in questo caso, per stare all'esempio di prima, è come se la grammatica italiana a un certo punto formulasse regole fuori della sua logica e del suo sistema, e secondo la logica e il sistema di un'altra ed estranea grammatica). E quest'altra incompletezza era per Gödel causata dal fatto che in tutti i sistemi la coerenza interna, ossia la loro non-contraddittorietà, è una proposizione non decidibile al loro interno. In altri termini, incompleto nel primo senso, un sistema lo è anche nel secondo senso, essendo incapace di coerenza interna, e quindi di auto-sufficienza.
Si dirà: ma questo non è molto astratto, puramente teorico? Lo è, infatti, ma, come accade nella più alta scienza, dall'astrazione nascono conseguenze e applicazioni pratiche di sconcertante concretezza. Lo stesso Gödel assimilava le classi e i concetti logici, di cui si occupava, ai corpi fisici che sono a base delle percezioni dei nostri sensi. In pratica, procedeva traducendo gli enunciati dell'aritmetica relativi alle proprietà formali o strutturali delle sue espressioni in enunciazioni semplicemente aritmetiche, per cui a ognuna di tali espressioni (formula, funzione, dimostrazione etc.) era associato un numero. Così, le relazioni logiche diventavano rapporti numerici. Poiché un sistema chiuso di tali rapporti era sintatticamente e semanticamente incompleto, occorreva, per procedere, uscire fuori dai sistemi chiusi e finiti e ammettere qualche ipotesi non formalizzabile in aritmetica. Ora, pensate che nei computer qualsiasi oggetto o dato o immagine o testo etc. è traducibile in numeri ed è memorizzabile, e avrete un'idea di quel che è stata la correlazione stabilita tra dati numerici e dati logici, di cui Gödel è stato un protagonista, così come lo è stato della negazione che l'aritmetica costituisca un sistema finito e chiuso.
A far capire tutto ciò ha mirato Francesco Berto, docente di Ontologia a Parigi e di Logica a Venezia, col suo Tutti pazzi per Gödel! (Laterza). Quel tutti è, in realtà, un auspicio di Berto stesso, che di Gödel (perché, dice, seguirne il percorso logico è stato per lui «una delle esperienze più emozionanti») si dichiara, appunto pazzo e tali vuol fare diventare gli altri. Speriamo che sia così. Non è tanto semplice. Berto stesso dice di avere spesso, da filosofo, sbattuto la testa in un muro di difficoltà. Dice pure che per il suo libro si deve sapere un po' di logica elementare e che ha dovuto iniziare con un po' di teoria degli insiemi. Ma chi supera gli ostacoli trova in lui una guida abile e suasiva. E la fatica sarà premiata. Gödel è stato discusso, e dopo di lui matematica e logica hanno preso anche altri sentieri. Ma il nucleo duro del suo pensiero si è dimostrato, oltre che durevole, anche davvero affascinante (Berto ha ragione), quale lo ritrasse, fra gli altri, Douglas R. Hofstadter nel suo Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda (Adelphi), associando, non a caso, il grande logico-matematico a un grande artista della grafica e a un sommo musicista.
Protagonisti
Gli omaggi di Albert Einstein e il paragone con la musica di Bach e la grafica di Escher Albert Einstein diceva di essere andato a Princeton per passeggiare con Gödel (Ap)

Corriere della Sera 20.6.08
In Belgio Siegfried Verbeke e Vincent Reynouard, «piccoli Faurisson» che contestano la Shoah e il diario di Anna Frank
Condanna a un anno di carcere per due negazionisti
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — La Fondazione che lui costituì 25 anni fa, e che battezzò «Verità storica obiettiva», ora si chiede dal suo sito Internet: «Chi accetterà la nostra sfida? Offriamo 3.000 euro a chiunque saprà dimostrarci, con un dibattito in contraddittorio, che la Shoah non è un mito della propaganda». Ma Siegfried Verbeke, fiammingo di 67 anni, almeno per un altro anno ancora non potrà «premiare» nessuno: era già in cella, ed ora il tribunale di Bruxelles gli ha confermato una condanna a 12 mesi di prigione, e a 25.000 euro di multa, per aver diffuso e spedito a varie persone opuscoli di 12 pagine che negavano i fatti dell'Olocausto, e perfino alcuni risvolti del diario di Anna Frank. Insieme con lui, alla stessa pena e per gli stessi motivi, è stato condannato anche Vincent Reynouard, 39 anni, francese, militante del «Movimento di lotta San Michele» che si auto- qualifica come «movimento cattolico, nazionalsocialista, revisionista» e che sollecita dibattiti su temi come «La questione del complotto giudeo-massonico». Reynouard è un ex professore di matematica cacciato nel 1997 dalle scuole del suo Paese, dopo che nel suo computer erano stati trovati documenti «negazionisti» della Shoah.
La sentenza di ieri è l'ultimo passo di una vicenda cominciata nel 2003, dopo alcune denunce firmate dalle persone a cui erano stati recapitati gli opuscoli «negazionisti». Protestano i «camerati» di Verbeke e Reynouard: «Non ammazzano nessuno e dicono apertamente quello che pensano, invece di contestare i loro argomenti li mettete in manette...». A loro volta, i due personaggi sostengono di non essere antisemiti, ma solo «appassionati di storia»: degli Irving o Faurisson in tono minore, tanto per capirsi. Ma il curriculum di Verbeke sembra un brogliaccio di polizia, e dipinge una vita quasi dominata dall'«ossessione negazionista». Nel 1980, militante di un gruppo dell'estrema destra fiamminga poi sciolto per atti di violenza xenofoba, distribuisce discorsi di Hitler. Nel 1990 spedisce documenti «negazionisti» a persone con cognomi ebrei. Nel 1993, la prima condanna in Belgio, con la privazione dei diritti civili — cioè del diritto di voto — per 10 anni. Poi, Verbeke chiede asilo politico in Olanda. Nel 1998, è condannato in Germania per la diffusione di opuscoli «sulle bugie di Goldhagen e Spielberg». Nel 2000 scrive un libretto con Robert Faurisson, contestando il diario di Anna Frank. Nel 2001, le sue opere vengono ritirate dalle librerie belghe.
Nel 2004, Verbeke è condannato a un anno in Belgio, e nel 2005 viene arrestato all'aeroporto di Amsterdam, su ordine di cattura internazionale emesso in Germania. Trascorre 9 mesi in carcere, fino al maggio 2006. Poi torna libero, fino al dicembre 2006. Secondo i suoi amici, in cella riceve molte lettere da tutta l'Europa.

Repubblica 20.6.08
Dallo stato sociale allo stato di carità
di Nadia Urbinati


Questo è davvero un governo rivoluzionario, proprio come aveva promesso il suo leader in campagna elettorale. Ma di quale rivoluzione si tratta?

A partire da quella francese di fine Settecento, le rivoluzioni hanno dimostrato di poter avere sia lo sguardo rivolto al futuro sia lo sguardo rivolto al passato; le prime per cercare di realizzare l´utopia della società giusta, le seconde, che in genere seguono al fallimento delle prime, per ripristinare o istituire ordine e gerarchia. Quella che stiamo subendo in Italia oggi è del secondo tipo. Per questo sarebbe opportuno chiamarla con il suo vero nome: non rivoluzione ma contro-rivoluzione o meglio ancora restaurazione, visto che questo governo ha dato alla sua politica l´aura della normalità, anzi premunendosi di tradurre la politica dell´eccezione in uno stato di normalità.
La questione non riguarda soltanto l´uso dell´esercito per funzioni di ordine pubblico, o la violazione dei diritti fondamentali per i non cittadini; essa riguarda anche la politica economica. La manovra approvata in soli 9 minuti dal consiglio dei Ministri ha lanciato un messaggio eloquente e forte: non esiste più uno stato sociale; d´ora in poi esisteranno solo politiche di soccorso per i bisognosi. Il che puó così essere tradotto: non ci sono più cittadini uguali o che hanno un egual diritto ad accedere ai servizi con i quali soddisfare quei bisogni che la Costituzione definisce come primari; ci sono invece cittadini che possono fare da sé e cittadini che non potendo far da sé sono aiutati dallo Stato.
Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale ci saranno italiani con la tessera di povertà. Per la prima volta nella storia della democrazia italiana ci saranno cittadini dichiarati per legge poveri che lo Stato tratta diversamente dai non bisognosi o dagli abbienti. Per la prima volta dall´entrata in vigore della Costituzione, l´eguaglianza democratica – che gli articoli 2 e 3 sanciscono impegnando istituzioni e cittadini a rispettare – è stravolta e gravemente compromessa proprio nel suo fondamento, ovvero nel riconoscimento del principio di eguale dignità di tutti i membri del corpo sovrano.
Con questo stravolgimento gravissimo l´idea che ha accompagnato la rinascita politica del dopoguerra – la cittadinanza come grappolo di diritti civili, politici e sociali – viene a cadere. La restaurazione è a tutto tondo quindi, un´organica politica che scientemente mira a cambiare fondamenti e principi della democrazia italiana, decretando che non tutti i cittadini saranno d´ora in poi eguali nelle opportunità sociali.
A voler essere corretti, l´attacco alla cittadinanza sociale era già cominciato, con l´aiuto degli stessi governi di centro-sinistra. Per esempio, il diritto all´educazione è da diversi anni ormai sotto sistematico e diretto attacco nel nome della libertà dell´offerta educativa, ma in realtà con l´intento nemmeno troppo velato di dirottare soldi pubblici alle scuole private e religiose. E che dire del diritto costituzionale alla salute? Non è forse stato manomesso gravemente con le politiche federalistiche e poi con quelle delle convenzioni con le cliniche private (altro stratagemma per sovvenzionare il privato) e della monetarizzazione delle prestazioni mediche?
Ora, il governo si appresta a mettere la classica ciliegina sulla torta: istituisce le tessere di povertà, premunendosi di raccomandare che verrà garantito l´anonimato dei possessori, quindi ammettendo che la conoscenza della condizione di povertà puó generare discriminazioni e ulteriori ingiustizie (proprio per evitare questo rischio i costituenti avevano istituito i diritti sociali). L´Italia ha da oggi cittadini di serie A e cittadini di serie B; e sopra tutti, un´oligarchia che prospera a spese dell´intera società, facendo leggi funzionali ai propri interessi e bisogni, e quindi estendendo esponenzialmente i propri privilegi mediante l´uso strumentale non solo delle procedure ma anche dei poteri dello stato, in primo luogo quello giudiziario (ammoniva Montesquieu, che lo stravolgimento di questo potere è il primo grave segno di degenerazione illiberale di un governo). La tessera di povertà rientra per tanto in un´organica politica di diseguaglianza che coinvolge tutti i livelli della vita sociale e civile.
Pensare che questa discriminazione riguardi solo una minoranza e che quindi non debba destare eccessiva preoccupazione è ovviamente quanto di più improvvido si possa immaginare, visto che a tutti puó toccare la sfortuna di scivolare giù nella scala sociale – un´immagine, quella dell´eguaglianza nel rischio di caduta, invece che nell´opportunità di vivere con dignità, che sempre di più verrà a far parte del nostro immaginario individuale e collettivo.
Del resto, come il ministro Tremonti ci ricorda, la sfortuna è una condizione dalla quale nessun essere umano puó tutelarsi completamente, dovendo tutti noi pagare per il peccato originale. E la tessera di povertà è lì a dirci che lo Stato ha definitivamente abbandonato l´illusione che, se non proprio sconfitta, la sfortuna potrebbe almeno essere neutralizzata. Ma era la democrazia sociale, quella a suo modo rivoluzionaria che il grande T. H. Marshall aveva teorizzato nel 1950, a coltivare quell´ispirazione, a voler costruire un futuro nel quale tutti i cittadini potevano godere concretamente di eguale dignità e libertà. Oggi, l´ideologia egemone della compassione per i poveri e del privilegio per i potenti ci annuncia (e decreta) che quell´utopia è sepolta. Come altre volte in passato, la restaurazione detta la sua legge: i ranghi si riorganizzano, le diseguaglianze rinascono.

Repubblica 20.6.08
La maggioranza di Ferrero accusa: tessere fantasma. E i bertinottiani minacciano il ricorso al magistrato
Prc, test della verità ai nuovi iscritti il congresso rischia di finire in tribunale
La posta in palio è la vittoria alla convention di fine luglio a Chianciano
di Umberto Rosso


ROMA - L´ombra del magistrato sul congresso di Rifondazione. Esplode la guerra delle tessere, con congressi annullati e accuse feroci su iscritti-fantasma. I ferrerriani, che hanno conquistato la maggioranza del partito, annullano i congressi di Arezzo e Ancona, sono pronti a fare altrettanto con molti altri a cominciare da Portici a Napoli e San Basilio a Roma, e lanciano gli "interrogatori" dei nuovi iscritti partendo dai circoli di Bologna e Brescia, per fugare i sospetti di iscrizioni dell´ultimora e poco trasparenti. Troppo per i bertinottiani guidati dal candidato segretario Nichi Vendola. Che hanno inviato una durissima lettera al capo dei probiviri Cappelloni contro i provvedimenti presi dalla troika congressuale (Grassi e Pegolo per la maggioranza, Bonato per la minoranza), invocando una riunione urgentissima di tutte le mozioni. Ma un faccia a faccia, convocato ieri fra Paolo Ferrero e Franco Giordano, si è già concluso malamente, fra reciproche accuse. E così nei corridoi tempestosi dei bertinottiani, che denunciano uno stravolgimento del regolamento interno, aleggia il fantasma del ricorso alla magistratura contro gli strappi.Una guerra di nervi e veleni, che ha come posta in palio la vittoria alla convention convocata il 25-27 luglio a Chianciano. Dove a fare la differenza fra le due correnti, in un partito praticamente spaccato a metà, saranno proprio i nuovi iscritti, registrati soprattutto nelle regioni del sud e schierati in larga parte con Vendola. Secondo i ferreriani un boom poco chiaro, e da qui la campagna per indagare su alcune situazioni giudicate sospette: i nuovi tesserati andranno politicamente "identificati" uno ad uno. Il compito di condurre gli accertamenti è stato delegato ai comitati federali. Così a Brescia, dove è suonato strano alla maggioranza lo sbarco di alcune decine di operai della Fiom, visto che uno dei leader del sindacato dei metalmeccanici è Maurizio Zipponi, molto vicino a Bertinotti. Dubbi dei ferreriani sui quasi trecento nuovi tesserati a Portici. Apriti cielo per quella intera sezione di Sinistra democratica che, ad Arezzo, è transitata dal partito di Fava al Prc, «in questo modo si stravolge il risultato del congresso», che difatti nella città toscana è stato ora annullato. Gli uomini dell´ex ministro indagano anche su quel centinaio di aderenti che ha chiesto di iscriversi a Roma al circolo del quartiere San Basilio. Tutti quanti saranno sottoposti dunque al test della verità. Perché ti sei iscritto qui? Che esperienza politica hai? Condividi davvero il progetto? «Veri e propri interrogatori - si indignano i bertinottiani - per vagliare purezza politica e ideologica, peggio degli anni bui della sinistra. Sanno di perdere e vogliono far saltare tutto». Gira voce anche dell´ipotesi di azzerare l´intero tesseramento 2008. La maggioranza nega: «Semplici controlli, perché alcune situazioni sono strane. Nessuno vuol bloccare il congresso». Intanto, si "combatte" città per città. Sgambetti e colpi bassi. A Taranto, raccontano i bertinottiani, agli operai dell´Italsider è stato di fatto impedito il voto non consentendo deroghe sull´orario. Stessa scena a Bologna dove sarebbe saltato il voto di un gruppo di migranti, fissato d´imperio alle due del pomeriggio. «Macchè migranti - ironizzano i ferreriani - quelli vivono in provincia di Bologna...».

Repubblica 20.6.08
D'Alema registra "Red" gli amici di Italianieuropei
La sigla sta per "Riformisti e democratici". Ma anche "rosso" in inglese
Nell´iniziativa coinvolto Marini: un suo fedelissimo nel gruppo-guida dell´associazione
di Mauro Favale


ROMA - Per adesso c´è il nome, depositato ieri davanti ad un notaio romano. Per il simbolo, invece, bisognerà aspettare ancora qualche giorno. Si chiamerà RED, rosso in inglese. Ma, soprattutto, l´acronimo di Riformisti e Democratici. L´associazione è la nuova "creatura", costola del Pd, che nasce con la regia di Massimo D´Alema e Franco Marini. Per ora è composta da deputati e senatori ma è pronta una campagna di adesioni aperta a tutti. I numeri, a livello parlamentare, parlano di 114 eletti tra Montecitorio e Palazzo Madama. Presidente sarà il deputato Paolo De Castro, prodiano della prima ora ma candidato con Enrico Letta alle primarie del Pd lo scorso ottobre. Insieme a lui, un ufficio di presidenza composto da altri quattro nomi: gli ex ministri del governo Prodi, Pierluigi Bersani e Livia Turco, il deputato (dalemiano doc) Michele Ventura e Nicodemo Oliverio, braccio destro dell´ex presidente del Senato Franco Marini. Sono questi, dunque, gli "amici" della fondazione "ItalianiEuropei", l´iniziativa culturale fondata da D´Alema 10 anni fa, con la collaborazione di Giuliano Amato. Per ora è stato depositato uno scarno statuto da associazione culturale che avrà come mission il riferimento alla tradizione riformista e a quella del cattolicesimo democratico. E uno specifico rapporto di collaborazione con la fondazione dalemiana. Per il regolamento, invece, c´è ancora da aspettare. Ma è lì dentro che si è deciso di inserire la strutturazione formale dell´associazione che avrà una direzione nazionale e propaggini in tutte le regioni. Non è un caso la decisione di far nascere formalmente l´associazione proprio ieri, a poche ore dalla riunione dell´assemblea costituente del Pd. «A me non interessa fare una corrente - aveva spiegato ieri D´Alema in un´intervista sull´Unità - in queste settimane ho letto cose inaudite. Sono solo forme moderne di organizzazione della politica». Intanto RED è partita. Martedì prossimo il debutto ufficiale a Roma. Assicurata una sfilata di deputati.

giovedì 19 giugno 2008

l’Unità 19.6.08
D’Alema: non faccio correnti, basta con la cultura del sospetto
intervista di Ninni Andriolo


Al seminario Italianieuropei dell’altro giorno c’è stata la preoccupazione per un presidenzialismo di fatto
È allarmante che si stigmatizzi chi cerca di produrre idee e si festeggi invece il correntismo proliferante
La Costituente dovrebbe avviare una riflessione aperta per costruire un grande partito plurale

«A me non interessa fare una corrente». Massimo D’Alema, alla vigilia dell’assemblea costituente del Pd convocata per domani a Roma, spiega nell’intervista a l’Unità di essersi stancato di una cultura del sospetto che accusa di “opacità” la Fondazione Italianieuropei . «Nulla è più trasparente. La cosa che crea diffidenza forse è che non ci riuniamo per chiedere posti, ma per fare analisi e proporre idee». E sul futuro del Pd chiede un confronto aperto, non «una conta interna».

MASSIMO D’ALEMA Il 14 aprile, poi lo choc di Roma, ora la Sicilia: «Alle politiche non c’è stata una doppia vittoria, nostra e del centrodestra. No, ha vinto Berlusconi, per noi sconfitta di medio periodo». «Eravamo partiti con l’idea di stare da soli, poi si è detto che non siamo per l’autosufficienza, ora cerchiamo alleati...»
Presidente D’Alema, il dato delle amministrative siciliane va oltre la sconfitta Pd del 14 aprile. Più che un campanello d’allarme suona la sirena…
«Il voto della Sicilia, che viene dopo quello di Roma, contiene la verità del risultato del 14 aprile. Alle politiche non c’è stata una doppia vittoria, del centrodestra e nostra. Le elezioni le ha vinte Berlusconi. Questo non significa che noi non abbiamo ottenuto, comunque, il risultato di aver messo in campo una grande forza politica. Abbiamo perso, però. E la nostra è una sconfitta di medio periodo. Di fase, come ho cercato di dire fin dall’inizio. E se non corriamo ai ripari rischiamo un progressivo ridimensionamento».
Aumenta l’astensionismo tra gli elettori del centrosinistra, segno di un malessere crescente…
«C’è un fenomeno di demotivazione del nostro mondo che nasce anche dalla percezione di un voto non competitivo. In Sicilia, in particolare, con l’Udc nel centrodestra, pur con una certa differenziazione, c’è il rischio che la dialettica politica si sviluppi dentro un unico campo».
Il dato siciliano non può essere considerato come un incidente locale, non crede?
«Penso che si debba guardare in faccia la realtà di una sconfitta seria. E di un allarme al quale bisogna rispondere con uno sforzo capace di chiamare a raccolta tutte le forze di cui dispone questo partito. Spero che dall’Assemblea del 20 e 21 parta un messaggio di impegno comune, di sforzo unitario. E che si guardi a un lavoro di medio periodo per la costruzione ed il radicamento del Pd».
Le energie del Pd non sono state coinvolte pienamente?
«Vedo tantissime persone, anche di valore, che potrebbero essere coinvolte molto di più in un impegno comune. Il senso dell’Assemblea costituente dovrebbe essere quello di avviare una riflessione aperta e non già quello di realizzare una conta interna. Lo sforzo va volto alla costruzione di un grande partito plurale, in grado di valorizzare le sue diverse realtà. Nessuno può illudersi che i problemi che abbiamo di fronte si possano risolvere in tempi brevi. Si tratta di impostare questo processo nel modo giusto».
Dentro il Pd ci sono linee diverse, palesi o meno, che si confrontano e si scontrano?
«Noi eravamo partiti dall’idea che dovevamo stare da soli, poi si è spiegato che non siamo per l’autosufficienza e adesso siamo impegnati nella ricerca di alleati. Un’evoluzione ragionevole, che dimostra come le differenze, se mai vi fossero state, si sono consumate lungo la strada. La verità è che, come è naturale dopo una sconfitta di questa portata, stiamo scontando un periodo di messa a punto. Eravamo partiti da una certa analisi, quella dei due vincitori e della possibilità di un dialogo per mettere mano rapidamente al processo di innovazione del sistema politico-istituzionale in un senso fortemente bipolare. Mi pare che questa ipotesi sia tramontata e adesso ne stiamo prendendo atto. Dove sarebbe il contrasto di linee?».
Tra chi vorrebbe rinnovare e chi no, ad esempio…
«Fatico a vedere questa raffigurazione del tutto propagandistica per cui dentro il Pd ci sarebbero da una parte la linea del rinnovamento e dall’altra le forze conservatrici. Siamo in una fase in cui questo partito viene precisando tono, contenuto e carattere della sua opposizione».
Nel frattempo Berlusconi cambia stile e va all’attacco alle toghe…
«Il governo si rifugia in una politica di annunci che ha solo un connotato simbolico. Lo stesso ricorso all’esercito per presidiare i rifiuti o per pattugliare le città è segno chiaro di questa tendenza. In un Paese che ha 300mila addetti alla sicurezza, non credo che tremila soldati nelle città possano risolvere il problema. Una scelta, peraltro, che rischia di essere offensiva per le Forze Armate. Ma che tende a inviare il messaggio di un governo forte che non esita a utilizzare i militari. Viceversa, più che un governo forte, io vedo una certa confusione e l’assunzione di misure che sono scatole vuote non utili per il Paese».
Allude alle proposte sugli immigrati?
«Il paradosso è che si moltiplica l’immigrazione clandestina - con le tragedie che si susseguono nel Canale di Sicilia - mentre si discute del reato di clandestinità. Che ha efficacia zero al netto di un messaggio truculento che punta solo a elevare il consenso».
E in politica estera?
«La campagna elettorale è stata giocata all’insegna delle regole d’ingaggio da modificare in Libano e del "no" al dialogo con Hezbollah o con Hamas. Ora in Libano si è fatto l’accordo di governo con Hezbollah. E Israele ha trattato con Hamas, attraverso l’Egitto, con i complimenti della Ue. A riprova che non si può fare la pace con metà dei palestinesi e senza fermare il conflitto a Gaza. Si è fatto quello si doveva fare, che scatenò gli attacchi del centrodestra nei miei confronti».
E la mancata presenza dell’Italia nel gruppo cinque più uno sull’Iran?
«Quello fu un errore del governo Berlusconi nel 2003. E oggi, magari grazie a un più forte allineamento filo Bush, si pensava che l’Italia potesse entrare in quel gruppo. Così non è stato».
Serve un congresso per definire meglio il profilo d’opposizione del Pd?
«I congressi possono essere momenti importanti e necessari. Ci sono congressi ordinari, che vengono alla normale scadenze. Se, invece, si chiedono congressi straordinari, bisogna avere chiare le loro finalità. Ho sentito dire che volevamo fare un’assise del nostro partito che avesse come obiettivo il rilancio programmatico e il consolidamento organizzativo. Altro, invece, sarebbe fare un congresso sulla leadership. Ma questo mi sembra che non lo chieda nessuno».
Presidente, dialogo chiuso, quindi, con Berlusconi?
«Ritengo un fatto positivo che vi possa essere un dialogo con la maggioranza. Non propongo affatto di ripiegare verso la demonizzazione dell’avversario, che tra l’altro è una pratica che non mi è mai appartenuta, nemmeno quando era tanto di moda. Non vorrei, adesso, che si determinasse uno scambio di ruoli e che, dopo essere stato messo sotto processo per "inciucismo", mi si accusasse di un anti berlusconismo primitivo. Il problema non è questo. Ma l’analisi della situazione, la valutazione realistica di quali siano i margini di questo dialogo e gli obiettivi che si vogliono raggiungere».
Veltroni ha chiesto a Berlusconi di togliere di mezzo le norme per congelare i suoi processi. Se questo dovesse accadere il dialogo potrebbe ripartire?
«Ci sono due ordini di problemi. Uno, certamente, è il fatto che le gravi forzature di natura anche istituzionale che Berlusconi sta introducendo rendono il dialogo molto difficile. Siamo tornati a quegli atteggiamenti che hanno gravemente compromesso la vita politica italiana. Poi c’è un altro aspetto che riguarda il dialogo sulle riforme istituzionali e che io ritengo auspicabile. Questo, però, richiede da parte nostra una messa a punto della piattaforma istituzionale con la quale andiamo al confronto. Perché il dialogo è un metodo, che va benissimo, ma che va commisurato ai fini, al consenso e alle alleanze che si realizzano intorno a essi».
L’incontro di martedì promosso da Italianieuropei è stato letto come prova di una nuova alleanza che va da Salvi a Casini…
«Italianieuropei, che viene presentata come una corrente, esiste da dieci anni. Da quando, cioè, il Pd non era nella testa di nessuno. Ma è oggetto, oggi, di una violenta campagna di disinformazione di alcuni quotidiani. Per una istituzione culturale che collabora con tante personalità del mondo della cultura, essere descritta come corrente politica può creare problemi. C’è quasi la volontà di metterci a tacere. Un giorno è la riunione della corrente di D’Alema, il giorno dopo è l’assemblea del nuovo centrosinistra…».
Ci spieghi cosa è accaduto l’altro ieri, allora…
«Insieme ad altre fondazioni, che ringrazio, a cominciare da Astrid, abbiamo fatto un seminario scientifico del quale è stato protagonista un gruppo di costituzionalisti e giuristi tra i maggiori del nostro Paese. C’erano alcune personalità politiche dell’opposizione che hanno collegamenti con alcune delle fondazioni promotrici dell’incontro. Mi ha colpito la convergenza di analisi, la preoccupazione sulla deriva di una sorta di presidenzialismo di fatto, senza regole, che sta prendendo piede nel nostro Paese. Si è discusso di come si riorganizza una democrazia funzionante a partire dalla necessaria opera di ricostruzione dei partiti, dall’efficienza delle istituzioni, dal corretto rapporto tra esecutivo e assemblee elettive. Nello spirito della semplificazione della vita politica, fatto molto positivo, che però non può andare a discapito della rappresentanza e della legittimazione delle istituzioni. Altro che espediente di lotta politica, quindi».
Sotto accusa è l’"opacità" della fondazione Italianieuropei…
«Ma si è anche detto, subito dopo, che quelle dichiarazioni erano state travisate dalla stampa. In realtà, nulla è più trasparente di Italianieuropei. Il nostro patrimonio è inalienabile, i nostri bilanci sono pubblici. Leggo sui giornali di correnti che si riuniscono, legittimamente aggiungo io. La cosa che crea diffidenza, forse, è che noi non ci riuniamo per chiedere posti, ma per fare analisi e proporre idee. Questo evidentemente crea sospetto. È allarmante che in un grande partito democratico ci si accanisca contro chi cerca di produrre idee e si festeggi, invece, il correntismo proliferante. Il Pd dovrebbe considerarci come una risorsa».
Anche fuori dal Pd le attribuiscono l’obiettivo di un "partito nel partito". C’è perfino il progetto di una televisione….
«Ho letto cose inaudite. C’è molto provincialismo, per la verità. Il Partito socialista francese è un fiorire di club e di centri di iniziativa. Al Gore ha una Tv molto innovativa e interessante. Stiamo parlando delle forme moderne di organizzazione della politica».
Le spinte centrifughe non è che rafforzino il Pd, però…
«Non c’è nessuna spinta centrifuga. Io, tra l’altro, sono contrario alla demonizzazione delle correnti. In questo ci vedo un riflesso vetero staliniano che resta tra noi malgrado i cambiamenti...».
Legittima anche una sua corrente, quindi?
«A me non interessa fare una corrente, l’ho detto e lo ripeto. Non ho finalità legate agli equilibri politici all’interno del Partito democratico. Non ho chiesto nulla, né incarichi, né presidenze, né vicepresidenze. Diceva Formica che le correnti nascono da grandi ideali, ma finiscono per essere sindacati di tutela del ceto politico. Ecco io ritengo legittime le correnti, ma ritengo sgradevole se si partisse dalla seconda fase».
Un partito di componenti, correnti e fondazioni ha bisogno di una leadership a cui venga riconosciuto un forte potere di sintesi…
«È chiaro che un partito così articolato ha bisogno di una forte sintesi, di organismi dirigenti autorevoli e pienamente rappresentativi. Spero che questo sia uno dei principali obiettivi dell’Assemblea costituente. Il nostro è un partito che ha una genesi plurale e le diverse componenti tendono a rimanere in collegamento tra di loro. Certo, è una dialettica ancor oggi, purtroppo, legata più alle provenienze che al futuro. Tutto questo non va demonizzato. Penso, però, che il vero problema di oggi sia quello di rimescolare le carte e di mettere in circolazione idee, culture, modi di pensare diversi. Da qui nasce l’idea di affiancare alla fondazione anche un’associazione di persone che intendono partecipare all’elaborazione di idee nuove».
La stessa che oggi conterebbe un terzo dei parlamentari Pd? Ma quella viene indicata come riprova del "partito nel partito"…
«Si scrivono cose ridicole. Anche per prudenza nei confronti di tutte queste polemiche, abbiamo deciso di presentare questa associazione dopo l’Assemblea costituente. Lo faremo a Roma il 24 giugno, crediamo che debba essere composta da parlamentari, e esponenti del mondo della cultura, da chi vuol collaborare con la fondazione, con le sue iniziative. Per farli vivere anche in giro per il Paese e per arricchire i nostri collegamenti con il mondo scientifico. L’idea, quindi, è quella di un’istituzione culturale di tipo nuovo. Ci muoviamo nell’ambito del Pd, ma non siamo un’associazione di membri del Pd. E non ci spetta quindi una quota negli organismi del Pd…».

l’Unità 19.6.08
L’allarme del centrosinistra: sospesi e prescritti i picchiatori del G8
Da Melandri a Orlando e Pinotti, la denuncia dei parlamentari liguri del Pd. La deputata dell’Idv Mura: «Un fatto gravissimo»
di Nedo Canetti


Il parlamentare europeo Vittorio Agnoletto chiede a Napolitano di non firmare la legge di conversione del decreto

Tra i circa 100mila processi che l’emendamento salva Berlusconi al decreto sulla sicurezza sospende per un anno, ci sarebbe anche quello per i fatti del G8 di Genova del 2001. Lo denunciano i parlamentari liguri del Pd (i ministri ombra Roberta Pinotti e Giovanna Melandri, Luigi Lusi, Claudio Gustavano, Andrea Orlando, Francesco Garofani, Sabina Rossa e Mauro Tullo); la deputata dell’Idv, Silvana Mura e Italo Di Sabato, responsabile dell’Osservatorio sulla repressione Prc. «È gravissimo - scrivono deputati e senatori del Pd - che il governo disponga, in questo modo, di sospendere il procedimento che vede imputati poliziotti, agenti di polizia penitenziaria, funzionari e medici (45) accusati di pestaggi e altre violenze ai danni di manifestanti nella caserma di Bolzaneto» e 29 funzionari e poliziotti per l’irruzione nella scuola Diaz. Ed è paradossale che gli unici condannati sarebbero i manifestanti, perché il procedimento a loro carico ha raggiunto una fase processuale fuori della portata del provvedimento governativo, mentre il processo agli altri imputati rischia di finire nel nulla.
Quel famigerato emendamento stabilisce la sospensione dei processi penali per fatti punibili con meno di 10 anni di reclusione, commessi sino al 30 giugno 2002, che si trovino in uno stato compreso tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado. È il caso del processo di Genova, nel quale tutte le imputazioni - lesioni, calunnie, falso - comportano pene inferiori ai 10 anni. Si aggiunga che, nel 2009, alla ripresa dei processi, sarebbero necessari nuovi calendari e nuove notifiche che, per le vicende del G8, sarebbero tanto numerosi da far precipitare rapidamente tutto in prescrizione.
Anche per questo colpo di spugna - rileva Mura - An mostra tanto entusiasmo per l’emendamento e ieri il capogruppo del Pdl a Palazzo Madama, Maurizio Gasparri, si è profuso in appassionati interventi per difenderlo dalla critiche dell’opposizione? «Una beffa» attacca Di Sabato. Tutto questo - sottolineano i parlamentari liguri - «lascerebbe così un’ombra sulle Forze dell’Ordine, la cui stragrande maggioranza ha compiuto, in quei giorni, come fa oggi, il proprio dovere». «Se queste norme diventeranno legge - chiosano - vorrebbe dire che davvero la legge non è uguale per tutti, ma che esistono cittadini più cittadini degli altri». Il Prc lancia una «straordinaria mobilitazione contro il tentativo reiterato di calpestare le garanzia costituzionali». Il parlamentare europeo, Vittorio Agnoletto, ha chiesto al Presidente della Repubblica di non firmare la legge di conversione del decreto, mentre i legali dei manifestanti stanno già valutando a presentare eccezioni di incostituzionalità.

l’Unità 19.6.08
Si può condividere la buona sorte?
di Dijana Pavlovic


Domenica 8 giugno tutti noi Rom dei Balcani abbiamo avuto dalla Serbia una notizia che ci ha rattristato molto: è morto Saban Bajramovic, il re della musica Rom, considerato uno dei dieci più grandi jazzisti del mondo. Aveva 72 anni, era nato in Serbia nel 36, nella sua vita ha scritto e ha composto più di 700 canzoni. Come tutti i Rom di quella generazione non aveva studiato e la sua educazione musicale l'aveva ricevuta dalla strada. A diciannove anni fuggì dall'esercito per motivi e fu condannato a tre anni di carcere per diserzione. Davanti alla corte marziale dichiarò che nessuno può punirlo tanto quanto lui è in grado di sopportare e così la pena gli fu aumentata di due anni mezzo che lui utilizzò per imparare a leggere e scrivere. Il risultato furono altre punizioni perché leggeva invece di lavorare.
Con la sua orchestra ha fatto il giro del mondo suonando con i più grandi jazzisti e venne proclamato re della musica rom quando venne invitato in persona da Nehru e Indira Gandi, ritornando così nel nostro Paese d'origine. Nell'ultima intervista concessa pochi giorni prima di morire si era lamentato che dopo 40 anni di musica non aveva una pensione e aveva dei problemi economici. Allora il ministro della Cultura è andato a trovarlo e il governo ha deciso di concedergli una pensione ma la notizia non ha fatto in tempo a farlo felice: era già morto. Al suo funerale c'era anche il presidente della Serbia Borislav Tadic che nel suo discorso ha ringraziato i Rom per aver condiviso con i serbi la buona e la cattiva sorte. Questo mi ha fatto ricordare che questo inverno, mentre ero in Serbia, ho visto in televisione un servizio su tre ragazzi Rom che suonavano nella via principale di Belgrado facendosi notare per il loro talento naturale. Lo Stato ha allora deciso di dargli una borsa di studio per permettergli di frequentare la scuola musicale.
Tutto questo succede in un paese nostro vicino, considerato barbaro ancora oggi anche se solo pochi anni fa anche gli aerei italiani sono andati a esportarvi la democrazia con le bombe.
Oggi qui, nella opulenta e civile Milano, ragazzi come Eduard, un bambino rom con un grande talento per il violino, vengono cacciati con le loro famiglie da qualsiasi luogo senza che nessuna istituzione si preoccupi del loro futuro. Eduard viveva nel campo di via S. Dionigi, andava a scuola, studiava il violino, sognava di andare al Conservatorio. Poi è stato sgomberato. Il sogno del conservatorio è svanito. Adesso la sua scuola è la metropolitana. A lui di questo Paese tocca solo la cattiva sorte.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità Roma 19.6.08
Una calibro nove per il vigile romano
Approvata all’unanimità dalla Giunta la delibera sul regolamento dell’armamento degli agenti di pubblica sicurezza
Per loro, in dotazione, anche manganelli di gomma e spray antiaggressioni. Preoccupate la Silp-Cgil e la Fsp-Ugl
di Massimiliano Di Dio


Vigili urbani pronti alle armi. In arrivo pistole semiautomatiche calibro nove, manganelli di gomma e spray antiaggressioni. Da portare a casa a fine turno. È l’annuncio della Giunta Alemanno che ieri ha approvato all’unanimità la delibera sul regolamento dell’armamento degli agenti di pubblica sicurezza.
Pressoché quasi tutti gli oltre 6mila vigili urbani della capitale, salvo impedimenti nell’abilitazione e la possibilità di dichiararsi obiettore di coscienza. E se ora tocca ai sindacati di categoria e al consiglio comunale dare il via definitivo, dentro e fuori la municipale non mancano le perplessità.
Questo in sintesi il motto: «A cosa serve comprare una pistola e metterla in mano a un vigile urbano se poi non si hanno le risorse per far fronte ad armerie e corsi di addestramento?». Dal Campidoglio nessuna risposta. Ma il passato parla chiaro. «In vent’anni di servizio con l’arma non ho mai fatto una visita di controllo - racconta Mauro Cordova, presidente dell’Associazione romana vigili urbani - Eppure potevo non avere più i requisiti per tenere in mano una pistola. Ci sono vigili che hanno avuto stati d’ansia, depressione, esaurimento e continuano a girare armati».
Cordova era uno dei 1500 agenti capitolini già armati. Poi per un problema di salute ha deciso di riconsegnare la pistola. Ma è anche quello che nel 2006 aveva «regalato» polemicamente all’ex sindaco Veltroni 600 pistole in dotazione ad altrettanti vigili urbani.
Il suo sì all’armamento infatti non cambia, «Subiamo troppe aggressioni», ma ora avverte: «Solo con criteri ben precisi». Difficile non pensare ai diciotto articoli previsti nel regolamento per dotare di pistola e tanto altro i vigili urbani della capitale.
Agli agenti, oltre alla sciabola prevista per i componenti della squadra d’onore del Comando generale e «per esclusiva esigenza di difesa personale degli operatori previa autorizzazione del ministero dell’Interno», arrivano infatti anche «spray anti aggressione» e «mazzette distanziatrici in gomma di 50-60 centimetri, di peso inferiore ai 500 grammi».
I vigili con le armi preoccupano alcuni sindacati di polizia. «L’armamento della municipale andrebbe valutato caso per caso, servizio per servizio» spiega Gianni Ciotti, segretario generale Silp-Cgil. Incalza a sorpresa anche Antonio Scolletta, coordinatore nazionale Fsp-Ugl, sigla vicino al centrodestra: «L’utilità di una pistola in mano a un vigile - polemizza - va dimostrata. Non ci si può abbandonare alla facile retorica dell’armiamoci tutti. Meglio pensare a illuminare le strade. La municipale dovrebbe funzionare meglio su attività come la lotta alla contraffazione o di polizia annonaria, così da consentire ai poliziotti di occuparsi del controllo del territorio».
Troppe armi in giro, è l’altra preoccupazione. E la pistola, si legge nel regolamento, «è assegnata in dotazione individuale e in via continuativa». Ovvero non deve essere riconsegnata a fine servizio. Qui entra in gioco l’altra annosa, e costosa, questione: le armerie. Al momento ce n’è una sola al Comando generale. «Gli agenti armati sono già costretti a portare le pistole a casa» conferma Cordova. L’Fsp-Ugl per voce sempre di Scolletta sottolinea: «Nei comandi più grandi occorrerebbero armerie da sorvegliare giorno e notte con costi elevati per un’Amministrazione comunale».

Corriere della Sera 19.6.08
Dall'ex ministro e dalla giornalista prc due articoli sulla necessità di evitare derive estremiste
Lanzillotta-Gagliardi, donne contro i «signor no»
di Fabrizio Roncone


ROMA — C'era da leggere, ieri, su Liberazione e su Europa. C'erano due donne della politica italiana che firmavano editoriali importanti, non scontati, lasciando intravedere un nuovo (o vecchio?) orizzonte anti-Berlusconi.
Linda Lanzillotta e Rina Gagliardi sono due donne molto distanti. La Gagliardi è di sinistra, da sempre e profondamente di sinistra e scrive (ed è un piacere leggerla, poiché possiede il dono — raro — della scrittura) sul quotidiano di Rifondazione. È stata anche senatrice di Rifondazione. È pisana, rapida, intellettualmente disponibile, lucida.
La Lanzillotta — nell'ultimo governo Prodi fu ministro per gli Affari regionali, mentre suo marito, Franco Bassanini, che pure il ministro l'aveva fatto più volte, rimase al palo — con ironia, si descrive invece da sola: «Può dire che, nel Pd, sono la rappresentante dell'ala laico-liberal del rutellismo». È molto legata, politicamente, a Francesco Rutelli. E, dunque, ciò che dice, e scrive, va sempre un po' letto in controluce.
E così arriviamo alla strana, sorprendente sintonia che sembra di cogliere nei due editoriali in questione. Quello della Lanzillotta ha questo titolo: «Eppure dovremo dire anche dei sì». Succo del ragionamento: a Berlusconi diremo tutti i no necessari, ma è chiaro «che vorremmo dire dei sì almeno su alcune decisioni annunciate, le quali sembrano proprio riprendere proposte avanzate dal governo Prodi e poi bloccate, o parzialmente vanificate, da resistenze opposte».
La Gagliardi scrive sotto un titolo pure eloquente: «Non ci salverà un nuovo girotondismo ». Per capirci: l'idea di ributtarla sulle «solite imprecazioni quotidiane contro il Berlusca », è un'idea vecchia, destinata a fallire.
La domanda appare scontata, Rina Gagliardi. Entrambe vi dichiarate contrarie a combattere Berlusconi con la tradizionale ondata di «no»: questo cosa significa?
«Credo che alla Lanzillotta, dire tanti "no" non piaccia perché le sembra un comportamento troppo radicale, gruppettaro, barricadero. A me, invece, star lì a dire sempre e solo "no" non piace perché mi pare una radicalità solo apparente. Ci risolvi il quotidiano, dai un po' di soddisfazione ai tuoi che ti vedono con la faccia scura davanti a Berlusconi, ma poi?». Ecco, appunto: poi? «Berlusconi fingerà di ascoltarci e continuerà a governare, con i suoi metodi, per altri dieci anni. Perciò, per sottrarci a questo destino, io dico che serve un progetto politico ampio». Gagliardi, senta: Veltroni che incontra l'ex segretario di Rifondazione Giordano, un colloquio che doveva essere riservato e che invece diventa pubblico. Non è che... «Io penso che Veltroni abbia capito due cose. Primo: collaborare con Berlusconi è impossibile. Secondo: il Pd è un partito importante, ma tecnicamente costruito per governare. Quindi...». Se Veltroni vuol provare a fare un'opposizione... «Che sia definibile tale, è chiaro che non oggi, e forse nemmeno domani, ma insomma prima o poi dovrà aprirsi ad alleanze diverse...».
Linda Lanzillotta, ha sentito? «Eh!». Cosa? «Meglio tardi che mai, certi ragionamenti... Però, beh, io voglio ricordare a tutti che se l'Unione ha fallito, qualche motivo ci sarà pur stato. O no?». Più di uno, sembra di ricordare. «Più di uno. Detto questo... è chiaro che...». Cosa è chiaro? Prosegua. «Occorre rintracciare tutti coloro che hanno una visione comune del futuro di questo Paese: ed è qui, sulla condivisione dei progetti, che si gioca il futuro delle alleanze». Quindi lei sarebbe d'accordo a... «Alt». Come alt? «Io non aggiungo altro».

Corriere della Sera 19.6.08
La Russa: ma i caccia non bombarderanno
L'Italia risponde a Bush Presto in Afghanistan altri quattro «Tornado»
Kandahar, parte l'offensiva anti-talebani
In azione nel Sud le forze Nato e afghane: impegnati oltre mille soldati, uccisi più di trenta miliziani
di Maurizio Caprara


ROMA — E' possibile che l'annuncio ufficiale sia dato a fine mese, quando il segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer dovrebbe incontrare a Roma Silvio Berlusconi. Ma è ormai ben più di un'ipotesi l'invio in Afghanistan di quattro «Tornado» italiani, cacciabombardieri che secondo il ministro della Difesa Ignazio La Russa avrebbero «compiti di perlustrazione e non compiti, mai, di bombardamento». E la prospettiva, di sicuro gradita a George W. Bush, si fa più concreta mentre nel Sud del Paese tuttora insidiato dai talebani, fuori dalla città di Kandahar, si è sviluppata un'offensiva della Nato e dell'esercito nazionale che ha portato alla morte di almeno 36 guerriglieri. Nel giro di 48 ore, in altri punti dell'Afghanistan le forze alleate hanno contato sei caduti: quattro britannici, tra i quali la prima donna dall'inizio della guerra nel 2001, due di nazionalità imprecisata in una zona controllata dagli americani e dieci feriti. Ai quali vanno aggiunti due morti tra i soldati afghani e circa 1.500 famiglie sfollate per ripararsi da bombe e pallottole.
L'argomento della partenza di altri aerei italiani è riemerso ieri in occasione di due informative dei ministeri della Difesa e degli Esteri. La Russa ne ha parlato ai margini di una seduta di commissione al Senato sostenendo che dalla Nato «non c'è stata una richiesta specifica, c'è stato solo un pour parler » e che il numero dei Tornado da fornire all'International security assistance force (Isaf) «non potrebbe essere superiore a quattro». Confermata, comunque, la disponibilità a mandarli: «Se gli alleati ci chiedono che per una copertura anche del nostro contingente vi sia un impiego anche di Tornado italiani, non si può dire che sia una richiesta irragionevole».
Il capo del servizio Stampa della Farnesina Pasquale Ferrara, nella stessa giornata, si è espresso così: «Siamo in una fase di studio. L'incontro con il segretario generale della Nato sarà l'occasione per rendere evidenti tutti gli elementi di questa possibile iniziativa ».
Di certo il ruolo degli aerei non ha tra i suoi limiti soltanto quelli indicati dagli strumenti di bordo. Esistono i vincoli dell'articolo 11 della Costituzione: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente (...) alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia(...) ». In Afghanistan i circa 2.600 militari italiani sono inquadrati nei 49.300 dell'Isaf, forza con truppe di 40 Paesi. L'offensiva nel distretto di Arghandab, via di accesso a Kandahar, ha impiegato elicotteri con missili, aerei e un migliaio tra soldati Nato e afghani. Stando al ministero della Difesa di Kabul, la morte di 20 degli uccisi è dovuta a un bombardamento della Nato. Quest'ultima non ha confermato. La britannica che ha perso la vita nella provincia di Helmand avrebbe fatto parte degli
Intelligence corps. Era su un mezzo colpito da una bomba a Est di Lashkar Gah. Dal 2001 i britannici caduti sono 106. Nei giorni scorsi, il Pentagono ha informato che in maggio il numero delle vittime americane e alleate ha superato quelle contate in Iraq.

Corriere della Sera 19.6.08
Il dibattito Il confine tra utilitarismo e morale: filosofi e ricercatori studiano il giusto equilibrio tra le principali esigenze dell'uomo
Ragione e desiderio così nasce la libertà
La lezione di Spinoza e della scienza: perché è impossibile separare il cuore dal cervello e l'anima dal corpo
di Giulio Giorello


Non solo logica, non solo sentimento

Il convegno cui fa riferimento l'articolo è stato promosso dalla Società filosofica italiana (Sfi), insieme con la Società di logica e filosofia delle scienze (Silfs) e l'assessorato alla Cultura della Provincia di Milano. All'incontro dal titolo «La filosofia, le scienze» hanno partecipato tra gli altri Laura Boella, Maria Luisa Dalla Chiara, Maurizio Ferraris, Elio Franzini, Michele Lenoci, Franco Lo Piparo, Salvatore Natoli, Stefano Poggi Giorgio Vallortigara, Guglielmo Tamburrini. Il convegno si è tenuto il 4 e il 5 giugno scorsi allo Spazio Oberdan di Milano.

«L'esperienza, non meno che la ragione, insegna che gli esseri umani credono di essere liberi solo perché sono consapevoli delle proprie azioni ma ignari delle cause da cui sono determinate, e inoltre che i decreti della mente non sono altro che gli appetiti stessi, e perciò sono differenti a seconda della diversa disposizione del corpo». Non è un caso che sia stato un biologo (ma che viene dalla fisica) — Edoardo Boncinelli — a ricordarmi di recente queste parole dell'Ethica di Baruch Spinoza. Esse toccano il problema filosofico per eccellenza, quello della libertà. Lo aveva già individuato Aristotele, quando aveva definito l'animale uomo come «una mente che desidera» e insieme «un desiderio che ragiona» — per usare l'efficace traduzione di Franco Lo Piparo. L'Ethica spinoziana contiene un'ampia trattazione di tali appetiti o desideri che scaturiscono dagli affetti umani, cioè dai modi con cui il nostro corpo interagisce con l'ambiente e dalle idee di tali interazioni che emergono alla nostra coscienza. Critico di qualunque separazione tra materia e spirito, Spinoza ammonisce i filosofi a non dimenticare il corpo quando si appassionano (forse anche troppo) al destino dell'anima e gli psicologi a non trascurare la materia del cervello quando si dedicano alla genesi delle idee.
Antonio Damasio ama ricordare la sua visita alla casa di Spinoza a Rijnsburg in una assolata mattina (6 luglio 2000), con l'unica compagnia di un gatto nero «all'apparenza tranquillo e assorto», in attesa di una «giornata estiva adatta alla filosofia». Ne è nato un libro affascinante dedicato a «emozioni, sentimenti, cervello» ( Alla ricerca di Spinoza, Adelphi 2003), in cui il neurobiologo ha pazientemente ricostruito alla luce delle attuali conoscenze la geometria dei desideri delineata da quel pensatore solitario che era considerato la «pecora nera» da protestanti e cattolici della sua Amsterdam, per non dire dei suoi ex correligionari ebrei che lo avevano persino «maledetto». Per Spinoza la vita è contrassegnata da una naturale tendenza a preservarla. Ciò è reso possibile in ogni organismo dall'equilibrio delle differenti funzioni e dalla conseguente regolazione dei processi vitali. Un simile «meccanismo» si dispiega attraverso gli affetti (come la gioia o il dolore) ed è modulato dagli appetiti. Questa è la ragione, commenta Damasio, per cui emozioni e sentimenti sono a un tempo essenziali per la sopravvivenza e la conoscenza.
Come si è accennato sopra, il cosiddetto libero arbitrio non sarebbe che un nome per l'ignoranza. Ma ciò non vuol dire che nel sistema spinoziano non ci sia posto per la libertà, da intendersi invece come riduzione dei vincoli esteriori all'azione umana e insieme come processo di chiarificazione dei motivi interiori. L'essere umano è sì in balia degli affetti, ma vive anche la passione della conoscenza. Anzi, come scrive Damasio, è in grado di essere sempre più consapevole della fragilità della propria esistenza e di «trasformarla in un interesse». Per di più questo interesse si riflette da un individuo all'altro, plasmando non poche delle forme di esperienza condivisa, come mostrano alcune tra le più importanti scoperte degli ultimi vent'anni nell'ambito delle neuroscienze.
Diceva Spinoza: «Quanto più uno è in grado di ricercare il proprio utile, tanto più è dotato di virtù. Al contrario, quanto più uno trascura di conservare il proprio utile, tanto più è impotente». A pochi anni dal testo di Damasio e a più di tre secoli dall'Ethica, questo tipo di utilitarismo è tutt'altro che egoismo — come vuole uno stereotipo diffuso. Piuttosto, esso è alla radice della stessa vita associata, ove gli esseri umani tramutano situazioni di pura competizione per le risorse in occasioni di cooperazione. Tutto questo avviene attraverso una percezione razionale dei propri interessi, senza nessun appello a valori comuni o ad assoluti religiosi. È da qui che mi pare opportuno partire per una democrazia pluralistica che tenga conto della differenza delle idee come della diversità dei corpi. C'è chi la bolla sbrigativamente come «relativismo», mentre alcuni temono che questo tipo di approccio riduca i cosiddetti valori a semplici preferenze.
Mi si obietta: se la libertà sta nel superamento delle costrizioni ai movimenti e alle azioni dei soggetti, perché non si dovrebbero lasciare allora spazio a pedofili o a sadici che, dopo tutto, potrebbero invocare a giustificazione le loro voglie o i loro appetiti? La risposta è semplice: come ben sanno sia i teorici dell'utilitarismo sia i migliori dei loro critici, vanno accettate le preferenze che riguardano noi e non quelle che coinvolgono altri! Ovvero agli altri non dovremmo nemmeno fare quello che vorremmo fosse fatto a noi: potrebbero avere gusti differenti. Questa regola ci mette al riparo non solo da sadici, pedofili, eccetera, ma anche da benefattori inopportuni. Per dirla ancora con Spinoza, «chi per semplice affetto si adopera perché gli altri amino ciò che egli ama e vivano secondo il suo sentimento agisce solo per impulso e perciò è odioso specialmente a quelli che trovano piacere in altre cose». Sotto questo profilo, mi paiono odiosi in egual misura sadici, pedofili e fanatici di ogni risma.
Si ritrova così non solo il principio liberale negativo per cui tutto (o quasi) va bene, purché non comporti danno altrui, ma anche l'ideale positivo della più ampia fioritura umana, se si interpreta il detto spinoziano che «l'uomo deve essere un Dio per l'uomo » come la proliferazione di esempi di vita che vengono proposti agli altri senza per questo essere imposti.
Lungo questa via emerge la convergenza virtuosa tra ricerca scientifica e dimensione politica. In occasione di un recente convegno organizzato dalla Società filosofica italiana (4-5 giugno), dal titolo «La filosofia, le scienze» e motivato anche dall'insofferenza per la retorica di chi ripete stancamente che «la scienza non pensa», ho volutamente preso le mosse dall'idea spinoziana per cui le dimostrazioni scientifiche sono da intendere come i veri «occhi della mente». E la stessa filosofia non sarebbe altro che l'organo che di quegli occhi deve sapere fare buon uso.
La ragione e il desiderio: la scalata dell'uomo verso la libertà (illustrazione Corbis)

Repubblica 19.6.08
Gli irriducibili della laicità
di Anais Ginori


La procedura non è facile, serve impegno e vocazione. Primo, mettere le mani sul certificato di battesimo originale, che non è cosa semplice. Magari è stato perso in qualche trasloco, magari è custodito da una vecchia zia-madrina. Senza di quello, non si va avanti. Rintracciati il nome del sacerdote, il luogo, la data e l´ora della cerimonia, si deve inoltrare una richiesta in triplice copia: alla parrocchia dove è avvenuto il battesimo, a quella dove si risiede e al vescovo di competenza. Le prime richieste vengono ignorate. È anche un modo per lasciare un tempo di riflessione. La propria volontà, quindi, deve essere manifestata con forza, all´occorrenza sollecitare con raccomandate. I "teo-no", tecnicamente apostati, non si scoraggiano. In Francia, avanza un manipolo di irriducibili della laicità. Militano contro l´ingerenza della religione nella vita pubblica, nell´epoca dei "teocon" e dei "teodem". Ora che Sarkozy ha riabbracciato il dialogo con il Vaticano, il movimento in favore degli "sbattezzati" prende nuova linfa. In duecento hanno rinnegato quest´anno la religione cattolica, pretendendo pure il certificato. Alcuni di questi hanno riportato in auge una vecchia istituzione della Rivoluzione francese, il battesimo civile che oggi si celebra in alcuni quartieri di Parigi con tanto di madrina e padrino repubblicano. Invece del culto mariano, quello di Marianne.

Repubblica 19.6.08
Il nuovo fascismo. Che cosa resta di quell’eredità
di Simonetta Fiori


"Un lascito va rintracciato nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari e degli interessi dello Stato"

ROMA. Soltanto uno storico come Emilio Gentile, non nuovo a interpretazioni "scomode", poteva inoltrarsi in un terreno non facile come l´eredità del totalitarismo fascista nell´Italia contemporanea. Un´eredità rintracciata non solo nella continuità degli apparati statali e del personale dirigente, traslocati senza epurazione dal regime fascista a quello repubblicano. Né soltanto nella lunga presenza in Italia del più forte partito neofascista europeo, che dopo il lavacro di Fiuggi partecipa al governo del paese e oggi occupa la terza carica dello Stato. L´eredità fascista - è la tesi di Gentile - va rintracciata anche "nel modo di concepire e praticare la politica di massa" nella lunga età repubblicana, "nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari", "in quella costante confusione tra gli interessi dei partiti e gli interessi dello Stato" che ha minato la democrazia.
L´occasione per questa inedita riflessione è l´uscita della terza edizione de La via italiana al totalitarismo, ormai un classico degli studi sul fascismo, tradotto in Europa e in America Latina, ora arricchito di tre nuovi capitoli che investono anche il tema dell´eredità del totalitarismo (Carocci, pagg. 422, euro 26,50). Solo la conoscenza storica del ventennio nero può servire a fare i conti con il suo ingombrante retaggio nel costume, nella mentalità e nei comportamenti degli italiani durante gli ultimi sessant´anni. «Invece prevale ancora oggi la tendenza a caricaturizzare il fascismo, liquidato come regime da operetta, oppure ad alleviarne le gravi responsabilità, quasi non ci fosse mai stato. Tutto quello che il fascismo ha rappresentato come distruzione della democrazia e umiliazione d´una collettività è stato cancellato».
Lei ha coniato la formula "defascistizzazione del fascismo". Un´operazione che ha molti responsabili, anche nella cultura antifascista.
«Sì, vi hanno contribuito molto antifascisti oltre che neofascisti o ex fascisti non pentiti, naturalmente con opposti propositi. Per molti anni ha prevalso a sinistra l´immagine d´un regime ventennale sciolto come neve al sole, una dittatura fondata sul niente, solo violenza e opportunismo, sostanzialmente una "nullità storica". Per Norberto Bobbio non è mai esistita una cultura fascista, il fascismo era solo "un´ideologia della negazione". Franco Venturi inventò l´espressione "il regime delle parole". Guido Quazza arrivò perfino a confinarlo nel mondo degli "epifenomeni politici". Debbo confessare che, ancora alla metà degli anni Settanta, mettere in discussione la tesi della "nullità storica" del fascismo significava per molti fare apologia del fascismo».
Parla per esperienza diretta?
«Quando pubblicai Le origini dell´ideologia fascista, nel 1975, fui accusato da Quazza di voler riabilitare il fascismo. Un assurdo storiografico».
Poi c´erano gli ex fascisti o i nostalgici che avevano tutto l´interesse di annacquare la ferocia dittatoriale del fascismo.
«Sì, l´immagine oscillava tra la caricatura e l´indulgenza, specie nella comparazione con il nazismo o lo stalinismo. Cominciò a circolare la tesi che dura tutt´oggi del fascismo modernizzatore, e niente altro. Soprattutto si negava che il regime fosse stato una "dittatura intenzionale", ma piuttosto "preterintenzionale", nata per caso. Questa era la tesi del Movimento Sociale, fino agli anni Ottanta. Mentre tra gli storici, quando pure oggi parlano di totalitarismo fascista, alcuni negano poi il sostantivo con aggettivi come "zoppo", "tronco", "imperfetto" e simili».
Gli stessi protagonisti del fascismo fecero di tutto per ridimensionare le proprie responsabilità.
«Dopo il 1945, vari artefici del regime ci hanno rivelato che in fondo o non erano stati veramente fascisti o erano stati fascisti dissidenti, critici od ostili alla politica totalitaria, come fecero Bottai, Grandi, Federzoni. Forse, se fosse stato vivo Starace, avrebbe sostenuto d´essere stato solo un maestro di educazione fisica per il benessere degli italiani. Un´autoassoluzione impossibile in Germania».
Conseguenza di questo diffuso "negazionismo" fu la rimozione della categoria di "totalitarismo", secondo lei essenziale per la comprensione del fascismo e del Novecento.
«Una categoria che è stata a lungo rimossa dalle scienze politiche e dagli studi storici. Eppure serve a definire un metodo che fu esportato in Europa proprio dal nostro paese. La stessa parola "totalitarismo" fu usata la prima volta dagli antifascisti italiani».
Quando c´era un regime a partito unico?
«No, tre anni prima. E in questa precocità è la genialità della definizione. Pochi mesi dopo la marcia su Roma, quando il governo era ancora parlamentare, personalità come Amendola, Sturzo e Salvatorelli presero a usare il nuovo vocabolo. In fondo il sistema parlamentare non era ancora molto dissimile da quello delle altre democrazie europee, però essi osservarono il partito fascista e come operò per conquistare il potere. Ne colsero la natura di "partito-milizia", incompatibile con la democrazia e inevitabilmente portato a creare "un sistema totalitario"».
Un´intuizione che però poi s´è persa per strada.
«Negli anni Venti e Trenta ebbe grande fortuna, in Europa e negli Stati Uniti, anche grazie agli scritti di Sturzo come Fascism and Italy. Ma dopo la guerra, la categoria di totalitarismo riferita al fascismo fu messa da parte per diversi motivi. Ho detto della "defascistizzazione del fascismo" nella cultura antifascista: il "nulla" non può avere carattere totalitario. Aggiungo che l´uso del termine totalitarismo per indicare il sistema sovietico lo rendeva sospetto agli occhi di intellettuali che simpatizzavano per il Pci».
Ma in questa liquidazione ebbe un grande peso Hannah Arendt, a cui lei dedica un capitolo di severa e argomentata critica.
«Ancora non riesco a capire come una studiosa intellettualmente onesta come lei possa essere stata così approssimativa e confusa. Nel suo libro Le origini del totalitarismo, pubblicato nel 1951, la Arendt escludeva - fino al 1938 - il carattere totalitario del fascismo. In realtà le sue fonti erano inconsistenti, materiali di propaganda fascista e citazioni di seconda mano. Anche la bibliografia è lacunosa: mi stupisce che non avesse mai letto Fascism and Italy di Sturzo o i saggi di Raymond Aron. Sul piano del metodo, poi, le sue pagine hanno molte incongruenze e contraddizioni».
Ma influenzò radicalmente storici come Acquarone e De Felice. E anche Aron cambiò opinione dopo aver letto il suo libro.
«Sì, la cosa incredibile è che nessuno si è preso mai la briga di andare a verificare le sue tesi. Cosa sapeva veramente la Arendt del fascismo italiano? La sua identificazione del totalitarismo con lo sterminio di massa era così forte ed evidente che sembrò a tutti persuasiva in via definitiva. Nel caso di Acquarone e De Felice, credo agisse in sottofondo un´altra motivazione: una visione sostanzialmente riduttiva del fascismo come autoritarismo sgangherato, che non ebbe mai la coerenza feroce del nazismo e del comunismo. In seguito, De Felice cambiò giudizio».
Questa lettura riduttiva è stata anche favorita dalla mancanza di un Olocausto fascista.
«Non avendo il fascismo la responsabilità d´uno sterminio di massa, esso è potuto scivolare tra le fessure dei totalitarismi nazista e comunista, scuotendosi di dosso lo stigma di regime totalitario».
Ancora oggi la destra postfascista sembra incerta su questa definizione.
«Anche lì c´è molta confusione, mancano ragionamenti articolati. Nel momento in cui Fini riconosce il valore etico e politico dell´antifascismo, rinnega il fascismo e il suo carattere totalitario. Ma è solo una mia deduzione. Il 25 aprile, per il presidente della Camera, è "liberazione dai totalitarismi": ma nel suo discorso non è detto chiaramente che uno di quei totalitarismi fu il fascismo italiano. La confusione, a dirla tutta, alberga anche altrove: diffusa è la resistenza a prendere sul serio il totalitarismo fascista».
Eppure non manca una preziosa memorialistica di tanti giovani che documentarono "l´atmosfera totalitaria" del regime, il suo carattere pervasivo e avvolgente.
«Sì, mi capita di citare spesso una bella pagina di Eugenio Scalfari sulla sua gioventù sotto il fascismo. Se ci fossimo affidati a queste testimonianze, oggi saremmo più consapevoli non solo dell´esperienza totalitaria del fascismo ma anche delle conseguenze esercitate sul modo di far politica in democrazia».
Lei rintraccia questa eredità soprattutto nell´uso dello Stato per fini di partito.
«Sì, la "mistica del partito" che prevale su tutto, come la definiva il repubblicano Mario Ferrara, anche il coinvolgimento emotivo delle masse. Gramsci fu tra i pochi a comprendere che il totalitarismo - libero dallo sterminio di massa - è una tecnica politica che può essere applicata continuamente in una società di massa. Potrebbe essere adottata anche oggi. Una tecnica che punta a uniformare l´individuo e le masse in un pensiero unico, usando il controllo dell´informazione».
Lei pensa che la nostra democrazia sia così fragile da consentire tentativi autoritari?
«Oggi in Europa una dittatura non sarebbe possibile, ma sempre più mi domando se la democrazia non stia diventando una recita: nessuno ci impedisce di essere democratici - siamo liberi di votare, di criticare chi ci governa, di esprimere le nostre opinioni. Compiamo riti democratici, anche con convinzione. Ma le decisioni le prendono in pochi, ai governati non rimane che assecondarle. Una democrazia recitativa».

il Riformista 19.6.08
Avanti popolo. Socialismo reale: Tremonti tassa i petrolieri, sconta le bollette e distribuisce la carta per i viveri
Robin Hood? Era un fascista


Robin Hood fascista, eroe-bandito, no-global. Un profilo complesso ma inevitabile per un celebre ladro divenuto eroe leggendario che ridistribuisce ai poveri, forse, ricchezze sottratte ai ricchi, con rapine a mano armata. Un legittimista cattolico capace però di dialogare con i musulmani, morto impiccato e, comunque, disegnato da Walt Disney come una volpe. Forse perché, machiavellicamente, il fine giustifica i mezzi. A fine 2008, infine, dovrebbe essere pronto un film di Ridley Scott, con Russel Crowe, che smonta il mito romantico di Robin Hood.
La provocazione del Robin Hood "fascista" l'ha lanciata l'altro ieri Giuseppe De Rita, segretario del Censis, criticando il revival di Sherwood lanciato da Giulio Tremonti. A rilanciare, ci pensa il professor Franco Cardini, che si candida a far parte del gruppo di Robin Hood. «Se Tremonti fa Robin Hood, che poi era chiamato Roberto dei Boschi, quindi possiamo chiamare Giulio Tremontino dei Boschi, io sto con lui - ci dice - potrei fare Fra Tac, ho tutti i requisiti che servono: sono grasso, filo-francescano, un teologo mancato, bevo molto e mi piace l'arrosto. Certo, Tremonti in calzamaglia non ce lo vedo bene, ma il carisma ce l'ha. Basta che non porta Bondi e Pera, nella foresta di Sherwood, mentre ci vedrei benissimo Gianni Alemanno, lui può fare Little John», ride Cardini. Che non è pienamente d'accordo con De Rita, sul fascismo di Robin Hood, e rettifica. «È pre-fascismo il suo - sostiene».
«Sul piano antropologico - prosegue Cardini - è vero che Robin Hood appartiene alla tradizione dell'homo selvaticus, propria della mitologia decadentista, che storicamente parlando è stata fatta sua dal totalitarismo del ‘900. Ma rispetto al fascismo, Robin Hood è il ribelle a una autorità fittizia, non è un campione di libero arbitrio, la sua reazione è legittimista. È contro Giovanni Senza Terra, che è inetto e cattivo, ma agisce nel nome del buon Re Ricardo. Che poi era un criminale. Robin Hood agisce come De Maistre insegna, in nome di un ordine cosmico superiore. È mitologia, una leggenda antropologica, che a me piace molto e spero che Tremontino Dei Boschi porti a termine la sua missione. Più simile a Fra' Diavolo che Von Salomon».
Secondo lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, De Rita ha ragione, Robin Hood è fascista. «Tutti i banditi, i briganti son fascisti. Sulla scia di Ernest Junger, tutti coloro che vivono al limitare della foresta non possono essere che definiti fascisti. Perché si caricano di un decisionismo che sopperisce alla mancanza di ordine costituito, al vuoto che crea ingiustizia. Anche nell'etimo, il bandito è colui che è messo al bando. E oggi il fascismo è bandito. In Italia non se ne può parlare e la destra sociale, che propone giustizia sociale, sconta ancora questa condanna».
Parli di Robin Hood e pensi a Sherwood, storica radio di Padova dei no global. Per Luca Casarini «Robin Hood non è fascista, però Tremonti si sta dimostrando un grandissimo politico, perché produce immaginario, e l'immaginario oggi non è sovrastruttura, ma società. La Robin Tax mi piace perché fa rima con la Tobin tax, ma bisogna vedere cosa farà Tremonti di quello che promette. Comunque ha capito dalla Lega, che tutti hanno sottovalutato, il valore collettivo del folklore, del dio Po, che tanto prendevamo in giro. La sinistra, questa capacità di produrre immaginario, non ce l'ha». Fascista no, ma tremontiano, Robin Hood, sì. «Anche se Tremonti in calzamaglia va bene giusto per Mel Brooks».
Non resta che tornare al punto di partenza. Al professor De Rita, appunto, e alla sua accusa di fascismo per Robin Hood. «Mi ha colpito una frase di Fausto Bertinotti, diceva che non ci sono conflitti sociali, ma si è innescata la pretesa. I nuovi poveri, o i ceti impoveriti, pretendono che qualcuno pensi a loro. Questa pretesa è raccolta da chi sostiene di interpretare i loro bisogni. Figure come quella di Robin Hood, uomini della provvidenza che interpretano i bisogni del popolo, sono fenomeni fascisti. Robin Hood praticamente sostiene di agire in nome del popolo, il popolino, che oggi è il ceto medio, impoveritosi e impaurito. Ma decidere quello che il popolo vuole, quello che bisogna fare in nome loro, è fascista. Quando ho sentito la frase di Tremonti sulla crisi del ceto medio che porterà a un nuovo fascismo mi ha spinto a fare questa riflessione. Tremonti ha ragione, ma la ricetta, come immagine, è pericolosa. Il fascismo vero, quello mussoliniano, era fatto da grandi inventori, più che interpreti, dei bisogni del popolo, un popolo che non voleva conflitti ma pretendeva. Così è nata l'Iri, l'Opera nazionale maternità infanzia, le colonie, l'Enac… Ora non c'è più il popolino degli anni '30, ma un ceto medio impoverito e impaurito, che ha la stessa pretesa, anzi, persino maggiore, che qualcuno risolva i suoi problemi. C'è domanda di mediazione politica più che di soluzioni vere a problemi sociali». Con questo, conclude De Rita, «non volevo certo dire che sono soluzioni fasciste quelle di Tremonti. Anzi. Lui ha colto il pericolo di un ceto medio in declino. Ammetto che io stesso, un cantore della cetomedizzazione dell'Italia, ho visto in ritardo questo declino. Lui l'ha visto per tempo. Ma Robin Hood è la risposta sbagliata».
(mastra)

il Riformista 19.6.08
il Nazareno tirato per la giacca dai due giornali che l'hanno sostenuto
Scalfari spinge il Pd sull'Aventino, Mieli lo ritira giù


La più corrosiva è stata la Jena di Riccardo Barenghi che da un bel po' si è trasferita dal Manifesto comunista al quotidiano della Fiat. Dalla Stampa di martedì diciassette: «E se domani Scalfari scrive che bisogna dialogare con Berlusconi, Veltroni che fa, ricambia linea?». L'allusione è all'editoriale del Fondatore di Repubblica di domenica scorsa, in cui l'ennesimo strappo ad personam del premier su emendamenti anti-Mills e probabile lodo-Schifani bis è accostato alla parola «dittatura». A Scalfari, poi, si sono adeguati sia il leader del Pd, che ha dichiarato chiuso il dialogo con il Cavaliere dopo due mesi di «opposizione mielosa intesa come degenerazione del mielismo», come malignano nella redazione sulla Cristoforo Colombo, sia il direttore Ezio Mauro, che l'altro giorno ha scritto un editoriale chiaro sin dal titolo: «Il vero volto del Cavaliere». E dire però che anche Repubblica , come il rivale dirimpettaio del Corriere della Sera , fino a qualche giorno fa, e sin dai tempi del discorso veltroniano del Lingotto di Torino, aveva accompagnato e sostenuto la discontinuità del Pd rispetto all'antiberlusconismo unionista di Prodi. Se non altro per una questione di crudo realismo, come hanno dimostrato in questi mesi le ricognizioni domenicali del sociologo Ilvo Diamanti sull'Italia. Analisi in cui emergono soprattutto gli evidenti spostamenti culturali del paese sulla sicurezza e sul nordismo, quest'ultima pubblicata proprio domenica scorsa. E senza contare, infine, la copertina del numero dell'Espresso in edicola, un'inchiesta sull'«Inferno Notte» italico («Da Torino a Bari, da Padova a Napoli. In viaggio sulle Volanti della polizia. Tra insicurezza e impunità, esasperazione e ferocia, violenza e droga. Mentre l'immigrazione crea allarme anche nei centri di provincia. E il lavoro delle forze dell'ordine procede tra ostacoli e sfiducia») che da molti è stata considerata come un assist perfetto al pacchetto sicurezza di Maroni.
Tutto questo, però, è come se si fosse liquefatto di fronte al ritorno del Caimano. Dalla sponda nuova del realismo ci si è tuffati subito per raggiungere l'antica riva identitaria anti-berlusconiana propugnata dal Fondatore e che potrebbe anche garantire un recupero di copie, visto che da mesi Repubblica è sotto il tetto delle 600mila. Non ha mutato la sua linea, invece, il Corriere di Paolo Mieli. Certo, non sono passati inosservati gli articoli in prima della penna giudiziaria di Luigi Ferrarella, che una settimana fa in tandem con Carlo Bonini di Repubblica fece a pezzi il ddl sulle intercettazioni, ma a contare è soprattutto la sostanza politica degli editoriali liberal tendenti a destra di Angelo Panebianco e Piero Ostellino, usciti in successione uno dopo l'altro. Panebianco, martedì scorso: «Non se ne sentiva la mancanza ma la notizia è ufficiale: è tornato il regime con annessi attentati alla Costituzione e derive autoritarie. La sinistra dura e pura, quella che oggi vuole dare lo sfratto a Walter Veltroni per connivenza col nemico, torna agli argomenti di sempre». E Ostellino, ieri, ha scritto come dovrebbe comportarsi «un'opposizione responsabile», ossia «riformista» e senza «pulsioni rivoluzionarie». Un distinzione «sottile» ma fondamentale: «Un'opposizione responsabile evita di tradurre un singolo episodio parlamentare in una teoria generale del crimine e di sostenerla davanti al paese, per dimostrare che con un governo criminale è impossibile instaurare un rapporto fisiologico».
Insomma, il Corriere mielista, in piena sintonia con la grande borghesia industriale del nord, non abbandona la postazione del dialogo, anche ora che Veltroni marcia in direzione dipietrista e aventiniana, come dimostrano i banchi vuoti dell'opposizione ieri al Senato. Dalla redazione di Repubblica giudicano «strambi e bizzarri gli editoriali del Corriere » e per certi versi anche «divertenti se non fosse che la situazione è drammatica». E aggiungono: «Tirano per la giacca Veltroni quando è stato Berlusconi a fare tutto da solo, il leader del Pd ha solo subìto con sorpresa quello che è successo». Da via Solferino ribattono che «stavolta nessuno ha potuto impedire la torsione impressa da Scalfari, invece in tutte le democrazie occidentali si può criticare duramente il governo per un provvedimento senza per questo spezzare il filo del dialogo».
Fatto sta che in tempi di «clima nuovo» e di «clima cambiato», il leader del Pd era riuscito nell'impresa di riunire i "partiti" di Corriere e Repubblica . Adesso gliene rimane uno solo. Sempre che, come nota la Jena, il Fondatore non cambi idea e linea e dica a Veltroni di riprendere il dialogo.

Il Messaggero 19.6.08
Fiori Nastro: «I pericoli sono isolamento e depressione»
intervista di Francesca Filippi


ROMA «Il videogioco di per sè non fa male, ma è l’abuso a creare dipendenza. Sa perché si parla di epilessia da videogame? Perchè il videogioco con le forti luci intermittenti causa, nei bambini predisposti al disturbo che si sottopongono ad un eccessivo uso del mezzo, forti convulsioni, fino allo svenimento».
Paolo Fiori Nastro, docente di psichiatria presso la prima facoltà di medicina e chirurgia del policlinico Umberto I di Roma, sui danni provocati dall’eccessico utilizzo di videogame non ha dubbi: «l’ambiente familiare deve vigilare, domandarsi come mai bambini e minorenni stanno troppe ore davanti alla Play-station. Anch’io ho tre figli, ma non li lascio mezza giornata davanti al videogioco, né permetto che vedano troppa televisione o che facciano un uso smodato di Internet».
Facile a dirsi, difficile metterlo in pratica.
«Ma la scusa dei genitori sempre indaffarati non regge. I segnali per capire che qualcosa non va nei nostri figli ci sono, eccome. Per prima cosa fuggono dalla socialità. Si rifugiano nel computer, nella musica dell’I-Pod e nel videogioco, tutte attività che isolano. Bisogna intervenire per tempo».
“L’intervento precoce nella psicosi” è anche il tema del convegno che questa mattina si svolge al Sant’Andrea di Roma. Di che si tratta?
«É una giornata di studio organizzata dalla cattedra di psichiatria della facoltà di medicina del Sant’Andrea. Lo scopo è quello di firmare un manifesto per chiedere alla politica soldi anche per la prevenzione. Se non si interviene per tempo, se non si comprende il significato di certi segnali, come ad esempio il rifiuto del ragazzo ad andare a scuola, di uscire di casa, la sua mancanza di interessi, la depressione, non gli si da nessuna possibilità».
Si spieghi meglio.
«Va aiutato, altrimenti si isola. Dobbiamo fare in modo che possa condividere il suo malessere con persone competenti, affinché non si senta unico responsabile del problema».
F.FIL.