l’Unità 22.6.08
Berlusconismo
di Furio ColomboVorrei subito chiarire. Non sto dedicando questo articolo al berlusconismo a causa del fatto che Berlusconi è improvvisamente ritornato ai toni incattiviti di quel primo non dimenticato governo, quello che ha portato l’Italia alla crescita zero ma ha garantito al primo ministro tutte le leggi di utilità e convenienza personale, ha dato un colpo durissimo - e notato nel mondo - alla libertà di stampa e ridotto prestigiosi commentatori di prestigiosi giornali a dargli sempre ragione come a Mussolini.
Certo, la lettera del presidente Berlusconi, di cui ha dato compunta lettura il Presidente del Senato Schifani a un’aula di persone probabilmente stupefatte, spinge la scena della vita italiana fuori dalla Costituzione («Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge») e fuori dalla democrazia («La legge è uguale per tutti»). Però, onestamente, come fare a mostrare meraviglia per un leader (questa è la terza prova e la quarta volta) che ha sempre violato la Costituzione e leggi del suo Paese e ne ha imposte altre che poi sono state giudicate, a una a una, incostituzionali dalla Consulta?
Ma tutto ciò senza perdere di vista i suoi interessi personali: primo, Mediaset, salvare dall’onta del satellite il soldato Fede; secondo, le intercettazioni: prigione e multe altissime per chi intercetta i sospetti di delitti odiosi pericolosi, destinati a ripetersi, e per chi, quando gli atti del processo sono legalmente e anzi doverosamente usciti dal segreto istruttorio e legalmente disponibili, osasse pubblicarli. In tutti i Paesi democratici vale il principio che «il processo è pubblico». È una garanzia per le vittime, per gli imputati, ma anche per tutti i cittadini.
Avvocati e giuristi di Berlusconi hanno già dimostrato di non provare alcun imbarazzo nel cambiare le leggi di quei processi che non si sentono in grado di vincere (hanno visto le carte e conoscono la vera storia).
Quanto ai giornalisti indipendenti italiani, sentite Bruno Vespa in una delle sue “rubriche” diffuse in tutta la provincia italiana: «La nuova controversia tra Berlusconi e i magistrati di Milano sembra l’ultima sgradevole puntata di una telenovela cominciata quindici anni fa, quando il Cavaliere decise di abbandonare la dura trincea del lavoro per scendere in campo nella politica. In realtà non è così (...). Il presidente che deve giudicare Berlusconi, Nicoletta Gandus, è un avversario politico. Da molti anni è una star di Magistratura democratica (...). Nel motivare la richiesta di cancellazione delle leggi Schifani, Pecorella, Cirami, Cirielli sostiene che esse sono state motivate al fine di perseguire l’interesse personale di pochi, ignorando la collettività. Si tratta di leggi che hanno devastato il nostro sistema di giustizia (...). Senza entrare nel merito di queste opinioni, può un dichiarato avversario politico giudicare in tribunale il capo del governo che combatte?» (Quotidiano Nazionale, 19 giugno). Avete capito il delitto imperdonabile in un Paese libero? Il giudice Gandus, che deve giudicare Berlusconi, non fa parte della P2. È membro di una libera, civile, legale associazione detta Magistratura democratica.
Inevitabile inviare un pensiero al decoroso silenzio dei 62 arrestati e trecentocinquanta incriminati caduti tre giorni fa nella maxi-retata dell’Fbi contro i più potenti personaggi di Wall Street, portati via in manette tra due ali di operatori di Borsa che per alcuni minuti (succede di rado) hanno sospeso le contrattazioni. Nessuno di loro, personaggi del gran mondo finanziario americano, presidenti di Banche d’affari, patron celebri e celebrati di tutti i musei e gli ospedali di New York (dove alcuni hanno un reparto col loro nome) ha fiatato. Né lo hanno fatto i celebri avvocati a cui si sono affidati. Eppure sanno che, nella tradizione e prassi giudiziaria americana, alcuni giudici sono repubblicani e altri democratici. Alcuni giudici, nei distretti federali in cui questi imputati saranno giudicati sono stati nominati da Carter, alcuni da Reagan, alcuni da Clinton (che in silenzio si è sottoposto a tre diversi processi) e alcuni da uno o dall’altro dei due Bush.
Ma, nella civiltà democratica, i giudici non si scelgono e non si discutono e la ricusazione è ammessa solo per legami d’affari, d’amore o di famiglia di uno dei giudici con una delle parti. Altrimenti mai, per non affrontare il famoso reato americano di “oltraggio alla Corte”, che scatta quando l’imputato, invece di lasciarsi giudicare, si mette a giudicare il giudice. Tutto ciò avviene nel Paese in cui, una volta condannati, non si va in Parlamento, si va in prigione.
Particolare curioso (come si diceva una volta sulla Domenica del Corriere): tutti e quattrocento gli arrestati o incriminati di Wall Street erano sotto intercettazione da mesi. Molti dei reati contestati ai grandi di Wall Street, infatti, sono reati tipicamente telefonici, e dimostrabili solo con l’intercettazione, come l’”insider trading” (fornire a uno notizie che devono restare segrete per arricchirsi in due). E nessuno sostiene, pena il ridicolo, di essere vittima di una persecuzione politica. Chi poi, in quel Paese civile, avesse scritto, da titolare del potere esecutivo, una lettera al Presidente del Senato (istituzione legislativa) per levare accuse contro i suoi giudici (istituzione giudiziaria), avrebbe prontamente ottenuto, oltre al ridicolo (in democrazia non si può giocare il potere esecutivo contro il potere giudiziario usando il potere legislativo) una imputazione in più.
* * *
Qui mi devo confrontare con l’iniziativa appena presa dai Radicali, una proposta di legge costituzionale a firma Rita Bernardini, con cui si intende abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Vuol dire che un giudice agisce immediatamente e di propria iniziativa appena ha notizia di un reato. I codici dicono quali. Ovviamente non si tratta di cose futili.
L’idea di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale (assente quasi solo nelle legislazioni anglosassoni) è certo meritevole di attenzione e discussione. Per esempio per il fatto che identifica meglio la responsabilità dei giudici e diminuisce il numero dei processi. Stimo i miei colleghi Radicali ma non sono d’accordo.
Chiedo: si può in Italia? In questa Italia? Proprio qui passa la linea di demarcazione. Ci sono coloro che sostengono che, a parte la coloritura manageriale e padronale, non c’è niente di speciale o così diverso in Berlusconi rispetto a ogni altro capo di governo. Non esiste il berlusconismo. E se esiste è qualcosa che riguarda Giannelli o Staino, Vauro o Vincino ma non la politica.
E poi ci sono coloro che vedono il berlusconismo come una potente e ben finanziata spinta del Paese fuori dalla democrazia anche a causa di un controllo mediatico quasi totale, che tende ad estendersi attraverso i premi che derivano dal conquistare benevolenza (Berlusconi è un buon padrone) e dalle punizioni (fino alla riduzione al silenzio) di coloro che - nel suo insindacabile giudizio - sono dichiarati nemici.
In questa Italia l’obbligatorietà dell’azione penale resta l’unica garanzia che potenti e prepotenti, soprattutto sul versante politico e di affari, non restino impuniti.
Cito Emilio Gentile: «Nel 1922 Amendola, Sturzo, Salvatorelli presero a usare il vocabolo “totalitarismo” quando il sistema parlamentare italiano non era ancora molto dissimile dalle altre democrazie europee. Però essi osservarono come il partito di Mussolini operò per conquistare il potere. Ne colsero la natura di partito incompatibile con la democrazia e inevitabilmente destinato a creare un sistema totalitario» (intervista a Simonetta Fiori, la Repubblica, 19 giugno). L’obiezione tipica è: «Ma che cosa c’è di più democratico di una valanga di voti per qualcuno noto in tutto, compresi i suoi difetti e i suoi reati?».
Emilio Gentile ha una risposta interessante: «Gramsci fu tra i pochi a comprendere che il totalitarismo è una tecnica politica che può essere applicata continuamente a una società di massa. Potrebbe accadere anche oggi: una tecnica che punta a uniformare l’individuo e le masse in un pensiero unico, usando il controllo dell’informazione». È un’affermazione limpida, logica, difficilmente confutabile se non per ragioni di fede. Ma la fede riguarda i berlusconiani.
Quanto a noi oppositori, quanto a quelli di noi che vedono il pericolo del singolare totalitarismo berlusconiano, non avremmo diritto di avere i nostri Amendola, Sturzo e Salvatorelli?
È con questi nomi e con queste citazioni in mente che chiedo ai miei amici Radicali del Pd, della cui presenza in Parlamento sono lieto come di una garanzia: si può in questa Italia, in cui il giornalista Vespa riproduce all’istante e con convinzione indiscutibile, solo le ragioni del premier imputato; si può in questa Italia in cui il più forte ricusa giudici, accuse, processo in nome della sua forza e dei suoi voti; si può in questa Italia in cui si è già tentata, da parte dell’allora ministro Castelli, una “riforma” che mette tutti i giudici agli ordini di pochi procuratori generali; si può in questa Italia in cui l’opinione pubblica è messa a tacere dal controllo quasi totale dei media, si può introdurre una riforma «anglosassone», cioè di Paesi in cui le istituzioni sono incalzate da un’opinione pubblica bene informata e da una stampa che non dà tregua?
* * *
Vedo nel berlusconismo una forma di potere in espansione, già molto prossima al pericolo citato da Emilio Gentile. Perciò dico no a questo regime e mi spiego.
1 - «Vogliono screditare il potere dei tribunali e decidere da soli che cosa è legalità». Cito da un editoriale del New York Times (19 giugno) che in questo modo propone l’accusa più grave alla presidenza di Bush. Perché i nostri colleghi americani vedono la portata del loro problema (scontro tra i poteri-pilastro della democrazia) e in Italia così tanti tra noi ti guardano come un disturbatore ossessionato?
2 - Lo stesso giorno la deputata Pd Linda Lanzillotta (destra della sinistra) e la ex senatrice Rina Gagliardi (sinistra della sinistra) hanno questo, rispettivamente, da dire:
Lanzillotta: «Eppure dovremo dire anche dei sì (a Berlusconi, ndr) almeno su alcune decisioni annunciate». Quali saranno queste decisioni annunciate, nei giorni in cui il politologo Giovanni Sartori scrive, a proposito di Berlusconi: «Nessuno può essere al di sopra della legge a vita. Lo sono solo i dittatori» (Corriere della Sera, editoriale, 21 giugno)?
Gagliardi: «A me star lì a dire sempre no non mi piace perché mi pare un radicalismo solo apparente. Risolve il quotidiano, dà un po’ di soddisfazione ai tuoi che ti vedono con la faccia scura davanti a Berlusconi. E poi?» (Corriere della Sera 19 Giugno).
E poi, Rina Gagliardi, si fa opposizione, che vuol dire tenere testa a un governo evidentemente pericoloso, come si fa in tutti i Paesi democratici. Credo che sia utile ricordare alle due esponenti politiche ciò che l’ex ministro delle Comunicazioni-Mediaset Maurizio Gasparri ha appena detto a Walter Veltroni dopo l’annuncio di una grande manifestazione popolare proposta dal segretario Pd all’Assemblea del partito (20 Giugno): «Veltroni non ha nessun diritto di parlare, con tutti i debiti che ha lasciato. Taccia e faccia opposizione» (Tg 1, 20 Giugno, ore 20).
3 - «Tacere e fare opposizione» è il motto perfetto per definire questa Italia berlusconiana e il pericolo che corre. Se, come sta accadendo, il berlusconismo continua ad espandersi e a conquistare per il suo capo e i suoi uomini sempre più franchigia, sempre più esenzione dalle sanzioni della legge, allora il silenzio dei cittadini, che non sentono voci alte e chiare di contraddizione al regime, quel silenzio può diventare il silenzio-assenso su cui punta il movimento berlusconista, e che ha già dato la sua paurosa prova in Sicilia.
4 - Come si vede e si impara dalla clamorosa parabola discendente di George Bush (dal 70 per cento di gradimento al 70 per cento di rifiuto, nonostante la sua seconda elezione sia stata un trionfo) l’opposizione netta, vigorosa, visibile, su ogni punto chiama i cittadini e porta risultati persino a partire da una minoranza sconfitta. Quella minoranza, in America, non ha mai ceduto, non ha mai fatto cose “insieme” con il suo avversario, perché accusato di illegalità e di avere violato la Costituzione. Alla fine della lunga marcia quella minoranza ha incontrato il Paese, e, divenuta maggioranza a causa della sua testarda opposizione, si appresta a guidare una nuova epoca per gli Stati Uniti.
Perché questa non potrebbe, non dovrebbe essere la nostra storia?
furiocolombo@unita.it
l’Unità 22.6.08
Olimpiadi in Cina, lo scudo dorato ti osserva
Shenzhen, la città più spiata del mondo
di Naomi KleinVERSO LE OLIMPIADI DI PECHINO Telecamere di sicurezza, sorveglianza hi-tech e censura: si chiama «Scudo dorato» e permette di controllare i cittadini cinesi 24 ore su 24 evitando così qualsiasi forma di protesta. Ce ne parla la scrittrice Naomi Klein
Trent’anni fa, la città di Shenzhen non esisteva. A quei tempi, c’era solo una lunga fila di piccoli villaggi di pescatori e risaie gestite collettivamente, un posto con sentieri sterrati e templi tradizionali. Questo prima che il luogo fosse prescelto dal partito comunista (grazie alla sua posizione, vicina al porto di Hong Kong) per diventare la prima «zona economica speciale» della Cina, una delle quattro aree dove il capitalismo sarebbe stato permesso su base sperimentale. La teoria dietro l’esperimento era che la Cina «reale» avrebbe mantenuto la propria anima socialista intatta, traendo nello stesso tempo profitto dall’occupazione nel settore privato e dallo sviluppo industriale creato a Shenzhen.
Il risultato fu una città di commercio puro, non diluito dalla storia o da una cultura radicata, che sta al capitalismo come il crack sta alla cocaina. Si trattava di una forza così attraente per gli investitori che presto l’esperimento di Shenzhen si allargò, inghiottendo non solo il circostante Delta del fiume Pearl, che oggi ospita circa 100mila fabbriche, ma anche buona parte del Paese. Oggi, Shenzhen è una città che conta 12 milioni e 400mila abitanti, ed esiste la possibilità che almeno metà di ciò che possiedi sia stato fabbricato qui: iPod, notebook, scarpe da ginnastica, televisori a schermo piatto, telefoni cellulari, jeans, forse la sedia della tua scrivania, magari la tua macchina e quasi sicuramente la tua stampante. Centinaia di condomini di lusso torreggiano sulla città, e molti sono alti più di 40 piani, con in cima attici da tre piani. Nuovi quartieri come Keji Yuan sono pieni di campus aziendali ostentatamente moderni e di centri commerciali dissoluti. Rem Koolhaas, l’architetto preferito di Prada, sta costruendo uno stock exchange che sembra galleggi, un design concepito, dice, «per evocare e illustrare il processo del mercato». Una metropolitana superleggera ancora in fase di costruzione presto collegherà il tutto grazie all’alta velocità; le macchine hanno schermi televisivi multipli che trasmettono su rete wi-fi. Di notte, tutta la città si illumina come un fuoristrada truccato e superaccessoriato, con gli hotel a cinque stelle e le torri aziendali che fanno a gara per mettere in piedi il miglior spettacolo di luci.
(...) Questo non è successo per caso. La Cina di oggi, simboleggiata al massimo grado dalla transizione di Shenzhen da fango a megalopoli nel giro di trent’anni, rappresenta un nuovo modo di organizzare la società. Qualche volta denominato «Stalinismo di mercato», è un ibrido efficace tra i più potenti strumenti del comunismo autoritario (pianificazione centrale, repressione spietata, sorveglianza costante) messo in piedi per far avanzare gli obiettivi del capitalismo globale. Ora, mentre la Cina si prepara a esibire i suoi progressi economici durante le imminenti Olimpiadi a Pechino, Shenzhen ancora una volta funge da laboratorio, da terreno di prova per la prossima fase di questo vasto esperimento sociale. Negli scorsi due anni, qualcosa come 22mila telecamere di sorveglianza sono state installate in tutta la città. Molte sono in spazi pubblici, cammuffate da lampioni. Le telecamere a circuito chiuso, o Cctv, verranno presto collegate in un’unica rete nazionale, un sistema onnivedente capace di tracciare e identificare chiunque entri nel suo raggio d’azione, un progetto guidato in parte da tecnologie e investimenti statunitensi. Nei prossimi tre anni, i dirigenti della sicurezza cinese installeranno a Shenzhen due milioni di Cctv, che la renderanno la città più sorvegliata del mondo (Londra, patita della sicurezza, ne vanta solo mezzo milione).
Le telecamere di sicurezza sono solo una parte di un programma più ampio di sorveglianza hi-tech e censura conosciuto con il nome di «Scudo dorato». Lo scopo finale è di usare la più moderna tecnologia di tracciamento delle persone (generosamente fornita da giganti americani come Ibm, Honeywell e General Electric) per creare un involucro sottovuoto per consumatori: un posto dove le carte Visa, le scarpe da ginnastica Adidas, i telefoni cellulari di China Mobile, gli Happy Meal di McDonald’s, la birra Tsingtao e le consegne Ups (alcuni degli sponsor ufficiali delle Olimpiadi di Pechino) possano essere gustati sotto l’occhio vigile dello Stato, senza il pericolo di un’esplosione democratica. Con l’irrequietudine politica in crescita in tutta la Cina, il governo spera di usare lo scudo di sorveglianza per identificare e contrattaccare il dissenso prima che esploda in un movimento di massa come quello che ha catturato l’attenzione del mondo a Piazza Tiananmen.
(...) Nel 2006, il governo cinese ha ordinato che tutti gli Internet café (così come i ristoranti e altri luoghi d’intrattenimento) installassero videocamere con trasmissione diretta alla locale stazione di polizia. Parte di un progetto di sorveglianza più ampio chiamato «Città Sicure», il piano ora riguarda 660 comuni in Cina. È il più ambizioso programma del nuovo governo nel Delta del fiume Pearl e le forniture per realizzarlo sono uno dei nuovi mercati a crescita più veloce di Shenzhen. Ma le telecamere che Zhang produce sono solo una parte del massiccio esperimento sul controllo della popolazione che è in atto qui. «Il quadro a lungo termine», mi dice Zhang nel suo ufficio «è l’integrazione». Ciò significa collegare le telecamere con altre forme di sorveglianza: Internet, telefoni, software di riconoscimento facciale e monitoraggio via Gps.
Ecco come funzionerà lo Scudo Dorato: i cittadini cinesi saranno monitorati 24 ore su 24 attraverso una rete di telecamere a circuito chiuso e il controllo remoto dei computer. Le loro conversazioni telefoniche verranno ascoltate, monitorate da tecnologie di riconoscimento vocale digitale. Il loro accesso a Internet sarà fortemente limitato attraverso il famoso sistema nazionale di controlli online conosciuto come Grande Firewall. I loro movimenti saranno tracciati attraverso carte d’identità controllabili attraverso chip e fotografie istantaneamente caricate nei database della polizia, e collegate ai dati personali del portatore. È questo l’elemento più importante: collegare tutti questi strumenti tra loro in un enorme, ricercabile database con nomi, foto, informazioni sulla residenza, storia lavorativa e dati biometrici. Quando lo Scudo Dorato sarà completato, in quel database ci sarà una foto per ogni persona in Cina: un miliardo e 300mila facce. Shenzhen è il luogo dove lo Scudo ha ricevuto le fortificazioni più estese, il posto dove si stanno collegando assieme tutti i giocattoli spia, per sperimentare che cosa sono in grado di fare.
(...) La recente crisi in Tibet ha dato luogo a un’ondata di assemblee spontanee e appelli al boicottaggio. Ma si elude il fatto imbarazzante che buona parte del potente stato di sorveglianza cinese è già stato costruito grazie a tecnologia americana ed europea.
Nel febbraio 2006, un sottocomitato del Congresso ha tenuto un’udienza dal tema: «Internet in Cina: uno strumento di libertà o di repressione?». Chiamati a testimoniare erano Google (per avere costruito uno speciale motore di ricerca cinese che bloccava materiale riservato), Cisco (per avere fornito hardware al Grande Firewall cinese), Microsoft (per avere soppresso blog politici su ordine di Pechino) e Yahoo (per avere aderito alla richiesta di fornire informazioni sugli account e-mail, che hanno portato all’arresto e imprigionamento di un famoso giornalista dissidente cinese colpevole di aver criticato gli ufficiali corrotti nei newsgroup online). Il caso è esploso di nuovo durante la recente rivolta tibetana, quando si è scoperto che sia Msn che Yahoo avevano brevemente esposto le immagini dei contestatori tibetani ricercati sui loro portali d’informazione in Cina. In tutti questi casi, le multinazionali statunitensi hanno mantenuto la stessa linea di difesa: cooperare con le richieste draconiane di denunciare i clienti e censurare il materiale è purtroppo il prezzo da pagare se si vogliono fare affari in Cina. Qualcuno, come Google, ha argomentato che nonostante la costrizione a limitare l’accesso a Internet, si sta contribuendo a un generale incremento di libertà in Cina. È una storia che indora la pillola dello scandalo molto più grande realmente in atto: investitori occidentali che si precipitano nel paese, magari in violazione della legge, con l’unico scopo di aiutare il partito comunista a spendere miliardi di dollari per la costruzione dello Stato di Polizia 2.0. Questa non è la spiacevole conseguenza del fare affari in Cina, ma è l’obiettivo del fare affari in Cina.
(...) Durante il periodo a Shenzhen, la più giovane e moderna città della Cina, ho avuto spesso la sensazione di stare osservando non solo uno stato di polizia mascalzone, ma un terreno comune globale, il posto verso il quale sempre più paesi stanno convergendo.
l’Unità 22.6.08
Bersani: «Costruiamo il partito
fuori dal Palazzo, tra la gente»
di Ninni AndrioloOnorevole Bersani, come giudica l’Assemblea costituente di venerdì?
«Come è andata l’altro ieri lo si vedrà dalle prossime settimane, perché è chiaro che quando si prende una botta non si sta bene subito. Sicuramente l’Assemblea rifletteva un disagio. Penso, però, che il punto sia quello di uscire dalla depressione e di rimboccarsi le maniche tutti assieme. La Costituente ha dato primi segnali in questa direzione».
Una tregua nel gruppo dirigente, si è scritto. Basterà a rimotivare il popolo delle primarie?
«Tutti gli interventi, e non solo quelli del gruppo dirigente, hanno mantenuto un equilibrio tra la sofferenza per la botta elettorale e la spinta unitaria a rimettersi in movimento. Non c’è dubbio che un tratto unitario, che non credo tattico, sia venuto fuori. Lo ritengo utile sia per la costruzione del partito che per la battaglia d’opposizione di cui il Paese ha bisogno».
Maggiore unità nel Pd perché torna in campo il Berlusconi di sempre?
«Anche su questo ci siamo messi tutti a pari. Chi riteneva che quello di Berlusconi non fosse solo un atteggiamento tattico, e chi pensava che la destra avrebbe ricominciato a fare il mestiere di sempre, non solo dal punto di vista degli strappi alle regole della democrazia, inevitabili nel berlusconismo che, non dimentichiamolo, ha sempre dato lo scettro al consenso e mai alle regole. Ma, soprattutto, nell’impostazione della politica economica. Se vogliamo che gli italiani si indignino per gli strappi alle regole, bisogna che mostriamo loro anche quanto siano fallimentari le ricette economiche e sociali di questo governo».
Lei le ha definite vecchie, inutili per la crescita…
«Se qualcuno pensasse una cosa diversa, avverto che il centrodestra non farà quello che non siamo riusciti a fare noi, perché non ne siamo stati capaci. Loro, in realtà, metteranno in pratica la loro ricetta. Con qualche accorgimento in più, con qualche pensata nuova. Ma la sostanza sarà: abbassare l’asticella per chi già ce la fa, lanciare messaggi demagogici e compassionevoli per chi è in difficoltà, difendere paratie corporative o di altro genere».
In campagna elettorale avevano promesso ben altro…
«Le loro manovre non le pagheranno mai davvero le rendite e gli evasori fiscali. Ma i consumi popolari e i servizi, come si vedrà nelle prossime settimane. Poi, naturalmente, attorno a questa ricetta ci potrà stare questa o quella misura condivisibile, la furbizia di un messaggio demagogico, cose sulle quali ci potrà stare, per così dire, un’opposizione più duttile. Ma il segno complessivo è disvelato già da alcune misure…»
Quali?
«Davvero si pensa che i petrolieri non recupereranno i soldi che dovranno pagare allo Stato? È un gioco da ragazzi scaricare l’incremento fiscale sui consumatori. Ed è di un’evidenza solare che le banche hanno avuto in cambio il blocco della Class action e l’accordo sui mutui…»
C’è la cosiddetta carta dei poveri, però…
«Che la dice lunga su come loro leggono il disagio sociale. Noi una misura di questo genere non ce la saremmo nemmeno sognata. Con quei soldi, aggiungendone altri, avremmo fatto l’aumento delle pensioni piu’ basse, come l’anno scorso. Per noi un povero è una persona con una dignità. Credo, comunque, che non dobbiamo lasciarci impressionare dai fuochi d’artificio».
L’assenza di molti delegati dall’Assemblea di venerdì riflette la delusione della gente del Pd. Non crede?
«Abbiamo il compito di passare dalla fase costituente a quella di costruzione del partito e dobbiamo farlo nel vivo di una battaglia d’opposizione. Se protratta troppo a lungo, la fase costituente non regge. Dobbiamo lavorare immediatamente per la costruzione ideologica, politica e organizzativa del partito. La battaglia d’opposizione dovrà essere la fucina in cui forgeremo il Pd. Le cose si vedono meglio girando per strada, che non dal Palazzo. E io credo che questa sarà l’occasione per riprendere i contatti con i soggetti sociali che ci interessano».
Veltroni propone una manifestazione nazionale contro la politica del governo. Perché in autunno e non subito?
«Non perché non manchino argomenti per far scendere già adesso la gente in piazza. Ricordo le misure economiche, gli attacchi di Berlusconi ai giudici, le sue iniziative per salvarsi dai processi. O la provocazione spropositata sul Comune di Roma con l’obiettivo di delegittimare Veltroni, un tentativo di fronte al quale tutti dobbiamo reagire. Nel Paese, però, deve maturare la consapevolezza dei danni che produce questo governo. La costruzione e il radicamento del partito devono servire anche a questo. Dobbiamo avviare il tesseramento in tempi rapidissimi. Contemporaneamente, cogliendo l’occasione delle feste, dobbiamo sviluppare una campagna sui temi economici e sociali. E predisporre le tracce della discussione politica che avremo, senza conta, nella Conferenza autunnale che coinvolgerà tutto il partito. Questo lavoro di opposizione e di composizione avrà poi un’espressione di massa. Le grandi manifestazioni rappresentano anche l’esito di un lavoro che mette in movimento energie e costruisce rapporti».
In questi mesi più che a costruire il Pd si è pensato a edificare le sue correnti, è d’accordo?
«Tutte queste espressioni sono convintissimo che rappresentino una ricchezza. Ha ragione anche Veltroni, però, quando afferma che le fondazioni, gli istituti, le associazioni devono esprimere qualcosa di vero in termini di radicamento e di posizione culturali. Servono affluenti veri, che portino acqua. Dopodiché noi non possiamo osservare il fenomeno senza essere sicuri che ci sia il fiume. Senza organizzare, cioè, il partito, come palestra politica di tutti. A questo dovrà servire la Conferenza d’autunno. È lì, nel fiume del partito, che bisognerà dipanare, per esempio, la matassa del rapporto tra politica e valori, o quella delle riforme istituzionali che vogliamo. Il luogo della sintesi, quindi, deve essere il partito. Se manca questo, la gente andrà a discutere da altre parti. Noi, tra l’altro, non abbiamo avuto un dibattito di massa sull’esito del voto…»
Anche nella Costituente si è registrato un deficit di analisi sulle elezioni…
«È mancata una discussione di massa sul voto. Questa avrebbe aiutato a ritrovarsi, a reagire prima, a elaborare il lutto, a sentirsi comunità. Tutto questo dobbiamo recuperarlo. L’Assemblea costituente ha rappresentato il primo segno di questo recupero».
Ma nel Pd non si pone l’esigenza di rinnovare i gruppi dirigenti e di passare il testimone a generazioni più fresche?
«Se invece di spendersi in improbabili paragoni con il Midas i giornali si fossero occupati di andare a spulciare la composizione della nuova direzione, avrebbero visto che in atto c’è già la promozione - certo ancora insufficiente - di nuove personalità, di nuovi gruppi dirigenti e di nuove generazioni. Il processo di rinnovamento è in corso, lo vedo in giro per l’Italia. Al centro, certo, bisogna essere più permeabili a valorizzare quelle esperienze. Ma non basta essere giovani. Servono giovani di lungo corso, che abbiano già maturato esperienza, che godano di credibilità esterna. Ne abbiamo tantissimi nel nostro partito».
Senza il "rimescolo" di cui lei parla anche il rinnovamento verrà stretto dentro il gioco delle componenti…
«Questo famoso rimescolo può avvenire solo sul terreno politico e della cultura politica. Senza discutere del rapporto tra valori e politica o del nostro concetto di mercato o della nostra visione di partito, ad esempio, non si capisce in che direzione possa andare l’intreccio tra posizioni socialiste, liberali, cattolico-democratiche, ecc. Io credo che il rimescolo debba avvenire senza buttar via le parole. Né la parola sinistra, né la parola popolare. Che, però, bisogna far coesistere con nuovi termini. Il punto non è quello di mettere d’accordo me e Fioroni. Ma di consegnare alle nuove leve una cultura politica che non le inscatoli dentro cose che non ci sono più».
Veltroni ricollega il Pd all’Ulivo del ’96, lei mette in evidenza il ruolo di Prodi. Ma è il Professore che prende le distanze dal Partito democratico…
«Nella relazione di venerdì Veltroni ha sistemato le cose nel modo giusto. Sia dal punto di vista delle elezioni, che del profilo della nostra battaglia di opposizione, che del rapporto con l’Ulivo. Io dico sempre che le nostre radici sono lì, nell’Ulivo. E che da lì è iniziata una stagione che possiamo chiamare con il nome di Prodi. Noi dobbiamo riconoscere che, in quella fase di frantumazione, nella quale si affacciava il bipolarismo, quella politica ha rappresentato un punto di raccordo indispensabile. Che ha consentito di evitare un ventennio berlusconiano e di riportare dal cielo alla terra parole d’ordine che ci hanno dato un profilo: sulla politica estera, sulle liberalizzazioni, sull’evasione fiscale, ecc. Dopodiché quella fase conteneva in sé, e Prodi era il primo a esserne consapevole, visto che lanciò l’idea del Partito democratico, tutte le contraddizioni e i limiti che la hanno fatta esaurire. Oggi abbiamo compiuto la scelta di un partito a vocazione maggioritaria, ma non isolato. Capace di trovare un raccordo con le altre forze di opposizione».
È riduttivo ricondurre Parisi al Professore, ma tra i "prodiani" si registra una notevole insoddisfazione…
«Anche io mi sento parte del prodismo. Prodi continua a girare nella nostra aria, nella nostra atmosfera, nel nostro mondo. A prescindere dal fatto che lui sia presidente del Pd, come avrei voluto anche io, o non lo sia. Per me sarebbe stato inelegante procedere venerdì alla nomina di un altro presidente. Dopodiché vedremo assieme, con il contributo di Romano, che sono certo non mancherà, come eventualmente procedere anche ad altre soluzioni. L’applauso che la platea gli ha rivolto è stato un segnale evidente di affetto e di riconoscimento del ruolo esercitato e del lavoro svolto».
Marini ha detto sì al patto federativo Pd-Pse, un segnale importante di "rimescolo", non crede?
«Nelle cose dette da Marini si individua il terreno per una soluzione che riconosca il nostro progetto e la nostra identità. E l’ambizione di portarli in Europa, in collegamento con i luoghi dove si addensa la stragrande maggioranza del centrosinistra europeo».
l’Unità 22.6.08
Margherita Hack: sì al Nobel
Ingrid difende pace e libertà
di Umberto De Giovannangeli«Non c’è da stupirsi che fatta eccezione, meritoria, de l’Unità, l’interesse dei grandi mezzi di informazione nei confronti della tragedia di Ingrid Betancourt sia pressoché zero. Il fatto è che in un Paese che sta imbarbarendosi e che affida le sue sorti ad un abile quanto cinico «venditore di tappeti», una donna che lotta fino allo stremo per nobili ideali a cui è disposta a sacrificare la sua stessa esistenza, una donna come Ingrid Betancourt è davvero fuori posto. Una ragione in più per sostenere la lodevole iniziativa de l’Unità: il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt». A parlare è Margherita Hack, tra le massime autorità scientifiche a livello internazionale nel campo dell’astrofisica.
Professoressa Hack, che significato potrebbe assumere il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt?
«Sarebbe il dovuto riconoscimento ad una persona che sta sacrificando la propria vita per la libertà di pensiero. Libertà vuol dire anche pace. E anche il fatto che a Firenze le daranno il premio Galileo… Galileo è stato un uomo, uno scienziato che è stato costretto ad abiurare ad una realtà scientifica, ed è stato un esempio di cosa significhi violare la libertà di pensiero. Il "premio Galileo" alla Betancourt è un riconoscimento della sua vita sacrificata in nome della libertà di pensiero. Ed è anche per questo che meriterebbe senz’altro il Nobel per la Pace, perché che pace ci può mai essere se non si riconoscono i diritti di libertà dei cittadini?».
Spesso si mette insieme la drammatica vicenda di Ingrid Betancourt con quella di un’altra donna coraggiosa: la birmana Aung San Suu Kyi. Perché le donne divengono oggi il simbolo di grandi battaglie di libertà?
«Le donne proprio perché sono state tenute lontane dal potere per tanti secoli, forse sono meno soggette a compromessi con il potere. Anche in politica quando parlano sono più dirette. E poi riempiono di idealità la loro concretezza».
Da anni, Ingrid Betancourt è tenuta prigioniera in una foresta. In questi anni di sofferenza, Ingrid ha continuato a comunicare attraverso le sue lettere. Cosa raccontano queste lettere?
«Sono la testimonianza del coraggio di una donna che crede in ciò che fa e che è rimasta fedele, nonostante i patimenti sofferti, ai suoi ideali. Quegli ideali che l’aiutano a vivere in quella terribile condizione; se non avesse una grande forza interiore credo che sarebbe crollata da tempo. Quegli ideali l’aiutano a resistere».
Quale messaggio le lettere di Ingrid Betancourt trasmettono ad un mondo globalizzato?
«Un esempio. Un bel esempio offerto ad un mondo che è sempre più succube del potere, della ricchezza, dell’apparire. Ingrid Betancourt è un esempio da seguire, l’esempio di chi crede negli ideali piuttosto che nel potere o nel proprio tornaconto particolare».
Ingrid Betancourt trasmette anche un messaggio di non violenza. Ingrid potrebbe diventare un modello per le giovani generazioni?
«Non potrebbe, lo è già. Ingrid è un modello di coerenza, un punto di riferimento per quanti nel mondo ancora credono e si battono per valori universali quali la giustizia, i diritti dei popoli, la liberazione da vecchie e nuove povertà. Sì, Ingrid è un modello per chi pensa in termini di "noi" e non di "io": di chi antepone gli ideali condivisi di libertà e di giustizia a quelli che sono i piccoli interessi particolari».
La storia di Ingrid Betancourt è intrecciata a quella di un popolo spesso dimenticato: il popolo colombiano.
«Per la verità, ora qualche segno di speranza l’America Latina sembra darlo: la Bachelet in Cile, Lula in Brasile, le nuove esperienze in Bolivia, Paraguay, Venezuela…La speranza è che a questi popoli sia permesso di portare a compimento un lungo, tribolato cammino di democrazia, di diritti e di giustizia sociale».
Ma la storia di questi popoli in lotta sembra spesso, troppo spesso, non "fare notizia" qui da noi… Lo stesso vale per la vicenda di Ingrid Betancourt…
«Purtroppo l’Italia oggi sta vivendo un momento di amoralità desolante. Gli ideali di libertà e di giustizia sono molto poco sentiti nel nostro Paese altrimenti non ci sarebbe oggi questo governo inqualificabile».
In queste dimenticanze c’è anche una responsabilità dei mezzi di comunicazione?
«C’è, eccome! Tantissima responsabilità. Durante la campagna elettorale la televisione, quella di Stato e non solo Mediaset, ha fatto veramente il lavaggio del cervello agli italiani, indottrinandoli in maniera assurda che tutto quello che il governo Prodi faceva era fatto male che stava portando l’Italia alla rovina, con una sinistra che non ha saputo propagandare ciò che di buono Prodi e il suo governo avevano fatto. Oggi siamo nelle mani di un abilissimo venditore di tappeti che continua a fare il lavaggio del cervello alla gente, con l’aiuto di tutte le televisioni. E in questo circuito mediatico una storia di ideali, di generosità quale quella di Ingrid Betancourt non interessa; non interessa a chi pensa solo ai propri interessi».
l’Unità 22.6-08
Stupri arma di guerra. Storie dall’album dell’orrore
di Marina Mastroluca«Mi costrinsero a ballare nuda sul tavolo. Poi mi violentarono davanti a mio figlio che aveva 10 anni. Venivano militari serbi , i soldati del Montenegro e anche i miei vicini di casa. Abusavano di me e delle altre». E. è una delle «Zene zrtve rata», donne vittime della guerra, un’associazione nata a Sarajevo per aiutare chi ha subito uno stupro: a trovare una casa, ad avere assistenza e soprattutto giustizia. «Dopo la guerra abbiamo incontrato per strada i nostri violentatori, sono ancora liberi». Liberi anche dalla vergogna e dal disonore che pesano sulle donne stuprate, a Sarajevo come in Africa.
A Goma, in Congo, una dottoressa canadese nel 2003 ha fondato un’ospedale che aiuta le donne stuprate. I numeri sono solo ipotizzabili, non c’è nessun registro. Tante donne hanno paura anche solo di raccontare che cosa hanno subito, per non rischiare l’emarginazione sociale. Decine di migliaia di stupri, sistematici, segnati dal marchio della diversità etnica. In ospedale arrivano solo i casi più gravi: i medici ricuciono i muscoli strappati tra retto e vagina da stupri multipli, da torture inflitte con baionette e coltelli. Anche da colpi di pistola inferti con la canna infilata in vagina. Linda, 24 anni, era incinta quando i soldati l’hanno presa in un campo. «Mi hanno stuprato. Il bambino ha cercato di nascere ma è morto - ha raccontato -. Perdevo urina da tutte le parti e in queste condizioni ho raggiunto il villaggio. Tutte le case erano bruciate, la gente uccisa, anche mia madre. Mi ha raccolto una cognata. Mio marito si è sposato con un’altra. Ora sono sola».
La vergogna, la solitudine. Persino la condanna: in Sudan le donne rischiano di essere incriminate di «zina», adulterio, se denunciano uno stupro: la pena è la lapidazione. E le violenze dei janjaweed, i diavoli a cavallo che seminano il terrore nel Darfur in stretta collaborazione con le truppe governative sudanesi, sono pane quotidiano. Qui sono le milizie arabe, altrove hanno avuto altri nomi e stesse strategie. In Ruanda erano gli interahmwe, i ribelli hutu ispirati dalla radio delle mille colline ad annientare l’etnia tutsi. Non una casualità, non l’effetto collaterale di un delirio di violenza. Lo stupro di guerra da tempo è altro.
Jean-Paul Akayesu era il sindaco della città ruandese di Taba. È stato il primo ad essere condannato all’ergastolo, nel 1998, per il massacro di 2000 tutsi rifugiati nel municipio di Taba e per stupro. Il Tribunale internazionale per i crimini commessi in Ruanda allora per la prima volta individuò la catena di comando che da un unico centro diramava la violenza in mille rivoli: lo stupro collettivo venne associato al genocidio, perché diretto a cancellare una etnia. Ad umiliare, distruggere, devastare una comunità intera attraverso il corpo delle donne. Cinquecentomila stupri in poco più di tre mesi di follia sanguinaria, hutu contro tutsi, un milione di morti a testimoniare l’inerte impotenza dell’Onu. E un Tribunale per cercare di ricondurre la tragedia ad un universo comprensibile, dove si chiede ragione delle atrocità commesse. Almeno a qualcuno.
22 febbraio 2001. La guerra di Bosnia è finita da sei anni, la Serbia di Milosevic è stata sconfitta anche in Kosovo. Nascoste dietro una tenda, donne identificate solo con numeri, raccontano e puntano l’indice contro gli uomini alla sbarra. Donne ridotte a schiave sessuali, spesso solo ragazzine. Per la prima volta lo stupro è definito crimine contro l’umanità da un Tribunale internazionale. I serbo-bosniaci Zoran Vukovic, Radomir Kovac e Dragoljub Kunarac vengono condannati a 12, 20 e 28 anni di carcere per le violenze sistematiche di Foca, dove il centro sportivo Partizan era stato trasformato in un bordello. Zoran, Radomir, Dragoljub: non era scontato riuscire a scrivere un giorno i loro nomi.
Stupro etnico, un’arma di guerra come tardivamente ha riconosciuto in questi giorni il Consiglio di sicurezza del’Onu, con la risoluzione 1820. Ammettendo quello che le cronache dell’ultimo quindicennio di guerre - Bosnia, Ruanda, Congo, Darfur - hanno raccontato allo sfinimento: che lo stupro di guerra non rientra in nessuna storica normalità, non è solo la prepotenza del vincitore. Ma l’arma di conflitti dove i civili sono il primo e vero obiettivo, la mina che continuerà a perseguitare le generazioni a venire. Il 70 per cento delle donne stuprate in Ruanda ha contratto l’Aids, in molti casi il contagio è stato intenzionale ed ha finito per devastare anche le famiglie dei sopravvissuti. Nessun anagrafe ha tenuto il conto dei figli imposti a forza alle donne bosniache stuprate. Chi ha potuto, ha abortito. Tante hanno abbandonato i neonati, testimoni incolpevoli della violenza subita dalle madri: ordigni anche loro di guerre che non hanno più una linea del fronte.
Bosnia. La pulizia etnica attraverso il terroreLa disgregazione della Jugoslavia investe la Bosnia nel ‘92. Per la prima volta dalla fine della II guerra mondiale tornano in Europa i lager, dove vengono commesse le peggiori atrocità contro i civili. La logica della pulizia etnica impone il terrore, per costringere la popolazione alla fuga creando così aree etnicamente omogenee. Insieme ai massacri - 8000 i morti di Srebrenica, dove vennero uccisi tutti i maschi dai 15 anni in su - lo stupro è stato l’arma per umiliare il nemico e annacquarne l’etnia. Si stimano in 50-60.000 le violenze.
Rwanda. Hutu contro tutsi, un genocidio in 100 giorniAprile 1994. Preparato dai mezzi di informazione, divampa uno spaventoso massacro, in quella che viene in genere definita una guerra tribale fra Hutu e Tutsi ed è stata in realtà una lotta per il potere frutto dell’era coloniale, quando i colonizzatori belgi instaurarono un rigido sistema di separazione razziale e sfruttamento favorendo i Tutsi ai danni della maggioranza Hutu. Con l’indipendenza le parti si invertirono e iniziò un periodo di conflitti e di vendette. Il culmine nel ‘94: un milione di morti, 500.000 stupri.
Congo. Milioni di morti nella guerra dei diamantiFinita ufficialmente nel 2004, la guerra civile in Congo, è stata la più grande guerra della storia recente dell'Africa ed ha coinvolto 8 nazioni africane e circa 25 gruppi armati. In gioco le enormi ricchezze minerarie del Paese: diamanti, oro, uranio, cobalto, rame. Al 2008 la guerra - proseguita nella regione di Ituri - e le sue conseguenze hanno causato circa 5,4 milioni di morti. Milioni i profughi. Secondo Amnesty international sono oltre 40mila le donne violentate. Degli stupri spesso accusati anche i peacekeeper.
Darfur. Esercito e janjaweed contro i civiliNella regione del Sudan dal 2003 si combatte una guerra, che ha già causato più di 200.000 vittime e oltre due milioni di sfollati.
L’Onu e le organizzazioni internazionali hanno più volte denunciato che i civili continuano a subire attacchi e sono vittime di stupri. Il governo sudanese nega di appoggiare e finanziare le milizie janjaweed, accusate di genocidio dalla popolazione del Darfur e responsabili dei principali massacri e saccheggi di villaggi e centri abitati e dello stupro sistematico di donne e bambine.
l’Unità 22.6.08
L’Onu, la guerra, lo stupro
di Luigi BonanateAnche se presa dal più ristretto numero dei 15 membri del Consiglio di sicurezza, invece che dai quasi 200 dell’Assemblea generale, la Ris. 18209/2008, adottata nel contesto della Giornata mondiale del rifugiato, dà adito a numerose riflessioni, che superano quella del primo impatto, più che giustificato ma un po’ ingenuo. Quello cioé che guarda alla violenza sessuale in guerra come a «un’arma». Lo stupro è purtroppo sempre stato una conseguenza della guerra e non un suo strumento. Fin dall’antichità, e poi anche in età moderna (si pensi alla famosissima guerra dei trent’anni, 1618-1648), i movimenti delle truppe, il loro arrivo nei villaggi, erano temuti ben più che ogni altro pericolo di guerra: le donne dapprima, e poi tutti i beni della popolazione, erano saccheggiati fin che ce n’era. Da quel tipo di vita discendevano non soltanto figli indesiderati e destinati all’infelicità e sovente alle malformazioni o all’insanità, ma anche malattie, epidemie, mortalità diffusa.
Per questo, è in realtà insufficiente il ragionamento che molti fanno con riferimento alla novità secondo cui le «nuove guerre» uccidono molti più civili che militari rispetto al passato, come se soltanto oggi la violenza bellica avesse toccato i civili e una volta soltanto i militari. È invece una triste notizia, ma scontata per chi voglia guardare alle guerre con animo consapevole e non retorico o eroico, che a morire maggiormente in guerra sono sempre stati i civili — e per il XX secolo, poi, è persin ridicolo pensare il contrario. Basterebbe contare le vittime dei bombardamenti aerei (le cui vittime principali sono i civili, ovviamente, gli abitanti delle città) per scoprire che nessun esercito ha mai avuto altrettanto grandi perdite. So bene che questa ipotesi racchiude un’interessante e tutt’altro che infondata polemica dei pacifisti contro le nuove tecniche (e tecnologie) di guerra, grazie alle quali le guerre non dovrebbero costare morti a chi le fa, ma soltanto a chi le subisce (si tratta della cosiddetta «guerra-zero-morti», nella quale gli Stati Uniti si erano imbarcati in Iraq, tutti sapete con quali risultati...). Lì sta l’errore, nel pensare che le guerre possano esser fatte pagare soltanto a una delle due parti: le guerre, in realtà, non hanno mai reso felice nessuno, né da una parte né dall’altra.
Il fatto è semmai che per fortuna la sensibilità media delle pubbliche opinioni nel mondo va modificandosi e talvolta anche arricchendosi di nuove consapevolezze, anche grazie (perché nasconderselo?) alle immagini terribili che i mezzi di informazione di oggi sono in grado di imprimere nella nostra mente. Non dovremo mai stancarci di ripetercelo: più sappiamo, più comprendiamo; e più comprenderemo, meglio saremo in grado di agire (il segreto non ha mai fatto del bene a nessuno, semmai del male). Ora, non è una novità che la guerra nei Balcani (1991-1995) abbia visto la più vasta applicazione «programmatica» dello stupro etnico mai realizzata n ella storia — e non sarebbe quindi comprensibile che l’ONU se ne accorga tanto tempo dopo. Il punto è un altro: il programma dello stupro non era la violazione della femminilità, la sopraffazione della bellezza, il piacere strappato dagli urli di dolore, o la bestialità di una mascolinità coltivata a tal fine ed esasperata. No: lo stupro etnico non discendeva da questa vecchia, vecchissima e disgustosa storia, ma da un progetto, da un vero e proprio programma politico.
Ingravidare una donna islamico-bosniaca con seme ariano-europeo significava infatti intraprendere un’opera di estirpazione di un’etnia, un intervento di «ingegneria genetica» mostruoso e consapevole, che mira a creare una nuova «razza» (di «bastardi», oltre tutto), e non ha precedenti nella storia (pensare che ci si possa scagliare contro la ricerca scientifica che talvolta sfiora principi naturali quando volontariamente e lucidamente vengono perseguiti programmi come questo mette una grande tristezza). Per disgustoso che sia, è doveroso essere precisi: i nazisti, gli ebrei, li hanno uccisi; in Bosnia, si è «fabbricata» una nuova etnia, inferiore e non superiore. È giusto che l’ONU si sia mossa e abbia messo un punto fermo su tale questione; ma è ancora troppo poco. È un po’ come quando si dice che il diritto bellico può e quindi deve incidere sulla brutalità delle guerre: volete sapere qual è l’unico modo perché le guerre siano meno brutali? Non farle. Non è una facezia: proprio il caso dello stupro etnico, nel quale si mescolano mentalità malate, pregiudizi e simbologie sessuali violente e irrazionali, ci consente di mettere bene in luce un punto: uno stupratore non può essere un democratico; e un democratico non violenterà mai nessuno. Non crediate che stia cercando di buttarla in politica: quella violenta e quella democratica sono due forme di «civiltà» e non semplici manifestazioni ideologiche. Non c’è comportamento sociale in cui tale differenza esistenziale emerga più nitidamente. E la ragione è semplicissima: un democratico è nonviolento per definizione e dunque esprimerà una sessualità nonviolenta; non c’è neppur bisogno, invece, che spieghi fino a che punto spirito violento e aggressività sessuale siano intrecciati.
Il problema dello stupratore — diciamocelo una volta per sempre, e che sentano anche i leghisti — non è la razza, ma la cultura, il messaggio violento che ne promana e ha proprio nella sessualità la sua applicazione più primitiva e incivile. Nessun violento è mai stato fermato da una norma giuridica, neppure internazionale, che pur è necessaria ma non sufficiente. Il voto del Consiglio di sicurezza rafforzerà certo i poteri coercitivi e repressivi dei tribunali e anche quelli della Corte penale internazionale. Ma non illudiamoci: le norme sono il riflesso della civiltà e non la possono creare; ben vengano la diplomazia e le condanne; ma senza democrazia non si va lontano. Essa invece vale per occidentali e orientali, ariani ed ebrei, islamici e cristiani: se lo stupro agisce nella sfera sessuale degli esseri umani, soltanto insegnar loro la nonviolenza libererà loro e tutti noi dallo stupro etnico.
l’Unità 22.6.08
Giottino e i «giotteschi» dopo Giotto
di Renato BarilliUFFIZI La grande rassegna dedicata al periodo successivo alla scoparsa del leggendario maestro. Una fase molto dibattuta dalla storia dell’arte: tempo di decadenza o da rivalutare? Ecco le figure chiave
Una mostra, agli Uffizi di Firenze, riapre un capitolo storiografico su cui già si versato molto inchiostro, essendo dedicato a un tema di grande peso, L’eredità di Giotto, ovvero L’arte a Firenze 1340-1375. Che cosa avveniva, nella città del giglio, l’indomani della scomparsa del Maestro? In proposito, si danno due linee interpretative, sostenute con forza, rispettivamente, da due allievi di Roberto Longhi, Giovanni Previtali e Carlo Volpe. Il primo si è attenuto nei suoi studi alla linea manualistica vincente, che cioé, in quella seconda metà del Trecento, pur essendoci in Toscana, o provenienti da altre sponde, personalità vivaci e meritevoli, nessuna di loro poté raggiungere l’alta statura giottesca, e fu dunque una fase di ristagno, un tirare i remi in barca, in attesa degli inizi del secolo seguente, con l’avvento delle figure straordinarie di Masaccio, Beato Angelico e compagni, che in sintonia con la lezione dell’Alberti posero le basi di una prospettiva rigorosa, scientifica, ridando l’assalto a una spazialità ampia, distesa, e quindi riprendendo in pieno la lezione giottesca, che i seguaci immediati avevano bloccato. Ad avviso di Volpe ed altri, invece, in quella metà di secolo Firenze vide fiorire talenti notevoli, niente affatto indegni del padre spirituale, e in genere bisogna guardarsi dagli schemi manualistici. Per la stessa ragione, si è andati all’attacco dello schema manualistico successivo, secondo cui da un lato la città del Battistero vide l’azione dei grandi talenti prospettici, l’Alberti e compagni, mentre da un altro arrivavano i campioni del gotico internazionale sul tipo di Gentile da Fabriano. Inutile stare a distinguere tra loro, meglio unirli tutti nel culto un po’ generico di un Rinascimento inteso come categoria vincente, buona ad ogni uso. Per quanto mi riguarda, mi sento piuttosto difensore dei vecchi schemi, ossidati fin che si vuole, ma pur sempre funzionanti, mentre vedo con parecchio sospetto questa tendenza dei filologi che nel culto più ossequioso di ogni artista che allora valesse, piallano i contrasti, livellano, fanno avanzare una macchina schiacciasassi.
Andiamoli a vedere da vicino, questi eredi di Giotto, riuniti, nella vita, nell’arte, e di conseguenza in mostra, per famiglie di addetti al nobile mestiere, pur con inevitabili scarti cronologici. Bernardo e Taddeo Daddi, Maso di Banco, l’Orcagna, Taddeo e Agnolo Gaddi, e tanti altri comprimari, tra cui spicca un nipote del grande Giotto, Stefano, detto appunto Giottino. Dappertutto notiamo una perdita di spazialità, le figure si irrigidiscono, si restringono nelle loro pelli, anche se questo vale a dar loro un’estrema eleganza di profili. Il gotico internazionale con le sue squisitezze è già alle porte, o addirittura l’intero capitolo del postgiottismo vi si deve iscrivere di diritto. Che cosa è avvenuto, a Firenze, che sia valso a fermare le strade dell’espansione, della conquista dello spazio, in omologia con la conquista dei mercati? Certo ha avuto il suo peso l’orrenda peste nera del 1348, a spopolare le file della cittadinanza e a disastrare l’economia, certo è che si ebbe allora un ristagno generale, riscontrabile pure nella vicina e fieramente antagonista Siena, e più oltre in Emilia e Romagna, nel Veneto, in Lombardia. Il secolo si ferma, boccheggia, prende fiato, per ripartire poi nei primi decenni del Quattrocento.
Se si vuole avere una riprova di tutto ciò, si vada ad ammirare la bella mostra, strettamente collegata alla precedente, che il polo museale fiorentino ha allestito in un’altra sede di eccellenza, la Galleria dell’Accademia, dedicandola per intero a Giovanni da Milano. Unite, le due mostre, anche nel presentare un comune ostacolo, essendo poste nel cuore di due musei tra i più frequentati al mondo, senza ingressi distinti, per cui un comune visitatore interessato ad esse, ma non necessariamente a ripassare i capolavori custoditi in quei luoghi sacri, deve sottostare a una lunga fila.
In realtà pare che Giovanni non fosse nato a Milano, ma in provincia di Como, a Caversaccio, verso la metà del Trecento, e certo fece a tempo a nutrirsi di lieviti gotici lombardi, innestandoli sul tronco giottesco, dopo la trasferta a Firenze, e quindi partecipando al comune destino di tutti i giotteschi, di dare, del maestro, una versione arcaizzante, quasi per uno spirito bizantino di ritorno, con perdita dell’individuazione dei volti, dei corpi, dei gesti. Nelle tavole di Giovanni, qui raccolte quasi al completo, e nel ciclo di affreschi nella Cappella Guidalotti Rinuccini in S. Croce, ottimamente evocata in mostra con l’aiuto di proiezioni, compare il gusto per un’iterazione delle figure, tutte clonate, ripetute, moltiplicate, con posture identiche, con testine possedute dalla medesima inclinazione.
E con un magnifico vezzo dominante, gli occhi a feritoia, stilema che certo deriva da Giotto, ma là è il segno che lo sviluppo maestoso della calotta cranica schiaccia i dati fisionomici, qui è un dardeggiare di lamine acuminate, un lampeggiare di sguardi come stilettate incisive. Viene pure rapidamente evocata con qualche opera un’anima gemella, che negli stessi riti della ripetizione esasperata e conforme ebbe Giovanni, nella persona di Giusto dei Menabuoi.
Corriere della Sera 22.6.08
L'intervista «Veltroni? Chi perde va via senza tragedie»
Parisi e la crisi del Pd: «Bisogna cambiare leader»
di Maria Teresa MeliSiamo arrivati al ridicolo di un Pd che continua a presentarsi come partito a vocazione maggioritaria, e in Sicilia prende il 12,5 per cento
L'ex ministro della Difesa: io resto, ma nel Pd stanno dissanguando il segretario senza assumersene la responsabilità
«Veltroni sembra Totò quando lo schiaffeggiano: pensa che le sberle degli elettori siano per Prodi»
ROMA — «Ho chiesto a Veltroni di cambiare linea. Sono passati due mesi e la linea del Pd non è cambiata. È evidente allora che a questo punto bisogna cambiare leader», dice al Corriere
Arturo Parisi. «Walter sembra Totò quando lo schiaffeggiano: pensa che le sberle che gli han dato gli elettori siano sempre dirette al governo Prodi... Più tempo passa, più credo nella regola secondo la quale chi perde va via, senza tragedie, per evitare che la crisi di una leadership si trasformi nella crisi del partito».
Arturo Parisi va avanti nella sua battaglia. Anche dopo il diverbio con Veltroni. E dopo le accuse che gli hanno lanciato, eccezion fatta per Marini che lo ha riconosciuto come un avversario interno autorevole benché «ruvido». Quindi Parisi non lascia. Anzi raddoppia e chiede le dimissioni del segretario.
Professore, la vicenda dell'altro ieri è chiusa?
«Quel che è avvenuto è gravissimo, ma era esattamente quello che purtroppo mi attendevo, però, per "tranquillizzarli", voglio dire che non mi arrenderò: continuerò la mia battaglia per la legalità nel partito. Il Pd è stato attraverso l'Ulivo l'obiettivo della mia vita.
No. Non facciano conto sulla mia resa».
Che cosa avrebbe voluto sentire da Veltroni?
«Mi auguravo che, invece di assumere nientemeno che a spartiacque la lettera di Berlusconi a Schifani, confermando la subalternità del governo ombra al calendario e all'agenda del governo sole, ci annunciasse che la campagna elettorale era finita e con essa l'inevitabile menzogna che è implicita nella propaganda, e che era iniziata finalmente la stagione della verità, il momento di prendere sul serio la risposta degli elettori».
E invece niente.
«Dicono che seppure dopo due mesi questa volta Veltroni abbia riconosciuto la sconfitta.
Quale riconoscimento? Al massimo la sua è stata l'inevitabile presa d'atto della sconfitta elettorale. Nulla ci ha detto invece sulla sconfitta politica, niente su Roma, sulla Sicilia, sulle altre amministrative, che dalla Sardegna alla Val d'Aosta sono state anch'esse un disastro: ci ha detto di più sulla sconfitta delle amministrative del 2007. Mi sembrava di essere nella gag di Totò».
Scusi!?
«Sì, quella in cui un signore schiaffeggia Totò chiamandolo Pasquale, e più lo schiaffeggia e più Totò ride. Tanto che quello gli chiede: "Ma come, più io ti meno più tu ridi?" E Totò gli risponde: "E che sò Pasquale io? Volevo vedere dove andavi a finire". Veltroni è così: pensa che gli schiaffi che gli han dato gli elettori siano sempre diretti al governo Prodi. E in questo modo siamo arrivati al ridicolo di un Pd che continua a presentarsi come partito a vocazione maggioritaria, mentre in Sicilia prende il 12,5 per cento».
Che avrebbe detto se avesse preso la parola all'Assemblea?
«Avrei detto che il problema non è la sconfitta elettorale. Quella era inevitabile. E' stata scelta a tavolino nel momento in cui abbiamo deciso di alleggerirci dall'ossessione della quantità delle risposte. Ma il fatto è che non l'abbiamo sostituita con la qualità della proposta».
Si riferisce alla separazione dal Prc?
«Si, per la quantità, alla separazione consensuale con Bertinotti. Ma senza la qualità Veltroni non ha vinto e non vincerà domani né dopodomani. E' questo che fa delle elezioni un fallimento totale».
Non le sembra di essere troppo duro, Professore?
«Serio, non duro. Sì. Lo riconosco. Ho difficoltà a riconoscermi nel clima zuccheroso, buonista e sorridente che ha da sempre caratterizzato la leadership veltroniana. Non avevamo bisogno di Tremonti per riconoscere che il tempo presente è dominato dalla paura. Questo Veltroni ieri lo ha riconosciuto. Quello che tarda a comprendere sono gli elettori che quando ci vedono sorridere non riescono proprio a capire cosa abbiamo da ridere. Ci sono state stagioni nella quali "pensare positivo" era di moda, e bastava copiare alla lettera gli slogan e le forme della propaganda americana. Questa è invece una stagione nella quale c'è bisogno di una guida e di un pensiero che sia almeno serio, se non forte, e comunque nostro».
E quale «pensiero serio» formulerebbe su questo Pd?
«Diciamo che questa è la premessa che mi costringe a riconoscere che purtroppo la formula che finora ho usato non è più sufficiente. Mi illudevo di poter distinguere la leadership dal leader e perciò chiedevo a Veltroni di cambiare linea. Sono passati due mesi pieni e di fronte ai ripetuti avvertimenti che ci vengono dagli elettori e dall'interno del partito la linea non è cambiata. E' evidente allora che a questo punto bisogna cambiare leader».
Che le importa di chiedere che Veltroni se ne vada, visto che dicono che lei uscirà dal Pd e fonderà un suo movimento?
«Si illudono: devono provare a cacciarmi. Non sarò io ad andarmene. So che è questo il loro sogno. Troverò il modo di tenerli svegli. E' bene che ricordino che il Pd è stato per me (come per molti) il mio partito molto prima che per loro».
Quindi, cambiare leader. Non lo chiede nessuno, però.
«La passione per il Pd mi impone come dovere morale di dire in pubblico quello che quasi tutti dicono in privato. Anche a costo di fare la parte del bambino che dice "il re è nudo". Quello che mi scandalizza di più è la slealtà verso Veltroni: preferiscono tutti tirare di fioretto, ferirlo di punta, mettendo nel conto che l'avversario si dissangui a poco a poco. Ma così si dissanguano anche il Pd e la democrazia italiana. E' per questo che son stato d'accordo con Veltroni che voleva aprire la fase congressuale. Apriamola, dissi, per capire chi siamo e dove andiamo. Purtroppo, però, il rifiuto è stato corale. In molti preferiscono lavorare a sfiancare il partito e il suo leader senza assumersene la responsabilità. Più tempo passa, più credo nella regola secondo la quale chi perde va via, senza tragedie, per evitare che la crisi di una leadership si trasformi nella crisi del partito».
Repubblica 22.6.08
Cacciari: "Il Pd è sceso sotto il 30 per cento, servono assise a gennaio su mozioni contrapposte"
di Goffredo De Marchis"Non c´è alternativa a Walter ma accetti la sfida del congresso"
Si può vincere anche al Nord. Ma oggi la composizione sociale dei nostri elettori è drammatica
Esistono correnti oligarchiche e altre che hanno referenti nella società. Nel partito ci sono solo le prime
ROMA - Non c´era nemmeno lui, nell´assemblea dei tanti vuoti in sala. «Facevo il sindaco. Qualcuno fa politica, a qualcun altro tocca portare la croce», dice con un pizzico di sarcasmo Massimo Cacciari, primo cittadino di Venezia. Ma la sua assenza non significa che anche lui spara contro il segretario del Pd Walter Veltroni, ne contesta la linea, il dialogo con Berlusconi, la leadership. «Io spero che duri a lungo, non vedo alternative. Però torni a decidere, come ha fatto in campagna elettorale. Vada a un congresso su mozioni contrapposte. A gennaio, non dopo le Europee».
Parisi sintetizza: «Dopo gli elettori, sono scappati anche i delegati». È così?
«C´è un rischio di disaffezione e di demoralizzazione. Non tanto per il risultato elettorale che secondo me non è del tutto negativo. Ma il Pd non ha riflettuto abbastanza su questo voto».
Rottura consensuale con la sinistra, disponibilità verso il Cavaliere, governo ombra...
«Ma questo non c´entra un bel niente. Le elezioni dimostrano che non siamo riusciti a convincere della bontà riformista del nostro progetto e non siamo riusciti a superare quello che Ilvo Diamanti chiama il muro di Arcore. La composizione sociale del nostro elettorato è drammatica. Noi perdiamo nelle nuove professioni, nei ceti produttivi, negli operai. Vinciamo un po´ qua e un po´ là, ma i settori dove siamo maggioranza sono insegnanti e professori, aristocrazia operaia, pensionati. E tanti giovani, vero. Ma il dato interessante è che questi smettono di votarci quando finiscono di studiare e cominciano a lavorare. Noi, tra chi lavora, quasi non esistiamo. Eppoi, il Nord: è una questione immensa».
Lei ha il pallino del Nord. Ma il Pd paga pegno dappertutto, basta vedere i dati della Sicilia.
«Il Nord è decisivo. Qui servono linea e struttura del partito. Abbiamo bisogno, ripeto, del Pd federale sennò non saremo mai credibili in zone dove la Lega si muove come sindacato del territorio. Al Nord non servono proconsoli del potere romano, ma dirigenti locali che non si occupino solo di organigrammi. Io qui sono avvertito come un cane sciolto e in politica da soli non si fa niente».
Ma un partito demoralizzato come reagisce alla sconfitta?
«La delusione totale è sbagliata. Semmai direi che Veltroni ha suscitato fin troppe illusioni nella campagna elettorale: era scontato che perdessimo. Il fallimento del governo Prodi si è rivelato pesantissimo e noi lo abbiamo scontato così come abbiamo scontato il rodaggio. Ma un partito che si afferma ben oltre il 30 per cento, che prende più voti della somma di Ds e Dl ottiene un risultato buono da cui partire. Il punto è che non si parte. Anche al Nord puoi vincere. Lo ha fatto Variati a Vicenza. E sa che succede nel Pd? Qualcuno gli dà del no global. A Variati, che è un democristiano doc. Ma andiamo».
Oggi il Pd è sotto il 30 per cento, come dicono i sondaggi?
«Sì, non c´è dubbio. Guardiamo la Sicilia. Ma non solo. In Sardegna abbiamo perso clamorosamente in comuni dove si vinceva da 10 generazioni. E glielo dico adesso: lì perderemo anche le regionali del prossimo anno perché governa uno con la puzza sotto il naso che non ha capito che il traino è la piccola impresa, il capitalismo personale, non la grande industria».
Allora Veltroni dura poco.
«Io spero che duri a lungo, non vedo alternative. A me non interessa che abbia l´appoggio dei gruppi dirigenti, ma dell´elettorato. Deve dividere, deve decidere. Come prima del voto quando ha detto: andiamo da soli. Non vorrei rivedere il film della Bolognina: scelta coraggiosa ma gestita in modo compromissorio. Sarebbe la rovina. Perché sei andato da solo se non continui a decidere? Poi non ci si può lamentare che vengano fuori quelli dell´Ulivo, delle vecchie alleanze... Bisogna scommettere sulle scelte e pagheranno. Veltroni organizzi un congresso con mozioni contrapposte, da fare a gennaio. Altrimenti dopo le Europee le correnti lo impallinano».
Le correnti sono il male assoluto?
«Vanno benissimo quando si misurano sulla vita reale. Se invece servono discutere del ritorno di Prodi o dell´alleanza con Rifondazione allora fanno casino e gratificano solo gli pesudocapi. Esiste un gioco di correnti oligarchico e un altro che ha referenti sociali. Oggi nel Pd c´è solo il primo».
Il Sole 24 Ore Domenica 22.6.08
Visioni del cosmo. Una rivoluzione naturale
Tullio Gregory ricostruisce le elaborazioni filosofiche sul concetto di «natura» nell'Alto Medioevo. Una corrente di pensiero che sarà in crisi nel Seicento con la «caduta del sacro»
di Michele CilibertoSpeculum naturale si intitola, suggestivamente, questo libro: e va detto che nel titolo esso tematizza con efficacia il nodo di problemi sui quali Tullio Gregory si concentra, svolgendo il filo di una riflessione assai compatta e organica. Quello che gli interessa, in questo volume, è analizzare anzitutto la "rivoluzione scientifica" (è una sua espressione) che si compie tra XII e XIII secolo in Occidente proprio intorno alla concezione della natura, con un netto - e progressivo - distanziamento dalle concezioni di carattere simbolico e allegorico elaborate, sulla scia della patristica, nei secoli dell'Alto medioevo (e a questo proposito Gregory scrive pagine assai efficaci sul tema del "libro" e sul suo complesso - e interessantissimo - modificarsi).
Indicando con precisione la connessione di questo nuovo approccio con fenomeni di ampia portata di ordine sociale ed economico, il volume mostra con acutezza l'emergere e l'imporsi di una nuova concezione della natura - strettamente connessa alla traduzione dei testi di Aristotele e degli arabi che durerà, come egli sottolinea più volte, fino al XVI e XVII secolo, quando essa sarà messa defmitivamente in crisi. È con una lunga spanna della storia del pensiero europeo che questo libro dunque si concentra, con una serie di osservazioni assai fini, tra le quali spiccano quelle sul significato assunto, lungo quei secoli, dall'astrologia nella concezione della natura, dell'uomo e della storia. Credo che sia qui uno dei contributi più importanti del volume. Gregory non si limita, infatti, a sottolineare il peso decisivo delle Meteore aristoteliche ma mostra l'effetto del «generale presupposto della causalità celeste» su ogni piano della realtà, compresa naturalmente la riflessione teologica: «i modi della creazione e gli scenari escatologici, la provvidenza e la libertà umana, la dottrina della conoscenza naturale e profetica, il problema dei temperamenti delle inclinazioni e delle passioni umane, la riflessione sulla storia, sulla successione degli imperi e delle religioni, l'attesa escatologica della Riforma della Chiesa e del trionfo della cristianità alla fine del tempo». L'astrologia - ribadisce Gregory più volte - in questo mondo si configura come una vera e propria "ermeneutica storica", che dà conto di tutti gli aspetti della realtà, sia nel suo corso ordinario che nei momenti di crisi e di trasformazione radicale illuminati, questi ultimi, attraverso la teoria delle "grandi congiunzioni" con cui vengono spiegate nascita e morte delle grandi religioni - da quella ebraica a quella pagana fino a quella cristiana. È una "fonte" significativa, ed è importante averla individuata: Gregory, però - e questo è uno dei punti più interessanti suo lavoro - si preoccupa di illustrare come queste concezioni intrise di necessitarismo si siano variamente, e fecondarnente, intrecciate con posizioni proprie della tradizione cristiana le quali rischiavano di affievolirsi fino a sparire alla luce della nuova concezione dei cieli, e del rapporto tra cieli, tempo e storia. Un solo esempio: secondo Albumasar dopo il cristianesimo (corrispondente alla lex mercurialis), sarebbe sopravvenuta una nuova, e ultima lex, la lex lunae, la quale «significat dubitationem ... ac expoliationem a fide»; ma è proprio questo schema che Ruggero Bacone corregge inserende la figura dell'Anticristo recuperando, da un lato, la "tensione escatologica" e impedendo dall'altro, «la riproposizione della eterna clicità degli eventi, dottrina che pur circolava nel secolo XIII negli ambienti del più rigoroso aristotelismo, come attestano Sigieri di Brabante e la condanna del 1277».
Sono battute del saggio I cieli, il tempo storia, uno dei più belli del volume, nel quale spiccano anche i contributi sullo Spazio come geografia del sacro, sulla Fenomenologia del cadavere e sui rapporti tra Cosmologia biblica e cosmologia cristiana - oltre a quello su Nani sulle spalle di giganti - veramente notevole per erudizione e sapienza espositiva, sulle traduzioni e sul ritorno degli antichi nel Medioevo latino. Sono tutti lavori che mirano a delineare in modi nuovi i «percorsi del pensiero medievale», come recita il sottotitolo del volume. Gregory si sofferma però anche su due altri temi importanti: il rapporto tra pensiero medievale e modernità e la storiografia filosofica sul medioevo tra ottocento e novecento. Sul primo punto è netto: la modernità non si identifica con un processo di secolarizzazione, ma con una "caduta del sacro", a tutti i livelli: dalla concezione dell'uomo (sottratto a ogni forma di primato) a quella della religione (ridotta a impostura), dalla visione della società (colta attraverso lo specchio degli spiriti animali) alla funzione dell'Europa (messa in crisi dalla scoperta del Nuovo mondo e dall'esperienza del "diverso"), fino alla interpretazione dello stesso testo sacro (criticato alla luce della filologia umanistica). Sul secondo tema è altrettanto chiaro: non si può parlare di filosofia medievale, ma di molte filosofie, non di una teologia, ma di molte teologie, tanto da preferire all'uso del termine filosofia quello di "pensiero medievale", anche sotto l'impulso fecondo di Paul Vignaux. Si tratta di una preziosa lezione di metodo, ben applicata nei saggi che costituiscono questo volume, che colpiscono per più ragioni: anzitutto per la salda continuità di una riflessione, come appare chiaro a chi conosce i lavori di Gregory sul platonismo medievale pubblicati negli anni Cinquanta. E poi per l'incessante lavoro di approfondimento al quale continua a sottoporre temi e problemi con cui si è incontrato, per la prima volta,oltre cinquanta anni fa.
Tullio Gregory, «Speculum naturale. Percorsi del pensiero medievale», Edizioni di storia e letteratura, Roma, pagg. 254, € 35,00.