domenica 22 giugno 2008

COMUNICATO STAMPA

L’esposizione promossa dall’Associazione culturale Amore e Psiche
all’interno del Salone Internazionale Architektonika dal 30 giugno al 3 luglio

“Esperimenti” realizzazioni di Massimo e Lorenzo Fagioli

“Esperimenti” realizzazioni di Massimo e Lorenzo Fagioli; questo è il titolo della mostra di opere inedite realizzate dal 1999 ad oggi, promossa dall’Associazione culturale Amore e Psiche in occasione del XXIII Congresso Mondiale di Architettura (“Transmitting Architecture”) in programma dal 29 giugno al 3 luglio al Lingotto di Torino.

La mostra è allestita nell'area dedicata all'architettura e al design (stand B20) di Architektonika, il Salone Internazionale di prodotti, progetti e processi per l’architettura, l’edilizia e il design, ospitato dal 30 giugno al 3 luglio nell’ambito del Congresso Mondiale di Architettura.

Architektonika, che si trova presso lo spazio polivalente Oval al Lingotto, ha tra i suoi obiettivi: l’avanguardia del design, l’innovazione e la ricerca, la creatività di prototipi e prodotti sperimentali.

L’orario di visita è 9-19.
Info: http://www.architektonika.it/
l’Unità 22.6.08
Berlusconismo
di Furio Colombo


Vorrei subito chiarire. Non sto dedicando questo articolo al berlusconismo a causa del fatto che Berlusconi è improvvisamente ritornato ai toni incattiviti di quel primo non dimenticato governo, quello che ha portato l’Italia alla crescita zero ma ha garantito al primo ministro tutte le leggi di utilità e convenienza personale, ha dato un colpo durissimo - e notato nel mondo - alla libertà di stampa e ridotto prestigiosi commentatori di prestigiosi giornali a dargli sempre ragione come a Mussolini.
Certo, la lettera del presidente Berlusconi, di cui ha dato compunta lettura il Presidente del Senato Schifani a un’aula di persone probabilmente stupefatte, spinge la scena della vita italiana fuori dalla Costituzione («Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge») e fuori dalla democrazia («La legge è uguale per tutti»). Però, onestamente, come fare a mostrare meraviglia per un leader (questa è la terza prova e la quarta volta) che ha sempre violato la Costituzione e leggi del suo Paese e ne ha imposte altre che poi sono state giudicate, a una a una, incostituzionali dalla Consulta?
Ma tutto ciò senza perdere di vista i suoi interessi personali: primo, Mediaset, salvare dall’onta del satellite il soldato Fede; secondo, le intercettazioni: prigione e multe altissime per chi intercetta i sospetti di delitti odiosi pericolosi, destinati a ripetersi, e per chi, quando gli atti del processo sono legalmente e anzi doverosamente usciti dal segreto istruttorio e legalmente disponibili, osasse pubblicarli. In tutti i Paesi democratici vale il principio che «il processo è pubblico». È una garanzia per le vittime, per gli imputati, ma anche per tutti i cittadini.
Avvocati e giuristi di Berlusconi hanno già dimostrato di non provare alcun imbarazzo nel cambiare le leggi di quei processi che non si sentono in grado di vincere (hanno visto le carte e conoscono la vera storia).
Quanto ai giornalisti indipendenti italiani, sentite Bruno Vespa in una delle sue “rubriche” diffuse in tutta la provincia italiana: «La nuova controversia tra Berlusconi e i magistrati di Milano sembra l’ultima sgradevole puntata di una telenovela cominciata quindici anni fa, quando il Cavaliere decise di abbandonare la dura trincea del lavoro per scendere in campo nella politica. In realtà non è così (...). Il presidente che deve giudicare Berlusconi, Nicoletta Gandus, è un avversario politico. Da molti anni è una star di Magistratura democratica (...). Nel motivare la richiesta di cancellazione delle leggi Schifani, Pecorella, Cirami, Cirielli sostiene che esse sono state motivate al fine di perseguire l’interesse personale di pochi, ignorando la collettività. Si tratta di leggi che hanno devastato il nostro sistema di giustizia (...). Senza entrare nel merito di queste opinioni, può un dichiarato avversario politico giudicare in tribunale il capo del governo che combatte?» (Quotidiano Nazionale, 19 giugno). Avete capito il delitto imperdonabile in un Paese libero? Il giudice Gandus, che deve giudicare Berlusconi, non fa parte della P2. È membro di una libera, civile, legale associazione detta Magistratura democratica.
Inevitabile inviare un pensiero al decoroso silenzio dei 62 arrestati e trecentocinquanta incriminati caduti tre giorni fa nella maxi-retata dell’Fbi contro i più potenti personaggi di Wall Street, portati via in manette tra due ali di operatori di Borsa che per alcuni minuti (succede di rado) hanno sospeso le contrattazioni. Nessuno di loro, personaggi del gran mondo finanziario americano, presidenti di Banche d’affari, patron celebri e celebrati di tutti i musei e gli ospedali di New York (dove alcuni hanno un reparto col loro nome) ha fiatato. Né lo hanno fatto i celebri avvocati a cui si sono affidati. Eppure sanno che, nella tradizione e prassi giudiziaria americana, alcuni giudici sono repubblicani e altri democratici. Alcuni giudici, nei distretti federali in cui questi imputati saranno giudicati sono stati nominati da Carter, alcuni da Reagan, alcuni da Clinton (che in silenzio si è sottoposto a tre diversi processi) e alcuni da uno o dall’altro dei due Bush.
Ma, nella civiltà democratica, i giudici non si scelgono e non si discutono e la ricusazione è ammessa solo per legami d’affari, d’amore o di famiglia di uno dei giudici con una delle parti. Altrimenti mai, per non affrontare il famoso reato americano di “oltraggio alla Corte”, che scatta quando l’imputato, invece di lasciarsi giudicare, si mette a giudicare il giudice. Tutto ciò avviene nel Paese in cui, una volta condannati, non si va in Parlamento, si va in prigione.
Particolare curioso (come si diceva una volta sulla Domenica del Corriere): tutti e quattrocento gli arrestati o incriminati di Wall Street erano sotto intercettazione da mesi. Molti dei reati contestati ai grandi di Wall Street, infatti, sono reati tipicamente telefonici, e dimostrabili solo con l’intercettazione, come l’”insider trading” (fornire a uno notizie che devono restare segrete per arricchirsi in due). E nessuno sostiene, pena il ridicolo, di essere vittima di una persecuzione politica. Chi poi, in quel Paese civile, avesse scritto, da titolare del potere esecutivo, una lettera al Presidente del Senato (istituzione legislativa) per levare accuse contro i suoi giudici (istituzione giudiziaria), avrebbe prontamente ottenuto, oltre al ridicolo (in democrazia non si può giocare il potere esecutivo contro il potere giudiziario usando il potere legislativo) una imputazione in più.
* * *
Qui mi devo confrontare con l’iniziativa appena presa dai Radicali, una proposta di legge costituzionale a firma Rita Bernardini, con cui si intende abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Vuol dire che un giudice agisce immediatamente e di propria iniziativa appena ha notizia di un reato. I codici dicono quali. Ovviamente non si tratta di cose futili.
L’idea di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale (assente quasi solo nelle legislazioni anglosassoni) è certo meritevole di attenzione e discussione. Per esempio per il fatto che identifica meglio la responsabilità dei giudici e diminuisce il numero dei processi. Stimo i miei colleghi Radicali ma non sono d’accordo.
Chiedo: si può in Italia? In questa Italia? Proprio qui passa la linea di demarcazione. Ci sono coloro che sostengono che, a parte la coloritura manageriale e padronale, non c’è niente di speciale o così diverso in Berlusconi rispetto a ogni altro capo di governo. Non esiste il berlusconismo. E se esiste è qualcosa che riguarda Giannelli o Staino, Vauro o Vincino ma non la politica.
E poi ci sono coloro che vedono il berlusconismo come una potente e ben finanziata spinta del Paese fuori dalla democrazia anche a causa di un controllo mediatico quasi totale, che tende ad estendersi attraverso i premi che derivano dal conquistare benevolenza (Berlusconi è un buon padrone) e dalle punizioni (fino alla riduzione al silenzio) di coloro che - nel suo insindacabile giudizio - sono dichiarati nemici.
In questa Italia l’obbligatorietà dell’azione penale resta l’unica garanzia che potenti e prepotenti, soprattutto sul versante politico e di affari, non restino impuniti.
Cito Emilio Gentile: «Nel 1922 Amendola, Sturzo, Salvatorelli presero a usare il vocabolo “totalitarismo” quando il sistema parlamentare italiano non era ancora molto dissimile dalle altre democrazie europee. Però essi osservarono come il partito di Mussolini operò per conquistare il potere. Ne colsero la natura di partito incompatibile con la democrazia e inevitabilmente destinato a creare un sistema totalitario» (intervista a Simonetta Fiori, la Repubblica, 19 giugno). L’obiezione tipica è: «Ma che cosa c’è di più democratico di una valanga di voti per qualcuno noto in tutto, compresi i suoi difetti e i suoi reati?».
Emilio Gentile ha una risposta interessante: «Gramsci fu tra i pochi a comprendere che il totalitarismo è una tecnica politica che può essere applicata continuamente a una società di massa. Potrebbe accadere anche oggi: una tecnica che punta a uniformare l’individuo e le masse in un pensiero unico, usando il controllo dell’informazione». È un’affermazione limpida, logica, difficilmente confutabile se non per ragioni di fede. Ma la fede riguarda i berlusconiani.
Quanto a noi oppositori, quanto a quelli di noi che vedono il pericolo del singolare totalitarismo berlusconiano, non avremmo diritto di avere i nostri Amendola, Sturzo e Salvatorelli?
È con questi nomi e con queste citazioni in mente che chiedo ai miei amici Radicali del Pd, della cui presenza in Parlamento sono lieto come di una garanzia: si può in questa Italia, in cui il giornalista Vespa riproduce all’istante e con convinzione indiscutibile, solo le ragioni del premier imputato; si può in questa Italia in cui il più forte ricusa giudici, accuse, processo in nome della sua forza e dei suoi voti; si può in questa Italia in cui si è già tentata, da parte dell’allora ministro Castelli, una “riforma” che mette tutti i giudici agli ordini di pochi procuratori generali; si può in questa Italia in cui l’opinione pubblica è messa a tacere dal controllo quasi totale dei media, si può introdurre una riforma «anglosassone», cioè di Paesi in cui le istituzioni sono incalzate da un’opinione pubblica bene informata e da una stampa che non dà tregua?
* * *
Vedo nel berlusconismo una forma di potere in espansione, già molto prossima al pericolo citato da Emilio Gentile. Perciò dico no a questo regime e mi spiego.
1 - «Vogliono screditare il potere dei tribunali e decidere da soli che cosa è legalità». Cito da un editoriale del New York Times (19 giugno) che in questo modo propone l’accusa più grave alla presidenza di Bush. Perché i nostri colleghi americani vedono la portata del loro problema (scontro tra i poteri-pilastro della democrazia) e in Italia così tanti tra noi ti guardano come un disturbatore ossessionato?
2 - Lo stesso giorno la deputata Pd Linda Lanzillotta (destra della sinistra) e la ex senatrice Rina Gagliardi (sinistra della sinistra) hanno questo, rispettivamente, da dire:
Lanzillotta: «Eppure dovremo dire anche dei sì (a Berlusconi, ndr) almeno su alcune decisioni annunciate». Quali saranno queste decisioni annunciate, nei giorni in cui il politologo Giovanni Sartori scrive, a proposito di Berlusconi: «Nessuno può essere al di sopra della legge a vita. Lo sono solo i dittatori» (Corriere della Sera, editoriale, 21 giugno)?
Gagliardi: «A me star lì a dire sempre no non mi piace perché mi pare un radicalismo solo apparente. Risolve il quotidiano, dà un po’ di soddisfazione ai tuoi che ti vedono con la faccia scura davanti a Berlusconi. E poi?» (Corriere della Sera 19 Giugno).
E poi, Rina Gagliardi, si fa opposizione, che vuol dire tenere testa a un governo evidentemente pericoloso, come si fa in tutti i Paesi democratici. Credo che sia utile ricordare alle due esponenti politiche ciò che l’ex ministro delle Comunicazioni-Mediaset Maurizio Gasparri ha appena detto a Walter Veltroni dopo l’annuncio di una grande manifestazione popolare proposta dal segretario Pd all’Assemblea del partito (20 Giugno): «Veltroni non ha nessun diritto di parlare, con tutti i debiti che ha lasciato. Taccia e faccia opposizione» (Tg 1, 20 Giugno, ore 20).
3 - «Tacere e fare opposizione» è il motto perfetto per definire questa Italia berlusconiana e il pericolo che corre. Se, come sta accadendo, il berlusconismo continua ad espandersi e a conquistare per il suo capo e i suoi uomini sempre più franchigia, sempre più esenzione dalle sanzioni della legge, allora il silenzio dei cittadini, che non sentono voci alte e chiare di contraddizione al regime, quel silenzio può diventare il silenzio-assenso su cui punta il movimento berlusconista, e che ha già dato la sua paurosa prova in Sicilia.
4 - Come si vede e si impara dalla clamorosa parabola discendente di George Bush (dal 70 per cento di gradimento al 70 per cento di rifiuto, nonostante la sua seconda elezione sia stata un trionfo) l’opposizione netta, vigorosa, visibile, su ogni punto chiama i cittadini e porta risultati persino a partire da una minoranza sconfitta. Quella minoranza, in America, non ha mai ceduto, non ha mai fatto cose “insieme” con il suo avversario, perché accusato di illegalità e di avere violato la Costituzione. Alla fine della lunga marcia quella minoranza ha incontrato il Paese, e, divenuta maggioranza a causa della sua testarda opposizione, si appresta a guidare una nuova epoca per gli Stati Uniti.
Perché questa non potrebbe, non dovrebbe essere la nostra storia?
furiocolombo@unita.it

l’Unità 22.6.08
Olimpiadi in Cina, lo scudo dorato ti osserva
Shenzhen, la città più spiata del mondo
di Naomi Klein


VERSO LE OLIMPIADI DI PECHINO Telecamere di sicurezza, sorveglianza hi-tech e censura: si chiama «Scudo dorato» e permette di controllare i cittadini cinesi 24 ore su 24 evitando così qualsiasi forma di protesta. Ce ne parla la scrittrice Naomi Klein

Trent’anni fa, la città di Shenzhen non esisteva. A quei tempi, c’era solo una lunga fila di piccoli villaggi di pescatori e risaie gestite collettivamente, un posto con sentieri sterrati e templi tradizionali. Questo prima che il luogo fosse prescelto dal partito comunista (grazie alla sua posizione, vicina al porto di Hong Kong) per diventare la prima «zona economica speciale» della Cina, una delle quattro aree dove il capitalismo sarebbe stato permesso su base sperimentale. La teoria dietro l’esperimento era che la Cina «reale» avrebbe mantenuto la propria anima socialista intatta, traendo nello stesso tempo profitto dall’occupazione nel settore privato e dallo sviluppo industriale creato a Shenzhen.
Il risultato fu una città di commercio puro, non diluito dalla storia o da una cultura radicata, che sta al capitalismo come il crack sta alla cocaina. Si trattava di una forza così attraente per gli investitori che presto l’esperimento di Shenzhen si allargò, inghiottendo non solo il circostante Delta del fiume Pearl, che oggi ospita circa 100mila fabbriche, ma anche buona parte del Paese. Oggi, Shenzhen è una città che conta 12 milioni e 400mila abitanti, ed esiste la possibilità che almeno metà di ciò che possiedi sia stato fabbricato qui: iPod, notebook, scarpe da ginnastica, televisori a schermo piatto, telefoni cellulari, jeans, forse la sedia della tua scrivania, magari la tua macchina e quasi sicuramente la tua stampante. Centinaia di condomini di lusso torreggiano sulla città, e molti sono alti più di 40 piani, con in cima attici da tre piani. Nuovi quartieri come Keji Yuan sono pieni di campus aziendali ostentatamente moderni e di centri commerciali dissoluti. Rem Koolhaas, l’architetto preferito di Prada, sta costruendo uno stock exchange che sembra galleggi, un design concepito, dice, «per evocare e illustrare il processo del mercato». Una metropolitana superleggera ancora in fase di costruzione presto collegherà il tutto grazie all’alta velocità; le macchine hanno schermi televisivi multipli che trasmettono su rete wi-fi. Di notte, tutta la città si illumina come un fuoristrada truccato e superaccessoriato, con gli hotel a cinque stelle e le torri aziendali che fanno a gara per mettere in piedi il miglior spettacolo di luci.
(...) Questo non è successo per caso. La Cina di oggi, simboleggiata al massimo grado dalla transizione di Shenzhen da fango a megalopoli nel giro di trent’anni, rappresenta un nuovo modo di organizzare la società. Qualche volta denominato «Stalinismo di mercato», è un ibrido efficace tra i più potenti strumenti del comunismo autoritario (pianificazione centrale, repressione spietata, sorveglianza costante) messo in piedi per far avanzare gli obiettivi del capitalismo globale. Ora, mentre la Cina si prepara a esibire i suoi progressi economici durante le imminenti Olimpiadi a Pechino, Shenzhen ancora una volta funge da laboratorio, da terreno di prova per la prossima fase di questo vasto esperimento sociale. Negli scorsi due anni, qualcosa come 22mila telecamere di sorveglianza sono state installate in tutta la città. Molte sono in spazi pubblici, cammuffate da lampioni. Le telecamere a circuito chiuso, o Cctv, verranno presto collegate in un’unica rete nazionale, un sistema onnivedente capace di tracciare e identificare chiunque entri nel suo raggio d’azione, un progetto guidato in parte da tecnologie e investimenti statunitensi. Nei prossimi tre anni, i dirigenti della sicurezza cinese installeranno a Shenzhen due milioni di Cctv, che la renderanno la città più sorvegliata del mondo (Londra, patita della sicurezza, ne vanta solo mezzo milione).
Le telecamere di sicurezza sono solo una parte di un programma più ampio di sorveglianza hi-tech e censura conosciuto con il nome di «Scudo dorato». Lo scopo finale è di usare la più moderna tecnologia di tracciamento delle persone (generosamente fornita da giganti americani come Ibm, Honeywell e General Electric) per creare un involucro sottovuoto per consumatori: un posto dove le carte Visa, le scarpe da ginnastica Adidas, i telefoni cellulari di China Mobile, gli Happy Meal di McDonald’s, la birra Tsingtao e le consegne Ups (alcuni degli sponsor ufficiali delle Olimpiadi di Pechino) possano essere gustati sotto l’occhio vigile dello Stato, senza il pericolo di un’esplosione democratica. Con l’irrequietudine politica in crescita in tutta la Cina, il governo spera di usare lo scudo di sorveglianza per identificare e contrattaccare il dissenso prima che esploda in un movimento di massa come quello che ha catturato l’attenzione del mondo a Piazza Tiananmen.
(...) Nel 2006, il governo cinese ha ordinato che tutti gli Internet café (così come i ristoranti e altri luoghi d’intrattenimento) installassero videocamere con trasmissione diretta alla locale stazione di polizia. Parte di un progetto di sorveglianza più ampio chiamato «Città Sicure», il piano ora riguarda 660 comuni in Cina. È il più ambizioso programma del nuovo governo nel Delta del fiume Pearl e le forniture per realizzarlo sono uno dei nuovi mercati a crescita più veloce di Shenzhen. Ma le telecamere che Zhang produce sono solo una parte del massiccio esperimento sul controllo della popolazione che è in atto qui. «Il quadro a lungo termine», mi dice Zhang nel suo ufficio «è l’integrazione». Ciò significa collegare le telecamere con altre forme di sorveglianza: Internet, telefoni, software di riconoscimento facciale e monitoraggio via Gps.
Ecco come funzionerà lo Scudo Dorato: i cittadini cinesi saranno monitorati 24 ore su 24 attraverso una rete di telecamere a circuito chiuso e il controllo remoto dei computer. Le loro conversazioni telefoniche verranno ascoltate, monitorate da tecnologie di riconoscimento vocale digitale. Il loro accesso a Internet sarà fortemente limitato attraverso il famoso sistema nazionale di controlli online conosciuto come Grande Firewall. I loro movimenti saranno tracciati attraverso carte d’identità controllabili attraverso chip e fotografie istantaneamente caricate nei database della polizia, e collegate ai dati personali del portatore. È questo l’elemento più importante: collegare tutti questi strumenti tra loro in un enorme, ricercabile database con nomi, foto, informazioni sulla residenza, storia lavorativa e dati biometrici. Quando lo Scudo Dorato sarà completato, in quel database ci sarà una foto per ogni persona in Cina: un miliardo e 300mila facce. Shenzhen è il luogo dove lo Scudo ha ricevuto le fortificazioni più estese, il posto dove si stanno collegando assieme tutti i giocattoli spia, per sperimentare che cosa sono in grado di fare.
(...) La recente crisi in Tibet ha dato luogo a un’ondata di assemblee spontanee e appelli al boicottaggio. Ma si elude il fatto imbarazzante che buona parte del potente stato di sorveglianza cinese è già stato costruito grazie a tecnologia americana ed europea.
Nel febbraio 2006, un sottocomitato del Congresso ha tenuto un’udienza dal tema: «Internet in Cina: uno strumento di libertà o di repressione?». Chiamati a testimoniare erano Google (per avere costruito uno speciale motore di ricerca cinese che bloccava materiale riservato), Cisco (per avere fornito hardware al Grande Firewall cinese), Microsoft (per avere soppresso blog politici su ordine di Pechino) e Yahoo (per avere aderito alla richiesta di fornire informazioni sugli account e-mail, che hanno portato all’arresto e imprigionamento di un famoso giornalista dissidente cinese colpevole di aver criticato gli ufficiali corrotti nei newsgroup online). Il caso è esploso di nuovo durante la recente rivolta tibetana, quando si è scoperto che sia Msn che Yahoo avevano brevemente esposto le immagini dei contestatori tibetani ricercati sui loro portali d’informazione in Cina. In tutti questi casi, le multinazionali statunitensi hanno mantenuto la stessa linea di difesa: cooperare con le richieste draconiane di denunciare i clienti e censurare il materiale è purtroppo il prezzo da pagare se si vogliono fare affari in Cina. Qualcuno, come Google, ha argomentato che nonostante la costrizione a limitare l’accesso a Internet, si sta contribuendo a un generale incremento di libertà in Cina. È una storia che indora la pillola dello scandalo molto più grande realmente in atto: investitori occidentali che si precipitano nel paese, magari in violazione della legge, con l’unico scopo di aiutare il partito comunista a spendere miliardi di dollari per la costruzione dello Stato di Polizia 2.0. Questa non è la spiacevole conseguenza del fare affari in Cina, ma è l’obiettivo del fare affari in Cina.
(...) Durante il periodo a Shenzhen, la più giovane e moderna città della Cina, ho avuto spesso la sensazione di stare osservando non solo uno stato di polizia mascalzone, ma un terreno comune globale, il posto verso il quale sempre più paesi stanno convergendo.

l’Unità 22.6.08
Bersani: «Costruiamo il partito
fuori dal Palazzo, tra la gente»
di Ninni Andriolo


Onorevole Bersani, come giudica l’Assemblea costituente di venerdì?
«Come è andata l’altro ieri lo si vedrà dalle prossime settimane, perché è chiaro che quando si prende una botta non si sta bene subito. Sicuramente l’Assemblea rifletteva un disagio. Penso, però, che il punto sia quello di uscire dalla depressione e di rimboccarsi le maniche tutti assieme. La Costituente ha dato primi segnali in questa direzione».
Una tregua nel gruppo dirigente, si è scritto. Basterà a rimotivare il popolo delle primarie?
«Tutti gli interventi, e non solo quelli del gruppo dirigente, hanno mantenuto un equilibrio tra la sofferenza per la botta elettorale e la spinta unitaria a rimettersi in movimento. Non c’è dubbio che un tratto unitario, che non credo tattico, sia venuto fuori. Lo ritengo utile sia per la costruzione del partito che per la battaglia d’opposizione di cui il Paese ha bisogno».
Maggiore unità nel Pd perché torna in campo il Berlusconi di sempre?
«Anche su questo ci siamo messi tutti a pari. Chi riteneva che quello di Berlusconi non fosse solo un atteggiamento tattico, e chi pensava che la destra avrebbe ricominciato a fare il mestiere di sempre, non solo dal punto di vista degli strappi alle regole della democrazia, inevitabili nel berlusconismo che, non dimentichiamolo, ha sempre dato lo scettro al consenso e mai alle regole. Ma, soprattutto, nell’impostazione della politica economica. Se vogliamo che gli italiani si indignino per gli strappi alle regole, bisogna che mostriamo loro anche quanto siano fallimentari le ricette economiche e sociali di questo governo».
Lei le ha definite vecchie, inutili per la crescita…
«Se qualcuno pensasse una cosa diversa, avverto che il centrodestra non farà quello che non siamo riusciti a fare noi, perché non ne siamo stati capaci. Loro, in realtà, metteranno in pratica la loro ricetta. Con qualche accorgimento in più, con qualche pensata nuova. Ma la sostanza sarà: abbassare l’asticella per chi già ce la fa, lanciare messaggi demagogici e compassionevoli per chi è in difficoltà, difendere paratie corporative o di altro genere».
In campagna elettorale avevano promesso ben altro…
«Le loro manovre non le pagheranno mai davvero le rendite e gli evasori fiscali. Ma i consumi popolari e i servizi, come si vedrà nelle prossime settimane. Poi, naturalmente, attorno a questa ricetta ci potrà stare questa o quella misura condivisibile, la furbizia di un messaggio demagogico, cose sulle quali ci potrà stare, per così dire, un’opposizione più duttile. Ma il segno complessivo è disvelato già da alcune misure…»
Quali?
«Davvero si pensa che i petrolieri non recupereranno i soldi che dovranno pagare allo Stato? È un gioco da ragazzi scaricare l’incremento fiscale sui consumatori. Ed è di un’evidenza solare che le banche hanno avuto in cambio il blocco della Class action e l’accordo sui mutui…»
C’è la cosiddetta carta dei poveri, però…
«Che la dice lunga su come loro leggono il disagio sociale. Noi una misura di questo genere non ce la saremmo nemmeno sognata. Con quei soldi, aggiungendone altri, avremmo fatto l’aumento delle pensioni piu’ basse, come l’anno scorso. Per noi un povero è una persona con una dignità. Credo, comunque, che non dobbiamo lasciarci impressionare dai fuochi d’artificio».
L’assenza di molti delegati dall’Assemblea di venerdì riflette la delusione della gente del Pd. Non crede?
«Abbiamo il compito di passare dalla fase costituente a quella di costruzione del partito e dobbiamo farlo nel vivo di una battaglia d’opposizione. Se protratta troppo a lungo, la fase costituente non regge. Dobbiamo lavorare immediatamente per la costruzione ideologica, politica e organizzativa del partito. La battaglia d’opposizione dovrà essere la fucina in cui forgeremo il Pd. Le cose si vedono meglio girando per strada, che non dal Palazzo. E io credo che questa sarà l’occasione per riprendere i contatti con i soggetti sociali che ci interessano».
Veltroni propone una manifestazione nazionale contro la politica del governo. Perché in autunno e non subito?
«Non perché non manchino argomenti per far scendere già adesso la gente in piazza. Ricordo le misure economiche, gli attacchi di Berlusconi ai giudici, le sue iniziative per salvarsi dai processi. O la provocazione spropositata sul Comune di Roma con l’obiettivo di delegittimare Veltroni, un tentativo di fronte al quale tutti dobbiamo reagire. Nel Paese, però, deve maturare la consapevolezza dei danni che produce questo governo. La costruzione e il radicamento del partito devono servire anche a questo. Dobbiamo avviare il tesseramento in tempi rapidissimi. Contemporaneamente, cogliendo l’occasione delle feste, dobbiamo sviluppare una campagna sui temi economici e sociali. E predisporre le tracce della discussione politica che avremo, senza conta, nella Conferenza autunnale che coinvolgerà tutto il partito. Questo lavoro di opposizione e di composizione avrà poi un’espressione di massa. Le grandi manifestazioni rappresentano anche l’esito di un lavoro che mette in movimento energie e costruisce rapporti».
In questi mesi più che a costruire il Pd si è pensato a edificare le sue correnti, è d’accordo?
«Tutte queste espressioni sono convintissimo che rappresentino una ricchezza. Ha ragione anche Veltroni, però, quando afferma che le fondazioni, gli istituti, le associazioni devono esprimere qualcosa di vero in termini di radicamento e di posizione culturali. Servono affluenti veri, che portino acqua. Dopodiché noi non possiamo osservare il fenomeno senza essere sicuri che ci sia il fiume. Senza organizzare, cioè, il partito, come palestra politica di tutti. A questo dovrà servire la Conferenza d’autunno. È lì, nel fiume del partito, che bisognerà dipanare, per esempio, la matassa del rapporto tra politica e valori, o quella delle riforme istituzionali che vogliamo. Il luogo della sintesi, quindi, deve essere il partito. Se manca questo, la gente andrà a discutere da altre parti. Noi, tra l’altro, non abbiamo avuto un dibattito di massa sull’esito del voto…»
Anche nella Costituente si è registrato un deficit di analisi sulle elezioni…
«È mancata una discussione di massa sul voto. Questa avrebbe aiutato a ritrovarsi, a reagire prima, a elaborare il lutto, a sentirsi comunità. Tutto questo dobbiamo recuperarlo. L’Assemblea costituente ha rappresentato il primo segno di questo recupero».
Ma nel Pd non si pone l’esigenza di rinnovare i gruppi dirigenti e di passare il testimone a generazioni più fresche?
«Se invece di spendersi in improbabili paragoni con il Midas i giornali si fossero occupati di andare a spulciare la composizione della nuova direzione, avrebbero visto che in atto c’è già la promozione - certo ancora insufficiente - di nuove personalità, di nuovi gruppi dirigenti e di nuove generazioni. Il processo di rinnovamento è in corso, lo vedo in giro per l’Italia. Al centro, certo, bisogna essere più permeabili a valorizzare quelle esperienze. Ma non basta essere giovani. Servono giovani di lungo corso, che abbiano già maturato esperienza, che godano di credibilità esterna. Ne abbiamo tantissimi nel nostro partito».
Senza il "rimescolo" di cui lei parla anche il rinnovamento verrà stretto dentro il gioco delle componenti…
«Questo famoso rimescolo può avvenire solo sul terreno politico e della cultura politica. Senza discutere del rapporto tra valori e politica o del nostro concetto di mercato o della nostra visione di partito, ad esempio, non si capisce in che direzione possa andare l’intreccio tra posizioni socialiste, liberali, cattolico-democratiche, ecc. Io credo che il rimescolo debba avvenire senza buttar via le parole. Né la parola sinistra, né la parola popolare. Che, però, bisogna far coesistere con nuovi termini. Il punto non è quello di mettere d’accordo me e Fioroni. Ma di consegnare alle nuove leve una cultura politica che non le inscatoli dentro cose che non ci sono più».
Veltroni ricollega il Pd all’Ulivo del ’96, lei mette in evidenza il ruolo di Prodi. Ma è il Professore che prende le distanze dal Partito democratico…
«Nella relazione di venerdì Veltroni ha sistemato le cose nel modo giusto. Sia dal punto di vista delle elezioni, che del profilo della nostra battaglia di opposizione, che del rapporto con l’Ulivo. Io dico sempre che le nostre radici sono lì, nell’Ulivo. E che da lì è iniziata una stagione che possiamo chiamare con il nome di Prodi. Noi dobbiamo riconoscere che, in quella fase di frantumazione, nella quale si affacciava il bipolarismo, quella politica ha rappresentato un punto di raccordo indispensabile. Che ha consentito di evitare un ventennio berlusconiano e di riportare dal cielo alla terra parole d’ordine che ci hanno dato un profilo: sulla politica estera, sulle liberalizzazioni, sull’evasione fiscale, ecc. Dopodiché quella fase conteneva in sé, e Prodi era il primo a esserne consapevole, visto che lanciò l’idea del Partito democratico, tutte le contraddizioni e i limiti che la hanno fatta esaurire. Oggi abbiamo compiuto la scelta di un partito a vocazione maggioritaria, ma non isolato. Capace di trovare un raccordo con le altre forze di opposizione».
È riduttivo ricondurre Parisi al Professore, ma tra i "prodiani" si registra una notevole insoddisfazione…
«Anche io mi sento parte del prodismo. Prodi continua a girare nella nostra aria, nella nostra atmosfera, nel nostro mondo. A prescindere dal fatto che lui sia presidente del Pd, come avrei voluto anche io, o non lo sia. Per me sarebbe stato inelegante procedere venerdì alla nomina di un altro presidente. Dopodiché vedremo assieme, con il contributo di Romano, che sono certo non mancherà, come eventualmente procedere anche ad altre soluzioni. L’applauso che la platea gli ha rivolto è stato un segnale evidente di affetto e di riconoscimento del ruolo esercitato e del lavoro svolto».
Marini ha detto sì al patto federativo Pd-Pse, un segnale importante di "rimescolo", non crede?
«Nelle cose dette da Marini si individua il terreno per una soluzione che riconosca il nostro progetto e la nostra identità. E l’ambizione di portarli in Europa, in collegamento con i luoghi dove si addensa la stragrande maggioranza del centrosinistra europeo».

l’Unità 22.6.08
Margherita Hack: sì al Nobel
Ingrid difende pace e libertà
di Umberto De Giovannangeli


«Non c’è da stupirsi che fatta eccezione, meritoria, de l’Unità, l’interesse dei grandi mezzi di informazione nei confronti della tragedia di Ingrid Betancourt sia pressoché zero. Il fatto è che in un Paese che sta imbarbarendosi e che affida le sue sorti ad un abile quanto cinico «venditore di tappeti», una donna che lotta fino allo stremo per nobili ideali a cui è disposta a sacrificare la sua stessa esistenza, una donna come Ingrid Betancourt è davvero fuori posto. Una ragione in più per sostenere la lodevole iniziativa de l’Unità: il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt». A parlare è Margherita Hack, tra le massime autorità scientifiche a livello internazionale nel campo dell’astrofisica.
Professoressa Hack, che significato potrebbe assumere il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt?
«Sarebbe il dovuto riconoscimento ad una persona che sta sacrificando la propria vita per la libertà di pensiero. Libertà vuol dire anche pace. E anche il fatto che a Firenze le daranno il premio Galileo… Galileo è stato un uomo, uno scienziato che è stato costretto ad abiurare ad una realtà scientifica, ed è stato un esempio di cosa significhi violare la libertà di pensiero. Il "premio Galileo" alla Betancourt è un riconoscimento della sua vita sacrificata in nome della libertà di pensiero. Ed è anche per questo che meriterebbe senz’altro il Nobel per la Pace, perché che pace ci può mai essere se non si riconoscono i diritti di libertà dei cittadini?».
Spesso si mette insieme la drammatica vicenda di Ingrid Betancourt con quella di un’altra donna coraggiosa: la birmana Aung San Suu Kyi. Perché le donne divengono oggi il simbolo di grandi battaglie di libertà?
«Le donne proprio perché sono state tenute lontane dal potere per tanti secoli, forse sono meno soggette a compromessi con il potere. Anche in politica quando parlano sono più dirette. E poi riempiono di idealità la loro concretezza».
Da anni, Ingrid Betancourt è tenuta prigioniera in una foresta. In questi anni di sofferenza, Ingrid ha continuato a comunicare attraverso le sue lettere. Cosa raccontano queste lettere?
«Sono la testimonianza del coraggio di una donna che crede in ciò che fa e che è rimasta fedele, nonostante i patimenti sofferti, ai suoi ideali. Quegli ideali che l’aiutano a vivere in quella terribile condizione; se non avesse una grande forza interiore credo che sarebbe crollata da tempo. Quegli ideali l’aiutano a resistere».
Quale messaggio le lettere di Ingrid Betancourt trasmettono ad un mondo globalizzato?
«Un esempio. Un bel esempio offerto ad un mondo che è sempre più succube del potere, della ricchezza, dell’apparire. Ingrid Betancourt è un esempio da seguire, l’esempio di chi crede negli ideali piuttosto che nel potere o nel proprio tornaconto particolare».
Ingrid Betancourt trasmette anche un messaggio di non violenza. Ingrid potrebbe diventare un modello per le giovani generazioni?
«Non potrebbe, lo è già. Ingrid è un modello di coerenza, un punto di riferimento per quanti nel mondo ancora credono e si battono per valori universali quali la giustizia, i diritti dei popoli, la liberazione da vecchie e nuove povertà. Sì, Ingrid è un modello per chi pensa in termini di "noi" e non di "io": di chi antepone gli ideali condivisi di libertà e di giustizia a quelli che sono i piccoli interessi particolari».
La storia di Ingrid Betancourt è intrecciata a quella di un popolo spesso dimenticato: il popolo colombiano.
«Per la verità, ora qualche segno di speranza l’America Latina sembra darlo: la Bachelet in Cile, Lula in Brasile, le nuove esperienze in Bolivia, Paraguay, Venezuela…La speranza è che a questi popoli sia permesso di portare a compimento un lungo, tribolato cammino di democrazia, di diritti e di giustizia sociale».
Ma la storia di questi popoli in lotta sembra spesso, troppo spesso, non "fare notizia" qui da noi… Lo stesso vale per la vicenda di Ingrid Betancourt…
«Purtroppo l’Italia oggi sta vivendo un momento di amoralità desolante. Gli ideali di libertà e di giustizia sono molto poco sentiti nel nostro Paese altrimenti non ci sarebbe oggi questo governo inqualificabile».
In queste dimenticanze c’è anche una responsabilità dei mezzi di comunicazione?
«C’è, eccome! Tantissima responsabilità. Durante la campagna elettorale la televisione, quella di Stato e non solo Mediaset, ha fatto veramente il lavaggio del cervello agli italiani, indottrinandoli in maniera assurda che tutto quello che il governo Prodi faceva era fatto male che stava portando l’Italia alla rovina, con una sinistra che non ha saputo propagandare ciò che di buono Prodi e il suo governo avevano fatto. Oggi siamo nelle mani di un abilissimo venditore di tappeti che continua a fare il lavaggio del cervello alla gente, con l’aiuto di tutte le televisioni. E in questo circuito mediatico una storia di ideali, di generosità quale quella di Ingrid Betancourt non interessa; non interessa a chi pensa solo ai propri interessi».

l’Unità 22.6-08
Stupri arma di guerra. Storie dall’album dell’orrore
di Marina Mastroluca


«Mi costrinsero a ballare nuda sul tavolo. Poi mi violentarono davanti a mio figlio che aveva 10 anni. Venivano militari serbi , i soldati del Montenegro e anche i miei vicini di casa. Abusavano di me e delle altre». E. è una delle «Zene zrtve rata», donne vittime della guerra, un’associazione nata a Sarajevo per aiutare chi ha subito uno stupro: a trovare una casa, ad avere assistenza e soprattutto giustizia. «Dopo la guerra abbiamo incontrato per strada i nostri violentatori, sono ancora liberi». Liberi anche dalla vergogna e dal disonore che pesano sulle donne stuprate, a Sarajevo come in Africa.
A Goma, in Congo, una dottoressa canadese nel 2003 ha fondato un’ospedale che aiuta le donne stuprate. I numeri sono solo ipotizzabili, non c’è nessun registro. Tante donne hanno paura anche solo di raccontare che cosa hanno subito, per non rischiare l’emarginazione sociale. Decine di migliaia di stupri, sistematici, segnati dal marchio della diversità etnica. In ospedale arrivano solo i casi più gravi: i medici ricuciono i muscoli strappati tra retto e vagina da stupri multipli, da torture inflitte con baionette e coltelli. Anche da colpi di pistola inferti con la canna infilata in vagina. Linda, 24 anni, era incinta quando i soldati l’hanno presa in un campo. «Mi hanno stuprato. Il bambino ha cercato di nascere ma è morto - ha raccontato -. Perdevo urina da tutte le parti e in queste condizioni ho raggiunto il villaggio. Tutte le case erano bruciate, la gente uccisa, anche mia madre. Mi ha raccolto una cognata. Mio marito si è sposato con un’altra. Ora sono sola».
La vergogna, la solitudine. Persino la condanna: in Sudan le donne rischiano di essere incriminate di «zina», adulterio, se denunciano uno stupro: la pena è la lapidazione. E le violenze dei janjaweed, i diavoli a cavallo che seminano il terrore nel Darfur in stretta collaborazione con le truppe governative sudanesi, sono pane quotidiano. Qui sono le milizie arabe, altrove hanno avuto altri nomi e stesse strategie. In Ruanda erano gli interahmwe, i ribelli hutu ispirati dalla radio delle mille colline ad annientare l’etnia tutsi. Non una casualità, non l’effetto collaterale di un delirio di violenza. Lo stupro di guerra da tempo è altro.
Jean-Paul Akayesu era il sindaco della città ruandese di Taba. È stato il primo ad essere condannato all’ergastolo, nel 1998, per il massacro di 2000 tutsi rifugiati nel municipio di Taba e per stupro. Il Tribunale internazionale per i crimini commessi in Ruanda allora per la prima volta individuò la catena di comando che da un unico centro diramava la violenza in mille rivoli: lo stupro collettivo venne associato al genocidio, perché diretto a cancellare una etnia. Ad umiliare, distruggere, devastare una comunità intera attraverso il corpo delle donne. Cinquecentomila stupri in poco più di tre mesi di follia sanguinaria, hutu contro tutsi, un milione di morti a testimoniare l’inerte impotenza dell’Onu. E un Tribunale per cercare di ricondurre la tragedia ad un universo comprensibile, dove si chiede ragione delle atrocità commesse. Almeno a qualcuno.
22 febbraio 2001. La guerra di Bosnia è finita da sei anni, la Serbia di Milosevic è stata sconfitta anche in Kosovo. Nascoste dietro una tenda, donne identificate solo con numeri, raccontano e puntano l’indice contro gli uomini alla sbarra. Donne ridotte a schiave sessuali, spesso solo ragazzine. Per la prima volta lo stupro è definito crimine contro l’umanità da un Tribunale internazionale. I serbo-bosniaci Zoran Vukovic, Radomir Kovac e Dragoljub Kunarac vengono condannati a 12, 20 e 28 anni di carcere per le violenze sistematiche di Foca, dove il centro sportivo Partizan era stato trasformato in un bordello. Zoran, Radomir, Dragoljub: non era scontato riuscire a scrivere un giorno i loro nomi.
Stupro etnico, un’arma di guerra come tardivamente ha riconosciuto in questi giorni il Consiglio di sicurezza del’Onu, con la risoluzione 1820. Ammettendo quello che le cronache dell’ultimo quindicennio di guerre - Bosnia, Ruanda, Congo, Darfur - hanno raccontato allo sfinimento: che lo stupro di guerra non rientra in nessuna storica normalità, non è solo la prepotenza del vincitore. Ma l’arma di conflitti dove i civili sono il primo e vero obiettivo, la mina che continuerà a perseguitare le generazioni a venire. Il 70 per cento delle donne stuprate in Ruanda ha contratto l’Aids, in molti casi il contagio è stato intenzionale ed ha finito per devastare anche le famiglie dei sopravvissuti. Nessun anagrafe ha tenuto il conto dei figli imposti a forza alle donne bosniache stuprate. Chi ha potuto, ha abortito. Tante hanno abbandonato i neonati, testimoni incolpevoli della violenza subita dalle madri: ordigni anche loro di guerre che non hanno più una linea del fronte.

Bosnia. La pulizia etnica attraverso il terrore
La disgregazione della Jugoslavia investe la Bosnia nel ‘92. Per la prima volta dalla fine della II guerra mondiale tornano in Europa i lager, dove vengono commesse le peggiori atrocità contro i civili. La logica della pulizia etnica impone il terrore, per costringere la popolazione alla fuga creando così aree etnicamente omogenee. Insieme ai massacri - 8000 i morti di Srebrenica, dove vennero uccisi tutti i maschi dai 15 anni in su - lo stupro è stato l’arma per umiliare il nemico e annacquarne l’etnia. Si stimano in 50-60.000 le violenze.

Rwanda. Hutu contro tutsi, un genocidio in 100 giorni
Aprile 1994. Preparato dai mezzi di informazione, divampa uno spaventoso massacro, in quella che viene in genere definita una guerra tribale fra Hutu e Tutsi ed è stata in realtà una lotta per il potere frutto dell’era coloniale, quando i colonizzatori belgi instaurarono un rigido sistema di separazione razziale e sfruttamento favorendo i Tutsi ai danni della maggioranza Hutu. Con l’indipendenza le parti si invertirono e iniziò un periodo di conflitti e di vendette. Il culmine nel ‘94: un milione di morti, 500.000 stupri.

Congo. Milioni di morti nella guerra dei diamanti
Finita ufficialmente nel 2004, la guerra civile in Congo, è stata la più grande guerra della storia recente dell'Africa ed ha coinvolto 8 nazioni africane e circa 25 gruppi armati. In gioco le enormi ricchezze minerarie del Paese: diamanti, oro, uranio, cobalto, rame. Al 2008 la guerra - proseguita nella regione di Ituri - e le sue conseguenze hanno causato circa 5,4 milioni di morti. Milioni i profughi. Secondo Amnesty international sono oltre 40mila le donne violentate. Degli stupri spesso accusati anche i peacekeeper.

Darfur. Esercito e janjaweed contro i civili
Nella regione del Sudan dal 2003 si combatte una guerra, che ha già causato più di 200.000 vittime e oltre due milioni di sfollati.
L’Onu e le organizzazioni internazionali hanno più volte denunciato che i civili continuano a subire attacchi e sono vittime di stupri. Il governo sudanese nega di appoggiare e finanziare le milizie janjaweed, accusate di genocidio dalla popolazione del Darfur e responsabili dei principali massacri e saccheggi di villaggi e centri abitati e dello stupro sistematico di donne e bambine.

l’Unità 22.6.08
L’Onu, la guerra, lo stupro
di Luigi Bonanate


Anche se presa dal più ristretto numero dei 15 membri del Consiglio di sicurezza, invece che dai quasi 200 dell’Assemblea generale, la Ris. 18209/2008, adottata nel contesto della Giornata mondiale del rifugiato, dà adito a numerose riflessioni, che superano quella del primo impatto, più che giustificato ma un po’ ingenuo. Quello cioé che guarda alla violenza sessuale in guerra come a «un’arma». Lo stupro è purtroppo sempre stato una conseguenza della guerra e non un suo strumento. Fin dall’antichità, e poi anche in età moderna (si pensi alla famosissima guerra dei trent’anni, 1618-1648), i movimenti delle truppe, il loro arrivo nei villaggi, erano temuti ben più che ogni altro pericolo di guerra: le donne dapprima, e poi tutti i beni della popolazione, erano saccheggiati fin che ce n’era. Da quel tipo di vita discendevano non soltanto figli indesiderati e destinati all’infelicità e sovente alle malformazioni o all’insanità, ma anche malattie, epidemie, mortalità diffusa.
Per questo, è in realtà insufficiente il ragionamento che molti fanno con riferimento alla novità secondo cui le «nuove guerre» uccidono molti più civili che militari rispetto al passato, come se soltanto oggi la violenza bellica avesse toccato i civili e una volta soltanto i militari. È invece una triste notizia, ma scontata per chi voglia guardare alle guerre con animo consapevole e non retorico o eroico, che a morire maggiormente in guerra sono sempre stati i civili — e per il XX secolo, poi, è persin ridicolo pensare il contrario. Basterebbe contare le vittime dei bombardamenti aerei (le cui vittime principali sono i civili, ovviamente, gli abitanti delle città) per scoprire che nessun esercito ha mai avuto altrettanto grandi perdite. So bene che questa ipotesi racchiude un’interessante e tutt’altro che infondata polemica dei pacifisti contro le nuove tecniche (e tecnologie) di guerra, grazie alle quali le guerre non dovrebbero costare morti a chi le fa, ma soltanto a chi le subisce (si tratta della cosiddetta «guerra-zero-morti», nella quale gli Stati Uniti si erano imbarcati in Iraq, tutti sapete con quali risultati...). Lì sta l’errore, nel pensare che le guerre possano esser fatte pagare soltanto a una delle due parti: le guerre, in realtà, non hanno mai reso felice nessuno, né da una parte né dall’altra.
Il fatto è semmai che per fortuna la sensibilità media delle pubbliche opinioni nel mondo va modificandosi e talvolta anche arricchendosi di nuove consapevolezze, anche grazie (perché nasconderselo?) alle immagini terribili che i mezzi di informazione di oggi sono in grado di imprimere nella nostra mente. Non dovremo mai stancarci di ripetercelo: più sappiamo, più comprendiamo; e più comprenderemo, meglio saremo in grado di agire (il segreto non ha mai fatto del bene a nessuno, semmai del male). Ora, non è una novità che la guerra nei Balcani (1991-1995) abbia visto la più vasta applicazione «programmatica» dello stupro etnico mai realizzata n ella storia — e non sarebbe quindi comprensibile che l’ONU se ne accorga tanto tempo dopo. Il punto è un altro: il programma dello stupro non era la violazione della femminilità, la sopraffazione della bellezza, il piacere strappato dagli urli di dolore, o la bestialità di una mascolinità coltivata a tal fine ed esasperata. No: lo stupro etnico non discendeva da questa vecchia, vecchissima e disgustosa storia, ma da un progetto, da un vero e proprio programma politico.
Ingravidare una donna islamico-bosniaca con seme ariano-europeo significava infatti intraprendere un’opera di estirpazione di un’etnia, un intervento di «ingegneria genetica» mostruoso e consapevole, che mira a creare una nuova «razza» (di «bastardi», oltre tutto), e non ha precedenti nella storia (pensare che ci si possa scagliare contro la ricerca scientifica che talvolta sfiora principi naturali quando volontariamente e lucidamente vengono perseguiti programmi come questo mette una grande tristezza). Per disgustoso che sia, è doveroso essere precisi: i nazisti, gli ebrei, li hanno uccisi; in Bosnia, si è «fabbricata» una nuova etnia, inferiore e non superiore. È giusto che l’ONU si sia mossa e abbia messo un punto fermo su tale questione; ma è ancora troppo poco. È un po’ come quando si dice che il diritto bellico può e quindi deve incidere sulla brutalità delle guerre: volete sapere qual è l’unico modo perché le guerre siano meno brutali? Non farle. Non è una facezia: proprio il caso dello stupro etnico, nel quale si mescolano mentalità malate, pregiudizi e simbologie sessuali violente e irrazionali, ci consente di mettere bene in luce un punto: uno stupratore non può essere un democratico; e un democratico non violenterà mai nessuno. Non crediate che stia cercando di buttarla in politica: quella violenta e quella democratica sono due forme di «civiltà» e non semplici manifestazioni ideologiche. Non c’è comportamento sociale in cui tale differenza esistenziale emerga più nitidamente. E la ragione è semplicissima: un democratico è nonviolento per definizione e dunque esprimerà una sessualità nonviolenta; non c’è neppur bisogno, invece, che spieghi fino a che punto spirito violento e aggressività sessuale siano intrecciati.
Il problema dello stupratore — diciamocelo una volta per sempre, e che sentano anche i leghisti — non è la razza, ma la cultura, il messaggio violento che ne promana e ha proprio nella sessualità la sua applicazione più primitiva e incivile. Nessun violento è mai stato fermato da una norma giuridica, neppure internazionale, che pur è necessaria ma non sufficiente. Il voto del Consiglio di sicurezza rafforzerà certo i poteri coercitivi e repressivi dei tribunali e anche quelli della Corte penale internazionale. Ma non illudiamoci: le norme sono il riflesso della civiltà e non la possono creare; ben vengano la diplomazia e le condanne; ma senza democrazia non si va lontano. Essa invece vale per occidentali e orientali, ariani ed ebrei, islamici e cristiani: se lo stupro agisce nella sfera sessuale degli esseri umani, soltanto insegnar loro la nonviolenza libererà loro e tutti noi dallo stupro etnico.

l’Unità 22.6.08
Giottino e i «giotteschi» dopo Giotto
di Renato Barilli


UFFIZI La grande rassegna dedicata al periodo successivo alla scoparsa del leggendario maestro. Una fase molto dibattuta dalla storia dell’arte: tempo di decadenza o da rivalutare? Ecco le figure chiave

Una mostra, agli Uffizi di Firenze, riapre un capitolo storiografico su cui già si versato molto inchiostro, essendo dedicato a un tema di grande peso, L’eredità di Giotto, ovvero L’arte a Firenze 1340-1375. Che cosa avveniva, nella città del giglio, l’indomani della scomparsa del Maestro? In proposito, si danno due linee interpretative, sostenute con forza, rispettivamente, da due allievi di Roberto Longhi, Giovanni Previtali e Carlo Volpe. Il primo si è attenuto nei suoi studi alla linea manualistica vincente, che cioé, in quella seconda metà del Trecento, pur essendoci in Toscana, o provenienti da altre sponde, personalità vivaci e meritevoli, nessuna di loro poté raggiungere l’alta statura giottesca, e fu dunque una fase di ristagno, un tirare i remi in barca, in attesa degli inizi del secolo seguente, con l’avvento delle figure straordinarie di Masaccio, Beato Angelico e compagni, che in sintonia con la lezione dell’Alberti posero le basi di una prospettiva rigorosa, scientifica, ridando l’assalto a una spazialità ampia, distesa, e quindi riprendendo in pieno la lezione giottesca, che i seguaci immediati avevano bloccato. Ad avviso di Volpe ed altri, invece, in quella metà di secolo Firenze vide fiorire talenti notevoli, niente affatto indegni del padre spirituale, e in genere bisogna guardarsi dagli schemi manualistici. Per la stessa ragione, si è andati all’attacco dello schema manualistico successivo, secondo cui da un lato la città del Battistero vide l’azione dei grandi talenti prospettici, l’Alberti e compagni, mentre da un altro arrivavano i campioni del gotico internazionale sul tipo di Gentile da Fabriano. Inutile stare a distinguere tra loro, meglio unirli tutti nel culto un po’ generico di un Rinascimento inteso come categoria vincente, buona ad ogni uso. Per quanto mi riguarda, mi sento piuttosto difensore dei vecchi schemi, ossidati fin che si vuole, ma pur sempre funzionanti, mentre vedo con parecchio sospetto questa tendenza dei filologi che nel culto più ossequioso di ogni artista che allora valesse, piallano i contrasti, livellano, fanno avanzare una macchina schiacciasassi.
Andiamoli a vedere da vicino, questi eredi di Giotto, riuniti, nella vita, nell’arte, e di conseguenza in mostra, per famiglie di addetti al nobile mestiere, pur con inevitabili scarti cronologici. Bernardo e Taddeo Daddi, Maso di Banco, l’Orcagna, Taddeo e Agnolo Gaddi, e tanti altri comprimari, tra cui spicca un nipote del grande Giotto, Stefano, detto appunto Giottino. Dappertutto notiamo una perdita di spazialità, le figure si irrigidiscono, si restringono nelle loro pelli, anche se questo vale a dar loro un’estrema eleganza di profili. Il gotico internazionale con le sue squisitezze è già alle porte, o addirittura l’intero capitolo del postgiottismo vi si deve iscrivere di diritto. Che cosa è avvenuto, a Firenze, che sia valso a fermare le strade dell’espansione, della conquista dello spazio, in omologia con la conquista dei mercati? Certo ha avuto il suo peso l’orrenda peste nera del 1348, a spopolare le file della cittadinanza e a disastrare l’economia, certo è che si ebbe allora un ristagno generale, riscontrabile pure nella vicina e fieramente antagonista Siena, e più oltre in Emilia e Romagna, nel Veneto, in Lombardia. Il secolo si ferma, boccheggia, prende fiato, per ripartire poi nei primi decenni del Quattrocento.
Se si vuole avere una riprova di tutto ciò, si vada ad ammirare la bella mostra, strettamente collegata alla precedente, che il polo museale fiorentino ha allestito in un’altra sede di eccellenza, la Galleria dell’Accademia, dedicandola per intero a Giovanni da Milano. Unite, le due mostre, anche nel presentare un comune ostacolo, essendo poste nel cuore di due musei tra i più frequentati al mondo, senza ingressi distinti, per cui un comune visitatore interessato ad esse, ma non necessariamente a ripassare i capolavori custoditi in quei luoghi sacri, deve sottostare a una lunga fila.
In realtà pare che Giovanni non fosse nato a Milano, ma in provincia di Como, a Caversaccio, verso la metà del Trecento, e certo fece a tempo a nutrirsi di lieviti gotici lombardi, innestandoli sul tronco giottesco, dopo la trasferta a Firenze, e quindi partecipando al comune destino di tutti i giotteschi, di dare, del maestro, una versione arcaizzante, quasi per uno spirito bizantino di ritorno, con perdita dell’individuazione dei volti, dei corpi, dei gesti. Nelle tavole di Giovanni, qui raccolte quasi al completo, e nel ciclo di affreschi nella Cappella Guidalotti Rinuccini in S. Croce, ottimamente evocata in mostra con l’aiuto di proiezioni, compare il gusto per un’iterazione delle figure, tutte clonate, ripetute, moltiplicate, con posture identiche, con testine possedute dalla medesima inclinazione.
E con un magnifico vezzo dominante, gli occhi a feritoia, stilema che certo deriva da Giotto, ma là è il segno che lo sviluppo maestoso della calotta cranica schiaccia i dati fisionomici, qui è un dardeggiare di lamine acuminate, un lampeggiare di sguardi come stilettate incisive. Viene pure rapidamente evocata con qualche opera un’anima gemella, che negli stessi riti della ripetizione esasperata e conforme ebbe Giovanni, nella persona di Giusto dei Menabuoi.

Corriere della Sera 22.6.08
L'intervista «Veltroni? Chi perde va via senza tragedie»
Parisi e la crisi del Pd: «Bisogna cambiare leader»
di Maria Teresa Meli


Siamo arrivati al ridicolo di un Pd che continua a presentarsi come partito a vocazione maggioritaria, e in Sicilia prende il 12,5 per cento

L'ex ministro della Difesa: io resto, ma nel Pd stanno dissanguando il segretario senza assumersene la responsabilità
«Veltroni sembra Totò quando lo schiaffeggiano: pensa che le sberle degli elettori siano per Prodi»

ROMA — «Ho chiesto a Veltroni di cambiare linea. Sono passati due mesi e la linea del Pd non è cambiata. È evidente allora che a questo punto bisogna cambiare leader», dice al Corriere
Arturo Parisi. «Walter sembra Totò quando lo schiaffeggiano: pensa che le sberle che gli han dato gli elettori siano sempre dirette al governo Prodi... Più tempo passa, più credo nella regola secondo la quale chi perde va via, senza tragedie, per evitare che la crisi di una leadership si trasformi nella crisi del partito».

Arturo Parisi va avanti nella sua battaglia. Anche dopo il diverbio con Veltroni. E dopo le accuse che gli hanno lanciato, eccezion fatta per Marini che lo ha riconosciuto come un avversario interno autorevole benché «ruvido». Quindi Parisi non lascia. Anzi raddoppia e chiede le dimissioni del segretario.
Professore, la vicenda dell'altro ieri è chiusa?
«Quel che è avvenuto è gravissimo, ma era esattamente quello che purtroppo mi attendevo, però, per "tranquillizzarli", voglio dire che non mi arrenderò: continuerò la mia battaglia per la legalità nel partito. Il Pd è stato attraverso l'Ulivo l'obiettivo della mia vita.
No. Non facciano conto sulla mia resa».
Che cosa avrebbe voluto sentire da Veltroni?
«Mi auguravo che, invece di assumere nientemeno che a spartiacque la lettera di Berlusconi a Schifani, confermando la subalternità del governo ombra al calendario e all'agenda del governo sole, ci annunciasse che la campagna elettorale era finita e con essa l'inevitabile menzogna che è implicita nella propaganda, e che era iniziata finalmente la stagione della verità, il momento di prendere sul serio la risposta degli elettori».
E invece niente.
«Dicono che seppure dopo due mesi questa volta Veltroni abbia riconosciuto la sconfitta.
Quale riconoscimento? Al massimo la sua è stata l'inevitabile presa d'atto della sconfitta elettorale. Nulla ci ha detto invece sulla sconfitta politica, niente su Roma, sulla Sicilia, sulle altre amministrative, che dalla Sardegna alla Val d'Aosta sono state anch'esse un disastro: ci ha detto di più sulla sconfitta delle amministrative del 2007. Mi sembrava di essere nella gag di Totò».
Scusi!?
«Sì, quella in cui un signore schiaffeggia Totò chiamandolo Pasquale, e più lo schiaffeggia e più Totò ride. Tanto che quello gli chiede: "Ma come, più io ti meno più tu ridi?" E Totò gli risponde: "E che sò Pasquale io? Volevo vedere dove andavi a finire". Veltroni è così: pensa che gli schiaffi che gli han dato gli elettori siano sempre diretti al governo Prodi. E in questo modo siamo arrivati al ridicolo di un Pd che continua a presentarsi come partito a vocazione maggioritaria, mentre in Sicilia prende il 12,5 per cento».
Che avrebbe detto se avesse preso la parola all'Assemblea?
«Avrei detto che il problema non è la sconfitta elettorale. Quella era inevitabile. E' stata scelta a tavolino nel momento in cui abbiamo deciso di alleggerirci dall'ossessione della quantità delle risposte. Ma il fatto è che non l'abbiamo sostituita con la qualità della proposta».
Si riferisce alla separazione dal Prc?
«Si, per la quantità, alla separazione consensuale con Bertinotti. Ma senza la qualità Veltroni non ha vinto e non vincerà domani né dopodomani. E' questo che fa delle elezioni un fallimento totale».
Non le sembra di essere troppo duro, Professore?
«Serio, non duro. Sì. Lo riconosco. Ho difficoltà a riconoscermi nel clima zuccheroso, buonista e sorridente che ha da sempre caratterizzato la leadership veltroniana. Non avevamo bisogno di Tremonti per riconoscere che il tempo presente è dominato dalla paura. Questo Veltroni ieri lo ha riconosciuto. Quello che tarda a comprendere sono gli elettori che quando ci vedono sorridere non riescono proprio a capire cosa abbiamo da ridere. Ci sono state stagioni nella quali "pensare positivo" era di moda, e bastava copiare alla lettera gli slogan e le forme della propaganda americana. Questa è invece una stagione nella quale c'è bisogno di una guida e di un pensiero che sia almeno serio, se non forte, e comunque nostro».
E quale «pensiero serio» formulerebbe su questo Pd?
«Diciamo che questa è la premessa che mi costringe a riconoscere che purtroppo la formula che finora ho usato non è più sufficiente. Mi illudevo di poter distinguere la leadership dal leader e perciò chiedevo a Veltroni di cambiare linea. Sono passati due mesi pieni e di fronte ai ripetuti avvertimenti che ci vengono dagli elettori e dall'interno del partito la linea non è cambiata. E' evidente allora che a questo punto bisogna cambiare leader».
Che le importa di chiedere che Veltroni se ne vada, visto che dicono che lei uscirà dal Pd e fonderà un suo movimento?
«Si illudono: devono provare a cacciarmi. Non sarò io ad andarmene. So che è questo il loro sogno. Troverò il modo di tenerli svegli. E' bene che ricordino che il Pd è stato per me (come per molti) il mio partito molto prima che per loro».
Quindi, cambiare leader. Non lo chiede nessuno, però.
«La passione per il Pd mi impone come dovere morale di dire in pubblico quello che quasi tutti dicono in privato. Anche a costo di fare la parte del bambino che dice "il re è nudo". Quello che mi scandalizza di più è la slealtà verso Veltroni: preferiscono tutti tirare di fioretto, ferirlo di punta, mettendo nel conto che l'avversario si dissangui a poco a poco. Ma così si dissanguano anche il Pd e la democrazia italiana. E' per questo che son stato d'accordo con Veltroni che voleva aprire la fase congressuale. Apriamola, dissi, per capire chi siamo e dove andiamo. Purtroppo, però, il rifiuto è stato corale. In molti preferiscono lavorare a sfiancare il partito e il suo leader senza assumersene la responsabilità. Più tempo passa, più credo nella regola secondo la quale chi perde va via, senza tragedie, per evitare che la crisi di una leadership si trasformi nella crisi del partito».

Repubblica 22.6.08
Cacciari: "Il Pd è sceso sotto il 30 per cento, servono assise a gennaio su mozioni contrapposte"
di Goffredo De Marchis


"Non c´è alternativa a Walter ma accetti la sfida del congresso"
Si può vincere anche al Nord. Ma oggi la composizione sociale dei nostri elettori è drammatica
Esistono correnti oligarchiche e altre che hanno referenti nella società. Nel partito ci sono solo le prime

ROMA - Non c´era nemmeno lui, nell´assemblea dei tanti vuoti in sala. «Facevo il sindaco. Qualcuno fa politica, a qualcun altro tocca portare la croce», dice con un pizzico di sarcasmo Massimo Cacciari, primo cittadino di Venezia. Ma la sua assenza non significa che anche lui spara contro il segretario del Pd Walter Veltroni, ne contesta la linea, il dialogo con Berlusconi, la leadership. «Io spero che duri a lungo, non vedo alternative. Però torni a decidere, come ha fatto in campagna elettorale. Vada a un congresso su mozioni contrapposte. A gennaio, non dopo le Europee».
Parisi sintetizza: «Dopo gli elettori, sono scappati anche i delegati». È così?
«C´è un rischio di disaffezione e di demoralizzazione. Non tanto per il risultato elettorale che secondo me non è del tutto negativo. Ma il Pd non ha riflettuto abbastanza su questo voto».
Rottura consensuale con la sinistra, disponibilità verso il Cavaliere, governo ombra...
«Ma questo non c´entra un bel niente. Le elezioni dimostrano che non siamo riusciti a convincere della bontà riformista del nostro progetto e non siamo riusciti a superare quello che Ilvo Diamanti chiama il muro di Arcore. La composizione sociale del nostro elettorato è drammatica. Noi perdiamo nelle nuove professioni, nei ceti produttivi, negli operai. Vinciamo un po´ qua e un po´ là, ma i settori dove siamo maggioranza sono insegnanti e professori, aristocrazia operaia, pensionati. E tanti giovani, vero. Ma il dato interessante è che questi smettono di votarci quando finiscono di studiare e cominciano a lavorare. Noi, tra chi lavora, quasi non esistiamo. Eppoi, il Nord: è una questione immensa».
Lei ha il pallino del Nord. Ma il Pd paga pegno dappertutto, basta vedere i dati della Sicilia.
«Il Nord è decisivo. Qui servono linea e struttura del partito. Abbiamo bisogno, ripeto, del Pd federale sennò non saremo mai credibili in zone dove la Lega si muove come sindacato del territorio. Al Nord non servono proconsoli del potere romano, ma dirigenti locali che non si occupino solo di organigrammi. Io qui sono avvertito come un cane sciolto e in politica da soli non si fa niente».
Ma un partito demoralizzato come reagisce alla sconfitta?
«La delusione totale è sbagliata. Semmai direi che Veltroni ha suscitato fin troppe illusioni nella campagna elettorale: era scontato che perdessimo. Il fallimento del governo Prodi si è rivelato pesantissimo e noi lo abbiamo scontato così come abbiamo scontato il rodaggio. Ma un partito che si afferma ben oltre il 30 per cento, che prende più voti della somma di Ds e Dl ottiene un risultato buono da cui partire. Il punto è che non si parte. Anche al Nord puoi vincere. Lo ha fatto Variati a Vicenza. E sa che succede nel Pd? Qualcuno gli dà del no global. A Variati, che è un democristiano doc. Ma andiamo».
Oggi il Pd è sotto il 30 per cento, come dicono i sondaggi?
«Sì, non c´è dubbio. Guardiamo la Sicilia. Ma non solo. In Sardegna abbiamo perso clamorosamente in comuni dove si vinceva da 10 generazioni. E glielo dico adesso: lì perderemo anche le regionali del prossimo anno perché governa uno con la puzza sotto il naso che non ha capito che il traino è la piccola impresa, il capitalismo personale, non la grande industria».
Allora Veltroni dura poco.
«Io spero che duri a lungo, non vedo alternative. A me non interessa che abbia l´appoggio dei gruppi dirigenti, ma dell´elettorato. Deve dividere, deve decidere. Come prima del voto quando ha detto: andiamo da soli. Non vorrei rivedere il film della Bolognina: scelta coraggiosa ma gestita in modo compromissorio. Sarebbe la rovina. Perché sei andato da solo se non continui a decidere? Poi non ci si può lamentare che vengano fuori quelli dell´Ulivo, delle vecchie alleanze... Bisogna scommettere sulle scelte e pagheranno. Veltroni organizzi un congresso con mozioni contrapposte, da fare a gennaio. Altrimenti dopo le Europee le correnti lo impallinano».
Le correnti sono il male assoluto?
«Vanno benissimo quando si misurano sulla vita reale. Se invece servono discutere del ritorno di Prodi o dell´alleanza con Rifondazione allora fanno casino e gratificano solo gli pesudocapi. Esiste un gioco di correnti oligarchico e un altro che ha referenti sociali. Oggi nel Pd c´è solo il primo».

Il Sole 24 Ore Domenica 22.6.08
Visioni del cosmo. Una rivoluzione naturale
Tullio Gregory ricostruisce le elaborazioni filosofiche sul concetto di «natura» nell'Alto Medioevo. Una corrente di pensiero che sarà in crisi nel Seicento con la «caduta del sacro»
di Michele Ciliberto


Speculum naturale si intitola, suggestivamente, questo libro: e va detto che nel titolo esso tematizza con efficacia il nodo di problemi sui quali Tullio Gregory si concentra, svolgendo il filo di una riflessione assai compatta e organica. Quello che gli interessa, in questo volume, è analizzare anzitutto la "rivoluzione scientifica" (è una sua espressione) che si compie tra XII e XIII secolo in Occidente proprio intorno alla concezione della natura, con un netto - e progressivo - distanziamento dalle concezioni di carattere simbolico e allegorico elaborate, sulla scia della patristica, nei secoli dell'Alto medioevo (e a questo proposito Gregory scrive pagine assai efficaci sul tema del "libro" e sul suo complesso - e interessantissimo - modificarsi).
Indicando con precisione la connessione di questo nuovo approccio con fenomeni di ampia portata di ordine sociale ed economico, il volume mostra con acutezza l'emergere e l'imporsi di una nuova concezione della natura - strettamente connessa alla traduzione dei testi di Aristotele e degli arabi che durerà, come egli sottolinea più volte, fino al XVI e XVII secolo, quando essa sarà messa defmitivamente in crisi. È con una lunga spanna della storia del pensiero europeo che questo libro dunque si concentra, con una serie di osservazioni assai fini, tra le quali spiccano quelle sul significato assunto, lungo quei secoli, dall'astrologia nella concezione della natura, dell'uomo e della storia. Credo che sia qui uno dei contributi più importanti del volume. Gregory non si limita, infatti, a sottolineare il peso decisivo delle Meteore aristoteliche ma mostra l'effetto del «generale presupposto della causalità celeste» su ogni piano della realtà, compresa naturalmente la riflessione teologica: «i modi della creazione e gli scenari escatologici, la provvidenza e la libertà umana, la dottrina della conoscenza naturale e profetica, il problema dei temperamenti delle inclinazioni e delle passioni umane, la riflessione sulla storia, sulla successione degli imperi e delle religioni, l'attesa escatologica della Riforma della Chiesa e del trionfo della cristianità alla fine del tempo». L'astrologia - ribadisce Gregory più volte - in questo mondo si configura come una vera e propria "ermeneutica storica", che dà conto di tutti gli aspetti della realtà, sia nel suo corso ordinario che nei momenti di crisi e di trasformazione radicale illuminati, questi ultimi, attraverso la teoria delle "grandi congiunzioni" con cui vengono spiegate nascita e morte delle grandi religioni - da quella ebraica a quella pagana fino a quella cristiana. È una "fonte" significativa, ed è importante averla individuata: Gregory, però - e questo è uno dei punti più interessanti suo lavoro - si preoccupa di illustrare come queste concezioni intrise di necessitarismo si siano variamente, e fecondarnente, intrecciate con posizioni proprie della tradizione cristiana le quali rischiavano di affievolirsi fino a sparire alla luce della nuova concezione dei cieli, e del rapporto tra cieli, tempo e storia. Un solo esempio: secondo Albumasar dopo il cristianesimo (corrispondente alla lex mercurialis), sarebbe sopravvenuta una nuova, e ultima lex, la lex lunae, la quale «significat dubitationem ... ac expoliationem a fide»; ma è proprio questo schema che Ruggero Bacone corregge inserende la figura dell'Anticristo recuperando, da un lato, la "tensione escatologica" e impedendo dall'altro, «la riproposizione della eterna clicità degli eventi, dottrina che pur circolava nel secolo XIII negli ambienti del più rigoroso aristotelismo, come attestano Sigieri di Brabante e la condanna del 1277».
Sono battute del saggio I cieli, il tempo storia, uno dei più belli del volume, nel quale spiccano anche i contributi sullo Spazio come geografia del sacro, sulla Fenomenologia del cadavere e sui rapporti tra Cosmologia biblica e cosmologia cristiana - oltre a quello su Nani sulle spalle di giganti - veramente notevole per erudizione e sapienza espositiva, sulle traduzioni e sul ritorno degli antichi nel Medioevo latino. Sono tutti lavori che mirano a delineare in modi nuovi i «percorsi del pensiero medievale», come recita il sottotitolo del volume. Gregory si sofferma però anche su due altri temi importanti: il rapporto tra pensiero medievale e modernità e la storiografia filosofica sul medioevo tra ottocento e novecento. Sul primo punto è netto: la modernità non si identifica con un processo di secolarizzazione, ma con una "caduta del sacro", a tutti i livelli: dalla concezione dell'uomo (sottratto a ogni forma di primato) a quella della religione (ridotta a impostura), dalla visione della società (colta attraverso lo specchio degli spiriti animali) alla funzione dell'Europa (messa in crisi dalla scoperta del Nuovo mondo e dall'esperienza del "diverso"), fino alla interpretazione dello stesso testo sacro (criticato alla luce della filologia umanistica). Sul secondo tema è altrettanto chiaro: non si può parlare di filosofia medievale, ma di molte filosofie, non di una teologia, ma di molte teologie, tanto da preferire all'uso del termine filosofia quello di "pensiero medievale", anche sotto l'impulso fecondo di Paul Vignaux. Si tratta di una preziosa lezione di metodo, ben applicata nei saggi che costituiscono questo volume, che colpiscono per più ragioni: anzitutto per la salda continuità di una riflessione, come appare chiaro a chi conosce i lavori di Gregory sul platonismo medievale pubblicati negli anni Cinquanta. E poi per l'incessante lavoro di approfondimento al quale continua a sottoporre temi e problemi con cui si è incontrato, per la prima volta,oltre cinquanta anni fa.

Tullio Gregory, «Speculum naturale. Percorsi del pensiero medievale», Edizioni di storia e letteratura, Roma, pagg. 254, € 35,00.

sabato 21 giugno 2008

l’Unità 21.6.08
L’Onu condanna lo stupro, è arma di guerra
Approvata all’unanimità la risoluzione appoggiata da 30 Paesi. Votano sì anche Russia e Cina
di Roberto Rezzo


APPROVATA all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza la risoluzione che chiama tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite a fermare l’odioso fenomeno della violenza sessuale contro le donne nelle aree di guerra. «Oggi è stato finalmente riconosciuto che si tratta anche di un problema di sicurezza nazionale. Non riguarda solo la salute e il benessere delle donne, colpisce profondamente la stabilità economica e sociale dei loro Paesi», sono state le parole del presidente di turno, il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice. Sono presenti i rappresentanti di tutti i quindici Paesi membri del Consiglio, oltre alle delegazioni di sessanta governi invitati come osservatori. Ai lavori ha partecipato il segretario generale Ban Ki-moon. La risoluzione, introdotta dagli Stati Uniti, aveva altri ventinove Paesi come co-sponsor, tra cui l’Italia.
Particolare soddisfazione hanno suscitato negli ambienti diplomatici i voti a favore di Cina e Russia, due dei cinque membri permanenti che in Consiglio di Sicurezza hanno potere di veto su qualsiasi decisione. Nella migliore delle ipotesi ci si aspettava un’astensione. Appena un anno fa avevano sostenuto insieme al Sud Africa che «la violenza sessuale è uno spiacevole effetto collaterale della guerra di cui già si occupano molte agenzie umanitarie. E comunque non un problema che rientri nelle competenze del Consiglio di Sicurezza». Pechino con le Olimpiadi alle porte e sotto i riflettori per la repressione in Tibet, ha voluto lanciare un segnale distensivo ed evitare ulteriore pubblicità negativa. Mosca si è adeguata.
La risoluzione introduce procedure per monitorare il fenomeno e chiede al segretario generale dell’Onu di presentare una relazione al Consiglio di Sicurezza entro dodici mesi.
Il documento sollecita quindi interventi diretti dei governi per prevenire e reprimere il fenomeno della violenza, con ampio mandato di imporre sanzioni contro le nazioni inadempienti. Un sondaggio condotto su un campione di 2mila donne e ragazze in Liberia rivela che dal 1989 al 2003 il 75% è stata vittima di stupro. «La violenza contro le donne è un fenomeno che ha raggiunto dimensioni allarmanti - ha sottolineato Ban Ki-moon - Quando viene adottata una risoluzione con un linguaggio chiaro e forte, le Nazioni Unite possono rispondere con maggiore decisione». Il segretario ha promesso tolleranza zero per i crimini di violenza sessuale perpetrati dal personale Onu.
A margine della seduta, una riunione informale sulla situazione dello Zimbabwe, dove il prossimo 27 giugno si terranno le elezioni presidenziali. La repressione delle opposizioni da parte del regime del presidente Robert Mugabe dà ragione di temere che le consultazioni possano rivelarsi una farsa.
Molti i governi africani presenti all’incontro, assente lo Zimbabwe. Il Belgio ha chiesto una seduta formale del Consiglio di Sicurezza sull’argomento. L’ambasciatore americano Zalmay Khalilzad, presidente di turno dei quindici, ha segnalato che esistono profonde divisioni riguardo alla proposta.

Corriere della Sera 21.6.08
Unanimità Votata la Risoluzione 1820. Ban Ki-moon: «Da parte nostra applicheremo tolleranza zero». Il New York Times: era ora
«Lo stupro è un crimine contro l'umanità»
Il Consiglio di Sicurezza: «La violenza sulle donne usata come tattica di guerra»
Entro il 30 giugno 2009 il segretario generale dovrà presentare uno speciale rapporto e rafforzare i controlli sui caschi blu
di Alessandra Farkas


500.000 le donne violentate nel corso del genocidio del 1994 in Ruanda. Durante la guerra nell'ex Jugoslavia, le donne violate tra Croazia e Bosnia sono state 60 mila. Nel Congo orientale, durante la guerra civile, in alcune aree tre quarti delle donne sono state stuprate Vittime Due congolesi in un centro per il recupero delle vittime di stupri: spesso chi ha subito violenza per vergogna non denuncia i carnefici

NEW YORK — La violenza carnale contro le donne è un crimine contro l'umanità. Lo ha stabilito il Consiglio di Sicurezza dell'Onu che, raccogliendo la proposta Usa, ha approvato all'unanimità la risoluzione 1820, sponsorizzata da oltre 30 Paesi tra cui l'Italia, in cui lo stupro di massa viene definito «una tattica di guerra per umiliare, dominare, instillare paura, disperdere o dislocare a forza membri civili di una comunità o di un gruppo etnico».
Nel documento, definito «storico» da organizzazioni quali Human Rights Watch e Amnesty International, i 15 membri dell'esecutivo Onu chiedono alle parti coinvolte in un conflitto «l'immediata e completa cessazione di tutti gli atti di violenza sessuale contro civili». E «l'adozione immediata di misure per proteggere i civili, comprese donne e bambine, da tutte le forme di violenza sessuale».
La risoluzione chiede anche al segretario generale Ban Ki-moon di presentare uno speciale rapporto entro il 30 giugno 2009 e di rafforzare i controlli sui caschi blu dell'Onu che in passato si sono macchiati di questo crimine in varie regioni del mondo. «Il problema ha raggiunto proporzioni pandemiche — ha detto Ban —. Applicherò la tolleranza zero: se scopriremo nuovi casi non solo i responsabili, ma anche i loro superiori saranno puniti».
Gli stupratori in zone di guerra quali l'ex Jugoslavia, il Darfur, la Repubblica Democratica del Congo, il Ruanda e la Liberia potranno da oggi essere giudicati davanti al Tribunale dell'Aja. Nel preambolo della 1820 si ricorda infatti che nello Statuto di Roma, l'atto costitutivo della Corte Penale Internazionale «è stato incluso un ampio ventaglio di violenze sessuali».
«Il mondo ora riconosce che la violenza sessuale non è solo un problema individuale delle vittime — ha dichiarato il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice, che ha presieduto parte della sessione —. Ma mina la sicurezza e la stabilità delle nazioni». La Rice ha citato la Birmania, «dove i militari violentano regolarmente donne e bambine anche di otto anni». Ma il capo della diplomazia Usa ha taciuto sui tanti casi di stupro che hanno visto coinvolti militari americani in missione all'estero.
Basterà una risoluzione Onu per porre fine ad uno dei drammi più comuni e brutali dell'era moderna? «Il vero problema di questa "guerra nella guerra" è il clima di omertà che la circonda — punta il dito Inés Alberdi, direttrice esecutiva della Unifem- United Nations Development Fund for Women, reduce da un viaggio di ricognizione in Africa —. Il silenzio significa impunità».
In un editoriale di fuoco sul New York Times il columnist Nicholas Kristof ironizza sul ritardo con cui «finalmente l'Onu dedica a questa forma di terrorismo lo stesso sdegno esibito nei confronti della pirateria di Dvd». Sono passati infatti già 15 anni da quando, nel 1993, il mondo si svegliò una mattina, scoprendo che le forze serbe avevano istituito un network di «campi stupro» pullulanti di donne e bambine «schiave».
«Oggi nel Sudan appoggiato da Cina, Sud Africa, Libia e Indonesia, il governo ha trasformato l'intero Darfur in un enorme campo-stupri», incalza Kristof, secondo cui «la capitale mondiale delle violenze carnali è il Congo orientale, dove in alcune aree tre quarti delle donne sono state violentate». «In guerra oggi è più pericoloso essere una donna che un soldato», dice il generale Patrick Cammaert, ex capo delle forze di peacekeeping dell'Onu.
«Lo stupro in guerra è vecchio quanto il mondo — gli fa eco Stephen Lewis, ex inviato Onu in Africa —. Ma solo oggi viene deliberatamente usato come un'arma dagli strateghi bellici, per determinare l'esito dei conflitti». Oltre ad essere «militarmente efficace e privo di rischi», incalza Lewis, «non causa nell'opinione pubblica la stessa indignazione provocata da montagne di cadaveri».
Anche perché le vittime, spesso mutilate e costrette ad una vita da invalide, si vergognano troppo per denunciare i carnefici.

Repubblica 21.6.08
Prigioniere della vergogna assassinate con lentezza
di Slavenka Drakulic


Ricordo molto chiaramente la prima donna stuprata che ho conosciuto. Era nell´autunno del ‘92, vicino a Zagabria. Era una musulmana di Kozarac, in Bosnia. Dopo alcuni mesi passati in un campo di detenzione, arrivò a Zagabria insieme a un gruppo di profughi. Selma (non è il suo vero nome) era una donna sui trentacinque anni, con capelli castani corti e occhi azzurri. Mi raccontò la sua storia a voce bassa, quasi sussurrando: si trovava nella sua casa con i due figli piccoli e la madre quando un gruppo di paramilitari serbi entrarono nel suo cortile. Dissero che cercavano armi. Ma non c´era nessun´arma, e neanche oro, perché è questo quello che cercavano. Arrabbiato, un uomo l´afferrò e la spinse in camera da letto. Poi fu raggiunto dagli altri. «Poi mi fecero quello», mi disse semplicemente Selma, abbassando lo sguardo a fissare le mani. «Dopo, per molto tempo non riuscii a guardare in faccia i miei figli… Mi lavavo, mi lavavo e mi lavavo, ma il loro odore non se ne andava. Pensi, me lo fecero sul mio letto di sposa», mi disse. Questa volta avvertii una traccia di disperazione nelle sue parole. Non piangeva, non più. Ma provava vergogna e la vergogna non l´abbandonava, dovette imparare a conviverci, e dovette farlo anche il marito. E la società? Alle circa 30.000 vittime di violenze sessuali in Bosnia non è stato riconosciuto lo status di vittime di guerra.
Mentre lavoravo al mio libro "Non avrebbero mai fatto male a una mosca" sui criminali di guerra dei Balcani sotto processo al Tribunale penale internazionale per l´ex Jugoslavia dell´Aja, mi imbattei nel "caso Foca". Si trattava di tre serbi che avevano tenuto prigioniere delle ragazze musulmane, torturandole, riducendole a schiave sessuali e stuprandole. Ma quegli uomini non capivano davvero perché li stessero processando. Uno di loro si difese dicendo: «Ma avrei potuto ucciderle!». Dal suo punto di vista, lui le aveva effettivamente risparmiate. Stupro? che razza di crimine è a confronto dell´ammazzare? È un caso molto importante, perché la magistrata dello Zambia, Florence Mumba, il 22 febbraio 2002 pronunciò contro di loro una sentenza di colpevolezza. Dragoljub Kunarac, Radomir Kovac e Zoran Vukovic furono, nella storia giudiziaria europea, i primi uomini condannati per tortura, riduzione in schiavitù, offese alla dignità umana e stupro di massa di donne musulmane bosniache giudicati come crimini contro l´umanità. La sentenza riconobbe che la violenza sessuale è un´efficacissima arma di pulizia etnica. Oltre a disonorare le donne violentate, umilia i loro uomini, che non sono stati capaci di proteggerle. Per questo spesso le donne erano deliberatamente violentate sotto gli occhi dei mariti. La violenza sessuale distrugge l´intera comunità, perché il marchio d´infamia rimane con loro, non dimenticato, non perdonato.
Al processo del caso Foca, c´era una testimone particolare, madre di una ragazzina di 12 anni presa prigioniera da Kovac. Kovac, un uomo sui 40 anni, la stuprò e poi la vendette a un soldato per cento euro. Da allora, nessuno ha più rivisto la ragazza. La madre venne per guardare in faccia il criminale e testimoniare contro di lui. Ma quando si sedette sul banco dei testimoni, non uscì neanche una parola dalla sua bocca. Solo un suono, un ululato insopportabile di un cane ferito a morte.
Il voto al Consiglio di sicurezza dell´Onu che definisce lo stupro un´arma di guerra non le restituirà sua figlia, nessuna risoluzione lo potrà fare. Ma è un momento storico perché finalmente la violenza sessuale è riconosciuta come un´arma e potrà essere punita. Nessun uomo potrà difendersi dicendo che avrebbe potuto uccidere una donna che ha «semplicemente» stuprato, perché lo stupro è una sorta di lento assassinio.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

il Riformista 21.6.08
Far la guerra con il corpo delle donne
di Claudia Mancina


D agli antichi romani ai serbi, passando per i vichinghi, i lanzichenecchi, e i liberatori sia russi che americani della II guerra mondiale, gli stupri di massa da parte degli eserciti invasori sono sempre stati un aspetto ineliminabile della guerra, quando questa dilaga nel territorio nemico; e tanto più nelle guerre moderne, nelle quali il coinvolgimento delle popolazioni civili è totale. Come hanno sottolineato alcune storiche, si esprime in quest'atto orribile non solo la violenza diretta alla donna come individuo, ma anche una violenza metaforica, e tuttavia concretissima, verso la patria del nemico: il corpo femminile da violare, da occupare come suolo patrio, per umiliare il nemico nel modo più tremendo, quello sessuale. Tanto che stupri di massa sono avvenuti anche al di fuori della guerra (e della condizione di violenza generale che le è propria e che ad alcuni pare un'attenuante), come nell'occupazione francese della Ruhr dopo la I guerra mondiale, studiata da Emma Fattorini in un saggio compreso in un fortunato volume su «Donne e uomini nelle guerre mondiali», curato da Anna Bravo e appena ripubblicato da Laterza.
La risoluzione delle Nazioni Unite. Un atto orribile dunque, come è orribile ogni stupro, ma anche di più, perché canalizza nella violenza sessuale questo sovraccarico di significati aggressivi, rendendola se possibile più violenta. Eppure un atto che è spesso considerato come un «normale» atto di violenza, non più grave dei tanti che vengono compiuti durante una guerra. E che tutti vengono considerati inevitabili, e quindi quasi giustificati, dai realisti politici che pensano che sia sciocco pretendere di porre limiti morali alla guerra. Non c'è da stupirsi che sugli stupri spesso cali il silenzio, complice anche il sentimento di vergogna e di umiliazione che la popolazione così ferita scarica sulle donne, vittime due volte. Per questo la decisione del Consiglio di sicurezza dell'Onu di considerare gli stupri come una vera e propria «arma di guerra» è un passo fondamentale sulla strada del riconoscimento dei diritti umani. I soliti realisti diranno che si tratta di parole vuote, di buone intenzioni prive di effettualità. Non è così: la risoluzione implica che i responsabili di stupri siano perseguiti davanti al tribunale internazionale dell'Aja, e quindi aggiunge questo ai crimini di guerra che quel tribunale è competente a trattare.
Messaggio etico. Ma più ancora del tribunale dell'Aja conta il messaggio etico che viene diffuso con questa risoluzione. Dire che gli stupri sono un'arma di guerra significa affermare che non possono essere considerati come casualties, come danni collaterali, quali sono le vittime civili dei bombardamenti, ma rientrano a pieno titolo nell'intenzione e nella tattica della guerra, con una finalità propria, che è quella di umiliare e ferire la popolazione in quanto tale, e possono essere parte di un genocidio. Chi ha assistito alle terribili vicende della guerra bosniaca non può certo dubitare che sia così. E nessuno che abbia presenti le atrocità commesse in questi anni in Africa e in altre parti del mondo può dubitare che punirne i responsabili, e rendere un po' meno terribile la guerra, sia un obiettivo tutt'altro che secondario. Con buona pace dei soliti realisti.

l’Unità 21.6.08
«Il mito religioso ha sconfitto la politica»
di Bruno Gravagnuolo


Totalitario è innanzitutto un «metodo» dell’azione politica novecentesca
I conflitti globali generano movimenti emozionali e tesi al Sacro

PARLA EMILIO GENTILE Che cosa fu il totalitarismo e chi sono i suoi eredi? Risponde lo storico del fascismo dell’Università di Roma che pubblica una nuova raccolta di saggi dedicati all’Italia

Discutere con Emilio Gentile è sempre arduo e appassionante. Storico di fama internazionale, molisano, 62 anni è studioso «tosto» e dai saldi convincimenti. Maturati alla scuola metodologica di Renzo De Felice (del quale però non si considera allievo). E tra i suoi chiodi fissi, in questi decenni, ve ne è uno in particolare: la natura «totalitaria» del fascismo. Sostenuta contro le «sdrammatizzazioni» all’italiana del regime. E anche contro il giudizio di Hannah Arendt, che del fascismo faceva un regime «autoritario», forse e solo dopo il 1938 con tratti totalitari. In questi giorni esce un nuovo libro di Gentile, in sintonia con questa discussione: La via italiana al totalitarismo (Carocci, pp. 414, Euro 26,50). Con saggi editi e inediti, che corrispondono all’intero percorso «post-defeliciano» dello storico. E nel quale ricordiamo per Laterza libri come La Grande Italia, il mito della nazione; Fascismo, storia e interpretazione; La democrazia di Dio, sugli Usa neocon; e il più recente Fascismo di pietra. La raccolta per Carocci è l’occasione giusta per riaffrontare la questione «totalitaria. Per verificare quanto il totalitarismo (metodo o sistema?) sia lontano. O se invece sopravviva in qualche forma, dove e fino a che punto.
Professore da anni lei insiste sul carattere «totalitario» del fascismo. Se quel regime sia stato totalitario o meno, potrebbe apparire questione accademica. Perché è ancora importante venire in chiaro su questo punto?
«Quello del totalitarismo è problema decisivo per capire il 900 e la società di massa. Assieme ai rischi totalitari che in tale società allignano, e che minacciano le democrazie parlamentari. Per di più il tema è stato individuato in Italia dalla cultura antifascista. Prima ancora del regime a partito unico. E con la denuncia e l’individuazione di un certo metodo politico, al di là dei proclami e dell’ideologia fasciste. Metodo specifico di conquista e di gestione del potere politico, nei pochi anni che vanno dalla nascita del Pnf alla soppressione totale delle libertà».
Ma il totalitarismo è una specifica possibilità insita nella democrazia parlamentare, oppure riguarda in generale gli sconvolgimenti mondiali del 900?
«Non faccio una teoria, una tipizzazione. Traccio un bilancio della situazione nei primi decenni del secolo trascorso. Ebbene, a differenza che in Russia, in Europa all’indomani della prima guerra mondiale, veniva proclamato il trionfo della democrazia parlamentare. Come mai dunque, nell’Italia democratica, era sorta la novità fascista? Da Amendola, Sturzo, Salvatorelli e Basso proviene in quegli anni l’indicazione a studiare un inedito fattore di organizzazione delle masse. Basato non più sulla razionalità, ma sul “mito”, peculiarità che il fascismo detiene in modo assoluto. Poiché, a differenza degli altri movimenti politici - non privi di elementi mitologici - il fascismo si richiamava espressamente al mito, e al suo ruolo rigeneratore. Contro la ragione e in nome della forza, oltre che del mito».
Concezione nichilistica del mito quasi come gioco?
«Non nichilistica, visto che il fascismo si concepiva in positivo come movimento di rigenerazione, in un’Europa giudicata decadente e corrotta a causa della democrazia, del liberalismo e del socialismo. Nel fascismo c’è un’affermazione contro qualcosa di negativo».
Il nichilismo può essere affermativo e culminare nell’adesione al mito arbitrariamente proclamato...
«Certo, chi afferma il mito finisce col crederci. Col credere nella potenza, nell’Impero e nella rigenerazione totale. I fascisti sono gli eredi di tutta la cultura irrazionalitica di fine 800. E pertanto accusano la democrazia di essere immorale, fintamente razionale, a fronte dell’intima verità vitalistica e irrazionale dell’essere umano. E qui il ruolo decisivo di un certo Nietzsche, che finisce con l’ispirare una sorta di brutale realismo della forza istintiva e creatrice. Insomma, un realismo che “smaschera” l’umanesimo razionalista e le sue giustificazioni morali».
Realismo, smascheramento, volontarismo. Qual è allora la differenza col bolscevismo leninista?
«Differenza di fondo. Perché il bolscevismo, benché fortemente caricato di mito, continua a concepirsi sulla base di una concezione “scientifica”. Che attribuisce all’uomo, in quanto essere sociale, il carattere della razionalità. Da un parte c’è chi fa leva sul mito, come ingrediente irrinunciabile dell’umanità. Dall’altra, chi invece critica la “falsa coscienza” delle mitologie. In base alla scientificità marxista, in grado di oltrepassarle. E su questo c’è una continuità tra illuminismo, liberalismo e comunismo».
Abbiamo evocato il discrimine. Ma quali sono le analogie totalitarie tra fascismo e comunismo?
«E qui torniamo al totalitarismo. A parte le differenze di contenuto sociale e culturale, quel che è importante sottolineare sono le analogie di metodo. Ed è di “metodo totalitario” che occorre parlare, non già di regimi totalitari. Il totalitarismo non è un modello del quale verificare di volta in volta la corrispondenza a certi contenuti. Per cui si possa dire una volta che quel regime soddisfa il modello, e un’altra volta no. Il punto non è se il fascismo, il nazismo e il comunismo si siano avvicinati alla “definizione”, o fino a che soglia, se nei fatti o solo nelle intenzioni. Questo modo di ragionare ci porta fuori strada. La strada giusta è un’altra: è il totalitarismo inteso come metodo. Metodo di conquista e gestione monopolistica del potere da parte di un partito unico. Al fine di trasformare radicalmente la natura umana attraverso lo stato e la politica. E tramite l’imposizione di una concezione integralistica del mondo. Con questo identico metodo, c’è chi è proteso all’Impero e al dominio globale, ancorati ad una comunità latina mitica. Chi è volto al dominio mondiale della razza ariana e germanica. E chi infine lotta per il comunismo internazionale, e per l’estinzione dello stato».
Scorge reviviscenze o eredità di questo «metodo» nel contesto del mondo contemporaneo?
«Sono molto cauto nella comparazioni col presente. E nelle riattualizzazioni di un concetto - il totalitarismo - nato in un ben preciso contesto, ormai alle nostre spalle. Non si possono più immaginare partiti unici animati dalla scopo di rigenerare per intero l’uomo. Anche i residui regimi comunisti si sono infatti laicizzati. E nemmeno si può parlare di totalitarismo o di fascismo, a proposito dei regimi islamici o del fondamentalismo. Sarebbe un anacronismo. Anche perché i fondamentalismi sono religiosi. Laddove i fascismi erano secolari, e tentavano di annullare o di incorporare la religione nelle loro mitologie laiche. Al più i fondamentalismi hanno rubato qualcosa ai totalitarismi, utilizzandone certe tecniche, ma pur sempre in un registro religioso. Le democrazie dal loro canto sono vaccinate, e difficilmente potrebbero ripiombare in dinamiche totalitarie. Il nuovo rischio semmai è costituito da due fattori. Il rifiuto del conflitto, tipico di una società moderna e immersa nella globalizzazione: con il contraccolpo identitario ed etnico. E poi la ricerca di mitologemi salvifici, per combattere l’insicurezza identitaria e conflittuale».
A che tipo di fuga nel mito si riferisce? Mito politico, mito religioso o entrambi?
«Al ritorno massiccio alla militanza religiosa. Che non è solo riscoperta dell’esperienza vissuta del divino. Bensì desiderio di riportare la società ad una unità religiosa totalizzante. Per trovare nella religiosità i fondamenti della vita civile. E ciò riguarda sia l’Europa che l’America. Secondo moduli che ripercorrono a contrario le movenze del fondamentalismo islamico».
È il sogno degli atei devoti e dei «teocon» tra Europa e Usa?
«Nono proprio e non solo. Specie i primi sono piuttosto dei machiavellici. Che dicono: “la religione ci serve per garantire l’ordine”. Quanto ai teocon, Usa, anch’essi proclamano l’utilità politica di Dio. E solo alcuni sono credenti. Mentre invece Bush jr è un vero credente, un cristiano rinato. Ecco, proprio questa ambiguità rende molto difficile comparare i miti del passato a quelli del presente. Fascismo, comunismo e nazismo si autodefinivano in modo molto chiaro. Oggi dobbiamo parlare di “movimenti emozionali”, tesi a una risacralizzazione della vita collettiva, e non di totalitarismo. La novità politica sta nel voler restituire potere sulla vita civile alle religioni tradizionali. Non già nel professare mitologie di massa secolari. E si tratta di una tendenza mondiale, non soltanto italiana o euro-americana. Basti pensare in America latina ai movimenti “nepentecos-
tali”, che non sono la vecchia Teologia della Liberazione di una volta, ma si propongono come alternative totali di vita. Comunitarie, e in definitiva anche politiche».

l’Unità 21.6.08
La Costituzione? Un monumento di sobrietà e di eleganza
di Marco Innocente Furina


SESSANT’ANNI DOPO Tullio De Mauro, Giulio Andreotti, Emilio Colombo e Michele Ainis: tutti d’accordo, la Carta è ancora un testo chiaro ed efficace

Si parla sempre di riformare i 139 articoli ed ora sia a destra che a sinistra sembrano riscoprirne il valore

Antonio Cassese in un’intervista «È come una miniera, scavando si trovano pepite di saggezza»

La sua forza è la semplicità del testo comprensibile anche da un bimbo delle elementari

Quando nel 2006, alla vigilia del referendum confermativo sulla riforma costituzionale voluta dal governo Berlusconi, alla costituzione della Repubblica fu assegnato il premio Strega, qualcuno storse la bocca: è un premio letterario dato con un evidente significato politico. Si sbagliavano. Se i legislatori dell’Italia repubblicana infatti avessero seguito l’esempio dei padri costituenti, forse oggi non ci sarebbe bisogno di un ministero per la semplificazione legislativa. Meuccio Ruini, presidente della commissione dei 75, l’organo incaricato di elaborare il testo base della futura Legge fondamentale, contrariamente a certi azzeccarbugli di oggi, aveva le idee chiare: «La costituzione si rivolge direttamente al popolo e deve essere capita». Ne è scaturito «un piccolo miracolo linguistico» che per eleganza e semplicità si fa ammirare ancor oggi. Anche perché le innovazioni proposte non sempre sono state all'altezza del testo originario. Un esempio? Il 70, un articolo chiave della nostra architettura costituzionale è di appena nove parole: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere». Punto. Ecco invece l’incipit dello stesso articolo secondo la riforma proposta al vaglio degli elettori due anni fa: «La camera dei deputati esamina i disegni di legge concernenti le materie di cui all’art 117, secondo comma, ivi compresi i disegni di legge attinenti ai bilanci ed al rendiconto consuntivo dello Stato, salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo… E cosi via per 113 righe. Tutto chiaro, no?
Ecco perché a distanza di sessantanni la costituzione ci appare ancora un «monumento di sobrietà e di eleganza». Una definizione su cui si sono trovati d’accordo i senatori a vita, Giulio Andreotti e Emilio Colombo, il linguista, Tullio De Mauro e il costituzionalista, Michele Ainis, coordinati dal giornalista di Repubblica, Sebastiano Messina, riuniti in convegno per confrontarsi su il linguaggio della costituzione.
Un testo breve, chiaro, efficace quello della Carta. Appena, «trenta cartelle per spiegare quello che deve essere un paese», ha detto Tullio De Mauro, che in uno studio di un paio di anni fa ha messo in luce lo sforzo sintesi e trasparenza semantica fatto dai costituenti: 139 articoli composti da 9369 parole. Repliche di 1397 lemmi. Di cui 1002 appartengono al vocabolario di base della lingua italiana. Comprensibili da tutti, anche da un bambino delle elementari. Non che avessero scelta i 556 membri dell’assemblea costituente: negli anni successivi alla guerra, quasi il 60 per cento degli italiani era analfabeta, e molti si esprimevano esclusivamente in dialetto. Ecco allora, periodi brevi, non superiori alle venti parole. Una chiarezza che ha un debito che non t’aspetti. «I costituenti - afferma De Mauro - avevano ancora in mente l’incisività delle formule mussoliniane». Del giornalista Mussolini.
Uno strano destino quello della Costituzione italiana. Da un quarto di secolo non si fa che parlare di una sua riforma, talvolta radicale, e ora tutti, destra e sinistra, sembrano riscoprirne il valore e la lungimiranza. «La costituzione è come una miniera: scavando si trovano pepite di saggezza», afferma il docente di diritto internazionale, Antonio Cassese, in Salviamo la Costituzione italiana (Bompiani), libro intervista di Dino Messina. Un testo utile e intelligente, quello del giornalista del Corsera, che affronta con costituzionalisti e politici (Andreotti, Tremonti, Violante, Sartori, Quagliarello, Bassanini, Carovita di Toritto, Margiotta Broglio, Cassese, Ichino, Onida), uno dei temi più qualificanti della legislatura che si è appena aperta e che non a caso è stato indicata come «costituente». Ne emerge, al di là dei distinguo su alcuni punti specifici, un sostanziale riconoscimento della validità dell’impianto della Carta del 48. Andreotti la definisce «un mobile antico di grande valore»; Violante propone di «metterla in sicurezza», con la riforma dell’art. 138; per Sartori bastano «due correzioni» in tema di poteri del Premier; un’idea condivisa anche da Bassanini, che però considera la Carta «straordinariamente moderna». Dopo le ubriacature della seconda Repubblica, quando si trattava la Costituzione con un ferro vecchio di cui disfarsi il prima possibile, oggi il clima è cambiato.
Spiace semmai constatare che nessuno degli intervistati senta il bisogno di proporre qualche novità coraggiosa: come abbassare il quorum per il Referendum, oggi messo fuori gioco dalla tattica dell’astensionismo, o consentire anche alle opposizioni di istituire commissioni di inchiesta. Allora, forse ha ragione Tremonti, quando cita il paradosso di Sieyés: «Il potere costituito non è mai costituente».

l’Unità 21.6.08
Tre emergenze a sinistra
di Pietro Folena


Occorre, a fronte dell’afasia delle opposizioni parlamentari e dei rischi di autismo di quelle extraparlamentari, prendere in mano la bandiera di un’azione
di difesa di diritti oggi minacciati

Al Piccolo Eliseo, domenica mattina, anziché andare al mare, in molte e in molti della sinistra diffusa e dispersa ci ritroveremo in un’assemblea promossa da associazioni e movimenti della sinistra. Vogliamo lanciare un messaggio positivo: la sinistra del fare.
Vengo da un’educazione, e da un’esperienza politica, che ha dato molta importanza al dire. Le parole sono pietre, si ripeteva in anni in cui gli eccessi verbali formavano odio nel senso comune. E oggi si potrebbe dire lo stesso, in quest’Italietta malata di futuro, incapace di sognare, che non crede più che la legge sia eguale per tutti, che vede scivolare pericolosamente in giù l’asticella delle garanzie democratiche. Siamo malati, anche noi; e la sinistra, con le sue idee e con le sue emozioni, è gravemente malata.
Dov’è finita l’Italia che reagì con un sussulto democratico imponente alla sconfitta, nel 2001, e alle prime leggi ad personam ben meno inquietanti di quelle erga omnes di oggi? Dove sono il popolo di Genova, e la moltitudine altermondialista che riproposero il tema di una trasformazione di civiltà profonda e radicale? Dov’è quella Cgil - impegnata oggi nei suoi equilibri interni e incerta sulla propria strategia - che divenne, col quadratino rosso, l’ombrello popolare di un avvio di ricostruzione di una tensione democratica e di valori di libertà, eguaglianza e fraternità?
È evidente che un cambiamento così repentino, nella società prima che nella politica, si spiega solo con un’analisi più profonda sui cambiamenti materiali e soprattutto sugli orientamenti culturali della società italiana, presenti già in quell’epoca. Ma soprattutto con la totale inadeguatezza della risposta politica che la sinistra e l’Unione fornirono a quelle domande collettive nel 2006 e durante il governo Prodi.
Oggi si paga pegno. La ricostruzione è un processo lungo. La destra ha trovato nuove leadership morali e politiche, a partire dalla rottura radicale, rispetto a Papa Giovanni Paolo II, rappresentata da Ratzinger (la passeggiata con Bush nei Giardini del Vaticano è un emblema del potere nella contemporaneità). Noi non possiamo guardare solo a noi stessi, girando le punte dei nostri pollici. La sinistra, con la stagione dei congressi, rischia la scissione dell'atomo. La vera scissione, con la vita degli operai, col popolo, coi giovani, è già avvenuta, e vi è da colmare un fossato gigantesco.
Nel Pd si stenta a vedere una riflessione di respiro, su ciò che è avvenuto e soprattutto sul lavoro da compiere. Se vogliamo pensare a un’Epinay italiana, che coinvolga le culture socialiste, comuniste, femministe, dei diritti civili, radicali, altermondialiste, pacifiste, non si può non immaginare un processo radicalmente diverso da quelli visti negli ultimi anni. Che sia animato da umiltà e coraggio.
Personalmente - pensando che non esista alcuna scorciatoia ravvicinata che risolva questo problema - avverto ora tre necessità urgenti. La prima, è quella della battaglia culturale. Si tratta di ripartire persino dai fondamenti: le idee di eguaglianza e quelle di libertà, i valori della democrazia. Partendo dalla formazione alla politica dei giovani, dal coinvolgimento del lavoro culturale, per lo più precario, delle scuole, delle università, dei centri di ricerca e di cultura, dei produttori di arte, scienza, sapere. La seconda è quella di dotarsi di nuovi strumenti di diffusione di queste idee, dalla produzione di format e di contenuti tv, con la rivoluzione digitale in atto, alle enormi potenzialità nell’uso libero e non proprietario della rete. La terza è quella, appunto, del fare, su cui domenica metteremo l’accento. Fare sinistra: costruendo mutualismo, associazionismo politico, difesa di interessi concreti (salario e contrasto al carovita, mutui, casa, lotta al precariato, beni comuni, università popolare, corsi di cultura); aprendo nel territorio le case della sinistra, luoghi non partitici, in cui possano vivere famiglie politiche diverse, e si possano ricostruire elementi di comunità attorno a valori democratici.
Ma soprattutto occorre - a fronte dell’afasia delle opposizioni parlamentari e dei rischi di autismo di quelle extraparlamentari - prendere in mano la bandiera di un'azione, qui ed ora, di difesa di diritti e di interessi oggi gravemente minacciati. Per questo, proporremo a tutti e a tutte, di fare tre grandi campagne d'autunno: la raccolta di firme per un referendum abrogativo della legge 30, quella per una legge di iniziativa popolare per le coppie di fatto, una petizione contro il ritorno al nucleare e a favore dell’opzione radicale per le energie rinnovabili.
Insomma: a proposito di parole, pur diffidando dagli eccessi linguistici esterofili di questi tempi, torna in mente l’imperativo di quando eravamo più giovani: «Do it!», fallo!
Indipendente di sinistra
www.pietrofolena.net

l’Unità 21.6.08
Perché lascio il Pdci
di Nicola Tranfaglia


Dopo le elezioni, il Pdci ha fatto una scelta strategica che non mi trova affatto d’accordo: puntare sull’unità dei comunisti piuttosto che su un nuovo progetto di costruzione della sinistra unita

Dopo poco più di due anni ho lasciato il Partito dei comunisti italiani. Mi è dispiaciuto doverlo comunicare al segretario dopo una discussione che ci ha visti su posizioni diverse e, per certi versi opposte, sulla strategia da intraprendere dopo la disfatta elettorale e politica di aprile. E vorrei spiegarlo ai lettori de l’Unità che più volte mi hanno scritto anche nelle ultime settimane, dichiarandosi d’accordo o, a volte, polemizzando con miei articoli su questo giornale.
Nel 2005 accettai l’ipotesi di una candidatura nel Pdci alle imminenti elezioni politiche sulla base di tre punti essenziali: la lotta al berlusconismo che era al governo da quattro anni e stava trasformando, ma in maniera negativa, l’Italia; l’alleanza di centro-sinistra guidata da Romano Prodi; la difesa della costituzione repubblicana aggredita dalla destra di governo.
Nei due anni di presenza in Parlamento ho lavorato con lo spirito e le parole d’ordine appena citate. Qualche volta ho dissentito dalle scelte del governo Prodi sulla questione sociale, sugli accordi con il centro-destra, sulla politica estera. Ma non mi sono mai sognato di mettere in discussione il sostegno al governo Prodi o la rottura dell’alleanza di centro-sinistra, unica barriera ancora oggi ipotizzabile contro il ritorno di Berlusconi e l’assunzione invece di un cammino diritto verso un’autentica rivoluzione democratica.
Sono stato quindi deluso dalla direzione che ha assunto il Partito democratico guidato da Walter Veltroni che, nella campagna elettorale, ha attaccato soprattutto la sinistra, illudendosi di prendere così voti al centro e di vincere lo scontro con Berlusconi. Conosciamo i risultati di una simile strategia: Berlusconi ha vinto con nove punti di distacco e la sinistra di cui ho fatto parte non è più presente in parlamento.
Peraltro anche la sinistra, a mio avviso, ha sbagliato alle elezioni, costruendo un cartello elettorale e non un nuovo soggetto politico e mostrando di aver perduto i contatti profondi e continui con il suo popolo, che pure è parte importante della società italiana.
Dopo le elezioni, il Partito dei comunisti italiani ha fatto una scelta strategica che non mi trova affatto d’accordo: puntare sull’unità dei comunisti piuttosto che su un nuovo progetto di costruzione della sinistra unita. Di qui pericoli di settarismo e di isolamento piuttosto che sforzi fecondi per aprirsi alla società e alle altre forze di opposizione, a cominciare dal Partito democratico e dall’Italia dei Valori.
Chi scrive ritiene, al contrario, che sia necessario cominciare proprio da un nuovo rapporto più intenso e diretto con gli elettori, con i gruppi sociali interessati all’opposizione e contrari alla ulteriore berlusconizzazione del paese e con le forze politiche che lo rappresentano e che hanno raccolto quasi il quaranta per cento dei voti nelle ultime elezioni.
All’interno di queste forze politiche, la volontà di difendere la Costituzione repubblicana e la disponibilità a un’alleanza più larga, se non sbaglio, esistono ancora in contrasto a volte con i propri gruppi dirigenti e restano per me fondamentali.
A me pare che oggi, di fronte all’attacco riuscito della destra, in Italia come in Europa, che miete successi elettorali dovuti alle contraddizioni della globalizzazione e alla sterilità dei progetti di governo della sinistra, sia urgente promuovere alleanze assai larghe, capaci di mobilitare, non per via ideologica ma per via programmatica, gli interessi e i sentiementi colpiti dalla deregulation berlusconiana.
Non solo comunisti (o presunti tali) ma liberali e democratici, socialisti e radicali, tutti quelli che vogliono difendere la costituzione repubblicana e lo stato di diritto di fronte alla concezione patrimoniale e personalistica della politica che è propria non solo del Cavaliere di Arcore ma di tanti protagonisti della politica attuale, soprattutto a destra.
Spesso a sinistra si dice che nessuno è contrario a larghe alleanze ma di fatto queste non si fanno perché la borghesia parassitaria come quella produttiva nel nostro Paese si ritrova tutta intorno a Berlusconi e al suo partito. Mi pare che si tratti di una diagnosi semplicistica e poco realistica: negli ultimi quindici anni le cose non sono andate sempre così e la sinistra ha commesso errori assai gravi che hanno provocato in più occasioni la riscoperta e il ritorno di Berlusconi, quando era già in difficoltà anche nella sua coalizione.
Il problema a me pare, piuttosto, quello di coerenza e rappresentatività effettiva delle classi dirigenti democratiche italiane in grado di mostrare, con i fatti, la loro identità come alternativa al populismo mediatico. Non possiamo dire, per l’esperienza degli ultimi quindici anni, che questo sia emerso con chiarezza e continuità. Al contrario si sono spesso verificati contraddizioni e ritorni all’indietro che hanno favorito i ritorni e i colpi di coda degli avversari, più unitari di noi, e pronti sempre a sfruttare le dispute ideologiche e personali frequenti nel centro-sinistra.

l’Unità 21.6.08
Una festa dei partigiani per i «resistenti» di oggi
Musica, stand e... democrazia: ai Campi Rossi di Gattatico il primo festival dell’Anpi. In arrivo Veltroni
di Stefano Morselli


GLI INGREDIENTI sono quelli consueti nelle feste popolari: spettacoli, incontri, ristoranti, stand assortiti. Ma è del tutto inedito l’evento nel suo insieme. Infatti
quella che da ieri e fino a domenica va in scena nel podere e nel casolare che furono della famiglia Cervi, ai Campi Rossi di Gattatico – ora sede di un moderno museo della Resistenza e del mondo contadino – è la prima festa nazionale organizzata dall’Anpi nei suoi oltre sessant’anni di esistenza. «Democrazia e antifascismo – Democrazia è antifascismo» è lo slogan scelto per sottolineare un concetto che dovrebbe essere scontato, ma che l’Anpi teme possa invece diventare sempre più evanescente nell’Italia di oggi. «Un’Italia nella quale – avverte Tino Casali, presidente nazionale dell’associazione – si moltiplicano i segnali di ritorno in campo del fascismo, pur mascherato in forme diverse dal passato». Anche per questo i partigiani, che sono gente ancora tosta ma in età ormai avanzata, hanno pensato di spalancare le porte a nuove generazioni che la Resistenza non hanno potuto farla per ragioni anagrafiche, ma ne condividono i valori e sono impegnate in altre «resistenze» dei giorni nostri. Come diceva Alcide Cervi, padre dei sette fratelli fucilati dalle brigate nere nel dicembre del 1943, «dopo un raccolto ne viene un altro». E dunque, un paio d’anni fa, all’ ultimo congresso, l’Anpi ha modificato il proprio statuto, ha cominciato ad iscrivere anche giovani e giovanissimi. Proprio in quel momento è nata l’idea della festa nazionale, alla cui ideazione e organizzazione ha lavorato proprio un gruppo di giovani appositamente costituito. La manifestazione ai Campi Rossi, luogo simbolo della memoria, assume anche il significato di un passaggio delle consegne a una nuova leva di «resistenti». Lo sottolinea Armando Cossutta, da giovanissimo combattente nelle Sap, membro della direzione Anpi: «In una situazione politica pesante, l’Anpi può rappresentare un forte punto di riferimento». Ieri la cerimonia inaugurale con la musica dei Gang, che hanno dedicato le loro canzoni a Maria Cervi, figlia di uno dei sette fratelli, a sua volta scomparsa l’anno scorso. Messaggi di adesione sono arrivati, tra i tanti, da Scalfaro e da Ciampi, mentre Napolitano ha concesso il suo alto patronato. Nel fine settimana, insieme a decine di autobus provenienti da tutta Italia, sono attesi numerose personalità della politica della cultura, tra le quali Veltroni, Vendola, Rita Borsellino, don Ciotti. Sono in programma laboratori sulla Costituzione (con Domenico Gallo, Nicola Occhiocupo, Alessandro Pizzorusso), sulla comunicazione della memoria (con Bice Biagi e Loris Mazzetti), sull’antifascismo vecchio e nuovo, sul ruolo delle donne nella Resistenza. Il cartellone degli spettacoli prevede oggi Mauro Sarzi, Sine Frontera, Mercanti di Liquori, Gasparazzo; domani sarà la volta di Ivana Monti con le mondine di Novi e dei Sonnebrille.
Info: www.anpi.it

Corriere della Sera 21.6.08
Il dilemma dei democratici
Saper fare l’opposizione
di Giovanni Sartori


L'opposizione muro contro muro, sempre, ad ogni costo, del Prodi-pensiero sembrava relegata al passato. Purtroppo sembra riemergere. Per colpa di chi? Questa volta di Berlusconi. È lui che dopo un felice esordio rompe il tessuto del dialogo ricadendo nell'antico vizio di usare il potere a proprio vantaggio, di tutelare i suoi interessi privati in atti di ufficio.
Berlusconi quando si occupa di se stesso è sempre risolutissimo, si appella sempre alla volontà popo-lare, e oggi al fatto di essere sostenuto da un consenso del 60 e passa per cento. Ma il consenso elettorale non è un consenso «specifico », ma un consenso all'ingrosso. E il punto è se l'elettorato berlusconiano si rende conto della gravità del caso. Provo a spiegarlo con esempi. Mettiamo che Tizio sia proprietario di una banca, e che come tale stabilisca di poter prelevare quanti soldi vuole. Va bene? No, non va bene. Poniamo che Caio sia capo della polizia, che uccida la moglie e che stabilisca che la polizia non può indagare su di lui. Va bene? Direi di no. Tornando a Berlusconi, lui è capo del governo e come tale vuole essere intoccabile. Ha ragione? Vediamo.
L'immunità dei parlamentari è un istituto antico che si afferma, nelle monarchie assolute, per proteggerli dal sovrano. Giusto. Oggi, peraltro, i monarchi assoluti non esistono più. Così la protezione è diminuita: è fornita dalla autorizzazione a procedere. Che però al Cavaliere non serve, visto che il processo che lo preoccupa (il caso Mills) andrà a sentenza tra pochi mesi. Pertanto chiede, per salvare se stesso, un emendamento che rischia di mandare al macero fino a 100 mila procedimenti; e qui siamo davvero fuori proporzione. Non contento, il Nostro riesuma anche la ex Schifani per blindarsi senza fine. Questo secondo provvedimento prevede l'immunità nell'esercizio delle proprie funzioni per 19 casi, incluso ovviamente il suo. E tutti sanno che dopo Palazzo Chigi Berlusconi conta subito di salire per sette anni al Quirinale. Se non siamo ancora a una immunità a vita, siamo nei paraggi.
In frangenti come questi, una opposizione «responsabile » (così, bene, Piero Ostellino) cosa può fare per rendersi efficace, il più efficace possibile? Deve presentare contro-progetti che obblighino la maggioranza a discuterli. Nel caso del primo emendamento il suggerimento ragionevole per alleggerire un carico di arretrati giudiziari che è davvero irragionevole, è di accantonare tutti i procedimenti inutili, inutili perché finirebbero in prescrizione. E nel secondo caso la controproposta ragionevole potrebbe essere di concedere l'immunità a tutti i parlamentari che la richiedono, a patto, però, di non essere rieleggibili alla scadenza del loro mandato fino alla sentenza definitiva del procedimento a loro carico. Perché nessuno può essere al di sopra della legge a vita. Lo sono, appunto, i dittatori. Solo loro, vorrei sperare.
Leggo che il presidente Napolitano è irritato e molto perplesso. Ne ha ben donde. Il «pacchetto sicurezza » gli sta bene; ma deve inghiottire per questo anche il «pacchettino» salva- Berlusconi? Il suo predecessore, presidente Ciampi, non usò mai — per negare al governo l'autorizzazione a procedere — l'art. 87 della Costituzione; e così fu poi tutto un cedere. Napolitano ha davvero motivo di meditare a fondo.

Corriere della Sera 21.6.08
Una resa dei conti in Italia e in Europa con i fantasmi del '94
di Massimo Franco


L'offensiva del Cavaliere favorita da un contesto cambiato in profondità

Più che un ritorno al passato, ha tutta l'aria di una resa dei conti col passato. A prima vista, lo scontro totale di Silvio Berlusconi con la magistratura e col centrosinistra rievoca quello del suo primo governo. Ma le situazioni non si ripetono mai in un contesto identico. Dunque, più che sottolineare i punti di contatto con quanto è già successo, diventa più istruttivo segnalare i cambiamenti. Ci si accorge allora che nella «sindrome del 1994» del presidente del Consiglio non prevale tanto l'istinto difensivo contro il «tentativo di sovvertire il voto popolare da una minoranza di giudici». Il premier annuncia l'inizio di un conflitto istituzionale dalla tribuna europea di Bruxelles, persuaso stavolta di vincerlo. La conferenza stampa che vuole tenere in Italia promette di alimentare le tensioni. La sua offensiva punta a piegare una magistratura accusata di avere coperto «giudici infiltrati e pm» politicizzati, e «quindici anni di persecuzioni».
Ma il 1994 a Berlusconi deve apparire molto remoto: altrimenti non sfiderebbe così apertamente il potere giudiziario. Se lo fa, è perché sente di avere dietro un consenso che allora gli mancava, ed una maggioranza costretta a seguirlo; e davanti, un processo costruito su quelle che definisce «accuse risibili». È il processo per corruzione in atti giudiziari per il quale è stato inserito nel disegno di legge sulla sicurezza la cosiddetta «norma salva-premier»: una misura della quale, il Cavaliere assicura e giura sui figli, non vuole approfittare. Ancora, attacca perché ha preso le misure ad un Pd sbandato: orfano di una «luna di miele» col governo, che il premier ha cancellato da un giorno all'altro in un amen. Il dialogo col centrosinistra non è sospeso: sembra proprio finito.
La virulenza con la quale Berlusconi evoca il buco nel bilancio del Campidoglio ai tempi di Walter Veltroni sindaco è più di un'aggressione polemica.
Sancisce il tramonto di qualunque rapporto con il capo dell'opposizione, già lesionato dalla sconfitta. Sospinge il Pd in un limbo, in bilico fra le pulsioni antiberlusconiane del dipietrismo ed il massimalismo di un'estrema sinistra residuale.
È il Cavaliere a sancire il fallimento della metamorfosi del Pd. Ma lo strappo toglie spazio alle mediazioni politiche. E drammatizza il muro contro muro con i giudici. Mette di fronte brutalmente Palazzo Chigi, e Associazione nazionale magistrati e Consiglio superiore della magistratura, di cui è presidente il capo dello Stato.
Lo «sconcerto» del Csm e la richiesta urgente di incontro rivolta dall'Anm a Giorgio Napolitano non rappresentano una novità assoluta. Nuova, però, appare la determinazione berlusconiana a non fare passi indietro, ed anzi a rilanciare. Lascia intuire una crisi che potrebbe estendersi ad altre istituzioni. Il capo dello Stato ha sempre mostrato attenzione ed equilibrio anche verso il Pdl. Nessuno è in grado di prevedere, però, che cosa potrebbe accadere se i rapporti si incrinassero. Anche da questo punto di vista, saltano agli occhi le differenze rispetto al 1994. Allora, al Quirinale sedeva il dc Scalfaro, avversario dichiarato di un centrodestra acerbo e numericamente precario. Il braccio di ferro con Berlusconi si concluse in otto mesi con la sua defenestrazione, accelerata dalla guerra con Mani pulite. Oggi, invece, il Cavaliere gode di una maggioranza netta, ed ha in Napolitano un interlocutore rispettato per la sua equidistanza.
La terza differenza col 1994 è confermata dal rapporto con l'Ue. Il ritorno di Berlusconi a Bruxelles ha già investito il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, ed il presidente del Parlamento, Hans Poettering. Ieri il Cavaliere ha di fatto rivendicato il primato dei singoli Stati sulle strutture comunitarie. Ed ha annunciato per ottobre una riforma della «comunicazione» con la quale vuole regolare le esternazioni e le critiche dei commissari ai governi europei: offrirebbero pretesti per gli attacchi delle opposizioni «di destra e di sinistra». Barroso gli ha risposto che la Commissione non è «il segretariato degli Stati membri». Ma la questione è posta, e sembra avere l'appoggio di altri governi. Berlusconi riflette e dilata una voglia di normalizzazione, di cui vuole essere un protagonista. E gli altri, per ora, lo lasciano fare.

Corriere della Sera 21.6.08
Venti di guerra Oltre 100 caccia hanno condotto una missione di 1.500 chilometri
Attacco all'Iran, la prova generale Simulazione israeliana su Creta
ElBaradei dell'Aiea: «La regione diventerebbe una palla di fuoco»
Il presidente Ahmadinejad promette ritorsioni pesanti, l'ayatollah Khatami minaccia conseguenze «terribili»
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Nome in codice «Glorious Spartan 08». Teatro operativo: il tratto di mare a sud est dell'isola di Creta. E' in questo splendido angolo di Mediterraneo che l'aviazione israeliana ha simulato — dal 28 maggio al 18 giugno — l'attacco all'Iran. Oltre cento caccia F16 e F15, con l'ausilio di aerei per il rifornimento in volo, hanno condotto una missione di 1500 chilometri, la stessa distanza che divide lo Stato ebraico dall'impianto nucleare di Natanz. I jet hanno sganciato bombe, condotto raid contro i radar, attuato manovre evasive.
In loro supporto velivoli per la guerra elettronica ed elicotteri che trasportavano i commandos dell'unità speciale 5101, conosciuta come Shaldag, e gli incursori della Sayeret. Una delle simulazioni prevedeva infatti il recupero di piloti abbattuti in «territorio ostile». Al loro fianco i greci, che hanno offerto l'ospitalità dei poligoni e provato interventi coordinati.
Gli israeliani, di solito estremamente riservati su quello che combinano, hanno passato al New York Times le informazioni su «Spartan 08» accostando le manovre ad un possibile blitz contro l'Iran. E hanno spiegato, con l'abituale pragmatismo, quali fossero gli obiettivi. Il primo — tecnico — era quello di esercitarsi in un raid a lungo raggio. Le forze aeree israeliane sono abituate ad azioni di questo tipo. Hanno organizzato il raid di Entebbe andando a liberare ostaggi in Uganda e distrutto il reattore iracheno di Osirak. Ma proprio il ricorso «al lungo braccio» ha spinto gli avversari di Israele a dotarsi di contromisure e dunque una eventuale incursione in territorio iraniano può rivelarsi insidiosa.
Il secondo obiettivo era ribadire agli Stati Uniti e ai governi occidentali che l'opzione militare non è poi così lontana. Se i ripetuti tentativi negoziali falliranno, non resterà che la forza. Le fughe di notizie, i «piani» rivelati dai giornali, gli scenari dei think thank fanno parte di una accurata regia per preparare le opinioni pubbliche. E la stessa interpretazione va data alle previsioni nere di politici come il tedesco Josckha Fischer e del più coinvolto ex premier israeliano (di origini iraniane) Shaul Mofaz. Il punto non è più «se» ma piuttosto «quando» ci sarà l'assalto.
Preoccupato per questi sviluppi, Mohammed ElBaradei, il direttore dell'Aiea, l'ente per l'energia atomica dell'Onu, ha detto ieri sera che si dimetterà nel caso di un attacco contro l'Iran: «Secondo me, è la peggiore opzione possibile. Traformerebbe la regione in una palla di fuoco... Se l'Iran non sta già costruendo armi nucleari, lancerà un corso accelerato con la benedizione di tutti gli iraniani».
Agitando le sciabole gli israeliani hanno anche voluto accentuare le inquietudini degli ayatollah, ormai da tempo sotto una forte pressione psicologica e diplomatica. Ogni giorno Teheran dovrà chiedersi se la formazione di jet in avvicinamento sono l'ennesima simulazione o il colpo di maglio. Gli iraniani sono convinti che ai loro confini si sta preparando qualcosa. E reagiscono a parole e con i fatti. Il presidente Ahmadinejad promette ritorsioni pesanti, l'ayatollah Ahmad Khatami minaccia conseguenze «terribili ». L'aviazione è in costante allerta e nelle ultime settimane i vecchi caccia F4, eredità dello Scià, si sono levati in volo per intercettare aerei finiti fuori rotta. Lo Stato Maggiore ha intensificato il programma per potenziare la difesa contraerea: sono state acquistate diverse batterie di missili russi «Sa 300» e «Sa 20». Inoltre gli iraniani hanno chiesto aiuto ai tecnici di Mosca per migliorare i radar. Una necessità emersa dopo il raid compiuto da Israele in Siria il 6 settembre. Il blitz — che per alcuni esperti ha rappresentato un'ulteriore prova di attacco— ha dimostrato che i radar russi sono stati «accecati» con sistemi da guerra elettronica. L'intelligence khomeinista ha anche monitorato con attenzione le attività dell'Us Air Force. Nell'agosto di un anno fa, una formazione di F16 statunitensi ha condotto una misteriosa missione d'addestramento - durata 11 ore - dall'Iraq all'Afghanistan. Per l'analista William Arkyn «c'entra l'Iran».
E se il cielo promette tempesta, sul terreno la situazione non è serena. Minoranze etniche e oppositori interni sembrano spinti da nuova linfa e forse nuovi aiuti. I separatisti curdi sono passati all'attacco anche al di fuori della loro regione. I beluci del gruppo Jundallah continuano ad attaccare i pasdaran. Si sono mossi anche gruppi inediti: il Movimento jihadista della Sunna e i «Soldati dell'Assemblea del Regno» (nazionalisti). Entrambi hanno rivendicato la strage nella moschea di Shiraz. Negli ambienti della diaspora non si esclude che le tattiche «mordi e fuggi» di questi nuclei siano legate a un ordine segreto firmato da George Bush alla fine di gennaio con il quale si autorizzano «attività clandestine» per destabilizzare l'Iran.
Uno spettatore interessato, la Russia, ha fatto sentire la sua voce. Il ministro degli Esteri Lavrov ha lanciato ieri una severa messa in guardia. Non sarebbe strano se i russi avessero seguito da vicino le manovre a Creta: come ai tempi della Guerra fredda, la Marina ha rimandato in Mediterraneo le sue navi spia. A volte innocui pescherecci, irti di antenne, più interessati ai segreti che ai pesci.

il Riformista 21.6.08
I settecento di Walter e il waltericidio di Silvio
di Antonio Polito


Sarebbe facile concedersi una ripicca. Al segretario del Pd che voleva chiuderci la bocca perché a suo dire vendiamo «solo duemila copie», potremmo ribattere oggi che a sentire la sua relazione ieri sono andati solo 700 delegati su 2800 aventi diritto, secondo i cronisti, 860 secondo fonti ufficiose e più generose. Ma poiché il Pd è il nostro partito preferito, preferiamo valutare il flop dell'assemblea di ieri, che ha discusso poco ed è stata chiusa con una giornata d'anticipo, alla luce dell'allarme che ormai da mesi lanciamo sulle condizioni di salute di questo bambino della politica italiana, invece di stupirci per il dilettantismo politico che l'ha provocato.
Ieri avevamo scritto che il Pd è in un momento molto pericoloso: come un aeroplano lanciato sulla pista, o decolla o si schianta. Ebbene, ieri di certo non è decollato. E per ragioni che precedono la linea politica e attengono all'esistenza stessa di una forma-partito. I disertori dell'assemblea sono infatti quadri locali, gente che si è sbattuta per le primarie con nobilissimi intenti, o che si è battuta per un posto in quell'assemblea convinta che fosse una pre-iscrizione alla gestione di un qualche potere. Ai primi, i più nobili, la vicenda successiva del Pd ha tolto l'entusiasmo. Ai secondi, meno nobili, ha tolto l'interesse. In queste condizioni un partito non dura a lungo. Sul territorio la gente se ne va: o a casa, o in un altro partito che può dargli l'assessorato. È di qui che bisogna ripartire. Oggi chi fa politica nel Pd trova più indispensabile aderire a una corrente che andare all'assemblea costituente. E pensare che qualcuno vagheggia di congresso e nuove primarie: in quanti andrebbero alle urne?
Per quanto riguarda la linea, c'è poco da aggiungere. Veltroni ha parlato per la prima volta di «sconfitta». Ci ha messo qualche mese, ma è arrivato dove il Riformista era giunto la sera delle elezioni: a Waterloo. Sapere che di sconfitta si tratta, e non di vittoria mutilata, conta molto ai fini della sua gestione politica. Infatti ora, accettando la sconfitta, Veltroni ne trae conseguenze radicali: butta a mare la stagione del confronto e annuncia il ritorno alla stagione della piazza. Un po' peristaltica, come linea. E si poteva evitare.
Ma non è questo il problema maggiore. Il problema maggiore è che Berlusconi e il centrodestra hanno completamente cambiato strategia nei confronti del Pd. Hanno deciso che Veltroni non gli serve più. Che il dialogo non gli conviene o che Veltroni è troppo debole per poterne essere l'interlocutore. Di fatto, ieri Berlusconi ha dimostrato di volersi disfare del Pd di Veltroni. Così si spiega l'accusa di bancarotta a Roma, l'insulto di «fallito», la minaccia di espulsione dalla storia politica del paese.
A questo punto, non possiamo che confermare il nostro giudizio: oggi è in gioco l'esistenza stessa del Pd. Deve lottare per la vita o per la morte, e questo è un tipo di lotta che presuppone un corpo robusto e agile. Questo corpo oggi non c'è, come dimostra l'assemblea di ieri a Roma. È urgente dotarsene. Smettano capi e capetti di parlar d'altro a Roma mentre Sagunto viene espugnata. Diano sedi, soldi e dirigenti a quei pochi militanti che sono rimasti in provincia tra il deluso e il disgustato. Riprenda l'autobus, Veltroni, e provi a costruirlo lui quel corpo in giro per l'Italia, perché non nascerà in uno studio della Rai. Hanno poco tempo, un anno al più, prima di finire a riunire correnti sulle macerie. Chi non se la sente, si faccia da parte, e lasci che sia qualcun altro a provarci.

il Riformista 21.6.08
Reportage. Una triste giornata tra i tristissimi delegati del pd
La domanda più gettonata è: a quando la scissione?


La terza Assemblea del Pd è cominciata sottotono e così è andata avanti fino alla fine. I delegati parlano di Berlusconi come hanno sempre fatto, nemico era nemico è, si lamentano delle correnti a cui si affrettano a iscriversi, implorano fino alle lacrime (è capitato alla delegata di Imola) di «credere nel nuovo partito». I dirigenti parlano con prudenza attenti a non superare la soglia della polemica che non fa male. Tranne Parisi. Non c'è dramma peggiore di quello senza sentimenti e senza speranze. L'assemblea è iniziata un'ora dopo perché mancano i delegati. Sono la metà che a Milano, un anno fa circa, meno che a Roma prima delle liste elettorali. Parisi, sempre lui, il lottatore solitario, dice che non c'è il numero legale.
Il segretario inizia a parlare senza canzonette d'accompagno, "il cielo non è sempre più blu", né la musica è popolare, forse la storia non siamo più noi. La musica è finita. Mentre è alla cartella 25 un cigolio di ferraglie fa da sfondo alle sue parole. Non gli stanno smontando il partito, non ancora, ma si portano via, senza rispettare la solennità dell'appuntamento, le impalcature di una precedente campionaria della Nuova Fiera di Roma. Mentre Athos De Luca, baffuto ex esponente verde entra nella sala rifiutandosi di mostrare l'accredito («sono un senatore», ha detto al povero addetto alla vigilanza), la presidenza si compone frettolosamente con i soliti noti che sorprendono i ritardatari occupandogli il posto. Ovviamente c'è la Melandri. Fioroni non molla l'orecchio dal telefonino poi sottopone un foglio da firmare agli altri colleghi. Un imbronciato Vincenzo Cerami guadagna la prima fila della platea come fa da sempre Massimo Brutti, i delegati parlano fra di loro sfogliando i giornali gratuiti, la mezza età trionfa, al bar un centinaio di militanti prende il caffè senza chiedersi che cosa stia dicendo Veltroni.
Barbara Pollastrini ci spiega, come fa da trent'anni, che la novità siamo solo noi e che «le donne, le donne…». Parisi litiga con Franceschini. "Nessuno tv", la futura tv di D'Alema, intervista un sempre più annoiato Bersani. Fuori dalla Fiera all'ora di pranzo sciamano forse duemila giovani lì per un concorso o per qualcos'altro, passano davanti a delegati che ignorano e che li ignorano.
I più applauditi dalla Costituente sono gli extracomunitari e Prodi. L'ex presidente si prende cinque minuti di battimani che potevano essere dieci o di più se Veltroni non li interrompesse ricominciando a parlare. L'annuncio dell'autunno caldo e della manifestazione nazionale è applaudito da metà della sala. Veltroni aveva cominciato parlando di Berlusconi che pensa solo a sistemare le proprie cose e finisce parlando dell'alterità del Pd che è la stessa cosa della diversità del Pci.
La sconfitta non c'è. L'agenda non la prevede se non come dato di fatto. Abbiamo perso, annota il segretario burocraticamente, ma fa notare che abbiamo gli stessi voti che sono serviti al Labour di Blair per governare e alla Spd per guidare la Cancelleria. Anomalie italiane. I delegati siciliani si lamentano e protestano contro la Finocchiaro che gli fa segno che hanno parlato più del tempo assegnato. Franco Marini attacca la Finocchiaro senza nominarla perché ha rinunciato a fare il capo dell'opposizione dopo la sconfitta alle regionali. D'Alema plaude a Veltroni che gli ha distrutto la politica delle alleanze e le ambizioni della Fondazione. Ugo Sposetti è il più baciato di tutti. Castagnetti alla fine dell'intervento del segretario se ne va. Stefano Ceccanti protesta con il Riformista perché è poco veltroniano, poi va a fare una lauta colazione. La Picierno siede alla presidenza prima degli altri e poi sparisce.
Fra i delegati due sono le domande che hanno più successo. Quando ci sarà la scissione? Quando Walter mollerà tutto per andare a occuparsi dei poveri del mondo? Questo è stato il tema della cena che Bettini ha consumato con i quarantenni che non sanno più a che santo votarsi e che sono certi che il segretario sta cercandosi un incarico internazionale. Fassino manda sms a tutto spiano. I fotografi non sanno che diavolo fare e il servizio d'ordine non deve più cacciarli perché non affollano la scena prima del discorso del capo.
Non ci sono né ballerine né nani, il più basso sono io. Tutti mi chiedono se è vero che mi sto divertendo di più ora che non faccio politica. Enrico Letta chiede che non ci siano rese dei conti e organizza la sua corrente. Fassino spiega che i primi mesi dopo un voto «sono più facili per chi ha vinto e più difficili per chi ha perso». Uno dopo l'altro i tristissimi leader del Pd si lamentano, si incitano, si insultano fra le righe ma non ce n'è uno che provi a spiegare perché il paese ha scelto Berlusconi. L'attenzione è rivolta al passo falso che verrà, alla fine della luna di miele che ineluttabilmente ci sarà, alla Lega che tradirà, alle delusioni che mortificheranno gli stessi elettori di destra un giorno non lontano, all'illusionismo berlusconiano che finirà di sorprendere, al partito liquido che tutti vogliono solido come un Bronzo di Riace. Mai una forza politica si era tanto affidata, per sperare, al caso, al fattore C., agli errori dell'avversario, al destino. Il problema, tuttavia, non è capire che cosa pensano i generosi pessimisti che occupano quasi tutte le sedie di questa spoglia sala della Fiera di Roma. Il problema è capire dov'è quell'altra metà dell'Assemblea che se ne è rimasta a casa. Se il Pd non fa la chiama degli assenti, con i presenti non va da nessuna parte.