martedì 24 giugno 2008

l’Unità 24.6.08
Contro la Costituzione
di Stefano Passigli


In nessun Paese gli assetti istituzionali sono immodificabili. Le modifiche vanno
ricercate nel dialogo tra maggioranza e opposizione. Ma proprio per dialogare
occorre non smarrire la coscienza di cosa è negoziabile e cosa non lo è

Bene hanno fatto il capo dello Stato e il vice presidente del Csm a precisare che al momento non esiste alcun parere dell’organo di autogoverno della magistratura sulla costituzionalità delle norme blocca-processo. La forma ha una sua rilevanza, ma non può alterare la sostanza; e sul piano della sostanza non vi è dubbio che l’aggiunta al decreto sulla sicurezza di una norma blocca-processi presenta profili di incostituzionalità, solleva interrogativi sul ruolo dei presidenti delle Camere, e appare politicamente dirompente.
In primo luogo applicandosi solo ai procedimenti prima del 2002, il blocco contrasta con il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione discriminando tra ipotesi di reato identiche sulla base della mera data di avvio del relativo procedimento penale. Irragionevole appare in ogni caso il riferimento temporale adottato. Non solo meglio sarebbe stato sospendere quei processi ove la eventuale condanna sarebbe comunque coperta dal recente indulto, ma più logico sarebbe stato semmai accelerare anziché bloccare i processi più datati e quindi più a rischio di prescrizione, ritardando piuttosto i più recenti per i quali la prescrizione è più lontana. Né si dica che, essendo sospesa la prescrizione, la situazione dei processi bloccati non muterebbe. Alla loro ripresa, infatti, molti collegi giudicanti potrebbero dover essere ricostituiti per intervenuti trasferimenti o pensionamenti, con il conseguente ripartire da zero del processo e un altrettanto conseguente garanzia di impunità. La norma blocca-processi votata a maggioranza semplice dal Parlamento configurerebbe così, in buona sostanza, un’amnistia surrettizia, in spregio della norma che vuole le amnistie votate da una maggioranza qualificata.
In secondo luogo, nel processo penale le parti sono tre: il Pubblico Ministero a tutela dell’interesse generale, la Parte Civile a tutela del soggetto offeso, e la Difesa a tutela dell’imputato. Ebbene ritardare - o addirittura vanificare, come spero di aver or ora dimostrato - la celebrazione del processo è certo nell’interesse dell’accusato, ma non della parte lesa e della collettività. Nel proporre la norma blocca-processi Berlusconi e il suo governo mostrano - e pour cous - di privilegiare l’interesse dell’imputato piuttosto che quello generale e delle parti lese. Ma proprio il centrodestra, per bocca del senatore Pera con il pieno appoggio dell’onorevole Berlusconi, si batté per introdurre in Costituzione la norma sull’equo processo che ne impone una «ragionevole durata»: ebbene la norma blocca-processi allungandone la durata e di fatto favorendo in molti casi la prescrizione, priva gli imputati innocenti di una pronuncia assolutoria e le parti lese di una condanna, violando così palesemente l’articolo 111 della Costituzione. Da alcuni si è affermato (Antonio Alfano, Corriere della Sera del 22 giugno) che una norma blocca-processi fu già introdotta nel 1998 dal governo Prodi, ministro della Giustizia Flick, presidente Scalfaro. Niente di meno vero, e sorprende che a un ex Procuratore Generale onorario di Cassazione la passione politica faccia velo sull’intelligenza giuridica: tale disposizione prevedeva infatti che «al fine di assicurare la rapida definizione dei processi pendenti... nella trattazione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza... si tiene conto della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti nonché dell’interesse della persona offesa». La concreta decisione sui criteri di priorità era insomma rimessa agli uffici che ne dovevano informare il Csm, restando così interamente nel discrezionale apprezzamento dei magistrati. Cosa ben diversa da un intervento legislativo che lede profondamente un ulteriore e fondamentale principio costituzionale: quello dell’autonomia della magistratura.Al di là della forma, avanzare dubbi sulla costituzionalità di una norma blocca-processi è dunque non solo legittimo, ma anche opportuno, specie alla luce delle modalità scelte dal governo per la proposta: non un disegno di legge costituzionale - al quale lo invitano, oltre ad alcuni esponenti della maggioranza, persino (con un intervento ai limiti dell’oltraggio a un potere dello Stato quale la Corte Costituzionale) il presidente emerito Cossiga che invita anche il presidente Napolitano a rinviare la legge di conversione qualora contenesse la norma - ma un emendamento suggerito a parlamentari amici che aggiunge a un decreto legge materia estranea al testo passato al vaglio autorizzativo della presidenza della Repubblica. Chi scrive è profondamente convinto che i presidenti di Camera e Senato dovrebbero dichiarare improponibili emendamenti estranei al corpo dei decreti, evitando così di vanificare il controllo dei requisiti di necessità e urgenza compiuto dalla presidenza della Repubblica. Ma chi scrive è altrettanto profondamente cosciente che - caduta la prassi che voleva le presidenze di Camera e Senato affidate a maggioranza e opposizione e votate consensualmente - a partire dalla rottura della prassi effettuata dal primo governo Berlusconi nel 1994 l’indipendenza delle due presidenze si è inevitabilmente affievolita. Occorre dunque aiutare la presidenza delle Camere a mantenere al massimo la propria autonomia: anche da questo punto di vista, la presentazione di un emendamento blocca-processi indebolisce e non rafforza le istituzioni, ed è opportuno che sia perciò ritirato. Infine, gli aspetti più strettamente politici. A lungo, in molti abbiamo lamentato che i rapporti tra maggioranza e opposizione non fossero in Italia quelli esistenti in un «paese normale». Alla necessità di un più corretto rapporto alcuni tra noi - io ad esempio - avevamo a malincuore sacrificato battaglie che come quella per una più adeguata disciplina del conflitto di interessi, ci apparivano necessarie. Ma esistono limiti invalicabili, e princìpi irrinunciabili. Così come nel 2006 ci battemmo con successo per respingere un progetto di riforma costituzionale altamente pericoloso, oggi siamo costretti a un nuovo e deciso «no» al tentativo di introdurre norme che sentiamo lesive di un fondamentale principio non solo della nostra Repubblica ma di qualsiasi democrazia: l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Troppi indizi ci dicono che si sta preparando un nuovo tentativo di sovvertire alcuni capisaldi del nostro ordinamento costituzionale: la forma parlamentare di governo, ribadita dai cittadini italiani nel referendum del 2006; il ruolo e le funzioni delle supreme magistrature di garanzia (presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale); e infine l’autonomia della magistratura. In nessun paese gli assetti istituzionali sono immodificabili. E le modifiche vanno ricercate e fatte nel dialogo tra maggioranza e opposizione. Ma proprio per dialogare occorre non smarrire la coscienza di cosa è negoziabile e cosa non lo è.

l’Unità 24.6.08
Al cinema Farnese 114 parlamentari Pd battezzeranno un’altra associazione. Voluta da D’Alema, sarà presieduta dal prodiano De Castro
Oggi si accende la «corrente rossa», Red
di Federica Fantozzi


Verrà presentata al cinema Farnese, a due passi dalla piazza omonima dove l’associazione ha sede al civico 101, proprio sotto l’appartamento di Achille Occhetto. È previsto oggi il battesimo di «Red», vale a dire «Riformisti & Democratici»: la nuova creatura di Massimo D’Alema.
Red, che inizialmente doveva chiamarsi «Amici di ItalianiEuropei» e poi ha scelto un nome più “rosso” e anglofilo, affiancherà l’azione pluriennale della fondazione e della rivista care all’ex ministro degli Esteri. I dati delle iscrizioni saranno noti da oggi, ma sembra che abbiano aderito 114 parlamentari del Pd su 336: un terzo del gruppo parlamentare. Alle 17,30 allo storico cinema d’essai ci saranno il presidente dell’associazione Paolo De Castro, già ministro prodiano dell’Agricoltura, Pierluigi Bersani, Livia Turco, Michele Ventura, il Popolare Nicodemo Oliverio. Ci sarà Lino Duilio, anche lui ex Ppi, indicato come vicepresidente che però sostiene di non saperne nulla.
Incerta la presenza di Franco Marini: sulla «Stampa» Fabio Martini ha rivelato che a lui toccherebbe uno dei due discorsi inaugurali, al fianco di d’Alema. Ieri però filtravano diplomatiche frenate del tipo «è stato invitato ma al momento non è previsto che partecipi». L’evento - presenza o assenza - non sarebbe scevro di significato politico, in quanto aggiungerebbe un ulteriore tassello a quella che Arturo Parisi ha chiamato «la balcanizzazione del partito». Si tratta di capire fino a che punto sia reale la diaspora degli ex Popolari: da una parte, cioè con Veltroni, i “giovani” capeggiati da Fioroni e Franceschini; dall’altra, cioè accanto all’ex vicepremier, i fedelissimi dell’ex presidente del Senato.
Indizi ce ne sono: Marini non era alla cena Ppi organizzata in vista dell’assemblea costituente dal tandem Franceschini-Fioroni in un hotel di Roma. Per contro, il mariniano Oliverio che aveva aderito a Red insieme al collega Ladu, si è ritrovato a sorpresa fuori dalla direzione acclamata venerdì alla Fiera di Roma. Dove Marini, in un appassionato intervento, aveva dichiarato di condividere la linea politica del Pd ma non la gestione e l’organizzazione. Un colpetto a Fioroni? «Nooo, lui è appena arrivato, che c’entra?», minimizzavano i suoi.
Sarà. Si vedrà oggi se il lupo marsicano decide di schierarsi con una delle due linee che, lo ha esplicitato Enrico Morando, stanno emergendo nel Pd. Cuperlo ha già invocato «nuove leadership» a sostituire la «foto di gruppo» di una dirigenza «ingiallita e logorata«. I figliocci mariniani ostentano sicurezza. «Mai andato così d’accordo con Franco come adesso» giura il numero due dell’ex loft. «Il nostro legame non è mai stato così coeso e forte» assicura l’ex ministro della Salute».

Repubblica 24.6.08
D'Alema lancia Red, gelo nel Pd
di Goffredo De Marchis


ROMA - È il giorno di "Red", l´associazione di parlamentari Riformisti e Democratici legata a Italianieuropei, fondazione presieduta da Massimo D´Alema. Nasce ufficialmente oggi come struttura trasversale chiamata a fornire contributi politici e culturali al Partito democratico. Il board è composto dal prodiano Paolo De Castro, dall´ex ppi Nicodemo Oliviero e dagli ex Ds Pierluigi Bersani, Livia Turco e Michele Ventura, fotografia del "rimescolo" fra le varie anime Pd come lo chiama l´ex ministro dell´Industria. Ma qualche numero e la natura di un´organizzazione composta da eletti alle Camere non convince molti dentro un partito in cui le correnti sembrano moltiplicarsi.
Secondo innumerevoli fonti, i parlamentari aderenti sarebbe almeno 110, vale a dire un terzo del totale. Come dire: una specie di gruppo all´interno dei gruppi di Camera e Senato. Antonello Soro, presidente dei deputati Pd, commenta con malizia: «L´associazione di D´Alema? In Parlamento ci sono anche le associazioni Italia-Cina, Italia-Israele... Di cose così ne nascono e ne muoiono tante». Soro dice di non essere preoccupato: «Ma continuo a pensare che sia un´iniziativa singolare perché deputati e senatori dispongono già di un luogo per riunirsi, confrontarsi e discutere. Red è un´idea legittima, ma vediamo cosa produce».
Al cinema Farnese, sede del lancio di Red, non ci sarà Franco Marini, che era indicato come una delle possibili guest star. «Sono amico di D´Alema, l´iniziativa resta interessante, ma alla mia età non cambio le radici culturali e il mio primo amore. Sono affezionato all´associazione dei Popolari e mi impegno nella costruzione del Pd. Sul quale si sta scatenando una fibrillazione bambinesca e irrazionale», dice l´ex presidente del Senato. Oggi pomeriggio anche Giovanna Melandri riunisce un gruppo trasversale di parlamentari, da Colaninno a Santagata, da Livi Bacci a Boccuzzi, Treu, Vassallo, Cuperlo e Zingaretti. «Non vuole essere un´associazione - spiega l´ex ministro dello Sport - . Ma i nostri obiettivi sono l´affermazione delle primarie per la maggior parte degli incarichi e la necessità di costruire prima il Pd e poi le correnti». E il prossimo week-end Enrico Letta, attraverso la associazione "360", organizza il Festival delle idee a Piacenza dove sarà ospite Pier Ferdinando Casini, cioè l´altra faccia dell´opposizione.
Per rilanciare il Partito democratico, Gianni Cuperlo, deputato del Pd e un tempo ghost writer di D´Alema, vede però una sola soluzione: l´emergere di un gruppo dirigente nuovo. «Noi avremmo bisogno di grande coraggio, lealtà e di generosità in particolare da parte di una leadership collettiva, una foto di gruppo, che da quindici anni ha diretto e governato le diverse stagioni della vicenda politica del centro sinistra in questo Paese - spiega - . Questa foto di gruppo deve rivendicare i suoi grandi meriti, ma ha anche limiti evidenti, un logoramento visibile». La generosità di cui parla Cuperlo dovrebbe quindi concretizzarsi nel favorire un ricambio non solo generazionale: «Dovrebbero favorire nuove leadership che siano fino in fondo figlie di questa stagione e di questo progetto di partito nuovo». Arturo Parisi ha molta più fretta. Conferma all´Ansa l´attacco a Walter Veltroni: va cambiata la leadership, dice. E avverte il partito: «Non io a essere isolato, lo è invece il Pd rispetto agli elettori».
Il Pd è atteso anche dalla scelte sulla collocazione internazionale. Piero Fassino ieri è volato ad Atene, in vista del congresso dell´Internazionale socialista, per incontrare il suo presidente Giorgio Papandreu. «I Ds in una fase transitoria resteranno nell´Is e faranno da ponte a un´apertura dell´Internazionale a nuove realtà mondiali, compreso il Partito democratico», spiega Fassino. I socialisti mondiali puntano a creare un forum permanente con forze come il partito di Lula, quello del Congresso indiano, i Democratici americani e giapponesi. E il Pd italiano, naturalmente.

l’Unità 24.6.08
Mistero Emanuela Orlandi «C’entra anche Marcinkus»
di Anna Tarquini


Emanuela Orlandi rapita su ordine di Marcinkus per mettere sotto scacco il Vaticano e dire: «noi sappiamo cosa accade lì...». Emanuela tenuta sequestrata in un appartamento a Roma, poi drogata e infine uccisa e seppellita in una betoniera a Torvaianica. Oppure seppellita a Roma, di nascosto, in quella tomba nella chiesa di Sant’Apollinare dove da anni - e misteriosamente - per ordine del cardinale vicario Poletti riposa un pluriassassino. Perché la Chiesa si sarebbe tanto ostinata a difendere la sepoltura di un boss della Banda della Magliana? Perché dentro quella tomba non ci sarebbe lui, ma lei, Emanuela. E Marcinkus? «Amava le minorenni e poi riciclava i soldi della Banda della Magliana». Misteri, depistaggi, coincidenze francamente eccessive. A venticinque anni esatti dalla sua scomparsa ecco, a bomba, una supertestimone che dice di conoscere il mistero della Orlandi rapita il 22 giugno del 1983. È la donna di Renatino De Pedis, capo storico della Banda della Magliana assassinato nel 1990 a pistolettate, colui che riposa in terra vaticana. Siamo a una svolta o invece una vicenda tutt’altro che chiara come sostengono in molti a cominciare dalla famiglia? Certo almeno una grande inesattezza c’è: secondo la donna Emanuela sarebbe stata seppellita insieme a Domenico Nicitra, un bambino di 11 anni ucciso per vendetta dalla banda. A farlo sarebbe stato De Pedis. Ma quando Nicitra venne rapito De Pedis era morto da due anni. Invece esiste - e le fonti sono attendibili - la casa della betoniera.
Cominciamo subito da una certezza che è insieme anche cosa inusuale. Ieri mattina alla procura di Roma era in programma un vertice per fare il punto sulle indagini mai chiuse. Già da domenica, nel giorno dell’anniversario della scomparsa, si vociferava di una superteste. Ieri però dalla Procura è uscita qualcosa di più di una notizia: il testo praticamente integrale degli interrogatori - in data 14 e 15 marzo - della signora Sabrina Minardi. Tanto è vero che la polizia ha perquisito l’agenzia di stampa che aveva i verbali. Ecco. Dare in pasto un testimone così, a regola, vuol dire screditarlo. Invece chiara è la precisazione con la quale i magistrati stessi accompagnano le notizie: ci sono sì incongruenze temporali nel racconto, ma anche dettagli che devono essere approfonditi con attenzione.
Chi è Sabrina Minardi? Si autodefinisce da sola una donna «dal passato avventuroso». Ex moglie del calciatore Bruno Giordano, ex tossicodipendente, finita «in cronaca» per giri di prostituzione. Sua figlia - quando si scatena il caso - è la ragazza finita sui giornali perché era in auto con il pirata della strada che ha massacrato a Roma due studenti universitari in motorino. Circa due mesi fa, e dopo un silenzio di 25 anni, la signora Minardi si è presentata ai magistrati per raccontare la sua verità. «Emanuela è morta, la portai io stessa in automobile da un uomo. Scese da una Mercedes nera targata Città del Vaticano. Era vestito da prete: con l’abito nero lungo e il cappello a grandi falde. Prese Emanuela e la portò via».
Ancora un passo indietro. Tre anni fa la trasmissione «Chi l’ha visto?» si occupa del caso Orlandi. E in trasmissione chiama il figlio di Roberto Calvi, il banchiere dello Ior assassinato a Londra sotto il ponte dei Frati neri. Dice il figlio di Calvi: la banda della Magliana venne utilizzata nel rapimento di Emanuela Orlandi. «C’è una forte possibilità - dice - che sia stata utilizzata per i suoi legami con la mafia, che a sua volta ha rapporti con i Lupi Grigi, per mandare un ulteriore minaccia al Papa». Siamo ancora alla pista che vuole Emanuela rapita per far liberare Alì Agca, l’attentatore del Papa. Emanuela e Mirella Gregori, anche lei cittadina vaticana. Successivamente in trasmissione arriva un’altra telefonata che dice: «Se volete sapere qualcosa di Emanuela guardate nella tomba di Renatino De Pedis, a Sant’Apollinare». Si apre la polemica: ma come, un criminale sepolto in una chiesa? E la Chiesa risponde: «Ha fatto molte opere di bene». Poi è la volta di Antonio Mancini, superpentito della Magliana, giudicato attendibile che dice: «Ho riconosciuto la voce del telefonista, quello che mandava i messaggi in casa Orlandi. È la voce di Mario l’autista di De Pedis». L’anello si ricongiunge. È praticamente certo che la Banda della Magliana ha avuto parte nel sequestro. Mancini viene interrogato ma poi, di recente, la procura lo liquida come inattendibile. «Dice che De Pedis è vivo». E anche se lui nega di aver mai detto tale bestialità la procura insiste. Quella stessa procura che ieri ha dato ai giornali la versione «discretamente attendibile» della super teste Sabrina Minardi.
«Me lo chiese Renatino di fare una cosa. Io arrivai lì al bar Gianicolo con una macchina. Poi Renato, il signor De Pedis, con cui in quel tempo avevo una relazione, mi disse di prendere un’altra macchina che era una Bmw e di accompagnare questa ragazza dove sta il benzinaio del Vaticano, che ci sarebbe stata una macchina targata Città del Vaticano che stava aspettando questa ragazza. Io così feci». Minardi non sa nulla, ma a un certo punto si accorge che sta portando Emanuela Orlandi, il suo volto è sui manifesti di tutta Roma. Tutto avviene sette mesi prima della presunta morte. «La identificai come Emanuela Orlandi. Era frastornata, era confusa sta ragazza. Si sentiva che non stava bene: piangeva, rideva. Parlava di un certo Paolo, non so se fosse il fratello. Diceva: “Mi porti da Paolo ora vero?”. Quando l’accompagnai c’era un signore con tutte le sembianze di essere un sacerdote. Io feci scendere la ragazza: “Buonasera, lei aspettava me?”. “Sì, credo proprio di sì”. Poi, dopo che avevo realizzato chi era dissi a Renato: “A Renà, ma quella non era..”. Ha detto: “Tu, se l’hai riconosciuta è meglio che non la riconosci, fatti gli affari tuoi”. Rapita e tenuta nascosta, ma dove? Sabrina Minardi segna ancora un collegamento con quell’oscuro mondo criminale. Emanuela era tenuta prigioniera in uno scantinato enorme, sulla gianicolense. Era in casa di una donna, la signora Daniela Mobili, legata a un altro boss della Magliana, Danilo Abbruciati. La ragazza venne accompagnata all’appuntamento al bar Gianicolense dalla signora Teresina, la governante. «Vai bella via - le disse - . Ora vai con la signora io ti riaspetto, ritorni qui». «Parlava male sta ragazza, trascinava le parole. Le domandai: “Come ti chiami?” “Emanuela” mi rispose». «Di lì a pochi giorni - continua la donna - tentarono di rapire mia figlia. Chiamai immediatamente Renato e mi disse: “Ma se tu ti sei scordata quello che hai visto non succederà niente a tua figlia”».
Il movente. «Emanuela Orlandi sarebbe stata prelevata da Renatino De Pedis su ordine di monsignor Marcinkus, all’epoca presidente dello Ior». Perché? «È come se avessero voluto dare un messaggio a qualcuno sopra di loro. Era lo sconvolgimento che avrebbe creato la notizia». Nessuno può smentire: né De Pedis, né Marcinkus che sono morti. E Sabrina Minardi spiega: «Renato aveva interesse a cosare con Marcinkus perché questi gli metteva sul mercato estero i soldi provenienti dai sequestri». E dietro insistenze: «Io la motivazione esatta non la so, però posso dire che con De Pedis conobbi monsignor Marcinkus. Io a monsignor Marcinkus a volte portavo anche le ragazze lì, in un appartamento di fronte, a via Porta Angelica. Sarà successo in totale quattro o cinque volte. lui era vestito come una persona normale. C’era poi il segretario, un certo Flavio. Mi telefonava al telefono di casa mia e mi diceva: “C’è il dottore che vorrebbe avere un incontro”. Poi, a lui piacevano più minorenni». Ricorda, Sabrina, di quella volta che portarono un miliardo a monsignor Marcinkus. E racconta - lo aveva già detto nel 2006 a Chi l’ha visto? - di quella volta che Renatino le comprò un vestito nero, «sembravo una suora», ed era per una cena. «Andai a cena a casa di Andreotti, con Renato. E in quel periodo Renato era latitante».

Ma Nicitra sparì due anni dopo...
La testimonianza di Sabrina Minardi, tanto precisa, cade sulle date e su una circostanza, la più importante, la sepoltura di Emanuela. Perché, sostiene, Emanuela venne seppellita insieme a Domenico Nicitra, figlio del boss della Magliana rapito e ucciso. Ma Nicitra sparì due anni dopo la morte di Renatino De Pedis.
Ecco il suo racconto: «Renato mi portò a pranzo in un ristorante a Torvaianica, da “Pippo l’Abruzzese”. Lui aveva un appuntamento con Sergio (che, a suo dire, faceva da autista a Renato) il quale portò quel bambino: Nicitra; il nome non me lo ricordo. Portò, dice lui, il corpo di Emanuela Orlandi. Io non lo so che c’era dentro i sacchi perché rimasi in macchina. Dice che, però, era meglio sterminare tutto, lui la pensava così. Sterminare tutto così non ce stanno più prove, non ci sta più niente. Lui mi disse che dentro a quella betoniera ci buttò quei due corpi». «C’era un cantiere lì vicino, come dire, una cosa in costruzione. Noi riprendemmo tranquillamente la macchina e pensavo di dirigermi verso Roma. Lui mi disse: “Gira qui, vai li” e andammo in questo cantiere. Disse: “Stanno costruendo”. Dico: “Che me devo fermà a fà?”. Dice: “No, qui stanno a costruì delle case delle persone che conosco, sta a costruì un palazzo o a ristrutturare, non mi ricordo. Fermate qua!”. Mi fermai e arrivò Sergio con la sua macchina e ad un certo punto misero in moto la betoniera. Vidi Sergio con una sacco per volta e dopo chiesi a Renato: “aho, ma che c’era dentro a quel..”. “Ah, è meglio ammazzalle subito, levalle subito le prove”, dice. “E chi c’era?”. Dice: “Che te lo devo dì io!”. “Poi, io andai a casa e spinta dalla curiosità, le dico la verità, lo feci pippà Renato spinta proprio dalla curiosità di voler sapere e lui me lo disse. “Le prove si devono estirpare”. Lui usava molto questa parola: “dall’inizio, dalla radice”. Non lo so se ’sta ragazza aveva visto qualcuno; ’B non essendoci più nè i corpi, nè niente, era meglio togliere di mezzo tutto, la parola tua contro la mia, diceva lui». La donna riferisce che la sua relazione con De Pedis iniziò nella primavera inoltrata dell’82 e andò avanti fino a novembre ’84. Quindi, Renatino venne arrestato e lei lo avrebbe rivisto dopo la sua uscita dal carcere nell’87. Di Emanuela Orlandi si persero le tracce il 22 giugno dell’83. Domenico Nicitra, il bambino di 11 anni, figlio di Salvatore, imputato al processo per i delitti commessi dalla banda della Magliana, scomparve il 21 giugno 1993 assieme allo zio Francesco, fratello del padre. E De Pedis in quell’epoca era già morto: venne ammazzato il 2 febbraio del ’90.

Corriere della Sera 24.6.08
Il giudice Otello Lupacchini indagò sul gruppo della Magliana e sulla fine del banchiere. «Ma sul cardinale come mandante solo fantasie»
«Lo Ior e il sequestro per i debiti di Calvi: verità credibile»
di Andrea Garibaldi


ROMA — Dice il giudice Otello Lupacchini: «È ragionevole pensare che la banda della Magliana abbia effettuato il sequestro di Emanuela Orlandi o che abbia sfruttato la situazione che derivava da quel sequestro». Subito, aggiunge: «Attenzione, però. Perché le dichiarazioni di questa nuova "supertestimone" sconfinano nel soprannaturale, soprattutto quando colloca nello stesso luogo il cadavere della Orlandi (rapita nel 1983), il cadavere del piccolo Nicitra (rapito nel 1993) e De Pedis (ucciso nel 1990). Attenti a non cadere nell'incubo gotico, nella trama alla Dan Brown, nella "Notte dei morti viventi"».
Lupacchini fu giudice istruttore al processo alla banda della Magliana, anni '93-'94, e giudice per le indagini preliminari al processo per stabilire se Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, fosse morto suicida o ucciso, sotto il ponte dei Frati Neri, a Londra.
Torniamo al ragionamento teorico.
«Partiamo da qui: esistevano rapporti tra il banchiere Calvi e la banda della Magliana, o meglio una sua parte, ben rappresentata da "Renatino" De Pedis. L'episodio più clamoroso è l'attentato (aprile 1982) al vicepresidente del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone: l'attentatore era Danilo Abbruciati, esponente della banda della Magliana, che sparò a Rosone e fu ucciso da una guardia giurata. Ma è noto anche che Calvi si rivolse agli usurai di Campo de' Fiori, pure vicini alla banda».
Andiamo avanti.
«La banda della Magliana, in particolare il gruppo di Testaccio-Trastevere, che faceva capo a De Pedis e ad Abbruciati, si può considerare una costola di Cosa Nostra».
Di conseguenza?
«Il quadro sarebbe questo: Cosa Nostra investe denaro nelle spericolate operazioni finanziarie di Roberto Calvi. Calvi muore a Londra (giugno 1982) e i soldi diventano non più esigibili. Un'organizzazione che controlla il territorio come la banda della Magliana, a questo punto, può effettuare il sequestro della figlia di un dipendente vaticano o può decidere di "gestire" il sequestro».
Con quale movente?
«Il Vaticano, tramite lo Ior diretto da monsignor Marcinkus, aveva investito copiosi capitali nell'Ambrosiano. Il sequestro poteva essere un modo, da parte della banda della Magliana per conto della mafia, per ricattare, per rivalersi su una sorta di "socio" del debitore Calvi».
E De Pedis, ammazzato per la strada a revolverate, finisce sepolto in una cripta della basilica di Sant'Apollinare, in quanto «benefattore dei poveri»...
«Credo che quel sepolcro sia un simbolo. Un memento di un giuramento solenne, di un patto tra alcuni uomini della Chiesa e personaggi della malavita».
Antonio Mancini, pentito della banda della Magliana, ha sostenuto che quella tomba di marmo, oro e zaffiri sarebbe il riconoscimento dell'intervento di De Pedis per interrompere il ricatto al Vaticano.
«È verosimile. La tomba come sigillo che una grave vicenda è finita, con soddisfazione delle parti».
La nuova testimone, però, sostiene anche che il mandante del sequestro potrebbe essere Marcinkus.
«Qui si abbandona la logica e si passa alla fantasia. Come quando fu ipotizzato che nella tomba di De Pedis possa celarsi anche il corpo della Orlandi ».

l’Unità 24.6.08
Il Novecento in rosso della mia Albania
di Maria Serena Palieri


Un romanzo corale. Racconta storie a volte d’una crudeltà straziante a volte esilaranti
In primo piano due donne, Saba e Dora

ANILDA IBRAHIMI è l’autrice di una notevole opera d’esordio, Rosso come una sposa. È la saga al femminile e lunga un secolo d’una famiglia albanese, da re Zog a Enver Hoxha a oggi. Lei è nata a Valona ma ha scritto in italiano. Ci spiega perché

«Comunismo», «comunista». Quando Anilda Ibrahimi usa, in italiano, queste parole, non ci senti né il sottofondo di quel «gumunisti», l’appellativo-esorcismo del presidente del Consiglio, né la sonorità un po’ snob con cui, questi stessi termini, li usa Oliviero Diliberto. Trentaseienne nata a Valona in Albania e, con Rosso come una sposa (Einaudi, pp. 261, euro 16), al suo esordio da romanziera nella nostra lingua, Anilda dice cosa è stato concretamente il «comunismo», nella vita sua e della sua famiglia, e dice che oggi si sente, o non si sente, «comunista», per un sentimento o per un pensiero che, dentro di sé, coltiva. Insomma, a questi termini restituisce esperienza e, purgandoli dell’ideologia, in un certo senso innocenza. In Rosso come una sposa - gran bell’esordio narrativo - Anilda Ibrahimi racconta la vicenda di una famiglia albanese ad altissimo tasso femminile, dai primi del Novecento a oggi, cioè da re Zog a Enver Hoxha a Berisha. È un romanzo corale e racconta storie a volte di una crudeltà straziante a volte esilaranti. In primo piano due donne, Saba e Dora: la prima è una quindicenne sventurata costretta, nell’Albania monarchica, a sposare il vedovo di sua sorella, ha una serie di fratelli sterminati dai nazisti, poi è una matriarca saggia che affronta con apertura l’emancipazione che il regime di Hoxha, dopo il ‘46, regala alle donne esaltate come «forza della rivoluzione» e, dopo la fine del regime, è un’anziana che si ubriaca di tutte le religioni di nuovo ammesse, Islam, ebraismo, cristianesimo. Dora, sua nipote, alter ego della stessa Anilda, è protagonista, invece, del terremoto che segue al crollo del Muro ed è la prima a espatriare da un paese vissuto, al centro dell’Europa, per quarantaquattro anni, in un pazzesco isolamento totale. Anilda Ibrahimi, sposata a un italiano, due figli, Sara adolescente e Davide in età da asilo, è stata giornalista, dopo una prima esperienza in Svizzera è arrivata in Italia da Valona nel ‘97, mentre l’Albania viveva il caos delle cosiddette «piramidi finanziarie», e ha partecipato con i suoi versi a due raccolte, Cittadini della poesia (Loggia de’Lanzi) e Lingue di terra e lingue di mare (Mesogea). È, nel fisico, asciutta, torrenziale nell’eloquio.
«Rosso come una sposa» racconta la vera storia della sua famiglia? Oppure sono un’invenzione le vicende del clan Buronja: la capostipite Meliha, sua figlia Sultana e il suo matrimonio brevissimo con il marito Omer, Saba che la rimpiazza in quel letto, le sorelle Bedena, crudele, ed Esma punita perché troppo innamorata del marito?
«La verità che ho voluto rendere è stata l’atmosfera. Volevo ricostruire quelle fratture, nei ricordi, che vivo perché migrante: chi affronta un processo di migrazione sente che i suoi ricordi appartengono a “un’altra vita”. Volevo far rivivere le donne del mio paese, dai primi del Novecento in poi e, che si trattasse di ricordi ascoltati in famiglia, o per strada, non importava. Sono cresciuta in un gineceo, mia nonna aveva davvero cinque sorelle, mio padre sei. Ho voluto restituire, sulla pagina, a quelle donne il potere che detenevano, benché nascosto, in casa. Non so cosa si sapesse un tempo, fuori, dell’Albania...»
Niente. Si sapeva che negli anni Settanta certi ragazzi ardimentosi che decidevano di arrivare in Grecia dall’Italia in moto, e di farlo passando di lì, dovevano tagliarsi la barba, requisito richiesto dal vostro governo per farli entrare. Ci levi finalmente una curiosità: perché il taglio della barba?
«Credo si trattasse di una questione di uniformità: dovevamo essere tutti uguali e tutti puliti. Anche i jeans venivano tagliati, quelli perché erano simbolo del capitalismo. A me, l’uniforme a scuola piaceva. Ora, in Italia, ogni mattina assisto a un défilé, quando mia figlia adolescente si veste. Non amo, qui, la mancanza di rispetto per l’istituzione-scuola. In questo sono molto comunista».
Torniamo al romanzo. Che è scritto nella prima parte in terza persona, nella successiva in prima. Perché?
«Perché volevo arrivare, con la narrazione, ai giorni nostri, raccontare cioè prima quel mondo arretrato, contadino, e poi il suo scompiglio. Il primo disordine esplode quando Saba lascia il villaggio e va in città, il secondo quando sua nipote Dora va a Tirana, all’università, poi espatria. È un mondo arcaico che schiude le porte e si apre. Da lettrice non amo la prima persona, quando lo scrittore scrive “io” mi sembra che voglia raccontarmi i suoi pensierini, ciò che ha nella zucca invece di ciò che ha visto. Ma, arrivata al passato più recente, ho capito che ero molto coinvolta, allora ho deciso di concedermi l’”io”, però usando un nome fittizio, Dora appunto».
Lei non è la prima albanese a scrivere in italiano, già l’hanno fatto, per dire due nomi, Ornela Vorpsi e Ron Kubati. E sembra che la scommessa vi riesca facile, se Vorpsi ha vinto il Grinzane Esordienti e Kubati quest’anno è entrato nella dozzina dello Strega. Quanto a lei perché ha scelto la nostra lingua?
«Se avessi scritto in albanese, avrei fatto l’equivalente di quei contadini siciliani emigrati negli Usa e tornati in Italia coi soldi per realizzare il sogno, comprare calesse e muli, ma che poi si accorgevano che qui, ormai, tutti giravano in Mercedes. Vivo da undici anni a Roma e l’albanese non è più la “mia” lingua, le lingue evolvono, i significati cambiano. Perciò ho scelto l’italiano».
Pensa che l’italiano fosse la lingua adatta a rendere, quanto la sua d’origine, tutte le sfumature della cultura patriarcale e maschilista?
«A pensarci, sì».
C’è una parola albanese, che lei usa nel romanzo a più riprese: «kurva». Non spiega cosa significhi, ma si capisce...
«Puttana, puttanella. Mi è tornata nell’anima con la potenza con cui l’ho vissuta nell’infanzia. La pulizia morale delle donne era “il” valore. Da sempre, di generazione in generazione. È l’unica educazione sentimentale che ho ricevuto».
Il romanzo racconta alcune storie concernenti questa «pulizia»: sotto Enver Hoxha, per esempio, quella delle ragazze madri separate dai figli e imprigionate in campagna. Non le trova crudeli?
«È la crudeltà della società mediterranea, per la quale la sessualità femminile non mira al piacere, ma alla procreazione. Questa storia l’ho raccontata anche per far capire che il comunismo non era uno solo, erano tanti e diversi: amiche russe o rumene mi hanno detto che da loro le ragazze madri vivevano liberamente. Questo saldarsi del comunismo, da noi, con una tradizione millennaria è stata la forza che ha tenuto il nostro Paese chiuso al mondo per quarant’anni».
Ma lei oggi si definirebbe «comunista»?
«In senso stretto sì, siamo cresciuti a Marx e materialismo dialettico. Nel libro ho voluto raccontare come la nostra fosse anche una vita normale, con la sua speranza. In quegli anni è stato alfabetizzato un intero popolo. È stata sradicata la “vendetta di sangue”, quella barbarie che oggi, nel nord dell’Albania, è tornata: ci sono di nuovo bambini maschi rinserrati in casa per il terrore che, se escono, paghino con la morte il debito criminale della propria famiglia. In quegli anni, come mi raccontava mia nonna, il cui vero nome era Saliha, le donne hanno vissuto una felicità legata alla nuova libertà di uscire di casa, studiare, lavorare, avere dignità propria e qualche soldo. Ma certo parlo con l’esperienza di chi era “dalla parte giusta”, aveva i familiari “eroi”, morti per mano nazista. Per chi era “dall’altra parte” c’erano carcere, internamenti, e sono dolori da rispettare».
Non le sembra che l’idea stessa di comunismo abbia in sé un elemento totalitario?
«Certo, era una dittatura. Fosse del proletariato o no, era tale. Però mi chiedo che libertà sia quella che si vive in Italia. Sei precario a vita e non puoi sposarti, fare figli e progetti. Sei vittima di un delinquente e lo vedi tornare libero dopo due mesi. In Italia c’è solo libertà di chiacchiera».
Ricorda quale sentimento provò quando, nel 1993, uscì per la prima volta dal suo Paese?
«Lo stupore di un bambino cresciuto in un paesone di tre milioni di abitanti, che arriva in città. La Svizzera mi sembrò, col suo ordine, un’Albania benestante».
E invece su quale spinta, nel 1997, arrivò in Italia?
«Dovetti fuggire. Ero tornata in Albania e mi ero reinserita bene, scrivevo per Il nostro tempo, il giornale più venduto all’epoca. Avevo fatto dei reportage sulla mafia di Valona, sugli scafisti e il traffico di cannabis. E quando successe il disastro delle “piramidi finanziarie” ed esplose la truffa che resta ancora un enigma - mafia, armi, denaro sporco? - e che lasciò in povertà la maggioranza degli albanesi, ho visto la pazzia vera del mio popolo. C’erano i manifestanti che invocavano il protettorato mussoliniano, dicevano “basta, vogliamo diventare una colonia italiana”. Noi giornalisti siamo dovuti fuggire. Così sono arrivata a Lecce».
Gli albanesi oggi hanno ancora il mito dell’Italia, del «dove c’è Barilla c’è casa»...?
«No, hanno quello dell’America. Che sceglie. Accetta solo i migliori, gli intellettuali. E, anziché discriminarli, li integra, lì gli albanesi fanno i medici e gli ingegneri».

l’Unità 24.6.08
Michelangelo Pistoletto ci racconta la Sardegna di ieri e di domani
di f.o.


L’arte che si avvicina all’impresa, intrecciando tradizione, innovazione e sostenibilità ambientale. È l’idea contemporanea della fabbrica di matrice olivettiana, dove il luogo di lavoro diventa a misura d’uomo. È stata realizzata nel campus di Tiscali, l’azienda di telecomunicazioni fondata da Renato Soru alle porte di Cagliari, dove artisti di fama internazionale, come Olafur Eliasson, Alberto Garutti, Grazia Toderi, Pinuccio Sciola e Maria Lai, hanno raccontato un’idea di Sardegna tra passato e futuro. La grande installazione di Michelangelo Pistoletto è l’ultimo gioiello che ha arricchito la collezione, visitabile per ora solo dalle scolaresche ma presto aperta al pubblico in alcune occasioni.
«Tutto il campus - spiega la curatrice del progetto Gail Cochrane - è stato pensato cercando di unire l’innovazione dell’impresa di telecomunicazioni con le radici dell’isola. L’arte contemporanea era quindi il linguaggio più adatto con opere che da un lato esaltassero lo scenario naturale e dall’altro curassero la bellezza degli occhi e della mente».
Modernità e tradizione regalano al luogo una forte identità, per una fotografia di un’isola dalle radici ben salde ma in grado di accogliere il futuro. E l’equilibrio con la natura e la forza dei segni sembrano essere il filo conduttore. Come nel monumentale Ipertesto di Pistoletto: situato lungo il camminamento interno che collega gli edifici, racchiude tutti i campi del sapere in ambienti delimitati da grandi portali, luoghi contemplativi con grandi specchi che riflettono la centralità dell’individuo in equilibrio con la realtà circostante.
O come nell’installazione Quanti mari navigare, geografia metaforica di Maria Lai realizzata con tutti i tipi di sabbia delle spiagge, collegate da fili e simboli femminili, echi dell’antica mater sarda. L’acqua, elemento che caratterizza l’isola e il campus di Tiscali, racchiusa tra la laguna di Santa Gilla e il porto canale, si trasforma in nebbia con la suggestiva Fog Doughnut di Olafur Eliasson, un enorme spirale d’acciaio che emette vapore o disegna lo spazio con suggestivi giochi come nell’irrigatore di Alberto Garutti, per un’arte funzionale al luogo.
La pietra, sconvolgendo il principio che la vuole materia uguale e immobile, si trasfigura in musica con il monolite creato da Pinuccio Sciola, oggetto pulsante di vita propria. La video installazione di Grazia Toderi, mostra invece una ripresa aerea di Cagliari e del campus, con suoni evocativi che richiamano alla realtà virtuale del web.

l’Unità Roma 24.6.08
Il sospetto di femminicidio
La tragedia di Lolly e la morte di Laura Marx
di Adele Cambria


«Sano di corpo e di spirito, mi uccido prima che la spietata vecchiaia che mi toglie, uno ad uno, le gioie e i piaceri dell’esistenza, e che spoglia le mie forze fisiche ed intellettuali, paralizzi la mia energia e spezzi la mia volontà, facendo di me un peso a me stesso e agli altri. Da anni mi sono ripromesso di non superare i settant’anni: ho fissato l’epoca e ho preparato il modo d’esecuzione della mia scelta: una iniezione di acido cianidrico... Paul Lafargue»
Questo il testamento lasciato nel 1911 da Paul Lafargue, un celebre intellettuale, teorico e militante socialista del diciannovesimo secolo; dal socialismo di Proudhon della prima giovinezza, dopo avere incontrato nel 1865 Carlo Marx, Lafargue, nato a Cuba e studente a Parigi, passa al socialismo scientifico e per aver partecipato a Liegi all’Internazionale degli Studenti viene radiato da tutte le università francesi. E per questa ragione, per strano che possa sembrare, Carlo Marx gli nega, in un primo momento, la mano della propria figlia Laura, di cui si era innamorato. «Stando così le cose - gli aveva scritto in una memorabile lettera - per dare inizio alla vita con mia figlia, siete destinato a contare sull’aiuto altrui… Ed un realista “di professione” come voi, non può pensare che io mi comporti da idealista, trattandosi dell’avvenire di mia figlia. Una persona come voi, che vuole abolire la povertà, non può certo desiderare di scaricarla tutta sulle spalle della mia bambina».
Laura e Paul comunque si sposarono a Londra (con il matrimonio civile, ma ai vicini di casa della famiglia Marx fu detto che essendo Lafargue cattolico e Laura protestante non avrebbero potuto sposarsi in chiesa); ed ebbero una vita agiata, se non addirittura lussuosa nella loro casa parigina. Dove in un giorno di novembre del 1911 furono trovati morti entrambi: Paul Lafargue disteso sul letto ed elegantemente abbigliato, Laura, che di anni ne aveva 66 e non 70, compostamente seduta in poltrona. Il testamento dell’autore di quel pamphlet famoso ancora oggi, «Il diritto all’ozio», non recava alcun accenno a Laura Marx, e nessuno si chiese se lei avesse condiviso la scelta finale del marito. Lenin, che pronunciò l’orazione funebre sulla loro tomba, non la nominò neppure.
E fino agli anni Settanta del secolo scorso - e all’emersione in Occidente del movimento femminista - nessuno aveva trovato bizzarra la presenza di quella "vedova indiana" nel cuore della dinastia fondante del socialismo.
….Non c’è niente, lo so - tranne gli interrogativi, non pronunciati e non pronunciabili per settant’anni sulla sua scelta di morire insieme al proprio autorevolissimo compagno - che possa ricordare la fine di Laura Lafargue-Marx, nella morte atroce di questa ragazza pugliese di 25 anni, Loredana Benincasa, trovata sgozzata in una villetta bifamiliare sulla Trionfale, accanto al fidanzato, Niccolò Di Stefano, ventiquattrenne. Che tuttavia non è morto - ed anzi secondo i medici si salverà - nel doppio suicidio annunciato dal sintetico «testamento» della coppia. «Speriamo di non avervi deluso - recita il biglietto - siamo stanchi, perdonateci. Addio. Lasciateci insieme». L’hanno firmato tutt’e due, Niccolò e Loredana, ma soltanto una perizia calligrafica potrà accertare se la firma di lei è autentica.
In un primo momento c’è stato chi, professionalmente ineccepibile come Luigi Cancrini, ha azzardato una diagnosi di disagio giovanile, quel «non riconoscersi in un mondo che evidentemente non ritengono adatto ad accogliere i loro figli». E ciò nonostante la situazione materiale della coppia, affettuosamente accolta in un appartamento indipendente della villetta dai genitori di lui, e perciò meno esposta all’ansia di una vita precaria.
Ma se, al contrario, come pensano i familiari della ragazza, lei aveva voglia di vivere, un lavoro in vista, una laurea, e considerava esaurita la relazione con Niccolò, allora si tratterebbe soltanto dell’ennesimo «femminicidio», eseguito dall’ennesimo partner maschile troppo fragile (e violento) per accettare l’abbandono.

Corriere della Sera 24.6.08
Triplicate le vendite. L'editore lo rilancia: «Spiega meglio di ogni altro testo l'economia»
In Germania torna di moda «Il Capitale» di Marx


BERLINO — Sempre più tedeschi ne sono convinti: il capitalismo, in fondo, lo spiega ancora meglio Marx di tanti teorici moderni, confusi da globalizzazione e mercati aperti. «Marx è tornato di moda», ha detto ieri Jörn Schütrumpf alla Süddeutsche Zeitung. Con una certa tristezza e un po' di preoccupazione: non perché non gli piaccia il grande pensatore tedesco, ma perché non va d'accordo con le mode.
Schütrumpf dirige la casa editrice Karl Dietz di Berlino, erede della Dietz controllata dal partito comunista negli anni della Germania Est, e sta cercando di capire da dove venga la domanda crescente, e sorprendente, di testi marxisti, soprattutto del Capitale. Vorrebbe sapere — come gli avrebbe suggerito il filosofo ed economista di cui pubblica le opere — fino a che punto fare crescere l'offerta. Il fatto è che, sino a cinque anni fa, vendeva un paio di centinaia di volumi del Capitale
all'anno. Alla fine del 2007, si è accorto di avere raddoppiato le vendite rispetto al 2006. Lo scorso maggio, ha triplicato rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. Nel 2008, si avvia verso le duemila copie. Numero che non lo farà andare in testa ai bestseller ma che è il segno di un ritorno di interesse inaspettato in Karl Marx.
Anche perché, negli anni passati, le poche copie dei due volumi di Das Kapital rilegati in blu erano vendute quasi esclusivamente in marzo e in ottobre, agli studenti che iniziavano il semestre universitario. Ora si vendono tutto l'anno. Segno di un interesse generale, non più limitato all'accademia. La teoria di Schütrumpf è che, di fronte alle domande poste dal capitalismo globale e di fronte alle letture raramente convincenti che ne danno filosofi, economisti e politici, molti tedeschi tornino a Marx (e ovviamente a Engels) per cercare lumi. Non è detto che ci riescano, l'opera non è aggiornatissima. Ed è proprio la stabilità di questo nuovo interesse a impensierire l'editore. I due volumi del Capitale vengono venduti a 19,90 euro, poca cosa se si considera che la dimensione e la buona qualità della rilegatura tengono alti i costi di produzione (per risparmiare, vengono stampati nella Repubblica Ceca). Sbagliare i calcoli sarebbe un guaio serio per una casa editrice piccola. Il dubbio, dunque: fidarsi ancora di Karl Marx?
«Pensavamo di avere finito la nostra corsa nel XX secolo, pensavamo di non avere più nulla a che fare con il presente», ammette Schütrumpf. Da qui un certo disorientamento. Il fenomeno Capitale, però, non è il solo segno di un ritorno di Marx in Germania. La crescita politica della Linke, il partito alla sinistra dei socialdemocratici tedeschi, si porta dietro una rivalutazione del pensiero marxista, oltre che degli scritti di Rosa Luxemburg, anch'ella pubblicata dalla Karl Dietz.
E a Chemnitz, città della ex Germania Est che tra il 1951 e il 1990 si è chiamata Karl-Marx-Stadt, da qualche settimana la folla fa la coda per salire sulle impalcature innalzate attorno al famoso busto del filosofo (11 metri) e poterlo guardare negli occhi. Chissà se, almeno a loro, fa capire dove sta andando il capitalismo.È il padre del comunismo Danilo Taino

Corriere della Sera 24.6.08
I 100 intellettuali più influenti del pianeta secondo due riviste, americana e inglese
Top Ten del pensiero: tutti musulmani
Vince Fethullah Gülen. Chomsky undicesimo, primo degli occidentali
di Cecilia Zecchinelli


Nove anni fa, mancava poco all'inizio del nuovo millennio, centinaia di migliaia di fax, lettere, email si riversano sulle scrivanie di Time Magazine
sostenendo che l'«uomo del secolo» era senza il minimo dubbio Mustafa Kemal, detto Atatürk. Perfino nella categoria «musica», il Padre della Patria ottenne più voti di Bob Dylan. Che poi la rivista americana abbia deciso di attribuire ad Albert Einstein l'onore (e la copertina del 31 dicembre 1999) non sembra aver demoralizzato i turchi. Tanto che il nuovo sondaggio lanciato in aprile da due pubblicazioni prestigiose seppur meno popolari — la statunitense Foreign Policy e la britannica Prospect — si è chiuso ieri con un risultato decisamente inatteso ma (a posteriori) spiegabile.
Alla domanda «chi sono oggi i 100 intellettuali più influenti del pianeta?», i 500mila e oltre che hanno risposto nel mondo hanno scelto come Numero Uno un nome sconosciuto a (quasi) tutti: Fethullah Gülen. E dopo di lui, nella Top Ten, seguono solo pensatori musulmani. Per trovare intellettuali occidentali si deve arrivare all'undicesimo posto (il linguista liberal americano Noam Chomsky, già vincitore del primo analogo sondaggio nel 2005), seguito dall'(ex) politico oggi ecologista Usa Al Gore, dall'orientalista ebreo anglo- americano Bernard Lewis, da Umberto Eco (14˚e unico italiano insieme al giornalista Gianni Riotta, 79˚).
In realtà, dice al Corriere
uno dei maggiori esperti di Islam, il francese Olivier Roy (piazzatosi 66˚),Gülen è tutt'altro che uno sconosciuto: «Sufi, sostenitore di una religione moderata e con forti valenze sociali, carismatico al punto di essere quasi un guru — dice Roy — ha milioni di seguaci in Turchia e non solo. Ha aperto scuole in Asia Centrale e nel Caucaso, scritto 60 opere di successo, incontrato Giovanni Paolo II: nel suo universo è ormai una celebrità ».
Ma anche al di fuori del loro universo, leggi in Occidente, sono molto conosciuti altri nomi tra i primi dieci. Dal «banchiere dei poveri» e inventore del microcredito, l'economista del Bangladesh Muhammad Yunus (arrivato secondo), al telepredicatore di Al Jazeera nonché presidente del Consiglio mondiale delle Fatwa, l'egiziano Yusuf Al Qaradawi (terzo). Dallo scrittore e premio Nobel Orhan Pamuk (un altro turco, per altro musulmano solo di nascita), classificatosi quarto, al controverso teologo e accademico svizzero-egiziano Tariq Ramadan (ottavo) fino alla prima donna degli eletti, decima, ovvero l'avvocatessa e anche lei premio Nobel, l'iraniana (per altro laica) Shirin Ebadi.
«È vero, siamo stati sorpresi: all'inizio le preferenze si erano concentrate sullo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa e sull'ex campione di scacchi e oggi dissidente russo Garry Kasparov, poi è arrivata la valanga di voti a favore di Gülen e abbiamo pensato a una manipolazione elettronica del sondaggio — ci dice Tom Nuttall, il caporedattore di Prospect che ha seguito il progetto —. Ma abbiamo controllato, ed era tutto regolare. E abbiamo scoperto che è stata la pubblicità alla nostra iniziativa sul primo quotidiano turco, Zaman, vicino al movimento di Gülen, che ha scatenato la risposta compatta dei suoi innumerevoli seguaci. Visto che ognuno poteva indicare cinque nomi, tra i cento che noi e Foreign Policy avevamo indicato, è logico pensare che chi ha scelto Gülen abbia votato per altri musulmani».
Spiegazione solo parziale, però. Perché al di là della religione d'origine (l'islam, appunto) tra il laico Pamuk e l'integralista Al Qaradawi ci sono abissi che non esistono — ad esempio — tra gli economisti Amartya Sen (16˚),Jeffrey Sachs (48˚)e lo stesso Yunus, di tre diverse religioni sulla carta ma con molto in comune. «E il sondaggio prova infatti che la mia teoria di un Islam globalizzato è fondata — continua Olivier Roy, autore di Global Muslim: le radici occidentali nel nuovo Islam (Feltrinelli, 2003) —. Nei Paesi musulmani esiste oggi una Umma, una comunità virtuale con posizioni molto differenti al suo interno tanto che abbiamo chi vota Gülen e chi sceglie Hirsi Ali (15˚nel sondaggio), ma con una grande attività su Internet. E non solo sui siti musulmani o locali, ma su quelli dell'Occidente, di tutto il mondo».
Persone di età e posizioni politiche diverse che in genere non si riconoscono nei regimi al potere nei loro Paesi, ma nemmeno nel laicismo militante dei nostri, che parlano più lingue, che vogliono far sentire la loro voce con un'energia decisamente superiore (soprattutto in Turchia) di quanto non avvenga (almeno in questa fase) tra gli stanchi e disincantati cittadini d'Europa. «Al di là dell'evidente stortura della vittoria di Gülen — conclude Roy — il sondaggio dimostra pure, se ce ne fosse ancora bisogno, quanto sia errata la teoria dello "scontro di civiltà" di Samuel Huntington (28˚ in questa speciale classifica). Con l'eccezione forse di Al Qaradawi, i vincitori sono tutti per il dialogo».

Repubblica 24.6.08
L’elettrochoc antisemita
Settanta anni fa le leggi razziali italiane. Obiettivo: l’uomo nuovo fascista
di Susanna Nirenstein


Parla Marie-Anne Matard-Bonucci: "Così Mussolini voleva rivitalizzare il regime totalitario e trasformare il carattere della popolazione"
Un saggio della studiosa francese sottolinea la mèta del dittatore: trasformare i cittadini in uomini capaci di odiare il nemico
Il Duce nel costruire ex-novo la dottrina antiebraica nostrana, pensa al successo di Hitler, ma vuol presentarla come ideologia made-in-Italy

Il 15 luglio 1938, esattamente settanta anni fa, sul Giornale d´Italia usciva un testo anonimo poi passato alla storia come il Manifesto della razza, redatto, come si seppe pochi giorni dopo, da dieci scienziati, voluto dal Capo, il Duce. Il 25 luglio il Partito fascista fa sua ufficialmente l´idea che gli «ebrei non appartengono alla razza italiana». Il 5 settembre partono i primi provvedimenti antisemiti; leggi dure, più ancora di quelle naziste di Norimberga. I bambini e i ragazzi ebrei vengono espulsi dalle scuole, e così i professori; molti professioni e impieghi sono vietati; il patrimonio limitato, più tardi proibito e espropriato; gli ebrei stranieri, in gran parte rifugiati, costretti ad andarsene. Lo scandalo avrebbe dovuto essere enorme: non sono dispositivi lievi, «all´italiana», «di facciata». Invece non vi furono proteste, se non quelle degli ebrei. La normativa antisemita applicata meticolosamente, porterà alla miseria, all´emigrazione, al suicidio; il tragitto si concluderà con la deportazione e la morte di 7.658 ebrei, un quarto di una comunità di 32.200 persone presenti nel ‘43, contando quelli delle isole del mar Egeo sotto il dominio fascista. Questi, in pochissime e scarne parole, i fatti.
Ma passiamo alle considerazioni. Come fu possibile una svolta tanto brutale che colpiva, con rapidità ed efficienza, una collettività così profondamente integrata? Gli ebrei, dall´Unità in poi, avevano partecipato attivamente e con soddisfazione reciproca alla vita dello Stato, alle guerre, alla cultura, all´economia. E perché poi una popolazione non ostile agli ebrei, fu testimone silenziosa e spesso complice dell´esclusione e della vessazione? Domande universali, le stesse a cui vuole dare risposta Marie-Anne Matard-Bonucci, docente all´Università di Grenoble II, nel suo L´Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (il Mulino, pagg. 514, euro 29). Il cuore del suo ragionamento è che il «momento antisemita» italiano, in rottura netta con la tradizione liberale ed anche con quella fascista, rispose alle necessità congiunturali di un regime, in affanno di consenso, che aveva bisogno di rivitalizzare la dinamica totalitaria con una mobilitazione aggressiva diretta a creare l´uomo nuovo fascista.
Professoressa, le leggi nacquero oppure no da un sostrato antisemita già presente nei geni del fascismo come ha sostenuto lo storico Michele Sarfatti?
«Dopo l´Unità d´Italia, la storia degli ebrei è più che altro una storia di integrazione. I sentimenti avversi esistono, ma sono molto meno importanti che in altri paesi. Il fascismo non è antisemita né quando arriva al potere, né nei suoi programmi successivi, se non nelle frange estreme. Persino un antisemita filotedesco come Giulio Cogni, nel ‘36-´37, scrive che l´antisemitismo è inimmaginabile in Italia. Chi avesse nutrito un´ideologia del genere, semplicemente non sarebbe stato in linea col Partito. Sarfatti ha dato un contributo notevole alla storia dell´antisemitismo fascista, ma insiste su una continuità ideologica su cui non sono d´accordo».
Allora lei si sente più vicina a De Felice, che poneva l´accento sulla decisione di Mussolini di dare una "coscienza razziale" all´Italia per trasformarla in una "grande potenza" formata da cittadini che si sentissero "superiori" e determinati ad imporsi con la forza?
«De Felice ha scritto il primo fondamentale libro di storia dell´antisemitismo fascista, ma forse ha sottovalutato l´importanza e la durezza dell´applicazione delle norme e della persecuzione. A volte riprende gli argomenti spesi dagli stessi fascisti nel ‘38, come quello della continuità dell´antisemitismo con il razzismo coloniale».
Furono due fenomeni separati?
«Credo che la grave politica applicata in Etiopia da un punto di vista ideologico appartenga a un altro registro. Contro i neri si sviluppa una teoria di inferiorità dell´altro. Nell´antisemitismo c´è una spinta diversa, la paura dell´altro, visto come un uguale, anzi, quasi superiore. I due razzismi si avvicinano (e qui concordo con De Felice) solo perché vogliono trasformare il carattere dei cittadini, compiere una rivoluzione antropologica e fabbricare l´italiano nuovo, capace, come dice Mussolini, di "odiare il nemico". Un aspetto che ritroviamo nella lotta al "pietismo" verso gli ebrei: chi veniva considerato un "pietista", chi dimostrava qualche solidarietà, era buttato fuori dal Partito».
Quanto influì invece la Germania?
«Penso che il suo peso sia stato sottovalutato. E´ vero che Berlino non fece pressioni, ma già nel ‘36 la fascinazione per la Germania è forte. L´Italia nel costruire l´antisemitismo di stato pensa al successo che questo aveva avuto e aveva in Germania, anche se vuole presentarlo come un´ideologia made in Italy. Al contrario c´è una sorta di trasposizione culturale e solo poco a poco, con il concorso degli intellettuali e dei politici che si sentono chiamati a un compito prioritario, si definirà una dottrina italiana. All´inizio si guarda alla Germania».
Le leggi furono più dure di quelle di Norimberga. Perché?
«Per la volontà di radicalizzare il sistema politico, di creare una società totalitaria, di avere degli italiani capaci di tagliare i legami affettivi, professionali e mettersi nella posizione dei persecutori. Per la determinazione di chiudere con una tradizione di umanitarismo, per trasformare, ripeto, il carattere della popolazione. Mussolini è stato in Germania ed è tornato impressionato dalla velocità del cambiamento, dalla compattezza della società: allora decide di accelerare la metamorfosi del suo paese con una specie di elettrochoc. E, questo è il fatto "straordinario", il suo messaggio, nel regime totalitario, funziona: in poco tempo gli ebrei diventano dei paria».
Alcuni storici lo giudicano un totalitarismo imperfetto, dove accanto al Duce ci sono comunque un Papa e un Re.
«Non era perfetto, compiuto, ma il progetto totalitario di Mussolini era chiaro: concepito fin dalle origini, ebbe fasi alterne. Lo stesso Mussolini alla fine rimpiangeva di non aver trasformato come voleva il popolo italiano e vedeva nella Chiesa uno dei fattori frenanti più forti. Comunque né il Papa né il Re si opposero alle leggi razziali, e questa per il fascismo fu una vittoria su Vaticano e monarchia».
Le leggi furono declinate secondo un parametro biologico, come quelle tedesche. Ma si prevedevano i "discriminati", i meno colpiti, per meriti patriottici. Come si combinano le due cose, l´anima biologica e quella ideale, che si rifaceva alla storia comune, alle guerre?
«I discriminati ci dicono delle difficoltà che il regime sentiva di avere. L´impostazione biologica all´inizio è quella prevalente. Poi gli intellettuali cercano di appropriarsi del discorso razziale declinandolo in vari modi, meno tedeschi: l´importante è allinearsi, partecipando attivamente. Evola, pur riferendosi a quello biologico, imposta un razzismo "spirituale" più vicino al progetto di rivoluzione antropologica. Altri, come Giacomo Acerbo e Vincenzo Mazzei, lo rivestono di nazionalismo. Altri ancora cercano i fondamenti nella tradizione cattolica».
Quanto contò il secolare antigiudaismo cattolico?
«Poco o niente nella decisione. Molto per la tradizione culturale su cui si sarebbe potuto contare in seguito. Sarebbe assurdo affermare che l´antisemitismo sia arrivato su un terreno vergine. Nel momento delle leggi però, al contrario, ci fu la volontà di chiudere con l´umanitarismo cattolico».
La propaganda, lei racconta, si fermò quasi subito, nei primi mesi del ‘39. Come mai?
«Perché l´antisemitismo del ‘38 è strumentale, serve a rilanciare la macchina totalitaria. Dopo si presentano altri fronti, e ben presto la guerra. L´argomento sembra esaurito, anche perché non era mai stato concepito per mobilitare le masse, ma piuttosto le élite».
Il segno di riconoscimento. Lei sottolinea che la stella gialla non fu imposta per «paura di una riprovazione pubblica». Dunque la coesione conquistata da Mussolini non era così totale.
«Capire cosa pensava la gente è sempre difficile. I rendiconti dei prefetti lasciano intravedere la perplessità della popolazione. La società non ancora come Mussolini desiderava. Per questo la vuole trasformare. Dovete imparare a odiare il nemico, dice, lo ripeto: e nel ‘37-´38 l´ebreo è il solo nemico pensabile perché tutta l´Europa di destra lo sta disegnando come tale. L´altro nemico non c´è più: o è in carcere, o al confino, o all´estero».
Gli italiani accettarono le leggi e le applicarono.
«La società aveva capito che l´antisemitismo era una scelta politica importante a cui non ci si poteva opporre. Era un passo identitario per il regime e si impose per la sua forza definitiva e spietata».
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Repubblica 24.6.08
Praga 68. La settimana che ci cambiò per sempre
di Milan Kundera


"Ci sono paesi che vantano le loro conquiste e paesi che invece possono vantarsi per non aver mai conquistato niente e nessuno" "Lettera internazionale" pubblica un dossier dedicato all´invasione della Cecoslovacchia
Vogliamo mostrare quante potenzialità democratiche si sviluppano nel socialismo
Il nostro paese non si distingue per spirito romantico, ma per sobrietà e umorismo
Gli avvenimenti di agosto hanno gettato una luce nuova su tutta la nostra storia

Era il 24 agosto ed ero a casa del padre di un mio amico. Da lontano si sentiva sparare, sul tavolo c´era una radiolina accesa; e io guardavo distrattamente l´antica biblioteca di casa, finché alla fine ho tirato fuori un libro scritto nel 1633 da Pavel Stránsky: Sullo Stato ceco. E ho letto: «Se si domanda a un esperto di questioni ceche se i paesi cechi siano un alleato per scelta contrattuale dell´impero tedesco, oppure un paese feudale e vassallo, egli sosterrà con fermezza che i paesi cechi sono amici dei tedeschi, uniti a loro da antichissima alleanza, più che loro servitori o protetti». (...)
Gli spari oltre le finestre riportavano la mia attenzione al momento presente, mentre le frasi di Pavel Stránsky mi sospingevano tra le braccia della storia ceca, riportandomi alla sua infinita lontananza, avvertendomi però che continuiamo a vivere sempre la stessa storia nazionale, con la sua «eterna» problematica, con l´incessante conflitto tra alleanza e sovranità, con una sovranità ricercata costantemente e non raggiunta e la lotta continua per ottenerla, e che quindi i colpi che sentivo non erano solo un fulmine a ciel sereno, uno choc, un´assurdità: in essi non faceva altro che realizzarsi, ancora una volta, l´antichissimo destino ceco. (...)
Quest´agosto ha gettato una luce nuova su tutta la nostra storia. Non che lo scetticismo sul carattere ceco sia venuto meno, ma è stato integrato da un altro punto di vista, di segno opposto: sì, la nazione ceca ha oramai perduto la continuità diretta con l´eroica tradizione della mazza ferrata di Zizka ma, oltre a questo, l´hussitismo sta a significare che la tradizione di un popolo nel quale «ogni vecchietta conosce le Sacre Scritture meglio di un prete italiano» è di casa ancora oggi, e questa tradizione, da noi, vuol dire istruzione e spirito riflessivo.

Sì, il risorgimento ceco, invece della grande politica, ha conosciuto solo la spicciola educazione popolare; per esso l´arma principale della lotta nazionale erano il teatro amatoriale, le canzoni e i versi; sì, l´arte ceca è stata aggiogata al carro traballante dell´educazione nazionale, ma è anche vero che in questo modo il popolo ceco, fin dall´inizio della sua nuova esistenza, è stato legato alla cultura in modo fatale come pochi popoli europei, tanto che in questa metà dell´Europa è il popolo di gran lunga più pensante e istruito che non si lascia infinocchiare da nessuna propaganda da quattro soldi.
Sì, è vero che la nazione ceca nel secolo scorso è rimasta ai margini dei grandi conflitti europei; ma è vero pure che a quel tempo è riuscita a fare una cosa enorme: da popolazione semianalfabeta, seminazionalizzata, si è trasformata di nuovo in nazione europea, e contro i tentativi continui di germanizzazione, contro le intenzioni del potere cui era sottomessa, da allora è capace di dare il meglio di sé proprio quando i tempi sono più sfavorevoli.
Sì, è vero che la nazione ceca non si distingue per eroico spirito romantico, ma è vero pure che il rovescio di questa mancanza di romanticismo e di eroismo consiste nella sobrietà intellettuale, nel senso dell´umorismo e nello spirito critico con cui essa guarda anche a se stessa, tanto da essere una delle nazioni meno scioviniste d´Europa. Se il suo orgoglio nazionale si solleva sdegnato, vuol dire che ha subito un´offesa terribile; vuol dire che la sua indignazione non è fugace e di breve durata, ma caparbia come può esserlo solo l´intelletto.
Vedo la mansarda di un palazzetto parigino, sento la voce di Aragon piena di rabbia, una voce che maledice il sopruso; vedo la faccia di Aragon piena di angoscia per i destini del mio paese e sento poi le mie parole che ripetono più volte: «È stata la settimana più bella che abbiamo mai vissuto». Ho paura che questa affermazione a Parigi sia risuonata assurda e strana, ma i miei compatrioti mi capiranno. E stata infatti una settimana in cui la nazione ha visto all´improvviso la propria grandezza, una grandezza nella quale ormai non sperava proprio più.
Mi viene in mente, ripensando a Parigi, una piccola trattoria nel quartiere latino, dove ho pranzato con Carlos Fuentes, ottimo scrittore messicano, mio coetaneo. Fuentes mi ha chiesto se sapevo che i cechi in Messico sono guardati con molta simpatia. Mi ha poi raccontato che, alla metà del secolo scorso, tre potenze europee, che non gradivano la politica liberale del presidente Juárez, inviarono in Messico degli eserciti di occupazione, e che i reparti cechi che vi arrivarono con l´esercito austriaco si rifiutarono di partecipare all´occupazione di un paese progressista. Molti cechi restarono in Messico e poiché tra loro c´erano parecchi musicisti, la vita musicale messicana si arricchì tanto che il loro ricordo è ancora oggi circondato dalla gloria.
Perché c´è la gloria dei conquistatori e c´è la gloria di quelli che, nella loro storia, conquistatori non sono mai stati. C´è la superbia delle nazioni che si gloriano delle campagne dei loro Napoleoni e dei loro Suvorov e c´è l´orgoglio delle nazioni che non hanno mai esportato quella brutalità. C´è la mentalità delle superpotenze e c´è la mentalità delle piccole nazioni. Una grande nazione vede la propria esistenza e la propria importanza internazionale garantite automaticamente dal semplice numero dei suoi abitanti. Una grande nazione non si tormenta interrogandosi sul motivo e sulla legittimità della propria esistenza: c´è e continua ad esserci con un´ovvietà schiacciante. Si fonda sulla propria grandezza e non di rado se ne inebria come se fosse di per sé un valore.
Invece una piccola nazione, se ha una qualche importanza nel mondo, deve ricrearla ogni giorno e senza sosta. Nel momento in cui smette di creare valori, perde la legittimità della propria esistenza e alla fine, forse, cesserà anche di esistere perché è fragile e può essere distrutta. In essa, la creazione di valori è legata alla questione dell´esistenza, e questo probabilmente è il motivo per cui la creazione (culturale ed economica), di solito, nelle piccole nazioni (forse a partire già dalle antiche città greche) è molto più intensa che nei grandi imperi.
La coscienza della grandezza, della quantità, dell´indistruttibilità, permea interamente i sentimenti delle grandi nazioni: tutte hanno dentro di sé un frammento di quella «superbia della quantità», tutte hanno la tendenza a vedere nella propria grandezza una predestinazione alla salvezza del mondo, tutte sono inclini a scambiare se stesse per il mondo, la propria cultura per la cultura del mondo, e perciò, di solito, sono estroverse in politica (orientate verso le lontane sfere della loro influenza), ma al tempo stesso molto egocentriche per quanto riguarda la cultura. Ah, povere grandi nazioni! La porta che si apre sull´umanità è angusta e voi ci passate a stento.
Credo nella grande missione storica delle piccole nazioni nel mondo di oggi, lasciato in balìa di superpotenze che desiderano allinearlo e livellarlo a propria misura. Le piccole nazioni, ricercando e costruendo continuamente la propria fisionomia, lottando per le proprie peculiarità, si preoccupano nello stesso tempo che l´intero globo terrestre resista ai terribili influssi all´uniformità, che risplenda la varietà delle tradizioni e dei modi di vivere, che in esso l´individualità umana, il miracoloso e la singolarità possano essere di casa.
Sì, sono convinto della missione delle piccole nazioni. Sono convinto che un mondo in cui la voce dei guatemaltechi, degli estoni, dei vietnamiti o dei danesi venisse sentita quanto quella degli americani, dei cinesi o dei russi, sarebbe un mondo migliore e meno triste. So pure, però, che per le piccole nazioni è insidioso e difficile. Hanno i loro periodi di letargo e, a differenza delle grandi nazioni, ogni loro assopimento comporta il pericolo di non risvegliarsi. Il pensiero che anche la nazione ceca stesse di nuovo decidendo se vivere o tirare a campare, se essere o non essere, mi si è imposto fastidiosamente anni fa, quando mi sono reso conto di come una politica poco illuminata soffocasse la vita ceca e facesse precipitare la cultura ceca al livello insignificante di una provincia europea. Mi è tornata in mente l´acuta domanda di Schauer: ma è propria valsa la pena di ricollocare la nostra piccola nazione al centro dell´Europa? Quali valori apporta e intende apportare all´umanità?
Quando ho pronunciato questa domanda, nell´estate del 1967, dalla tribuna del Congresso degli Scrittori, non immaginavo con quale drammaticità le avrebbe risposto l´intera Cecoslovacchia l´anno seguente. Il tentativo di creare finalmente (e per la prima volta nella sua storia mondiale) un socialismo privo dell´onnipotenza della polizia segreta, con la libertà della parola scritta e parlata, con un´opinione pubblica che viene ascoltata e con una politica che si appoggia ad essa, con una cultura moderna che si sviluppa liberamente e con uomini finalmente liberi dalla paura, è stato un tentativo con cui i cechi e gli slovacchi per la prima volta dalla fine del Medioevo si sono posti di nuovo al centro della storia e hanno rivolto al mondo il loro appello.
Questo appello non si fondava su una presunta volontà dei cecoslovacchi di sostituire il modello di socialismo esistente con un altro modello altrettanto autoritario ed esportabile. Un messianismo del genere è estraneo alla mentalità di una piccola nazione. Il senso dell´appello cecoslovacco stava in qualcos´altro: mostrare quali immense potenzialità democratiche siano tuttora trascurate nel progetto sociale socialista, e mostrare che queste potenzialità si possono sviluppare solo se si libera pienamente l´originalità politica di ogni singola nazione.
L´appello cecoslovacco continua ad essere valido. Senza di esso il XX secolo non sarebbe più il XX secolo. Senza di esso il mondo di domani sarebbe un mondo diverso da quello che sarà. Il significato della nuova politica cecoslovacca aveva una portata troppo grande per non incontrare resistenze. Il conflitto, naturalmente, è stato più duro di quanto immaginassimo, e la prova attraverso cui è passata la nuova politica è stata atroce. Ma io mi rifiuto di chiamarla una catastrofe nazionale, come adesso fa comunemente la nostra opinione pubblica, piuttosto lamentosa. Oso addirittura dire, a dispetto dell´opinione corrente, che forse il significato dell´Autunno cecoslovacco è perfino superiore al significato della Primavera cecoslovacca.
È successo infatti qualcosa che nessuno si aspettava: la nuova politica ha retto al terribile conflitto. Ha fatto un passo indietro, è vero, ma non si è disgregata. Non ha ripristinato il regime poliziesco; non ha accettato l´incatenamento dottrinario della vita intellettuale, non ha rinnegato se stessa, non ha tradito i propri princìpi, non ha perduto i propri uomini; non solo non ha perduto il sostegno dell´opinione pubblica, ma, proprio nel momento in cui c´era un pericolo mortale, ha cementato dietro di sé l´intera nazione, in quanto era interiormente più forte di quanto non fosse prima di agosto. E ancora: se i suoi rappresentanti politici devono contare sulle possibilità che al momento ci sono, vasti strati della nazione, specialmente i giovani, conservano dentro di sé, in tutta la loro intransigente interezza, la coscienza degli obiettivi di prima di agosto. E c´è in questo una speranza immensa per il futuro. E non per quello remoto, ma per quello prossimo.
Ma che cosa succederà se la nuova politica continuerà a fare passi indietro, fino a diventare, senza che neppure ce ne accorgiamo, una politica vecchia? Che cosa succederà se la dichiarata provvisorietà del passo indietro diventerà una provvisorietà di decine di anni? È evidente che non è garantito da nessuna parte che il 1968 in futuro non verrà rovinato e vanificato. Ma una persona o, in generale, l´umanità hanno mai avuto garanzie? Ha mai avuto garanzie la nazione ceca, condannata, per ricordare ancora Pavel Stránsky, a vivere in amicizia con il leone? Non sono forse secoli che essa cammina sull´incerta passerella tra sovranità e sottomissione, tra universalità e provincialismo, tra l´essere e il non essere? (...)
Quando, all´inizio di settembre, il quintetto dei nostri uomini di Stato ha emesso un comunicato nel quale si invitavano i cecoslovacchi all´estero a ritornare, garantendo loro completa sicurezza, ho sentito da alcuni l´obiezione: ma come pensano di garantire la nostra sicurezza, se non sono in grado di garantire neppure la loro?
Non condanno nessuno di coloro che hanno deciso di vivere all´estero, sostengo che ciascuno ha il diritto di vivere dove vuole, protesto solo nei confronti di questa argomentazione, che manca di qualsiasi nobiltà: davvero un cittadino ceco non è in grado di rischiare quello che rischia un suo uomo di Stato? Davvero è capace di vivere solo al di fuori del rischio? La misura di una relativa certezza per tutti non dipende forse proprio da quante persone hanno il coraggio di restare al proprio posto nell´incertezza?
Nel patriottismo ceco ho sempre ammirato la sobrietà dello sguardo. Già i patrioti risorgimentali si rendevano conto di tutto lo svantaggio che derivava dal destino di essere ceco, e capivano che il risveglio della nazione ceca non era solo un compito, ma anche un problema. Il più grande patriota ceco, Masaryk, iniziò il suo percorso distruggendo le illusioni e i miti patriottici, ed è significativo che abbia intitolato il suo libro La questione ceca. Alle radici del patriottismo ceco non c´è il fanatismo, ma lo spirito critico, ed è questo che ammiro della mia nazione e che me la fa amare.
Solo che lo spirito critico ceco oggi ha due forme. In una, diventa un vizio che rifiuta qualunque speranza e approva tutte le disperazioni: è lo spirito dei deboli degenerato in puro e semplice pessimismo che costituisce il clima ideale per preparare la sconfitta.
C´è poi il vero spirito critico, che sa smascherare le illusioni e le presunte certezze, ma al tempo stesso ha un´estrema sicurezza di sé, perché sa di essere una forza, un valore, un potere su cui si può costruire il futuro. Questo senso critico, che prima ha suscitato la Primavera cecoslovacca e poi in Autunno ha resistito agli attacchi delle menzogne e dell´irrazionalità, non è la proprietà di un´élite ma, come si è dimostrato, è la più grande virtù di tutta la nazione. Una nazione che ha questo dono ha tutto il diritto di entrare nelle incertezze del prossimo anno con piena fiducia in se stessa. Alla fine del 1968, ne ha diritto più che mai.
Copyright Literární Noviny e, per la traduzione italiana, Lettera Internazionale
Traduzione dal ceco di Dario Massimi

In mostra gli scatti di Koudelka
MILANO - "Josef Koudelka - Invasione Praga 68" è il titolo di una mostra aperta a Milano che documenta l´invasione di Praga, gli avvenimenti storici dell´agosto del 1968 che per decenni hanno influenzato tragicamente la vita in Cecoslovacchia. Le immagini in bianco e nero di Koudelka - stupefacenti per la loro forza e la loro umanità - sono esposte fino al 7 settembre a Forma - Centro internazionale di fotografia (piazza Tito Lucrezio Caro, 1).

Repubblica 23.6.08
Il segreto di Himmler
Esce in italia l'ultimo romanzo di Norman Mailer al centro la forza demoniaca e oscena delle SS
L'incesto, salvezza del nazismo
di Norman Mailer


Il libro racconta la famiglia e le torbide origini di Hitler E le teorie sull´eccellenza della razza formulate dal gerarca
Tutti lo chiamavano Heini. Nel 1938 era diventato uno dei capi indiscussi della Germania
Nessuno di noi si sentiva abbastanza qualificato da dire che le sue tesi non valevano niente

Anticipiamo parte del primo capitolo di Il castello nella foresta (Einaudi, pagg. 427, euro 19), l´ultimo romanzo di , da domani in libreria. Lo scrittore americano è scomparso nel novembre del 2007

La stanza che Himmler utilizzava per parlare con la nostra cerchia ristretta era una piccola sala conferenze rivestita con pannelli in legno di noce scuro che contava appena venti posti distribuiti su quattro file da cinque. Ma non intendo soffermarmi su certe descrizioni. Preferisco dedicarmi alle idee tutt´altro che ortodosse di Himmler. Chissà che non mi abbiano spinto ad avviare un memoriale destinato a turbare le coscienze. E so che per estirpare tante convinzioni invalse mi toccherà navigare in acque burrascose. Alla sola idea sento erompere una cacofonia nell´animo. Come ufficiali dei servizi segreti tendiamo spesso a distorcere le nostre scoperte. La menzogna, del resto, è a suo modo un´arte, anche se quest´impresa mi impone di non avvalermene.
Ma ora basta! Vorrei presentare Heinrich Himmler. Preparati, lettore, perché non sarà un incontro facile. Questo signore, che dietro le spalle veniva soprannominato Heini, nel 1938 era diventato uno dei quattro capi indiscussi della Germania. Eppure la sua vocazione intellettuale più amata e riposta era lo studio dell´incesto, che dominava le nostre indagini più sofisticate. Alle scoperte erano riservate riunioni a porte chiuse. L´incesto, sosteneva Heini, era sempre stato molto diffuso tra i poveri di ogni dove. Nemmeno i nostri contadini tedeschi ne erano rimasti immuni, e questo fino all´Ottocento. «Negli ambienti intellettuali nessuno solleva mai l´argomento, - osservava Heini -. Del resto, c´è poco da fare. A chi interessa certificare che un poveraccio è frutto di un incesto? Ogni singola istituzione di ogni singolo Paese civile mira soltanto a nascondere certe cose sotto il tappeto».
O meglio, tutte le alte cariche governative del mondo tranne Heinrich Himmler. Dietro quei suoi occhialetti tristanzuoli era tutto un turbinio di idee straordinarie. Devo ribadire che, per avere una faccia insulsa e senza mento, sfoggiava un misto sconsolante di acume e stupidità. Per esempio si dichiarava pagano. Secondo le sue previsioni l´umanità avrebbe conosciuto un futuro di prosperità non appena il paganesimo avesse conquistato il mondo. Allora l´anima di ognuno si sarebbe arricchita di piaceri prima inammissibili. Nessuno di noi, però, riusciva a immaginare un´orgia dove l´erotismo raggiungesse livelli tali da indurre una donna a fondere le proprie carni con quelle di Heinrich Himmler. Macché, neppure in nome dello spirito più innovativo! Perché in faccia gli leggevi ancora l´espressione che doveva aver avuto ai tempi dei balli scolastici quando, con uno sguardo occhialuto di disapprovazione, faceva tappezzeria: un ragazzo lungo lungo e secco secco che era l´incarnazione dell´imbranato. Mostrava già un accenno di pancetta. Se ne stava lì parcheggiato contro il muro mentre proseguivano le danze.
Eppure con gli anni sviluppò un´ossessione per argomenti che gli altri non osavano neppure nominare (e questo, devo dire, di solito è il primo passo verso un pensiero nuovo). In particolare dedicò grande attenzione al ritardo mentale. Perché? Perché Himmler sottoscriveva la teoria secondo la quale le migliori potenzialità umane confinano con le peggiori. Perciò non escludeva l´eventualità che i figli dotati messi al mondo da famiglie umili e anonime fossero «incestuari». Il termine da lui coniato in tedesco era Inzestuarier. Non gli piaceva la parola in uso per una simile sventura, Blutschande (scandalo del sangue), e nemmeno quella a volte impiegata in ambienti più raffinati, Dramatik des Blutes (dramma del sangue).
Nessuno di noi si sentiva abbastanza qualificato da dire che la sua teoria non valeva niente. Era fin dagli albori delle SS che Himmler indicava come necessità primaria quella di creare gruppi d´indagine eccellenti. Era nostro dovere spingere l´indagine fino in fondo. Per dirla con Himmler, la salute del nazionalsocialismo dipendeva esclusivamente dalle letzte Fragen (domande ultime). Dovevamo sondare problemi che altre nazioni non osavano neppure sfiorare. L´incesto era in cima alla lista. Il pensiero tedesco doveva tornare a essere ispirazione e guida del mondo intellettuale. In cambio - questa l´accoppiata tacita - Heinrich Himmler avrebbe ottenuto grandi riconoscimenti per aver preso di petto problemi che traevano origine dall´ambiente agricolo. E ci teneva a sottolineare il nocciolo della questione: lo studio dell´agricoltura non può prescindere dall´agricoltore. Ma capire l´uomo della terra significa parlare d´incesto.
Vi garantisco che a quel punto sollevò la mano con lo stesso, identico gesto tipico di Hitler: un piccolo scatto effeminato del polso. Era il suo modo per dire: «Ora viene il piatto forte. con contorno di patate!» E si lanciò in una perorazione. - Ebbene sì, - disse, - l´incesto! Ecco l´unica, vera spiegazione alla religiosità dei vecchi contadini. La grande paura del peccatore deve per forza di cose manifestarsi in due modi opposti: con la totale devozione alla pratica religiosa o con il nichilismo. Ricordo di aver studiato a scuola che il marxista Friedrich Engels una volta scrisse: «Quando la chiesa cattolica capì che era impossibile impedire l´adulterio, rese impossibile ottenere il divorzio». Un´uscita geniale, anche se viene dalla bocca sbagliata. Lo stesso si potrebbe dire per lo scandalo del sangue. Impossibile impedire anche quello. Perciò il contadino ci tiene a restare devoto -. Annuì. Annuì di nuovo, come se due cenni decisi del capo fossero il minimo necessario per convincerci che parlava a ragion veduta.
Quante volte - domandò - il contadino medio del secolo precedente era riuscito a evitare le tentazioni del sangue? Non che fosse facile. Inutile negare che spesso i contadini non avevano un bell´aspetto. La fatica logora i lineamenti. E poi puzzavano di terra e di stalla. Le estati torride esasperavano gli odori corporei. Date le circostanze era inevitabile che gli istinti primordiali innescassero inclinazioni peccaminose. Se si aggiunge che non facevano vita sociale, come potevano acquisire la capacità di stare alla larga dai grovigli con fratelli e sorelle, padri e figlie?
Non si addentrò nell´intrico di gambe, braccia e busti formato da tre o quattro figli che dormono nello stesso letto, né nella naturalezza sprovveduta dell´attività più piacevole di tutte - quella corsa ansante, febbrile e gravosa per scalare le vette del piacere fisico - ma dichiarò: - Non sono pochi nel settore agricolo quelli che, volenti o nolenti, finiscono col considerare l´incesto un´alternativa soddisfacente. Chi, a ben vedere, è più portato a trovare particolarmente belli i lineamenti induriti dal lavoro ma degni di rispetto di un padre o di un fratello? Le sorelle, è ovvio! O le figlie. Spesso soltanto loro. Il padre, che le ha messe al mondo, rimane al centro della loro attenzione.
E bravo Himmler. Erano due decenni che andava accumulando teorie in quella sua testa. Seguace convinto di Schopenhauer, dava altresì grande risalto a una parola ancora relativamente nuova nel 1938: geni. I geni, diceva, sono l´incarnazione biologica del concetto schopenhaueriano di Volontà. Sono l´elemento base di questa misteriosa Volontà. - Sappiamo, - disse, - che è possibile trasmettere gli istinti di generazione in generazione. Perché? Direi che è nella natura della Volontà restare fedele alle proprie origini. Arriverei al punto di definirla una Visione, sì, signori miei, una forza che dimora al centro esatto dell´esistenza umana. E questa Visione a distinguerci dagli animali. E da quando siamo sulla faccia della terra che noi umani cerchiamo di elevarci verso le altezze invisibili che ci si prospettano.
- Certo, un obiettivo così ambizioso non è esente da ostacoli. Il più eccezionale dei nostri geni deve dimostrarsi comunque capace di superare le privazioni, le umiliazioni e le tragedie della vita mentre i geni vengono trasmessi di padre in figlio, una generazione dopo l´altra. Vi dirò che raramente i grandi condottieri sono il frutto di un solo padre e di una sola madre. Il raro condottiero è molto più verosimilmente l´unico che sia riuscito a infrangere i vincoli che hanno impedito a dieci generazioni di frustrati di esprimere la Visione nel corso della loro vita ma non di trasmetterla attraverso i geni. Inutile dire che sono giunto a formulare questi concetti meditando sulla vita di Adolf Hitler. La sua ascesa eroica risuona nei nostri cuori. Giacché, come sappiamo, deriva da una lunga progenie di modesti contadini, la sua vita è la riprova di un´impresa sovrumana. Non possiamo che piegarci a un´ammirazione incondizionata.
Copyright The Estate of Norman Mailer e Giulio Einaudi editore. Traduzione di Giovanna Granato

Repubblica 23.6.08
“Non accetto critiche dalla sinistra snob”
Tremonti al contrattacco sulla social card
È un documento surreale che non serve a nulla, ma telefonate alla Bce...
di Roberto Mania


LEVICO (TN) -Difende con le unghie la sua creatura il ministro dell´Economia, Giulio Tremonti. Quella carta prepagata da 400 euro che permetterà agli anziani più poveri di acquistare beni alimentari e pagare le bollette della luce. Le critiche non gli piacciono. Soprattutto se arrivano da sinistra o - che nel suo ragionamento è lo stesso - «dagli snob che scrivono sui giornali e che frequentano i salotti». Anche se l´obiezione che gli viene fatta non va oltre la proposta che non sia il governo a stabilire come spendere quei soldi. «Non accetto che si faccia demagogia sulla povera gente. Usciamo dalle categorie dogmatiche del bene e del male e entriamo in quelle dell´utile o dell´inutile», replica dal palco della Festa nazionale della Cisl a Levico. Certo quando arriva, il ministro, dolorante per una fastidiosa sciatalgia, trova anche i suoi fans che lo salutano «dai Giulio!».
Poi, però, tra gli anziani cislini, quelli con i capelli bianchi, quei pensionati che rappresentano la metà degli iscritti al sindacato, quelli che forse riceveranno a casa la nuova credit card, non è che ci sia un gran entusiasmo. Anzi. Sono lì assiepati al Parco delle Terme e un po´ protestano e mugugnano. Dicono che «al tempo del fascismo c´era la tessera». E che piuttosto è contro l´evasione che ci si deve battere.
Ma non è a loro che vuole parlare Tremonti. Lui ce l´ha con la sinistra. Quella, per esempio, che non sa dire nulla contro la speculazione globale che ha fatto schizzare i prezzi delle materie prime. Già la sinistra. «Che - spiega - dopo la caduta del Muro ha saputo solo fare il manager della globalizzazione. E´ questo il ruolo che si è data. Hanno lo yacht e fumano il sigaro».
Non sfugge al tema del giorno, il ministro dell´Economia. Quello di un´inflazione programmata troppo bassa (1,7%) per essere credibile, che allarma i sindacati e sembra già pregiudicare il buon esito del negoziato sul modello contrattuale.
Dopo aver detto che quello di ministro è un «lavoro piuttosto usurante» e che suggerirebbe a Epifani di farlo, part time o a turno stagionale, così da misurarsi «con la drammatica concentrazione di problemi che ci sono», arriva al nodo inflazione. Scardinando i presupposti della polemica. «Apprendo - sostiene - che c´è ancora qualcuno che legge il Dpef. Che è surreale e non serve a niente. Ora se volete, sull´inflazione programmata all´1,7%, vi do una risposta tecnica o una politica. Per quella tecnica basta chiamare il numero 0049.. che è il numero della Bce che dice quello che si deve scrivere. Tutti dobbiamo stare sotto il 2% perché se no sono loro che ti chiamano allo 06. La riposta politica è che credo sbagliato parlare di inflazione come di inflazione programmata. Perché quello che è successo è un´altra cosa. Quello che è successo è un fenomeno di carattere strutturale che si spiega con la speculazione. E la speculazione è la peste sociale di questo secolo. E non è accettabile». Allora «abbiamo il dovere democratico di reagire quando la speculazione ha impatto sulla gente più povera». Per i quali, però, la via per uscire dalla crisi è solo una: «Se il Pil sarà maggiore la divisione della ricchezza sarà maggiore. Il resto sono chiacchiere».

Repubblica 23.6.08
Le mille metamorfosi di Giulio l´unico leader del dopodomani
Dalla finanza creativa agli anatemi contro il mercato
di Filippo Ceccarelli


Non ha problemi a recitare la parte dell´antipatico, a criticare i condoni e a farne di nuovi
Il titolare è l´unico capace di scuotere l´inerzia culturale che domina anche il centrodestra

E´ cambiato Tremonti? E´ cresciuto Tremonti? E´ dunque in corsa per la successione, Tremonti, leader del dopodomani? «Graziosa invenzione» ha già detto lui, una volta: nel senso che l´esercizio divinatorio sulla sua probabile leadership è tutt´altro che nuovo. In uno dei rarissimi congressi di Forza Italia, celebrato ad Assago nel maggio del 2004, fu distribuito a tutti i delegati un questionario. Fra le varie domande ce n´era una garbatamente vaga, ma cruciale: «Se il presidente Silvio Berlusconi fosse chiamato a ricoprire altri incarichi chi potrebbe meglio succedergli alla guida del governo?». I risultati non furono mai compiutamente pubblicizzati, ma venne fuori lo stesso che la maggior parte dei presenti avevano indicato i nomi di Tremonti e di Pisanu. Poi accaddero tante altre cose, anche a Pisanu.
E insomma: è rimasto Tremonti. Un secondo più labile indizio è affidato all’intuito di un avversario, D´Alema, che proprio in lui individuò «la destra prossima ventura». Ma qui, sulla destra, la faccenda del delfino passa in secondo piano dal momento che il ministro dell´Economia ha abrogato anche la sinistra nell´ultimo suo libro (110 pagine, Mondadori) il cui titolo approssimativamente fallaciano recita: La paura e la speranza.
Ad esso ha fatto sdegnoso riferimento l´altro giorno Marco Follini assimilandolo, per i potenziali effetti nefasti, al libretto rosso di Mao. Di ciò Tremonti sarebbe anche tipo da inorgoglirsi. Ma la questione è che l´artefice della Robin Hood Tax risulta il più anti-cinese fra i politici italiani. Al punto da indossare una certa cravatta pro-Tibet e perfino segnalarsi per una sorta di boicottaggio dei ristoranti orientali e in generale etnici in nome della polenta e/o degli spaghetti, cibi identitari e comunitari, emblematici di sangue e suolo.
E questo, curiosamente, mentre Barak Obama lancia l´idea di tassare i profitti delle compagnie petrolifere (i ricchi) per aiutare le famiglie (povere). Soluzione parecchio simile a quella coniata da Tremonti.
Ora. Nella prima metà del suo libro il ministro critica in modo serrato e anche convincente, a tratti quasi bertinottiano, il culto del mercato e i contraccolpi della globalizzazione. Nella seconda parte colma invece il vuoto ideologico con un pieno di "valori" non negoziabili, tipo prendere o lasciare: Identità, Ordine, Onore, Gerarchia, Dio, Patria, Famiglia e Matrimonio sacramentato («nella liturgia» è la dizione). Un sistema di principi che si fonda sulle radici giudaico-cristiane (quelle greche e romane non contano) e che qualche decennio fa si sarebbe potuto definire conservatore, se non reazionario.
Molti degli odierni guai dipendono, per Tremonti, dal sessantotto: vero e proprio cataclisma sociale responsabile di un relativismo imbelle, buonista, invertebrato e sconsideratissimo. La cieca corsa alla ricchezza, l´ostentazione anche volgare del lusso, i modelli edonistici alla Billionaire non vengono menzionati come nemici dei Sacri Valori Identitari. E ben strana, francamente, appare anche la distanza che intercorre fra l´anatema lanciato da Tremonti in nome della spiritualità contro il consumismo e la sua fedeltà al partito-azienda lanciato sul mercato politico dal fondatore della televisione commerciale.
Ma questo non toglie che egli sia l´unico a produrre idee capaci di scuotere l’inerzia culturale che domina anche il suo schieramento. L´ultima sua proietta sullo scenario del centrodestra un nazional-populismo convertitosi al presente. Il tinello contro i salotti. L´elemento popolaresco contro lo snobismo. Nulla di veramente nuovo, eppure quanto basta a far da collante fra il mondo berlusconiano e la Lega.
Il personaggio, d´altra parte, è uomo di vaste e anche buone letture, intellettuale brillante, ottima penna, fine dicitore, padrone degli incisi, bigliettini in greco antico spediti alla Prestigiacomo durante il Consiglio dei ministri, abile nei messaggi, «le risponderò tra virgolette» gli capita di dire, efficace in tv. Non sempre amichevole con i giornalisti, adesso va meglio, ma in passato ha anche dovuto chiedere scusa per sgarberie e insolenze varie. Di Tremonti Berlusconi ha detto una volta che ha un «caratterino». Un´altra ha aggravato la definizione: un «caratteraccio». Una terza volta gli è scappato che era il suo «incubo».
Tratti psicologici tremontiani desunti da copiosa documentazione giornalistica: narciso, tignoso, puntuto, dispettoso, competitivo. Quattro anni orsono il Corriere della Sera, di cui pure l´attuale ministro è stato assiduo e rispettato collaboratore, ha notato in prima pagina che «un briciolo di arroganza intellettuale in meno» non avrebbe guastato; secondo Fini, nello stesso periodo (2004), si trattava di «presunzione insopportabile».
Quest´ultima, insieme alla estrema suscettibilità, alla pignoleria e al gusto per il paradosso culturale, ha finito per dare vita a una davvero vasta produzione epistolare. Per cui Tremonti può essere considerato il più prolifico scrittore di smentite, messe a punto e precisazioni ai giornali; senza contare le innumerevoli e fulminanti provocazioni, pure a base di "paralogismi", "asimmetrie", Aristotele, Kant e Leopardi e altre ragguardevoli risorse di auto-ostentazione mirata.
Fatto sta che il personaggio ispira e in fondo si merita imitatori televisivi di vaglia, da Gene Gnocchi a Corrado Guzzanti, che a Tremonti ha associato l´entità non del tutto metafisica del «cetriolo globale». Ad alcuni ricorda un personaggio degli albi del Monello, un classico primo della classe con ciuffo che si chiamava, significativamente, "Superbone". Questi non ha problemi a recitare la parte dell´antipatico: «I ministri del Tesoro simpatici - sostiene del resto Giorgio La Malfa - lasciano debiti».
Tremonti, il "tributarista", il "fantasista", il demiurgo della "finanza creativa", debiti e "buchi" ne ha trovati, ma ne ha anche lasciati. Così come ha criticato i condoni per poi effettuarne in abbondanza. Allo stesso modo ha scritto bellissimi articoli contro il bingo del centrosinistra, scegliendo poi di istituire un paio fra estrazioni e lotterie come ministro del centrodestra.
«Il problema - ha detto una volta don Gianni Baget Bozzo - è il suo rapporto con Berlusconi». Questi, in Russia, l´ha proclamato «un genio». Ma anche qui la storia si fa complicata. Per cui, dopo averlo definito in quel modo assai impegnativo e averlo costretto a girare con un enorme foglio, "il lenzuolone", che doveva dimostrare la quantità di provvedimenti preparati e approvati dal suo governo, il Cavaliere l´ha mollato da un giorno all´altro al suo destino, le dimissioni. Ma poi l´ha promosso di nuovo. Però in seguito gli ha preferito Elio Vito, forse pure lasciando che poco dopo s´ingelosisse della Brambilla. Per poi di nuovo premiarlo - e siamo all´oggi.
Di tutto questo, in fondo, è fatto il potere. Anche se magari Tremonti, memoria lunga ed enigmatico futuro, ancora non riesce a darsene pace.