Lodo Schifani, polemica Di Pietro-Pd
L’Idv: se siete disponibili salta l’alleanza. Soro: i massimalisti fanno regali alla maggioranza
di ma.so.
SEMBRANO SEMPRE PIÙ AMPI gli spiragli di trattativa per l’approvazione in tempi rapidi di un nuovo “Lodo Schifani” che metterebbe al riparo dagli interventi della magistratura le più alte cariche dello Stato. Una possibilità di dialogo che se da una parte troverebbe spazio nelle caute aperture del Pd, «non pregiudizialmente contrario» stando alle parole del presidente dei senatori del Partito Democratico Anna Finocchiaro, dall’altra agita le acque del centrosinistra. Dove Antonio Di Pietro, irremovibile sulla linea della contrarietà, ha posto ieri con fermezza quello che ha tutto l’aspetto di un “ultimatum”. Casus belli il voto contrario della giunta delle elezioni del Senato (a larghissima maggioranza, Pd compreso, Idv astenuto) alla richiesta di arresti domiciliari per Nicola Di Girolamo, il senatore del Pdl per cui il gip di Roma Luisanna Figliolia aveva avanzato una richiesta di misure cautelari per falso in atto pubblico e attentato contro i diritti politici dei cittadini nell’ambito dell’inchiesta su presunte irregolarità nel voto all’estero. Una decisione (la parola passa adesso all’Aula) che ha mandato su tutte le furie il leader dell’Idv: «Si pone un problema gravissimo di alleanze - ha spiegato infatti Di Pietro - Ci dicano se vogliono fare la ruota di scorta a Berlusconi. Noi abbiamo chiesto agli elettori di votarci per essere alternativi a Berlusconi, se il Pd ha deciso di fargli da supporto non possiamo essere alleati». Chiaro a tutti, infatti, che più della decisione su Di Girolamo per l’ex pm è dirimente la posizione del Partito Democratico sulla possibilità di un nuovo Lodo Schifani. Da non osteggiare, magari “in cambio” di uno stralcio dal decreto sicurezza degli emendamenti blocca processi. «È incredibile - ha infatti attaccato Di Pietro - che al Senato sia stata negata l’autorizzazione ad arrestare una persona che è diventata parlamentare dando false generalità grazie anche ai compagni del Pd che hanno detto che l’immunità va negata per reati più gravi». Ma per Di Pietro è «ancora più grave dire che sono d’accordo a fare una legge sull’immunità, anzi l’impunità, per Berlusconi». Parole che sono sembrate una risposta a stretto giro alle aperture di Anna Finocchiaro che in mattinata, parlando della possibilità di un nuovo Lodo Schifani, aveva detto di non avere «nessuna pregiudiziale di principio. Nel senso che un sistema di immunità per le alte cariche esiste anche in altri Paesi europei». «Il problema - aveva però precisato il presidente dei senatori del Pd - è che qui lo propone il presidente del Consiglio in carica per un procedimento a proprio carico. Diciamo che c’è una ineleganza, una inopportunità che io non fatico a vedere. Mi chiedo se altri fatichino a vederla».
Troppo pesanti le accuse di Di Pietro per non suscitare la reazione del Partito Democratico, che attraverso il capogruppo alla Camera Antonelo Soro ha giudicato «inaccettabili» le parole dell’ex magistrato. «È lui - ha proseguito Soro - che fa regali alla maggioranza ogni volta che indossa abiti massimalisti e regola sul tono di voce la profondità degli argomenti. Noi non abbiamo nessuna intenzione di fare regali al Pdl, non so chi gli abbia dato la patente per giudicare la qualità dell’opposizione del Pd». Passano pochi minuti e il leader dell’Idv rincara la dose: «Soro guarda il dito invece di guardare la luna. Invece di dire che Di Pietro ha alzato la voce, dica al suo Pd di non abbassare la guardia e di chiarire la sua posizione».
Ecco perché fu giudicato incostituzionale
Il Lodo Schifani è incostituzionale perché, pur mirando a tutelare il «sereno svolgimento delle rilevanti funzioni» delle 5 più alte cariche dello Stato, va in rotta di collisione con uno dei princìpi che è «alle origini della formazione dello Stato di diritto»: la «parità di trattamento rispetto alla giurisdizione». La sospensione del processo è infatti «generale, automatica e di durata non determinata»: riguarda «reati comuni, in qualunque epoca commessi, estranei all’attività istituzionale»; scatta automaticamente «senza alcun filtro» (né parlamentare, come l’autorizzazione a procedere, né tantomeno giudiziario), qualunque sia l’imputazione e lo stato del processo; e poi è reiterabile all’infinito. Inoltre, per com’è stato congegnato, il Lodo compromette il diritto di difesa sia della parte civile, costretta a «soggiacere» alla sospensione del processo, sia dell’imputato, che per veder accertata la propria estraneità ai fatti imputatigli, è costretto a «dimettersi» dalla carica, «rinunciando così al godimento di un diritto costituzionalmente garantito». Ma il Lodo è incostituzionale anche perché accomuna in modo «irragionevole» cariche fra loro diverse per «fonti di investitura» e «natura delle funzioni», e poi perché «distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princìpi fondamentali della giurisdizione, i presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti».
l’Unità 25.6.08
D’Alema battezza «Red»
«Diamo sfogo al malessere»
di Andrea Carugati
Non sarà solo un’associazione di parlamentari e intellettuali. Ma un’organizzazione capillare, radicata sul territorio, con coordinamenti a livello regionale e provinciale. Il “tesseramento”, 100 euro a testa, è partito già ieri pomeriggio al cinema Farnese, dove «Red», Riformisti e democratici, l’associazione che sarà la costola politica della Fondazione di Massimo D’Alema Italianieuropei, è stata tenuta a battesimo. 110 i parlamentari Pd già arruolati, 4 gli eurodeputati guidati dal capogruppo italiano nel Pse Gianni Pittella, prodian-lettiano il presidente Paolo De Castro, mariniano uno degli uomini forti del progetto, l’ex responsabile organizzativo della Margherita Nicodemo Oliverio. Che dice: «Avremo tantissime associazioni Red su tutto il territorio nazionale, luoghi dove nasca l’amicizia».
«Non sarà una corrente», hanno ripetuto in coro tutti gli intervenuti, da Livia Turco a Bersani, fino a D’Alema che ha chiuso l’incontro. Ma la Turco parla esplicitamente di una «doppia militanza: ben vengano luoghi che ci aiutino ad avere coraggio e schiena dritta». L’ex ministro degli Esteri ha battuto più volte sul rapporto tra Red e il Pd. «Non vogliamo destabilizzare, fare casino, o rompere le scatole a Veltroni». «Non vogliamo organizzare un pezzo del Pd, o fare un partito di massa», ha aggiunto. «Fare una corrente sarebbe stato più semplice- avverte- non avremmo avuto bisogno di tutta questa impalcatura. Qui ci sono persone che hanno votato candidati diversi alle primarie, io ad esempio ho sostenuto Veltroni e non ne sono pentito».
L’obiettivo dichiarato di D’Alema è aprire «un luogo di confronto tra politica e società», costruire «una forma politica di tipo nuovo», con una fondazione, una associazione, una tv satellitare, collegamenti internazionali, sulla falsariga del modello americano. «Vogliamo fare cultura politica», dice Bersani. «Solo il conformismo e la pigrizia possono far pensare a una corrente- dice D’Alema- ma noi non ci possiamo far condizionare, ricattare o intimidire da questo conformismo. Il successo di Red può essere importante per il decollo del Pd». D’Alema spiega di non volersi «sostituire», con Red, al momento della decisione politica: «Sono da tempo fuori da organismi di direzione politica, e non ho in mente di tornarci. Il nostro lavoro sta a monte delle decisioni, vogliamo fornire alla politica materiali ed elementi che aiutano». L’esempio c’è già, e lo descrive con nettezza Ignazio Marino, che proprio dentro Italianieuropei negli anni scorsi ha prodotto elaborazioni e progetti sui temi della sanità e della bioetica.
D’Alema parla di Red come di «un canale di partecipazione in più», in grado di dare sfogo «al malessere che c’è» nel Pd, di «canalizzarlo verso azioni positive e non distruttive». Spiega che il successo di Red si misurerà non con il numero dei parlamentari aderenti, ma dal «numero di persone, anche e soprattutto non iscritte al Pd, che aderiranno». Ma guai a chi volesse usare l’associazione per pesarsi dentro il Pd. Lo dice De Castro: «Nessuna ambizione di pesare il nostro contributo in termini di composizione dei gruppi dirigenti». E D’Alema si rivolge alla platea: «Se qualcuno vi dice “vediamoci prima della tale riunione”, resistete. Non usate Red per scopi, pure legittimi, ma che sono diversi dal nostro».
Poi c’è l’idea di elaborare idee per la sfida a un centrodestra «che ha preparato la sua vittoria anche con tante iniziative culturali di questo tipo». Ma anche il governo e la sua maggioranza saranno interlocutori di Red, a partire dal convegno sulle riforme elettorali e costituzionali che sarà organizzato a metà luglio e che, ha detto D’Alema, tra gli invitati vedrà anche il ministro delle Riforme Bossi. In autunno altro appuntamento sui temi della competitività, con inviti ad alto livello nel mondo industriale e sindacale. «Credo nel dialogo- ha spiegato D’Alema- il punto è chi fissa l’agenda». Ed è chiaro che uno degli obiettivi di Red sarà fissare l’agenda, non solo dentro il Pd.
Uno dei temi più battuti nel bollente pomeriggio romano è la necessità di fissare in modo più netto la differenza tra centrosinistra e centrodestra. L’ha detto Bersani: «Non può essere la destra a dire che il mondo così non va bene, il Pd deve anche litigare con l’opinione del momento». Barbara Pollastrini: «La Lega vince perché ha un’identità chiara, non dobbiamo seguire il senso comune, Zapatero e Obama sanno osare». Livia Turco sprona a difendere gli immigrati da questa «caccia» che si è aperta, a non considerare «ineluttabile» l’introduzione del reato di immigrazione clandestina. Gianni Pittella, invece, punta sulla «felicità di chi è venuto qui oggi», una neanche tanto velata stoccata all’assemblea del Pd di venerdì a Roma. E introduce un altro tema, in contrapposizione al nordismo di molti dirigenti del Pd: «Red nasce per affermare una nuova politica meridionalista». Musica per Nicola Latorre, padrone di casa della giornata, che sorride a un paragone tra Red e il Correntone: «No, porta sfortuna, quelli sono stati sempre minoritari...».
l’Unità 25.6.08
Prodiani, lettiani, dalemiani. Il Farnese di Roma si è riempito di democratici di ogni chiesa...
Il risiko culturale del «lider Massimo»
«Ma intanto diciamo quello che non siamo...»
di Federica Fantozzi
Se non è un paradosso, poco ci manca: a sentire il fondatore, la sua associazione sarà il software del Pd mentre i circoli saranno l’hardware. In un’inversione di ruoli rispetto al passato a Veltroni tocca il ruolo concreto di uomo di apparato e leader operativo. Mentre D’Alema si ritaglia il più aereo «spazio personale» di un’associazione culturale il cui successo «non dipenderà dal numero di parlamentari iscritti ma dalle personalità della cultura e della società», si propone di fare network e ha già in cantiere un evento con «sindacato e industria al top».
L’insegna del cinema Farnese decanta il film serale: «Tutto torna». E nonostante risvolti di novità, in molti lo pensano. Ore 17,30: a Campo dei Fuori ci sono più giornalisti che prossimi iscritti a Red. «Il Pd per la prima volta ha deciso di fare ostruzionismo - scherza un dalemiano - Sono tutti bloccati in aula...». Compreso il lìder Massimo. La piazza, dove aleggia una vaga puzza di pesce residuo del mercato mattutino, si popola alla spicciolata. Rondolino in t-shirt conversa con il direttore di Europa Menichini. Cisnetto, giornalista economico e organizzatore dell’estate di Cortina, con Passigli. C’è Francesco D’Onofrio dell’Udc, per «osservare». Spuntano le bindiane Carloni, Magistrelli e Mazzucconi. Arrivano Bassanini, il siciliano Crisafulli, l’ex Udeur Cusumano, Marcella Lucidi, Lucà. I calabresi Meduri, mariniano, e Naccarato, cossighiano.
Appaiono Sandra Zampa e Gregorio Gitti: «Non ho ancora aderito - dice lei - ma sono molto interessata. Siamo pezzi dell’Ulivo». Tutti i lettiani tranne Letta: l’eurodeputato Pittella «felice di essere qui», il giovane Boccia, Bubbico, Fabio Nicolucci furioso contro la «cooptazione» di Luca Sofri nella nuova direzione.
Nella sala dalle 500 poltroncine lilla però il gioco di ruolo mostra qualche effetto collaterale di tipo psicologico. Al punto che due terzi del dibattito sono impegnati a focalizzare cosa Red assolutamente non è. «Non una corrente - scandisce il presidente De Castro dal palchetto - Iniziative così vanno promosse e favorite nel partito». «Qui non si tramano congiure o si preparano assalti al gruppo dirigente - si indigna Pittella - Vogliamo portare un contributo». Il termine ricorre, ignorando che con quella perifrasi i Dc d’antan annunciavano proprio la nascita dell’ultima corrente. «Essere qui è una scelta - chiosa Barbara Pollastrini - Ma non ci sono ragioni dietrologiche o misere». L’apice del freudiano lo tocca Bersani: «Sono arrivato tardi, gli altri avranno già detto cosa non siamo, io parlerò di ciò che siamo...».
Applaudono Marida Bolognesi, Rita Lorenzini, Cuperlo. A fondo sala appare Ricky Levi. Giunge Nicodemo Oliverio, braccio destro di Marini invitato eppure assente per evitare lacerazioni troppo evidenti. Latorre, in prima fila, lo accoglie e lo indica a De Castro. Lui coglie: «Diamo la parola a...». Il calabrese sarà tra i più espliciti, insieme a Livia Turco che evoca «una doppia militanza». Si accalora Oliverio: «Creeremo tante Red su tutto il territorio. Serve un luogo di riflessione e confronto. C’è l’esigenza di fare partito».
Un partito ci sarebbe già, ma nessuno pare accorgersene. D’Alema ribadisce che si tratta di un’operazione culturale di ampio respiro mica «una corrente di scarsa fantasia», che loro «arricchiscono l’offerta» ed è «una possibilità in più e non un’alternativa» e «un servizio al Pd, una risorsa», un qualcosa non «volto a fare casino», uno sforzo «che vorrei fosse apprezzato, a dare risposte positive e non distruttive». Resta il fatto che non c’è nessun veltroniano presente. Né un dirigente né un capogruppo o un vice tanto per cortesia.
D’Alema lo sa. Non affonda, anzi frena le altrui intemperanze. Disegna il suo progetto, con Fondazione e tv satellitare: una struttura politica-culturale, molto più di una corrente, una sorta di para-partito che parlerà anche ai non iscritti al Pd e si preparerà a fronteggiare eventuali emergenze.
l’Unità 25.6.08
Horror: Bondi vuole Gramsci
di Bruno Gravagnuolo
Il Gramsci di Bondi Siamo al ridicolo. E ci mancava pure questa: Bondi e Cicchitto «rivendicano» Gramsci. Sì, lo hanno scoperto, e lo vogliono tra i loro maestri! Ma come nasce questa sciocchezza? Nasce da una battuta di Lucia Annunziata, che ha parlato su La Stampa di «gramscismo di centrodestra», in riferimento alle velleità e alle carenze di «egemonia culturale» a destra, e all’imprescindibilità di questo tema. Perciò Bondi e Cicchitto ci si fiondano. Alla carlona ovviamente. In chiave pedestre da Bignami. E con un po’ di demonologia «machiavellica». Ecco il Bignami di Cicchitto, «raffinato esegeta di Gramsci»(sic!) secondo Bondi: egemonia come «battaglia delle idee» e «consenso», però «senza totalitarismo». Geniale! Benché detta così valga anche per S. Luigi Gonzaga o per S. Filippo Neri, e per ogni curato di campagna. E la demonologia? Eccola dispiegata in Bondi: Gramsci serve per capire i giudici comunisti di tangentopoli, annidati in società e negli apparati. Così, con una fava, i nostri due magnifici «intellettuali organici» di Arcore prendono i loro due bravi piccioni: scippo e plagio a buon mercato di pensiero (che non hanno). E consueta propaganda contro i giudici e il Pci, che ancora li inquietano nel sonno. Certo, c’è del buono nel «plagio». Rivela che dentro sono nudi e sotto la loro cultura c’è il niente. Niente mimetico. E lo sanno. Ma il tentativo non ha nulla di «egemonico» o insidioso. È solo una gherminella piccola piccola. E si vede.
La hit che piace al Secolo Già, il Secolo d’Italia, sbarazzino e buonista. Ormai non si fa mancare nulla. Infatti i post-post fascisti plaudono con Luciano Lanna alla «hit» di nuovi filosofi sbandierata da Style, magazine del Corsera. Roger Scruton «pensatore della bellezza», Stefano Zecchi, Francesco Tomatis, e un Giulio Giorello definito dai «post-post» «disneyan-poundiano». Tomatis esalta «l’alpinismo», «lo straordinario nel marginale», e invoca «meno libri». E il Secolo freme di gioia: «Bene, basta con i pensatori ultradialettici dal look sfigato!». Capito? Eccola la loro «egemonia culturale»! E allora perché non hanno proposto ai Beni culturali la «nero-trendy» Santanché invece di Bondi? Il Secolo «post-post» aveva tutte le carte in regola per esigerlo.
l’Unità 25.6.08
Il Paese dei misteri
di Roberto Cotroneo
La sensazione è di essere
finiti dentro un romanzo gotico
un Codice da Vinci senza
speranza di un Paese di veleni
e crudeltà. E invece i misteri
in questo Paese sono tutti veri
Alla fine tutto imploderà come il collasso di una stella. E i misteri d’Italia diventeranno uno soltanto: gigantesco, indicibile, totalizzante. Una sorta di totem italiano davanti al quale ammettere la nostra sconfitta di cittadini, di italiani e di uomini. E li rivedremo tutti, come in una apocalisse criminale e ambigua come in un girone dantesco delle vittime dei misteri: Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta, Enrico Mattei e Wilma Montesi; ci sarà Michele Sindona, e poi Roberto Calvi, e Aldo Moro, e i morti di Bologna, e i morti di Piazza Fontana, e il commissario Calabresi.
E l’elenco, troppo lungo, arriva fino a quella ragazzina con il nastrino in testa: quindici anni e una passione per la musica. Una famiglia semplice e umile. Si chiamava Emanuela Orlandi. Il papà scomparso nel 2004 era un dipendente del Vaticano. Lei una ragazzina come tante. Era nata il 14 gennaio del 1968, era astigmatica ma si vergognava di portare gli occhiali in pubblico, suonava il flauto, e il 22 giugno di venticinque anni fa, con ogni probabilità, sale su una Bmw verde tundra station wagon e scompare. Mai più trovata. Qualche ora prima telefona alla sorella più grande per dirle che le era stato offerto di promuovere prodotti di profumeria Avon, a un prezzo altissimo, 350 mila lire di allora, e non sapeva se accettare. La sorella le consiglia di lasciar perdere.
Cosa succede, e cosa sappiamo di questa storia? Di fatto, niente. Non sappiamo neppure se Emanuela Orlandi è viva o morta. Quest’anno compirebbe quarant’anni. Non sappiamo se fu un orrendo caso di pedofilia, poi strumentalizzato perché il padre era cittadino vaticano. O se invece fu un rapimento, o un ricatto nientemeno che al Papa. Non sappiamo perché viene chiamata in causa la banda della Magliana, e monsignor Paul Marcinkus, Roberto Calvi, ed Enrico De Pedis, detto Renatino, uno dei capi della banda della Magliana. Non sappiamo quanto sa di tutto questo l’attentatore del Papa, Ali Agca, e non sappiamo perché i Lupi Grigi, organizzazione terroristica turca, abbiano dichiarato di avere in mano la ragazza. Non sappiamo niente di quella Roma. Sappiamo solo che la Orlandi è scomparsa nel nulla, e in quel nulla è rimasta finché la signora Sabrina Minardi, compagna prima del calciatore Bruno Giordano, e poi, e per quasi dieci anni di Renatino, ovvero Enrico De Pedis, comincia a parlare. Ma come?
Intanto con una sincronia che lascia sbigottiti, lo fa esattamente 25 anni dopo il rapimento, e lo fa spiegando prima: mi sono imbottita per anni di cocaina e psicofarmaci, sto in una comunità di recupero, e talvolta mi confondo, ho sprazzi di eventi accaduti, e situazioni confuse. Come in un brutto romanzo Sabrina Minardi dice che la Orlandi è stata ammazzata, messa in un sacco e buttata in una betoniera a Torvajanica, località alle porte di Roma. Anzi dice che i sacchi erano due, c’era pure un bambino di 11 anni, figlio di un boss, ammazzato per vendetta, e buttato anche lui nella betoniera. Le date non corrispondono, il ragazzino viene ucciso dieci anni dopo il caso Orlandi, e non è possibile che i due eventi possano essere collegati assieme. Ma la Minardi è un fiume in piena: aggiunge particolari, dice di aver visto la Orlandi in un sotterraneo di un palazzo poco distante dalla stazione di Trastevere, un sotterraneo che arriva fino alle mura Vaticane, tanto è grande. Dice di essere stata a casa di Giulio Andreotti, con Renatino, e di ricordare la signora Livia, minuta e gentile. Ed è ovvio che gli psicofarmaci qui hanno il loro ruolo. Dice di aver visto Renatino arrivare con delle borse Luis Vuitton, quelle “con la cerniera sopra”, aprirle in casa e tirarne fuori banconote, e naturalmente cocaina, cocaina a fiumi. E che una volta contarono un miliardo in contanti per portarli personalmente a monsignor Marcinkus, il potente banchiere dello Ior, a casa sua. Dice un mare di cose Sabrina Minardi. E non si tratta di crederle o di non crederle, si tratta di capire lo spleen orrendo di questo Paese. Dove poi alla fine niente torna, perché si va a sbattere contro un muro di morti ammazzati, di politici rapiti e assassinati, e talvolta anche liberati, di terroristi ambigui, di aerei civili che cadono senza ancora un perché, di stragi più disgustose delle più disgustose delle stragi, di servizi deviati, di giornalisti sibillini come Pecorelli ammazzati, di bande che agivano indisturbate con un potere assoluto, e poi di golpisti, e di fascisti, e di banchieri impiccati, e di monsignori banchieri su cui ci sarebbe troppo da dire. In un Paese dove le ipotesi di complotto, i misteri, occupano pagine pagine di siti internet dedicate solo a questo, tutto confluisce là, nel viso sorridente e allegro, solare, di una ragazzina di quindici anni: Emanuela Orlandi. Nei suoi occhi che da 25 anni sono solo una fotografia in bianco e nero, quella dei manifesti che la famiglia ha fatto affiggere per tutta Roma.
Possibile che lo Ior, il Banco Ambrosiano, l’attentato a papa Giovanni Paolo II, l’omicidio di Calvi, i fatti e fattacci della più feroce e potente banda criminale, quella della Magliana, e Marcinkus, e Ali Agca, e chissà quanti altri, possano confluire lì, in quella ragazzina? È una suggestione enorme, una macchina genera complotti a ripetizione, o qualcosa di più? È una storia che si può spiegare semplicemente? Un caso di pedofilia finito con un omicidio, su cui possono essere state costruite leggende, proprio perché la ragazza era cittadina vaticana? Lo stesso caso di Mirella Gregori, rapita 40 giorni prima di Emanuela, sempre a Roma, e mai più ritrovata. Ali Agca disse che entrambe le ragazze erano in mano ai Lupi Grigi. La mamma di Mirella, 13i anni fa, durante una visita del Papa in una parrocchia romana, disse di riconoscere tra gli agenti di scorta di Giovanni Paolo II un uomo che andava spesso a prendere la figlia a casa.
Suggestioni, leggende, o verità. E cosa ce ne facciamo delle verità, in un Paese senza verità da sempre? Un Paese che ha mantenuto del medioevo l’oscurità delle trame, il gusto dell’oscuro, delle massonerie segretissime, del gioco dei poteri. Dopo che viene rapita, a casa Orlandi, un signore con accento americano chiama 16 volte. Tutte e sedici le volte da cabine telefoniche. L’uomo chiede che sia liberato Ali Agca, e fa ascoltare alla famiglia Orlandi un nastro con la voce della figlia. Chiama molte volte. E non viene identificato. Soltanto che dell’Americano esiste un indentikit, scritto nientemeno che dall’allora vicecapo del Sisde Vincenzo Parisi. In una nota rimasta riservata fino al 1995 si dice che la voce del telefonista corrisponderebbe a quella di monsignor Paul Marcinkus: gli specialisti del Sisde, analizzando i messaggi e le telefonate pervenute alla famiglia, conclusero che riguardavano «una persona con una conoscenza approfondita della lingua latina, migliore di quella italiana (che probabilmente era stata appresa successivamente al latino), probabilmente di cultura anglosassone e con un elevato livello culturale e una conoscenza del mondo ecclesiastico e del Vaticano, oltre alla conoscenza approfondita di diverse zone di Roma (dove probabilmente aveva abitato)». E Renatino? E la Roma criminale e de’ core, testaccina e trasteverina, che racconta la Minardi? Come si fonda con i Lupi Grigi, con i complotti internazionali? Sabrina Minardi, parla di sotterranei sconfinati, e racconta che ogni volta che aveva bisogno di viaggiare Roberto Calvi metteva a disposizione il suo aereo privato. La Minardi, bizzosa, isterica, cocainomane, che spendeva anche cento milioni di allora in uno shopping romano, tutto in contanti, viaggiava con l’aereo privato del Banco Ambrosiano. Una spavalderia oltre ogni buon senso. E a lei che secondo un’altra voce, forse una leggenda, arriva un agente del Sisde, dopo il rapimento Orlandi. Emanuela sembra sia stata fatta salire su di una Bmw color verde tundra, un colore raro per quegli anni. Lui comincia a indagare, per carrozzieri, finché non ne trova uno che gli racconta di aver riparato un deflettore di una Bmw verde tundra giardinetta. Rotto forse per un pugno dato da dentro? L’aveva portata a riparare una donna, che aveva lasciato anche un indirizzo e un numero di telefono. L’indirizzo di un residence. L’uomo ci va, e si fa chiamare la donna che reagisce violentemente alle sue domande, e prende persino il numero di targa dell’automobile con cui l’agente si era recato al residence. Giusto il tempo per tornare in ufficio, e l’uomo fu invitato dai superiori a non importunare più personaggi altolocati. Chi era quella donna? La Minardi? E quanto è vera questa storia? Ieri il Vaticano ha definito infamanti le accuse verso Marcinkus, che è morto e non si può difendere. E forse anche questa finirà nel nulla. Come il caso Moro, trent’anni fa, come la strage di Bologna, come l’assassinio di Roberto Calvi, come tutti i misteri che arrivano a noi, uno dietro l’altro come una collana di ingiustizie. Al punto da lasciarti la sensazione che siamo anche noi un po’ allucinati da troppe storie, troppo importanti, troppo oscure per essere chiare. Finiti dentro un romanzo gotico, un Codice da Vinci senza speranza, di un Paese di veleni e crudeltà. E ti illudi che non è vero niente. Che il caso Orlandi non è altro che uno stupro e poi un omicidio forse neppure voluto, che il caso Moro fu come lo raccontano Moretti e compagni, che tutti gli altri misteri non sono che fantasie, e che la banda della Magliana non era altro che una accolita di criminali finiti quasi tutti male, morti ammazzati. Ma poi se ti fai una passeggiata per Roma, può accaderti di passare per piazza Sant’Apollinare, dietro piazza Navona, dove stava la scuola di musica di Emanuela Orlandi, e dove c’è la chiesa di Sant’Apollinare, da poco restaurata. È tutto un complesso di proprietà dell’Opus Dei, dove c’è anche la Pontificia Università di Santa Croce. La Basilica di Sant’Apollinare è una basilica minore, vanta un paio di candelabri del Valadier, e poco d’altro. Naturalmente è territorio vaticano, naturalmente si apre solo per le messe. In quella chiesa c’è una cripta, che da otto anni non è visitabile. Nella cripta è tumulato Enrico De Pedis, detto Renatino, capo della Banda della Magliana, mandante ed esecutore di un numero enorme di omicidi, prima di essere ucciso da due sicari in via del Pellegrino, dietro Campo dei Fiori, il 2 febbraio 1990. Il 6 marzo 1990, a 32 giorni dalla morte, il rettore della basilica, monsignor Piero Vergari scrisse la seguente lettera: «Si attesta che il signor Enrico De Pedis nato in Roma-Trastevere il 15 maggio 1954 e deceduto in Roma il 2 febbraio 1990, è stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la basilica ed ha aiutato concretamente a tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi per la loro formazione cristiana e umana». Il 10 marzo 1990, l’allora Vicario della diocesi di Roma, nonché presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Ugo Poletti, rilasciava il nulla osta alla sepoltura di De Pedis nella basilica di Sant’Apollinare. Il 24 aprile la salma di De Pedis venne tumulata e le chiavi del cancello vennero consegnate alla vedova, che è l’unica persona autorizzata a entrare nella cripta. L’incubo continua, e tutto si riapre, perché poi alla fine, i misteri in questo Paese, sono veri. A cominciare da questa povera ragazza, rapita 25 anni fa, e terminale ultimo di un orrore senza fine che probabilmente non verrà mai chiarito. Lei non è mai stata tumulata in nessuna chiesa, lei è scomparsa nel nulla, in quel nulla di misteri di un Paese senza vergogna.
l’Unità 25.6.08
La piazza e il buio
di Fulvio Abbate
L’opposizione deve scendere in piazza. Sottoscrivo l’intenzione, meglio ancora, la necessità di farlo al più presto. Per quel che possa servire, garantisco che personalmente ci sarò, al punto da avere già perfino preparato la bandiera. Rossa, pateticamente rossa. Ma che dico?, se è vero che sia giusto credere ai propri sogni, alle proprie idee, perfino le più utopiche, la mia bandiera sarà rossa e nera, sarà la bandiera dei libertari, degli “anarchici” che non credono al principio della delega. Non è però ancora tutto, porterò con me anche un verso di Bertolt Brecht, un verso problematico e destinato ai momenti peggiori della lotta e magari perfino della vita medesima, lo stesso che un’amica mi ha appena regalato, convinta così di farmi conforto, via sms, un verso che dice esattamente: «Noi attraversammo, cambiando Paesi più spesso delle scarpe, le guerre di classe, disperati quando c’è solo ingiustizia e nessuna rivolta». L’opposizione deve scendere in piazza, parole sempre più sante, ma che andrebbero accompagnate da una consapevolezza non meno problematica delle parole del poeta, e cioè che, nonostante il deficit di democrazia, non sembrano questi tempi di rivolta, come dire?, morale, naturale, necessaria. Nonostante tutto, nonostante lo scempio di un governo che, temo, risulti assai credibile nel suo ricorso alla cultura (ahimé, diffusa) dell’illegalità, del tornaconto personale, dell’arbitrio, dell’arroganza, del farsi prosaicamente i c... propri. L’opposizione, cioè i cittadini che hanno a cuore l’idea del bene comune e dei diritti appunto di cittadinanza, sì, che devono scendere in piazza, ma nello stesso temo che ciò che oggi prevale sia una sensazione di solitudine “civile”. Nel senso che la cultura che ha riportato al governo Berlusconi si configura come un patrimonio molto più diffuso di quanto non sembri all’apparenza. C’è un vecchio adagio sempre valido, sempre buono, sempre verde che accenna all’assenza di una borghesia in questo nostro Paese, una borghesia che, se fosse tale, dovrebbe insorgere in prima persona contro lo scempio dello stato di diritto, così come dinanzi a certe forme di palese arroganza che appaiono sempre più vistose, se non sbandierate come doverose. L’opposizione deve quindi scendere in piazza tenendo a mente che viviamo tempi bui, nei quali certo sentire proprio della semplificazione autoritaria, vecchio vizio nazionale, ha fatto breccia, risulta assai più convincente d’ogni appello alla democrazia, alla legalità, allo stato di diritto, alla separazione dei poteri, in assenza di questo barlume di consapevolezza sorge naturale il dubbio che le parole che Leonardo Sciascia riferì ai siciliani possano essere ormai estese all’intero corpo geografico della nazione, e cioè che gli italiani «non credono alla idee», nutrono seri dubbi che le idee possano mutare lo stato delle cose, incidere concretamente sull’esistente, possano migliorare la vita.
L’opposizione deve scendere in piazza sapendo che, per quanto la cosa possa risultare desolante, le parole, perfino le più improbabili, pronunciate da Silvio Berlusconi e dai suoi alleati brillano come credibili, così come risulta addirittura istituzionalmente attendibile il volto di uno Schifani, così come quello di un Ghedini. L’opposizione deve scendere in piazza tenendo a mente che ciò che ad altri risulta facile, nel suo caso deve essere frutto di fatica e di una lunga opera di convincimento perché non sempre hanno torto coloro che hanno fatto proprio una sorta di pessimismo sulla natura dei nostri vicini di casa che barano perfino sui millesimi durante le riunioni condominiali, l’opposizione deve scendere in piazza tenendo presente che l’arrivo del caldo estivo, perfino l’afa che toglie il respiro, è fra i migliori alleati del governo. L’opposizione deve scendere in piazza tenendo a mente che peggio di così non si può, e non si intuisce neppure un refolo di vento all’orizzonte.
f.abbate@tiscali.it
Corriere della Sera 25.6.08
Severino: niente prove, giusto indignarsi. Troppa passione per le trame occulte
di Gian Guido Vecchi
MILANO — «La natura ama nascondersi », diceva il suo amato Eraclito, e lo stesso vale per la realtà, specie se si tratta di quella italiana. «In ogni istituzione, a cominciare dalle democrazie, una certa opacità è inevitabile». Però c'è un limite, osserva il filosofo Emanuele Severino, «la reazione del Vaticano non mi stupisce affatto e la comprendo, del resto se non avesse risposto ci sarebbero stati dei sospetti ».
Ha ragione il Vaticano?
«Per forza, non ci sono prove. Tra l'altro non c'è solo l'accusa a Marcinkus, poco simpatica. Il Vaticano ha rilevato che è rivolta a un morto che non può replicare. Ci sono, ancora più gravi, le voci di relazioni tra il Vaticano e la mafia. Tutte cose che certamente, dette così, devono perlomeno lasciare assai perplessi e invitare tutti alla massima cautela».
Di certo il tema ha nutrito innumerevoli ricostruzioni e romanzi complottistici. Come mai il Vaticano solletica tanto interesse?
«Per alcuni, forse, è affascinante pensare che sotto la volontà di bene si celi un'azione malvagia, soprattutto quando la volontà di fare del bene è spinta al massimo come nella Chiesa cattolica: una volontà, va detto, non solo espressa ma convinta. Spesso le azioni cattive accadono come sottoprodotti non voluti di azioni che mirano al bene. Di fatto ci si trova trasportati in un'altra direzione, col concorso di personaggi che ruotano attorno, magari impropriamente, e cercano di infiltrarsi al centro».
In che senso, professore?
«Quando diciamo "Vaticano" in realtà parliamo di una serie di cerchi concentrici. C'è un centro, una periferia prossima, un'altra più remota e chissà dove si va a finire».
Insomma, bisogna stare attenti a puntare il dito al centro.
«Si parla pure di collegamenti con l'attentato a Giovanni Paolo II, no? E allora — ammesso che ci fosse qualcosa del genere — nel momento in cui lo stesso Vaticano, nella persona del suo capo, è oggetto di violenza, significa che bisogna distinguere radicalmente le gerarchie di chi può gravitare nella periferia...».
E il capo della banda della Magliana sepolto in Sant'Apollinare?
«Torniamo al discorso dei cerchi concentrici. Ci sono gli zelanti, i fanatici... Ecco, magari in Vaticano dovrebbero dire: dai nemici mi guardo io, ma dagli amici mi guardi Iddio. C'è da sperare che almeno il Vaticano regga...».
Almeno?
«Vede, nonostante tutto quello che scrivo sulla laicità dello Stato, non solo quello italiano ma molti Stati democratici dovrebbero imparare dal Vaticano e dalla sua esperienza come si fa lo Stato e come si fa politica...».
In tutta questa faccenda, gioca un po' la vecchia sindrome del complotto?
«Mah. Che le cose siano diverse da ciò che appaiono è difficile negarlo. Se tutto fosse alla luce del sole, la sicurezza degli Stati andrebbe a quel paese».
Un po' come quando Umberto Eco rideva di quelli che vogliono i servizi segreti «trasparenti»?
«Certo. È necessario, ad esempio, che una democrazia sopporti di non essere totalmente trasparente, altrimenti morirebbe subito. È una dimensione che coinvolge tutte le grandi istituzioni, compreso il Vaticano. Che sia totalmente al di fuori di questo processo di mascheramento mi pare inverosimile, le istituzioni devono difendersi e usare i mezzi più idonei a sopravvivere. Ma questo non significa un j'accuse,
anzi: se l'opacità è inevitabile, il caso Orlandi è un discorso del tutto diverso e su questo deve fare chiarezza la magistratura».
Siamo un Paese che ama l'esistenza di trame occulte scandalose?
«Eh sì, purtroppo vedo che c'è questa passione. E pensare che nella situazione in cui siamo avremmo bisogno solo di rimboccarci le maniche».
Corriere della Sera 25.6.08
Profili. Non solo nichilista e anticristiano: un'analisi del pensatore tedesco oltre i luoghi comuni
Karl Jaspers in viaggio fino al termine della notte di Nietzsche
di Mario Andrea Rigoni
In termini superficiali e generici l'anticristianesimo è uno degli aspetti più ovvi e più noti del pensiero di Nietzsche; non lo sono affatto, in compenso, la ricchezza profonda e la contraddittorietà enigmatica che caratterizzano questa posizione, indagata da Karl Jaspers in un saggio di grande e saggia misura, che fu pubblicato nel 1947 ma risale ad una conferenza tenuta ad Hannover nel 1938 ( Nietzsche e il Cristianesimo, ed. Marinotti, traduzione e prefazione a cura di Giuseppe Dolei).
Innanzitutto Nietzsche distingue e stacca nettamente la figura di Gesù non solo dall'organizzazione della Chiesa ma anche dal fenomeno del cristianesimo quale si è sviluppato nei secoli e persino dalla predicazione degli apostoli e dalla prima comunità cristiana: il cristianesimo è travisamento e corruzione fin dall'origine. Mentre Cristo rappresentò e visse un inerme ideale di beatitudine, non molto diverso da quello del Buddha, il cristianesimo, animato da uno spirito di risentimento e di rivalsa per la perdita del maestro, sostituisce all'eternità la storia, trasformando ciò che era una condotta di vita fondata sulla negazione della realtà terrena in fede, dottrina, dogma, rito, militanza. «In fondo c'è stato un solo cristiano ed è morto sulla croce», scrive Nietzsche nell'Anticristo. Il cristianesimo, che ha distrutto la grande civiltà greca e, in particolare, la tragica verità della vita dell'epoca presocratica, introduce un sistema di finzioni (il Dio personale, la Trinità, l'immortalità, il peccato, la grazia, il giudizio universale, la redenzione) che, una volta smascherate, come non poteva non accadere, conducono al vuoto, al caos, al nulla. Nietzsche vede proprio nel cristianesimo la causa della morte di Dio e la sorgente del nichilismo moderno, laddove il mondo pagano poteva contare su una natura conclusa, autonoma e immutabile. Non credo sia mai stato notato che un'osservazione analoga era già stata fatta da Leopardi quando nello Zibaldone di pensieri illustrava il paradosso che la religione giudaica e la religione cristiana, in quanto propagatrici della riflessione e della metafisica, sono la fonte principale dell'ateismo e dell'incredulità religiosa.
In secondo luogo la virulenta polemica anticristiana di Nietzsche si nutre, secondo Jaspers, di concetti e di impulsi che sono cristiani, come la visione totale della storia universale, l'idea della radicale imperfezione umana, la volontà di verità e di autenticità, l'assolutezza morale: solo che essi vengono per l'appunto svuotati del loro contenuto cristiano. Infine la lotta di Nietzsche non implicherebbe tanto l'abbandono quanto il superamento del cristianesimo, così come del nichilismo, attraverso una nuova filosofia, «e precisamente con le forze che il cristianesimo, e solo esso, ha sviluppato nel mondo».
È chiaro che la speculazione di Nietzsche si muove su un terreno vertiginosamente problematico e ambiguo. Il culmine è raggiunto in alcune sconvolgenti affermazioni, giustamente messe in evidenza da Jaspers, nelle quali Dio viene definito come «l'al di là del bene e del male » e Gesù viene addirittura chiamato in soccorso dell'amoralismo («Disse Gesù: che cosa importa della morale a noi figli di Dio?»). Certamente la morte in croce di Cristo è per Nietzsche un insulto alla vita, che egli respinge con orrore, contrapponendole la morte rigeneratrice e tripudiante di Dioniso, simbolo della paganità. Tuttavia, non è forse senza significato che nei «biglietti della follia» Nietzsche si firmi non solo come Dioniso, ma anche come il Crocifisso.
Il merito del saggio di Jaspers, esente da ogni pregiudizio polemico, consiste in una comprensione del pensiero di Nietzsche che nasce dalla consapevolezza della sua inclassificabilità: «Questo pensatore abbandona qualsiasi dimora, ha il coraggio di sfidare un deserto sconfinato, si espone a qualsiasi solitudine indifesa. (...) Egli non arriva alla pace di una verità, né alla distensione conseguente al raggiungimento di una meta. In giovinezza è stato un wagneriano, poi diventa un nichilista disgregatore, e quindi un solenne profeta. E tuttavia anche questo egli ripudia e vuole andare oltre. Ma dove? Ciò è destinato a restare per sempre un mistero».
Si tratti di cristianesimo o di altro, l'opera di Nietzsche pullula incessantemente di contraddizioni e ambivalenze: ma nessuna è gratuita, insignificante, indifferente ai nostri dilemmi e alle nostre piaghe. Poiché Nietzsche ha anche deriso in anticipo i suoi importuni ammiratori, appare quanto mai saggia la riflessione con cui Jaspers conclude il suo scritto, che è anche una sorta di nobile metodologia o pedagogia della lettura: «Vero è soltanto ciò che per mezzo di Nietzsche nasce da noi stessi».
Corriere della Sera 25.6.08
Il filosofo della scienza si confronta con lo studioso premio Abel, presente il 3 luglio
La matematica ha anche un cuore
Michael Atiyah: «Deve essere il collante intellettuale che tiene unita l'umanità»
di Giulio Giorello
«Il matematico persegue la propria indagine per ragioni non troppo diverse da quelle per cui il pittore dipinge o il musicista compone. Lo spinge quella che grandi pensatori hanno definito la gloria dello spirito umano». Così Michael Atiyah, uno dei maggiori matematici viventi, insignito tra l'altro della Medaglia Fields (1966) e del Premio Abel (2004). Del resto, nel saggio di apertura del volume collettivo La matematica. I luoghi e i tempi (a cura di Claudio Bartocci e Piergiorgio Odifreddi, Einaudi, Torino 2007), aveva paragonato la condizione dei matematici a quella degli artisti che si formavano nelle grandi botteghe rinascimentali: «In matematica, come nell'arte, non c'è alternativa allo scambio intellettuale tramite cui si tramandano le tecniche, la conoscenza di base e lo spirito di ricerca ». Ma come gli artisti di Firenze avevano bisogno di Lorenzo il Magnifico, così anche i matematici «necessitano di un mecenate, che può essere tanto un privato quanto un'istituzione», nella convinzione che «la matematica abbia anche una valenza economica».
L'affinità con le arti non si ferma qui. Per Atiyah, «anche in matematica la bellezza è una guida importante per raggiungere la verità». Questa idea era cara già a un grandissimo matematico come Jacques Hadamard, il quale in una memorabile discussione con Paul Valéry negli anni '30 dichiarava orgogliosamente come la scoperta in matematica dipendesse dal senso della bellezza il quale verrebbe poi tradotto nell'eleganza delle formule. Era stato semmai il poeta a rilevare come talvolta quel senso di bellezza avesse teso delle trappole anche agli intelletti migliori. Il punto è, osserva Atiyah, che «quello che si ottiene deve essere sempre controllato dalla dimostrazione. All'inizio il rigore può lasciare campo all'immaginazione. È l'immaginazione che crea, ma è la logica che conclude».
Questo appello alla logica non va, però, inteso nel senso dello slogan per cui la matematica non sarebbe altro che logica travestita. Precisa infatti Atiyah: «La matematica non coincide con la logica più di quanto la composizione musicale coincida con la teoria delle scale armoniche o la pittura con la chimica dei colori». Se fin dai tempi di Pitagora o di Platone la matematica veniva unita alla filosofia come chiave di comprensione del mondo naturale o anche come strumento di buona gestione degli affari della polis, oggi è forse ancor più necessario che essa giovi alle altre scienze, sia naturali sia sociali, fornendo il «collante intellettuale che ci tiene uniti come esseri umani». La logica, dunque, non è tutto. Sono la forza dell'immaginazione e la capacità di portare i concetti all'estremo che possono rivelarci i tratti più profondi della mente umana. Lo diceva, seppur in maniera polemica, quel «bizzarro filosofo» che era l'irlandese George Berkeley. Doveva ribadirlo, agli inizi del Novecento, il matematico, fisico e filosofo Jules-Henri Poincaré, per il quale la matematica aveva due sorelle, la fisica e la filosofia, quest'ultima intesa come indagine dei nostri processi mentali. Per Atiyah, «la matematica deve essere considerata in tutti i suoi aspetti e deve essere indagata in una prospettiva che tenga conto del suo sforzo di comprensione e dei meccanismi neurofisiologici che sono sottesi a esso».
Gli anni della riflessione di Poincaré erano anche quelli in cui un altro grandissimo matematico David Hilbert si chiedeva (al Congresso Internazionale del 1900) se la specializzazione raggiunta nelle singole branche non avrebbe infine impedito anche il più semplice scambio di idee tra i cultori dei diversi settori. Oggi, anche se talora si parla, per esempio in fisica, di grandi teorie di unificazione, il panorama della ricerca appare sempre più differenziato e complesso, e al pubblico più ampio sembra spesso una sorta di impraticabile labirinto. Per Atiyah, tuttavia, il rischio di una progressiva disintegrazione del sapere e delle competenze può essere contrastato proprio da una seria educazione alla matematica: «Mirando di continuo a grandi principi architettonici e a un'astrazione sempre crescente i matematici riescono a comprimere la conoscenza più importante conquistata dalle generazioni passate in pacchetti coerenti che possono essere tramandati a quelle future».
Restano certo grandi tendenze di fondo. Non c'è forse maniera migliore della raffigurazione geometrica per rappresentare ciò che il nostro cervello apprende in modo globale e pressoché istantaneo. Ma la geometria, aggiunge Atiyah, «è essenzialmente statica, è lo studio dello spazio. L'algebra, invece, è lo studio del tempo. Questa è una concezione forse più nuova. Emerge nell'Ottocento con i grandi lavori dell'irlandese William Rowan Hamilton; e oggi per algebra dovremmo intendere tutte le procedure algoritmiche, in particolare quelle che aiutano così potentemente il calcolo nei computer. Questi ultimi assistono la mente umana eseguendo lunghi calcoli in modo meccanico».
Non c'è, però, ragione di temere quell'assoggettamento degli umani alle macchine che il sarcastico Samuel Butler rinfacciava al vecchio Charles Darwin come nostro possibile futuro! Per Atiyah, «geometria e algebra restano due facce del pensiero umano». Ritroviamo così il grande tema dello spazio e del tempo che tanto ha appassionato filosofi come David Hume e Immanuel Kant. «Ma anche Einstein! — esclama Atiyah —. È da lui che abbiamo imparato che lo spazio e il tempo vanno unificati, anche se questa impresa così importante per la fisica contemporanea sembra sollevare difficoltà non indifferenti per il nostro cervello. Tuttavia — scherza Atiyah — il cinema qui sembra non avere poi troppi problemi».
il Riformista 25.6.08
Allarme Red
Alta tensione, fuoco contro la lobby di D'Alema che replica: «Non sono anti-partito, le correnti esistono»
È il martedì più pazzo della breve storia del Pd
È il martedì più pazzo della breve storia del Pd. Il tema della nascita di Red, l'associazione dei parlamentari amici di Italianieuropei , finisce all'ordine del giorno del coordinamento, con Veltroni che chiede conto dell'iniziativa a Bersani. Bettini, che aveva sentito telefonicamente D'Alema, media. I Popolari attaccano l'ultima mossa dell'ex vicepremier. Che risponde: «Red è una risorsa. Non voglio rompere le scatole a Veltroni».
Il segretario del Pd offre la sua versione dei fatti sul dissesto economico finanziario del conti della Capitale: «Da settimane il nome di Roma sta sui giornali senza che l'amministrazione reagisca. Se c'era bisogno di chiedere più soldi per Roma non c'era bisogno di fare tutto questo can-can e di infangare il nome della città». Giovanna Melandri, nel frattempo, convoca una riunione di «senzacorrente» (nel senso che «siamo contro le correnti») con Giuliano Amato, che invece diserta l'appuntamento di Italianieuropei .
Nel giorno della rappresentazione plastica di un partito diviso in pezzi, continua a tenere banco il tema del ricambio generazionale. Dopo Gianni Cuperlo, interviene Nicola Zingaretti. Che, in un'intervista al Riformista , si chiama fuori dal risiko: «Questa contrapposizione con Cuperlo, se mai ci fosse, vive solo nel gossip».
il Riformista 25.6.08
Tensioni il martedì pazzo dei democrat. in cinque atti
Veltroni e i bianchi contro i red
Walter chiede conto a Bersani. Amato preferisce la Melandri. Marini se la prende con Latorre
di Tommaso Labate
Il dialogo va in scena ieri mattina durante la riunione del coordinamento, primo appuntamento del martedì più pazzo del Pd. Walter Veltroni "sintonizza" la sua copia del Corriere della sera sulla pagina dedicata al varo di Red e guarda negli occhi l'unico dei presenti incasellato nell'universo dalemiano: Pier Luigi Bersani. «Lo vedo quello che volete fare voi di Red - scandisce il segretario -. Leggo pure sui giornali che D'Alema vuole una legge elettorale per le Europee senza sbarramento. Ora non mi direte che quella decisione l'ho presa io da solo, eh? Sulla soglia del 3 per cento abbiamo discusso e deciso tutti insieme. Oppure mi sbaglio, caro Pier Luigi?». L'ex ministro dello Sviluppo economico, stando agli altri testimoni, si sarebbe difeso così: «Walter, ti giuro che di quella roba io non ne so niente. Per quanto mi riguarda, sulla riforma della legge delle Europee vale quello che ci siamo detti più volte». Sarà stata colpa dell'irritazione per l'iniziativa dalemiana, o forse della voglia di avere l'ultima parola. Comunque sia il segretario ha insistito, sempre rivolto a Bersani: «Non ti risulta neanche del lavorìo in corso sul sistema tedesco, eh?».
Il rischio che il coordinamento si trasformasse in un referendum sull'associazione di parlamentari amici di Italianieuropei , dall'esito peraltro assai scontato (vista l'assenza, Bersani a parte, di dalemiani), era alto. «A me sinceramente non sembra proprio che quella sia un'associazione culturale di parlamentari», insisteva Giorgio Tonini nel suo intervento. «Io ci vado», rispondeva Bersani, che di Red è uno dei cinque soci fondatori. Quindi è stata la volta di Goffredo Bettini, colui che si era preso l'incarico di sondare D'Alema alla vigilia del battesimo dell'associazione. «Ho parlato al telefono con Massimo - ha raccontato il coordinatore politico agli altri presenti - e lui stesso mi ha assicurato che dalla riunione di Red non arriveranno attacchi né al gruppo dirigente né al partito». Veltroni, che il sassolino dalla scarpa se l'era già tolto, è ritornato su quello che un altro partecipante al vertice chiama «il binario dell'ecumenismo». Così, il coordinamento ha potuto fissare la data della prima direzione (metà luglio) e quella del tesseramento (subito dopo).
Partita chiusa? Tutt'altro. Il secondo atto del martedì caldo del Pd va in scena a palazzo Madama. A pochi metri dalla buvette del Senato, subito dopo l'approvazione del salva-premier, alcuni testimoni intercettano uno scambio di battute «abbastanza teso» tra Franco Marini e Nicola Latorre. Stando al racconto dei testimoni di cui sopra, l'ex presidente del Senato chiedeva conto al plenipotenziario dalemiano delle indiscrezioni giornalistiche sul ritorno dell'«asse D'Alema-Marini» all'ombra di Red. «Latorre - giura un testimone oculare - aveva l'aria di chi si difendeva con il classico "io non c'entro nulla"». Sta di fatto che l'ex presidente del Senato, che vox populi e vox dei danno in rotta con i figliocci Franceschini e Fioroni, ha confermato la scelta di disertare l'appuntamento del lancio di Red (al contrario del fedelissimo Nicodemo Oliverio, che invece c'è andato).
Il terzo atto del martedì più pazzo del Pd va in scena a Montecitorio. Protagonista la corrente dei neo-popolari, che prende di mira l'associazione dalemiana dei parlamentari. «Forse di tratta di tifosi della fondazione Italianieuropei . Un po' come l'Inter club», ironizza Beppe Fioroni. «Il rosso mi preoccupa un po'», s'inserisce Rosy Bindi. «Quell'associazione rappresenta un fatto singolare», chiude il cerchio Antonello Soro.
La sceneggiatura del quarto atto comprende il sandwich sull'iniziativa dalemiana. Alle 15, Giovanna Melandri riunisce un gruppetto «controcorrente» (nel senso che «siamo contro le correnti»). A sorpresa spunta Giuliano Amato, copresidente di Italianieuropei che invece diserterà il varo di Red. «Non c'è nulla di male nell'aver militato o nei Ds o nella Margherita», dice l'ex ministro dell'Interno. Ma «se dobbiamo vivere di dosaggi per tutta la vita, questa creatura rischiamo di farla morire», aggiunge interrompendo il coro di chi - come Giulio Santagata e Sandro Gozi - difendeva la linea Parisi di fronte a una Melandri attonita.
Nell'ultimo atto, ci sono loro. Walter Veltroni e Massimo D'Alema. Il primo a dare la "sua" verità sul «buco di Roma», l'altro a benedire la "sua" associazione di parlamentari. Stessa ora, a un chilometro di distanza. Nel frattempo Bettini era a Napoli, per la "sua" Democratici in rete mentre Piero Fassino pensava alla "sua" corrente (si chiamerà Pd, Pensiero democratico, starring Sereni, Damiano e Serafini, con un trimestrale in cantiere). E che dire di Enrico Letta? Limava l'intervento per la "sua" grande iniziativa, tra pochi giorni a Piacenza? È il martedì pazzo del Pd. La rappresentazione plastica di un partito diviso in pezzi. Rappresentazione in cinque atti.
il Riformista 25.6.08
Tensioni. Debutto al farnese dell'altro pd
D'Alema: non mi faccio intimorire
«Basta conformismo e pigrizia intellettuale. Non è un'iniziativa per rompere le scatole al segretario»
di Alessandro De Angelis
Non c'è un titolo, non un cartellone, non un manifesto al cinema Farnese dove ieri è andato in scena il debutto di Red, l'associazione di parlamentari (hanno aderito oltre cento) «amici della Fondazione ItalianiEuropei». Inevitabile - forse è un caso, chissà - che l'occhio cada su «Tutto torna», il titolo dell'ultimo lavoro del regista sardo Pitzianti. Forse un auspicio, per molti. Che quando D'Alema entra in sala urlano: «Ciao Massimo».
Sul palco, alle sei del pomeriggio, Massimo D'Alema, il prodiano Paolo De Castro e la leader in pectore della sinistra del Pd, Livia Turco, tengono a battesimo l'associazione "Riformisti e democratici" (Red, appunto): sono tre anime del Pd, quasi un "altro Pd". Ma guai a parlare di correnti. Anche se non sono una parolaccia. Parola di «Massimo», che lo scandisce di fronte a una sala che pende dalle sue labbra: «Io sono contrario alla demonizzazione delle correnti. Esistono». Ma Red non lo è. Forse è qualcosa di più, o di meno. O, forse, è altro: «Non siamo una corrente - ha spiegato D'Alema -, lo abbiamo detto, fare una corrente sarebbe stata un'operazione molto più semplice e meno faticosa. Solo il conformismo e la pigrizia intellettuale fanno dire che Red è una corrente. Cose da cui non ci dobbiamo far ricattare, condizionare o intimorire». È in gran forma, l'ex ministro che una volta disse: «Quando c'è da cacciare gli artigli come noto io non mi sottraggo». Era il 2001, in occasione di una direzione post-voto segnata, anche quella, dal duello con i veltroniani. E anche ieri, dopo una giornata in cui "l'altro Pd" (quello di Veltroni) ha vissuto con una certa insofferenza, D'Alema non si è sottratto: «Questa è un'esperienza politica e culturale totalmente nuova ma viene giudicata con categorie vecchissime del passato. Come se un grande partito moderno fosse fatto di sezioni, comitati centrali, varie prave e chi si collocasse fuori da questo schema sia un antipartito». E ancora: «Non destabilizzerà il Pd. Non voglio rompere le scatole a Veltroni». Vola alto l'ex ministro che parla a tutto campo di Italia, Europa, riforme, ma ad essere bollato come capocorrente proprio non ci sta: «Io non sono un dirigente di partito da molti anni. E non lo voglio fare in futuro. Vorrei contribuire da una posizione diversa ad un grande progetto per dialogare con la società, la politica e il mondo della cultura».
Corrente o meno, in sala si respira il clima delle grandi occasioni. Certo, la scenografia è minimalista: musica soft anni Ottanta, palco viola, tendente al rosso (che fa pandan con le sedie). Manca lo slogan. Forse è un caso che l'unico a disposizione sia, appunto, «tutto torna». Ma il clima è di attesa. Rondolino fa il vago («Quelli sul palco ritornano. Io sono qui a salutare vecchi amici»), Pittella ostenta sorrisi, Cuperlo è cercatissimo. Latorre scherza con D'Onofrio. Che a sua volta scherza con i cronisti. Senatore, si iscrive a Red? «Non mi iscrivo, sono impegnato a fare un altro partito, i partiti servono, ma oggi è un appuntamento importante». Poi aggiunge: «Quando D'Alema era presidente della bicamerale io ero il vice di D'Alema. Si dovrebbe ricominciare a discutere di riforme istituzionali. A volte ritornano, ha visto il titolo del film?». I parlamentari arrivano in ritardo («Hanno dato una deroga solo a me e alla Turco. Stanno votando alla Camera», dice D'Alema) e tra i vari capannelli si respira l'aria di chi la sa lunga. Giovanni Santilli, uomo macchina di D'Alema prima e di Minniti poi, ostenta un curriculum di dalemiano doc. Nelle leggende del botteghino si narra che ai tempi della conta con Occhetto scrisse prima della votazione decisiva il numero dei voti a favore di D'Alema su un biglietto dato al leader maximo. Non sbagliò di uno. Ieri non riusciva a mascherare la sua soddisfazione: «Qui ci sono i pezzi del partito che conta. Quelli vivi nel territorio».
Sul palco va in scena "l'altro Pd". Ognuno spiega le ragioni per cui aderisce al progetto dalemiano. Ignazio Marino invoca una sintesi sui temi della ricerca scientifica; il presidente della Sinistra giovanile Roberto Speranza afferma: «Bisogna colmare il vuoto tra istituzioni e cittadini. A partire da una questione meridionale sempre più drammatica». Poi Pittella spinge sul tasto europeista, il lettiano Boccia parla di economia, Nicodemo Oliverio, mariniano di ferro, pensa che Red debba strutturarsi capillarmente nel territorio, per province e per regioni. E Bersani, insiste sul rapporto col Pd: «Se c'è un grande fiume, servono tanti affluenti».
Non è una corrente. È altro, dicono tutti. A partire dall'ex ministro De Castro, che di Red è il presidente, che assicura: «Sgombriamo subito il campo con chiarezza e con nettezza, come ha già fatto D'Alema nei giorni scorsi: nessuna corrente interna al Pd, nessun proposito di far pesare il nostro contributo in termini di composizione dei gruppi dirigenti». Ma Livia Turco, in versione pasionaria, non usa mezzi termini: «Far parte di un'associazione come questa è avere una doppia militanza. Lavoreremo nei circoli dell'associazione ma se mi chiedono di contribuire alla nascita dei circoli del Pd ben venga, è un invito a nozze. Forse si è troppo indugiato». Si lavora. Al momento per Red.
il Riformista 25.6.08
Sepolture. Don Pedro riaprirà la tomba del boss a sant'Apollinare?
Il mistero di Emanuela nelle mani dell'Opus Dei
di Paolo Rodari
Aprire la tomba di Enrico De Pedis per fare luce sulla scomparsa di Emanuela Orlandi? Don Pedro Huidobro, oggi rettore della basilica di Sant'Apollinare in Roma nella quale è sepolto Renatino, ovvero Enrico De Pedis, boss della banda della Magliana, si è dichiarato disponibile, purché la decisione sia presa dalle autorità competenti.
Il corpo di Renatino, infatti, è sepolto in una cripta la quale, secondo il regime concordatario, è inaccessibile per le autorità italiane. E l'Opus Dei (alla quale la parrocchia è stata affidata nel 1992) vigila che nessuno stravolga le regole. Al fianco della Chiesa, a pochi metri dal portone, c'è pure l'università pontificia Santa Croce, anch'essa dell'Opus Dei, i cui uscieri controllano la basilica.
Ma, diciamolo subito, con la sepoltura di Renatino sotto Sant'Apollinare, l'Opus Dei non c'entra nulla. Perché la richiesta è partita nel 1990 quando la basilica non era ancora dell'Opus. C'entra, invece, l'allora rettore di Sant'Apollinare, monsignor Piero Vergari: il 6 marzo 1990, Vergari ne attestò con una lettera lo status di grande benefattore. Ecco cosa dice il documento conservato negli archivi della basilica: «Si attesta che il signor Enrico De Pedis è stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la basilica e ha aiutato concretamente a tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi in particolare per la loro formazione cristiana e umana».
Basandosi su queste motivazioni, quattro giorni dopo, l'allora vicario generale della diocesi di Roma e presidente della Cei, il cardinale Ugo Poletti, ha rilasciato il nulla osta alla sepoltura di De Pedis. Il 24 aprile dello stesso anno la salma venne tumulata (fu prelevata da un cimitero comunale nella quale era stata provvisoriamente deposta) e le chiavi del cancello consegnate alla vedova.
Vergari conobbe De Pedis quando era cappellano del Regina Coeli: «Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi stati sociali - si legge in una nota scritta il 3 ottobre del 2005 da Vergari -, parlavamo di cose religiose o di attualità; De Pedis veniva come tutti gli altri e, fuori dal carcere, ci siamo visti più volte: normalmente nella chiesa di cui ero rettore, sapendo i miei orari e altre volte fuori, per caso. Qualche tempo dopo la sua morte i familiari mi chiesero, per ritrovare un po' di serenità, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie abbandonate da oltre cento anni nei sotterranei di Sant'Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto. Anche in questa circostanza doveva essere valido, come sempre, il solenne principio dei Romani "Parce sepolto": perdona se c'è da perdonare a chi è morto e sepolto».
l'Unità 25.6.08
Molti registi scelgono la regione: dal «Divo» a «Sanguepazzo» a Bellocchio per il nuovo film
Molti registi scelgono la regione: dal «Divo» a «Sanguepazzo» a Bellocchio per il nuovo film
Due anni fa, durante il Torino Film Festival, Dario Argento imprecava davanti ad una sala gremita di gente contro l’inverno mite che gli rovinava l’atmosfera de La terza madre. Le piogge delle settimane scorse hanno ritardato la lavorazione di Vincere, il film a cui sta lavorando Marco Bellocchio. Ma le produzioni che scelgono Torino come set sanno di poter contare sul solido appoggio della Film Commission capitanata da Steve Della Casa. «La forza della Film Commission Torino Piemonte - dice al telefono lo stesso presidente - sta soprattutto nel fatto che, pur essendo sotto il controllo del Comune e della Regione, si tratta di una fondazione privata e quindi con un potere e una rapidità decisionali decisamente superiori a quelli di enti analoghi». Dimostrazione di quello che dice Della Casa sta proprio nel grande numero di produzioni che ogni anno gira in Piemonte pur non avendo necessità d’ambientazione nella regione stessa: da Vincere a I demoni di San Pietroburgo di Montaldo, da Sanguepazzo di Giordana al Divo di Sorrentino. «Le produzioni preferiscono appoggiarsi a noi anche perché siamo in grado di garantire l’utilizzo della location prescelta in meno di 48 ore», dice ancora Della Casa, aggiungendo che anche per questo motivo molte serie televisive, di regola più legate a ritmi sostenuti di lavorazione, si sono rivolte all’ente piemontese. «Questo dimostra che la Film Commission più che ad una promozione turistica del territorio, punta ad un suo sviluppo occupazionale».
Sangue pazzo, Il Divo e Il resto della notte, di Munzi, hanno dato lavoro a 1200 comparse e 89 tecnici piemontesi. Se ciò da un lato è segno della massiccia presenza di produzioni sul territorio piemontese, dall’altro non si può ignorare che vi è ancora una sfiducia nelle strutture di pre e post-produzione. Per colmare la distanza tra il Piemonte e il sistema romano si stanno ultimando i lavori del Cineporto, in futuro in grado di ospitare sei produzioni contemporaneamente, con al suo interno una saletta cinematografica per la visione dei giornalieri, che la sera si aprirà al pubblico: «La programmazione della sala sarà rigorosamente gestita da giovani - sottolinea Della Casa, facendo in anteprima il nome di Vittorio Sclaverani, classe 1981 - e lo spazio del Cineporto dovrà essere radicato nella vita cittadina. Per questo vi si troverà anche un ristorante, La Piola del Cinema, nel quale, se lo vorranno, i torinesi potranno cenare al fianco dei cinematografari». Torino cerca di procedere unendo le forze di tutto ciò che gravita attorno al cinema, università compresa. A Torino, in fondo, è nato il cinema italiano e c’è in questa città una cultura del fare e del conservare il cinema che sembra garantirne il primato.
Sangue pazzo, Il Divo e Il resto della notte, di Munzi, hanno dato lavoro a 1200 comparse e 89 tecnici piemontesi. Se ciò da un lato è segno della massiccia presenza di produzioni sul territorio piemontese, dall’altro non si può ignorare che vi è ancora una sfiducia nelle strutture di pre e post-produzione. Per colmare la distanza tra il Piemonte e il sistema romano si stanno ultimando i lavori del Cineporto, in futuro in grado di ospitare sei produzioni contemporaneamente, con al suo interno una saletta cinematografica per la visione dei giornalieri, che la sera si aprirà al pubblico: «La programmazione della sala sarà rigorosamente gestita da giovani - sottolinea Della Casa, facendo in anteprima il nome di Vittorio Sclaverani, classe 1981 - e lo spazio del Cineporto dovrà essere radicato nella vita cittadina. Per questo vi si troverà anche un ristorante, La Piola del Cinema, nel quale, se lo vorranno, i torinesi potranno cenare al fianco dei cinematografari». Torino cerca di procedere unendo le forze di tutto ciò che gravita attorno al cinema, università compresa. A Torino, in fondo, è nato il cinema italiano e c’è in questa città una cultura del fare e del conservare il cinema che sembra garantirne il primato.
Repubblica 25.6.07
La paura che cresce nella società sicura
di Aldo Schiavone
Non siamo i primi ad avere tanta paura. La storia è piena di società spaventate, immerse nei loro incubi. Da quel che possiamo intravedere nello scabro latino attribuito alle XII Tavole, gli abitanti della Roma arcaica - gli antenati di coloro che sarebbero diventati i padroni del mondo - erano letteralmente atterriti dal buio, già nelle loro stesse case. E nella Francia del Cinquecento, agli esordi della modernità, il terrore non doveva essere meno diffuso. «Paura panica (…) paura sempre, paura dovunque»: così scrive di quegli anni Lucien Febbre in un saggio sul problema dell´incredulità, che ancora leggiamo come un grande classico.
Il paradosso è che però le nostre società contemporanee – almeno in questa parte del mondo – sono anche, e di gran lunga, gli ambienti più sicuri che la storia abbia mai conosciuto: non per caso le nostre aspettative di vita si stanno allungando in modo quasi prodigioso, impensabile ancora agli inizi del Novecento, e ciò sta cambiando dall´interno la qualità stessa delle nostre esistenze. Ma la diffusione del timore e dell´ansia non si placa di fronte a una simile evidenza. Al contrario, se ne alimenta, rovesciando ogni conquista materiale, ogni soglia di agio raggiunta, nel fantasma della loro possibile perdita, nella prefigurazione continua dei pericoli che le minacciano, nell´incubo della loro imminente vanificazione. Si apre così una spirale senza fine, che sta trasformando la nostra età in un´autentica epoca d´angoscia – un fenomeno ormai molto studiato, di cui però non mi pare sia stato ancora messo a fuoco il punto cruciale, e cioè il rapporto che la rete mondiale dei mercati tende a stabilire fra tecnica e vita, fra benessere materiale e padronanza del proprio destino. Mentre la paura si sta installando come la compagna quotidiana di masse sempre più vaste e infoscate, e stiamo imparando a riconoscerla come il più popolare dei nostri sentimenti.
Dovunque in Occidente il discorso pubblico è stato investito in pieno da questa ondata, e il nesso fra politica e paura è diventato un vero e proprio segno del tempo. Ma è stato particolarmente in America e in Italia che la destra ha saputo trarne per prima vantaggio: Bush ha costruito gran parte della sua fortuna agitando lo spettro del terrorismo, e Berlusconi, da noi, non ha esitato a ridisegnare l´intera immagine del suo partito, dimenticando il trascinante ottimismo delle origini, per riuscire a intercettare il lungo brivido d´ansia che si sollevava dal Paese.
E si può dire ancora qualcosa di più. Che cioè è stata proprio questa capacità di interpretare e di dar voce alla nuova paura italiana che ha reso (o almeno ha fatto sembrare) la nostra destra davvero – e per la prima volta – una destra di massa e di popolo, capace di aggregare intorno a sé qualcosa di molto vicino a un blocco sociale e culturale relativamente compatto. All´opposto, lo schieramento di centro sinistra si è drammaticamente rivelato, in questo frangente, incapace di capire, di sintonizzarsi, di tradurre in politica la preoccupazione e il pessimismo diffuso nel corpo sociale, riducendosi a figurare come una parte chiusa, ingessata, tendenzialmente tecnocratica ed elitaria, in sostanza lontana dalle attese e dai bisogni degli elettori, votata all´autoreferenzialità e attenta solo al dosaggio fra le sue componenti.
Il nostro è un Paese culturalmente fragile, almeno dal punto di vista politico. La fine dei grandi partiti attraverso i quali è avvenuto il nostro non limpidissimo apprendistato repubblicano e democratico ha acuito una debolezza che ha origini molto lontane, cui non è estraneo il millenario magistero della Chiesa. Abbiamo sempre i nervi scoperti, e l´antipolitica a portata di mano. Ciò ci rende ancor più sensibili ed esposti rispetto alle contraddizioni di un´economia globale che per giunta sta avendo su di noi impatti sociali più forti che altrove (anche qui per ragioni connesse a storiche inadeguatezze e a squilibri mai compensati). Percepiamo – sia pure in modo confuso – che la sicurezza complessiva della nostra società sta aumentando, e di molto, ma percepiamo anche – e in modo assai netto – che le quote (per dir così) di questa nuova sicurezza si dividono tra gli aspiranti in modo drammaticamente diseguale, e che gli strumenti per accedervi – mobilità, spazio, informazione, tempo, servizi – si concentrano secondo modalità incontrollate. La consapevolezza dello scarto non si inscrive tuttavia in un´ormai impensabile coscienza di classe, ma dilata solo «l´orizzonte delle paure», come ha scritto Ezio Mauro su questo giornale il 17 giugno, e rende disponibili a una rappresentanza politica che fa, appunto, del timore e della frustrazione il suo collante, che tende a sostituire la delega alla partecipazione, e si mette alla testa delle nuove "plebi"(o presunte tali) non con un messaggio di riscatto radicale, ma con la suggestione di cure assolutamente parziali, però brutalmente efficaci e immediate: Robin Hood tax, ronde e tessere di povertà. E per il resto, calcio (ma l´avete visto il Tg1, in queste sere?), congiunto all´ostentata esemplarità – tra mito e reality – di irresistibili ascese "private", baciate dal denaro e dalla fortuna.
Non sarà facile sostituire all´asse maggioritario fra destra e paura, un opposto legame, fra sinistra e speranza. Ma credo proprio che solo questo potrà essere il nostro compito, e che vi sia d´altra parte – nel mondo che ci aspetta – una intrinseca e oggettiva somiglianza fra la composizione organica della nuova paura e quella della nuova destra (l´idea del vincolo, del limite, del ritorno – altro che libertà!), come ve ne sia una, alternativa, fra sinistra e speranza (l´idea della liberazione, del superamento, della ragione che sa farsi progetto e futuro). Mettersi su questa strada non è semplice. Essa presuppone una critica conseguente dei lati negativi della globalizzazione, che, pur assumendo quest´ultima come un punto di non ritorno – ciò deve restare fuori questione, nello stesso modo in cui lo era per Marx la società capitalistica – sia capace di rendere plausibili ed evidenti le linee di un suo riequilibrio virtuoso, prima locale ma poi completamente planetario. C´è bisogno cioè che la critica dell´economia globalizzata si apra su quella che Jonas e Bauman chiamano una nuova "immaginazione etica", adeguata alle nostre responsabilità, e su una nuova teoria della politica. E questo non sarà possibile se non si tornerà a lavorare, in Europa, a un nuovo rapporto fra intellettuali e popolo, post-ideologico, ma non post-democratico. Sarà bene che l´architettura culturale del Pd che sta nascendo ne tenga debito conto.
«L'ultimo libro di Eugenio Scalfari, intitolato L'uomo che non credeva in Dio (...) si offre al lettore con la grazia delle opere letterarie perfettamente riuscite» (sic!!!)
Agenzia Radicale 25.6.08
Le confessioni di Eugenio Scalfari
di Giuseppe Talarico
L'ultimo libro di Eugenio Scalfari, intitolato L'uomo che non credeva in Dio edizioni Einaudi, si offre al lettore con la grazia delle opere letterarie perfettamente riuscite. Il libro ha una struttura narrativa assai singolare, poiché è basato sulla continua ed assai felice alternanza di confessioni intime dell'autore sulla sua vita privata e professionale e su lunghe e assai significative meditazioni sui grandi interrogativi ed enigmi dell'esistenza umana.
All'inizio della narrazione vi sono pagine intrise di malinconia e nostalgia del periodo vissuto dall'autore con i suoi genitori, nella città di San Remo. Nel suo libro, Scalfari, con la bravura e la genialità dello scrittore maturo e consapevole dei propri mezzi espressivi, delinea il ritratto, lasciando trasparire lievemente i suoi sentimenti personali, della madre, una donna dolcissima ed elegante. Del padre, avvocato ed uomo colto, ricorda, con gratitudine ed affetto, che durante la sua adolescenza gli leggeva, declamandoli, i testi della grande letteratura classica, come quelli di Ovidio, Lucrezio, Virgilio, Omero, sicché Scalfari conobbe i classici prima di frequentare la scuola.
Accanto ai ricordi dei primi anni di vita, in compagnia dei genitori, affiorano nel libro i momenti che, per ammissione dello stesso autore, furono fondamentali per la sua formazione intellettuale e morale. Un giorno, mentre frequentava la seconda liceo a San Remo e aveva come compagno di banco Italo Calvino, scoprì, grazie al suo professore di filosofia, il libro di Cartesio intitolato Il Discorso Sul Metodo, opera fondamentale per comprendere lo sviluppo della filosofia moderna dal razionalismo all'avvento dell'illuminismo. In quella circostanza, il professore di filosofia fece una affermazione perentoria, suscitando le proteste di Calvino, secondo la quale chi non avesse capito l'importanza di questo pensatore, difficilmente sarebbe riuscito a conferire un senso alla propria vita.
Con lo studio di Cartesio, si badi negli anni del liceo, per Scalfari inizia una lunga meditazione su ciò che costituisce l'essenza del nostro Io. Citando una pagina meravigliosa tratta dal libro le Confessioni di Agostino d'Ippona, in cui il grande filosofo cattolico vorrebbe accedere alla visione del Signore senza perdere la memoria, Scalfari dimostra come la facoltà di ricordare, e quindi di pensare e ragionare, sia fondamentale per cogliere la natura del nostro Io. Inoltre , con la capacità di rendere chiari concetti che hanno innervato e irrobustito la tradizione filosofica occidentale, intorno ai quali sono stati scritti libri di stupefacente bellezza, si pensi ai Saggi di Montaigne e ai Pensieri di Pascal, Scalfari dimostra come l'uomo ha perduto la propria innocenza mangiando il frutto del peccato nel paradiso e scoprendo il valore della conoscenza, che gli dà la possibilità di trasgredire le regole e di provare il senso di colpa. Questa pagina, così illuminante sulla natura della nostra condizione umana, evoca il grande dipinto di Masaccio: La Cacciata Dal Paradiso di Adamo ed Eva.
In altri capitoli di questo libro, denso di pensieri e ricco di descrizioni indimenticabili, come quelle rivolte a spiegare quale fosse il clima morale ed intellettuale in Italia durante il fascismo, l'autore affronta senza infingimenti la sua vicenda professionale. Scalfari iniziò la professione giornalistica, divenendo un maestro ed uno dei più grandi giornalisti del nostro tempo, mentre lavorava in banca. Inizialmente iniziò a collaborare con "il Mondo" di Pannunzio ed Ernesto Rossi, due grandi intellettuali, grazie ai quali scoprì quanto importante fosse il valore del liberalismo di sinistra, sempre minoritario nel nostro disgraziato Paese. In seguito, collaborò con un giornale economico, che all'epoca si chiamava "24 ore", scrivendo e pubblicando articoli economici a favore di un libero mercato che fosse fondato su regole di concorrenza e trasparenza. A causa dei suoi articoli, che suscitarono le proteste del presidente della Federconsorzi Paolo Bonomi, dovette abbandonare il lavoro in banca e, da quel momento, si dedicò alla professione giornalistica.
Nel libro viene chiarito che chi non possiede la vocazione per esercitare questo mestiere, che a volte può essere crudele, e che risiede nella capacità di invadere la vita altrui per raccontare quanto accade nel mondo, perde tempo se pensa di poter divenire un bravo giornalista. Non mancano i ricordi, ovviamente, legati al periodo in cui Scalfari decise di fondare "la Repubblica", divenuto nel corso degli anni un grande giornale di livello europeo, su cui tanti giovani si sono formati. "La Repubblica" nacque in base ad una scommessa che il suo fondatore, insieme con altri scrittori ed intellettuali, fece alla metà degli anni Settanta sulla possibilità di favorire la nascita in Italia di una borghesia produttiva, capace di farsi custode degli interessi generali, come è avvenuto in altri Paesi europei. Per questo, al momento della nascita del giornale, il fondatore di "Repubblica" si rivolse ai principali esponenti del capitalismo italiano, per ottenere finanziamenti.
La parte più significativa del libro sul piano filosofico è dedicata al filosofo Spinoza e a Nietzsche. Spinoza, un grandissimo filosofo autore del libro l'Etica e del Trattato filosofico teologico, fu il primo pensatore a demolire l'immagine e la concezione della trascendenza, così come nel tempo si era venuta nella storia del pensiero configurando. Per Spinoza tra la Natura e Dio, identificato con l'eterna sostanza, non vi è alcuna differenza. Tuttavia, il Dio di Spinoza non possiede gli attributi umani, ma è semplicemente eterno ed onnipotente, senza essere onnisciente. Per questo suo pensiero sulla divinità così innovativo, Spinoza venne espulso dalla comunità ebraica e dovette andare in esilio.
Con Nietzsche, un pensatore molto amato da Scalfari, la metafisica e la convinzione che vi sia una trascendenza, a cui l'uomo possa guardare, vengono contestate e messe in crisi in modo definitivo. Il Superuomo di Nietzsche annuncia la morte di Dio e la volontà di trasmutare i vecchi valori, per fondare una nuova moralità. A proposito della figura del Superuomo, Scalfari, che ha frequentato a lungo questo pensatore, chiarisce che vi sono due momenti distinti che bisogna considerare, quello Apollineo, legato alla razionalità greca, e quello dionisiaco, rivolto a esaltare i sensi in nome di un vitalismo orgiastico e della volontà di potenza. Se il mondo è un luogo in cui non vi è un fondamento assoluto a causa della morte di Dio, esiste solo lo sguardo dell'uomo che può interpretare i fatti e gli eventi secondo la sua sensibilità personale, sicché il relativismo è la conseguenza inevitabile di un atteggiamento filosofico ispirato al dubbio laico.
Il fondamento della morale, su cui Scalfari ha scritto un altro bellissimo libro, è dato dall'istinto di conservazione che appartiene ad ogni singolo individuo. Sui politici che ha conosciuto personalmente, Scalfari esprime giudizi lusinghieri verso Ugo La Malfa ed Enrico Berlinguer, perché entrambi, pur avendo una diversa formazione culturale e politica, ebbero chiara in mente la visione del bene comune, in ossequio alla quale l'uomo pubblico è chiamato ad agire ed operare per l'affermazione dell'interesse generale. Un libro straordinario. Nel libro, a proposito della natura dell'Io, il lettore troverà questa riflessione di Kundera tratta dall'Arte del Romanzo: "Quanto più potente è il microscopio che osserva l'IO, tanto più l'Io e la sua unicità ci sfuggono. Ma se l'Io e il suo carattere unico non possono essere colti nella vita interiore, dove e come li si può cogliere?".