mercoledì 25 giugno 2008

l’Unità 25.6.08
Lodo Schifani, polemica Di Pietro-Pd
L’Idv: se siete disponibili salta l’alleanza. Soro: i massimalisti fanno regali alla maggioranza
di ma.so.


SEMBRANO SEMPRE PIÙ AMPI gli spiragli di trattativa per l’approvazione in tempi rapidi di un nuovo “Lodo Schifani” che metterebbe al riparo dagli interventi della magistratura le più alte cariche dello Stato. Una possibilità di dialogo che se da una parte troverebbe spazio nelle caute aperture del Pd, «non pregiudizialmente contrario» stando alle parole del presidente dei senatori del Partito Democratico Anna Finocchiaro, dall’altra agita le acque del centrosinistra. Dove Antonio Di Pietro, irremovibile sulla linea della contrarietà, ha posto ieri con fermezza quello che ha tutto l’aspetto di un “ultimatum”. Casus belli il voto contrario della giunta delle elezioni del Senato (a larghissima maggioranza, Pd compreso, Idv astenuto) alla richiesta di arresti domiciliari per Nicola Di Girolamo, il senatore del Pdl per cui il gip di Roma Luisanna Figliolia aveva avanzato una richiesta di misure cautelari per falso in atto pubblico e attentato contro i diritti politici dei cittadini nell’ambito dell’inchiesta su presunte irregolarità nel voto all’estero. Una decisione (la parola passa adesso all’Aula) che ha mandato su tutte le furie il leader dell’Idv: «Si pone un problema gravissimo di alleanze - ha spiegato infatti Di Pietro - Ci dicano se vogliono fare la ruota di scorta a Berlusconi. Noi abbiamo chiesto agli elettori di votarci per essere alternativi a Berlusconi, se il Pd ha deciso di fargli da supporto non possiamo essere alleati». Chiaro a tutti, infatti, che più della decisione su Di Girolamo per l’ex pm è dirimente la posizione del Partito Democratico sulla possibilità di un nuovo Lodo Schifani. Da non osteggiare, magari “in cambio” di uno stralcio dal decreto sicurezza degli emendamenti blocca processi. «È incredibile - ha infatti attaccato Di Pietro - che al Senato sia stata negata l’autorizzazione ad arrestare una persona che è diventata parlamentare dando false generalità grazie anche ai compagni del Pd che hanno detto che l’immunità va negata per reati più gravi». Ma per Di Pietro è «ancora più grave dire che sono d’accordo a fare una legge sull’immunità, anzi l’impunità, per Berlusconi». Parole che sono sembrate una risposta a stretto giro alle aperture di Anna Finocchiaro che in mattinata, parlando della possibilità di un nuovo Lodo Schifani, aveva detto di non avere «nessuna pregiudiziale di principio. Nel senso che un sistema di immunità per le alte cariche esiste anche in altri Paesi europei». «Il problema - aveva però precisato il presidente dei senatori del Pd - è che qui lo propone il presidente del Consiglio in carica per un procedimento a proprio carico. Diciamo che c’è una ineleganza, una inopportunità che io non fatico a vedere. Mi chiedo se altri fatichino a vederla».
Troppo pesanti le accuse di Di Pietro per non suscitare la reazione del Partito Democratico, che attraverso il capogruppo alla Camera Antonelo Soro ha giudicato «inaccettabili» le parole dell’ex magistrato. «È lui - ha proseguito Soro - che fa regali alla maggioranza ogni volta che indossa abiti massimalisti e regola sul tono di voce la profondità degli argomenti. Noi non abbiamo nessuna intenzione di fare regali al Pdl, non so chi gli abbia dato la patente per giudicare la qualità dell’opposizione del Pd». Passano pochi minuti e il leader dell’Idv rincara la dose: «Soro guarda il dito invece di guardare la luna. Invece di dire che Di Pietro ha alzato la voce, dica al suo Pd di non abbassare la guardia e di chiarire la sua posizione».

Ecco perché fu giudicato incostituzionale
Il Lodo Schifani è incostituzionale perché, pur mirando a tutelare il «sereno svolgimento delle rilevanti funzioni» delle 5 più alte cariche dello Stato, va in rotta di collisione con uno dei princìpi che è «alle origini della formazione dello Stato di diritto»: la «parità di trattamento rispetto alla giurisdizione». La sospensione del processo è infatti «generale, automatica e di durata non determinata»: riguarda «reati comuni, in qualunque epoca commessi, estranei all’attività istituzionale»; scatta automaticamente «senza alcun filtro» (né parlamentare, come l’autorizzazione a procedere, né tantomeno giudiziario), qualunque sia l’imputazione e lo stato del processo; e poi è reiterabile all’infinito. Inoltre, per com’è stato congegnato, il Lodo compromette il diritto di difesa sia della parte civile, costretta a «soggiacere» alla sospensione del processo, sia dell’imputato, che per veder accertata la propria estraneità ai fatti imputatigli, è costretto a «dimettersi» dalla carica, «rinunciando così al godimento di un diritto costituzionalmente garantito». Ma il Lodo è incostituzionale anche perché accomuna in modo «irragionevole» cariche fra loro diverse per «fonti di investitura» e «natura delle funzioni», e poi perché «distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princìpi fondamentali della giurisdizione, i presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti».

l’Unità 25.6.08
D’Alema battezza «Red»
«Diamo sfogo al malessere»
di Andrea Carugati


Non sarà solo un’associazione di parlamentari e intellettuali. Ma un’organizzazione capillare, radicata sul territorio, con coordinamenti a livello regionale e provinciale. Il “tesseramento”, 100 euro a testa, è partito già ieri pomeriggio al cinema Farnese, dove «Red», Riformisti e democratici, l’associazione che sarà la costola politica della Fondazione di Massimo D’Alema Italianieuropei, è stata tenuta a battesimo. 110 i parlamentari Pd già arruolati, 4 gli eurodeputati guidati dal capogruppo italiano nel Pse Gianni Pittella, prodian-lettiano il presidente Paolo De Castro, mariniano uno degli uomini forti del progetto, l’ex responsabile organizzativo della Margherita Nicodemo Oliverio. Che dice: «Avremo tantissime associazioni Red su tutto il territorio nazionale, luoghi dove nasca l’amicizia».
«Non sarà una corrente», hanno ripetuto in coro tutti gli intervenuti, da Livia Turco a Bersani, fino a D’Alema che ha chiuso l’incontro. Ma la Turco parla esplicitamente di una «doppia militanza: ben vengano luoghi che ci aiutino ad avere coraggio e schiena dritta». L’ex ministro degli Esteri ha battuto più volte sul rapporto tra Red e il Pd. «Non vogliamo destabilizzare, fare casino, o rompere le scatole a Veltroni». «Non vogliamo organizzare un pezzo del Pd, o fare un partito di massa», ha aggiunto. «Fare una corrente sarebbe stato più semplice- avverte- non avremmo avuto bisogno di tutta questa impalcatura. Qui ci sono persone che hanno votato candidati diversi alle primarie, io ad esempio ho sostenuto Veltroni e non ne sono pentito».
L’obiettivo dichiarato di D’Alema è aprire «un luogo di confronto tra politica e società», costruire «una forma politica di tipo nuovo», con una fondazione, una associazione, una tv satellitare, collegamenti internazionali, sulla falsariga del modello americano. «Vogliamo fare cultura politica», dice Bersani. «Solo il conformismo e la pigrizia possono far pensare a una corrente- dice D’Alema- ma noi non ci possiamo far condizionare, ricattare o intimidire da questo conformismo. Il successo di Red può essere importante per il decollo del Pd». D’Alema spiega di non volersi «sostituire», con Red, al momento della decisione politica: «Sono da tempo fuori da organismi di direzione politica, e non ho in mente di tornarci. Il nostro lavoro sta a monte delle decisioni, vogliamo fornire alla politica materiali ed elementi che aiutano». L’esempio c’è già, e lo descrive con nettezza Ignazio Marino, che proprio dentro Italianieuropei negli anni scorsi ha prodotto elaborazioni e progetti sui temi della sanità e della bioetica.
D’Alema parla di Red come di «un canale di partecipazione in più», in grado di dare sfogo «al malessere che c’è» nel Pd, di «canalizzarlo verso azioni positive e non distruttive». Spiega che il successo di Red si misurerà non con il numero dei parlamentari aderenti, ma dal «numero di persone, anche e soprattutto non iscritte al Pd, che aderiranno». Ma guai a chi volesse usare l’associazione per pesarsi dentro il Pd. Lo dice De Castro: «Nessuna ambizione di pesare il nostro contributo in termini di composizione dei gruppi dirigenti». E D’Alema si rivolge alla platea: «Se qualcuno vi dice “vediamoci prima della tale riunione”, resistete. Non usate Red per scopi, pure legittimi, ma che sono diversi dal nostro».
Poi c’è l’idea di elaborare idee per la sfida a un centrodestra «che ha preparato la sua vittoria anche con tante iniziative culturali di questo tipo». Ma anche il governo e la sua maggioranza saranno interlocutori di Red, a partire dal convegno sulle riforme elettorali e costituzionali che sarà organizzato a metà luglio e che, ha detto D’Alema, tra gli invitati vedrà anche il ministro delle Riforme Bossi. In autunno altro appuntamento sui temi della competitività, con inviti ad alto livello nel mondo industriale e sindacale. «Credo nel dialogo- ha spiegato D’Alema- il punto è chi fissa l’agenda». Ed è chiaro che uno degli obiettivi di Red sarà fissare l’agenda, non solo dentro il Pd.
Uno dei temi più battuti nel bollente pomeriggio romano è la necessità di fissare in modo più netto la differenza tra centrosinistra e centrodestra. L’ha detto Bersani: «Non può essere la destra a dire che il mondo così non va bene, il Pd deve anche litigare con l’opinione del momento». Barbara Pollastrini: «La Lega vince perché ha un’identità chiara, non dobbiamo seguire il senso comune, Zapatero e Obama sanno osare». Livia Turco sprona a difendere gli immigrati da questa «caccia» che si è aperta, a non considerare «ineluttabile» l’introduzione del reato di immigrazione clandestina. Gianni Pittella, invece, punta sulla «felicità di chi è venuto qui oggi», una neanche tanto velata stoccata all’assemblea del Pd di venerdì a Roma. E introduce un altro tema, in contrapposizione al nordismo di molti dirigenti del Pd: «Red nasce per affermare una nuova politica meridionalista». Musica per Nicola Latorre, padrone di casa della giornata, che sorride a un paragone tra Red e il Correntone: «No, porta sfortuna, quelli sono stati sempre minoritari...».

l’Unità 25.6.08
Prodiani, lettiani, dalemiani. Il Farnese di Roma si è riempito di democratici di ogni chiesa...
Il risiko culturale del «lider Massimo»
«Ma intanto diciamo quello che non siamo...»
di Federica Fantozzi


Se non è un paradosso, poco ci manca: a sentire il fondatore, la sua associazione sarà il software del Pd mentre i circoli saranno l’hardware. In un’inversione di ruoli rispetto al passato a Veltroni tocca il ruolo concreto di uomo di apparato e leader operativo. Mentre D’Alema si ritaglia il più aereo «spazio personale» di un’associazione culturale il cui successo «non dipenderà dal numero di parlamentari iscritti ma dalle personalità della cultura e della società», si propone di fare network e ha già in cantiere un evento con «sindacato e industria al top».
L’insegna del cinema Farnese decanta il film serale: «Tutto torna». E nonostante risvolti di novità, in molti lo pensano. Ore 17,30: a Campo dei Fuori ci sono più giornalisti che prossimi iscritti a Red. «Il Pd per la prima volta ha deciso di fare ostruzionismo - scherza un dalemiano - Sono tutti bloccati in aula...». Compreso il lìder Massimo. La piazza, dove aleggia una vaga puzza di pesce residuo del mercato mattutino, si popola alla spicciolata. Rondolino in t-shirt conversa con il direttore di Europa Menichini. Cisnetto, giornalista economico e organizzatore dell’estate di Cortina, con Passigli. C’è Francesco D’Onofrio dell’Udc, per «osservare». Spuntano le bindiane Carloni, Magistrelli e Mazzucconi. Arrivano Bassanini, il siciliano Crisafulli, l’ex Udeur Cusumano, Marcella Lucidi, Lucà. I calabresi Meduri, mariniano, e Naccarato, cossighiano.
Appaiono Sandra Zampa e Gregorio Gitti: «Non ho ancora aderito - dice lei - ma sono molto interessata. Siamo pezzi dell’Ulivo». Tutti i lettiani tranne Letta: l’eurodeputato Pittella «felice di essere qui», il giovane Boccia, Bubbico, Fabio Nicolucci furioso contro la «cooptazione» di Luca Sofri nella nuova direzione.
Nella sala dalle 500 poltroncine lilla però il gioco di ruolo mostra qualche effetto collaterale di tipo psicologico. Al punto che due terzi del dibattito sono impegnati a focalizzare cosa Red assolutamente non è. «Non una corrente - scandisce il presidente De Castro dal palchetto - Iniziative così vanno promosse e favorite nel partito». «Qui non si tramano congiure o si preparano assalti al gruppo dirigente - si indigna Pittella - Vogliamo portare un contributo». Il termine ricorre, ignorando che con quella perifrasi i Dc d’antan annunciavano proprio la nascita dell’ultima corrente. «Essere qui è una scelta - chiosa Barbara Pollastrini - Ma non ci sono ragioni dietrologiche o misere». L’apice del freudiano lo tocca Bersani: «Sono arrivato tardi, gli altri avranno già detto cosa non siamo, io parlerò di ciò che siamo...».
Applaudono Marida Bolognesi, Rita Lorenzini, Cuperlo. A fondo sala appare Ricky Levi. Giunge Nicodemo Oliverio, braccio destro di Marini invitato eppure assente per evitare lacerazioni troppo evidenti. Latorre, in prima fila, lo accoglie e lo indica a De Castro. Lui coglie: «Diamo la parola a...». Il calabrese sarà tra i più espliciti, insieme a Livia Turco che evoca «una doppia militanza». Si accalora Oliverio: «Creeremo tante Red su tutto il territorio. Serve un luogo di riflessione e confronto. C’è l’esigenza di fare partito».
Un partito ci sarebbe già, ma nessuno pare accorgersene. D’Alema ribadisce che si tratta di un’operazione culturale di ampio respiro mica «una corrente di scarsa fantasia», che loro «arricchiscono l’offerta» ed è «una possibilità in più e non un’alternativa» e «un servizio al Pd, una risorsa», un qualcosa non «volto a fare casino», uno sforzo «che vorrei fosse apprezzato, a dare risposte positive e non distruttive». Resta il fatto che non c’è nessun veltroniano presente. Né un dirigente né un capogruppo o un vice tanto per cortesia.
D’Alema lo sa. Non affonda, anzi frena le altrui intemperanze. Disegna il suo progetto, con Fondazione e tv satellitare: una struttura politica-culturale, molto più di una corrente, una sorta di para-partito che parlerà anche ai non iscritti al Pd e si preparerà a fronteggiare eventuali emergenze.

l’Unità 25.6.08
Horror: Bondi vuole Gramsci
di Bruno Gravagnuolo


Il Gramsci di Bondi Siamo al ridicolo. E ci mancava pure questa: Bondi e Cicchitto «rivendicano» Gramsci. Sì, lo hanno scoperto, e lo vogliono tra i loro maestri! Ma come nasce questa sciocchezza? Nasce da una battuta di Lucia Annunziata, che ha parlato su La Stampa di «gramscismo di centrodestra», in riferimento alle velleità e alle carenze di «egemonia culturale» a destra, e all’imprescindibilità di questo tema. Perciò Bondi e Cicchitto ci si fiondano. Alla carlona ovviamente. In chiave pedestre da Bignami. E con un po’ di demonologia «machiavellica». Ecco il Bignami di Cicchitto, «raffinato esegeta di Gramsci»(sic!) secondo Bondi: egemonia come «battaglia delle idee» e «consenso», però «senza totalitarismo». Geniale! Benché detta così valga anche per S. Luigi Gonzaga o per S. Filippo Neri, e per ogni curato di campagna. E la demonologia? Eccola dispiegata in Bondi: Gramsci serve per capire i giudici comunisti di tangentopoli, annidati in società e negli apparati. Così, con una fava, i nostri due magnifici «intellettuali organici» di Arcore prendono i loro due bravi piccioni: scippo e plagio a buon mercato di pensiero (che non hanno). E consueta propaganda contro i giudici e il Pci, che ancora li inquietano nel sonno. Certo, c’è del buono nel «plagio». Rivela che dentro sono nudi e sotto la loro cultura c’è il niente. Niente mimetico. E lo sanno. Ma il tentativo non ha nulla di «egemonico» o insidioso. È solo una gherminella piccola piccola. E si vede.
La hit che piace al Secolo Già, il Secolo d’Italia, sbarazzino e buonista. Ormai non si fa mancare nulla. Infatti i post-post fascisti plaudono con Luciano Lanna alla «hit» di nuovi filosofi sbandierata da Style, magazine del Corsera. Roger Scruton «pensatore della bellezza», Stefano Zecchi, Francesco Tomatis, e un Giulio Giorello definito dai «post-post» «disneyan-poundiano». Tomatis esalta «l’alpinismo», «lo straordinario nel marginale», e invoca «meno libri». E il Secolo freme di gioia: «Bene, basta con i pensatori ultradialettici dal look sfigato!». Capito? Eccola la loro «egemonia culturale»! E allora perché non hanno proposto ai Beni culturali la «nero-trendy» Santanché invece di Bondi? Il Secolo «post-post» aveva tutte le carte in regola per esigerlo.

l’Unità 25.6.08
Il Paese dei misteri
di Roberto Cotroneo


La sensazione è di essere
finiti dentro un romanzo gotico
un Codice da Vinci senza
speranza di un Paese di veleni
e crudeltà. E invece i misteri
in questo Paese sono tutti veri

Alla fine tutto imploderà come il collasso di una stella. E i misteri d’Italia diventeranno uno soltanto: gigantesco, indicibile, totalizzante. Una sorta di totem italiano davanti al quale ammettere la nostra sconfitta di cittadini, di italiani e di uomini. E li rivedremo tutti, come in una apocalisse criminale e ambigua come in un girone dantesco delle vittime dei misteri: Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta, Enrico Mattei e Wilma Montesi; ci sarà Michele Sindona, e poi Roberto Calvi, e Aldo Moro, e i morti di Bologna, e i morti di Piazza Fontana, e il commissario Calabresi.

E l’elenco, troppo lungo, arriva fino a quella ragazzina con il nastrino in testa: quindici anni e una passione per la musica. Una famiglia semplice e umile. Si chiamava Emanuela Orlandi. Il papà scomparso nel 2004 era un dipendente del Vaticano. Lei una ragazzina come tante. Era nata il 14 gennaio del 1968, era astigmatica ma si vergognava di portare gli occhiali in pubblico, suonava il flauto, e il 22 giugno di venticinque anni fa, con ogni probabilità, sale su una Bmw verde tundra station wagon e scompare. Mai più trovata. Qualche ora prima telefona alla sorella più grande per dirle che le era stato offerto di promuovere prodotti di profumeria Avon, a un prezzo altissimo, 350 mila lire di allora, e non sapeva se accettare. La sorella le consiglia di lasciar perdere.
Cosa succede, e cosa sappiamo di questa storia? Di fatto, niente. Non sappiamo neppure se Emanuela Orlandi è viva o morta. Quest’anno compirebbe quarant’anni. Non sappiamo se fu un orrendo caso di pedofilia, poi strumentalizzato perché il padre era cittadino vaticano. O se invece fu un rapimento, o un ricatto nientemeno che al Papa. Non sappiamo perché viene chiamata in causa la banda della Magliana, e monsignor Paul Marcinkus, Roberto Calvi, ed Enrico De Pedis, detto Renatino, uno dei capi della banda della Magliana. Non sappiamo quanto sa di tutto questo l’attentatore del Papa, Ali Agca, e non sappiamo perché i Lupi Grigi, organizzazione terroristica turca, abbiano dichiarato di avere in mano la ragazza. Non sappiamo niente di quella Roma. Sappiamo solo che la Orlandi è scomparsa nel nulla, e in quel nulla è rimasta finché la signora Sabrina Minardi, compagna prima del calciatore Bruno Giordano, e poi, e per quasi dieci anni di Renatino, ovvero Enrico De Pedis, comincia a parlare. Ma come?
Intanto con una sincronia che lascia sbigottiti, lo fa esattamente 25 anni dopo il rapimento, e lo fa spiegando prima: mi sono imbottita per anni di cocaina e psicofarmaci, sto in una comunità di recupero, e talvolta mi confondo, ho sprazzi di eventi accaduti, e situazioni confuse. Come in un brutto romanzo Sabrina Minardi dice che la Orlandi è stata ammazzata, messa in un sacco e buttata in una betoniera a Torvajanica, località alle porte di Roma. Anzi dice che i sacchi erano due, c’era pure un bambino di 11 anni, figlio di un boss, ammazzato per vendetta, e buttato anche lui nella betoniera. Le date non corrispondono, il ragazzino viene ucciso dieci anni dopo il caso Orlandi, e non è possibile che i due eventi possano essere collegati assieme. Ma la Minardi è un fiume in piena: aggiunge particolari, dice di aver visto la Orlandi in un sotterraneo di un palazzo poco distante dalla stazione di Trastevere, un sotterraneo che arriva fino alle mura Vaticane, tanto è grande. Dice di essere stata a casa di Giulio Andreotti, con Renatino, e di ricordare la signora Livia, minuta e gentile. Ed è ovvio che gli psicofarmaci qui hanno il loro ruolo. Dice di aver visto Renatino arrivare con delle borse Luis Vuitton, quelle “con la cerniera sopra”, aprirle in casa e tirarne fuori banconote, e naturalmente cocaina, cocaina a fiumi. E che una volta contarono un miliardo in contanti per portarli personalmente a monsignor Marcinkus, il potente banchiere dello Ior, a casa sua. Dice un mare di cose Sabrina Minardi. E non si tratta di crederle o di non crederle, si tratta di capire lo spleen orrendo di questo Paese. Dove poi alla fine niente torna, perché si va a sbattere contro un muro di morti ammazzati, di politici rapiti e assassinati, e talvolta anche liberati, di terroristi ambigui, di aerei civili che cadono senza ancora un perché, di stragi più disgustose delle più disgustose delle stragi, di servizi deviati, di giornalisti sibillini come Pecorelli ammazzati, di bande che agivano indisturbate con un potere assoluto, e poi di golpisti, e di fascisti, e di banchieri impiccati, e di monsignori banchieri su cui ci sarebbe troppo da dire. In un Paese dove le ipotesi di complotto, i misteri, occupano pagine pagine di siti internet dedicate solo a questo, tutto confluisce là, nel viso sorridente e allegro, solare, di una ragazzina di quindici anni: Emanuela Orlandi. Nei suoi occhi che da 25 anni sono solo una fotografia in bianco e nero, quella dei manifesti che la famiglia ha fatto affiggere per tutta Roma.
Possibile che lo Ior, il Banco Ambrosiano, l’attentato a papa Giovanni Paolo II, l’omicidio di Calvi, i fatti e fattacci della più feroce e potente banda criminale, quella della Magliana, e Marcinkus, e Ali Agca, e chissà quanti altri, possano confluire lì, in quella ragazzina? È una suggestione enorme, una macchina genera complotti a ripetizione, o qualcosa di più? È una storia che si può spiegare semplicemente? Un caso di pedofilia finito con un omicidio, su cui possono essere state costruite leggende, proprio perché la ragazza era cittadina vaticana? Lo stesso caso di Mirella Gregori, rapita 40 giorni prima di Emanuela, sempre a Roma, e mai più ritrovata. Ali Agca disse che entrambe le ragazze erano in mano ai Lupi Grigi. La mamma di Mirella, 13i anni fa, durante una visita del Papa in una parrocchia romana, disse di riconoscere tra gli agenti di scorta di Giovanni Paolo II un uomo che andava spesso a prendere la figlia a casa.
Suggestioni, leggende, o verità. E cosa ce ne facciamo delle verità, in un Paese senza verità da sempre? Un Paese che ha mantenuto del medioevo l’oscurità delle trame, il gusto dell’oscuro, delle massonerie segretissime, del gioco dei poteri. Dopo che viene rapita, a casa Orlandi, un signore con accento americano chiama 16 volte. Tutte e sedici le volte da cabine telefoniche. L’uomo chiede che sia liberato Ali Agca, e fa ascoltare alla famiglia Orlandi un nastro con la voce della figlia. Chiama molte volte. E non viene identificato. Soltanto che dell’Americano esiste un indentikit, scritto nientemeno che dall’allora vicecapo del Sisde Vincenzo Parisi. In una nota rimasta riservata fino al 1995 si dice che la voce del telefonista corrisponderebbe a quella di monsignor Paul Marcinkus: gli specialisti del Sisde, analizzando i messaggi e le telefonate pervenute alla famiglia, conclusero che riguardavano «una persona con una conoscenza approfondita della lingua latina, migliore di quella italiana (che probabilmente era stata appresa successivamente al latino), probabilmente di cultura anglosassone e con un elevato livello culturale e una conoscenza del mondo ecclesiastico e del Vaticano, oltre alla conoscenza approfondita di diverse zone di Roma (dove probabilmente aveva abitato)». E Renatino? E la Roma criminale e de’ core, testaccina e trasteverina, che racconta la Minardi? Come si fonda con i Lupi Grigi, con i complotti internazionali? Sabrina Minardi, parla di sotterranei sconfinati, e racconta che ogni volta che aveva bisogno di viaggiare Roberto Calvi metteva a disposizione il suo aereo privato. La Minardi, bizzosa, isterica, cocainomane, che spendeva anche cento milioni di allora in uno shopping romano, tutto in contanti, viaggiava con l’aereo privato del Banco Ambrosiano. Una spavalderia oltre ogni buon senso. E a lei che secondo un’altra voce, forse una leggenda, arriva un agente del Sisde, dopo il rapimento Orlandi. Emanuela sembra sia stata fatta salire su di una Bmw color verde tundra, un colore raro per quegli anni. Lui comincia a indagare, per carrozzieri, finché non ne trova uno che gli racconta di aver riparato un deflettore di una Bmw verde tundra giardinetta. Rotto forse per un pugno dato da dentro? L’aveva portata a riparare una donna, che aveva lasciato anche un indirizzo e un numero di telefono. L’indirizzo di un residence. L’uomo ci va, e si fa chiamare la donna che reagisce violentemente alle sue domande, e prende persino il numero di targa dell’automobile con cui l’agente si era recato al residence. Giusto il tempo per tornare in ufficio, e l’uomo fu invitato dai superiori a non importunare più personaggi altolocati. Chi era quella donna? La Minardi? E quanto è vera questa storia? Ieri il Vaticano ha definito infamanti le accuse verso Marcinkus, che è morto e non si può difendere. E forse anche questa finirà nel nulla. Come il caso Moro, trent’anni fa, come la strage di Bologna, come l’assassinio di Roberto Calvi, come tutti i misteri che arrivano a noi, uno dietro l’altro come una collana di ingiustizie. Al punto da lasciarti la sensazione che siamo anche noi un po’ allucinati da troppe storie, troppo importanti, troppo oscure per essere chiare. Finiti dentro un romanzo gotico, un Codice da Vinci senza speranza, di un Paese di veleni e crudeltà. E ti illudi che non è vero niente. Che il caso Orlandi non è altro che uno stupro e poi un omicidio forse neppure voluto, che il caso Moro fu come lo raccontano Moretti e compagni, che tutti gli altri misteri non sono che fantasie, e che la banda della Magliana non era altro che una accolita di criminali finiti quasi tutti male, morti ammazzati. Ma poi se ti fai una passeggiata per Roma, può accaderti di passare per piazza Sant’Apollinare, dietro piazza Navona, dove stava la scuola di musica di Emanuela Orlandi, e dove c’è la chiesa di Sant’Apollinare, da poco restaurata. È tutto un complesso di proprietà dell’Opus Dei, dove c’è anche la Pontificia Università di Santa Croce. La Basilica di Sant’Apollinare è una basilica minore, vanta un paio di candelabri del Valadier, e poco d’altro. Naturalmente è territorio vaticano, naturalmente si apre solo per le messe. In quella chiesa c’è una cripta, che da otto anni non è visitabile. Nella cripta è tumulato Enrico De Pedis, detto Renatino, capo della Banda della Magliana, mandante ed esecutore di un numero enorme di omicidi, prima di essere ucciso da due sicari in via del Pellegrino, dietro Campo dei Fiori, il 2 febbraio 1990. Il 6 marzo 1990, a 32 giorni dalla morte, il rettore della basilica, monsignor Piero Vergari scrisse la seguente lettera: «Si attesta che il signor Enrico De Pedis nato in Roma-Trastevere il 15 maggio 1954 e deceduto in Roma il 2 febbraio 1990, è stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la basilica ed ha aiutato concretamente a tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi per la loro formazione cristiana e umana». Il 10 marzo 1990, l’allora Vicario della diocesi di Roma, nonché presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Ugo Poletti, rilasciava il nulla osta alla sepoltura di De Pedis nella basilica di Sant’Apollinare. Il 24 aprile la salma di De Pedis venne tumulata e le chiavi del cancello vennero consegnate alla vedova, che è l’unica persona autorizzata a entrare nella cripta. L’incubo continua, e tutto si riapre, perché poi alla fine, i misteri in questo Paese, sono veri. A cominciare da questa povera ragazza, rapita 25 anni fa, e terminale ultimo di un orrore senza fine che probabilmente non verrà mai chiarito. Lei non è mai stata tumulata in nessuna chiesa, lei è scomparsa nel nulla, in quel nulla di misteri di un Paese senza vergogna.

l’Unità 25.6.08
La piazza e il buio
di Fulvio Abbate


L’opposizione deve scendere in piazza. Sottoscrivo l’intenzione, meglio ancora, la necessità di farlo al più presto. Per quel che possa servire, garantisco che personalmente ci sarò, al punto da avere già perfino preparato la bandiera. Rossa, pateticamente rossa. Ma che dico?, se è vero che sia giusto credere ai propri sogni, alle proprie idee, perfino le più utopiche, la mia bandiera sarà rossa e nera, sarà la bandiera dei libertari, degli “anarchici” che non credono al principio della delega. Non è però ancora tutto, porterò con me anche un verso di Bertolt Brecht, un verso problematico e destinato ai momenti peggiori della lotta e magari perfino della vita medesima, lo stesso che un’amica mi ha appena regalato, convinta così di farmi conforto, via sms, un verso che dice esattamente: «Noi attraversammo, cambiando Paesi più spesso delle scarpe, le guerre di classe, disperati quando c’è solo ingiustizia e nessuna rivolta». L’opposizione deve scendere in piazza, parole sempre più sante, ma che andrebbero accompagnate da una consapevolezza non meno problematica delle parole del poeta, e cioè che, nonostante il deficit di democrazia, non sembrano questi tempi di rivolta, come dire?, morale, naturale, necessaria. Nonostante tutto, nonostante lo scempio di un governo che, temo, risulti assai credibile nel suo ricorso alla cultura (ahimé, diffusa) dell’illegalità, del tornaconto personale, dell’arbitrio, dell’arroganza, del farsi prosaicamente i c... propri. L’opposizione, cioè i cittadini che hanno a cuore l’idea del bene comune e dei diritti appunto di cittadinanza, sì, che devono scendere in piazza, ma nello stesso temo che ciò che oggi prevale sia una sensazione di solitudine “civile”. Nel senso che la cultura che ha riportato al governo Berlusconi si configura come un patrimonio molto più diffuso di quanto non sembri all’apparenza. C’è un vecchio adagio sempre valido, sempre buono, sempre verde che accenna all’assenza di una borghesia in questo nostro Paese, una borghesia che, se fosse tale, dovrebbe insorgere in prima persona contro lo scempio dello stato di diritto, così come dinanzi a certe forme di palese arroganza che appaiono sempre più vistose, se non sbandierate come doverose. L’opposizione deve quindi scendere in piazza tenendo a mente che viviamo tempi bui, nei quali certo sentire proprio della semplificazione autoritaria, vecchio vizio nazionale, ha fatto breccia, risulta assai più convincente d’ogni appello alla democrazia, alla legalità, allo stato di diritto, alla separazione dei poteri, in assenza di questo barlume di consapevolezza sorge naturale il dubbio che le parole che Leonardo Sciascia riferì ai siciliani possano essere ormai estese all’intero corpo geografico della nazione, e cioè che gli italiani «non credono alla idee», nutrono seri dubbi che le idee possano mutare lo stato delle cose, incidere concretamente sull’esistente, possano migliorare la vita.
L’opposizione deve scendere in piazza sapendo che, per quanto la cosa possa risultare desolante, le parole, perfino le più improbabili, pronunciate da Silvio Berlusconi e dai suoi alleati brillano come credibili, così come risulta addirittura istituzionalmente attendibile il volto di uno Schifani, così come quello di un Ghedini. L’opposizione deve scendere in piazza tenendo a mente che ciò che ad altri risulta facile, nel suo caso deve essere frutto di fatica e di una lunga opera di convincimento perché non sempre hanno torto coloro che hanno fatto proprio una sorta di pessimismo sulla natura dei nostri vicini di casa che barano perfino sui millesimi durante le riunioni condominiali, l’opposizione deve scendere in piazza tenendo presente che l’arrivo del caldo estivo, perfino l’afa che toglie il respiro, è fra i migliori alleati del governo. L’opposizione deve scendere in piazza tenendo a mente che peggio di così non si può, e non si intuisce neppure un refolo di vento all’orizzonte.
f.abbate@tiscali.it

Corriere della Sera 25.6.08
Severino: niente prove, giusto indignarsi. Troppa passione per le trame occulte
di Gian Guido Vecchi


MILANO — «La natura ama nascondersi », diceva il suo amato Eraclito, e lo stesso vale per la realtà, specie se si tratta di quella italiana. «In ogni istituzione, a cominciare dalle democrazie, una certa opacità è inevitabile». Però c'è un limite, osserva il filosofo Emanuele Severino, «la reazione del Vaticano non mi stupisce affatto e la comprendo, del resto se non avesse risposto ci sarebbero stati dei sospetti ».
Ha ragione il Vaticano?
«Per forza, non ci sono prove. Tra l'altro non c'è solo l'accusa a Marcinkus, poco simpatica. Il Vaticano ha rilevato che è rivolta a un morto che non può replicare. Ci sono, ancora più gravi, le voci di relazioni tra il Vaticano e la mafia. Tutte cose che certamente, dette così, devono perlomeno lasciare assai perplessi e invitare tutti alla massima cautela».
Di certo il tema ha nutrito innumerevoli ricostruzioni e romanzi complottistici. Come mai il Vaticano solletica tanto interesse?
«Per alcuni, forse, è affascinante pensare che sotto la volontà di bene si celi un'azione malvagia, soprattutto quando la volontà di fare del bene è spinta al massimo come nella Chiesa cattolica: una volontà, va detto, non solo espressa ma convinta. Spesso le azioni cattive accadono come sottoprodotti non voluti di azioni che mirano al bene. Di fatto ci si trova trasportati in un'altra direzione, col concorso di personaggi che ruotano attorno, magari impropriamente, e cercano di infiltrarsi al centro».
In che senso, professore?
«Quando diciamo "Vaticano" in realtà parliamo di una serie di cerchi concentrici. C'è un centro, una periferia prossima, un'altra più remota e chissà dove si va a finire».
Insomma, bisogna stare attenti a puntare il dito al centro.
«Si parla pure di collegamenti con l'attentato a Giovanni Paolo II, no? E allora — ammesso che ci fosse qualcosa del genere — nel momento in cui lo stesso Vaticano, nella persona del suo capo, è oggetto di violenza, significa che bisogna distinguere radicalmente le gerarchie di chi può gravitare nella periferia...».
E il capo della banda della Magliana sepolto in Sant'Apollinare?
«Torniamo al discorso dei cerchi concentrici. Ci sono gli zelanti, i fanatici... Ecco, magari in Vaticano dovrebbero dire: dai nemici mi guardo io, ma dagli amici mi guardi Iddio. C'è da sperare che almeno il Vaticano regga...».
Almeno?
«Vede, nonostante tutto quello che scrivo sulla laicità dello Stato, non solo quello italiano ma molti Stati democratici dovrebbero imparare dal Vaticano e dalla sua esperienza come si fa lo Stato e come si fa politica...».
In tutta questa faccenda, gioca un po' la vecchia sindrome del complotto?
«Mah. Che le cose siano diverse da ciò che appaiono è difficile negarlo. Se tutto fosse alla luce del sole, la sicurezza degli Stati andrebbe a quel paese».
Un po' come quando Umberto Eco rideva di quelli che vogliono i servizi segreti «trasparenti»?
«Certo. È necessario, ad esempio, che una democrazia sopporti di non essere totalmente trasparente, altrimenti morirebbe subito. È una dimensione che coinvolge tutte le grandi istituzioni, compreso il Vaticano. Che sia totalmente al di fuori di questo processo di mascheramento mi pare inverosimile, le istituzioni devono difendersi e usare i mezzi più idonei a sopravvivere. Ma questo non significa un j'accuse,
anzi: se l'opacità è inevitabile, il caso Orlandi è un discorso del tutto diverso e su questo deve fare chiarezza la magistratura».
Siamo un Paese che ama l'esistenza di trame occulte scandalose?
«Eh sì, purtroppo vedo che c'è questa passione. E pensare che nella situazione in cui siamo avremmo bisogno solo di rimboccarci le maniche».

Corriere della Sera 25.6.08
Profili. Non solo nichilista e anticristiano: un'analisi del pensatore tedesco oltre i luoghi comuni
Karl Jaspers in viaggio fino al termine della notte di Nietzsche
di Mario Andrea Rigoni


In termini superficiali e generici l'anticristianesimo è uno degli aspetti più ovvi e più noti del pensiero di Nietzsche; non lo sono affatto, in compenso, la ricchezza profonda e la contraddittorietà enigmatica che caratterizzano questa posizione, indagata da Karl Jaspers in un saggio di grande e saggia misura, che fu pubblicato nel 1947 ma risale ad una conferenza tenuta ad Hannover nel 1938 ( Nietzsche e il Cristianesimo, ed. Marinotti, traduzione e prefazione a cura di Giuseppe Dolei).
Innanzitutto Nietzsche distingue e stacca nettamente la figura di Gesù non solo dall'organizzazione della Chiesa ma anche dal fenomeno del cristianesimo quale si è sviluppato nei secoli e persino dalla predicazione degli apostoli e dalla prima comunità cristiana: il cristianesimo è travisamento e corruzione fin dall'origine. Mentre Cristo rappresentò e visse un inerme ideale di beatitudine, non molto diverso da quello del Buddha, il cristianesimo, animato da uno spirito di risentimento e di rivalsa per la perdita del maestro, sostituisce all'eternità la storia, trasformando ciò che era una condotta di vita fondata sulla negazione della realtà terrena in fede, dottrina, dogma, rito, militanza. «In fondo c'è stato un solo cristiano ed è morto sulla croce», scrive Nietzsche nell'Anticristo. Il cristianesimo, che ha distrutto la grande civiltà greca e, in particolare, la tragica verità della vita dell'epoca presocratica, introduce un sistema di finzioni (il Dio personale, la Trinità, l'immortalità, il peccato, la grazia, il giudizio universale, la redenzione) che, una volta smascherate, come non poteva non accadere, conducono al vuoto, al caos, al nulla. Nietzsche vede proprio nel cristianesimo la causa della morte di Dio e la sorgente del nichilismo moderno, laddove il mondo pagano poteva contare su una natura conclusa, autonoma e immutabile. Non credo sia mai stato notato che un'osservazione analoga era già stata fatta da Leopardi quando nello Zibaldone di pensieri illustrava il paradosso che la religione giudaica e la religione cristiana, in quanto propagatrici della riflessione e della metafisica, sono la fonte principale dell'ateismo e dell'incredulità religiosa.
In secondo luogo la virulenta polemica anticristiana di Nietzsche si nutre, secondo Jaspers, di concetti e di impulsi che sono cristiani, come la visione totale della storia universale, l'idea della radicale imperfezione umana, la volontà di verità e di autenticità, l'assolutezza morale: solo che essi vengono per l'appunto svuotati del loro contenuto cristiano. Infine la lotta di Nietzsche non implicherebbe tanto l'abbandono quanto il superamento del cristianesimo, così come del nichilismo, attraverso una nuova filosofia, «e precisamente con le forze che il cristianesimo, e solo esso, ha sviluppato nel mondo».
È chiaro che la speculazione di Nietzsche si muove su un terreno vertiginosamente problematico e ambiguo. Il culmine è raggiunto in alcune sconvolgenti affermazioni, giustamente messe in evidenza da Jaspers, nelle quali Dio viene definito come «l'al di là del bene e del male » e Gesù viene addirittura chiamato in soccorso dell'amoralismo («Disse Gesù: che cosa importa della morale a noi figli di Dio?»). Certamente la morte in croce di Cristo è per Nietzsche un insulto alla vita, che egli respinge con orrore, contrapponendole la morte rigeneratrice e tripudiante di Dioniso, simbolo della paganità. Tuttavia, non è forse senza significato che nei «biglietti della follia» Nietzsche si firmi non solo come Dioniso, ma anche come il Crocifisso.
Il merito del saggio di Jaspers, esente da ogni pregiudizio polemico, consiste in una comprensione del pensiero di Nietzsche che nasce dalla consapevolezza della sua inclassificabilità: «Questo pensatore abbandona qualsiasi dimora, ha il coraggio di sfidare un deserto sconfinato, si espone a qualsiasi solitudine indifesa. (...) Egli non arriva alla pace di una verità, né alla distensione conseguente al raggiungimento di una meta. In giovinezza è stato un wagneriano, poi diventa un nichilista disgregatore, e quindi un solenne profeta. E tuttavia anche questo egli ripudia e vuole andare oltre. Ma dove? Ciò è destinato a restare per sempre un mistero».
Si tratti di cristianesimo o di altro, l'opera di Nietzsche pullula incessantemente di contraddizioni e ambivalenze: ma nessuna è gratuita, insignificante, indifferente ai nostri dilemmi e alle nostre piaghe. Poiché Nietzsche ha anche deriso in anticipo i suoi importuni ammiratori, appare quanto mai saggia la riflessione con cui Jaspers conclude il suo scritto, che è anche una sorta di nobile metodologia o pedagogia della lettura: «Vero è soltanto ciò che per mezzo di Nietzsche nasce da noi stessi».

Corriere della Sera 25.6.08
Il filosofo della scienza si confronta con lo studioso premio Abel, presente il 3 luglio
La matematica ha anche un cuore
Michael Atiyah: «Deve essere il collante intellettuale che tiene unita l'umanità»
di Giulio Giorello


«Il matematico persegue la propria indagine per ragioni non troppo diverse da quelle per cui il pittore dipinge o il musicista compone. Lo spinge quella che grandi pensatori hanno definito la gloria dello spirito umano». Così Michael Atiyah, uno dei maggiori matematici viventi, insignito tra l'altro della Medaglia Fields (1966) e del Premio Abel (2004). Del resto, nel saggio di apertura del volume collettivo La matematica. I luoghi e i tempi (a cura di Claudio Bartocci e Piergiorgio Odifreddi, Einaudi, Torino 2007), aveva paragonato la condizione dei matematici a quella degli artisti che si formavano nelle grandi botteghe rinascimentali: «In matematica, come nell'arte, non c'è alternativa allo scambio intellettuale tramite cui si tramandano le tecniche, la conoscenza di base e lo spirito di ricerca ». Ma come gli artisti di Firenze avevano bisogno di Lorenzo il Magnifico, così anche i matematici «necessitano di un mecenate, che può essere tanto un privato quanto un'istituzione», nella convinzione che «la matematica abbia anche una valenza economica».
L'affinità con le arti non si ferma qui. Per Atiyah, «anche in matematica la bellezza è una guida importante per raggiungere la verità». Questa idea era cara già a un grandissimo matematico come Jacques Hadamard, il quale in una memorabile discussione con Paul Valéry negli anni '30 dichiarava orgogliosamente come la scoperta in matematica dipendesse dal senso della bellezza il quale verrebbe poi tradotto nell'eleganza delle formule. Era stato semmai il poeta a rilevare come talvolta quel senso di bellezza avesse teso delle trappole anche agli intelletti migliori. Il punto è, osserva Atiyah, che «quello che si ottiene deve essere sempre controllato dalla dimostrazione. All'inizio il rigore può lasciare campo all'immaginazione. È l'immaginazione che crea, ma è la logica che conclude».
Questo appello alla logica non va, però, inteso nel senso dello slogan per cui la matematica non sarebbe altro che logica travestita. Precisa infatti Atiyah: «La matematica non coincide con la logica più di quanto la composizione musicale coincida con la teoria delle scale armoniche o la pittura con la chimica dei colori». Se fin dai tempi di Pitagora o di Platone la matematica veniva unita alla filosofia come chiave di comprensione del mondo naturale o anche come strumento di buona gestione degli affari della polis, oggi è forse ancor più necessario che essa giovi alle altre scienze, sia naturali sia sociali, fornendo il «collante intellettuale che ci tiene uniti come esseri umani». La logica, dunque, non è tutto. Sono la forza dell'immaginazione e la capacità di portare i concetti all'estremo che possono rivelarci i tratti più profondi della mente umana. Lo diceva, seppur in maniera polemica, quel «bizzarro filosofo» che era l'irlandese George Berkeley. Doveva ribadirlo, agli inizi del Novecento, il matematico, fisico e filosofo Jules-Henri Poincaré, per il quale la matematica aveva due sorelle, la fisica e la filosofia, quest'ultima intesa come indagine dei nostri processi mentali. Per Atiyah, «la matematica deve essere considerata in tutti i suoi aspetti e deve essere indagata in una prospettiva che tenga conto del suo sforzo di comprensione e dei meccanismi neurofisiologici che sono sottesi a esso».
Gli anni della riflessione di Poincaré erano anche quelli in cui un altro grandissimo matematico David Hilbert si chiedeva (al Congresso Internazionale del 1900) se la specializzazione raggiunta nelle singole branche non avrebbe infine impedito anche il più semplice scambio di idee tra i cultori dei diversi settori. Oggi, anche se talora si parla, per esempio in fisica, di grandi teorie di unificazione, il panorama della ricerca appare sempre più differenziato e complesso, e al pubblico più ampio sembra spesso una sorta di impraticabile labirinto. Per Atiyah, tuttavia, il rischio di una progressiva disintegrazione del sapere e delle competenze può essere contrastato proprio da una seria educazione alla matematica: «Mirando di continuo a grandi principi architettonici e a un'astrazione sempre crescente i matematici riescono a comprimere la conoscenza più importante conquistata dalle generazioni passate in pacchetti coerenti che possono essere tramandati a quelle future».
Restano certo grandi tendenze di fondo. Non c'è forse maniera migliore della raffigurazione geometrica per rappresentare ciò che il nostro cervello apprende in modo globale e pressoché istantaneo. Ma la geometria, aggiunge Atiyah, «è essenzialmente statica, è lo studio dello spazio. L'algebra, invece, è lo studio del tempo. Questa è una concezione forse più nuova. Emerge nell'Ottocento con i grandi lavori dell'irlandese William Rowan Hamilton; e oggi per algebra dovremmo intendere tutte le procedure algoritmiche, in particolare quelle che aiutano così potentemente il calcolo nei computer. Questi ultimi assistono la mente umana eseguendo lunghi calcoli in modo meccanico».
Non c'è, però, ragione di temere quell'assoggettamento degli umani alle macchine che il sarcastico Samuel Butler rinfacciava al vecchio Charles Darwin come nostro possibile futuro! Per Atiyah, «geometria e algebra restano due facce del pensiero umano». Ritroviamo così il grande tema dello spazio e del tempo che tanto ha appassionato filosofi come David Hume e Immanuel Kant. «Ma anche Einstein! — esclama Atiyah —. È da lui che abbiamo imparato che lo spazio e il tempo vanno unificati, anche se questa impresa così importante per la fisica contemporanea sembra sollevare difficoltà non indifferenti per il nostro cervello. Tuttavia — scherza Atiyah — il cinema qui sembra non avere poi troppi problemi».

il Riformista 25.6.08
Allarme Red
Alta tensione, fuoco contro la lobby di D'Alema che replica: «Non sono anti-partito, le correnti esistono»
È il martedì più pazzo della breve storia del Pd


È il martedì più pazzo della breve storia del Pd. Il tema della nascita di Red, l'associazione dei parlamentari amici di Italianieuropei , finisce all'ordine del giorno del coordinamento, con Veltroni che chiede conto dell'iniziativa a Bersani. Bettini, che aveva sentito telefonicamente D'Alema, media. I Popolari attaccano l'ultima mossa dell'ex vicepremier. Che risponde: «Red è una risorsa. Non voglio rompere le scatole a Veltroni».
Il segretario del Pd offre la sua versione dei fatti sul dissesto economico finanziario del conti della Capitale: «Da settimane il nome di Roma sta sui giornali senza che l'amministrazione reagisca. Se c'era bisogno di chiedere più soldi per Roma non c'era bisogno di fare tutto questo can-can e di infangare il nome della città». Giovanna Melandri, nel frattempo, convoca una riunione di «senzacorrente» (nel senso che «siamo contro le correnti») con Giuliano Amato, che invece diserta l'appuntamento di Italianieuropei .
Nel giorno della rappresentazione plastica di un partito diviso in pezzi, continua a tenere banco il tema del ricambio generazionale. Dopo Gianni Cuperlo, interviene Nicola Zingaretti. Che, in un'intervista al Riformista , si chiama fuori dal risiko: «Questa contrapposizione con Cuperlo, se mai ci fosse, vive solo nel gossip».

il Riformista 25.6.08
Tensioni il martedì pazzo dei democrat. in cinque atti
Veltroni e i bianchi contro i red
Walter chiede conto a Bersani. Amato preferisce la Melandri. Marini se la prende con Latorre
di Tommaso Labate


Il dialogo va in scena ieri mattina durante la riunione del coordinamento, primo appuntamento del martedì più pazzo del Pd. Walter Veltroni "sintonizza" la sua copia del Corriere della sera sulla pagina dedicata al varo di Red e guarda negli occhi l'unico dei presenti incasellato nell'universo dalemiano: Pier Luigi Bersani. «Lo vedo quello che volete fare voi di Red - scandisce il segretario -. Leggo pure sui giornali che D'Alema vuole una legge elettorale per le Europee senza sbarramento. Ora non mi direte che quella decisione l'ho presa io da solo, eh? Sulla soglia del 3 per cento abbiamo discusso e deciso tutti insieme. Oppure mi sbaglio, caro Pier Luigi?». L'ex ministro dello Sviluppo economico, stando agli altri testimoni, si sarebbe difeso così: «Walter, ti giuro che di quella roba io non ne so niente. Per quanto mi riguarda, sulla riforma della legge delle Europee vale quello che ci siamo detti più volte». Sarà stata colpa dell'irritazione per l'iniziativa dalemiana, o forse della voglia di avere l'ultima parola. Comunque sia il segretario ha insistito, sempre rivolto a Bersani: «Non ti risulta neanche del lavorìo in corso sul sistema tedesco, eh?».
Il rischio che il coordinamento si trasformasse in un referendum sull'associazione di parlamentari amici di Italianieuropei , dall'esito peraltro assai scontato (vista l'assenza, Bersani a parte, di dalemiani), era alto. «A me sinceramente non sembra proprio che quella sia un'associazione culturale di parlamentari», insisteva Giorgio Tonini nel suo intervento. «Io ci vado», rispondeva Bersani, che di Red è uno dei cinque soci fondatori. Quindi è stata la volta di Goffredo Bettini, colui che si era preso l'incarico di sondare D'Alema alla vigilia del battesimo dell'associazione. «Ho parlato al telefono con Massimo - ha raccontato il coordinatore politico agli altri presenti - e lui stesso mi ha assicurato che dalla riunione di Red non arriveranno attacchi né al gruppo dirigente né al partito». Veltroni, che il sassolino dalla scarpa se l'era già tolto, è ritornato su quello che un altro partecipante al vertice chiama «il binario dell'ecumenismo». Così, il coordinamento ha potuto fissare la data della prima direzione (metà luglio) e quella del tesseramento (subito dopo).
Partita chiusa? Tutt'altro. Il secondo atto del martedì caldo del Pd va in scena a palazzo Madama. A pochi metri dalla buvette del Senato, subito dopo l'approvazione del salva-premier, alcuni testimoni intercettano uno scambio di battute «abbastanza teso» tra Franco Marini e Nicola Latorre. Stando al racconto dei testimoni di cui sopra, l'ex presidente del Senato chiedeva conto al plenipotenziario dalemiano delle indiscrezioni giornalistiche sul ritorno dell'«asse D'Alema-Marini» all'ombra di Red. «Latorre - giura un testimone oculare - aveva l'aria di chi si difendeva con il classico "io non c'entro nulla"». Sta di fatto che l'ex presidente del Senato, che vox populi e vox dei danno in rotta con i figliocci Franceschini e Fioroni, ha confermato la scelta di disertare l'appuntamento del lancio di Red (al contrario del fedelissimo Nicodemo Oliverio, che invece c'è andato).
Il terzo atto del martedì più pazzo del Pd va in scena a Montecitorio. Protagonista la corrente dei neo-popolari, che prende di mira l'associazione dalemiana dei parlamentari. «Forse di tratta di tifosi della fondazione Italianieuropei . Un po' come l'Inter club», ironizza Beppe Fioroni. «Il rosso mi preoccupa un po'», s'inserisce Rosy Bindi. «Quell'associazione rappresenta un fatto singolare», chiude il cerchio Antonello Soro.
La sceneggiatura del quarto atto comprende il sandwich sull'iniziativa dalemiana. Alle 15, Giovanna Melandri riunisce un gruppetto «controcorrente» (nel senso che «siamo contro le correnti»). A sorpresa spunta Giuliano Amato, copresidente di Italianieuropei che invece diserterà il varo di Red. «Non c'è nulla di male nell'aver militato o nei Ds o nella Margherita», dice l'ex ministro dell'Interno. Ma «se dobbiamo vivere di dosaggi per tutta la vita, questa creatura rischiamo di farla morire», aggiunge interrompendo il coro di chi - come Giulio Santagata e Sandro Gozi - difendeva la linea Parisi di fronte a una Melandri attonita.
Nell'ultimo atto, ci sono loro. Walter Veltroni e Massimo D'Alema. Il primo a dare la "sua" verità sul «buco di Roma», l'altro a benedire la "sua" associazione di parlamentari. Stessa ora, a un chilometro di distanza. Nel frattempo Bettini era a Napoli, per la "sua" Democratici in rete mentre Piero Fassino pensava alla "sua" corrente (si chiamerà Pd, Pensiero democratico, starring Sereni, Damiano e Serafini, con un trimestrale in cantiere). E che dire di Enrico Letta? Limava l'intervento per la "sua" grande iniziativa, tra pochi giorni a Piacenza? È il martedì pazzo del Pd. La rappresentazione plastica di un partito diviso in pezzi. Rappresentazione in cinque atti.

il Riformista 25.6.08
Tensioni. Debutto al farnese dell'altro pd
D'Alema: non mi faccio intimorire
«Basta conformismo e pigrizia intellettuale. Non è un'iniziativa per rompere le scatole al segretario»
di Alessandro De Angelis


Non c'è un titolo, non un cartellone, non un manifesto al cinema Farnese dove ieri è andato in scena il debutto di Red, l'associazione di parlamentari (hanno aderito oltre cento) «amici della Fondazione ItalianiEuropei». Inevitabile - forse è un caso, chissà - che l'occhio cada su «Tutto torna», il titolo dell'ultimo lavoro del regista sardo Pitzianti. Forse un auspicio, per molti. Che quando D'Alema entra in sala urlano: «Ciao Massimo».
Sul palco, alle sei del pomeriggio, Massimo D'Alema, il prodiano Paolo De Castro e la leader in pectore della sinistra del Pd, Livia Turco, tengono a battesimo l'associazione "Riformisti e democratici" (Red, appunto): sono tre anime del Pd, quasi un "altro Pd". Ma guai a parlare di correnti. Anche se non sono una parolaccia. Parola di «Massimo», che lo scandisce di fronte a una sala che pende dalle sue labbra: «Io sono contrario alla demonizzazione delle correnti. Esistono». Ma Red non lo è. Forse è qualcosa di più, o di meno. O, forse, è altro: «Non siamo una corrente - ha spiegato D'Alema -, lo abbiamo detto, fare una corrente sarebbe stata un'operazione molto più semplice e meno faticosa. Solo il conformismo e la pigrizia intellettuale fanno dire che Red è una corrente. Cose da cui non ci dobbiamo far ricattare, condizionare o intimorire». È in gran forma, l'ex ministro che una volta disse: «Quando c'è da cacciare gli artigli come noto io non mi sottraggo». Era il 2001, in occasione di una direzione post-voto segnata, anche quella, dal duello con i veltroniani. E anche ieri, dopo una giornata in cui "l'altro Pd" (quello di Veltroni) ha vissuto con una certa insofferenza, D'Alema non si è sottratto: «Questa è un'esperienza politica e culturale totalmente nuova ma viene giudicata con categorie vecchissime del passato. Come se un grande partito moderno fosse fatto di sezioni, comitati centrali, varie prave e chi si collocasse fuori da questo schema sia un antipartito». E ancora: «Non destabilizzerà il Pd. Non voglio rompere le scatole a Veltroni». Vola alto l'ex ministro che parla a tutto campo di Italia, Europa, riforme, ma ad essere bollato come capocorrente proprio non ci sta: «Io non sono un dirigente di partito da molti anni. E non lo voglio fare in futuro. Vorrei contribuire da una posizione diversa ad un grande progetto per dialogare con la società, la politica e il mondo della cultura».
Corrente o meno, in sala si respira il clima delle grandi occasioni. Certo, la scenografia è minimalista: musica soft anni Ottanta, palco viola, tendente al rosso (che fa pandan con le sedie). Manca lo slogan. Forse è un caso che l'unico a disposizione sia, appunto, «tutto torna». Ma il clima è di attesa. Rondolino fa il vago («Quelli sul palco ritornano. Io sono qui a salutare vecchi amici»), Pittella ostenta sorrisi, Cuperlo è cercatissimo. Latorre scherza con D'Onofrio. Che a sua volta scherza con i cronisti. Senatore, si iscrive a Red? «Non mi iscrivo, sono impegnato a fare un altro partito, i partiti servono, ma oggi è un appuntamento importante». Poi aggiunge: «Quando D'Alema era presidente della bicamerale io ero il vice di D'Alema. Si dovrebbe ricominciare a discutere di riforme istituzionali. A volte ritornano, ha visto il titolo del film?». I parlamentari arrivano in ritardo («Hanno dato una deroga solo a me e alla Turco. Stanno votando alla Camera», dice D'Alema) e tra i vari capannelli si respira l'aria di chi la sa lunga. Giovanni Santilli, uomo macchina di D'Alema prima e di Minniti poi, ostenta un curriculum di dalemiano doc. Nelle leggende del botteghino si narra che ai tempi della conta con Occhetto scrisse prima della votazione decisiva il numero dei voti a favore di D'Alema su un biglietto dato al leader maximo. Non sbagliò di uno. Ieri non riusciva a mascherare la sua soddisfazione: «Qui ci sono i pezzi del partito che conta. Quelli vivi nel territorio».
Sul palco va in scena "l'altro Pd". Ognuno spiega le ragioni per cui aderisce al progetto dalemiano. Ignazio Marino invoca una sintesi sui temi della ricerca scientifica; il presidente della Sinistra giovanile Roberto Speranza afferma: «Bisogna colmare il vuoto tra istituzioni e cittadini. A partire da una questione meridionale sempre più drammatica». Poi Pittella spinge sul tasto europeista, il lettiano Boccia parla di economia, Nicodemo Oliverio, mariniano di ferro, pensa che Red debba strutturarsi capillarmente nel territorio, per province e per regioni. E Bersani, insiste sul rapporto col Pd: «Se c'è un grande fiume, servono tanti affluenti».
Non è una corrente. È altro, dicono tutti. A partire dall'ex ministro De Castro, che di Red è il presidente, che assicura: «Sgombriamo subito il campo con chiarezza e con nettezza, come ha già fatto D'Alema nei giorni scorsi: nessuna corrente interna al Pd, nessun proposito di far pesare il nostro contributo in termini di composizione dei gruppi dirigenti». Ma Livia Turco, in versione pasionaria, non usa mezzi termini: «Far parte di un'associazione come questa è avere una doppia militanza. Lavoreremo nei circoli dell'associazione ma se mi chiedono di contribuire alla nascita dei circoli del Pd ben venga, è un invito a nozze. Forse si è troppo indugiato». Si lavora. Al momento per Red.

il Riformista 25.6.08
Sepolture. Don Pedro riaprirà la tomba del boss a sant'Apollinare?
Il mistero di Emanuela nelle mani dell'Opus Dei
di Paolo Rodari


Aprire la tomba di Enrico De Pedis per fare luce sulla scomparsa di Emanuela Orlandi? Don Pedro Huidobro, oggi rettore della basilica di Sant'Apollinare in Roma nella quale è sepolto Renatino, ovvero Enrico De Pedis, boss della banda della Magliana, si è dichiarato disponibile, purché la decisione sia presa dalle autorità competenti.
Il corpo di Renatino, infatti, è sepolto in una cripta la quale, secondo il regime concordatario, è inaccessibile per le autorità italiane. E l'Opus Dei (alla quale la parrocchia è stata affidata nel 1992) vigila che nessuno stravolga le regole. Al fianco della Chiesa, a pochi metri dal portone, c'è pure l'università pontificia Santa Croce, anch'essa dell'Opus Dei, i cui uscieri controllano la basilica.
Ma, diciamolo subito, con la sepoltura di Renatino sotto Sant'Apollinare, l'Opus Dei non c'entra nulla. Perché la richiesta è partita nel 1990 quando la basilica non era ancora dell'Opus. C'entra, invece, l'allora rettore di Sant'Apollinare, monsignor Piero Vergari: il 6 marzo 1990, Vergari ne attestò con una lettera lo status di grande benefattore. Ecco cosa dice il documento conservato negli archivi della basilica: «Si attesta che il signor Enrico De Pedis è stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la basilica e ha aiutato concretamente a tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi in particolare per la loro formazione cristiana e umana».
Basandosi su queste motivazioni, quattro giorni dopo, l'allora vicario generale della diocesi di Roma e presidente della Cei, il cardinale Ugo Poletti, ha rilasciato il nulla osta alla sepoltura di De Pedis. Il 24 aprile dello stesso anno la salma venne tumulata (fu prelevata da un cimitero comunale nella quale era stata provvisoriamente deposta) e le chiavi del cancello consegnate alla vedova.
Vergari conobbe De Pedis quando era cappellano del Regina Coeli: «Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi stati sociali - si legge in una nota scritta il 3 ottobre del 2005 da Vergari -, parlavamo di cose religiose o di attualità; De Pedis veniva come tutti gli altri e, fuori dal carcere, ci siamo visti più volte: normalmente nella chiesa di cui ero rettore, sapendo i miei orari e altre volte fuori, per caso. Qualche tempo dopo la sua morte i familiari mi chiesero, per ritrovare un po' di serenità, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie abbandonate da oltre cento anni nei sotterranei di Sant'Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto. Anche in questa circostanza doveva essere valido, come sempre, il solenne principio dei Romani "Parce sepolto": perdona se c'è da perdonare a chi è morto e sepolto».

Due anni fa, durante il Torino Film Festival, Dario Argento imprecava davanti ad una sala gremita di gente contro l’inverno mite che gli rovinava l’atmosfera de La terza madre. Le piogge delle settimane scorse hanno ritardato la lavorazione di Vincere, il film a cui sta lavorando Marco Bellocchio. Ma le produzioni che scelgono Torino come set sanno di poter contare sul solido appoggio della Film Commission capitanata da Steve Della Casa. «La forza della Film Commission Torino Piemonte - dice al telefono lo stesso presidente - sta soprattutto nel fatto che, pur essendo sotto il controllo del Comune e della Regione, si tratta di una fondazione privata e quindi con un potere e una rapidità decisionali decisamente superiori a quelli di enti analoghi». Dimostrazione di quello che dice Della Casa sta proprio nel grande numero di produzioni che ogni anno gira in Piemonte pur non avendo necessità d’ambientazione nella regione stessa: da Vincere a I demoni di San Pietroburgo di Montaldo, da Sanguepazzo di Giordana al Divo di Sorrentino. «Le produzioni preferiscono appoggiarsi a noi anche perché siamo in grado di garantire l’utilizzo della location prescelta in meno di 48 ore», dice ancora Della Casa, aggiungendo che anche per questo motivo molte serie televisive, di regola più legate a ritmi sostenuti di lavorazione, si sono rivolte all’ente piemontese. «Questo dimostra che la Film Commission più che ad una promozione turistica del territorio, punta ad un suo sviluppo occupazionale».
Sangue pazzo, Il Divo e Il resto della notte, di Munzi, hanno dato lavoro a 1200 comparse e 89 tecnici piemontesi. Se ciò da un lato è segno della massiccia presenza di produzioni sul territorio piemontese, dall’altro non si può ignorare che vi è ancora una sfiducia nelle strutture di pre e post-produzione. Per colmare la distanza tra il Piemonte e il sistema romano si stanno ultimando i lavori del Cineporto, in futuro in grado di ospitare sei produzioni contemporaneamente, con al suo interno una saletta cinematografica per la visione dei giornalieri, che la sera si aprirà al pubblico: «La programmazione della sala sarà rigorosamente gestita da giovani - sottolinea Della Casa, facendo in anteprima il nome di Vittorio Sclaverani, classe 1981 - e lo spazio del Cineporto dovrà essere radicato nella vita cittadina. Per questo vi si troverà anche un ristorante, La Piola del Cinema, nel quale, se lo vorranno, i torinesi potranno cenare al fianco dei cinematografari». Torino cerca di procedere unendo le forze di tutto ciò che gravita attorno al cinema, università compresa. A Torino, in fondo, è nato il cinema italiano e c’è in questa città una cultura del fare e del conservare il cinema che sembra garantirne il primato.


Repubblica 25.6.07
La paura che cresce nella società sicura
di Aldo Schiavone


Non siamo i primi ad avere tanta paura. La storia è piena di società spaventate, immerse nei loro incubi. Da quel che possiamo intravedere nello scabro latino attribuito alle XII Tavole, gli abitanti della Roma arcaica - gli antenati di coloro che sarebbero diventati i padroni del mondo - erano letteralmente atterriti dal buio, già nelle loro stesse case. E nella Francia del Cinquecento, agli esordi della modernità, il terrore non doveva essere meno diffuso. «Paura panica (…) paura sempre, paura dovunque»: così scrive di quegli anni Lucien Febbre in un saggio sul problema dell´incredulità, che ancora leggiamo come un grande classico.
Il paradosso è che però le nostre società contemporanee – almeno in questa parte del mondo – sono anche, e di gran lunga, gli ambienti più sicuri che la storia abbia mai conosciuto: non per caso le nostre aspettative di vita si stanno allungando in modo quasi prodigioso, impensabile ancora agli inizi del Novecento, e ciò sta cambiando dall´interno la qualità stessa delle nostre esistenze. Ma la diffusione del timore e dell´ansia non si placa di fronte a una simile evidenza. Al contrario, se ne alimenta, rovesciando ogni conquista materiale, ogni soglia di agio raggiunta, nel fantasma della loro possibile perdita, nella prefigurazione continua dei pericoli che le minacciano, nell´incubo della loro imminente vanificazione. Si apre così una spirale senza fine, che sta trasformando la nostra età in un´autentica epoca d´angoscia – un fenomeno ormai molto studiato, di cui però non mi pare sia stato ancora messo a fuoco il punto cruciale, e cioè il rapporto che la rete mondiale dei mercati tende a stabilire fra tecnica e vita, fra benessere materiale e padronanza del proprio destino. Mentre la paura si sta installando come la compagna quotidiana di masse sempre più vaste e infoscate, e stiamo imparando a riconoscerla come il più popolare dei nostri sentimenti.
Dovunque in Occidente il discorso pubblico è stato investito in pieno da questa ondata, e il nesso fra politica e paura è diventato un vero e proprio segno del tempo. Ma è stato particolarmente in America e in Italia che la destra ha saputo trarne per prima vantaggio: Bush ha costruito gran parte della sua fortuna agitando lo spettro del terrorismo, e Berlusconi, da noi, non ha esitato a ridisegnare l´intera immagine del suo partito, dimenticando il trascinante ottimismo delle origini, per riuscire a intercettare il lungo brivido d´ansia che si sollevava dal Paese.
E si può dire ancora qualcosa di più. Che cioè è stata proprio questa capacità di interpretare e di dar voce alla nuova paura italiana che ha reso (o almeno ha fatto sembrare) la nostra destra davvero – e per la prima volta – una destra di massa e di popolo, capace di aggregare intorno a sé qualcosa di molto vicino a un blocco sociale e culturale relativamente compatto. All´opposto, lo schieramento di centro sinistra si è drammaticamente rivelato, in questo frangente, incapace di capire, di sintonizzarsi, di tradurre in politica la preoccupazione e il pessimismo diffuso nel corpo sociale, riducendosi a figurare come una parte chiusa, ingessata, tendenzialmente tecnocratica ed elitaria, in sostanza lontana dalle attese e dai bisogni degli elettori, votata all´autoreferenzialità e attenta solo al dosaggio fra le sue componenti.
Il nostro è un Paese culturalmente fragile, almeno dal punto di vista politico. La fine dei grandi partiti attraverso i quali è avvenuto il nostro non limpidissimo apprendistato repubblicano e democratico ha acuito una debolezza che ha origini molto lontane, cui non è estraneo il millenario magistero della Chiesa. Abbiamo sempre i nervi scoperti, e l´antipolitica a portata di mano. Ciò ci rende ancor più sensibili ed esposti rispetto alle contraddizioni di un´economia globale che per giunta sta avendo su di noi impatti sociali più forti che altrove (anche qui per ragioni connesse a storiche inadeguatezze e a squilibri mai compensati). Percepiamo – sia pure in modo confuso – che la sicurezza complessiva della nostra società sta aumentando, e di molto, ma percepiamo anche – e in modo assai netto – che le quote (per dir così) di questa nuova sicurezza si dividono tra gli aspiranti in modo drammaticamente diseguale, e che gli strumenti per accedervi – mobilità, spazio, informazione, tempo, servizi – si concentrano secondo modalità incontrollate. La consapevolezza dello scarto non si inscrive tuttavia in un´ormai impensabile coscienza di classe, ma dilata solo «l´orizzonte delle paure», come ha scritto Ezio Mauro su questo giornale il 17 giugno, e rende disponibili a una rappresentanza politica che fa, appunto, del timore e della frustrazione il suo collante, che tende a sostituire la delega alla partecipazione, e si mette alla testa delle nuove "plebi"(o presunte tali) non con un messaggio di riscatto radicale, ma con la suggestione di cure assolutamente parziali, però brutalmente efficaci e immediate: Robin Hood tax, ronde e tessere di povertà. E per il resto, calcio (ma l´avete visto il Tg1, in queste sere?), congiunto all´ostentata esemplarità – tra mito e reality – di irresistibili ascese "private", baciate dal denaro e dalla fortuna.
Non sarà facile sostituire all´asse maggioritario fra destra e paura, un opposto legame, fra sinistra e speranza. Ma credo proprio che solo questo potrà essere il nostro compito, e che vi sia d´altra parte – nel mondo che ci aspetta – una intrinseca e oggettiva somiglianza fra la composizione organica della nuova paura e quella della nuova destra (l´idea del vincolo, del limite, del ritorno – altro che libertà!), come ve ne sia una, alternativa, fra sinistra e speranza (l´idea della liberazione, del superamento, della ragione che sa farsi progetto e futuro). Mettersi su questa strada non è semplice. Essa presuppone una critica conseguente dei lati negativi della globalizzazione, che, pur assumendo quest´ultima come un punto di non ritorno – ciò deve restare fuori questione, nello stesso modo in cui lo era per Marx la società capitalistica – sia capace di rendere plausibili ed evidenti le linee di un suo riequilibrio virtuoso, prima locale ma poi completamente planetario. C´è bisogno cioè che la critica dell´economia globalizzata si apra su quella che Jonas e Bauman chiamano una nuova "immaginazione etica", adeguata alle nostre responsabilità, e su una nuova teoria della politica. E questo non sarà possibile se non si tornerà a lavorare, in Europa, a un nuovo rapporto fra intellettuali e popolo, post-ideologico, ma non post-democratico. Sarà bene che l´architettura culturale del Pd che sta nascendo ne tenga debito conto.

«L'ultimo libro di Eugenio Scalfari, intitolato L'uomo che non credeva in Dio (...) si offre al lettore con la grazia delle opere letterarie perfettamente riuscite» (sic!!!)
Agenzia Radicale 25.6.08

Le confessioni di Eugenio Scalfari
di Giuseppe Talarico


L'ultimo libro di Eugenio Scalfari, intitolato L'uomo che non credeva in Dio edizioni Einaudi, si offre al lettore con la grazia delle opere letterarie perfettamente riuscite. Il libro ha una struttura narrativa assai singolare, poiché è basato sulla continua ed assai felice alternanza di confessioni intime dell'autore sulla sua vita privata e professionale e su lunghe e assai significative meditazioni sui grandi interrogativi ed enigmi dell'esistenza umana.

All'inizio della narrazione vi sono pagine intrise di malinconia e nostalgia del periodo vissuto dall'autore con i suoi genitori, nella città di San Remo. Nel suo libro, Scalfari, con la bravura e la genialità dello scrittore maturo e consapevole dei propri mezzi espressivi, delinea il ritratto, lasciando trasparire lievemente i suoi sentimenti personali, della madre, una donna dolcissima ed elegante. Del padre, avvocato ed uomo colto, ricorda, con gratitudine ed affetto, che durante la sua adolescenza gli leggeva, declamandoli, i testi della grande letteratura classica, come quelli di Ovidio, Lucrezio, Virgilio, Omero, sicché Scalfari conobbe i classici prima di frequentare la scuola.

Accanto ai ricordi dei primi anni di vita, in compagnia dei genitori, affiorano nel libro i momenti che, per ammissione dello stesso autore, furono fondamentali per la sua formazione intellettuale e morale. Un giorno, mentre frequentava la seconda liceo a San Remo e aveva come compagno di banco Italo Calvino, scoprì, grazie al suo professore di filosofia, il libro di Cartesio intitolato Il Discorso Sul Metodo, opera fondamentale per comprendere lo sviluppo della filosofia moderna dal razionalismo all'avvento dell'illuminismo. In quella circostanza, il professore di filosofia fece una affermazione perentoria, suscitando le proteste di Calvino, secondo la quale chi non avesse capito l'importanza di questo pensatore, difficilmente sarebbe riuscito a conferire un senso alla propria vita.

Con lo studio di Cartesio, si badi negli anni del liceo, per Scalfari inizia una lunga meditazione su ciò che costituisce l'essenza del nostro Io. Citando una pagina meravigliosa tratta dal libro le Confessioni di Agostino d'Ippona, in cui il grande filosofo cattolico vorrebbe accedere alla visione del Signore senza perdere la memoria, Scalfari dimostra come la facoltà di ricordare, e quindi di pensare e ragionare, sia fondamentale per cogliere la natura del nostro Io. Inoltre , con la capacità di rendere chiari concetti che hanno innervato e irrobustito la tradizione filosofica occidentale, intorno ai quali sono stati scritti libri di stupefacente bellezza, si pensi ai Saggi di Montaigne e ai Pensieri di Pascal, Scalfari dimostra come l'uomo ha perduto la propria innocenza mangiando il frutto del peccato nel paradiso e scoprendo il valore della conoscenza, che gli dà la possibilità di trasgredire le regole e di provare il senso di colpa. Questa pagina, così illuminante sulla natura della nostra condizione umana, evoca il grande dipinto di Masaccio: La Cacciata Dal Paradiso di Adamo ed Eva.

In altri capitoli di questo libro, denso di pensieri e ricco di descrizioni indimenticabili, come quelle rivolte a spiegare quale fosse il clima morale ed intellettuale in Italia durante il fascismo, l'autore affronta senza infingimenti la sua vicenda professionale. Scalfari iniziò la professione giornalistica, divenendo un maestro ed uno dei più grandi giornalisti del nostro tempo, mentre lavorava in banca. Inizialmente iniziò a collaborare con "il Mondo" di Pannunzio ed Ernesto Rossi, due grandi intellettuali, grazie ai quali scoprì quanto importante fosse il valore del liberalismo di sinistra, sempre minoritario nel nostro disgraziato Paese. In seguito, collaborò con un giornale economico, che all'epoca si chiamava "24 ore", scrivendo e pubblicando articoli economici a favore di un libero mercato che fosse fondato su regole di concorrenza e trasparenza. A causa dei suoi articoli, che suscitarono le proteste del presidente della Federconsorzi Paolo Bonomi, dovette abbandonare il lavoro in banca e, da quel momento, si dedicò alla professione giornalistica.

Nel libro viene chiarito che chi non possiede la vocazione per esercitare questo mestiere, che a volte può essere crudele, e che risiede nella capacità di invadere la vita altrui per raccontare quanto accade nel mondo, perde tempo se pensa di poter divenire un bravo giornalista. Non mancano i ricordi, ovviamente, legati al periodo in cui Scalfari decise di fondare "la Repubblica", divenuto nel corso degli anni un grande giornale di livello europeo, su cui tanti giovani si sono formati. "La Repubblica" nacque in base ad una scommessa che il suo fondatore, insieme con altri scrittori ed intellettuali, fece alla metà degli anni Settanta sulla possibilità di favorire la nascita in Italia di una borghesia produttiva, capace di farsi custode degli interessi generali, come è avvenuto in altri Paesi europei. Per questo, al momento della nascita del giornale, il fondatore di "Repubblica" si rivolse ai principali esponenti del capitalismo italiano, per ottenere finanziamenti.

La parte più significativa del libro sul piano filosofico è dedicata al filosofo Spinoza e a Nietzsche. Spinoza, un grandissimo filosofo autore del libro l'Etica e del Trattato filosofico teologico, fu il primo pensatore a demolire l'immagine e la concezione della trascendenza, così come nel tempo si era venuta nella storia del pensiero configurando. Per Spinoza tra la Natura e Dio, identificato con l'eterna sostanza, non vi è alcuna differenza. Tuttavia, il Dio di Spinoza non possiede gli attributi umani, ma è semplicemente eterno ed onnipotente, senza essere onnisciente. Per questo suo pensiero sulla divinità così innovativo, Spinoza venne espulso dalla comunità ebraica e dovette andare in esilio.

Con Nietzsche, un pensatore molto amato da Scalfari, la metafisica e la convinzione che vi sia una trascendenza, a cui l'uomo possa guardare, vengono contestate e messe in crisi in modo definitivo. Il Superuomo di Nietzsche annuncia la morte di Dio e la volontà di trasmutare i vecchi valori, per fondare una nuova moralità. A proposito della figura del Superuomo, Scalfari, che ha frequentato a lungo questo pensatore, chiarisce che vi sono due momenti distinti che bisogna considerare, quello Apollineo, legato alla razionalità greca, e quello dionisiaco, rivolto a esaltare i sensi in nome di un vitalismo orgiastico e della volontà di potenza. Se il mondo è un luogo in cui non vi è un fondamento assoluto a causa della morte di Dio, esiste solo lo sguardo dell'uomo che può interpretare i fatti e gli eventi secondo la sua sensibilità personale, sicché il relativismo è la conseguenza inevitabile di un atteggiamento filosofico ispirato al dubbio laico.

Il fondamento della morale, su cui Scalfari ha scritto un altro bellissimo libro, è dato dall'istinto di conservazione che appartiene ad ogni singolo individuo. Sui politici che ha conosciuto personalmente, Scalfari esprime giudizi lusinghieri verso Ugo La Malfa ed Enrico Berlinguer, perché entrambi, pur avendo una diversa formazione culturale e politica, ebbero chiara in mente la visione del bene comune, in ossequio alla quale l'uomo pubblico è chiamato ad agire ed operare per l'affermazione dell'interesse generale. Un libro straordinario. Nel libro, a proposito della natura dell'Io, il lettore troverà questa riflessione di Kundera tratta dall'Arte del Romanzo: "Quanto più potente è il microscopio che osserva l'IO, tanto più l'Io e la sua unicità ci sfuggono. Ma se l'Io e il suo carattere unico non possono essere colti nella vita interiore, dove e come li si può cogliere?".

martedì 24 giugno 2008

l’Unità 24.6.08
Contro la Costituzione
di Stefano Passigli


In nessun Paese gli assetti istituzionali sono immodificabili. Le modifiche vanno
ricercate nel dialogo tra maggioranza e opposizione. Ma proprio per dialogare
occorre non smarrire la coscienza di cosa è negoziabile e cosa non lo è

Bene hanno fatto il capo dello Stato e il vice presidente del Csm a precisare che al momento non esiste alcun parere dell’organo di autogoverno della magistratura sulla costituzionalità delle norme blocca-processo. La forma ha una sua rilevanza, ma non può alterare la sostanza; e sul piano della sostanza non vi è dubbio che l’aggiunta al decreto sulla sicurezza di una norma blocca-processi presenta profili di incostituzionalità, solleva interrogativi sul ruolo dei presidenti delle Camere, e appare politicamente dirompente.
In primo luogo applicandosi solo ai procedimenti prima del 2002, il blocco contrasta con il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione discriminando tra ipotesi di reato identiche sulla base della mera data di avvio del relativo procedimento penale. Irragionevole appare in ogni caso il riferimento temporale adottato. Non solo meglio sarebbe stato sospendere quei processi ove la eventuale condanna sarebbe comunque coperta dal recente indulto, ma più logico sarebbe stato semmai accelerare anziché bloccare i processi più datati e quindi più a rischio di prescrizione, ritardando piuttosto i più recenti per i quali la prescrizione è più lontana. Né si dica che, essendo sospesa la prescrizione, la situazione dei processi bloccati non muterebbe. Alla loro ripresa, infatti, molti collegi giudicanti potrebbero dover essere ricostituiti per intervenuti trasferimenti o pensionamenti, con il conseguente ripartire da zero del processo e un altrettanto conseguente garanzia di impunità. La norma blocca-processi votata a maggioranza semplice dal Parlamento configurerebbe così, in buona sostanza, un’amnistia surrettizia, in spregio della norma che vuole le amnistie votate da una maggioranza qualificata.
In secondo luogo, nel processo penale le parti sono tre: il Pubblico Ministero a tutela dell’interesse generale, la Parte Civile a tutela del soggetto offeso, e la Difesa a tutela dell’imputato. Ebbene ritardare - o addirittura vanificare, come spero di aver or ora dimostrato - la celebrazione del processo è certo nell’interesse dell’accusato, ma non della parte lesa e della collettività. Nel proporre la norma blocca-processi Berlusconi e il suo governo mostrano - e pour cous - di privilegiare l’interesse dell’imputato piuttosto che quello generale e delle parti lese. Ma proprio il centrodestra, per bocca del senatore Pera con il pieno appoggio dell’onorevole Berlusconi, si batté per introdurre in Costituzione la norma sull’equo processo che ne impone una «ragionevole durata»: ebbene la norma blocca-processi allungandone la durata e di fatto favorendo in molti casi la prescrizione, priva gli imputati innocenti di una pronuncia assolutoria e le parti lese di una condanna, violando così palesemente l’articolo 111 della Costituzione. Da alcuni si è affermato (Antonio Alfano, Corriere della Sera del 22 giugno) che una norma blocca-processi fu già introdotta nel 1998 dal governo Prodi, ministro della Giustizia Flick, presidente Scalfaro. Niente di meno vero, e sorprende che a un ex Procuratore Generale onorario di Cassazione la passione politica faccia velo sull’intelligenza giuridica: tale disposizione prevedeva infatti che «al fine di assicurare la rapida definizione dei processi pendenti... nella trattazione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza... si tiene conto della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti nonché dell’interesse della persona offesa». La concreta decisione sui criteri di priorità era insomma rimessa agli uffici che ne dovevano informare il Csm, restando così interamente nel discrezionale apprezzamento dei magistrati. Cosa ben diversa da un intervento legislativo che lede profondamente un ulteriore e fondamentale principio costituzionale: quello dell’autonomia della magistratura.Al di là della forma, avanzare dubbi sulla costituzionalità di una norma blocca-processi è dunque non solo legittimo, ma anche opportuno, specie alla luce delle modalità scelte dal governo per la proposta: non un disegno di legge costituzionale - al quale lo invitano, oltre ad alcuni esponenti della maggioranza, persino (con un intervento ai limiti dell’oltraggio a un potere dello Stato quale la Corte Costituzionale) il presidente emerito Cossiga che invita anche il presidente Napolitano a rinviare la legge di conversione qualora contenesse la norma - ma un emendamento suggerito a parlamentari amici che aggiunge a un decreto legge materia estranea al testo passato al vaglio autorizzativo della presidenza della Repubblica. Chi scrive è profondamente convinto che i presidenti di Camera e Senato dovrebbero dichiarare improponibili emendamenti estranei al corpo dei decreti, evitando così di vanificare il controllo dei requisiti di necessità e urgenza compiuto dalla presidenza della Repubblica. Ma chi scrive è altrettanto profondamente cosciente che - caduta la prassi che voleva le presidenze di Camera e Senato affidate a maggioranza e opposizione e votate consensualmente - a partire dalla rottura della prassi effettuata dal primo governo Berlusconi nel 1994 l’indipendenza delle due presidenze si è inevitabilmente affievolita. Occorre dunque aiutare la presidenza delle Camere a mantenere al massimo la propria autonomia: anche da questo punto di vista, la presentazione di un emendamento blocca-processi indebolisce e non rafforza le istituzioni, ed è opportuno che sia perciò ritirato. Infine, gli aspetti più strettamente politici. A lungo, in molti abbiamo lamentato che i rapporti tra maggioranza e opposizione non fossero in Italia quelli esistenti in un «paese normale». Alla necessità di un più corretto rapporto alcuni tra noi - io ad esempio - avevamo a malincuore sacrificato battaglie che come quella per una più adeguata disciplina del conflitto di interessi, ci apparivano necessarie. Ma esistono limiti invalicabili, e princìpi irrinunciabili. Così come nel 2006 ci battemmo con successo per respingere un progetto di riforma costituzionale altamente pericoloso, oggi siamo costretti a un nuovo e deciso «no» al tentativo di introdurre norme che sentiamo lesive di un fondamentale principio non solo della nostra Repubblica ma di qualsiasi democrazia: l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Troppi indizi ci dicono che si sta preparando un nuovo tentativo di sovvertire alcuni capisaldi del nostro ordinamento costituzionale: la forma parlamentare di governo, ribadita dai cittadini italiani nel referendum del 2006; il ruolo e le funzioni delle supreme magistrature di garanzia (presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale); e infine l’autonomia della magistratura. In nessun paese gli assetti istituzionali sono immodificabili. E le modifiche vanno ricercate e fatte nel dialogo tra maggioranza e opposizione. Ma proprio per dialogare occorre non smarrire la coscienza di cosa è negoziabile e cosa non lo è.

l’Unità 24.6.08
Al cinema Farnese 114 parlamentari Pd battezzeranno un’altra associazione. Voluta da D’Alema, sarà presieduta dal prodiano De Castro
Oggi si accende la «corrente rossa», Red
di Federica Fantozzi


Verrà presentata al cinema Farnese, a due passi dalla piazza omonima dove l’associazione ha sede al civico 101, proprio sotto l’appartamento di Achille Occhetto. È previsto oggi il battesimo di «Red», vale a dire «Riformisti & Democratici»: la nuova creatura di Massimo D’Alema.
Red, che inizialmente doveva chiamarsi «Amici di ItalianiEuropei» e poi ha scelto un nome più “rosso” e anglofilo, affiancherà l’azione pluriennale della fondazione e della rivista care all’ex ministro degli Esteri. I dati delle iscrizioni saranno noti da oggi, ma sembra che abbiano aderito 114 parlamentari del Pd su 336: un terzo del gruppo parlamentare. Alle 17,30 allo storico cinema d’essai ci saranno il presidente dell’associazione Paolo De Castro, già ministro prodiano dell’Agricoltura, Pierluigi Bersani, Livia Turco, Michele Ventura, il Popolare Nicodemo Oliverio. Ci sarà Lino Duilio, anche lui ex Ppi, indicato come vicepresidente che però sostiene di non saperne nulla.
Incerta la presenza di Franco Marini: sulla «Stampa» Fabio Martini ha rivelato che a lui toccherebbe uno dei due discorsi inaugurali, al fianco di d’Alema. Ieri però filtravano diplomatiche frenate del tipo «è stato invitato ma al momento non è previsto che partecipi». L’evento - presenza o assenza - non sarebbe scevro di significato politico, in quanto aggiungerebbe un ulteriore tassello a quella che Arturo Parisi ha chiamato «la balcanizzazione del partito». Si tratta di capire fino a che punto sia reale la diaspora degli ex Popolari: da una parte, cioè con Veltroni, i “giovani” capeggiati da Fioroni e Franceschini; dall’altra, cioè accanto all’ex vicepremier, i fedelissimi dell’ex presidente del Senato.
Indizi ce ne sono: Marini non era alla cena Ppi organizzata in vista dell’assemblea costituente dal tandem Franceschini-Fioroni in un hotel di Roma. Per contro, il mariniano Oliverio che aveva aderito a Red insieme al collega Ladu, si è ritrovato a sorpresa fuori dalla direzione acclamata venerdì alla Fiera di Roma. Dove Marini, in un appassionato intervento, aveva dichiarato di condividere la linea politica del Pd ma non la gestione e l’organizzazione. Un colpetto a Fioroni? «Nooo, lui è appena arrivato, che c’entra?», minimizzavano i suoi.
Sarà. Si vedrà oggi se il lupo marsicano decide di schierarsi con una delle due linee che, lo ha esplicitato Enrico Morando, stanno emergendo nel Pd. Cuperlo ha già invocato «nuove leadership» a sostituire la «foto di gruppo» di una dirigenza «ingiallita e logorata«. I figliocci mariniani ostentano sicurezza. «Mai andato così d’accordo con Franco come adesso» giura il numero due dell’ex loft. «Il nostro legame non è mai stato così coeso e forte» assicura l’ex ministro della Salute».

Repubblica 24.6.08
D'Alema lancia Red, gelo nel Pd
di Goffredo De Marchis


ROMA - È il giorno di "Red", l´associazione di parlamentari Riformisti e Democratici legata a Italianieuropei, fondazione presieduta da Massimo D´Alema. Nasce ufficialmente oggi come struttura trasversale chiamata a fornire contributi politici e culturali al Partito democratico. Il board è composto dal prodiano Paolo De Castro, dall´ex ppi Nicodemo Oliviero e dagli ex Ds Pierluigi Bersani, Livia Turco e Michele Ventura, fotografia del "rimescolo" fra le varie anime Pd come lo chiama l´ex ministro dell´Industria. Ma qualche numero e la natura di un´organizzazione composta da eletti alle Camere non convince molti dentro un partito in cui le correnti sembrano moltiplicarsi.
Secondo innumerevoli fonti, i parlamentari aderenti sarebbe almeno 110, vale a dire un terzo del totale. Come dire: una specie di gruppo all´interno dei gruppi di Camera e Senato. Antonello Soro, presidente dei deputati Pd, commenta con malizia: «L´associazione di D´Alema? In Parlamento ci sono anche le associazioni Italia-Cina, Italia-Israele... Di cose così ne nascono e ne muoiono tante». Soro dice di non essere preoccupato: «Ma continuo a pensare che sia un´iniziativa singolare perché deputati e senatori dispongono già di un luogo per riunirsi, confrontarsi e discutere. Red è un´idea legittima, ma vediamo cosa produce».
Al cinema Farnese, sede del lancio di Red, non ci sarà Franco Marini, che era indicato come una delle possibili guest star. «Sono amico di D´Alema, l´iniziativa resta interessante, ma alla mia età non cambio le radici culturali e il mio primo amore. Sono affezionato all´associazione dei Popolari e mi impegno nella costruzione del Pd. Sul quale si sta scatenando una fibrillazione bambinesca e irrazionale», dice l´ex presidente del Senato. Oggi pomeriggio anche Giovanna Melandri riunisce un gruppo trasversale di parlamentari, da Colaninno a Santagata, da Livi Bacci a Boccuzzi, Treu, Vassallo, Cuperlo e Zingaretti. «Non vuole essere un´associazione - spiega l´ex ministro dello Sport - . Ma i nostri obiettivi sono l´affermazione delle primarie per la maggior parte degli incarichi e la necessità di costruire prima il Pd e poi le correnti». E il prossimo week-end Enrico Letta, attraverso la associazione "360", organizza il Festival delle idee a Piacenza dove sarà ospite Pier Ferdinando Casini, cioè l´altra faccia dell´opposizione.
Per rilanciare il Partito democratico, Gianni Cuperlo, deputato del Pd e un tempo ghost writer di D´Alema, vede però una sola soluzione: l´emergere di un gruppo dirigente nuovo. «Noi avremmo bisogno di grande coraggio, lealtà e di generosità in particolare da parte di una leadership collettiva, una foto di gruppo, che da quindici anni ha diretto e governato le diverse stagioni della vicenda politica del centro sinistra in questo Paese - spiega - . Questa foto di gruppo deve rivendicare i suoi grandi meriti, ma ha anche limiti evidenti, un logoramento visibile». La generosità di cui parla Cuperlo dovrebbe quindi concretizzarsi nel favorire un ricambio non solo generazionale: «Dovrebbero favorire nuove leadership che siano fino in fondo figlie di questa stagione e di questo progetto di partito nuovo». Arturo Parisi ha molta più fretta. Conferma all´Ansa l´attacco a Walter Veltroni: va cambiata la leadership, dice. E avverte il partito: «Non io a essere isolato, lo è invece il Pd rispetto agli elettori».
Il Pd è atteso anche dalla scelte sulla collocazione internazionale. Piero Fassino ieri è volato ad Atene, in vista del congresso dell´Internazionale socialista, per incontrare il suo presidente Giorgio Papandreu. «I Ds in una fase transitoria resteranno nell´Is e faranno da ponte a un´apertura dell´Internazionale a nuove realtà mondiali, compreso il Partito democratico», spiega Fassino. I socialisti mondiali puntano a creare un forum permanente con forze come il partito di Lula, quello del Congresso indiano, i Democratici americani e giapponesi. E il Pd italiano, naturalmente.

l’Unità 24.6.08
Mistero Emanuela Orlandi «C’entra anche Marcinkus»
di Anna Tarquini


Emanuela Orlandi rapita su ordine di Marcinkus per mettere sotto scacco il Vaticano e dire: «noi sappiamo cosa accade lì...». Emanuela tenuta sequestrata in un appartamento a Roma, poi drogata e infine uccisa e seppellita in una betoniera a Torvaianica. Oppure seppellita a Roma, di nascosto, in quella tomba nella chiesa di Sant’Apollinare dove da anni - e misteriosamente - per ordine del cardinale vicario Poletti riposa un pluriassassino. Perché la Chiesa si sarebbe tanto ostinata a difendere la sepoltura di un boss della Banda della Magliana? Perché dentro quella tomba non ci sarebbe lui, ma lei, Emanuela. E Marcinkus? «Amava le minorenni e poi riciclava i soldi della Banda della Magliana». Misteri, depistaggi, coincidenze francamente eccessive. A venticinque anni esatti dalla sua scomparsa ecco, a bomba, una supertestimone che dice di conoscere il mistero della Orlandi rapita il 22 giugno del 1983. È la donna di Renatino De Pedis, capo storico della Banda della Magliana assassinato nel 1990 a pistolettate, colui che riposa in terra vaticana. Siamo a una svolta o invece una vicenda tutt’altro che chiara come sostengono in molti a cominciare dalla famiglia? Certo almeno una grande inesattezza c’è: secondo la donna Emanuela sarebbe stata seppellita insieme a Domenico Nicitra, un bambino di 11 anni ucciso per vendetta dalla banda. A farlo sarebbe stato De Pedis. Ma quando Nicitra venne rapito De Pedis era morto da due anni. Invece esiste - e le fonti sono attendibili - la casa della betoniera.
Cominciamo subito da una certezza che è insieme anche cosa inusuale. Ieri mattina alla procura di Roma era in programma un vertice per fare il punto sulle indagini mai chiuse. Già da domenica, nel giorno dell’anniversario della scomparsa, si vociferava di una superteste. Ieri però dalla Procura è uscita qualcosa di più di una notizia: il testo praticamente integrale degli interrogatori - in data 14 e 15 marzo - della signora Sabrina Minardi. Tanto è vero che la polizia ha perquisito l’agenzia di stampa che aveva i verbali. Ecco. Dare in pasto un testimone così, a regola, vuol dire screditarlo. Invece chiara è la precisazione con la quale i magistrati stessi accompagnano le notizie: ci sono sì incongruenze temporali nel racconto, ma anche dettagli che devono essere approfonditi con attenzione.
Chi è Sabrina Minardi? Si autodefinisce da sola una donna «dal passato avventuroso». Ex moglie del calciatore Bruno Giordano, ex tossicodipendente, finita «in cronaca» per giri di prostituzione. Sua figlia - quando si scatena il caso - è la ragazza finita sui giornali perché era in auto con il pirata della strada che ha massacrato a Roma due studenti universitari in motorino. Circa due mesi fa, e dopo un silenzio di 25 anni, la signora Minardi si è presentata ai magistrati per raccontare la sua verità. «Emanuela è morta, la portai io stessa in automobile da un uomo. Scese da una Mercedes nera targata Città del Vaticano. Era vestito da prete: con l’abito nero lungo e il cappello a grandi falde. Prese Emanuela e la portò via».
Ancora un passo indietro. Tre anni fa la trasmissione «Chi l’ha visto?» si occupa del caso Orlandi. E in trasmissione chiama il figlio di Roberto Calvi, il banchiere dello Ior assassinato a Londra sotto il ponte dei Frati neri. Dice il figlio di Calvi: la banda della Magliana venne utilizzata nel rapimento di Emanuela Orlandi. «C’è una forte possibilità - dice - che sia stata utilizzata per i suoi legami con la mafia, che a sua volta ha rapporti con i Lupi Grigi, per mandare un ulteriore minaccia al Papa». Siamo ancora alla pista che vuole Emanuela rapita per far liberare Alì Agca, l’attentatore del Papa. Emanuela e Mirella Gregori, anche lei cittadina vaticana. Successivamente in trasmissione arriva un’altra telefonata che dice: «Se volete sapere qualcosa di Emanuela guardate nella tomba di Renatino De Pedis, a Sant’Apollinare». Si apre la polemica: ma come, un criminale sepolto in una chiesa? E la Chiesa risponde: «Ha fatto molte opere di bene». Poi è la volta di Antonio Mancini, superpentito della Magliana, giudicato attendibile che dice: «Ho riconosciuto la voce del telefonista, quello che mandava i messaggi in casa Orlandi. È la voce di Mario l’autista di De Pedis». L’anello si ricongiunge. È praticamente certo che la Banda della Magliana ha avuto parte nel sequestro. Mancini viene interrogato ma poi, di recente, la procura lo liquida come inattendibile. «Dice che De Pedis è vivo». E anche se lui nega di aver mai detto tale bestialità la procura insiste. Quella stessa procura che ieri ha dato ai giornali la versione «discretamente attendibile» della super teste Sabrina Minardi.
«Me lo chiese Renatino di fare una cosa. Io arrivai lì al bar Gianicolo con una macchina. Poi Renato, il signor De Pedis, con cui in quel tempo avevo una relazione, mi disse di prendere un’altra macchina che era una Bmw e di accompagnare questa ragazza dove sta il benzinaio del Vaticano, che ci sarebbe stata una macchina targata Città del Vaticano che stava aspettando questa ragazza. Io così feci». Minardi non sa nulla, ma a un certo punto si accorge che sta portando Emanuela Orlandi, il suo volto è sui manifesti di tutta Roma. Tutto avviene sette mesi prima della presunta morte. «La identificai come Emanuela Orlandi. Era frastornata, era confusa sta ragazza. Si sentiva che non stava bene: piangeva, rideva. Parlava di un certo Paolo, non so se fosse il fratello. Diceva: “Mi porti da Paolo ora vero?”. Quando l’accompagnai c’era un signore con tutte le sembianze di essere un sacerdote. Io feci scendere la ragazza: “Buonasera, lei aspettava me?”. “Sì, credo proprio di sì”. Poi, dopo che avevo realizzato chi era dissi a Renato: “A Renà, ma quella non era..”. Ha detto: “Tu, se l’hai riconosciuta è meglio che non la riconosci, fatti gli affari tuoi”. Rapita e tenuta nascosta, ma dove? Sabrina Minardi segna ancora un collegamento con quell’oscuro mondo criminale. Emanuela era tenuta prigioniera in uno scantinato enorme, sulla gianicolense. Era in casa di una donna, la signora Daniela Mobili, legata a un altro boss della Magliana, Danilo Abbruciati. La ragazza venne accompagnata all’appuntamento al bar Gianicolense dalla signora Teresina, la governante. «Vai bella via - le disse - . Ora vai con la signora io ti riaspetto, ritorni qui». «Parlava male sta ragazza, trascinava le parole. Le domandai: “Come ti chiami?” “Emanuela” mi rispose». «Di lì a pochi giorni - continua la donna - tentarono di rapire mia figlia. Chiamai immediatamente Renato e mi disse: “Ma se tu ti sei scordata quello che hai visto non succederà niente a tua figlia”».
Il movente. «Emanuela Orlandi sarebbe stata prelevata da Renatino De Pedis su ordine di monsignor Marcinkus, all’epoca presidente dello Ior». Perché? «È come se avessero voluto dare un messaggio a qualcuno sopra di loro. Era lo sconvolgimento che avrebbe creato la notizia». Nessuno può smentire: né De Pedis, né Marcinkus che sono morti. E Sabrina Minardi spiega: «Renato aveva interesse a cosare con Marcinkus perché questi gli metteva sul mercato estero i soldi provenienti dai sequestri». E dietro insistenze: «Io la motivazione esatta non la so, però posso dire che con De Pedis conobbi monsignor Marcinkus. Io a monsignor Marcinkus a volte portavo anche le ragazze lì, in un appartamento di fronte, a via Porta Angelica. Sarà successo in totale quattro o cinque volte. lui era vestito come una persona normale. C’era poi il segretario, un certo Flavio. Mi telefonava al telefono di casa mia e mi diceva: “C’è il dottore che vorrebbe avere un incontro”. Poi, a lui piacevano più minorenni». Ricorda, Sabrina, di quella volta che portarono un miliardo a monsignor Marcinkus. E racconta - lo aveva già detto nel 2006 a Chi l’ha visto? - di quella volta che Renatino le comprò un vestito nero, «sembravo una suora», ed era per una cena. «Andai a cena a casa di Andreotti, con Renato. E in quel periodo Renato era latitante».

Ma Nicitra sparì due anni dopo...
La testimonianza di Sabrina Minardi, tanto precisa, cade sulle date e su una circostanza, la più importante, la sepoltura di Emanuela. Perché, sostiene, Emanuela venne seppellita insieme a Domenico Nicitra, figlio del boss della Magliana rapito e ucciso. Ma Nicitra sparì due anni dopo la morte di Renatino De Pedis.
Ecco il suo racconto: «Renato mi portò a pranzo in un ristorante a Torvaianica, da “Pippo l’Abruzzese”. Lui aveva un appuntamento con Sergio (che, a suo dire, faceva da autista a Renato) il quale portò quel bambino: Nicitra; il nome non me lo ricordo. Portò, dice lui, il corpo di Emanuela Orlandi. Io non lo so che c’era dentro i sacchi perché rimasi in macchina. Dice che, però, era meglio sterminare tutto, lui la pensava così. Sterminare tutto così non ce stanno più prove, non ci sta più niente. Lui mi disse che dentro a quella betoniera ci buttò quei due corpi». «C’era un cantiere lì vicino, come dire, una cosa in costruzione. Noi riprendemmo tranquillamente la macchina e pensavo di dirigermi verso Roma. Lui mi disse: “Gira qui, vai li” e andammo in questo cantiere. Disse: “Stanno costruendo”. Dico: “Che me devo fermà a fà?”. Dice: “No, qui stanno a costruì delle case delle persone che conosco, sta a costruì un palazzo o a ristrutturare, non mi ricordo. Fermate qua!”. Mi fermai e arrivò Sergio con la sua macchina e ad un certo punto misero in moto la betoniera. Vidi Sergio con una sacco per volta e dopo chiesi a Renato: “aho, ma che c’era dentro a quel..”. “Ah, è meglio ammazzalle subito, levalle subito le prove”, dice. “E chi c’era?”. Dice: “Che te lo devo dì io!”. “Poi, io andai a casa e spinta dalla curiosità, le dico la verità, lo feci pippà Renato spinta proprio dalla curiosità di voler sapere e lui me lo disse. “Le prove si devono estirpare”. Lui usava molto questa parola: “dall’inizio, dalla radice”. Non lo so se ’sta ragazza aveva visto qualcuno; ’B non essendoci più nè i corpi, nè niente, era meglio togliere di mezzo tutto, la parola tua contro la mia, diceva lui». La donna riferisce che la sua relazione con De Pedis iniziò nella primavera inoltrata dell’82 e andò avanti fino a novembre ’84. Quindi, Renatino venne arrestato e lei lo avrebbe rivisto dopo la sua uscita dal carcere nell’87. Di Emanuela Orlandi si persero le tracce il 22 giugno dell’83. Domenico Nicitra, il bambino di 11 anni, figlio di Salvatore, imputato al processo per i delitti commessi dalla banda della Magliana, scomparve il 21 giugno 1993 assieme allo zio Francesco, fratello del padre. E De Pedis in quell’epoca era già morto: venne ammazzato il 2 febbraio del ’90.

Corriere della Sera 24.6.08
Il giudice Otello Lupacchini indagò sul gruppo della Magliana e sulla fine del banchiere. «Ma sul cardinale come mandante solo fantasie»
«Lo Ior e il sequestro per i debiti di Calvi: verità credibile»
di Andrea Garibaldi


ROMA — Dice il giudice Otello Lupacchini: «È ragionevole pensare che la banda della Magliana abbia effettuato il sequestro di Emanuela Orlandi o che abbia sfruttato la situazione che derivava da quel sequestro». Subito, aggiunge: «Attenzione, però. Perché le dichiarazioni di questa nuova "supertestimone" sconfinano nel soprannaturale, soprattutto quando colloca nello stesso luogo il cadavere della Orlandi (rapita nel 1983), il cadavere del piccolo Nicitra (rapito nel 1993) e De Pedis (ucciso nel 1990). Attenti a non cadere nell'incubo gotico, nella trama alla Dan Brown, nella "Notte dei morti viventi"».
Lupacchini fu giudice istruttore al processo alla banda della Magliana, anni '93-'94, e giudice per le indagini preliminari al processo per stabilire se Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, fosse morto suicida o ucciso, sotto il ponte dei Frati Neri, a Londra.
Torniamo al ragionamento teorico.
«Partiamo da qui: esistevano rapporti tra il banchiere Calvi e la banda della Magliana, o meglio una sua parte, ben rappresentata da "Renatino" De Pedis. L'episodio più clamoroso è l'attentato (aprile 1982) al vicepresidente del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone: l'attentatore era Danilo Abbruciati, esponente della banda della Magliana, che sparò a Rosone e fu ucciso da una guardia giurata. Ma è noto anche che Calvi si rivolse agli usurai di Campo de' Fiori, pure vicini alla banda».
Andiamo avanti.
«La banda della Magliana, in particolare il gruppo di Testaccio-Trastevere, che faceva capo a De Pedis e ad Abbruciati, si può considerare una costola di Cosa Nostra».
Di conseguenza?
«Il quadro sarebbe questo: Cosa Nostra investe denaro nelle spericolate operazioni finanziarie di Roberto Calvi. Calvi muore a Londra (giugno 1982) e i soldi diventano non più esigibili. Un'organizzazione che controlla il territorio come la banda della Magliana, a questo punto, può effettuare il sequestro della figlia di un dipendente vaticano o può decidere di "gestire" il sequestro».
Con quale movente?
«Il Vaticano, tramite lo Ior diretto da monsignor Marcinkus, aveva investito copiosi capitali nell'Ambrosiano. Il sequestro poteva essere un modo, da parte della banda della Magliana per conto della mafia, per ricattare, per rivalersi su una sorta di "socio" del debitore Calvi».
E De Pedis, ammazzato per la strada a revolverate, finisce sepolto in una cripta della basilica di Sant'Apollinare, in quanto «benefattore dei poveri»...
«Credo che quel sepolcro sia un simbolo. Un memento di un giuramento solenne, di un patto tra alcuni uomini della Chiesa e personaggi della malavita».
Antonio Mancini, pentito della banda della Magliana, ha sostenuto che quella tomba di marmo, oro e zaffiri sarebbe il riconoscimento dell'intervento di De Pedis per interrompere il ricatto al Vaticano.
«È verosimile. La tomba come sigillo che una grave vicenda è finita, con soddisfazione delle parti».
La nuova testimone, però, sostiene anche che il mandante del sequestro potrebbe essere Marcinkus.
«Qui si abbandona la logica e si passa alla fantasia. Come quando fu ipotizzato che nella tomba di De Pedis possa celarsi anche il corpo della Orlandi ».

l’Unità 24.6.08
Il Novecento in rosso della mia Albania
di Maria Serena Palieri


Un romanzo corale. Racconta storie a volte d’una crudeltà straziante a volte esilaranti
In primo piano due donne, Saba e Dora

ANILDA IBRAHIMI è l’autrice di una notevole opera d’esordio, Rosso come una sposa. È la saga al femminile e lunga un secolo d’una famiglia albanese, da re Zog a Enver Hoxha a oggi. Lei è nata a Valona ma ha scritto in italiano. Ci spiega perché

«Comunismo», «comunista». Quando Anilda Ibrahimi usa, in italiano, queste parole, non ci senti né il sottofondo di quel «gumunisti», l’appellativo-esorcismo del presidente del Consiglio, né la sonorità un po’ snob con cui, questi stessi termini, li usa Oliviero Diliberto. Trentaseienne nata a Valona in Albania e, con Rosso come una sposa (Einaudi, pp. 261, euro 16), al suo esordio da romanziera nella nostra lingua, Anilda dice cosa è stato concretamente il «comunismo», nella vita sua e della sua famiglia, e dice che oggi si sente, o non si sente, «comunista», per un sentimento o per un pensiero che, dentro di sé, coltiva. Insomma, a questi termini restituisce esperienza e, purgandoli dell’ideologia, in un certo senso innocenza. In Rosso come una sposa - gran bell’esordio narrativo - Anilda Ibrahimi racconta la vicenda di una famiglia albanese ad altissimo tasso femminile, dai primi del Novecento a oggi, cioè da re Zog a Enver Hoxha a Berisha. È un romanzo corale e racconta storie a volte di una crudeltà straziante a volte esilaranti. In primo piano due donne, Saba e Dora: la prima è una quindicenne sventurata costretta, nell’Albania monarchica, a sposare il vedovo di sua sorella, ha una serie di fratelli sterminati dai nazisti, poi è una matriarca saggia che affronta con apertura l’emancipazione che il regime di Hoxha, dopo il ‘46, regala alle donne esaltate come «forza della rivoluzione» e, dopo la fine del regime, è un’anziana che si ubriaca di tutte le religioni di nuovo ammesse, Islam, ebraismo, cristianesimo. Dora, sua nipote, alter ego della stessa Anilda, è protagonista, invece, del terremoto che segue al crollo del Muro ed è la prima a espatriare da un paese vissuto, al centro dell’Europa, per quarantaquattro anni, in un pazzesco isolamento totale. Anilda Ibrahimi, sposata a un italiano, due figli, Sara adolescente e Davide in età da asilo, è stata giornalista, dopo una prima esperienza in Svizzera è arrivata in Italia da Valona nel ‘97, mentre l’Albania viveva il caos delle cosiddette «piramidi finanziarie», e ha partecipato con i suoi versi a due raccolte, Cittadini della poesia (Loggia de’Lanzi) e Lingue di terra e lingue di mare (Mesogea). È, nel fisico, asciutta, torrenziale nell’eloquio.
«Rosso come una sposa» racconta la vera storia della sua famiglia? Oppure sono un’invenzione le vicende del clan Buronja: la capostipite Meliha, sua figlia Sultana e il suo matrimonio brevissimo con il marito Omer, Saba che la rimpiazza in quel letto, le sorelle Bedena, crudele, ed Esma punita perché troppo innamorata del marito?
«La verità che ho voluto rendere è stata l’atmosfera. Volevo ricostruire quelle fratture, nei ricordi, che vivo perché migrante: chi affronta un processo di migrazione sente che i suoi ricordi appartengono a “un’altra vita”. Volevo far rivivere le donne del mio paese, dai primi del Novecento in poi e, che si trattasse di ricordi ascoltati in famiglia, o per strada, non importava. Sono cresciuta in un gineceo, mia nonna aveva davvero cinque sorelle, mio padre sei. Ho voluto restituire, sulla pagina, a quelle donne il potere che detenevano, benché nascosto, in casa. Non so cosa si sapesse un tempo, fuori, dell’Albania...»
Niente. Si sapeva che negli anni Settanta certi ragazzi ardimentosi che decidevano di arrivare in Grecia dall’Italia in moto, e di farlo passando di lì, dovevano tagliarsi la barba, requisito richiesto dal vostro governo per farli entrare. Ci levi finalmente una curiosità: perché il taglio della barba?
«Credo si trattasse di una questione di uniformità: dovevamo essere tutti uguali e tutti puliti. Anche i jeans venivano tagliati, quelli perché erano simbolo del capitalismo. A me, l’uniforme a scuola piaceva. Ora, in Italia, ogni mattina assisto a un défilé, quando mia figlia adolescente si veste. Non amo, qui, la mancanza di rispetto per l’istituzione-scuola. In questo sono molto comunista».
Torniamo al romanzo. Che è scritto nella prima parte in terza persona, nella successiva in prima. Perché?
«Perché volevo arrivare, con la narrazione, ai giorni nostri, raccontare cioè prima quel mondo arretrato, contadino, e poi il suo scompiglio. Il primo disordine esplode quando Saba lascia il villaggio e va in città, il secondo quando sua nipote Dora va a Tirana, all’università, poi espatria. È un mondo arcaico che schiude le porte e si apre. Da lettrice non amo la prima persona, quando lo scrittore scrive “io” mi sembra che voglia raccontarmi i suoi pensierini, ciò che ha nella zucca invece di ciò che ha visto. Ma, arrivata al passato più recente, ho capito che ero molto coinvolta, allora ho deciso di concedermi l’”io”, però usando un nome fittizio, Dora appunto».
Lei non è la prima albanese a scrivere in italiano, già l’hanno fatto, per dire due nomi, Ornela Vorpsi e Ron Kubati. E sembra che la scommessa vi riesca facile, se Vorpsi ha vinto il Grinzane Esordienti e Kubati quest’anno è entrato nella dozzina dello Strega. Quanto a lei perché ha scelto la nostra lingua?
«Se avessi scritto in albanese, avrei fatto l’equivalente di quei contadini siciliani emigrati negli Usa e tornati in Italia coi soldi per realizzare il sogno, comprare calesse e muli, ma che poi si accorgevano che qui, ormai, tutti giravano in Mercedes. Vivo da undici anni a Roma e l’albanese non è più la “mia” lingua, le lingue evolvono, i significati cambiano. Perciò ho scelto l’italiano».
Pensa che l’italiano fosse la lingua adatta a rendere, quanto la sua d’origine, tutte le sfumature della cultura patriarcale e maschilista?
«A pensarci, sì».
C’è una parola albanese, che lei usa nel romanzo a più riprese: «kurva». Non spiega cosa significhi, ma si capisce...
«Puttana, puttanella. Mi è tornata nell’anima con la potenza con cui l’ho vissuta nell’infanzia. La pulizia morale delle donne era “il” valore. Da sempre, di generazione in generazione. È l’unica educazione sentimentale che ho ricevuto».
Il romanzo racconta alcune storie concernenti questa «pulizia»: sotto Enver Hoxha, per esempio, quella delle ragazze madri separate dai figli e imprigionate in campagna. Non le trova crudeli?
«È la crudeltà della società mediterranea, per la quale la sessualità femminile non mira al piacere, ma alla procreazione. Questa storia l’ho raccontata anche per far capire che il comunismo non era uno solo, erano tanti e diversi: amiche russe o rumene mi hanno detto che da loro le ragazze madri vivevano liberamente. Questo saldarsi del comunismo, da noi, con una tradizione millennaria è stata la forza che ha tenuto il nostro Paese chiuso al mondo per quarant’anni».
Ma lei oggi si definirebbe «comunista»?
«In senso stretto sì, siamo cresciuti a Marx e materialismo dialettico. Nel libro ho voluto raccontare come la nostra fosse anche una vita normale, con la sua speranza. In quegli anni è stato alfabetizzato un intero popolo. È stata sradicata la “vendetta di sangue”, quella barbarie che oggi, nel nord dell’Albania, è tornata: ci sono di nuovo bambini maschi rinserrati in casa per il terrore che, se escono, paghino con la morte il debito criminale della propria famiglia. In quegli anni, come mi raccontava mia nonna, il cui vero nome era Saliha, le donne hanno vissuto una felicità legata alla nuova libertà di uscire di casa, studiare, lavorare, avere dignità propria e qualche soldo. Ma certo parlo con l’esperienza di chi era “dalla parte giusta”, aveva i familiari “eroi”, morti per mano nazista. Per chi era “dall’altra parte” c’erano carcere, internamenti, e sono dolori da rispettare».
Non le sembra che l’idea stessa di comunismo abbia in sé un elemento totalitario?
«Certo, era una dittatura. Fosse del proletariato o no, era tale. Però mi chiedo che libertà sia quella che si vive in Italia. Sei precario a vita e non puoi sposarti, fare figli e progetti. Sei vittima di un delinquente e lo vedi tornare libero dopo due mesi. In Italia c’è solo libertà di chiacchiera».
Ricorda quale sentimento provò quando, nel 1993, uscì per la prima volta dal suo Paese?
«Lo stupore di un bambino cresciuto in un paesone di tre milioni di abitanti, che arriva in città. La Svizzera mi sembrò, col suo ordine, un’Albania benestante».
E invece su quale spinta, nel 1997, arrivò in Italia?
«Dovetti fuggire. Ero tornata in Albania e mi ero reinserita bene, scrivevo per Il nostro tempo, il giornale più venduto all’epoca. Avevo fatto dei reportage sulla mafia di Valona, sugli scafisti e il traffico di cannabis. E quando successe il disastro delle “piramidi finanziarie” ed esplose la truffa che resta ancora un enigma - mafia, armi, denaro sporco? - e che lasciò in povertà la maggioranza degli albanesi, ho visto la pazzia vera del mio popolo. C’erano i manifestanti che invocavano il protettorato mussoliniano, dicevano “basta, vogliamo diventare una colonia italiana”. Noi giornalisti siamo dovuti fuggire. Così sono arrivata a Lecce».
Gli albanesi oggi hanno ancora il mito dell’Italia, del «dove c’è Barilla c’è casa»...?
«No, hanno quello dell’America. Che sceglie. Accetta solo i migliori, gli intellettuali. E, anziché discriminarli, li integra, lì gli albanesi fanno i medici e gli ingegneri».

l’Unità 24.6.08
Michelangelo Pistoletto ci racconta la Sardegna di ieri e di domani
di f.o.


L’arte che si avvicina all’impresa, intrecciando tradizione, innovazione e sostenibilità ambientale. È l’idea contemporanea della fabbrica di matrice olivettiana, dove il luogo di lavoro diventa a misura d’uomo. È stata realizzata nel campus di Tiscali, l’azienda di telecomunicazioni fondata da Renato Soru alle porte di Cagliari, dove artisti di fama internazionale, come Olafur Eliasson, Alberto Garutti, Grazia Toderi, Pinuccio Sciola e Maria Lai, hanno raccontato un’idea di Sardegna tra passato e futuro. La grande installazione di Michelangelo Pistoletto è l’ultimo gioiello che ha arricchito la collezione, visitabile per ora solo dalle scolaresche ma presto aperta al pubblico in alcune occasioni.
«Tutto il campus - spiega la curatrice del progetto Gail Cochrane - è stato pensato cercando di unire l’innovazione dell’impresa di telecomunicazioni con le radici dell’isola. L’arte contemporanea era quindi il linguaggio più adatto con opere che da un lato esaltassero lo scenario naturale e dall’altro curassero la bellezza degli occhi e della mente».
Modernità e tradizione regalano al luogo una forte identità, per una fotografia di un’isola dalle radici ben salde ma in grado di accogliere il futuro. E l’equilibrio con la natura e la forza dei segni sembrano essere il filo conduttore. Come nel monumentale Ipertesto di Pistoletto: situato lungo il camminamento interno che collega gli edifici, racchiude tutti i campi del sapere in ambienti delimitati da grandi portali, luoghi contemplativi con grandi specchi che riflettono la centralità dell’individuo in equilibrio con la realtà circostante.
O come nell’installazione Quanti mari navigare, geografia metaforica di Maria Lai realizzata con tutti i tipi di sabbia delle spiagge, collegate da fili e simboli femminili, echi dell’antica mater sarda. L’acqua, elemento che caratterizza l’isola e il campus di Tiscali, racchiusa tra la laguna di Santa Gilla e il porto canale, si trasforma in nebbia con la suggestiva Fog Doughnut di Olafur Eliasson, un enorme spirale d’acciaio che emette vapore o disegna lo spazio con suggestivi giochi come nell’irrigatore di Alberto Garutti, per un’arte funzionale al luogo.
La pietra, sconvolgendo il principio che la vuole materia uguale e immobile, si trasfigura in musica con il monolite creato da Pinuccio Sciola, oggetto pulsante di vita propria. La video installazione di Grazia Toderi, mostra invece una ripresa aerea di Cagliari e del campus, con suoni evocativi che richiamano alla realtà virtuale del web.

l’Unità Roma 24.6.08
Il sospetto di femminicidio
La tragedia di Lolly e la morte di Laura Marx
di Adele Cambria


«Sano di corpo e di spirito, mi uccido prima che la spietata vecchiaia che mi toglie, uno ad uno, le gioie e i piaceri dell’esistenza, e che spoglia le mie forze fisiche ed intellettuali, paralizzi la mia energia e spezzi la mia volontà, facendo di me un peso a me stesso e agli altri. Da anni mi sono ripromesso di non superare i settant’anni: ho fissato l’epoca e ho preparato il modo d’esecuzione della mia scelta: una iniezione di acido cianidrico... Paul Lafargue»
Questo il testamento lasciato nel 1911 da Paul Lafargue, un celebre intellettuale, teorico e militante socialista del diciannovesimo secolo; dal socialismo di Proudhon della prima giovinezza, dopo avere incontrato nel 1865 Carlo Marx, Lafargue, nato a Cuba e studente a Parigi, passa al socialismo scientifico e per aver partecipato a Liegi all’Internazionale degli Studenti viene radiato da tutte le università francesi. E per questa ragione, per strano che possa sembrare, Carlo Marx gli nega, in un primo momento, la mano della propria figlia Laura, di cui si era innamorato. «Stando così le cose - gli aveva scritto in una memorabile lettera - per dare inizio alla vita con mia figlia, siete destinato a contare sull’aiuto altrui… Ed un realista “di professione” come voi, non può pensare che io mi comporti da idealista, trattandosi dell’avvenire di mia figlia. Una persona come voi, che vuole abolire la povertà, non può certo desiderare di scaricarla tutta sulle spalle della mia bambina».
Laura e Paul comunque si sposarono a Londra (con il matrimonio civile, ma ai vicini di casa della famiglia Marx fu detto che essendo Lafargue cattolico e Laura protestante non avrebbero potuto sposarsi in chiesa); ed ebbero una vita agiata, se non addirittura lussuosa nella loro casa parigina. Dove in un giorno di novembre del 1911 furono trovati morti entrambi: Paul Lafargue disteso sul letto ed elegantemente abbigliato, Laura, che di anni ne aveva 66 e non 70, compostamente seduta in poltrona. Il testamento dell’autore di quel pamphlet famoso ancora oggi, «Il diritto all’ozio», non recava alcun accenno a Laura Marx, e nessuno si chiese se lei avesse condiviso la scelta finale del marito. Lenin, che pronunciò l’orazione funebre sulla loro tomba, non la nominò neppure.
E fino agli anni Settanta del secolo scorso - e all’emersione in Occidente del movimento femminista - nessuno aveva trovato bizzarra la presenza di quella "vedova indiana" nel cuore della dinastia fondante del socialismo.
….Non c’è niente, lo so - tranne gli interrogativi, non pronunciati e non pronunciabili per settant’anni sulla sua scelta di morire insieme al proprio autorevolissimo compagno - che possa ricordare la fine di Laura Lafargue-Marx, nella morte atroce di questa ragazza pugliese di 25 anni, Loredana Benincasa, trovata sgozzata in una villetta bifamiliare sulla Trionfale, accanto al fidanzato, Niccolò Di Stefano, ventiquattrenne. Che tuttavia non è morto - ed anzi secondo i medici si salverà - nel doppio suicidio annunciato dal sintetico «testamento» della coppia. «Speriamo di non avervi deluso - recita il biglietto - siamo stanchi, perdonateci. Addio. Lasciateci insieme». L’hanno firmato tutt’e due, Niccolò e Loredana, ma soltanto una perizia calligrafica potrà accertare se la firma di lei è autentica.
In un primo momento c’è stato chi, professionalmente ineccepibile come Luigi Cancrini, ha azzardato una diagnosi di disagio giovanile, quel «non riconoscersi in un mondo che evidentemente non ritengono adatto ad accogliere i loro figli». E ciò nonostante la situazione materiale della coppia, affettuosamente accolta in un appartamento indipendente della villetta dai genitori di lui, e perciò meno esposta all’ansia di una vita precaria.
Ma se, al contrario, come pensano i familiari della ragazza, lei aveva voglia di vivere, un lavoro in vista, una laurea, e considerava esaurita la relazione con Niccolò, allora si tratterebbe soltanto dell’ennesimo «femminicidio», eseguito dall’ennesimo partner maschile troppo fragile (e violento) per accettare l’abbandono.

Corriere della Sera 24.6.08
Triplicate le vendite. L'editore lo rilancia: «Spiega meglio di ogni altro testo l'economia»
In Germania torna di moda «Il Capitale» di Marx


BERLINO — Sempre più tedeschi ne sono convinti: il capitalismo, in fondo, lo spiega ancora meglio Marx di tanti teorici moderni, confusi da globalizzazione e mercati aperti. «Marx è tornato di moda», ha detto ieri Jörn Schütrumpf alla Süddeutsche Zeitung. Con una certa tristezza e un po' di preoccupazione: non perché non gli piaccia il grande pensatore tedesco, ma perché non va d'accordo con le mode.
Schütrumpf dirige la casa editrice Karl Dietz di Berlino, erede della Dietz controllata dal partito comunista negli anni della Germania Est, e sta cercando di capire da dove venga la domanda crescente, e sorprendente, di testi marxisti, soprattutto del Capitale. Vorrebbe sapere — come gli avrebbe suggerito il filosofo ed economista di cui pubblica le opere — fino a che punto fare crescere l'offerta. Il fatto è che, sino a cinque anni fa, vendeva un paio di centinaia di volumi del Capitale
all'anno. Alla fine del 2007, si è accorto di avere raddoppiato le vendite rispetto al 2006. Lo scorso maggio, ha triplicato rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. Nel 2008, si avvia verso le duemila copie. Numero che non lo farà andare in testa ai bestseller ma che è il segno di un ritorno di interesse inaspettato in Karl Marx.
Anche perché, negli anni passati, le poche copie dei due volumi di Das Kapital rilegati in blu erano vendute quasi esclusivamente in marzo e in ottobre, agli studenti che iniziavano il semestre universitario. Ora si vendono tutto l'anno. Segno di un interesse generale, non più limitato all'accademia. La teoria di Schütrumpf è che, di fronte alle domande poste dal capitalismo globale e di fronte alle letture raramente convincenti che ne danno filosofi, economisti e politici, molti tedeschi tornino a Marx (e ovviamente a Engels) per cercare lumi. Non è detto che ci riescano, l'opera non è aggiornatissima. Ed è proprio la stabilità di questo nuovo interesse a impensierire l'editore. I due volumi del Capitale vengono venduti a 19,90 euro, poca cosa se si considera che la dimensione e la buona qualità della rilegatura tengono alti i costi di produzione (per risparmiare, vengono stampati nella Repubblica Ceca). Sbagliare i calcoli sarebbe un guaio serio per una casa editrice piccola. Il dubbio, dunque: fidarsi ancora di Karl Marx?
«Pensavamo di avere finito la nostra corsa nel XX secolo, pensavamo di non avere più nulla a che fare con il presente», ammette Schütrumpf. Da qui un certo disorientamento. Il fenomeno Capitale, però, non è il solo segno di un ritorno di Marx in Germania. La crescita politica della Linke, il partito alla sinistra dei socialdemocratici tedeschi, si porta dietro una rivalutazione del pensiero marxista, oltre che degli scritti di Rosa Luxemburg, anch'ella pubblicata dalla Karl Dietz.
E a Chemnitz, città della ex Germania Est che tra il 1951 e il 1990 si è chiamata Karl-Marx-Stadt, da qualche settimana la folla fa la coda per salire sulle impalcature innalzate attorno al famoso busto del filosofo (11 metri) e poterlo guardare negli occhi. Chissà se, almeno a loro, fa capire dove sta andando il capitalismo.È il padre del comunismo Danilo Taino

Corriere della Sera 24.6.08
I 100 intellettuali più influenti del pianeta secondo due riviste, americana e inglese
Top Ten del pensiero: tutti musulmani
Vince Fethullah Gülen. Chomsky undicesimo, primo degli occidentali
di Cecilia Zecchinelli


Nove anni fa, mancava poco all'inizio del nuovo millennio, centinaia di migliaia di fax, lettere, email si riversano sulle scrivanie di Time Magazine
sostenendo che l'«uomo del secolo» era senza il minimo dubbio Mustafa Kemal, detto Atatürk. Perfino nella categoria «musica», il Padre della Patria ottenne più voti di Bob Dylan. Che poi la rivista americana abbia deciso di attribuire ad Albert Einstein l'onore (e la copertina del 31 dicembre 1999) non sembra aver demoralizzato i turchi. Tanto che il nuovo sondaggio lanciato in aprile da due pubblicazioni prestigiose seppur meno popolari — la statunitense Foreign Policy e la britannica Prospect — si è chiuso ieri con un risultato decisamente inatteso ma (a posteriori) spiegabile.
Alla domanda «chi sono oggi i 100 intellettuali più influenti del pianeta?», i 500mila e oltre che hanno risposto nel mondo hanno scelto come Numero Uno un nome sconosciuto a (quasi) tutti: Fethullah Gülen. E dopo di lui, nella Top Ten, seguono solo pensatori musulmani. Per trovare intellettuali occidentali si deve arrivare all'undicesimo posto (il linguista liberal americano Noam Chomsky, già vincitore del primo analogo sondaggio nel 2005), seguito dall'(ex) politico oggi ecologista Usa Al Gore, dall'orientalista ebreo anglo- americano Bernard Lewis, da Umberto Eco (14˚e unico italiano insieme al giornalista Gianni Riotta, 79˚).
In realtà, dice al Corriere
uno dei maggiori esperti di Islam, il francese Olivier Roy (piazzatosi 66˚),Gülen è tutt'altro che uno sconosciuto: «Sufi, sostenitore di una religione moderata e con forti valenze sociali, carismatico al punto di essere quasi un guru — dice Roy — ha milioni di seguaci in Turchia e non solo. Ha aperto scuole in Asia Centrale e nel Caucaso, scritto 60 opere di successo, incontrato Giovanni Paolo II: nel suo universo è ormai una celebrità ».
Ma anche al di fuori del loro universo, leggi in Occidente, sono molto conosciuti altri nomi tra i primi dieci. Dal «banchiere dei poveri» e inventore del microcredito, l'economista del Bangladesh Muhammad Yunus (arrivato secondo), al telepredicatore di Al Jazeera nonché presidente del Consiglio mondiale delle Fatwa, l'egiziano Yusuf Al Qaradawi (terzo). Dallo scrittore e premio Nobel Orhan Pamuk (un altro turco, per altro musulmano solo di nascita), classificatosi quarto, al controverso teologo e accademico svizzero-egiziano Tariq Ramadan (ottavo) fino alla prima donna degli eletti, decima, ovvero l'avvocatessa e anche lei premio Nobel, l'iraniana (per altro laica) Shirin Ebadi.
«È vero, siamo stati sorpresi: all'inizio le preferenze si erano concentrate sullo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa e sull'ex campione di scacchi e oggi dissidente russo Garry Kasparov, poi è arrivata la valanga di voti a favore di Gülen e abbiamo pensato a una manipolazione elettronica del sondaggio — ci dice Tom Nuttall, il caporedattore di Prospect che ha seguito il progetto —. Ma abbiamo controllato, ed era tutto regolare. E abbiamo scoperto che è stata la pubblicità alla nostra iniziativa sul primo quotidiano turco, Zaman, vicino al movimento di Gülen, che ha scatenato la risposta compatta dei suoi innumerevoli seguaci. Visto che ognuno poteva indicare cinque nomi, tra i cento che noi e Foreign Policy avevamo indicato, è logico pensare che chi ha scelto Gülen abbia votato per altri musulmani».
Spiegazione solo parziale, però. Perché al di là della religione d'origine (l'islam, appunto) tra il laico Pamuk e l'integralista Al Qaradawi ci sono abissi che non esistono — ad esempio — tra gli economisti Amartya Sen (16˚),Jeffrey Sachs (48˚)e lo stesso Yunus, di tre diverse religioni sulla carta ma con molto in comune. «E il sondaggio prova infatti che la mia teoria di un Islam globalizzato è fondata — continua Olivier Roy, autore di Global Muslim: le radici occidentali nel nuovo Islam (Feltrinelli, 2003) —. Nei Paesi musulmani esiste oggi una Umma, una comunità virtuale con posizioni molto differenti al suo interno tanto che abbiamo chi vota Gülen e chi sceglie Hirsi Ali (15˚nel sondaggio), ma con una grande attività su Internet. E non solo sui siti musulmani o locali, ma su quelli dell'Occidente, di tutto il mondo».
Persone di età e posizioni politiche diverse che in genere non si riconoscono nei regimi al potere nei loro Paesi, ma nemmeno nel laicismo militante dei nostri, che parlano più lingue, che vogliono far sentire la loro voce con un'energia decisamente superiore (soprattutto in Turchia) di quanto non avvenga (almeno in questa fase) tra gli stanchi e disincantati cittadini d'Europa. «Al di là dell'evidente stortura della vittoria di Gülen — conclude Roy — il sondaggio dimostra pure, se ce ne fosse ancora bisogno, quanto sia errata la teoria dello "scontro di civiltà" di Samuel Huntington (28˚ in questa speciale classifica). Con l'eccezione forse di Al Qaradawi, i vincitori sono tutti per il dialogo».

Repubblica 24.6.08
L’elettrochoc antisemita
Settanta anni fa le leggi razziali italiane. Obiettivo: l’uomo nuovo fascista
di Susanna Nirenstein


Parla Marie-Anne Matard-Bonucci: "Così Mussolini voleva rivitalizzare il regime totalitario e trasformare il carattere della popolazione"
Un saggio della studiosa francese sottolinea la mèta del dittatore: trasformare i cittadini in uomini capaci di odiare il nemico
Il Duce nel costruire ex-novo la dottrina antiebraica nostrana, pensa al successo di Hitler, ma vuol presentarla come ideologia made-in-Italy

Il 15 luglio 1938, esattamente settanta anni fa, sul Giornale d´Italia usciva un testo anonimo poi passato alla storia come il Manifesto della razza, redatto, come si seppe pochi giorni dopo, da dieci scienziati, voluto dal Capo, il Duce. Il 25 luglio il Partito fascista fa sua ufficialmente l´idea che gli «ebrei non appartengono alla razza italiana». Il 5 settembre partono i primi provvedimenti antisemiti; leggi dure, più ancora di quelle naziste di Norimberga. I bambini e i ragazzi ebrei vengono espulsi dalle scuole, e così i professori; molti professioni e impieghi sono vietati; il patrimonio limitato, più tardi proibito e espropriato; gli ebrei stranieri, in gran parte rifugiati, costretti ad andarsene. Lo scandalo avrebbe dovuto essere enorme: non sono dispositivi lievi, «all´italiana», «di facciata». Invece non vi furono proteste, se non quelle degli ebrei. La normativa antisemita applicata meticolosamente, porterà alla miseria, all´emigrazione, al suicidio; il tragitto si concluderà con la deportazione e la morte di 7.658 ebrei, un quarto di una comunità di 32.200 persone presenti nel ‘43, contando quelli delle isole del mar Egeo sotto il dominio fascista. Questi, in pochissime e scarne parole, i fatti.
Ma passiamo alle considerazioni. Come fu possibile una svolta tanto brutale che colpiva, con rapidità ed efficienza, una collettività così profondamente integrata? Gli ebrei, dall´Unità in poi, avevano partecipato attivamente e con soddisfazione reciproca alla vita dello Stato, alle guerre, alla cultura, all´economia. E perché poi una popolazione non ostile agli ebrei, fu testimone silenziosa e spesso complice dell´esclusione e della vessazione? Domande universali, le stesse a cui vuole dare risposta Marie-Anne Matard-Bonucci, docente all´Università di Grenoble II, nel suo L´Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (il Mulino, pagg. 514, euro 29). Il cuore del suo ragionamento è che il «momento antisemita» italiano, in rottura netta con la tradizione liberale ed anche con quella fascista, rispose alle necessità congiunturali di un regime, in affanno di consenso, che aveva bisogno di rivitalizzare la dinamica totalitaria con una mobilitazione aggressiva diretta a creare l´uomo nuovo fascista.
Professoressa, le leggi nacquero oppure no da un sostrato antisemita già presente nei geni del fascismo come ha sostenuto lo storico Michele Sarfatti?
«Dopo l´Unità d´Italia, la storia degli ebrei è più che altro una storia di integrazione. I sentimenti avversi esistono, ma sono molto meno importanti che in altri paesi. Il fascismo non è antisemita né quando arriva al potere, né nei suoi programmi successivi, se non nelle frange estreme. Persino un antisemita filotedesco come Giulio Cogni, nel ‘36-´37, scrive che l´antisemitismo è inimmaginabile in Italia. Chi avesse nutrito un´ideologia del genere, semplicemente non sarebbe stato in linea col Partito. Sarfatti ha dato un contributo notevole alla storia dell´antisemitismo fascista, ma insiste su una continuità ideologica su cui non sono d´accordo».
Allora lei si sente più vicina a De Felice, che poneva l´accento sulla decisione di Mussolini di dare una "coscienza razziale" all´Italia per trasformarla in una "grande potenza" formata da cittadini che si sentissero "superiori" e determinati ad imporsi con la forza?
«De Felice ha scritto il primo fondamentale libro di storia dell´antisemitismo fascista, ma forse ha sottovalutato l´importanza e la durezza dell´applicazione delle norme e della persecuzione. A volte riprende gli argomenti spesi dagli stessi fascisti nel ‘38, come quello della continuità dell´antisemitismo con il razzismo coloniale».
Furono due fenomeni separati?
«Credo che la grave politica applicata in Etiopia da un punto di vista ideologico appartenga a un altro registro. Contro i neri si sviluppa una teoria di inferiorità dell´altro. Nell´antisemitismo c´è una spinta diversa, la paura dell´altro, visto come un uguale, anzi, quasi superiore. I due razzismi si avvicinano (e qui concordo con De Felice) solo perché vogliono trasformare il carattere dei cittadini, compiere una rivoluzione antropologica e fabbricare l´italiano nuovo, capace, come dice Mussolini, di "odiare il nemico". Un aspetto che ritroviamo nella lotta al "pietismo" verso gli ebrei: chi veniva considerato un "pietista", chi dimostrava qualche solidarietà, era buttato fuori dal Partito».
Quanto influì invece la Germania?
«Penso che il suo peso sia stato sottovalutato. E´ vero che Berlino non fece pressioni, ma già nel ‘36 la fascinazione per la Germania è forte. L´Italia nel costruire l´antisemitismo di stato pensa al successo che questo aveva avuto e aveva in Germania, anche se vuole presentarlo come un´ideologia made in Italy. Al contrario c´è una sorta di trasposizione culturale e solo poco a poco, con il concorso degli intellettuali e dei politici che si sentono chiamati a un compito prioritario, si definirà una dottrina italiana. All´inizio si guarda alla Germania».
Le leggi furono più dure di quelle di Norimberga. Perché?
«Per la volontà di radicalizzare il sistema politico, di creare una società totalitaria, di avere degli italiani capaci di tagliare i legami affettivi, professionali e mettersi nella posizione dei persecutori. Per la determinazione di chiudere con una tradizione di umanitarismo, per trasformare, ripeto, il carattere della popolazione. Mussolini è stato in Germania ed è tornato impressionato dalla velocità del cambiamento, dalla compattezza della società: allora decide di accelerare la metamorfosi del suo paese con una specie di elettrochoc. E, questo è il fatto "straordinario", il suo messaggio, nel regime totalitario, funziona: in poco tempo gli ebrei diventano dei paria».
Alcuni storici lo giudicano un totalitarismo imperfetto, dove accanto al Duce ci sono comunque un Papa e un Re.
«Non era perfetto, compiuto, ma il progetto totalitario di Mussolini era chiaro: concepito fin dalle origini, ebbe fasi alterne. Lo stesso Mussolini alla fine rimpiangeva di non aver trasformato come voleva il popolo italiano e vedeva nella Chiesa uno dei fattori frenanti più forti. Comunque né il Papa né il Re si opposero alle leggi razziali, e questa per il fascismo fu una vittoria su Vaticano e monarchia».
Le leggi furono declinate secondo un parametro biologico, come quelle tedesche. Ma si prevedevano i "discriminati", i meno colpiti, per meriti patriottici. Come si combinano le due cose, l´anima biologica e quella ideale, che si rifaceva alla storia comune, alle guerre?
«I discriminati ci dicono delle difficoltà che il regime sentiva di avere. L´impostazione biologica all´inizio è quella prevalente. Poi gli intellettuali cercano di appropriarsi del discorso razziale declinandolo in vari modi, meno tedeschi: l´importante è allinearsi, partecipando attivamente. Evola, pur riferendosi a quello biologico, imposta un razzismo "spirituale" più vicino al progetto di rivoluzione antropologica. Altri, come Giacomo Acerbo e Vincenzo Mazzei, lo rivestono di nazionalismo. Altri ancora cercano i fondamenti nella tradizione cattolica».
Quanto contò il secolare antigiudaismo cattolico?
«Poco o niente nella decisione. Molto per la tradizione culturale su cui si sarebbe potuto contare in seguito. Sarebbe assurdo affermare che l´antisemitismo sia arrivato su un terreno vergine. Nel momento delle leggi però, al contrario, ci fu la volontà di chiudere con l´umanitarismo cattolico».
La propaganda, lei racconta, si fermò quasi subito, nei primi mesi del ‘39. Come mai?
«Perché l´antisemitismo del ‘38 è strumentale, serve a rilanciare la macchina totalitaria. Dopo si presentano altri fronti, e ben presto la guerra. L´argomento sembra esaurito, anche perché non era mai stato concepito per mobilitare le masse, ma piuttosto le élite».
Il segno di riconoscimento. Lei sottolinea che la stella gialla non fu imposta per «paura di una riprovazione pubblica». Dunque la coesione conquistata da Mussolini non era così totale.
«Capire cosa pensava la gente è sempre difficile. I rendiconti dei prefetti lasciano intravedere la perplessità della popolazione. La società non ancora come Mussolini desiderava. Per questo la vuole trasformare. Dovete imparare a odiare il nemico, dice, lo ripeto: e nel ‘37-´38 l´ebreo è il solo nemico pensabile perché tutta l´Europa di destra lo sta disegnando come tale. L´altro nemico non c´è più: o è in carcere, o al confino, o all´estero».
Gli italiani accettarono le leggi e le applicarono.
«La società aveva capito che l´antisemitismo era una scelta politica importante a cui non ci si poteva opporre. Era un passo identitario per il regime e si impose per la sua forza definitiva e spietata».
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Repubblica 24.6.08
Praga 68. La settimana che ci cambiò per sempre
di Milan Kundera


"Ci sono paesi che vantano le loro conquiste e paesi che invece possono vantarsi per non aver mai conquistato niente e nessuno" "Lettera internazionale" pubblica un dossier dedicato all´invasione della Cecoslovacchia
Vogliamo mostrare quante potenzialità democratiche si sviluppano nel socialismo
Il nostro paese non si distingue per spirito romantico, ma per sobrietà e umorismo
Gli avvenimenti di agosto hanno gettato una luce nuova su tutta la nostra storia

Era il 24 agosto ed ero a casa del padre di un mio amico. Da lontano si sentiva sparare, sul tavolo c´era una radiolina accesa; e io guardavo distrattamente l´antica biblioteca di casa, finché alla fine ho tirato fuori un libro scritto nel 1633 da Pavel Stránsky: Sullo Stato ceco. E ho letto: «Se si domanda a un esperto di questioni ceche se i paesi cechi siano un alleato per scelta contrattuale dell´impero tedesco, oppure un paese feudale e vassallo, egli sosterrà con fermezza che i paesi cechi sono amici dei tedeschi, uniti a loro da antichissima alleanza, più che loro servitori o protetti». (...)
Gli spari oltre le finestre riportavano la mia attenzione al momento presente, mentre le frasi di Pavel Stránsky mi sospingevano tra le braccia della storia ceca, riportandomi alla sua infinita lontananza, avvertendomi però che continuiamo a vivere sempre la stessa storia nazionale, con la sua «eterna» problematica, con l´incessante conflitto tra alleanza e sovranità, con una sovranità ricercata costantemente e non raggiunta e la lotta continua per ottenerla, e che quindi i colpi che sentivo non erano solo un fulmine a ciel sereno, uno choc, un´assurdità: in essi non faceva altro che realizzarsi, ancora una volta, l´antichissimo destino ceco. (...)
Quest´agosto ha gettato una luce nuova su tutta la nostra storia. Non che lo scetticismo sul carattere ceco sia venuto meno, ma è stato integrato da un altro punto di vista, di segno opposto: sì, la nazione ceca ha oramai perduto la continuità diretta con l´eroica tradizione della mazza ferrata di Zizka ma, oltre a questo, l´hussitismo sta a significare che la tradizione di un popolo nel quale «ogni vecchietta conosce le Sacre Scritture meglio di un prete italiano» è di casa ancora oggi, e questa tradizione, da noi, vuol dire istruzione e spirito riflessivo.

Sì, il risorgimento ceco, invece della grande politica, ha conosciuto solo la spicciola educazione popolare; per esso l´arma principale della lotta nazionale erano il teatro amatoriale, le canzoni e i versi; sì, l´arte ceca è stata aggiogata al carro traballante dell´educazione nazionale, ma è anche vero che in questo modo il popolo ceco, fin dall´inizio della sua nuova esistenza, è stato legato alla cultura in modo fatale come pochi popoli europei, tanto che in questa metà dell´Europa è il popolo di gran lunga più pensante e istruito che non si lascia infinocchiare da nessuna propaganda da quattro soldi.
Sì, è vero che la nazione ceca nel secolo scorso è rimasta ai margini dei grandi conflitti europei; ma è vero pure che a quel tempo è riuscita a fare una cosa enorme: da popolazione semianalfabeta, seminazionalizzata, si è trasformata di nuovo in nazione europea, e contro i tentativi continui di germanizzazione, contro le intenzioni del potere cui era sottomessa, da allora è capace di dare il meglio di sé proprio quando i tempi sono più sfavorevoli.
Sì, è vero che la nazione ceca non si distingue per eroico spirito romantico, ma è vero pure che il rovescio di questa mancanza di romanticismo e di eroismo consiste nella sobrietà intellettuale, nel senso dell´umorismo e nello spirito critico con cui essa guarda anche a se stessa, tanto da essere una delle nazioni meno scioviniste d´Europa. Se il suo orgoglio nazionale si solleva sdegnato, vuol dire che ha subito un´offesa terribile; vuol dire che la sua indignazione non è fugace e di breve durata, ma caparbia come può esserlo solo l´intelletto.
Vedo la mansarda di un palazzetto parigino, sento la voce di Aragon piena di rabbia, una voce che maledice il sopruso; vedo la faccia di Aragon piena di angoscia per i destini del mio paese e sento poi le mie parole che ripetono più volte: «È stata la settimana più bella che abbiamo mai vissuto». Ho paura che questa affermazione a Parigi sia risuonata assurda e strana, ma i miei compatrioti mi capiranno. E stata infatti una settimana in cui la nazione ha visto all´improvviso la propria grandezza, una grandezza nella quale ormai non sperava proprio più.
Mi viene in mente, ripensando a Parigi, una piccola trattoria nel quartiere latino, dove ho pranzato con Carlos Fuentes, ottimo scrittore messicano, mio coetaneo. Fuentes mi ha chiesto se sapevo che i cechi in Messico sono guardati con molta simpatia. Mi ha poi raccontato che, alla metà del secolo scorso, tre potenze europee, che non gradivano la politica liberale del presidente Juárez, inviarono in Messico degli eserciti di occupazione, e che i reparti cechi che vi arrivarono con l´esercito austriaco si rifiutarono di partecipare all´occupazione di un paese progressista. Molti cechi restarono in Messico e poiché tra loro c´erano parecchi musicisti, la vita musicale messicana si arricchì tanto che il loro ricordo è ancora oggi circondato dalla gloria.
Perché c´è la gloria dei conquistatori e c´è la gloria di quelli che, nella loro storia, conquistatori non sono mai stati. C´è la superbia delle nazioni che si gloriano delle campagne dei loro Napoleoni e dei loro Suvorov e c´è l´orgoglio delle nazioni che non hanno mai esportato quella brutalità. C´è la mentalità delle superpotenze e c´è la mentalità delle piccole nazioni. Una grande nazione vede la propria esistenza e la propria importanza internazionale garantite automaticamente dal semplice numero dei suoi abitanti. Una grande nazione non si tormenta interrogandosi sul motivo e sulla legittimità della propria esistenza: c´è e continua ad esserci con un´ovvietà schiacciante. Si fonda sulla propria grandezza e non di rado se ne inebria come se fosse di per sé un valore.
Invece una piccola nazione, se ha una qualche importanza nel mondo, deve ricrearla ogni giorno e senza sosta. Nel momento in cui smette di creare valori, perde la legittimità della propria esistenza e alla fine, forse, cesserà anche di esistere perché è fragile e può essere distrutta. In essa, la creazione di valori è legata alla questione dell´esistenza, e questo probabilmente è il motivo per cui la creazione (culturale ed economica), di solito, nelle piccole nazioni (forse a partire già dalle antiche città greche) è molto più intensa che nei grandi imperi.
La coscienza della grandezza, della quantità, dell´indistruttibilità, permea interamente i sentimenti delle grandi nazioni: tutte hanno dentro di sé un frammento di quella «superbia della quantità», tutte hanno la tendenza a vedere nella propria grandezza una predestinazione alla salvezza del mondo, tutte sono inclini a scambiare se stesse per il mondo, la propria cultura per la cultura del mondo, e perciò, di solito, sono estroverse in politica (orientate verso le lontane sfere della loro influenza), ma al tempo stesso molto egocentriche per quanto riguarda la cultura. Ah, povere grandi nazioni! La porta che si apre sull´umanità è angusta e voi ci passate a stento.
Credo nella grande missione storica delle piccole nazioni nel mondo di oggi, lasciato in balìa di superpotenze che desiderano allinearlo e livellarlo a propria misura. Le piccole nazioni, ricercando e costruendo continuamente la propria fisionomia, lottando per le proprie peculiarità, si preoccupano nello stesso tempo che l´intero globo terrestre resista ai terribili influssi all´uniformità, che risplenda la varietà delle tradizioni e dei modi di vivere, che in esso l´individualità umana, il miracoloso e la singolarità possano essere di casa.
Sì, sono convinto della missione delle piccole nazioni. Sono convinto che un mondo in cui la voce dei guatemaltechi, degli estoni, dei vietnamiti o dei danesi venisse sentita quanto quella degli americani, dei cinesi o dei russi, sarebbe un mondo migliore e meno triste. So pure, però, che per le piccole nazioni è insidioso e difficile. Hanno i loro periodi di letargo e, a differenza delle grandi nazioni, ogni loro assopimento comporta il pericolo di non risvegliarsi. Il pensiero che anche la nazione ceca stesse di nuovo decidendo se vivere o tirare a campare, se essere o non essere, mi si è imposto fastidiosamente anni fa, quando mi sono reso conto di come una politica poco illuminata soffocasse la vita ceca e facesse precipitare la cultura ceca al livello insignificante di una provincia europea. Mi è tornata in mente l´acuta domanda di Schauer: ma è propria valsa la pena di ricollocare la nostra piccola nazione al centro dell´Europa? Quali valori apporta e intende apportare all´umanità?
Quando ho pronunciato questa domanda, nell´estate del 1967, dalla tribuna del Congresso degli Scrittori, non immaginavo con quale drammaticità le avrebbe risposto l´intera Cecoslovacchia l´anno seguente. Il tentativo di creare finalmente (e per la prima volta nella sua storia mondiale) un socialismo privo dell´onnipotenza della polizia segreta, con la libertà della parola scritta e parlata, con un´opinione pubblica che viene ascoltata e con una politica che si appoggia ad essa, con una cultura moderna che si sviluppa liberamente e con uomini finalmente liberi dalla paura, è stato un tentativo con cui i cechi e gli slovacchi per la prima volta dalla fine del Medioevo si sono posti di nuovo al centro della storia e hanno rivolto al mondo il loro appello.
Questo appello non si fondava su una presunta volontà dei cecoslovacchi di sostituire il modello di socialismo esistente con un altro modello altrettanto autoritario ed esportabile. Un messianismo del genere è estraneo alla mentalità di una piccola nazione. Il senso dell´appello cecoslovacco stava in qualcos´altro: mostrare quali immense potenzialità democratiche siano tuttora trascurate nel progetto sociale socialista, e mostrare che queste potenzialità si possono sviluppare solo se si libera pienamente l´originalità politica di ogni singola nazione.
L´appello cecoslovacco continua ad essere valido. Senza di esso il XX secolo non sarebbe più il XX secolo. Senza di esso il mondo di domani sarebbe un mondo diverso da quello che sarà. Il significato della nuova politica cecoslovacca aveva una portata troppo grande per non incontrare resistenze. Il conflitto, naturalmente, è stato più duro di quanto immaginassimo, e la prova attraverso cui è passata la nuova politica è stata atroce. Ma io mi rifiuto di chiamarla una catastrofe nazionale, come adesso fa comunemente la nostra opinione pubblica, piuttosto lamentosa. Oso addirittura dire, a dispetto dell´opinione corrente, che forse il significato dell´Autunno cecoslovacco è perfino superiore al significato della Primavera cecoslovacca.
È successo infatti qualcosa che nessuno si aspettava: la nuova politica ha retto al terribile conflitto. Ha fatto un passo indietro, è vero, ma non si è disgregata. Non ha ripristinato il regime poliziesco; non ha accettato l´incatenamento dottrinario della vita intellettuale, non ha rinnegato se stessa, non ha tradito i propri princìpi, non ha perduto i propri uomini; non solo non ha perduto il sostegno dell´opinione pubblica, ma, proprio nel momento in cui c´era un pericolo mortale, ha cementato dietro di sé l´intera nazione, in quanto era interiormente più forte di quanto non fosse prima di agosto. E ancora: se i suoi rappresentanti politici devono contare sulle possibilità che al momento ci sono, vasti strati della nazione, specialmente i giovani, conservano dentro di sé, in tutta la loro intransigente interezza, la coscienza degli obiettivi di prima di agosto. E c´è in questo una speranza immensa per il futuro. E non per quello remoto, ma per quello prossimo.
Ma che cosa succederà se la nuova politica continuerà a fare passi indietro, fino a diventare, senza che neppure ce ne accorgiamo, una politica vecchia? Che cosa succederà se la dichiarata provvisorietà del passo indietro diventerà una provvisorietà di decine di anni? È evidente che non è garantito da nessuna parte che il 1968 in futuro non verrà rovinato e vanificato. Ma una persona o, in generale, l´umanità hanno mai avuto garanzie? Ha mai avuto garanzie la nazione ceca, condannata, per ricordare ancora Pavel Stránsky, a vivere in amicizia con il leone? Non sono forse secoli che essa cammina sull´incerta passerella tra sovranità e sottomissione, tra universalità e provincialismo, tra l´essere e il non essere? (...)
Quando, all´inizio di settembre, il quintetto dei nostri uomini di Stato ha emesso un comunicato nel quale si invitavano i cecoslovacchi all´estero a ritornare, garantendo loro completa sicurezza, ho sentito da alcuni l´obiezione: ma come pensano di garantire la nostra sicurezza, se non sono in grado di garantire neppure la loro?
Non condanno nessuno di coloro che hanno deciso di vivere all´estero, sostengo che ciascuno ha il diritto di vivere dove vuole, protesto solo nei confronti di questa argomentazione, che manca di qualsiasi nobiltà: davvero un cittadino ceco non è in grado di rischiare quello che rischia un suo uomo di Stato? Davvero è capace di vivere solo al di fuori del rischio? La misura di una relativa certezza per tutti non dipende forse proprio da quante persone hanno il coraggio di restare al proprio posto nell´incertezza?
Nel patriottismo ceco ho sempre ammirato la sobrietà dello sguardo. Già i patrioti risorgimentali si rendevano conto di tutto lo svantaggio che derivava dal destino di essere ceco, e capivano che il risveglio della nazione ceca non era solo un compito, ma anche un problema. Il più grande patriota ceco, Masaryk, iniziò il suo percorso distruggendo le illusioni e i miti patriottici, ed è significativo che abbia intitolato il suo libro La questione ceca. Alle radici del patriottismo ceco non c´è il fanatismo, ma lo spirito critico, ed è questo che ammiro della mia nazione e che me la fa amare.
Solo che lo spirito critico ceco oggi ha due forme. In una, diventa un vizio che rifiuta qualunque speranza e approva tutte le disperazioni: è lo spirito dei deboli degenerato in puro e semplice pessimismo che costituisce il clima ideale per preparare la sconfitta.
C´è poi il vero spirito critico, che sa smascherare le illusioni e le presunte certezze, ma al tempo stesso ha un´estrema sicurezza di sé, perché sa di essere una forza, un valore, un potere su cui si può costruire il futuro. Questo senso critico, che prima ha suscitato la Primavera cecoslovacca e poi in Autunno ha resistito agli attacchi delle menzogne e dell´irrazionalità, non è la proprietà di un´élite ma, come si è dimostrato, è la più grande virtù di tutta la nazione. Una nazione che ha questo dono ha tutto il diritto di entrare nelle incertezze del prossimo anno con piena fiducia in se stessa. Alla fine del 1968, ne ha diritto più che mai.
Copyright Literární Noviny e, per la traduzione italiana, Lettera Internazionale
Traduzione dal ceco di Dario Massimi

In mostra gli scatti di Koudelka
MILANO - "Josef Koudelka - Invasione Praga 68" è il titolo di una mostra aperta a Milano che documenta l´invasione di Praga, gli avvenimenti storici dell´agosto del 1968 che per decenni hanno influenzato tragicamente la vita in Cecoslovacchia. Le immagini in bianco e nero di Koudelka - stupefacenti per la loro forza e la loro umanità - sono esposte fino al 7 settembre a Forma - Centro internazionale di fotografia (piazza Tito Lucrezio Caro, 1).

Repubblica 23.6.08
Il segreto di Himmler
Esce in italia l'ultimo romanzo di Norman Mailer al centro la forza demoniaca e oscena delle SS
L'incesto, salvezza del nazismo
di Norman Mailer


Il libro racconta la famiglia e le torbide origini di Hitler E le teorie sull´eccellenza della razza formulate dal gerarca
Tutti lo chiamavano Heini. Nel 1938 era diventato uno dei capi indiscussi della Germania
Nessuno di noi si sentiva abbastanza qualificato da dire che le sue tesi non valevano niente

Anticipiamo parte del primo capitolo di Il castello nella foresta (Einaudi, pagg. 427, euro 19), l´ultimo romanzo di , da domani in libreria. Lo scrittore americano è scomparso nel novembre del 2007

La stanza che Himmler utilizzava per parlare con la nostra cerchia ristretta era una piccola sala conferenze rivestita con pannelli in legno di noce scuro che contava appena venti posti distribuiti su quattro file da cinque. Ma non intendo soffermarmi su certe descrizioni. Preferisco dedicarmi alle idee tutt´altro che ortodosse di Himmler. Chissà che non mi abbiano spinto ad avviare un memoriale destinato a turbare le coscienze. E so che per estirpare tante convinzioni invalse mi toccherà navigare in acque burrascose. Alla sola idea sento erompere una cacofonia nell´animo. Come ufficiali dei servizi segreti tendiamo spesso a distorcere le nostre scoperte. La menzogna, del resto, è a suo modo un´arte, anche se quest´impresa mi impone di non avvalermene.
Ma ora basta! Vorrei presentare Heinrich Himmler. Preparati, lettore, perché non sarà un incontro facile. Questo signore, che dietro le spalle veniva soprannominato Heini, nel 1938 era diventato uno dei quattro capi indiscussi della Germania. Eppure la sua vocazione intellettuale più amata e riposta era lo studio dell´incesto, che dominava le nostre indagini più sofisticate. Alle scoperte erano riservate riunioni a porte chiuse. L´incesto, sosteneva Heini, era sempre stato molto diffuso tra i poveri di ogni dove. Nemmeno i nostri contadini tedeschi ne erano rimasti immuni, e questo fino all´Ottocento. «Negli ambienti intellettuali nessuno solleva mai l´argomento, - osservava Heini -. Del resto, c´è poco da fare. A chi interessa certificare che un poveraccio è frutto di un incesto? Ogni singola istituzione di ogni singolo Paese civile mira soltanto a nascondere certe cose sotto il tappeto».
O meglio, tutte le alte cariche governative del mondo tranne Heinrich Himmler. Dietro quei suoi occhialetti tristanzuoli era tutto un turbinio di idee straordinarie. Devo ribadire che, per avere una faccia insulsa e senza mento, sfoggiava un misto sconsolante di acume e stupidità. Per esempio si dichiarava pagano. Secondo le sue previsioni l´umanità avrebbe conosciuto un futuro di prosperità non appena il paganesimo avesse conquistato il mondo. Allora l´anima di ognuno si sarebbe arricchita di piaceri prima inammissibili. Nessuno di noi, però, riusciva a immaginare un´orgia dove l´erotismo raggiungesse livelli tali da indurre una donna a fondere le proprie carni con quelle di Heinrich Himmler. Macché, neppure in nome dello spirito più innovativo! Perché in faccia gli leggevi ancora l´espressione che doveva aver avuto ai tempi dei balli scolastici quando, con uno sguardo occhialuto di disapprovazione, faceva tappezzeria: un ragazzo lungo lungo e secco secco che era l´incarnazione dell´imbranato. Mostrava già un accenno di pancetta. Se ne stava lì parcheggiato contro il muro mentre proseguivano le danze.
Eppure con gli anni sviluppò un´ossessione per argomenti che gli altri non osavano neppure nominare (e questo, devo dire, di solito è il primo passo verso un pensiero nuovo). In particolare dedicò grande attenzione al ritardo mentale. Perché? Perché Himmler sottoscriveva la teoria secondo la quale le migliori potenzialità umane confinano con le peggiori. Perciò non escludeva l´eventualità che i figli dotati messi al mondo da famiglie umili e anonime fossero «incestuari». Il termine da lui coniato in tedesco era Inzestuarier. Non gli piaceva la parola in uso per una simile sventura, Blutschande (scandalo del sangue), e nemmeno quella a volte impiegata in ambienti più raffinati, Dramatik des Blutes (dramma del sangue).
Nessuno di noi si sentiva abbastanza qualificato da dire che la sua teoria non valeva niente. Era fin dagli albori delle SS che Himmler indicava come necessità primaria quella di creare gruppi d´indagine eccellenti. Era nostro dovere spingere l´indagine fino in fondo. Per dirla con Himmler, la salute del nazionalsocialismo dipendeva esclusivamente dalle letzte Fragen (domande ultime). Dovevamo sondare problemi che altre nazioni non osavano neppure sfiorare. L´incesto era in cima alla lista. Il pensiero tedesco doveva tornare a essere ispirazione e guida del mondo intellettuale. In cambio - questa l´accoppiata tacita - Heinrich Himmler avrebbe ottenuto grandi riconoscimenti per aver preso di petto problemi che traevano origine dall´ambiente agricolo. E ci teneva a sottolineare il nocciolo della questione: lo studio dell´agricoltura non può prescindere dall´agricoltore. Ma capire l´uomo della terra significa parlare d´incesto.
Vi garantisco che a quel punto sollevò la mano con lo stesso, identico gesto tipico di Hitler: un piccolo scatto effeminato del polso. Era il suo modo per dire: «Ora viene il piatto forte. con contorno di patate!» E si lanciò in una perorazione. - Ebbene sì, - disse, - l´incesto! Ecco l´unica, vera spiegazione alla religiosità dei vecchi contadini. La grande paura del peccatore deve per forza di cose manifestarsi in due modi opposti: con la totale devozione alla pratica religiosa o con il nichilismo. Ricordo di aver studiato a scuola che il marxista Friedrich Engels una volta scrisse: «Quando la chiesa cattolica capì che era impossibile impedire l´adulterio, rese impossibile ottenere il divorzio». Un´uscita geniale, anche se viene dalla bocca sbagliata. Lo stesso si potrebbe dire per lo scandalo del sangue. Impossibile impedire anche quello. Perciò il contadino ci tiene a restare devoto -. Annuì. Annuì di nuovo, come se due cenni decisi del capo fossero il minimo necessario per convincerci che parlava a ragion veduta.
Quante volte - domandò - il contadino medio del secolo precedente era riuscito a evitare le tentazioni del sangue? Non che fosse facile. Inutile negare che spesso i contadini non avevano un bell´aspetto. La fatica logora i lineamenti. E poi puzzavano di terra e di stalla. Le estati torride esasperavano gli odori corporei. Date le circostanze era inevitabile che gli istinti primordiali innescassero inclinazioni peccaminose. Se si aggiunge che non facevano vita sociale, come potevano acquisire la capacità di stare alla larga dai grovigli con fratelli e sorelle, padri e figlie?
Non si addentrò nell´intrico di gambe, braccia e busti formato da tre o quattro figli che dormono nello stesso letto, né nella naturalezza sprovveduta dell´attività più piacevole di tutte - quella corsa ansante, febbrile e gravosa per scalare le vette del piacere fisico - ma dichiarò: - Non sono pochi nel settore agricolo quelli che, volenti o nolenti, finiscono col considerare l´incesto un´alternativa soddisfacente. Chi, a ben vedere, è più portato a trovare particolarmente belli i lineamenti induriti dal lavoro ma degni di rispetto di un padre o di un fratello? Le sorelle, è ovvio! O le figlie. Spesso soltanto loro. Il padre, che le ha messe al mondo, rimane al centro della loro attenzione.
E bravo Himmler. Erano due decenni che andava accumulando teorie in quella sua testa. Seguace convinto di Schopenhauer, dava altresì grande risalto a una parola ancora relativamente nuova nel 1938: geni. I geni, diceva, sono l´incarnazione biologica del concetto schopenhaueriano di Volontà. Sono l´elemento base di questa misteriosa Volontà. - Sappiamo, - disse, - che è possibile trasmettere gli istinti di generazione in generazione. Perché? Direi che è nella natura della Volontà restare fedele alle proprie origini. Arriverei al punto di definirla una Visione, sì, signori miei, una forza che dimora al centro esatto dell´esistenza umana. E questa Visione a distinguerci dagli animali. E da quando siamo sulla faccia della terra che noi umani cerchiamo di elevarci verso le altezze invisibili che ci si prospettano.
- Certo, un obiettivo così ambizioso non è esente da ostacoli. Il più eccezionale dei nostri geni deve dimostrarsi comunque capace di superare le privazioni, le umiliazioni e le tragedie della vita mentre i geni vengono trasmessi di padre in figlio, una generazione dopo l´altra. Vi dirò che raramente i grandi condottieri sono il frutto di un solo padre e di una sola madre. Il raro condottiero è molto più verosimilmente l´unico che sia riuscito a infrangere i vincoli che hanno impedito a dieci generazioni di frustrati di esprimere la Visione nel corso della loro vita ma non di trasmetterla attraverso i geni. Inutile dire che sono giunto a formulare questi concetti meditando sulla vita di Adolf Hitler. La sua ascesa eroica risuona nei nostri cuori. Giacché, come sappiamo, deriva da una lunga progenie di modesti contadini, la sua vita è la riprova di un´impresa sovrumana. Non possiamo che piegarci a un´ammirazione incondizionata.
Copyright The Estate of Norman Mailer e Giulio Einaudi editore. Traduzione di Giovanna Granato

Repubblica 23.6.08
“Non accetto critiche dalla sinistra snob”
Tremonti al contrattacco sulla social card
È un documento surreale che non serve a nulla, ma telefonate alla Bce...
di Roberto Mania


LEVICO (TN) -Difende con le unghie la sua creatura il ministro dell´Economia, Giulio Tremonti. Quella carta prepagata da 400 euro che permetterà agli anziani più poveri di acquistare beni alimentari e pagare le bollette della luce. Le critiche non gli piacciono. Soprattutto se arrivano da sinistra o - che nel suo ragionamento è lo stesso - «dagli snob che scrivono sui giornali e che frequentano i salotti». Anche se l´obiezione che gli viene fatta non va oltre la proposta che non sia il governo a stabilire come spendere quei soldi. «Non accetto che si faccia demagogia sulla povera gente. Usciamo dalle categorie dogmatiche del bene e del male e entriamo in quelle dell´utile o dell´inutile», replica dal palco della Festa nazionale della Cisl a Levico. Certo quando arriva, il ministro, dolorante per una fastidiosa sciatalgia, trova anche i suoi fans che lo salutano «dai Giulio!».
Poi, però, tra gli anziani cislini, quelli con i capelli bianchi, quei pensionati che rappresentano la metà degli iscritti al sindacato, quelli che forse riceveranno a casa la nuova credit card, non è che ci sia un gran entusiasmo. Anzi. Sono lì assiepati al Parco delle Terme e un po´ protestano e mugugnano. Dicono che «al tempo del fascismo c´era la tessera». E che piuttosto è contro l´evasione che ci si deve battere.
Ma non è a loro che vuole parlare Tremonti. Lui ce l´ha con la sinistra. Quella, per esempio, che non sa dire nulla contro la speculazione globale che ha fatto schizzare i prezzi delle materie prime. Già la sinistra. «Che - spiega - dopo la caduta del Muro ha saputo solo fare il manager della globalizzazione. E´ questo il ruolo che si è data. Hanno lo yacht e fumano il sigaro».
Non sfugge al tema del giorno, il ministro dell´Economia. Quello di un´inflazione programmata troppo bassa (1,7%) per essere credibile, che allarma i sindacati e sembra già pregiudicare il buon esito del negoziato sul modello contrattuale.
Dopo aver detto che quello di ministro è un «lavoro piuttosto usurante» e che suggerirebbe a Epifani di farlo, part time o a turno stagionale, così da misurarsi «con la drammatica concentrazione di problemi che ci sono», arriva al nodo inflazione. Scardinando i presupposti della polemica. «Apprendo - sostiene - che c´è ancora qualcuno che legge il Dpef. Che è surreale e non serve a niente. Ora se volete, sull´inflazione programmata all´1,7%, vi do una risposta tecnica o una politica. Per quella tecnica basta chiamare il numero 0049.. che è il numero della Bce che dice quello che si deve scrivere. Tutti dobbiamo stare sotto il 2% perché se no sono loro che ti chiamano allo 06. La riposta politica è che credo sbagliato parlare di inflazione come di inflazione programmata. Perché quello che è successo è un´altra cosa. Quello che è successo è un fenomeno di carattere strutturale che si spiega con la speculazione. E la speculazione è la peste sociale di questo secolo. E non è accettabile». Allora «abbiamo il dovere democratico di reagire quando la speculazione ha impatto sulla gente più povera». Per i quali, però, la via per uscire dalla crisi è solo una: «Se il Pil sarà maggiore la divisione della ricchezza sarà maggiore. Il resto sono chiacchiere».

Repubblica 23.6.08
Le mille metamorfosi di Giulio l´unico leader del dopodomani
Dalla finanza creativa agli anatemi contro il mercato
di Filippo Ceccarelli


Non ha problemi a recitare la parte dell´antipatico, a criticare i condoni e a farne di nuovi
Il titolare è l´unico capace di scuotere l´inerzia culturale che domina anche il centrodestra

E´ cambiato Tremonti? E´ cresciuto Tremonti? E´ dunque in corsa per la successione, Tremonti, leader del dopodomani? «Graziosa invenzione» ha già detto lui, una volta: nel senso che l´esercizio divinatorio sulla sua probabile leadership è tutt´altro che nuovo. In uno dei rarissimi congressi di Forza Italia, celebrato ad Assago nel maggio del 2004, fu distribuito a tutti i delegati un questionario. Fra le varie domande ce n´era una garbatamente vaga, ma cruciale: «Se il presidente Silvio Berlusconi fosse chiamato a ricoprire altri incarichi chi potrebbe meglio succedergli alla guida del governo?». I risultati non furono mai compiutamente pubblicizzati, ma venne fuori lo stesso che la maggior parte dei presenti avevano indicato i nomi di Tremonti e di Pisanu. Poi accaddero tante altre cose, anche a Pisanu.
E insomma: è rimasto Tremonti. Un secondo più labile indizio è affidato all’intuito di un avversario, D´Alema, che proprio in lui individuò «la destra prossima ventura». Ma qui, sulla destra, la faccenda del delfino passa in secondo piano dal momento che il ministro dell´Economia ha abrogato anche la sinistra nell´ultimo suo libro (110 pagine, Mondadori) il cui titolo approssimativamente fallaciano recita: La paura e la speranza.
Ad esso ha fatto sdegnoso riferimento l´altro giorno Marco Follini assimilandolo, per i potenziali effetti nefasti, al libretto rosso di Mao. Di ciò Tremonti sarebbe anche tipo da inorgoglirsi. Ma la questione è che l´artefice della Robin Hood Tax risulta il più anti-cinese fra i politici italiani. Al punto da indossare una certa cravatta pro-Tibet e perfino segnalarsi per una sorta di boicottaggio dei ristoranti orientali e in generale etnici in nome della polenta e/o degli spaghetti, cibi identitari e comunitari, emblematici di sangue e suolo.
E questo, curiosamente, mentre Barak Obama lancia l´idea di tassare i profitti delle compagnie petrolifere (i ricchi) per aiutare le famiglie (povere). Soluzione parecchio simile a quella coniata da Tremonti.
Ora. Nella prima metà del suo libro il ministro critica in modo serrato e anche convincente, a tratti quasi bertinottiano, il culto del mercato e i contraccolpi della globalizzazione. Nella seconda parte colma invece il vuoto ideologico con un pieno di "valori" non negoziabili, tipo prendere o lasciare: Identità, Ordine, Onore, Gerarchia, Dio, Patria, Famiglia e Matrimonio sacramentato («nella liturgia» è la dizione). Un sistema di principi che si fonda sulle radici giudaico-cristiane (quelle greche e romane non contano) e che qualche decennio fa si sarebbe potuto definire conservatore, se non reazionario.
Molti degli odierni guai dipendono, per Tremonti, dal sessantotto: vero e proprio cataclisma sociale responsabile di un relativismo imbelle, buonista, invertebrato e sconsideratissimo. La cieca corsa alla ricchezza, l´ostentazione anche volgare del lusso, i modelli edonistici alla Billionaire non vengono menzionati come nemici dei Sacri Valori Identitari. E ben strana, francamente, appare anche la distanza che intercorre fra l´anatema lanciato da Tremonti in nome della spiritualità contro il consumismo e la sua fedeltà al partito-azienda lanciato sul mercato politico dal fondatore della televisione commerciale.
Ma questo non toglie che egli sia l´unico a produrre idee capaci di scuotere l’inerzia culturale che domina anche il suo schieramento. L´ultima sua proietta sullo scenario del centrodestra un nazional-populismo convertitosi al presente. Il tinello contro i salotti. L´elemento popolaresco contro lo snobismo. Nulla di veramente nuovo, eppure quanto basta a far da collante fra il mondo berlusconiano e la Lega.
Il personaggio, d´altra parte, è uomo di vaste e anche buone letture, intellettuale brillante, ottima penna, fine dicitore, padrone degli incisi, bigliettini in greco antico spediti alla Prestigiacomo durante il Consiglio dei ministri, abile nei messaggi, «le risponderò tra virgolette» gli capita di dire, efficace in tv. Non sempre amichevole con i giornalisti, adesso va meglio, ma in passato ha anche dovuto chiedere scusa per sgarberie e insolenze varie. Di Tremonti Berlusconi ha detto una volta che ha un «caratterino». Un´altra ha aggravato la definizione: un «caratteraccio». Una terza volta gli è scappato che era il suo «incubo».
Tratti psicologici tremontiani desunti da copiosa documentazione giornalistica: narciso, tignoso, puntuto, dispettoso, competitivo. Quattro anni orsono il Corriere della Sera, di cui pure l´attuale ministro è stato assiduo e rispettato collaboratore, ha notato in prima pagina che «un briciolo di arroganza intellettuale in meno» non avrebbe guastato; secondo Fini, nello stesso periodo (2004), si trattava di «presunzione insopportabile».
Quest´ultima, insieme alla estrema suscettibilità, alla pignoleria e al gusto per il paradosso culturale, ha finito per dare vita a una davvero vasta produzione epistolare. Per cui Tremonti può essere considerato il più prolifico scrittore di smentite, messe a punto e precisazioni ai giornali; senza contare le innumerevoli e fulminanti provocazioni, pure a base di "paralogismi", "asimmetrie", Aristotele, Kant e Leopardi e altre ragguardevoli risorse di auto-ostentazione mirata.
Fatto sta che il personaggio ispira e in fondo si merita imitatori televisivi di vaglia, da Gene Gnocchi a Corrado Guzzanti, che a Tremonti ha associato l´entità non del tutto metafisica del «cetriolo globale». Ad alcuni ricorda un personaggio degli albi del Monello, un classico primo della classe con ciuffo che si chiamava, significativamente, "Superbone". Questi non ha problemi a recitare la parte dell´antipatico: «I ministri del Tesoro simpatici - sostiene del resto Giorgio La Malfa - lasciano debiti».
Tremonti, il "tributarista", il "fantasista", il demiurgo della "finanza creativa", debiti e "buchi" ne ha trovati, ma ne ha anche lasciati. Così come ha criticato i condoni per poi effettuarne in abbondanza. Allo stesso modo ha scritto bellissimi articoli contro il bingo del centrosinistra, scegliendo poi di istituire un paio fra estrazioni e lotterie come ministro del centrodestra.
«Il problema - ha detto una volta don Gianni Baget Bozzo - è il suo rapporto con Berlusconi». Questi, in Russia, l´ha proclamato «un genio». Ma anche qui la storia si fa complicata. Per cui, dopo averlo definito in quel modo assai impegnativo e averlo costretto a girare con un enorme foglio, "il lenzuolone", che doveva dimostrare la quantità di provvedimenti preparati e approvati dal suo governo, il Cavaliere l´ha mollato da un giorno all´altro al suo destino, le dimissioni. Ma poi l´ha promosso di nuovo. Però in seguito gli ha preferito Elio Vito, forse pure lasciando che poco dopo s´ingelosisse della Brambilla. Per poi di nuovo premiarlo - e siamo all´oggi.
Di tutto questo, in fondo, è fatto il potere. Anche se magari Tremonti, memoria lunga ed enigmatico futuro, ancora non riesce a darsene pace.