giovedì 26 giugno 2008

Corriere della Sera 26.6.08
Maroni: impronte digitali ai minori rom
di Fiorenza Sarzanini


Caso sicurezza: al Senato è iniziato ieri l'esame del disegno di legge. Il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, annuncia che nei campi nomadi «saranno prese le impronte a tutti gli abitanti, minori compresi», ma precisa: «Lo faremo per evitare fenomeni come l'accattonaggio. Non si tratterà di una schedatura etnica».
Dall'opposizione, va all'attacco Rosi Bindi, del Pd: «Si trattano i bambini rom come se fossero incalliti criminali».

ROMA — Il ministro dell'Interno nega che si tratti di una «schedatura», ma la decisione di prendere le impronte digitali anche ai rom minorenni sta già scatenando polemiche. E all'interno del governo è scontro anche sulla regolarizzazione delle badanti, visto che lo stesso titolare del Viminale boccia il piano concordato dai suoi colleghi del Welfare e delle Pari Opportunità.
Il tema sicurezza continua a tenere banco visto che al Senato è iniziato ieri l'esame del disegno di legge che introduce tra l'altro il reato di ingresso illegale, maggiori poteri ai sindaci, disposizioni antimafia e norme più severe per chi sfrutta i minori, compresa la perdita della patria potestà. Roberto Maroni annuncia che nell'ambito del censimento avviato nei campi nomadi «saranno prese le impronte a tutti gli abitanti, minori compresi», ma precisa: «Lo faremo per evitare fenomeni come l'accattonaggio. Non si tratterà di una schedatura etnica, bensì di una ulteriore garanzia perché chi ha il diritto di rimanere possa vivere in condizioni decenti. E per mandare a casa chi non ha il diritto di stare in Italia». Attacca Rosi Bindi «si trattano i bambini rom come se fossero incalliti criminali. Il ministro lo nega, ma questa è una schedatura etnica, francamente inaccettabile».
È invece uno scontro tutto interno all'esecutivo quello che riguarda le badanti. Perché il primo «no» alla proposta di Maurizio Sacconi e Mara Carfagna che mira a regolarizzare chi assiste ultrasettantenni, portatori di handicap e malati gravi arriva proprio da Maroni. «Sono e resto contrario a qualsiasi sanatoria generalizzata: o si fa una norma che non possa essere considerata di questo tipo, e non è facile, o io sono contrario. O si è regolari o si è irregolari, e se si è irregolari l'unico modo per vedere "sanata" la propria condizione è l'espulsione e l'eventuale, successivo reingresso con regolare contratto di lavoro».
Il ministro ne fa una «questione di principio» perché «non c'è un modo per sanare i giusti e rimandare indietro gli ingiusti. I clandestini sono clandestini: le figure del quasi clandestino, del clandestino meritevole di sanatoria o del clandestino eticamente regolare sono figure intermedie che faccio fatica a definire. E poi, perché sanare chi fa da badante a un anziano di 70 anni e non a uno di 69? Perché sanare una badante e non un muratore che magari con il suo lavoro mantiene moglie e tre figli? L'unica distinzione possibile è tra chi rispetta le leggi e entra nel nostro Paese in modo legale e chi le aggira ed entra irregolarmente. C'è chi chiede allo Stato intransigenza nelle leggi e chi poi quando è in gioco il suo interesse personale chiude tutti e due gli occhi: è un tipo di doppia morale che non mi è propria». Immediata è la reazione del segretario del Pd Walter Veltroni secondo il quale «il governo colpirà decine di migliaia di badanti che svolgono una funzione sociale in 350 mila famiglie italiane. È un fatto ingiustificabile».

Repubblica 26.6.08
L’ex presidente dell´Ucei: "È un processo di schedatura costituzionalmente scorretto"
Luzzatto: "C´è un segno razzista timbrati ed esclusi come noi ebrei"
di Alessandra Longo


Inaccettabile prendere le impronte ai bimbi di un gruppo etnico, significa considerarli ladri congeniti
La norma di Maroni mi ricorda quando da piccolo non potevo andare a scuola e mi indicavano per strada

ROMA - «Sono stato bambino e non potevo andare a scuola con gli altri. Ricordo che mi indicavano con il dito: "Mamma, guarda, quello è un giudeo!". Sono cose successe 70 anni fa, cose che mi hanno segnato la carne e la memoria. Cose che non dimenticherò mai per quel che ancora mi resta da vivere. Prendere le impronte ai bambini Rom, come vorrebbe Maroni, significa compiere una schedatura etnica. E questo è totalmente inaccettabile». Amos Luzzatto è a Firenze, a presentare il libro dei suoi 80 anni: «Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra». L´Italia che lo circonda gli piace sempre meno e quest´ultima notizia lo turba profondamente.
Luzzatto, che cosa sta succedendo al nostro Paese? Anni fa sarebbe venuta in mente ad un governo una proposta del genere?
«C´è un razzismo latente nella cultura italiana, dovuto purtroppo ad un´insufficienza culturale. Ciclicamente si manifesta. Ricordo di essere stato a Palazzo Chigi quando, durante un precedente governo Berlusconi, venne fuori l´idea di schedare tutti gli immigrati. Ero presidente dell´Unione delle Comunità ebraiche e dissi che, se le prendevano a loro, avrebbero dovuto prenderle anche a noi. Mi spiegarono che non era un´iniziativa mirata ma solo l´inizio di un processo di identificazione generalizzato. Forse fiutarono l´aria. Alla fine, non ne fecero nulla. Io sono rimasto a quell´episodio».
Adesso non sembra che ci sia alcun imbarazzo. Si evoca esplicitamente la schedatura di bambini.
«Infatti quest´ipotesi è di gran lunga peggiore. Prendere i polpastrelli dei piccoli di un certo gruppo etnico significa considerarli ladri congeniti, prevedere che diventeranno dei delinquenti e commetteranno dei reati. E´ evidente e inaccettabile il segno razziale di questa iniziativa».
Immagino le ricordi qualcosa.
«Sì, mi ricorda il mio essere bambino, bollato, timbrato, come giudeo di cui non fidarsi».
Come finirà?
«Non credo che sia costituzionalmente corretto un processo di schedatura su queste basi chiaramente discriminatorie».
Le armi della legge e quelle della parola...
«Sì, da ebreo esprimo tutta la mia riprovazione».
Si può parlare di nuovo fascismo?
«Direi piuttosto di razzismo. La Lega è una destra populista».
Dove porta la strada della schedatura ai piccoli rom?
«Si comincia così e poi si va avanti con l´allontanamento dalle scuole, le classi differenziate, le discriminazioni diffuse. Questo pesa terribilmente sul vissuto di un bambino che si sente trattato diversamente dai suoi coetanei, vive come un appestato, carico di ossessioni e nevrosi. E´ una ferita che dura una vita».
L´Italia di oggi, quella che si sente rappresentata dal governo Berlusconi, sembra aver preso questa direzione.
«Esattamente la direzione contraria agli obiettivi di integrazione che vogliono dire soprattutto rispetto delle tradizioni e delle culture altrui».
Luzzatto, la gente che non condivide che cosa deve fare? Chiedere, provocatoriamente, come fece lei a suo tempo, che vengano prese le impronte a tutti?
«Noi allora reagimmo così. Certo, in questo caso, sarebbe fuori luogo coinvolgere nella protesta i bambini ebrei. I bambini, tutti i bambini, sono, fino a prova contraria, innocenti e devono essere protetti dalla crudeltà degli adulti».
Com´è quest´Italia?
«Un Paese che ha perso la memoria».

Repubblica 26.6.08
Il sogno delle piccole danzatrici, un documento per esistere


ROMA - E adesso chi avrà il coraggio di dire ad Ambra, la ragazzina di 13 anni che mi sta davanti, che dovrà mettere la sua mano sull´inchiostro, sporcarsi quelle dita affusolate, abituate a muoversi al ritmo della musica, e lasciare all´autorità le sue impronte di etnia sotto controllo? Ambra la prenderà male. Era appena uscita dal suo guscio, aveva appena trovato l´orgoglio dell´identità attraverso la passione per la danza. Storia di un esperimento che, con questo clima, potrebbe bloccarsi fino a morire. Ambra fa parte delle Chejà Celen, «ragazze che ballano». Un vero corpo di ballo, inventato a Roma da Vania Mancini, responsabile del progetto di scolarizzazione dei minori Rom, per conto del Comune veltroniano (e ancor prima rutelliano) in collaborazione con l´Arci.
Vi ricordate Billy Elliot, il ragazzino figlio di minatore, che danzava come un dio sulle punte? Ecco: come in un film, Vania intuisce che, per integrare e mandare a scuola le ragazzine Rom del campo di Monte Mario, bisogna partire dalla loro cultura, dal loro amore per la musica e il ballo. Nasce così il gruppo, si comincia con un vecchio stereo e qualche cd. Ragazzine che si fanno fare i vestiti colorati dalle mamme, che si esibiscono prima nelle scuole e poi anche in un vero teatro con i camerini, quello di Villa Lazzaroni. Giovani Rom che scoprono di "esistere", di valere qualcosa anche per i gagé, i non zingari. Felici finalmente di esprimersi, di danzare a piedi nudi, con il ventre scoperto, al ritmo di canzoni non solo rom ma anche indiane e arabe. La loro storia è in un libro che Vania Mancini ha scritto per le edizioni Sensibili alle Foglie, fotografie di Tano D´Amico. Dice una di loro: «Il mio sogno è di avere un documento, pensa che bello essere libera di esistere, di andare dove voglio». Quando rilasciò la sua testimonianza per il libro, Ambra era dura, diffidente: «Non mi sento italiana, mi sento una Rom. Loro vivono nelle case, noi nelle " stalle"». Che cosa vuoi fare da grande? «La parrucchiera». L´ho incontrata poche settimane fa. Ambra la pensi ancora come allora? «No, sono cambiata. Io danzo con le Chejà Celen e ho capito che da grande voglio fare l´insegnante di ballo».
(a.lo.)

l’Unità 26.6.08
Subito va chiusa la fase delle divisioni e delle scissioni. Per ricomporre in un campo largo un’idea forte di società
Tronti: «La sinistra debole ha nutrito una destra forte»
di Bruno Gravagnuolo


«La sinistra debole declinata come “centrosinistra” ha generato una destra forte». È la tesi di fondo della relazione che Mario Tronti, terrà domani alla Sala della Colonne di Palazzo Marini in Roma, all’Assemblea del Centro per la Riforma dello stato di cui è presidente. Occasione di confronto politico intenso, con protagonisti come D’Alema, Mussi, Reichlin, Bertinotti, Rodotà, Vacca, Ida Dominjanni, Maria Luisa Boccia e tanti altri. Dopo la sconfitta di aprile. E dopo che già il Crs aveva lanciato l’allarme e chiesto un rilancio della sinistra. In base a un documento intitolato «11 tesi dopo lo Tusunami». Ora Tronti, filosofo e pensatore politico, ritorna su quelle tesi, e specifica meglio il profilo della sinistra da inseguire. Sentiamo.
Fare società con la politica. Slogan suggestivo e un po’ criptico per l’assemblea di domani. Di nuovo alle prese con la sinistra e la sua sconfitta?
«È inevitabile. E il titolo indica l’ambizione che dovrebbe essere la ragione stessa della sinistra: fare politica. Contro l’ideologia della società civile “buona” e della politica “cattiva”, tipica della destra. E a cui la sinistra è stata subalterna negli ultimi decenni. La società non è qualcosa di statico da rappresentare e basta, ma qualcosa da costruire»
Da costruire attraverso la sinistra?
«Sì, la sinistra ha il compito di ricostruire un sociale sbriciolato e corporativo, che genera ansia e insicurezza e che alimenta la destra. Perciò ci vuole una politica attiva, capacità espressiva e linguistica a sinistra. Invece l’impressione è che la sinistra non abbia parlato molto...».
Soprattutto che non abbia parlato di sé, né a nome di sé
«Appunto, non ha presentato in alcun modo se stessa come alternativa o progetto. Come forza in grado di esprimere un’idea di società, non totalizzante, ma almeno coerente».
Voi dite «sinistra non come blocco ma come campo». Che significa?
«Vuol dire oltrepassare l’idea di “blocco sociale”, che era un’idea storica della sinistra e che oggi appare superata, in una società scomposta e disomogenea come l’attuale. Il blocco presupponeva grandi classi e aggregati da rappresentare, oggi sfuggenti. Il “campo” consente di includere i frammenti del lavoro in un orizzonte».
Ma gli operai da noi sono 7 milioni e mezzo. Esistono o no?
«Sì, sono quelli, ma non esistono nell’immaginario attuale. Del resto non sono mai esististi di per sé. Se non nello sguardo e nelle reti del movimento operaio: sindacati,cooperative, partiti. Erano quei mondi a far parlare gli operai. Oggi magari c’è un po’ di rappresentanza, ma non rappresentazione del mondo del lavoro. È un universo da raffigurare in modo nuovo».
Ma la “sinistra nuova” deve partire dal lavoro oppure no?
«Il lavoro deve riconquistare una sua centralità politica, attorno a cui aggregare tutte le altre opzioni e le altre culture della soggettività diffusa. Non è operazione facile ed esige un grande sforzo di analisi e di ricerca».
Puntate a una inedita centralità del lavoro nel segno di una rinnovata critica del capitalismo e delle sue forme sociali?
«Dentro la prospettiva che cercerò di esprimere domani, dirò intanto che occorre chiudere una fase. La fase delle scissioni a sinistra. Per aprire un’epoca di ricomposizione. E che dentro possa includere tante anime. Quella socialista e comunista della critica al capitalismo. Quella femminista, quella cattolico-sociale, quella riformista. Sì, anche quella riformista, che pur avendo abbandonato la critica al capitalismo, lavora in società dall’interno. Nel tentativo di privilegiare aspetti del capitalismo contro altri, per rinnovarlo nel suo insieme».
Che messaggio politico inviate al Pd, su queste basi?
«Al Pd diciamo che l’idea di una sinistra che si fa “centrosinistra” è conclusa. Sconfitta, e non solo in Italia, perchè il “blairismo” è finito. Aggiungendo anche che questa impostazione da “terza via” ha generato una destra peggiore, più rigida che in passato. Insomma, è nata una nuova destra identitaria, alimentata proprio dal riformismo debole. D’altro canto va pure superata una sinistra minoritaria, arroccata e autoreferenziale. La sinistra che critica il capitalismo a parole, ma è priva della forza necessaria per mettere in pratica certi obiettivi».
Pensate a una sinistra diffusa, di massa e popolare, che si allea autonomamente con il centro moderato?
«Esattamente. La grande sinistra che immagino non sarà mai maggioritaria, in una società “scomposta” come l’attuale. E deve allearsi, come soggetto egemone e in coalizione, con il centro moderato. Penso quindi a un bipolarismo di coalizione o a un bipartitismo imperfetto. Contro l’errore del bipartitismo perfetto, che in Italia non funziona. E contro le ricadute decisioniste, presidenziali e premierali, tipiche di un’idea secca del bipolarismo, maggioritario o bipartitico. E questo resta un terreno di sfida decisivo e privilegiato per la sinistra contro la destra».

l’Unità 26.6.08
Sinistra democratica. Mussi e Rodotà contro Veltroni:da sprovveduti il dialogo con Berlusconi
di Andrea Carugati


SINISTRA DEMOCRATICA approfitta del momento difficile del Pd e spara ad alzo zero sui cugini democratici. E così il seminario di ieri su «fare opposizione oggi» si trasforma in un tiro al bersaglio. Fabio Mussi utilizza metafore culinarie per demolire l’opposizione di Veltroni: «Quello tra lui e Berlusconi sembra il combattimento tra una bistecca al sangue cotta alla brace e un budino tiepido cucinato a bagnomaria». E ancora, sulle correnti del Pd: «Al congresso Ds mi ero permesso di dire che il Pd non avendo identità era destinato a diventare un grumo di correnti personali, e ora abbiamo anche le sottocorrenti. Ci sono proposte alternative o c’è dell’altro? Ma se c’è dell’altro poi torna la questione morale, spuntano i mariuoli come a Genova, in Calabria, in Basilicata...Gli storici studieranno quella cosa bizzarra, che si è estinta rapidamente e che si chiamava Pd». Su Red, la neonata associazione di D’Alema: «Mi sarei accontentato di “rose”, invece vedo molto white». «Dobbiamo ridare consistenza a un progetto di unificazione a sinistra, per spingere sul Pd perché si riapra una prospettiva di coalizione. Altrimenti la destra governerà forever». Mussi invita alla «disobbedienza civile» contro i militari usati come poliziotti: «Se mi chiedono i documenti non glieli do». E ancora: «Dobbiamo mettere subito in pista uno straccio di opposizione, come si fa a dire che si manifesta tra sei mesi? Significa dire al governo “fai di me ciò che vuoi”». Gli dà man forte Stefano Rodotà, che boccia senza appello il governo ombra, e definisce «sprovveduti» i democratici che hanno creduto nel Berlusconi dialogante. «Pensano che il compito dell’opposizione sia distinguere il Berlusconi Jekyll da Mister Hyde, vogliono che emerga la sua faccia buona. E invece avrebbero dovuto dire che una manovra varata in 9 minuti è una vergogna e che la lettera del premier al presidente del Senato era irricevibile». E le riforme istituzionali? «Come ai tempi della Bicamerale: è il Cavaliere che detta l’agenda». Rodotà chiede al Pd di non mollare le battaglie sui diritti civili, come le coppie di fatto e il testamento biologico: «Abbiamo il coraggio di portare al voto in aula queste proposte di legge. Su aborto e divorzio si dialogò con la complessità del mondo cattolico, non solo con le gerarchie, e quel fronte si divise».

l’Unità 26.6.08
Chiese, sinagoghe e moschee così scelgono tra Obama e McCain


IN GOD WE TRUST Gli Stati Uniti sono una nazione profondamente religiosa, sta scritto persino sulle loro banconote. Dall’ultima inchiesta nazionale sul rapporto tra fede e vita pubblica, risulta che il 92% degli americani crede in Dio. La vera novità è che aumenta la tolleranza tra fedi diverse, mentre perde terreno ogni confessione rigidamente organizzata. In tutte le ultime presidenziali, l’affluenza in chiesa è stata il miglior indicatore dell’orientamento di voto. La schiacciante maggioranza di chi osserva i precetti ha regolarmente votato il candidato repubblicano. Ora in vista delle elezioni di novembre, il voto si presenta molto più fluido rispetto agli schieramenti tradizionali. I democratici guadagnano consenso tra la maggioranza protestante, soprattutto tra i giovani evangelici. E la campagna di Barack Obama ha dedicato uno straordinario impegno per stringere contatti con le varie organizzazioni religiose. Il terreno presenta tuttavia molte insidie: l’ultima è una polemica sull’interpretazione delle scritture in un comizio di Obama: «Nel Levitico la schiavitù sembra ok. Mangiare crostacei è un abominio».
Il rapporto del Pew Research Center’s Forum on Religion & Public Life, basato su un campione di 35mila adulti rappresentativi della popolazione Usa, indica che per la prima volta i consensi del Partito repubblicano tra gli evangelici scendono sotto il 60 per cento. «I nuovi evangelici, una sfida per la destra religiosa», titola il settimanale New Yorker. Si tratta di giovani pragmatici che mettono al primo posto solidarietà sociale e tutela dell’ambiente. Che si riconoscono maggiormente con la figura di Obama piuttosto che con quella di John McCain. Non solo per un fattore generazionale. E c’è la variabile di un impressionante 44 per cento di americani che ha cambiato almeno una volta la propria denominazione religiosa o ha deciso di gestire privatamente la propria spiritualità. Questo è un segmento dove gli indipendenti sono in crescita. La roccaforte repubblicana inespugnabile sono i mormoni, dove il consenso è stabile al 65 per cento.
I cattolici sono considerati un campo di battaglia e rappresentano quasi per il 25 per cento della popolazione Usa. Il 48 per cento è orientato verso i democratici, il 33 per cento verso i repubblicani. L’entusiasmo per gli anni di John F. Kennedy, primo e unico presidente cattolico degli Stati Uniti, si è stemperato negli anni di Reagan con un progressivo spostamento a destra. Gli storici ricordano inoltre che Kennedy non mise mai in primo piano la propria fede. E per meglio spiegare come ha gestito il rapporto tra religione e politica, hanno coniato l’espressione «cattolico per caso».
Più netto lo schieramento della comunità ebraica: 66% con i democratici, 24% con i repubblicani. Ma se si considerano i soli ebrei ortodossi, i democratici crollano al 49 per cento. In tutte le religioni i conservatori sono tali sia nella fede che nell’urna. Con un’unica eccezione: tra le congregazioni protestanti afro americane, dove l’opposizione all’aborto è fortissima e i diritti dei gay sono un tabù, il Partito democratico trionfa con il 77% delle preferenze.
Una coalizione tra i gruppi d’immigrati musulmani ha sostenuto George W. Bush nel 2000, solo per ritrovarsi completamente ignorata dalla Casa Bianca quando il Patriot Act scatena controlli e arresti di massa nelle loro comunità. «La lezione ci è servita e siamo ripartiti da zero - spiega Mahdi Bray, direttore della Muslim American Society Freedom Foundation di Washington - Abbiamo abbandonato una leadership politica composta principalmente da medici, avvocati e professionisti per tornare alla nostra base». E la barra si è velocemente spostata verso il Partito democratico. Ma lo stigma che ha colpito gli arabo americani dopo l’11 settembre rimane. «Basta dire Barack Hussein Obama e si è detto tutto- assicura Arsalan Iftikhar, un giurista specializzato in diritti umani che firma sul periodico Islamica Magazine - Non c’è nemmeno bisogno di pronunciare la parola musulmano». Per questo la comunità islamica ha mantenuto un profilo bassissimo nel sostenere Obama. Qualsiasi manifestazione di appoggio sarebbe sfruttata dai repubblicani per incitare la paura e associarlo a Osama Bin Laden.
Al centro culturale islamico nell’East Village a Manhattan gira una battuta: «Noi dobbiamo dare pubblicamente l’endorsement al candidato che vogliamo fare fuori».
La sinistra storica americana raccomanda un prudente secolarismo. In nome della beata separazione tra stato e chiesa. Ricordando anche gli imbarazzi creati a Obama dal suo ex pastore, il reverendo Jeremiah Wright. Scrive Katha Pollit sul settimanale The Nation: "Per anni i democratici hanno cercato di nascondere il proprio secolarismo per attrarre chi è convinto che Gesù sia repubblicano. Ma nessun partito può legittimamente accampare diritti su Gesù. E se si tiene fuori la religione dai temi della campagna elettorale, possiamo discutere di temi concreti come persone razionali. Dopotutto, quale ipotesi è più campata in aria: che il virus dell’Aids sia uscito dai laboratori del governo o che i morti risorgano dalle loro tombe?".

l’Unità 26.6.08
Costituzione, è ora di tornare a scuola
di Nicola Tranfaglia


Gentile ministro,
la cronaca quotidiana consegna ogni giorno ai lettori e all’opinione pubblica nazionale episodi continui di comportamenti scorretti e antidemocratici di italiani che mostrano di non conoscere la nostra Costituzione e le leggi fondamentali dello Stato manifestando sentimenti razzisti, volontà di aggressioni dentro e fuori la famiglia, comportamenti contrari alle regole approvate dei costituenti e scritte sessant’anni fa nel testo del 1948.
Di fronte a una simile situazione che esprime nel nostro Paese una sorta di crisi morale e di smarrimento dei valori fondamentali che dovrebbero informare le nostre azioni spetta allo Stato intervenire con una massiccia campagna di informazione e di educazione popolare.
Mi chiedo allora e lo chiedo a lei in quanto titolare come ministro della Pubblica Istruzione se il governo, nell’anno che segna il sessantesimo anniversario della Carta costituzionale, se non sia il caso di metter da parte ogni esitazione e fare qualcosa che i governi della Repubblica non hanno mai fatto fino ad ora: decidere di organizzare nelle scuole elementari che segnano il primo incontro dei bambini con la scuola un’educazione civica obbligatoria che dia a tutti, con appositi corsi principali, gli elementi essenziali di conoscenza della costituzione e delle leggi.
È quello che fanno da molto tempo i governi europei nell’Europa anglosassone e del Nord.
In un Paese come l’Italia nel quale governano in quattro regioni le associazioni mafiose indigene e straniere travolgendo le leggi dello Stato e indicando alle nuove generazioni, non lo stato di diritto ma una comunità retta da metodi mafiosi, violenti, parassitari, non è necessario e urgente incominciare subito a instillare nei nostri bambini il senso della democrazia e del governo delle leggi?
Molti ricorderanno che, già alcuni decenni fa, venne introdotta in Italia una materia che si chiamava Educazione Civica ma lo si fece male, nella scuola secondaria e in aggiunta a tutti i programmi esistenti, con il risultato che l’efficacia fu assai scarsa. Ed ora in alcune scuole ci sono progetti degli insegnanti sulla legalità o sulla lotta alla mafia.
Nell’uno o nell’altro caso, sono iniziative sporadiche e che non coprono l’intero territorio nazionale. Quello che è necessario e urgente di fronte alla mafia che avanza ed è sempre più insidiosa e penetrante, è una campagna generale e obbligatoria che veda protagonista lo Stato, mobiliti tutte le scuole e tutti gli insegnanti che sono in grado di farlo puntando a formare cittadini democratici che hanno idee chiare sullo Stato di diritto e su quella che è una democrazia moderna.
Si tratta di far capire a bambini che si affacciano alla vita che cosa significa osservare le regole, comportarsi in maniera onesta e leale, non badare soltanto a se stessi, rispettare gli altri, far valere i propri diritti ma osservare anche i propri doveri, escludere il parassitismo e la violenza dai propri comportamenti.
Sa il ministro che, secondo il decimo rapporto di «Sos Impresa», la mafia è in Italia la più grande azienda del Paese? Che il sommerso nel nostro Paese è una percentuale assai alta rispetto al Pil e rapprensenta una ricchezza enorme sottratta al fisco e al controllo dello Stato?
Perché, se si sente il bisogno di introdurre elementi di educazione civica, come lei stessa ha dichiarato nei giorni scorsi, non lo si fa nell’unico modo efficace sperimentato in altri Paesi con risultati assai positivi, invece che con le modalità precedenti risultate negli scorsi decenni più o meno inutili?
Dico queste cose perché, da oltre trent’anni, ho dedicato miei studi al fenomeno mafioso e ho potuto verificare che, come scriveva Giovanni Falcone in tempi ormai lontani, la repressione giudiziaria non avrà mai ragione da sola della mafia. E, prima di lui, un conservatore illuminato come Leopoldo Franchetti lo aveva capito, già nel 1876, dopo un viaggio in Sicilia. Si cattureranno i capimafia ma l’esercito mafioso sostituirà i generali caduti e proseguirà la sua azione criminale.
Soltanto se si influirà sul modo di pensare e sentire degli italiani, e in particolare delle masse popolari, e si farà in modo che la vita economica delle comunità locali e del Paese sia sana, sarà possibile stroncare il cancro mafioso che, come ogni fenomeno umano, è destinato ad avere un inizio e una fine. Ma se lo Stato resta immobile e non lo contrasta in maniera efficace, resteremo ancora per anni e per decenni a registrare le imprese violente di Cosa nostra, della ‘ndrangheta e della camorra, per non parlare delle consorelle straniere.
Mi auguro che lei, ministro, possa e voglia riflettere su questa idea e dare agli italiani una risposta e una speranza.

l’Unità 26.6.08
Ma le correnti non sono il diavolo
di Giuseppe Tamburrano


Le parole «correnti» e «scissioni» mi sono molto familiari: ho militato in un partito che di scissioni ne ha fatto decine di cui l’unica utile e positiva è stata la prima del 1892, quando i socialisti si separarono dagli anarchici rifiutando ogni scorciatoia violenta ed imboccando la «via maestra» (parole di Turati) della lotta di classe e politica nella legalità, sul terreno della rivoluzione democratica.
Alcuni giornali hanno scritto di un «Midas» del Pd. Non è quello l’episodio che può servire a capire. All’Hotel Midas, nel luglio del 1976, all’indomani di una sconfitta elettorale, la generazione dei cosiddetti «quarantenni» si liberò del segretario De Martino e si impadronì del potere eleggendo a segretario del Psi Bettino Craxi. Tra le molte differenze, quella fondamentale è che alle elezioni del 20 giugno di quell’anno sconfitta non fu tanto la forza socialista le cui liste ottennero lo stesso risultato di elezioni precedenti (circa il 10 per cento) quanto la politica del Psi che vedeva trionfare il suo concorrente a sinistra, il Pci, che diventava così il nuovo interlocutore della Dc. Perciò il paragone con il 13 aprile 2008 non è proponibile.
Se vogliamo andare alla ricerca di precedenti storici che aiutano a capire la vicenda attuale, dobbiamo riferirci ai socialisti nel triennio 1966-1969. I due partiti socialisti, quello di Nenni e quello di Saragat, si riunificano nell’ottobre del 1966, vanno insieme alle elezioni del 1968, sono sconfitti e l’anno dopo si «rescindono».
Le componenti del Pd-Ds e Margherita si separeranno a causa della sconfitta elettorale? Il politologo D’Alimonte ha dimostrato, cifre alla mano, che il Pd non è stato sconfitto alle ultime elezioni. I numeri sono esatti, il ragionamento politico meno. Anche dopo le elezioni del 1968 vi fu chi, politicamente più influente di D’Alimonte, Ugo La Malfa, dimostrò ai socialisti che non vi era stata sconfitta elettorale poiché dai voti socialisti bisognava togliere quelli andati al Psiup, nato dalla scissione del 1964 - eccone una! - della sinistra del Psi. Quella rottura fu una delle tante, inutili e dannose e fu prodotta non dalle correnti, ma dalla separazione tra i due partiti - Psi e Psdi - che non si erano realmente fusi, coabitavano in un unico contenitore politico, il Psu.
Se c’è un fattore di divisione nel Pd sta nella mancata fusione tra i partiti fondativi - Ds e Margherita - come nel caso dei socialisti; se vogliamo usare i termini di Veltroni, nella non ancora raggiunta «identità» del nuovo partito.
Questo è il vero problema, non già l’esistenza di correnti. Se in un partito vi sono diverse linee politiche e programmatiche, queste sono «correnti». Si possono chiamare Fondazioni, Associazioni, Red o Der, o in altro modo: quel che conta è la sostanza. Ma le correnti non vanno «criminalizzate» perché animano la dialettica che è un valore essenziale dei partiti democratici: le correnti non esistono nei partiti centralisti - come furono i partiti comunisti - e in quelli personali, come è quello di Berlusconi. Invece di negare l’esistenza di correnti, sarebbe meglio riconoscerle e dispiegare - anche in forme nuove rispetto al passato - la loro forza propulsiva verso il confronto e il dibattito. Una volta si diceva che per scongiurare la degenerazione delle correnti, occorre «organizzare» il dibattito e renderlo esplicito. Questa è la giusta ricetta per il Pd.
È questa la proposta di D’Alema? Egli ha giustamente detto che non bisogna «demonizzare» le correnti, ma col suo Red (che nella traduzione inglese «rosso» ci piace) propone qualcosa che è una corrente, anzi qualcosa di più, una specie di partito parallelo con «doppia militanza» (Livia Turco), con molti strumenti (sedi, rivista, convegni, iscritti, una TV satellitare...), «aperto», con lo scopo di «andare oltre il partito», di proporre una linea politico-culturale, «un grande progetto». Ciò nonostante D’Alema respinge la definizione di «corrente». La Dc è stata per definizione e per quasi mezzo secolo un partito di correnti: alcune di queste si esprimevano attraverso riviste e «Centri Studi» (non erano ancora di moda le Fondazioni). La Dc ha conosciuto un continuo alternarsi di correnti alla guida del partito e del governo, mai una scissione. È vero che la comune gestione del potere è stato un potente collante; è vero altresì che nella democrazia bloccata di quegli anni la rottura della Dc apriva le porte al Partito comunista e a una grave crisi politica. Meglio le correnti perché quando la lotta politica si esaspera - come fu nel Psi - non vede più i pericoli e il partito diviene vittima di gruppi di potere chiusi e ciechi.
Che cosa farà il Pd? Io credo che supererà questo momento, ma vedo - spero di sbagliarmi - un altro scoglio non lontano: un’altra sconfitta alle elezioni dell’anno prossimo, amministrative e soprattutto europee (con la complicazione della scelta del gruppo politico a Strasburgo) poiché, tra l’altro, in quelle elezioni non funzionerà il richiamo al voto utile che il 13-14 aprile ha portato al Pd parecchi voti. Arrivarci con uno scontro sotterraneo, non chiaro è molto pericoloso. Un confronto aperto può favorire l’eventuale ricambio politico e di gruppi dirigenti senza Midas.

l’Unità 26.6.08
Sms dal Cinema: «Bondi vattene»
di Gabriella Gallozzi


CONFLITTI Il ministro Bondi viene a gran voce invitato a dare le dimissioni dal mondo del cinema del quale dovrebbe curare gli interessi. Abolendo la credit tax il governo ha minato l’intero settore che ora annuncia: niente film italiani ai festival

Il ministro dei beni culturali Bondi se ne deve andare. A chiederlo a gran voce è il movimento dei Centoautori. Mentre tutte le associazioni industriali del cinema italiano (Anica, Agis e Api) e non i «soliti comunisti» proclamano il boicottaggio totale di tutti i festival nazionali (Venezia, Roma, Torino). E persino Barbareschi, del Pdl, si schiera contro il governo. La rivolta è scoppiata ieri a seguito delle promesse non mantenute dal ministro. Ossia la mancata reintroduzione del tax credit nel maxiemendamento presentato l'altra sera dal governo. Quella importantissima misura di sgravi fiscali abolita da Tremonti in cerca di «fondi» per coprire il buco dell'abolizione dell'Ici e che Bondi aveva giurato e spergiurato avrebbe resuscitato in questa sede parlamentare.
«Deve essere chiaro a tutti che il Governo - si legge in un comunicato congiunto delle associazioni industriali - , venendo meno a impegni precisi, ha deciso di infliggere un colpo mortale al cinema italiano nel momento in cui dimostra appieno, anche a livello internazionale, la sua vitalità artistica e industriale. Ulteriori azioni saranno decise al più presto». Anica, Api e Agis si dicono «unite nel manifestare lo sgomento per l'eliminazione delle misure di incentivo fiscale per il cinema decisa dal governo, in incomprensibile contraddizione con la dichiarata volontà di abbandonare le politiche assistenzialistiche del passato per dar vita a un circolo virtuoso di nuovi investimenti, nuova occupazione, nuovi film». Contro quest'«atto devastante», dunque, tutto il cinema italiano è mobilitato.
I Centoautori, dal canto loro, chiedono le dimissioni di Bondi: «Il ministro - dice Paolo Virzì, tra gli esponenti di punta del movimento - ha fatto una figura ridicola e se ne deve andare». Il regista di Tutta la vita davanti, ricorda che «quando gli è stato detto che il ministro Tremonti aveva tagliato gli unici due provvedimenti a sostegno del cinema italiano, fatti dal governo precedente e approvati con una grandissima maggioranza, “tax credit” e “tax shelter”, ha parlato di svista. Bondi si è impegnato a ripristinarli. Cosa che poi si è rimangiato immediatamente". Quindi, d'accordo con le altre associazioni i Centoautori invitano «registi, produttori, e attori, al boicottaggio di tutti i festival italiani, rifiutandosi di partecipare a giurie, concorsi e premi. Non festeggiamo il cinema, mentre il governo fa di tutto per affondarlo». Secondo i Centautori, infatti, «non c'è nulla di tecnico, nulla di economico in questa decisione. Tutti gli studi, anche a livello internazionale, indicano che queste misure generano un “ritorno di cassa” superiore a quanto lo Stato perde in tasse». I «nostri» film, conclude la nota del movimento «è meglio non farli. Potrebbero, come hanno fatto anche recentemente con riconoscimenti internazionali e successo di pubblico, rappresentare un paese che la televisione ha smesso di raccontare. Meglio, molto meglio che tutti coloro che fanno il cinema, sempre più stretti tra duopolio Rai e Mediaset, monopolio Sky e le grandi distribuzioni americane, rimangano nella condizione di questuanti della politica».
Alla protesta si associa l'Anac, la storica associazione degli autori che sottolinea anche «il forsennato spoil system che viene attuato in questi giorni nelle istituzioni cinematografiche, nella totale assenza di qualsiasi forma di consultazione con le categorie interessate». Tutto questo rende più «visibile - prosegue l'Anac - la strategia di questo governo: azzeramento di qualsiasi voce libera e imposizione di un rigido controllo su tutte le attività espressive, tipico di incipienti forme di dittatura mediatici». Mobilitazione unitaria, quindi, per «contrastare questa deriva pericolosa non solo per il cinema ma per la vita democratica del paese». Le promesse non mantenute di Bondi «confermano lo scippo di oltre 150 milioni di euro al cinema italiano», sottolinea Manuela Ghizzoni, capogruppo del Pd in commissione cultura alla Camera. «Cifra prevista dall'ultima finanziaria licenziata dall'esecutivo Prodi nell'ottobre 2007».
Per la senatrice Pd Vittoria Franco «Berlusconi è responsabile di un pesantissimo ritorno indietro. Le promesse di Bondi in Commissione culturale al Senato sul ripristino del tax credit per il cinema erano solo auspici e tali restano. Continueremo la nostra pressione perché venga ripristinato il tax credit quando il decreto fiscale arriverà al Senato». Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21 e parlamentare dell'Italia dei valori, si «augura che il governo voglia almeno recepire gli impegni già assunti in ordine alla copertura del tax credit, misura indispensabile per il rilancio dell'intero comparto cinematografico». Così come si augura Giovanna Melandri, ministro della Comunicazione del governo ombra Pd. Mentre Vincenzo Cerami, ministro ombra della cultura, annuncia «l'impegno del Partito democratico in una dura lotta contro chi vuole spegnere la nostra prestigiosa cinematografia». Quella cinematografia che secondo Barbareschi aveva la colpa di «lavare i nostri panni sporchi» sulla scena internazionale ma che ora, si rende conto anche lui, con questa mazzata del governo rischia di veder «vanificata tutta la fatica fatta in questi anni». Motivo per cui, assicura, «cercherà di convincere il ministro Tremonti» a tornare sui suoi passi.

l’Unità 26.6.08
Bondi conferma Alberoni
Centro di cinematografia. Entra un monsignore


Il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi ha inviato alle Camere la richiesta di parere per confermare il sociologo Francesco Alberoni a presidente del Centro sperimentale di cinematografia. Ha anche chiesto il parere per il rinnovo del consiglio di amministrazione dell’istituto di alta formazione cinematografica: qui ha designato monsignor Dario Viganò (una sorpresa, qui, anche se alti prelati in passato si potevano ritrovare nelle commissioni di censura), il regista Pupi Avati e l’attore Giancarlo Giannini.
La promozione della cultura «non può accompagnarsi a un regime di spesa senza limiti e senza controlli», dichiara Bondi alla commissione cultura del Senato a proposito dell’esigenza di assicurare il rispetto di criteri di efficienza nella spesa degli enti e delle fondazioni che beneficiano del Fus, il fondo unico dello spettacolo. Il ministro ha ricordato che molte Fondazioni liriche hanno accumulato debiti considerevoli. «È necessario intervenire subito con linee di indirizzo che interrompano questa situazione che rischia di diventare ingovernabile. La forma delle Fondazioni - ha proseguito -, presuppone una assunzione di responsabilità che riguarda anche gli enti locali e le Regioni. Il federalismo è una cosa giusta e sacrosanta, ma deve valere anche nella forma della collaborazione nella ricerca dei finanziamenti, nel reperimento delle risorse e nel controllo della spesa».

Corriere della Sera 26.6.08
Fisco e film Un fronte da Sorrentino a Bertolucci. «Sciopero dei festival»
Gli sgravi spariti: il cinema contro Bondi


ROMA — Mondo del cinema in rivolta contro il ministro Sandro Bondi, colpevole di aver cancellato le due norme (tax shelter e tax credit) che avrebbero dovuto dar respiro al cinema italiano liberando nuove risorse. Registi e produttori chiedono le dimissioni del ministro. Bondi: «Auspico che nel-l'iter parlamentare vengano reintrodotte».

L'abolizione di due norme scatena la protesta. Il titolare dei Beni culturali: spero che vengano reintrodotte
Cinema, rivolta anti-fisco: «Basta festival»
Produttori e registi: agevolazioni cancellate per i film italiani, Bondi si dimetta

Le associazioni pronte al boicottaggio delle manifestazioni. All'attacco anche il movimento dei Centoautori

ROMA — Dopo la doppietta di Garrone e Sorrentino a Cannes, s'era parlato di una nuova aria sul cinema italiano. Era ieri. Sembra un secolo fa. I registi e i produttori e tutte le associazioni, Anica, Api, Agis, minacciano di non portare i loro film ai festival italiani, da Venezia a Torino. E il movimento dei Centoautori capeggiato da Bernardo Bertolucci, Daniele Luchetti e Valerio Jalongo, ma dentro ci sono anche i vincitori di Cannes, chiede le dimissioni del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi. Motivo: la cancellazione di due misure per gli sgravi fiscali, tax shelter e tax credit, le due norme che dovevano dar respiro al cinema italiano liberando nuove risorse.
Bondi: «Ho dato il massimo impegno per la reintroduzione di questa utile innovazione a favore del cinema, auspico che nell'iter parlamentare venga reintrodotta». Quelle due misure erano state ottenute nell'ultima Finanziaria del governo Prodi. Tutti parlano di paradosso. Sono d'ispirazione liberale, volute anche dai politici di centro- destra, adottate negli Usa e in Europa; lasciate invece le agevolazioni che aiutano il cinema Usa col credito d'imposta.
Luchetti: «Il governo liberista ha cancellato la prima norma liberista del cinema italiano, che l'avrebbe messo nelle mani del mercato nel momento in cui andiamo bene per qualità e quantità. Vogliono un cinema meno libero e più dipendente dalla politica». Col tax shelter, chiunque può investire in un film una parte dei propri utili «scaricando» il 40 per cento della cifra investita. Col tax credit, se un'impresa audiovisiva ha degli utili e vuol reinvestirli in un altro film, può toglierli dal reddito con cui paga le tasse. E tanti saluti alla Festa del cinema di Roma, visto che il sindaco Alemanno aveva chiesto di rilanciarvi la produzione nazionale. Il nuovo presidente Gian Luigi Rondi: «Questa notizia mi ha profondamente preoccupato, sono norme fondamentali per la sopravvivenza del cinema». «Il cinema è stato giudicato assistenziale dalla destra — dice il produttore Riccardo Tozzi —, il bello è che la crisi Usa ha spinto le major a investire nei mercati locali. Accettiamo le strade più competitive e moderne per attirare capitali, e poi... Le hanno abolite perché non si conosce la situazione».
Il parlamentare del Pdl Luca Barbareschi: «Ho scritto al presidente della Repubblica Napolitano perché possa intercedere. Bondi è furibondo, s'era esposto, aveva dato garanzie... Cercheremo di reinserire un emendamento per la defiscalizzazione. Su quelle norme tutte i partiti dovevano essere d'accordo, ma gli sprechi sul cinema si sono fatti ed è difficile difenderlo ora. Io proporrei un progetto generale, su Cinecittà, sui soldi utili e quelli inutili. La coperta è corta, ne ho parlato con Tremonti. Dice che bisogna avere pazienza, un passo alla volta...». Paolo Virzì: «Sciatteria o disegno politico? Io credo disamore, disattenzione». Perché chiedete la testa del ministro Bondi? «Si era esposto prendendo un impegno personale e ha fatto una figura ridicola. Ha parlato a vuoto in difesa del cinema, ha mostrato la sua totale ininfluenza. In un momento così sfavorevole per l'Italia nel mondo, grazie ai nostri film sembrava di vivere in un Paese anticonformista sulle nostre magagne nazionali. Sì, boicotteremo i festival. Non contate su di noi».
Valerio Cappelli A Cannes I registi Paolo Sorrentino («Il divo») e Matteo Garrone («Gomorra») vincitori a Cannes: solidali con la protesta

Corriere della Sera 26.6.08
L'ex ministro: Massimo proponga un'idea per il futuro
Pd, Parisi apre a D'Alema E ItalianiEuropei va nel Pse
Partito diviso su Di Pietro. Veltroni: ognuno fa la sua parte
di Roberto Zuccolini


L'associazione nella fondazione dei socialisti europei. Dopo Red il segretario prepara le contromosse
ROMA — Red lascia il segno. Sembra piacere, pur tra molti distinguo, persino al «picconatore» ulivista Arturo Parisi. O, meglio, a piacere è soprattutto il fatto che Massimo D'Alema «proponga una proposta per il futuro del Paese ». Anche se vorrebbe essere sicuro che si tratti davvero di «un'idea alternativa» a quella di Walter Veltroni. Ma è tutto il Pd che, il giorno dopo il via ufficiale all'associazione Riformisti e Democratici, continua ad interrogarsi sul superattivismo dalemiano. Perché ogni giorno presenta una novità. È di ieri la notizia che ItalianiEuropei (gran patron lo stesso D'Alema e Giuliano Amato), entrerà nella Foundation for European Progressive Studies (Feps), cioè la Fondazione del Pse. Nel quartier generale di Ie si esulta facendo presente che si tratta del «riconoscimento di un lavoro di anni» e che non riguarda le querelle
interne al Pd. Ma già rutelliani e margheritini in generale entrano in fibrillazione: come, dopo aver aperto con Red uno spazio di dialogo «ecumenico », ora in Europa si torna a guardare al gruppo socialista?
E così, fanno presenti i tessitori del dialogo interno, l'ideale sarebbe un chiarimento tra i due big. Ad un certo punto gira anche la voce di un faccia a faccia, perché si vedono Veltroni e D'Alema uscire insieme dall'aula alla Camera. Ma entrambi smentiscono. Piuttosto è dentro la stessa aula, dove siedono a pochi scranni di distanza, che non di rado i due si scambiano pareri. Ciò è avvenuto anche ieri. Il segretario del Pd fa sapere che va avanti la costruzione del partito, con la direzione che si riunirà tra il 15 e il 20 luglio, alla quale farà seguito l'inizio del tesseramento. Ma al tempo stesso prepara le sue contromosse. Tanto per fare un esempio è previsto un incontro sulle riforme che preceda quello di ItalianiEuropei, che ha invitato Umberto Bossi. Senza contare gli appuntamenti già fissati per i prossimi giorni, dalla riunione del governo ombra a quella dei deputati del Pd. E, se le cose andassero male, non si esclude nuovamente di rispolverare l'arma del congresso di «chiarimento», magari a gennaio. Non per venire incontro alle richieste di Parisi, ma per prendere i dalemiani in contropiede.
E ora, dopo il voto al Senato sul decreto sicurezza che contiene il «blocca-processi», si apre un altro fronte di rottura interna. Che si chiama Di Pietro. Il popolare Antonello Soro, capogruppo alla Camera, promette: «Non subiremo la sua demagogia». Anche Marco Follini si mostra preoccupato: «Preferisco l'udc D'Onofrio: con Di Pietro non abbiamo nulla in comune. E spero che questa sia la posizione di tanti altri nel partito». Proprio il contrario di ciò che pensano i prodiani. Franco Monaco si affretta a rispondere: «Con l'Italia dei Valori siamo impegnati in una battaglia comune, quella contro gli strappi alla legalità. Del resto, non avevamo scelto di fare un unico gruppo con loro in Parlamento?
». Ancora più esplicito è Parisi: «Berlusconi ci risolve tutti i problemi accomunandoci all'ex pm». Che cosa ne pensa Walter Veltroni? «Ognuno fa la sua parte. Di Pietro ha il suo ruolo e noi pure: faremo un'opposizione che si candida al governo dell'Italia». Commenta Emma Bonino: «Invece che andare ad una riflessione, mi sembra che il Pd abbia avviato un redde rationem ».

Corriere della Sera 26.6.08
Il giornale Usa
Nyt, critiche all'Italia: troppo dura sugli immigrati


MILANO — Il «New York Times» critica l'Italia e gli italiani. Secondo il giornale Usa, quella italiana con gli immigrati è una situazione «paradossale», visti i milioni di emigranti che hanno lasciato il nostro Paese nel secolo scorso.
In un articolo da Roma, il giornalista Michael Kimmelman punta l'indice contro la paura crescente verso gli extracomunitari, dettata — secondo il critico— dai «mezzi di informazione e politici populisti». E per illustrare il testo, il quotidiano newyorkese utilizza il manifesto della Lega Nord con un capo pellerossa e la scritta «Loro hanno subito l'immigrazione, ora vivono nelle riserve».
Critiche anche al comune di Roma dove le scuole pubbliche «non si allontanano dalla dieta a base di spaghetti al ragù», abbandonando il programma interculturale.

Corriere della Sera 26.6.08
La ragazza sparita Da due mesi la Dia sta verificando i collegamenti con la morte del banchiere
Il figlio di Calvi: la Orlandi rapita per intimidire la Santa Sede
Nuova pista: presa per errore, verifiche su una socia di Flavio Carboni
di Giovanni Bianconi


ROMA — Un segmento dell'indagine ancora aperta sull'omicidio di Roberto Calvi — il presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra — porta alla scomparsa di Emanuela Orlandi, e all'intreccio tra i due fatti avvenuti a un anno di distanza uno dall'altro. Il banchiere fu ucciso il 18 giugno 1982, la ragazza fu sequestrata il 22 giugno 1983.
Carlo Calvi, figlio di Roberto, ha dichiarato ai magistrati che tuttora cercano la verità sull'omicidio del padre: «Il rapimento della Orlandi è un messaggio teso a intimare al Vaticano il silenzio su certe questioni molto delicate, come quelle di natura finanziaria, che hanno visto il coinvolgimento di banche, mafia, partiti politici. Queste oscure vicende, come il rapimento di Emanuela Orlandi, risulteranno sempre legate alla nostra vicenda, alla morte di mio padre e alla fine dell'Ambrosiano».
Prendendo spunto da questa dichiarazione e da altri elementi emersi nel corso di un procedimento che dura da anni, due mesi fa la Direzione investigativa antimafia ha ricevuto una delega dalla Procura di Roma per approfondire un'ipotesi che non solo tiene insieme i due fatti, ma chiama di nuovo in causa Flavio Carboni, il faccendiere già assolto dall'omicidio Calvi nel giudizio di primo grado, in attesa del processo d'appello. Gli accertamenti richiesti muovono dall'ipotesi, già affacciata in passato, che nel sequestro di Emanuela Orlandi, figlia di un dipendente vaticano, ci sia stato un errore di persona: la vittima avrebbe dovuto essere Raffaella Gugel, una ragazza che assomigliava molto a Emanuela e abitava nello stesso palazzo e allo stessa piano.
Il padre della giovane che solo per caso sarebbe sfuggita al rapimento è Angelo Gugel, assistente personale di papa Giovanni Paolo II e in precedenza - per quanto risulta ai magistrati romani - «stretto collaboratore di Marcinkus», il monsignore ex presidente dello Ior, la banca vaticana.
Già «aiutante di camera» di papa Luciani, pontefice per 33 giorni del 1978, tra Paolo VI e Giovanni Paolo II, Gugel è stato anche al fianco di Benedetto XVI.
Qual è l'ipotetico collegamento con la morte di Calvi e la vicenda dell'Ambrosiano? Il fatto che in diverse società a cui è interessato Flavio Carboni - ancora imputato per l'omicidio del banchiere nonostante l'assoluzione in primo grado - figuri tra i soci tale Rita Gugel: identico cognome dell'assistente del papa, peraltro poco diffuso in Italia. La richiesta giunta alla Dia è di accertare se quella Rita Gugel socia di Carboni sia parente di Angelo, attraverso verifiche anagrafiche e nelle camere di commercio.
L'ipotesi investigativa è dunque nell'eventuale intreccio tra Carboni e un uomo - o una famiglia - molto vicino al papa, alle mosse di monsignor Marcinkus e quindi della finanza vaticana tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, quando lo Ior si mescolò con la vicenda di Calvi e dell'Ambrosiano. Nel caso dell'errore di persona, il sequestro della Orlandi avrebbe dovuto essere un segnale lanciato in quell'ambiente.
Sabina Minardi, l'ex amante del bandito della Magliana Enrico De Pedis che alcune settimane fa ha reso dichiarazioni alla polizia sul rapimento (e a suo dire l'uccisione) della ragazza, non fa alcun accenno a uno sbaglio dei rapitori.
Ma tira in ballo monsignor Marcinkus (morto nel 2006), che dice di aver conosciuto al pari di Carboni e Calvi. In maniera confusa e contraddittoria, sommando indicazioni riscontrabili ad altre già smentite, la nuova testimone ha detto che l'arcivescovo sarebbe il mandante del sequestro, eseguito da De Pedis e i suoi amici. Sul movente riferisce ricordi vaghi, che vanno dai imprecisati documenti in possesso del padre della ragazza al denaro della banda della Magliana affidato al prelato-banchiere. Affermazioni che gli investigatori della squadra mobile considerano la parte più debole di un racconto già traballante. Con maggiore precisione la donna ha rivelato di aver portato a casa di Marcinkus delle prostitute, descrivendo l'appartamento del monsignore e fornendo altri particolari.
Se il coinvolgimento «della Magliana» nel sequestro Orlandi è ancora un'ipotesi, quello nella vicenda Ambrosiano-Calvi è invece una realtà certificata dalla morte di uno dei «testaccini» della banda, ucciso a Milano dopo aver sparato al vice-presidente della banca Roberto Rosone. «Era un avvertimento per Calvi, considerato non più affidabile», spiegò il suo amico e sodale De Pedis, secondo il racconto del pentito Maurizio Abbatino. Due mesi dopo Calvi fu ucciso, e un anno più tardi sparì Emanuela Orlandi: la nuova indagine proverà a verificare eventuali collegamenti mai accennati da Abbatino e dagli altri pentiti della banda.

Corriere della Sera 26.6.08
Simboli oltre la storia
Pompei, alle origini di un mito universale
di Eva Cantarella


Sono oltre due milioni e mezzo, ogni anno, i turisti che visitano Pompei. Ovviamente, le ragioni non mancano. Ma perché non ha la stessa fama la non meno straordinaria Ercolano, che ne ha condiviso il destino di morte? La risposta in un libro interessante e originale Pompei: la costruzione di un mito. Arte, letteratura, aneddotica di un'icona turistica curato da Luciana Jacobelli (Bardi editore).
Distrutta il 24 agosto del 79 d.C., Pompei scomparve sotto una valanga di pomice, ceneri e lapilli eruttati dal Vesuvio. Solo nel 1748 venne riscoperta: e subito scattò il processo di costruzione del suo mito. Artisti famosissimi, re, regine, dame, persino papi si precipitarono a visitarla. Ad alcuni di essi i Borboni regalavano addirittura l'emozione del «ritrovamento in diretta »: dalla terra vulcanica, sotto i loro occhi estasiati, si materializzavano tesori precedentemente preparati da solerti funzionari istruiti dal sovrano di turno. A Pompei, scrisse Stendhal, ci si trova «faccia a faccia con l'antichità». Le circostanze della sua distruzione annullano la distanza storica. Chi entra nelle case e nelle taverne, vede i resti del cibo, legge i graffiti sulle pareti, stabilisce un rapporto con il passato molto diverso da quello di estraneità in genere suscitato dall'antico.
La storia diventa qualcosa di personale, che fa scattare un processo di identificazione, realizzando il sogno del viaggio nel tempo. Non a caso edifici sullo stile delle case e delle ville pompeiane sono stati realizzati in tutto il mondo, dalla Casa dei Dioscuri ad Aschaffenburg in Baviera (1840-48) alla Villa di Diomede realizzata per volere di Girolamo Napoleone a Parigi. Pompei non è solo un sito archeologico, è un un mito, che il libro segue dai suoi albori all'epoca odierna del turismo di massa, in cui la città si conferma inossidabile e inarrivabile icona turistica.

LUCIANA JACOBELLI Pompei: la costruzione di un mito BARDI EDITORE PP. 127, e 20

Repubblica 26.6.08
Gli "schiavi di Hitler" contro la Farnesina
Le vittime italiane del nazismo deluse da Frattini sugli indennizzi
di Andrea Tarquini


Per gli ex forzati italiani penso sia importante ricevere un gesto simbolico. Dargli ora 3000 euro non è quello di cui hanno bisogno

Berlino - Gli ex forzati di Hitler italiani aprono una dura polemica contro il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Rimproverano al titolare della Farnesina quanto da lui detto nel corso della recente visita in Germania e in una lunga intervista al quotidiano Sueddeutsche Zeitung. Che cioè la recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha confermato il diritto a chiedere alla Repubblica federale il risarcimento per chi fu deportato nel Terzo Reich dopo l´8 settembre e costretto ai lavori forzati, sarebbe «pericolosa». Non solo. Il ministro degli esteri ha anche detto che per i deportati avrebbero bisogno di «un gesto simbolico, magari un museo della memoria».
Ricordiamo in breve i fatti. La Cassazione ha stabilito in sostanza il diritto di presentare cause e chiedere risarcimenti. Risarcimenti che dal 2000 la Germania ha concesso a milioni di vittime del nazismo, escludendo però di fatto «con obiezioni pretestuose e di fatto per motivi economici», dice il comunicato dell´Anrp, l´associazione degli ex internati e prigionieri italiani. Furono circa 800mila, civili e militari, i nostri connazionali che dopo la resa italiana agli Alleati e la cobelligeranza al loro fianco furono arrestati e deportati nei territori italiani occupati dalla Wehrmacht. Circa 50mila finirono nei campi di sterminio, altri 750mila lavorarono in condizioni bestiali, soprattutto nell´industria bellica del Reich. Oggi ne restano in vita appena 30mila, il più giovane è nato nel 1924. Ogni giorno che passa, ai loro occhi un gesto d´indennizzo tedesco appare più improbabile. «Mi chiedo allora che significato ha la medaglia d´onore concessa loro dall´Italia», afferma Enzo Orlanducci, presidente dell´Anrp. Che è deciso a dare battaglia.
Secondo l´associazione, un dato inquietante è che nell´intervista Frattini risponde affermativamente alle domande dell´intervistatore tedesco: se l´Italia tema, ove la Germania finisca per essere costretta a pagare, di trovarsi a sua volta ad affrontare una valanga di richieste d´indennizzo per le numerose vittime dei crimini di guerra di cui si rese responsabile in Africa, in Jugoslavia o in Grecia.
Protesta e sensibilizzazione continueranno in ogni modo, assicura Orlanducci. «Abbiamo consegnato al presidente del Parlamento europeo, un tedesco, una lettera di denuncia per chiedere anche una mediazione dell´Europa». Secondo il presidente dell´Anrp, il governo «ha paura che anche l´Italia debba pagare. Abbiamo commesso crimini, per paura di dover pagare non diamo fastidio a nessuno. E´ un´offesa al diritto». Nell´intervista Frattini aveva detto tra l´altro che «se i tribunali decidono caso per caso, quando uno Stato è immune, non ci si può più affidare al principio dell´immunità statale. Ma il mondo ha bisogno di certezza del diritto. Altrimenti si scardina tutto».Repubblica 26.6.08

Repubblica 26.6.08
Odissea. Quale canzone cantano le sirene
Gli enigmi del grande poema
di Alberto Manguel


Da Platone a Dante e a Kafka il segreto di quelle voci attraversa i secoli
È il lettore che ricompone e penetra i testi e dà loro un senso mentre li attraversa

Anticipiamo parte dell´intervento che terrà domani alle 21 alla Biblioteca Classense di Ravenna.

Narra Svetonio che l´imperatore Tiberio, quando si trovava tra professori di letteratura greca, gli rivolgeva tre domande, le quali secondo l´imperatore, non avevano risposta. La terza era la seguente: «Quale canzone cantavano le sirene?» Domanda che, come osservò quindici secoli dopo Sir Thomas Browne, «sebbene enigmatica, non va al di là di una qualunque congettura».
Per tentare una risposta, vediamo quali sono le caratteristiche di tale canto. In primo luogo, è pericoloso, dato che ci attrae irrimediabilmente, facendoci dimenticare il nostro mondo e le nostre responsabilità. In secondo luogo, è rivelatorio, giacché parla di quel che è accaduto e di quel che accadrà, di quello che conosciamo e di quello che non possiamo conoscere. E infine, può essere capito da tutti, gente del luogo e stranieri, greci e barbari, dato che la maggior parte degli uomini naviga in mare e nessuno sa se incontrerà le terribili sirene.
In cosa consiste il pericolo di questo canto? Nella melodia o nelle parole? Nel suono o nel significato? E se tutto rivelano, le sirene conoscono il loro tragico destino, o come specchi di Cassandra alle cui parole nessuno crederà, sono esse stesse le uniche insensibili alla loro musica? E qual è quella lingua che dev´essere universale?
Immaginiamo, come Platone, che non siano parole ma note musicali quelle che le sirene cantano, qualcosa di quella musica pura sarà sufficiente a dargli senso. Un qualcosa trasmesso dalle voci delle sirene (e che non può ridursi a puro ritmo o pura intelligenza) che chiama chi le ascolta come fa un animale in calore, emettendo un suono impossibile da tradurre se non come eco di se stesso. La Chiesa del Medio Evo vide nelle sirene le tentazioni che provocano l´anima nella sua ricerca di Dio, e nelle loro voci l´eco dell´animale che ci allontana dal divino. Ma è forse per quella stessa ragione che il senso del canto delle sirene, a differenza del senso della volontà di Dio, «non va al di là di una qualunque congettura». La questione, credo io, riguarda alcuni aspetti del problema centrale del linguaggio.
Le lingue che si sviluppano nel mondo omerico e pre-omerico, sotto l´influenza di migrazioni e di conquiste, con tentativi di scrittura e di creazione letteraria, furono sempre lingue «tradotte». Ovvero, lingue che per ragioni di guerra o di commercio, servivano a stabilire contatti sia tra chi le condivideva sia con il forestiero, il barbaro, colui le cui parole risuonavano alle orecchie dei popoli della Grecia come un «blablabla» bestiale. Il passaggio da un vocabolario a un altro per comprendersi reciprocamente, è stato (ed è ancora) uno dei misteri essenziali dell´atto intellettuale. Se una comunicazioni semantica, orale o scritta, colloquiale o letteraria, dipende dalle parole che la costituiscono e dalla sintassi che la governa, cos´è che preserviamo quando le sostituiamo con un´altra sintassi e con altre parole? Insomma, cosa resta quando cambiamo il suono, la struttura, i vocaboli, il peso culturale, le convenzioni linguistiche? Cosa traduciamo quando diciamo tradurre? Né senso né suono allora, ma qualcosa che sopravvive alla trasformazione di entrambi, quel che resta quando togliamo tutto. Non so se quell´essenza può essere definita, ma forse per analogia, possiamo intenderla come il canto delle sirene.
Qualcosa sappiamo per certo di essa. La sua essenza divinatoria.
Ogni grande letteratura (o ogni letteratura che chiamiamo grande) sopravvive, bene o male, attraverso le sue reincarnazioni o traduzioni, letture o riletture, trasmettendo una sorta di conoscenza o rivelazione che a sua volta diffonde e accende intuizioni e barlumi in ognuno dei suoi lettori. Questa sua qualità rivelatoria, che ci permette di capire attraverso un romanzo o un poesia qualcosa dei nostri propri misteri, somiglia nei suoi processi di lettura, ai pronostici che gli indovini fanno leggendo i carapaci di tartaruga o i fondi del tè, letture divinatorie condannate dalla chiesa medioevale e recuperate dal nostro secolo. Non si tratta di leggere una scrittura convenzionale nella quale si suppone un codice condiviso tra chi lo utilizza e chi lo decifra, ma di discernere, in una costruzione arbitraria o ready-made, un testo significativo. In tal caso, è il lettore che ricompone e penetra il testo, si colloca agli estremi della pagina dandogli senso nella misura in cui lo attraversa.
Secondo i greci, sono le voci femminili che offrono agli uomini tali testi per la loro ricostruzione e lettura. Cassandra, nell´annunciare il terribile futuro cui il paese si rifiuta di credere; Ecuba, nel gridare il proprio dolore come irrefutabile conseguenza della violenza, conseguenza che i guerrieri (e tra essi Ulisse) si sforzano di ignorare; Andromaca, nello spiegare prima a Ettore e poi a Pirro la teatralità dei loro drammi nei quali, come uomini di guerra, interpretano ciecamente il loro ruolo; Elena, nel cercare di paragonare i suoi pretendenti alla tragica relazione tra la bellezza e la verità; la Sibilla, nel dire verità che non vogliono essere capite; le sirene nel cantare una canzone in cui ogni uomo legge quel che più teme o quel che più lo attrae. Per essere decifrata da tutti, ciascuno a modo proprio, quella lingua criptica è, allo stesso tempo, una profezia chiusa e un testo aperto a infinite traduzioni, nessuna esatta e nessuna esclusiva. Ed è quella qualità ambigua e paradossale, ineffabile e trasparente, che la rende universale.
Nella stessa pagina de La Repubblica in cui compaiono le sirene, Platone racconta che, quando i grandi eroi dell´antichità dovettero scegliere reincarnazioni future, l´anima di Ulisse, ricordando quanto l´ambizione lo avesse fatto soffrire nella sua precedente vita, scelse per la sua nuova vita quella del cittadino comune, destino disprezzato dalle altre anime. In quell´istante Ulisse rifiuta la gloria di Troia, la fama del guerriero inventore e stratega, la conoscenza del mondo dei mari, il dialogo con i cari defunti, l´amore di principesse e di streghe, la corona del vincitore di mostri, il ruolo del rispettabile vendicatore, la reputazione del marito fedele - il tutto in cambio di una vita anonima e tranquilla. È lecito domandarsi se tale saggezza, sorprendente per un uomo il cui destino è l´avventura, non gli sia stata data proprio nel momento in cui, legato all´albero, fu raggiunto dalle voci delle sirene.
Tiresia gli aveva detto che dopo quell´ultimo, misterioso viaggio, la sua morte sarebbe stata serena: «Morte dal mare, ti verrà molto dolce, a ucciderti vinto da una serena vecchiezza. Intorno a te popoli beati saranno». Dante non poté concedergliela, e neppure le generazioni di poeti futuri che tradussero, ognuna a modo proprio, il canto delle sirene. Da Omero a Joyce, quasi tutti i poeti vollero, in un modo o in un altro, che Ulisse fosse un eroe avventuriero. Solo pochi di loro, tra cui Platone, intuirono che doveva essere Ulisse stesso a cambiare il proprio destino, scoprendosi infine ai loro stessi occhi nel meraviglioso canto che crede di ascoltare. Nel IV secolo, l´oratore Libanio, amico dell´imperatore Giuliano l´Apostata, argomentò nella sua Apologia di Socrate che Omero avesse scritto l´Odissea come una lode all´uomo che, al pari di Socrate, aveva voluto conoscere se stesso.
Anche Dante riconobbe l´ambiguità che doveva avere quel canto seduttore. Nel canto XIX del Purgatorio, Dante fa un sogno. Una donna gli si avvicina, «una femmina balba, ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, con le man monche, e di colore scialba».
Dante la contempla e il suo sguardo la rende bella. La donna comincia a cantare e il suo canto incanta il poeta.
«Io son», cantava, «io son dolce serena, che marinari in mezzo mar dismago; tanto son di piacere a sentir piena!»
Dante chiama Virgilio affinché questi gli dica chi è l´apparizione tentatrice, e Virgilio si presenta e la spoglia, rivelando un ventre immondo il cui fetore risveglia il poeta.
L´immagine della sirena ossessiona Dante, come ci ossessiona l´immagine amorosa che esageriamo fino a renderla falsa. La sirena è, così come vuole far intendere Virgilio al suo protetto, non un´autentica visione erotica ma un riflesso concepito dal proprio desiderio. Il canto della sirena (o la sirena stessa) sono proiezioni di quel che Dante nasconde a se stesso, ombra del suo lato oscuro, inammissibile e segreto, il testo segreto che il sogno di Dante inventa e che la sua veglia vuole decifrare.
Kafka propose, secoli dopo, che di fronte alle aspettative di Ulisse, le sirene tacessero, o per sconfiggerlo con il loro silenzio o perché sedotte dal poderoso sguardo dell´eroe, e che l´astuto Ulisse fingesse di ascoltare il canto magico che le sirene gli avevano negato. In quel caso, non fu né la musica né le parole che Ulisse percepì, ma una sorta di foglio bianco, il poema perfetto, teso tra scrittura e lettura, sul punto di essere concepito.
Come Dante nel Purgatorio, possiamo immaginare, perché no, che anche Ulisse, «sazio di prodigi», trasformi il canto udito, voce o silenzio, in canto proprio. Possiamo immaginare che traduca quella lingua universale in un idioma privato e unico, componendo per se stesso una sorta di autobiografia totale, un testo cristallino nel quale Ulisse si riconosce e perfino si scopre.
Forse non è in altro modo che funziona la letteratura.

© Alberto Manguel, 2008 Traduzione Fiammetta Biancatelli
Alberto Manguel ha pubblicato Iliade Odissea, una biografia, (Newton Compton)

il Riformista 26.6.08
Giustizia. Nuovo «messaggio nella bottiglia»
Allarme al Quirinale, la situazione precipita
di Alessandro De Angelis


Parola d'ordine: abbassare i toni su politica e giustizia. Il presidente della Repubblica ci ha provato, di nuovo, nella giornata di ieri. L'eco del discorso di Berlusconi all'assemblea della Confesercenti («I giudici politicizzati sono la metastasi della democrazia») non è ancora arrivato al Quirinale quando, in mattinata, il capo dello Stato prende la parola di fronte al Consiglio nazionale forense. Dove non esita a definirsi «preoccupato». Anzi, «molto preoccupato». È la seconda volta dall'inizio del mese che usa questa espressione, dopo aver molto insistito sul dialogo. Che, in questi giorni, al presidente appare come «un messaggio in una bottiglia», di cui, cioè, non si conosce chi lo raccoglie. Un messaggio in cui il capo dello Stato ha lasciato trapelare, se non pessimismo, quantomeno il timore che il livello dello scontro possa andare fuori controllo. E ancora ieri, lasciando intendere di parlare nel suo ruolo di presidente del Csm, ha affermato di fronte agli avvocati: «Dobbiamo auspicare che la nuova stagione parlamentare porti avanti il percorso delle riforme di cui ha assoluto bisogno l'amministrazione della giustizia nel suo insieme». Indirizzandosi al mondo politico ha poi aggiunto: «Perché vi si riesca, deve affermarsi - ne sono convinto, e non è la prima volta che lo sottolineo - un clima di ascolto reciproco e di confronto costruttivo su questi problemi tra tutte le componenti del mondo della giustizia e del mondo politico e istituzionale». Un messaggio forte, in una giornata diventata incandescente dopo le parole di Berlusconi. A vedere i tg di ieri sembrerebbe che, dopo l'attacco del premier, il discorso di Napolitano sia stato diffuso in maniera meno soft del previsto per creare, almeno, un contraltare mediatico altrettanto efficace.
La preoccupazione del presidente è, dicono al Colle, proprio il «clima di scontro» sulla giustizia. Cui ha contribuito, ieri, anche la presentazione della bozza di parere alla sesta Commissione del Csm dai relatori Livio Pepino e Fabio Roia. La norma varata dal governo che sospende i processi per reati puniti con meno di dieci anni di reclusione viene definita una «amnistia occulta». Al Quirinale minimizzano: «Un giudizio che rispecchia il clima di tensione». Tra l'altro, notano, «non si parla di incostituzionalità». A questo punto però, per Napolitano il sentiero che porta alla promulgazione della legge sulla sicurezza è davvero stretto. Anche perché in questo momento, durante il dibattito parlamentare, il presidente non può che limitarsi ad agire sui toni e sul clima politico, sulla moral suasion appunto. A Napolitano non resta che esprimersi alla fine dell'iter istituzionale. Difficile fare pronostici, anche se appare improbabile sia che possa bocciare la legge, facendo così decadere gli altri effetti del decreto che lui ha controfirmato, sia che possa rinviarne solo una parte alle Camere. Certo è - dice un autorevole fonte del Quirinale - che il presidente può dare un segnale di presa di distanza: se non un messaggio vero e proprio, quantomeno una esternazione per manifestare la gravità della scelta cui viene costretto.
Gioca sul filo della diplomazia il presidente che ieri, emanando il decreto che costituisce l'anticipazione della finanziaria, ha inviato, contestualmente, una lettera ai presidenti di Camera e Senato. Oggetto: il «rischio ingorgo» dei lavori parlamentari a causa dei numerosi provvedimenti all'esame delle Camere. Il capo dello Stato, tornando su un tema sollevato più volte anche durante il governo Prodi, ha sottolineato «l'esigenza che i lavori parlamentari delle prossime settimane siano intensificati e programmati in modo da conciliare al meglio le esigenze dell'azione di governo con la tutela delle prerogative del Parlamento in questa fase eccezionalmente densa e impegnativa dei lavori parlamentari». Una risposta a chi vorrebbe fare un decreto sul "lodo Schifani"? Al Colle a quella voce non ci hanno mai creduto: «Dopo che due settimane fa a Venezia il presidente aveva detto che sulle intercettazioni bisognava procedere con un disegno di legge, come era possibile proporre un decreto su una norma così contestata già passata davanti alla Consulta?». Piuttosto il richiamo sull'ingorgo istituzionale - fatto proprio oggi - sembrerebbe un richiamo, che vale anche per il decreto sicurezza, a una «normale e efficace» dialettica parlamentare. Con l'obiettivo, sempre quello, di abbassare i toni.

Libero 26.6.08
Trovato il tesoretto, ce l’ha Bertinotti
di Oscar Giannino


Io lo so che molti tra voi lettori non ci crederanno. Ma sono legato a Fausto Bertinotti da una stima vera e profonda. Tanto da non avere alcuna difficoltà ad ammettere che rimpiango molto che egli non sia in Parlamento. Ha pagato un amaro prezzo, al fatto di aver indicato per primo e con anni di anticipo alla sinistra antagonista l’abbandono di ogni pratica violenta, e una lettura della globalizzazione più in chiave di nuovo umanesimo lacaniano, che di vecchio leninismo. La conferma di quanto Fausto abbia operato con la testa sulle spalle, viene dai conti che vi presentiamo, quelli di Rifondazione comunista. La vera partita al VII Congresso nazionale di Rifondazione, il prossimo 24 luglio a Chianciano, non è solo politica, per lo sciglimento del partito in un soggetto diverso oppure no. È per il patrimonio che Rifondazione, negli anni di Fausto, ha oculatamente messo in cascina. I conti sono presto fatti. Ci sono circa 27 milioni di euro che a Rifondazione spetteranno nei prossimi tre anni, pur non essendo più in Parlamento, per effetto dei precedenti turni elettorali-nazionale, regionale ed europeo. La legge di rimborso ai partiti in Italia funziona così. E anzi, se passa la leggina di quel callido ex amministratore dei Ds che è Ugo Sposetti, a Rifondazione il flusso aumenterà fino a scavallare le prossime politiche. (...) (...) Sposetti è un genio, in queste cose. Come ha blindato in due anni il patrimonio Ds dalla mire del Pd - è lui il vero antiveltroniano di ferro, il patrimonio fonda la politica e non viceversa - allo stesso modo getta un ponte a Rifondazione in futuro per conto di Massimo D’Alema. E io li capisco, perché le identità di partito si difendono e non praticano l’eutanasia se non coatta, storicamente è giusto così. E dunque, se passa la linea Sposetti che nasce per dare una mano a tutti i partiti esclusi dal Parlamento nell’attuale legislatura, ecco che il flusso di cassa su cui potrà contare l’eligendo capo di Rifondazione supera i 30 milioni di euro. A quest (continua: il seguito nelle edicole, o acquistando una copia del quotidiano on line qui)

mercoledì 25 giugno 2008

l’Unità 25.6.08
Lodo Schifani, polemica Di Pietro-Pd
L’Idv: se siete disponibili salta l’alleanza. Soro: i massimalisti fanno regali alla maggioranza
di ma.so.


SEMBRANO SEMPRE PIÙ AMPI gli spiragli di trattativa per l’approvazione in tempi rapidi di un nuovo “Lodo Schifani” che metterebbe al riparo dagli interventi della magistratura le più alte cariche dello Stato. Una possibilità di dialogo che se da una parte troverebbe spazio nelle caute aperture del Pd, «non pregiudizialmente contrario» stando alle parole del presidente dei senatori del Partito Democratico Anna Finocchiaro, dall’altra agita le acque del centrosinistra. Dove Antonio Di Pietro, irremovibile sulla linea della contrarietà, ha posto ieri con fermezza quello che ha tutto l’aspetto di un “ultimatum”. Casus belli il voto contrario della giunta delle elezioni del Senato (a larghissima maggioranza, Pd compreso, Idv astenuto) alla richiesta di arresti domiciliari per Nicola Di Girolamo, il senatore del Pdl per cui il gip di Roma Luisanna Figliolia aveva avanzato una richiesta di misure cautelari per falso in atto pubblico e attentato contro i diritti politici dei cittadini nell’ambito dell’inchiesta su presunte irregolarità nel voto all’estero. Una decisione (la parola passa adesso all’Aula) che ha mandato su tutte le furie il leader dell’Idv: «Si pone un problema gravissimo di alleanze - ha spiegato infatti Di Pietro - Ci dicano se vogliono fare la ruota di scorta a Berlusconi. Noi abbiamo chiesto agli elettori di votarci per essere alternativi a Berlusconi, se il Pd ha deciso di fargli da supporto non possiamo essere alleati». Chiaro a tutti, infatti, che più della decisione su Di Girolamo per l’ex pm è dirimente la posizione del Partito Democratico sulla possibilità di un nuovo Lodo Schifani. Da non osteggiare, magari “in cambio” di uno stralcio dal decreto sicurezza degli emendamenti blocca processi. «È incredibile - ha infatti attaccato Di Pietro - che al Senato sia stata negata l’autorizzazione ad arrestare una persona che è diventata parlamentare dando false generalità grazie anche ai compagni del Pd che hanno detto che l’immunità va negata per reati più gravi». Ma per Di Pietro è «ancora più grave dire che sono d’accordo a fare una legge sull’immunità, anzi l’impunità, per Berlusconi». Parole che sono sembrate una risposta a stretto giro alle aperture di Anna Finocchiaro che in mattinata, parlando della possibilità di un nuovo Lodo Schifani, aveva detto di non avere «nessuna pregiudiziale di principio. Nel senso che un sistema di immunità per le alte cariche esiste anche in altri Paesi europei». «Il problema - aveva però precisato il presidente dei senatori del Pd - è che qui lo propone il presidente del Consiglio in carica per un procedimento a proprio carico. Diciamo che c’è una ineleganza, una inopportunità che io non fatico a vedere. Mi chiedo se altri fatichino a vederla».
Troppo pesanti le accuse di Di Pietro per non suscitare la reazione del Partito Democratico, che attraverso il capogruppo alla Camera Antonelo Soro ha giudicato «inaccettabili» le parole dell’ex magistrato. «È lui - ha proseguito Soro - che fa regali alla maggioranza ogni volta che indossa abiti massimalisti e regola sul tono di voce la profondità degli argomenti. Noi non abbiamo nessuna intenzione di fare regali al Pdl, non so chi gli abbia dato la patente per giudicare la qualità dell’opposizione del Pd». Passano pochi minuti e il leader dell’Idv rincara la dose: «Soro guarda il dito invece di guardare la luna. Invece di dire che Di Pietro ha alzato la voce, dica al suo Pd di non abbassare la guardia e di chiarire la sua posizione».

Ecco perché fu giudicato incostituzionale
Il Lodo Schifani è incostituzionale perché, pur mirando a tutelare il «sereno svolgimento delle rilevanti funzioni» delle 5 più alte cariche dello Stato, va in rotta di collisione con uno dei princìpi che è «alle origini della formazione dello Stato di diritto»: la «parità di trattamento rispetto alla giurisdizione». La sospensione del processo è infatti «generale, automatica e di durata non determinata»: riguarda «reati comuni, in qualunque epoca commessi, estranei all’attività istituzionale»; scatta automaticamente «senza alcun filtro» (né parlamentare, come l’autorizzazione a procedere, né tantomeno giudiziario), qualunque sia l’imputazione e lo stato del processo; e poi è reiterabile all’infinito. Inoltre, per com’è stato congegnato, il Lodo compromette il diritto di difesa sia della parte civile, costretta a «soggiacere» alla sospensione del processo, sia dell’imputato, che per veder accertata la propria estraneità ai fatti imputatigli, è costretto a «dimettersi» dalla carica, «rinunciando così al godimento di un diritto costituzionalmente garantito». Ma il Lodo è incostituzionale anche perché accomuna in modo «irragionevole» cariche fra loro diverse per «fonti di investitura» e «natura delle funzioni», e poi perché «distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princìpi fondamentali della giurisdizione, i presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti».

l’Unità 25.6.08
D’Alema battezza «Red»
«Diamo sfogo al malessere»
di Andrea Carugati


Non sarà solo un’associazione di parlamentari e intellettuali. Ma un’organizzazione capillare, radicata sul territorio, con coordinamenti a livello regionale e provinciale. Il “tesseramento”, 100 euro a testa, è partito già ieri pomeriggio al cinema Farnese, dove «Red», Riformisti e democratici, l’associazione che sarà la costola politica della Fondazione di Massimo D’Alema Italianieuropei, è stata tenuta a battesimo. 110 i parlamentari Pd già arruolati, 4 gli eurodeputati guidati dal capogruppo italiano nel Pse Gianni Pittella, prodian-lettiano il presidente Paolo De Castro, mariniano uno degli uomini forti del progetto, l’ex responsabile organizzativo della Margherita Nicodemo Oliverio. Che dice: «Avremo tantissime associazioni Red su tutto il territorio nazionale, luoghi dove nasca l’amicizia».
«Non sarà una corrente», hanno ripetuto in coro tutti gli intervenuti, da Livia Turco a Bersani, fino a D’Alema che ha chiuso l’incontro. Ma la Turco parla esplicitamente di una «doppia militanza: ben vengano luoghi che ci aiutino ad avere coraggio e schiena dritta». L’ex ministro degli Esteri ha battuto più volte sul rapporto tra Red e il Pd. «Non vogliamo destabilizzare, fare casino, o rompere le scatole a Veltroni». «Non vogliamo organizzare un pezzo del Pd, o fare un partito di massa», ha aggiunto. «Fare una corrente sarebbe stato più semplice- avverte- non avremmo avuto bisogno di tutta questa impalcatura. Qui ci sono persone che hanno votato candidati diversi alle primarie, io ad esempio ho sostenuto Veltroni e non ne sono pentito».
L’obiettivo dichiarato di D’Alema è aprire «un luogo di confronto tra politica e società», costruire «una forma politica di tipo nuovo», con una fondazione, una associazione, una tv satellitare, collegamenti internazionali, sulla falsariga del modello americano. «Vogliamo fare cultura politica», dice Bersani. «Solo il conformismo e la pigrizia possono far pensare a una corrente- dice D’Alema- ma noi non ci possiamo far condizionare, ricattare o intimidire da questo conformismo. Il successo di Red può essere importante per il decollo del Pd». D’Alema spiega di non volersi «sostituire», con Red, al momento della decisione politica: «Sono da tempo fuori da organismi di direzione politica, e non ho in mente di tornarci. Il nostro lavoro sta a monte delle decisioni, vogliamo fornire alla politica materiali ed elementi che aiutano». L’esempio c’è già, e lo descrive con nettezza Ignazio Marino, che proprio dentro Italianieuropei negli anni scorsi ha prodotto elaborazioni e progetti sui temi della sanità e della bioetica.
D’Alema parla di Red come di «un canale di partecipazione in più», in grado di dare sfogo «al malessere che c’è» nel Pd, di «canalizzarlo verso azioni positive e non distruttive». Spiega che il successo di Red si misurerà non con il numero dei parlamentari aderenti, ma dal «numero di persone, anche e soprattutto non iscritte al Pd, che aderiranno». Ma guai a chi volesse usare l’associazione per pesarsi dentro il Pd. Lo dice De Castro: «Nessuna ambizione di pesare il nostro contributo in termini di composizione dei gruppi dirigenti». E D’Alema si rivolge alla platea: «Se qualcuno vi dice “vediamoci prima della tale riunione”, resistete. Non usate Red per scopi, pure legittimi, ma che sono diversi dal nostro».
Poi c’è l’idea di elaborare idee per la sfida a un centrodestra «che ha preparato la sua vittoria anche con tante iniziative culturali di questo tipo». Ma anche il governo e la sua maggioranza saranno interlocutori di Red, a partire dal convegno sulle riforme elettorali e costituzionali che sarà organizzato a metà luglio e che, ha detto D’Alema, tra gli invitati vedrà anche il ministro delle Riforme Bossi. In autunno altro appuntamento sui temi della competitività, con inviti ad alto livello nel mondo industriale e sindacale. «Credo nel dialogo- ha spiegato D’Alema- il punto è chi fissa l’agenda». Ed è chiaro che uno degli obiettivi di Red sarà fissare l’agenda, non solo dentro il Pd.
Uno dei temi più battuti nel bollente pomeriggio romano è la necessità di fissare in modo più netto la differenza tra centrosinistra e centrodestra. L’ha detto Bersani: «Non può essere la destra a dire che il mondo così non va bene, il Pd deve anche litigare con l’opinione del momento». Barbara Pollastrini: «La Lega vince perché ha un’identità chiara, non dobbiamo seguire il senso comune, Zapatero e Obama sanno osare». Livia Turco sprona a difendere gli immigrati da questa «caccia» che si è aperta, a non considerare «ineluttabile» l’introduzione del reato di immigrazione clandestina. Gianni Pittella, invece, punta sulla «felicità di chi è venuto qui oggi», una neanche tanto velata stoccata all’assemblea del Pd di venerdì a Roma. E introduce un altro tema, in contrapposizione al nordismo di molti dirigenti del Pd: «Red nasce per affermare una nuova politica meridionalista». Musica per Nicola Latorre, padrone di casa della giornata, che sorride a un paragone tra Red e il Correntone: «No, porta sfortuna, quelli sono stati sempre minoritari...».

l’Unità 25.6.08
Prodiani, lettiani, dalemiani. Il Farnese di Roma si è riempito di democratici di ogni chiesa...
Il risiko culturale del «lider Massimo»
«Ma intanto diciamo quello che non siamo...»
di Federica Fantozzi


Se non è un paradosso, poco ci manca: a sentire il fondatore, la sua associazione sarà il software del Pd mentre i circoli saranno l’hardware. In un’inversione di ruoli rispetto al passato a Veltroni tocca il ruolo concreto di uomo di apparato e leader operativo. Mentre D’Alema si ritaglia il più aereo «spazio personale» di un’associazione culturale il cui successo «non dipenderà dal numero di parlamentari iscritti ma dalle personalità della cultura e della società», si propone di fare network e ha già in cantiere un evento con «sindacato e industria al top».
L’insegna del cinema Farnese decanta il film serale: «Tutto torna». E nonostante risvolti di novità, in molti lo pensano. Ore 17,30: a Campo dei Fuori ci sono più giornalisti che prossimi iscritti a Red. «Il Pd per la prima volta ha deciso di fare ostruzionismo - scherza un dalemiano - Sono tutti bloccati in aula...». Compreso il lìder Massimo. La piazza, dove aleggia una vaga puzza di pesce residuo del mercato mattutino, si popola alla spicciolata. Rondolino in t-shirt conversa con il direttore di Europa Menichini. Cisnetto, giornalista economico e organizzatore dell’estate di Cortina, con Passigli. C’è Francesco D’Onofrio dell’Udc, per «osservare». Spuntano le bindiane Carloni, Magistrelli e Mazzucconi. Arrivano Bassanini, il siciliano Crisafulli, l’ex Udeur Cusumano, Marcella Lucidi, Lucà. I calabresi Meduri, mariniano, e Naccarato, cossighiano.
Appaiono Sandra Zampa e Gregorio Gitti: «Non ho ancora aderito - dice lei - ma sono molto interessata. Siamo pezzi dell’Ulivo». Tutti i lettiani tranne Letta: l’eurodeputato Pittella «felice di essere qui», il giovane Boccia, Bubbico, Fabio Nicolucci furioso contro la «cooptazione» di Luca Sofri nella nuova direzione.
Nella sala dalle 500 poltroncine lilla però il gioco di ruolo mostra qualche effetto collaterale di tipo psicologico. Al punto che due terzi del dibattito sono impegnati a focalizzare cosa Red assolutamente non è. «Non una corrente - scandisce il presidente De Castro dal palchetto - Iniziative così vanno promosse e favorite nel partito». «Qui non si tramano congiure o si preparano assalti al gruppo dirigente - si indigna Pittella - Vogliamo portare un contributo». Il termine ricorre, ignorando che con quella perifrasi i Dc d’antan annunciavano proprio la nascita dell’ultima corrente. «Essere qui è una scelta - chiosa Barbara Pollastrini - Ma non ci sono ragioni dietrologiche o misere». L’apice del freudiano lo tocca Bersani: «Sono arrivato tardi, gli altri avranno già detto cosa non siamo, io parlerò di ciò che siamo...».
Applaudono Marida Bolognesi, Rita Lorenzini, Cuperlo. A fondo sala appare Ricky Levi. Giunge Nicodemo Oliverio, braccio destro di Marini invitato eppure assente per evitare lacerazioni troppo evidenti. Latorre, in prima fila, lo accoglie e lo indica a De Castro. Lui coglie: «Diamo la parola a...». Il calabrese sarà tra i più espliciti, insieme a Livia Turco che evoca «una doppia militanza». Si accalora Oliverio: «Creeremo tante Red su tutto il territorio. Serve un luogo di riflessione e confronto. C’è l’esigenza di fare partito».
Un partito ci sarebbe già, ma nessuno pare accorgersene. D’Alema ribadisce che si tratta di un’operazione culturale di ampio respiro mica «una corrente di scarsa fantasia», che loro «arricchiscono l’offerta» ed è «una possibilità in più e non un’alternativa» e «un servizio al Pd, una risorsa», un qualcosa non «volto a fare casino», uno sforzo «che vorrei fosse apprezzato, a dare risposte positive e non distruttive». Resta il fatto che non c’è nessun veltroniano presente. Né un dirigente né un capogruppo o un vice tanto per cortesia.
D’Alema lo sa. Non affonda, anzi frena le altrui intemperanze. Disegna il suo progetto, con Fondazione e tv satellitare: una struttura politica-culturale, molto più di una corrente, una sorta di para-partito che parlerà anche ai non iscritti al Pd e si preparerà a fronteggiare eventuali emergenze.

l’Unità 25.6.08
Horror: Bondi vuole Gramsci
di Bruno Gravagnuolo


Il Gramsci di Bondi Siamo al ridicolo. E ci mancava pure questa: Bondi e Cicchitto «rivendicano» Gramsci. Sì, lo hanno scoperto, e lo vogliono tra i loro maestri! Ma come nasce questa sciocchezza? Nasce da una battuta di Lucia Annunziata, che ha parlato su La Stampa di «gramscismo di centrodestra», in riferimento alle velleità e alle carenze di «egemonia culturale» a destra, e all’imprescindibilità di questo tema. Perciò Bondi e Cicchitto ci si fiondano. Alla carlona ovviamente. In chiave pedestre da Bignami. E con un po’ di demonologia «machiavellica». Ecco il Bignami di Cicchitto, «raffinato esegeta di Gramsci»(sic!) secondo Bondi: egemonia come «battaglia delle idee» e «consenso», però «senza totalitarismo». Geniale! Benché detta così valga anche per S. Luigi Gonzaga o per S. Filippo Neri, e per ogni curato di campagna. E la demonologia? Eccola dispiegata in Bondi: Gramsci serve per capire i giudici comunisti di tangentopoli, annidati in società e negli apparati. Così, con una fava, i nostri due magnifici «intellettuali organici» di Arcore prendono i loro due bravi piccioni: scippo e plagio a buon mercato di pensiero (che non hanno). E consueta propaganda contro i giudici e il Pci, che ancora li inquietano nel sonno. Certo, c’è del buono nel «plagio». Rivela che dentro sono nudi e sotto la loro cultura c’è il niente. Niente mimetico. E lo sanno. Ma il tentativo non ha nulla di «egemonico» o insidioso. È solo una gherminella piccola piccola. E si vede.
La hit che piace al Secolo Già, il Secolo d’Italia, sbarazzino e buonista. Ormai non si fa mancare nulla. Infatti i post-post fascisti plaudono con Luciano Lanna alla «hit» di nuovi filosofi sbandierata da Style, magazine del Corsera. Roger Scruton «pensatore della bellezza», Stefano Zecchi, Francesco Tomatis, e un Giulio Giorello definito dai «post-post» «disneyan-poundiano». Tomatis esalta «l’alpinismo», «lo straordinario nel marginale», e invoca «meno libri». E il Secolo freme di gioia: «Bene, basta con i pensatori ultradialettici dal look sfigato!». Capito? Eccola la loro «egemonia culturale»! E allora perché non hanno proposto ai Beni culturali la «nero-trendy» Santanché invece di Bondi? Il Secolo «post-post» aveva tutte le carte in regola per esigerlo.

l’Unità 25.6.08
Il Paese dei misteri
di Roberto Cotroneo


La sensazione è di essere
finiti dentro un romanzo gotico
un Codice da Vinci senza
speranza di un Paese di veleni
e crudeltà. E invece i misteri
in questo Paese sono tutti veri

Alla fine tutto imploderà come il collasso di una stella. E i misteri d’Italia diventeranno uno soltanto: gigantesco, indicibile, totalizzante. Una sorta di totem italiano davanti al quale ammettere la nostra sconfitta di cittadini, di italiani e di uomini. E li rivedremo tutti, come in una apocalisse criminale e ambigua come in un girone dantesco delle vittime dei misteri: Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta, Enrico Mattei e Wilma Montesi; ci sarà Michele Sindona, e poi Roberto Calvi, e Aldo Moro, e i morti di Bologna, e i morti di Piazza Fontana, e il commissario Calabresi.

E l’elenco, troppo lungo, arriva fino a quella ragazzina con il nastrino in testa: quindici anni e una passione per la musica. Una famiglia semplice e umile. Si chiamava Emanuela Orlandi. Il papà scomparso nel 2004 era un dipendente del Vaticano. Lei una ragazzina come tante. Era nata il 14 gennaio del 1968, era astigmatica ma si vergognava di portare gli occhiali in pubblico, suonava il flauto, e il 22 giugno di venticinque anni fa, con ogni probabilità, sale su una Bmw verde tundra station wagon e scompare. Mai più trovata. Qualche ora prima telefona alla sorella più grande per dirle che le era stato offerto di promuovere prodotti di profumeria Avon, a un prezzo altissimo, 350 mila lire di allora, e non sapeva se accettare. La sorella le consiglia di lasciar perdere.
Cosa succede, e cosa sappiamo di questa storia? Di fatto, niente. Non sappiamo neppure se Emanuela Orlandi è viva o morta. Quest’anno compirebbe quarant’anni. Non sappiamo se fu un orrendo caso di pedofilia, poi strumentalizzato perché il padre era cittadino vaticano. O se invece fu un rapimento, o un ricatto nientemeno che al Papa. Non sappiamo perché viene chiamata in causa la banda della Magliana, e monsignor Paul Marcinkus, Roberto Calvi, ed Enrico De Pedis, detto Renatino, uno dei capi della banda della Magliana. Non sappiamo quanto sa di tutto questo l’attentatore del Papa, Ali Agca, e non sappiamo perché i Lupi Grigi, organizzazione terroristica turca, abbiano dichiarato di avere in mano la ragazza. Non sappiamo niente di quella Roma. Sappiamo solo che la Orlandi è scomparsa nel nulla, e in quel nulla è rimasta finché la signora Sabrina Minardi, compagna prima del calciatore Bruno Giordano, e poi, e per quasi dieci anni di Renatino, ovvero Enrico De Pedis, comincia a parlare. Ma come?
Intanto con una sincronia che lascia sbigottiti, lo fa esattamente 25 anni dopo il rapimento, e lo fa spiegando prima: mi sono imbottita per anni di cocaina e psicofarmaci, sto in una comunità di recupero, e talvolta mi confondo, ho sprazzi di eventi accaduti, e situazioni confuse. Come in un brutto romanzo Sabrina Minardi dice che la Orlandi è stata ammazzata, messa in un sacco e buttata in una betoniera a Torvajanica, località alle porte di Roma. Anzi dice che i sacchi erano due, c’era pure un bambino di 11 anni, figlio di un boss, ammazzato per vendetta, e buttato anche lui nella betoniera. Le date non corrispondono, il ragazzino viene ucciso dieci anni dopo il caso Orlandi, e non è possibile che i due eventi possano essere collegati assieme. Ma la Minardi è un fiume in piena: aggiunge particolari, dice di aver visto la Orlandi in un sotterraneo di un palazzo poco distante dalla stazione di Trastevere, un sotterraneo che arriva fino alle mura Vaticane, tanto è grande. Dice di essere stata a casa di Giulio Andreotti, con Renatino, e di ricordare la signora Livia, minuta e gentile. Ed è ovvio che gli psicofarmaci qui hanno il loro ruolo. Dice di aver visto Renatino arrivare con delle borse Luis Vuitton, quelle “con la cerniera sopra”, aprirle in casa e tirarne fuori banconote, e naturalmente cocaina, cocaina a fiumi. E che una volta contarono un miliardo in contanti per portarli personalmente a monsignor Marcinkus, il potente banchiere dello Ior, a casa sua. Dice un mare di cose Sabrina Minardi. E non si tratta di crederle o di non crederle, si tratta di capire lo spleen orrendo di questo Paese. Dove poi alla fine niente torna, perché si va a sbattere contro un muro di morti ammazzati, di politici rapiti e assassinati, e talvolta anche liberati, di terroristi ambigui, di aerei civili che cadono senza ancora un perché, di stragi più disgustose delle più disgustose delle stragi, di servizi deviati, di giornalisti sibillini come Pecorelli ammazzati, di bande che agivano indisturbate con un potere assoluto, e poi di golpisti, e di fascisti, e di banchieri impiccati, e di monsignori banchieri su cui ci sarebbe troppo da dire. In un Paese dove le ipotesi di complotto, i misteri, occupano pagine pagine di siti internet dedicate solo a questo, tutto confluisce là, nel viso sorridente e allegro, solare, di una ragazzina di quindici anni: Emanuela Orlandi. Nei suoi occhi che da 25 anni sono solo una fotografia in bianco e nero, quella dei manifesti che la famiglia ha fatto affiggere per tutta Roma.
Possibile che lo Ior, il Banco Ambrosiano, l’attentato a papa Giovanni Paolo II, l’omicidio di Calvi, i fatti e fattacci della più feroce e potente banda criminale, quella della Magliana, e Marcinkus, e Ali Agca, e chissà quanti altri, possano confluire lì, in quella ragazzina? È una suggestione enorme, una macchina genera complotti a ripetizione, o qualcosa di più? È una storia che si può spiegare semplicemente? Un caso di pedofilia finito con un omicidio, su cui possono essere state costruite leggende, proprio perché la ragazza era cittadina vaticana? Lo stesso caso di Mirella Gregori, rapita 40 giorni prima di Emanuela, sempre a Roma, e mai più ritrovata. Ali Agca disse che entrambe le ragazze erano in mano ai Lupi Grigi. La mamma di Mirella, 13i anni fa, durante una visita del Papa in una parrocchia romana, disse di riconoscere tra gli agenti di scorta di Giovanni Paolo II un uomo che andava spesso a prendere la figlia a casa.
Suggestioni, leggende, o verità. E cosa ce ne facciamo delle verità, in un Paese senza verità da sempre? Un Paese che ha mantenuto del medioevo l’oscurità delle trame, il gusto dell’oscuro, delle massonerie segretissime, del gioco dei poteri. Dopo che viene rapita, a casa Orlandi, un signore con accento americano chiama 16 volte. Tutte e sedici le volte da cabine telefoniche. L’uomo chiede che sia liberato Ali Agca, e fa ascoltare alla famiglia Orlandi un nastro con la voce della figlia. Chiama molte volte. E non viene identificato. Soltanto che dell’Americano esiste un indentikit, scritto nientemeno che dall’allora vicecapo del Sisde Vincenzo Parisi. In una nota rimasta riservata fino al 1995 si dice che la voce del telefonista corrisponderebbe a quella di monsignor Paul Marcinkus: gli specialisti del Sisde, analizzando i messaggi e le telefonate pervenute alla famiglia, conclusero che riguardavano «una persona con una conoscenza approfondita della lingua latina, migliore di quella italiana (che probabilmente era stata appresa successivamente al latino), probabilmente di cultura anglosassone e con un elevato livello culturale e una conoscenza del mondo ecclesiastico e del Vaticano, oltre alla conoscenza approfondita di diverse zone di Roma (dove probabilmente aveva abitato)». E Renatino? E la Roma criminale e de’ core, testaccina e trasteverina, che racconta la Minardi? Come si fonda con i Lupi Grigi, con i complotti internazionali? Sabrina Minardi, parla di sotterranei sconfinati, e racconta che ogni volta che aveva bisogno di viaggiare Roberto Calvi metteva a disposizione il suo aereo privato. La Minardi, bizzosa, isterica, cocainomane, che spendeva anche cento milioni di allora in uno shopping romano, tutto in contanti, viaggiava con l’aereo privato del Banco Ambrosiano. Una spavalderia oltre ogni buon senso. E a lei che secondo un’altra voce, forse una leggenda, arriva un agente del Sisde, dopo il rapimento Orlandi. Emanuela sembra sia stata fatta salire su di una Bmw color verde tundra, un colore raro per quegli anni. Lui comincia a indagare, per carrozzieri, finché non ne trova uno che gli racconta di aver riparato un deflettore di una Bmw verde tundra giardinetta. Rotto forse per un pugno dato da dentro? L’aveva portata a riparare una donna, che aveva lasciato anche un indirizzo e un numero di telefono. L’indirizzo di un residence. L’uomo ci va, e si fa chiamare la donna che reagisce violentemente alle sue domande, e prende persino il numero di targa dell’automobile con cui l’agente si era recato al residence. Giusto il tempo per tornare in ufficio, e l’uomo fu invitato dai superiori a non importunare più personaggi altolocati. Chi era quella donna? La Minardi? E quanto è vera questa storia? Ieri il Vaticano ha definito infamanti le accuse verso Marcinkus, che è morto e non si può difendere. E forse anche questa finirà nel nulla. Come il caso Moro, trent’anni fa, come la strage di Bologna, come l’assassinio di Roberto Calvi, come tutti i misteri che arrivano a noi, uno dietro l’altro come una collana di ingiustizie. Al punto da lasciarti la sensazione che siamo anche noi un po’ allucinati da troppe storie, troppo importanti, troppo oscure per essere chiare. Finiti dentro un romanzo gotico, un Codice da Vinci senza speranza, di un Paese di veleni e crudeltà. E ti illudi che non è vero niente. Che il caso Orlandi non è altro che uno stupro e poi un omicidio forse neppure voluto, che il caso Moro fu come lo raccontano Moretti e compagni, che tutti gli altri misteri non sono che fantasie, e che la banda della Magliana non era altro che una accolita di criminali finiti quasi tutti male, morti ammazzati. Ma poi se ti fai una passeggiata per Roma, può accaderti di passare per piazza Sant’Apollinare, dietro piazza Navona, dove stava la scuola di musica di Emanuela Orlandi, e dove c’è la chiesa di Sant’Apollinare, da poco restaurata. È tutto un complesso di proprietà dell’Opus Dei, dove c’è anche la Pontificia Università di Santa Croce. La Basilica di Sant’Apollinare è una basilica minore, vanta un paio di candelabri del Valadier, e poco d’altro. Naturalmente è territorio vaticano, naturalmente si apre solo per le messe. In quella chiesa c’è una cripta, che da otto anni non è visitabile. Nella cripta è tumulato Enrico De Pedis, detto Renatino, capo della Banda della Magliana, mandante ed esecutore di un numero enorme di omicidi, prima di essere ucciso da due sicari in via del Pellegrino, dietro Campo dei Fiori, il 2 febbraio 1990. Il 6 marzo 1990, a 32 giorni dalla morte, il rettore della basilica, monsignor Piero Vergari scrisse la seguente lettera: «Si attesta che il signor Enrico De Pedis nato in Roma-Trastevere il 15 maggio 1954 e deceduto in Roma il 2 febbraio 1990, è stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la basilica ed ha aiutato concretamente a tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi per la loro formazione cristiana e umana». Il 10 marzo 1990, l’allora Vicario della diocesi di Roma, nonché presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Ugo Poletti, rilasciava il nulla osta alla sepoltura di De Pedis nella basilica di Sant’Apollinare. Il 24 aprile la salma di De Pedis venne tumulata e le chiavi del cancello vennero consegnate alla vedova, che è l’unica persona autorizzata a entrare nella cripta. L’incubo continua, e tutto si riapre, perché poi alla fine, i misteri in questo Paese, sono veri. A cominciare da questa povera ragazza, rapita 25 anni fa, e terminale ultimo di un orrore senza fine che probabilmente non verrà mai chiarito. Lei non è mai stata tumulata in nessuna chiesa, lei è scomparsa nel nulla, in quel nulla di misteri di un Paese senza vergogna.

l’Unità 25.6.08
La piazza e il buio
di Fulvio Abbate


L’opposizione deve scendere in piazza. Sottoscrivo l’intenzione, meglio ancora, la necessità di farlo al più presto. Per quel che possa servire, garantisco che personalmente ci sarò, al punto da avere già perfino preparato la bandiera. Rossa, pateticamente rossa. Ma che dico?, se è vero che sia giusto credere ai propri sogni, alle proprie idee, perfino le più utopiche, la mia bandiera sarà rossa e nera, sarà la bandiera dei libertari, degli “anarchici” che non credono al principio della delega. Non è però ancora tutto, porterò con me anche un verso di Bertolt Brecht, un verso problematico e destinato ai momenti peggiori della lotta e magari perfino della vita medesima, lo stesso che un’amica mi ha appena regalato, convinta così di farmi conforto, via sms, un verso che dice esattamente: «Noi attraversammo, cambiando Paesi più spesso delle scarpe, le guerre di classe, disperati quando c’è solo ingiustizia e nessuna rivolta». L’opposizione deve scendere in piazza, parole sempre più sante, ma che andrebbero accompagnate da una consapevolezza non meno problematica delle parole del poeta, e cioè che, nonostante il deficit di democrazia, non sembrano questi tempi di rivolta, come dire?, morale, naturale, necessaria. Nonostante tutto, nonostante lo scempio di un governo che, temo, risulti assai credibile nel suo ricorso alla cultura (ahimé, diffusa) dell’illegalità, del tornaconto personale, dell’arbitrio, dell’arroganza, del farsi prosaicamente i c... propri. L’opposizione, cioè i cittadini che hanno a cuore l’idea del bene comune e dei diritti appunto di cittadinanza, sì, che devono scendere in piazza, ma nello stesso temo che ciò che oggi prevale sia una sensazione di solitudine “civile”. Nel senso che la cultura che ha riportato al governo Berlusconi si configura come un patrimonio molto più diffuso di quanto non sembri all’apparenza. C’è un vecchio adagio sempre valido, sempre buono, sempre verde che accenna all’assenza di una borghesia in questo nostro Paese, una borghesia che, se fosse tale, dovrebbe insorgere in prima persona contro lo scempio dello stato di diritto, così come dinanzi a certe forme di palese arroganza che appaiono sempre più vistose, se non sbandierate come doverose. L’opposizione deve quindi scendere in piazza tenendo a mente che viviamo tempi bui, nei quali certo sentire proprio della semplificazione autoritaria, vecchio vizio nazionale, ha fatto breccia, risulta assai più convincente d’ogni appello alla democrazia, alla legalità, allo stato di diritto, alla separazione dei poteri, in assenza di questo barlume di consapevolezza sorge naturale il dubbio che le parole che Leonardo Sciascia riferì ai siciliani possano essere ormai estese all’intero corpo geografico della nazione, e cioè che gli italiani «non credono alla idee», nutrono seri dubbi che le idee possano mutare lo stato delle cose, incidere concretamente sull’esistente, possano migliorare la vita.
L’opposizione deve scendere in piazza sapendo che, per quanto la cosa possa risultare desolante, le parole, perfino le più improbabili, pronunciate da Silvio Berlusconi e dai suoi alleati brillano come credibili, così come risulta addirittura istituzionalmente attendibile il volto di uno Schifani, così come quello di un Ghedini. L’opposizione deve scendere in piazza tenendo a mente che ciò che ad altri risulta facile, nel suo caso deve essere frutto di fatica e di una lunga opera di convincimento perché non sempre hanno torto coloro che hanno fatto proprio una sorta di pessimismo sulla natura dei nostri vicini di casa che barano perfino sui millesimi durante le riunioni condominiali, l’opposizione deve scendere in piazza tenendo presente che l’arrivo del caldo estivo, perfino l’afa che toglie il respiro, è fra i migliori alleati del governo. L’opposizione deve scendere in piazza tenendo a mente che peggio di così non si può, e non si intuisce neppure un refolo di vento all’orizzonte.
f.abbate@tiscali.it

Corriere della Sera 25.6.08
Severino: niente prove, giusto indignarsi. Troppa passione per le trame occulte
di Gian Guido Vecchi


MILANO — «La natura ama nascondersi », diceva il suo amato Eraclito, e lo stesso vale per la realtà, specie se si tratta di quella italiana. «In ogni istituzione, a cominciare dalle democrazie, una certa opacità è inevitabile». Però c'è un limite, osserva il filosofo Emanuele Severino, «la reazione del Vaticano non mi stupisce affatto e la comprendo, del resto se non avesse risposto ci sarebbero stati dei sospetti ».
Ha ragione il Vaticano?
«Per forza, non ci sono prove. Tra l'altro non c'è solo l'accusa a Marcinkus, poco simpatica. Il Vaticano ha rilevato che è rivolta a un morto che non può replicare. Ci sono, ancora più gravi, le voci di relazioni tra il Vaticano e la mafia. Tutte cose che certamente, dette così, devono perlomeno lasciare assai perplessi e invitare tutti alla massima cautela».
Di certo il tema ha nutrito innumerevoli ricostruzioni e romanzi complottistici. Come mai il Vaticano solletica tanto interesse?
«Per alcuni, forse, è affascinante pensare che sotto la volontà di bene si celi un'azione malvagia, soprattutto quando la volontà di fare del bene è spinta al massimo come nella Chiesa cattolica: una volontà, va detto, non solo espressa ma convinta. Spesso le azioni cattive accadono come sottoprodotti non voluti di azioni che mirano al bene. Di fatto ci si trova trasportati in un'altra direzione, col concorso di personaggi che ruotano attorno, magari impropriamente, e cercano di infiltrarsi al centro».
In che senso, professore?
«Quando diciamo "Vaticano" in realtà parliamo di una serie di cerchi concentrici. C'è un centro, una periferia prossima, un'altra più remota e chissà dove si va a finire».
Insomma, bisogna stare attenti a puntare il dito al centro.
«Si parla pure di collegamenti con l'attentato a Giovanni Paolo II, no? E allora — ammesso che ci fosse qualcosa del genere — nel momento in cui lo stesso Vaticano, nella persona del suo capo, è oggetto di violenza, significa che bisogna distinguere radicalmente le gerarchie di chi può gravitare nella periferia...».
E il capo della banda della Magliana sepolto in Sant'Apollinare?
«Torniamo al discorso dei cerchi concentrici. Ci sono gli zelanti, i fanatici... Ecco, magari in Vaticano dovrebbero dire: dai nemici mi guardo io, ma dagli amici mi guardi Iddio. C'è da sperare che almeno il Vaticano regga...».
Almeno?
«Vede, nonostante tutto quello che scrivo sulla laicità dello Stato, non solo quello italiano ma molti Stati democratici dovrebbero imparare dal Vaticano e dalla sua esperienza come si fa lo Stato e come si fa politica...».
In tutta questa faccenda, gioca un po' la vecchia sindrome del complotto?
«Mah. Che le cose siano diverse da ciò che appaiono è difficile negarlo. Se tutto fosse alla luce del sole, la sicurezza degli Stati andrebbe a quel paese».
Un po' come quando Umberto Eco rideva di quelli che vogliono i servizi segreti «trasparenti»?
«Certo. È necessario, ad esempio, che una democrazia sopporti di non essere totalmente trasparente, altrimenti morirebbe subito. È una dimensione che coinvolge tutte le grandi istituzioni, compreso il Vaticano. Che sia totalmente al di fuori di questo processo di mascheramento mi pare inverosimile, le istituzioni devono difendersi e usare i mezzi più idonei a sopravvivere. Ma questo non significa un j'accuse,
anzi: se l'opacità è inevitabile, il caso Orlandi è un discorso del tutto diverso e su questo deve fare chiarezza la magistratura».
Siamo un Paese che ama l'esistenza di trame occulte scandalose?
«Eh sì, purtroppo vedo che c'è questa passione. E pensare che nella situazione in cui siamo avremmo bisogno solo di rimboccarci le maniche».

Corriere della Sera 25.6.08
Profili. Non solo nichilista e anticristiano: un'analisi del pensatore tedesco oltre i luoghi comuni
Karl Jaspers in viaggio fino al termine della notte di Nietzsche
di Mario Andrea Rigoni


In termini superficiali e generici l'anticristianesimo è uno degli aspetti più ovvi e più noti del pensiero di Nietzsche; non lo sono affatto, in compenso, la ricchezza profonda e la contraddittorietà enigmatica che caratterizzano questa posizione, indagata da Karl Jaspers in un saggio di grande e saggia misura, che fu pubblicato nel 1947 ma risale ad una conferenza tenuta ad Hannover nel 1938 ( Nietzsche e il Cristianesimo, ed. Marinotti, traduzione e prefazione a cura di Giuseppe Dolei).
Innanzitutto Nietzsche distingue e stacca nettamente la figura di Gesù non solo dall'organizzazione della Chiesa ma anche dal fenomeno del cristianesimo quale si è sviluppato nei secoli e persino dalla predicazione degli apostoli e dalla prima comunità cristiana: il cristianesimo è travisamento e corruzione fin dall'origine. Mentre Cristo rappresentò e visse un inerme ideale di beatitudine, non molto diverso da quello del Buddha, il cristianesimo, animato da uno spirito di risentimento e di rivalsa per la perdita del maestro, sostituisce all'eternità la storia, trasformando ciò che era una condotta di vita fondata sulla negazione della realtà terrena in fede, dottrina, dogma, rito, militanza. «In fondo c'è stato un solo cristiano ed è morto sulla croce», scrive Nietzsche nell'Anticristo. Il cristianesimo, che ha distrutto la grande civiltà greca e, in particolare, la tragica verità della vita dell'epoca presocratica, introduce un sistema di finzioni (il Dio personale, la Trinità, l'immortalità, il peccato, la grazia, il giudizio universale, la redenzione) che, una volta smascherate, come non poteva non accadere, conducono al vuoto, al caos, al nulla. Nietzsche vede proprio nel cristianesimo la causa della morte di Dio e la sorgente del nichilismo moderno, laddove il mondo pagano poteva contare su una natura conclusa, autonoma e immutabile. Non credo sia mai stato notato che un'osservazione analoga era già stata fatta da Leopardi quando nello Zibaldone di pensieri illustrava il paradosso che la religione giudaica e la religione cristiana, in quanto propagatrici della riflessione e della metafisica, sono la fonte principale dell'ateismo e dell'incredulità religiosa.
In secondo luogo la virulenta polemica anticristiana di Nietzsche si nutre, secondo Jaspers, di concetti e di impulsi che sono cristiani, come la visione totale della storia universale, l'idea della radicale imperfezione umana, la volontà di verità e di autenticità, l'assolutezza morale: solo che essi vengono per l'appunto svuotati del loro contenuto cristiano. Infine la lotta di Nietzsche non implicherebbe tanto l'abbandono quanto il superamento del cristianesimo, così come del nichilismo, attraverso una nuova filosofia, «e precisamente con le forze che il cristianesimo, e solo esso, ha sviluppato nel mondo».
È chiaro che la speculazione di Nietzsche si muove su un terreno vertiginosamente problematico e ambiguo. Il culmine è raggiunto in alcune sconvolgenti affermazioni, giustamente messe in evidenza da Jaspers, nelle quali Dio viene definito come «l'al di là del bene e del male » e Gesù viene addirittura chiamato in soccorso dell'amoralismo («Disse Gesù: che cosa importa della morale a noi figli di Dio?»). Certamente la morte in croce di Cristo è per Nietzsche un insulto alla vita, che egli respinge con orrore, contrapponendole la morte rigeneratrice e tripudiante di Dioniso, simbolo della paganità. Tuttavia, non è forse senza significato che nei «biglietti della follia» Nietzsche si firmi non solo come Dioniso, ma anche come il Crocifisso.
Il merito del saggio di Jaspers, esente da ogni pregiudizio polemico, consiste in una comprensione del pensiero di Nietzsche che nasce dalla consapevolezza della sua inclassificabilità: «Questo pensatore abbandona qualsiasi dimora, ha il coraggio di sfidare un deserto sconfinato, si espone a qualsiasi solitudine indifesa. (...) Egli non arriva alla pace di una verità, né alla distensione conseguente al raggiungimento di una meta. In giovinezza è stato un wagneriano, poi diventa un nichilista disgregatore, e quindi un solenne profeta. E tuttavia anche questo egli ripudia e vuole andare oltre. Ma dove? Ciò è destinato a restare per sempre un mistero».
Si tratti di cristianesimo o di altro, l'opera di Nietzsche pullula incessantemente di contraddizioni e ambivalenze: ma nessuna è gratuita, insignificante, indifferente ai nostri dilemmi e alle nostre piaghe. Poiché Nietzsche ha anche deriso in anticipo i suoi importuni ammiratori, appare quanto mai saggia la riflessione con cui Jaspers conclude il suo scritto, che è anche una sorta di nobile metodologia o pedagogia della lettura: «Vero è soltanto ciò che per mezzo di Nietzsche nasce da noi stessi».

Corriere della Sera 25.6.08
Il filosofo della scienza si confronta con lo studioso premio Abel, presente il 3 luglio
La matematica ha anche un cuore
Michael Atiyah: «Deve essere il collante intellettuale che tiene unita l'umanità»
di Giulio Giorello


«Il matematico persegue la propria indagine per ragioni non troppo diverse da quelle per cui il pittore dipinge o il musicista compone. Lo spinge quella che grandi pensatori hanno definito la gloria dello spirito umano». Così Michael Atiyah, uno dei maggiori matematici viventi, insignito tra l'altro della Medaglia Fields (1966) e del Premio Abel (2004). Del resto, nel saggio di apertura del volume collettivo La matematica. I luoghi e i tempi (a cura di Claudio Bartocci e Piergiorgio Odifreddi, Einaudi, Torino 2007), aveva paragonato la condizione dei matematici a quella degli artisti che si formavano nelle grandi botteghe rinascimentali: «In matematica, come nell'arte, non c'è alternativa allo scambio intellettuale tramite cui si tramandano le tecniche, la conoscenza di base e lo spirito di ricerca ». Ma come gli artisti di Firenze avevano bisogno di Lorenzo il Magnifico, così anche i matematici «necessitano di un mecenate, che può essere tanto un privato quanto un'istituzione», nella convinzione che «la matematica abbia anche una valenza economica».
L'affinità con le arti non si ferma qui. Per Atiyah, «anche in matematica la bellezza è una guida importante per raggiungere la verità». Questa idea era cara già a un grandissimo matematico come Jacques Hadamard, il quale in una memorabile discussione con Paul Valéry negli anni '30 dichiarava orgogliosamente come la scoperta in matematica dipendesse dal senso della bellezza il quale verrebbe poi tradotto nell'eleganza delle formule. Era stato semmai il poeta a rilevare come talvolta quel senso di bellezza avesse teso delle trappole anche agli intelletti migliori. Il punto è, osserva Atiyah, che «quello che si ottiene deve essere sempre controllato dalla dimostrazione. All'inizio il rigore può lasciare campo all'immaginazione. È l'immaginazione che crea, ma è la logica che conclude».
Questo appello alla logica non va, però, inteso nel senso dello slogan per cui la matematica non sarebbe altro che logica travestita. Precisa infatti Atiyah: «La matematica non coincide con la logica più di quanto la composizione musicale coincida con la teoria delle scale armoniche o la pittura con la chimica dei colori». Se fin dai tempi di Pitagora o di Platone la matematica veniva unita alla filosofia come chiave di comprensione del mondo naturale o anche come strumento di buona gestione degli affari della polis, oggi è forse ancor più necessario che essa giovi alle altre scienze, sia naturali sia sociali, fornendo il «collante intellettuale che ci tiene uniti come esseri umani». La logica, dunque, non è tutto. Sono la forza dell'immaginazione e la capacità di portare i concetti all'estremo che possono rivelarci i tratti più profondi della mente umana. Lo diceva, seppur in maniera polemica, quel «bizzarro filosofo» che era l'irlandese George Berkeley. Doveva ribadirlo, agli inizi del Novecento, il matematico, fisico e filosofo Jules-Henri Poincaré, per il quale la matematica aveva due sorelle, la fisica e la filosofia, quest'ultima intesa come indagine dei nostri processi mentali. Per Atiyah, «la matematica deve essere considerata in tutti i suoi aspetti e deve essere indagata in una prospettiva che tenga conto del suo sforzo di comprensione e dei meccanismi neurofisiologici che sono sottesi a esso».
Gli anni della riflessione di Poincaré erano anche quelli in cui un altro grandissimo matematico David Hilbert si chiedeva (al Congresso Internazionale del 1900) se la specializzazione raggiunta nelle singole branche non avrebbe infine impedito anche il più semplice scambio di idee tra i cultori dei diversi settori. Oggi, anche se talora si parla, per esempio in fisica, di grandi teorie di unificazione, il panorama della ricerca appare sempre più differenziato e complesso, e al pubblico più ampio sembra spesso una sorta di impraticabile labirinto. Per Atiyah, tuttavia, il rischio di una progressiva disintegrazione del sapere e delle competenze può essere contrastato proprio da una seria educazione alla matematica: «Mirando di continuo a grandi principi architettonici e a un'astrazione sempre crescente i matematici riescono a comprimere la conoscenza più importante conquistata dalle generazioni passate in pacchetti coerenti che possono essere tramandati a quelle future».
Restano certo grandi tendenze di fondo. Non c'è forse maniera migliore della raffigurazione geometrica per rappresentare ciò che il nostro cervello apprende in modo globale e pressoché istantaneo. Ma la geometria, aggiunge Atiyah, «è essenzialmente statica, è lo studio dello spazio. L'algebra, invece, è lo studio del tempo. Questa è una concezione forse più nuova. Emerge nell'Ottocento con i grandi lavori dell'irlandese William Rowan Hamilton; e oggi per algebra dovremmo intendere tutte le procedure algoritmiche, in particolare quelle che aiutano così potentemente il calcolo nei computer. Questi ultimi assistono la mente umana eseguendo lunghi calcoli in modo meccanico».
Non c'è, però, ragione di temere quell'assoggettamento degli umani alle macchine che il sarcastico Samuel Butler rinfacciava al vecchio Charles Darwin come nostro possibile futuro! Per Atiyah, «geometria e algebra restano due facce del pensiero umano». Ritroviamo così il grande tema dello spazio e del tempo che tanto ha appassionato filosofi come David Hume e Immanuel Kant. «Ma anche Einstein! — esclama Atiyah —. È da lui che abbiamo imparato che lo spazio e il tempo vanno unificati, anche se questa impresa così importante per la fisica contemporanea sembra sollevare difficoltà non indifferenti per il nostro cervello. Tuttavia — scherza Atiyah — il cinema qui sembra non avere poi troppi problemi».

il Riformista 25.6.08
Allarme Red
Alta tensione, fuoco contro la lobby di D'Alema che replica: «Non sono anti-partito, le correnti esistono»
È il martedì più pazzo della breve storia del Pd


È il martedì più pazzo della breve storia del Pd. Il tema della nascita di Red, l'associazione dei parlamentari amici di Italianieuropei , finisce all'ordine del giorno del coordinamento, con Veltroni che chiede conto dell'iniziativa a Bersani. Bettini, che aveva sentito telefonicamente D'Alema, media. I Popolari attaccano l'ultima mossa dell'ex vicepremier. Che risponde: «Red è una risorsa. Non voglio rompere le scatole a Veltroni».
Il segretario del Pd offre la sua versione dei fatti sul dissesto economico finanziario del conti della Capitale: «Da settimane il nome di Roma sta sui giornali senza che l'amministrazione reagisca. Se c'era bisogno di chiedere più soldi per Roma non c'era bisogno di fare tutto questo can-can e di infangare il nome della città». Giovanna Melandri, nel frattempo, convoca una riunione di «senzacorrente» (nel senso che «siamo contro le correnti») con Giuliano Amato, che invece diserta l'appuntamento di Italianieuropei .
Nel giorno della rappresentazione plastica di un partito diviso in pezzi, continua a tenere banco il tema del ricambio generazionale. Dopo Gianni Cuperlo, interviene Nicola Zingaretti. Che, in un'intervista al Riformista , si chiama fuori dal risiko: «Questa contrapposizione con Cuperlo, se mai ci fosse, vive solo nel gossip».

il Riformista 25.6.08
Tensioni il martedì pazzo dei democrat. in cinque atti
Veltroni e i bianchi contro i red
Walter chiede conto a Bersani. Amato preferisce la Melandri. Marini se la prende con Latorre
di Tommaso Labate


Il dialogo va in scena ieri mattina durante la riunione del coordinamento, primo appuntamento del martedì più pazzo del Pd. Walter Veltroni "sintonizza" la sua copia del Corriere della sera sulla pagina dedicata al varo di Red e guarda negli occhi l'unico dei presenti incasellato nell'universo dalemiano: Pier Luigi Bersani. «Lo vedo quello che volete fare voi di Red - scandisce il segretario -. Leggo pure sui giornali che D'Alema vuole una legge elettorale per le Europee senza sbarramento. Ora non mi direte che quella decisione l'ho presa io da solo, eh? Sulla soglia del 3 per cento abbiamo discusso e deciso tutti insieme. Oppure mi sbaglio, caro Pier Luigi?». L'ex ministro dello Sviluppo economico, stando agli altri testimoni, si sarebbe difeso così: «Walter, ti giuro che di quella roba io non ne so niente. Per quanto mi riguarda, sulla riforma della legge delle Europee vale quello che ci siamo detti più volte». Sarà stata colpa dell'irritazione per l'iniziativa dalemiana, o forse della voglia di avere l'ultima parola. Comunque sia il segretario ha insistito, sempre rivolto a Bersani: «Non ti risulta neanche del lavorìo in corso sul sistema tedesco, eh?».
Il rischio che il coordinamento si trasformasse in un referendum sull'associazione di parlamentari amici di Italianieuropei , dall'esito peraltro assai scontato (vista l'assenza, Bersani a parte, di dalemiani), era alto. «A me sinceramente non sembra proprio che quella sia un'associazione culturale di parlamentari», insisteva Giorgio Tonini nel suo intervento. «Io ci vado», rispondeva Bersani, che di Red è uno dei cinque soci fondatori. Quindi è stata la volta di Goffredo Bettini, colui che si era preso l'incarico di sondare D'Alema alla vigilia del battesimo dell'associazione. «Ho parlato al telefono con Massimo - ha raccontato il coordinatore politico agli altri presenti - e lui stesso mi ha assicurato che dalla riunione di Red non arriveranno attacchi né al gruppo dirigente né al partito». Veltroni, che il sassolino dalla scarpa se l'era già tolto, è ritornato su quello che un altro partecipante al vertice chiama «il binario dell'ecumenismo». Così, il coordinamento ha potuto fissare la data della prima direzione (metà luglio) e quella del tesseramento (subito dopo).
Partita chiusa? Tutt'altro. Il secondo atto del martedì caldo del Pd va in scena a palazzo Madama. A pochi metri dalla buvette del Senato, subito dopo l'approvazione del salva-premier, alcuni testimoni intercettano uno scambio di battute «abbastanza teso» tra Franco Marini e Nicola Latorre. Stando al racconto dei testimoni di cui sopra, l'ex presidente del Senato chiedeva conto al plenipotenziario dalemiano delle indiscrezioni giornalistiche sul ritorno dell'«asse D'Alema-Marini» all'ombra di Red. «Latorre - giura un testimone oculare - aveva l'aria di chi si difendeva con il classico "io non c'entro nulla"». Sta di fatto che l'ex presidente del Senato, che vox populi e vox dei danno in rotta con i figliocci Franceschini e Fioroni, ha confermato la scelta di disertare l'appuntamento del lancio di Red (al contrario del fedelissimo Nicodemo Oliverio, che invece c'è andato).
Il terzo atto del martedì più pazzo del Pd va in scena a Montecitorio. Protagonista la corrente dei neo-popolari, che prende di mira l'associazione dalemiana dei parlamentari. «Forse di tratta di tifosi della fondazione Italianieuropei . Un po' come l'Inter club», ironizza Beppe Fioroni. «Il rosso mi preoccupa un po'», s'inserisce Rosy Bindi. «Quell'associazione rappresenta un fatto singolare», chiude il cerchio Antonello Soro.
La sceneggiatura del quarto atto comprende il sandwich sull'iniziativa dalemiana. Alle 15, Giovanna Melandri riunisce un gruppetto «controcorrente» (nel senso che «siamo contro le correnti»). A sorpresa spunta Giuliano Amato, copresidente di Italianieuropei che invece diserterà il varo di Red. «Non c'è nulla di male nell'aver militato o nei Ds o nella Margherita», dice l'ex ministro dell'Interno. Ma «se dobbiamo vivere di dosaggi per tutta la vita, questa creatura rischiamo di farla morire», aggiunge interrompendo il coro di chi - come Giulio Santagata e Sandro Gozi - difendeva la linea Parisi di fronte a una Melandri attonita.
Nell'ultimo atto, ci sono loro. Walter Veltroni e Massimo D'Alema. Il primo a dare la "sua" verità sul «buco di Roma», l'altro a benedire la "sua" associazione di parlamentari. Stessa ora, a un chilometro di distanza. Nel frattempo Bettini era a Napoli, per la "sua" Democratici in rete mentre Piero Fassino pensava alla "sua" corrente (si chiamerà Pd, Pensiero democratico, starring Sereni, Damiano e Serafini, con un trimestrale in cantiere). E che dire di Enrico Letta? Limava l'intervento per la "sua" grande iniziativa, tra pochi giorni a Piacenza? È il martedì pazzo del Pd. La rappresentazione plastica di un partito diviso in pezzi. Rappresentazione in cinque atti.

il Riformista 25.6.08
Tensioni. Debutto al farnese dell'altro pd
D'Alema: non mi faccio intimorire
«Basta conformismo e pigrizia intellettuale. Non è un'iniziativa per rompere le scatole al segretario»
di Alessandro De Angelis


Non c'è un titolo, non un cartellone, non un manifesto al cinema Farnese dove ieri è andato in scena il debutto di Red, l'associazione di parlamentari (hanno aderito oltre cento) «amici della Fondazione ItalianiEuropei». Inevitabile - forse è un caso, chissà - che l'occhio cada su «Tutto torna», il titolo dell'ultimo lavoro del regista sardo Pitzianti. Forse un auspicio, per molti. Che quando D'Alema entra in sala urlano: «Ciao Massimo».
Sul palco, alle sei del pomeriggio, Massimo D'Alema, il prodiano Paolo De Castro e la leader in pectore della sinistra del Pd, Livia Turco, tengono a battesimo l'associazione "Riformisti e democratici" (Red, appunto): sono tre anime del Pd, quasi un "altro Pd". Ma guai a parlare di correnti. Anche se non sono una parolaccia. Parola di «Massimo», che lo scandisce di fronte a una sala che pende dalle sue labbra: «Io sono contrario alla demonizzazione delle correnti. Esistono». Ma Red non lo è. Forse è qualcosa di più, o di meno. O, forse, è altro: «Non siamo una corrente - ha spiegato D'Alema -, lo abbiamo detto, fare una corrente sarebbe stata un'operazione molto più semplice e meno faticosa. Solo il conformismo e la pigrizia intellettuale fanno dire che Red è una corrente. Cose da cui non ci dobbiamo far ricattare, condizionare o intimorire». È in gran forma, l'ex ministro che una volta disse: «Quando c'è da cacciare gli artigli come noto io non mi sottraggo». Era il 2001, in occasione di una direzione post-voto segnata, anche quella, dal duello con i veltroniani. E anche ieri, dopo una giornata in cui "l'altro Pd" (quello di Veltroni) ha vissuto con una certa insofferenza, D'Alema non si è sottratto: «Questa è un'esperienza politica e culturale totalmente nuova ma viene giudicata con categorie vecchissime del passato. Come se un grande partito moderno fosse fatto di sezioni, comitati centrali, varie prave e chi si collocasse fuori da questo schema sia un antipartito». E ancora: «Non destabilizzerà il Pd. Non voglio rompere le scatole a Veltroni». Vola alto l'ex ministro che parla a tutto campo di Italia, Europa, riforme, ma ad essere bollato come capocorrente proprio non ci sta: «Io non sono un dirigente di partito da molti anni. E non lo voglio fare in futuro. Vorrei contribuire da una posizione diversa ad un grande progetto per dialogare con la società, la politica e il mondo della cultura».
Corrente o meno, in sala si respira il clima delle grandi occasioni. Certo, la scenografia è minimalista: musica soft anni Ottanta, palco viola, tendente al rosso (che fa pandan con le sedie). Manca lo slogan. Forse è un caso che l'unico a disposizione sia, appunto, «tutto torna». Ma il clima è di attesa. Rondolino fa il vago («Quelli sul palco ritornano. Io sono qui a salutare vecchi amici»), Pittella ostenta sorrisi, Cuperlo è cercatissimo. Latorre scherza con D'Onofrio. Che a sua volta scherza con i cronisti. Senatore, si iscrive a Red? «Non mi iscrivo, sono impegnato a fare un altro partito, i partiti servono, ma oggi è un appuntamento importante». Poi aggiunge: «Quando D'Alema era presidente della bicamerale io ero il vice di D'Alema. Si dovrebbe ricominciare a discutere di riforme istituzionali. A volte ritornano, ha visto il titolo del film?». I parlamentari arrivano in ritardo («Hanno dato una deroga solo a me e alla Turco. Stanno votando alla Camera», dice D'Alema) e tra i vari capannelli si respira l'aria di chi la sa lunga. Giovanni Santilli, uomo macchina di D'Alema prima e di Minniti poi, ostenta un curriculum di dalemiano doc. Nelle leggende del botteghino si narra che ai tempi della conta con Occhetto scrisse prima della votazione decisiva il numero dei voti a favore di D'Alema su un biglietto dato al leader maximo. Non sbagliò di uno. Ieri non riusciva a mascherare la sua soddisfazione: «Qui ci sono i pezzi del partito che conta. Quelli vivi nel territorio».
Sul palco va in scena "l'altro Pd". Ognuno spiega le ragioni per cui aderisce al progetto dalemiano. Ignazio Marino invoca una sintesi sui temi della ricerca scientifica; il presidente della Sinistra giovanile Roberto Speranza afferma: «Bisogna colmare il vuoto tra istituzioni e cittadini. A partire da una questione meridionale sempre più drammatica». Poi Pittella spinge sul tasto europeista, il lettiano Boccia parla di economia, Nicodemo Oliverio, mariniano di ferro, pensa che Red debba strutturarsi capillarmente nel territorio, per province e per regioni. E Bersani, insiste sul rapporto col Pd: «Se c'è un grande fiume, servono tanti affluenti».
Non è una corrente. È altro, dicono tutti. A partire dall'ex ministro De Castro, che di Red è il presidente, che assicura: «Sgombriamo subito il campo con chiarezza e con nettezza, come ha già fatto D'Alema nei giorni scorsi: nessuna corrente interna al Pd, nessun proposito di far pesare il nostro contributo in termini di composizione dei gruppi dirigenti». Ma Livia Turco, in versione pasionaria, non usa mezzi termini: «Far parte di un'associazione come questa è avere una doppia militanza. Lavoreremo nei circoli dell'associazione ma se mi chiedono di contribuire alla nascita dei circoli del Pd ben venga, è un invito a nozze. Forse si è troppo indugiato». Si lavora. Al momento per Red.

il Riformista 25.6.08
Sepolture. Don Pedro riaprirà la tomba del boss a sant'Apollinare?
Il mistero di Emanuela nelle mani dell'Opus Dei
di Paolo Rodari


Aprire la tomba di Enrico De Pedis per fare luce sulla scomparsa di Emanuela Orlandi? Don Pedro Huidobro, oggi rettore della basilica di Sant'Apollinare in Roma nella quale è sepolto Renatino, ovvero Enrico De Pedis, boss della banda della Magliana, si è dichiarato disponibile, purché la decisione sia presa dalle autorità competenti.
Il corpo di Renatino, infatti, è sepolto in una cripta la quale, secondo il regime concordatario, è inaccessibile per le autorità italiane. E l'Opus Dei (alla quale la parrocchia è stata affidata nel 1992) vigila che nessuno stravolga le regole. Al fianco della Chiesa, a pochi metri dal portone, c'è pure l'università pontificia Santa Croce, anch'essa dell'Opus Dei, i cui uscieri controllano la basilica.
Ma, diciamolo subito, con la sepoltura di Renatino sotto Sant'Apollinare, l'Opus Dei non c'entra nulla. Perché la richiesta è partita nel 1990 quando la basilica non era ancora dell'Opus. C'entra, invece, l'allora rettore di Sant'Apollinare, monsignor Piero Vergari: il 6 marzo 1990, Vergari ne attestò con una lettera lo status di grande benefattore. Ecco cosa dice il documento conservato negli archivi della basilica: «Si attesta che il signor Enrico De Pedis è stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la basilica e ha aiutato concretamente a tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi in particolare per la loro formazione cristiana e umana».
Basandosi su queste motivazioni, quattro giorni dopo, l'allora vicario generale della diocesi di Roma e presidente della Cei, il cardinale Ugo Poletti, ha rilasciato il nulla osta alla sepoltura di De Pedis. Il 24 aprile dello stesso anno la salma venne tumulata (fu prelevata da un cimitero comunale nella quale era stata provvisoriamente deposta) e le chiavi del cancello consegnate alla vedova.
Vergari conobbe De Pedis quando era cappellano del Regina Coeli: «Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi stati sociali - si legge in una nota scritta il 3 ottobre del 2005 da Vergari -, parlavamo di cose religiose o di attualità; De Pedis veniva come tutti gli altri e, fuori dal carcere, ci siamo visti più volte: normalmente nella chiesa di cui ero rettore, sapendo i miei orari e altre volte fuori, per caso. Qualche tempo dopo la sua morte i familiari mi chiesero, per ritrovare un po' di serenità, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie abbandonate da oltre cento anni nei sotterranei di Sant'Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto. Anche in questa circostanza doveva essere valido, come sempre, il solenne principio dei Romani "Parce sepolto": perdona se c'è da perdonare a chi è morto e sepolto».

Due anni fa, durante il Torino Film Festival, Dario Argento imprecava davanti ad una sala gremita di gente contro l’inverno mite che gli rovinava l’atmosfera de La terza madre. Le piogge delle settimane scorse hanno ritardato la lavorazione di Vincere, il film a cui sta lavorando Marco Bellocchio. Ma le produzioni che scelgono Torino come set sanno di poter contare sul solido appoggio della Film Commission capitanata da Steve Della Casa. «La forza della Film Commission Torino Piemonte - dice al telefono lo stesso presidente - sta soprattutto nel fatto che, pur essendo sotto il controllo del Comune e della Regione, si tratta di una fondazione privata e quindi con un potere e una rapidità decisionali decisamente superiori a quelli di enti analoghi». Dimostrazione di quello che dice Della Casa sta proprio nel grande numero di produzioni che ogni anno gira in Piemonte pur non avendo necessità d’ambientazione nella regione stessa: da Vincere a I demoni di San Pietroburgo di Montaldo, da Sanguepazzo di Giordana al Divo di Sorrentino. «Le produzioni preferiscono appoggiarsi a noi anche perché siamo in grado di garantire l’utilizzo della location prescelta in meno di 48 ore», dice ancora Della Casa, aggiungendo che anche per questo motivo molte serie televisive, di regola più legate a ritmi sostenuti di lavorazione, si sono rivolte all’ente piemontese. «Questo dimostra che la Film Commission più che ad una promozione turistica del territorio, punta ad un suo sviluppo occupazionale».
Sangue pazzo, Il Divo e Il resto della notte, di Munzi, hanno dato lavoro a 1200 comparse e 89 tecnici piemontesi. Se ciò da un lato è segno della massiccia presenza di produzioni sul territorio piemontese, dall’altro non si può ignorare che vi è ancora una sfiducia nelle strutture di pre e post-produzione. Per colmare la distanza tra il Piemonte e il sistema romano si stanno ultimando i lavori del Cineporto, in futuro in grado di ospitare sei produzioni contemporaneamente, con al suo interno una saletta cinematografica per la visione dei giornalieri, che la sera si aprirà al pubblico: «La programmazione della sala sarà rigorosamente gestita da giovani - sottolinea Della Casa, facendo in anteprima il nome di Vittorio Sclaverani, classe 1981 - e lo spazio del Cineporto dovrà essere radicato nella vita cittadina. Per questo vi si troverà anche un ristorante, La Piola del Cinema, nel quale, se lo vorranno, i torinesi potranno cenare al fianco dei cinematografari». Torino cerca di procedere unendo le forze di tutto ciò che gravita attorno al cinema, università compresa. A Torino, in fondo, è nato il cinema italiano e c’è in questa città una cultura del fare e del conservare il cinema che sembra garantirne il primato.


Repubblica 25.6.07
La paura che cresce nella società sicura
di Aldo Schiavone


Non siamo i primi ad avere tanta paura. La storia è piena di società spaventate, immerse nei loro incubi. Da quel che possiamo intravedere nello scabro latino attribuito alle XII Tavole, gli abitanti della Roma arcaica - gli antenati di coloro che sarebbero diventati i padroni del mondo - erano letteralmente atterriti dal buio, già nelle loro stesse case. E nella Francia del Cinquecento, agli esordi della modernità, il terrore non doveva essere meno diffuso. «Paura panica (…) paura sempre, paura dovunque»: così scrive di quegli anni Lucien Febbre in un saggio sul problema dell´incredulità, che ancora leggiamo come un grande classico.
Il paradosso è che però le nostre società contemporanee – almeno in questa parte del mondo – sono anche, e di gran lunga, gli ambienti più sicuri che la storia abbia mai conosciuto: non per caso le nostre aspettative di vita si stanno allungando in modo quasi prodigioso, impensabile ancora agli inizi del Novecento, e ciò sta cambiando dall´interno la qualità stessa delle nostre esistenze. Ma la diffusione del timore e dell´ansia non si placa di fronte a una simile evidenza. Al contrario, se ne alimenta, rovesciando ogni conquista materiale, ogni soglia di agio raggiunta, nel fantasma della loro possibile perdita, nella prefigurazione continua dei pericoli che le minacciano, nell´incubo della loro imminente vanificazione. Si apre così una spirale senza fine, che sta trasformando la nostra età in un´autentica epoca d´angoscia – un fenomeno ormai molto studiato, di cui però non mi pare sia stato ancora messo a fuoco il punto cruciale, e cioè il rapporto che la rete mondiale dei mercati tende a stabilire fra tecnica e vita, fra benessere materiale e padronanza del proprio destino. Mentre la paura si sta installando come la compagna quotidiana di masse sempre più vaste e infoscate, e stiamo imparando a riconoscerla come il più popolare dei nostri sentimenti.
Dovunque in Occidente il discorso pubblico è stato investito in pieno da questa ondata, e il nesso fra politica e paura è diventato un vero e proprio segno del tempo. Ma è stato particolarmente in America e in Italia che la destra ha saputo trarne per prima vantaggio: Bush ha costruito gran parte della sua fortuna agitando lo spettro del terrorismo, e Berlusconi, da noi, non ha esitato a ridisegnare l´intera immagine del suo partito, dimenticando il trascinante ottimismo delle origini, per riuscire a intercettare il lungo brivido d´ansia che si sollevava dal Paese.
E si può dire ancora qualcosa di più. Che cioè è stata proprio questa capacità di interpretare e di dar voce alla nuova paura italiana che ha reso (o almeno ha fatto sembrare) la nostra destra davvero – e per la prima volta – una destra di massa e di popolo, capace di aggregare intorno a sé qualcosa di molto vicino a un blocco sociale e culturale relativamente compatto. All´opposto, lo schieramento di centro sinistra si è drammaticamente rivelato, in questo frangente, incapace di capire, di sintonizzarsi, di tradurre in politica la preoccupazione e il pessimismo diffuso nel corpo sociale, riducendosi a figurare come una parte chiusa, ingessata, tendenzialmente tecnocratica ed elitaria, in sostanza lontana dalle attese e dai bisogni degli elettori, votata all´autoreferenzialità e attenta solo al dosaggio fra le sue componenti.
Il nostro è un Paese culturalmente fragile, almeno dal punto di vista politico. La fine dei grandi partiti attraverso i quali è avvenuto il nostro non limpidissimo apprendistato repubblicano e democratico ha acuito una debolezza che ha origini molto lontane, cui non è estraneo il millenario magistero della Chiesa. Abbiamo sempre i nervi scoperti, e l´antipolitica a portata di mano. Ciò ci rende ancor più sensibili ed esposti rispetto alle contraddizioni di un´economia globale che per giunta sta avendo su di noi impatti sociali più forti che altrove (anche qui per ragioni connesse a storiche inadeguatezze e a squilibri mai compensati). Percepiamo – sia pure in modo confuso – che la sicurezza complessiva della nostra società sta aumentando, e di molto, ma percepiamo anche – e in modo assai netto – che le quote (per dir così) di questa nuova sicurezza si dividono tra gli aspiranti in modo drammaticamente diseguale, e che gli strumenti per accedervi – mobilità, spazio, informazione, tempo, servizi – si concentrano secondo modalità incontrollate. La consapevolezza dello scarto non si inscrive tuttavia in un´ormai impensabile coscienza di classe, ma dilata solo «l´orizzonte delle paure», come ha scritto Ezio Mauro su questo giornale il 17 giugno, e rende disponibili a una rappresentanza politica che fa, appunto, del timore e della frustrazione il suo collante, che tende a sostituire la delega alla partecipazione, e si mette alla testa delle nuove "plebi"(o presunte tali) non con un messaggio di riscatto radicale, ma con la suggestione di cure assolutamente parziali, però brutalmente efficaci e immediate: Robin Hood tax, ronde e tessere di povertà. E per il resto, calcio (ma l´avete visto il Tg1, in queste sere?), congiunto all´ostentata esemplarità – tra mito e reality – di irresistibili ascese "private", baciate dal denaro e dalla fortuna.
Non sarà facile sostituire all´asse maggioritario fra destra e paura, un opposto legame, fra sinistra e speranza. Ma credo proprio che solo questo potrà essere il nostro compito, e che vi sia d´altra parte – nel mondo che ci aspetta – una intrinseca e oggettiva somiglianza fra la composizione organica della nuova paura e quella della nuova destra (l´idea del vincolo, del limite, del ritorno – altro che libertà!), come ve ne sia una, alternativa, fra sinistra e speranza (l´idea della liberazione, del superamento, della ragione che sa farsi progetto e futuro). Mettersi su questa strada non è semplice. Essa presuppone una critica conseguente dei lati negativi della globalizzazione, che, pur assumendo quest´ultima come un punto di non ritorno – ciò deve restare fuori questione, nello stesso modo in cui lo era per Marx la società capitalistica – sia capace di rendere plausibili ed evidenti le linee di un suo riequilibrio virtuoso, prima locale ma poi completamente planetario. C´è bisogno cioè che la critica dell´economia globalizzata si apra su quella che Jonas e Bauman chiamano una nuova "immaginazione etica", adeguata alle nostre responsabilità, e su una nuova teoria della politica. E questo non sarà possibile se non si tornerà a lavorare, in Europa, a un nuovo rapporto fra intellettuali e popolo, post-ideologico, ma non post-democratico. Sarà bene che l´architettura culturale del Pd che sta nascendo ne tenga debito conto.

«L'ultimo libro di Eugenio Scalfari, intitolato L'uomo che non credeva in Dio (...) si offre al lettore con la grazia delle opere letterarie perfettamente riuscite» (sic!!!)
Agenzia Radicale 25.6.08

Le confessioni di Eugenio Scalfari
di Giuseppe Talarico


L'ultimo libro di Eugenio Scalfari, intitolato L'uomo che non credeva in Dio edizioni Einaudi, si offre al lettore con la grazia delle opere letterarie perfettamente riuscite. Il libro ha una struttura narrativa assai singolare, poiché è basato sulla continua ed assai felice alternanza di confessioni intime dell'autore sulla sua vita privata e professionale e su lunghe e assai significative meditazioni sui grandi interrogativi ed enigmi dell'esistenza umana.

All'inizio della narrazione vi sono pagine intrise di malinconia e nostalgia del periodo vissuto dall'autore con i suoi genitori, nella città di San Remo. Nel suo libro, Scalfari, con la bravura e la genialità dello scrittore maturo e consapevole dei propri mezzi espressivi, delinea il ritratto, lasciando trasparire lievemente i suoi sentimenti personali, della madre, una donna dolcissima ed elegante. Del padre, avvocato ed uomo colto, ricorda, con gratitudine ed affetto, che durante la sua adolescenza gli leggeva, declamandoli, i testi della grande letteratura classica, come quelli di Ovidio, Lucrezio, Virgilio, Omero, sicché Scalfari conobbe i classici prima di frequentare la scuola.

Accanto ai ricordi dei primi anni di vita, in compagnia dei genitori, affiorano nel libro i momenti che, per ammissione dello stesso autore, furono fondamentali per la sua formazione intellettuale e morale. Un giorno, mentre frequentava la seconda liceo a San Remo e aveva come compagno di banco Italo Calvino, scoprì, grazie al suo professore di filosofia, il libro di Cartesio intitolato Il Discorso Sul Metodo, opera fondamentale per comprendere lo sviluppo della filosofia moderna dal razionalismo all'avvento dell'illuminismo. In quella circostanza, il professore di filosofia fece una affermazione perentoria, suscitando le proteste di Calvino, secondo la quale chi non avesse capito l'importanza di questo pensatore, difficilmente sarebbe riuscito a conferire un senso alla propria vita.

Con lo studio di Cartesio, si badi negli anni del liceo, per Scalfari inizia una lunga meditazione su ciò che costituisce l'essenza del nostro Io. Citando una pagina meravigliosa tratta dal libro le Confessioni di Agostino d'Ippona, in cui il grande filosofo cattolico vorrebbe accedere alla visione del Signore senza perdere la memoria, Scalfari dimostra come la facoltà di ricordare, e quindi di pensare e ragionare, sia fondamentale per cogliere la natura del nostro Io. Inoltre , con la capacità di rendere chiari concetti che hanno innervato e irrobustito la tradizione filosofica occidentale, intorno ai quali sono stati scritti libri di stupefacente bellezza, si pensi ai Saggi di Montaigne e ai Pensieri di Pascal, Scalfari dimostra come l'uomo ha perduto la propria innocenza mangiando il frutto del peccato nel paradiso e scoprendo il valore della conoscenza, che gli dà la possibilità di trasgredire le regole e di provare il senso di colpa. Questa pagina, così illuminante sulla natura della nostra condizione umana, evoca il grande dipinto di Masaccio: La Cacciata Dal Paradiso di Adamo ed Eva.

In altri capitoli di questo libro, denso di pensieri e ricco di descrizioni indimenticabili, come quelle rivolte a spiegare quale fosse il clima morale ed intellettuale in Italia durante il fascismo, l'autore affronta senza infingimenti la sua vicenda professionale. Scalfari iniziò la professione giornalistica, divenendo un maestro ed uno dei più grandi giornalisti del nostro tempo, mentre lavorava in banca. Inizialmente iniziò a collaborare con "il Mondo" di Pannunzio ed Ernesto Rossi, due grandi intellettuali, grazie ai quali scoprì quanto importante fosse il valore del liberalismo di sinistra, sempre minoritario nel nostro disgraziato Paese. In seguito, collaborò con un giornale economico, che all'epoca si chiamava "24 ore", scrivendo e pubblicando articoli economici a favore di un libero mercato che fosse fondato su regole di concorrenza e trasparenza. A causa dei suoi articoli, che suscitarono le proteste del presidente della Federconsorzi Paolo Bonomi, dovette abbandonare il lavoro in banca e, da quel momento, si dedicò alla professione giornalistica.

Nel libro viene chiarito che chi non possiede la vocazione per esercitare questo mestiere, che a volte può essere crudele, e che risiede nella capacità di invadere la vita altrui per raccontare quanto accade nel mondo, perde tempo se pensa di poter divenire un bravo giornalista. Non mancano i ricordi, ovviamente, legati al periodo in cui Scalfari decise di fondare "la Repubblica", divenuto nel corso degli anni un grande giornale di livello europeo, su cui tanti giovani si sono formati. "La Repubblica" nacque in base ad una scommessa che il suo fondatore, insieme con altri scrittori ed intellettuali, fece alla metà degli anni Settanta sulla possibilità di favorire la nascita in Italia di una borghesia produttiva, capace di farsi custode degli interessi generali, come è avvenuto in altri Paesi europei. Per questo, al momento della nascita del giornale, il fondatore di "Repubblica" si rivolse ai principali esponenti del capitalismo italiano, per ottenere finanziamenti.

La parte più significativa del libro sul piano filosofico è dedicata al filosofo Spinoza e a Nietzsche. Spinoza, un grandissimo filosofo autore del libro l'Etica e del Trattato filosofico teologico, fu il primo pensatore a demolire l'immagine e la concezione della trascendenza, così come nel tempo si era venuta nella storia del pensiero configurando. Per Spinoza tra la Natura e Dio, identificato con l'eterna sostanza, non vi è alcuna differenza. Tuttavia, il Dio di Spinoza non possiede gli attributi umani, ma è semplicemente eterno ed onnipotente, senza essere onnisciente. Per questo suo pensiero sulla divinità così innovativo, Spinoza venne espulso dalla comunità ebraica e dovette andare in esilio.

Con Nietzsche, un pensatore molto amato da Scalfari, la metafisica e la convinzione che vi sia una trascendenza, a cui l'uomo possa guardare, vengono contestate e messe in crisi in modo definitivo. Il Superuomo di Nietzsche annuncia la morte di Dio e la volontà di trasmutare i vecchi valori, per fondare una nuova moralità. A proposito della figura del Superuomo, Scalfari, che ha frequentato a lungo questo pensatore, chiarisce che vi sono due momenti distinti che bisogna considerare, quello Apollineo, legato alla razionalità greca, e quello dionisiaco, rivolto a esaltare i sensi in nome di un vitalismo orgiastico e della volontà di potenza. Se il mondo è un luogo in cui non vi è un fondamento assoluto a causa della morte di Dio, esiste solo lo sguardo dell'uomo che può interpretare i fatti e gli eventi secondo la sua sensibilità personale, sicché il relativismo è la conseguenza inevitabile di un atteggiamento filosofico ispirato al dubbio laico.

Il fondamento della morale, su cui Scalfari ha scritto un altro bellissimo libro, è dato dall'istinto di conservazione che appartiene ad ogni singolo individuo. Sui politici che ha conosciuto personalmente, Scalfari esprime giudizi lusinghieri verso Ugo La Malfa ed Enrico Berlinguer, perché entrambi, pur avendo una diversa formazione culturale e politica, ebbero chiara in mente la visione del bene comune, in ossequio alla quale l'uomo pubblico è chiamato ad agire ed operare per l'affermazione dell'interesse generale. Un libro straordinario. Nel libro, a proposito della natura dell'Io, il lettore troverà questa riflessione di Kundera tratta dall'Arte del Romanzo: "Quanto più potente è il microscopio che osserva l'IO, tanto più l'Io e la sua unicità ci sfuggono. Ma se l'Io e il suo carattere unico non possono essere colti nella vita interiore, dove e come li si può cogliere?".