venerdì 27 giugno 2008

l’Unità 27.6.08
Zingari
di Furio Colombo


Uno strano errore è stato commesso e ripetuto dai diversi schieramenti che, nel corso di 15 anni, si sono opposti, spesso con tollerante mitezza all’impero di Berlusconi (nel senso di tutti i soldi e tutte le televisioni con cui fa politica). È stato l’errore di dire e pensare che Roberto Maroni fosse il più umano e normale dei leghisti, niente a che fare con vergognose figure come Borghezio e Gentilini.
Un errore grande. Non c’è alcuna differenza fra Maroni e Borghezio o Gentilini. Il ministro degli Interni di un Paese democratico che ordina di prendere le impronte digitali di migliaia di bambini italiani o ospiti dell’Italia, solo perché quei bambini sono Rom, è fuori dalla nostra storia di paese libero. È estraneo allo spirito e alla lettera della nostra Costituzione, è ignaro del fascismo da cui ci siamo liberati e di cui ricordiamo con disgusto, fra i delitti più gravi, l’espulsione dei bambini italiani ebrei dalle scuole italiane.
È stato uno dei peggiori delitti perché quella umiliazione spaventosa a cui sono stati sottoposti i più piccoli fra i nostri concittadini ebrei, alla fine ha generato lo sterminio. Il ministro degli Interni non è così giovane e così ignaro, per quanto la sua formazione sia immersa nella barbara e claustrofobica visione leghista.
Il ministro dell’Interno sa, e non può fingere di non sapere che obbligare i bambini di un gruppo etnico (molti radicati in Italia da decenni, alcuni da secoli) alle impronte digitali vuol dire lacerare la nostra vita, spaccare e isolare dal resto del Paese una parte di coloro che vivono e abitano con noi. Vuol dire indicare a tanti, che hanno più o meno la sensibilità morale del ministro, “gli zingari” compresi “i bambini zingari” come estranei, reietti e degni di espulsione. Chi è indicato come “da escludere” diventa per forza qualcuno da perseguitare.
Si noti un particolare davvero disgustoso e non accettabile: l’impronta verrà presa prima di tutto e più facilmente ai bambini che vanno a scuola e verranno che marchiati di fronte ai compagni. E sarà una umiliazione grave per la Polizia italiana. L’ideologia conta poco e nessuno, salvo xenofobia e razzismo, conosce uno straccio di ideologia della Lega. Ma la decisione di sottoporre i bambini di un gruppo selezionato come nemico all’umiliazione delle impronte digitali è una decisione fascista.
Mi impegno a tentare con le mie prerogative di parlamentare di impedirlo. Chiedo ai colleghi Deputati e Senatori che si riconoscono nella Costituzione di volersi unire per difendere i bambini Rom, l’onore della nostra Polizia, ciò che resta della nostra civiltà democratica.
Il ministro dell’Interno sa, e non può fingere di non sapere che obbligare i bambini di un gruppo etnico (molti radicati in Italia da decenni, alcuni da secoli) alle impronte digitali vuol dire lacerare la nostra vita, spaccare e isolare dal resto del Paese una parte di coloro che vivono e abitano con noi. Vuol dire indicare a tanti, che hanno più o meno la sensibilità morale del ministro, “gli zingari” compresi “i bambini zingari” come estranei, reietti e degni di espulsione. Chi è indicato come “da escludere” diventa per forza qualcuno da perseguitare.
Si noti un particolare davvero disgustoso e non accettabile: l’impronta verrà presa prima di tutto e più facilmente ai bambini che vanno a scuola e verranno che marchiati di fronte ai compagni. E sarà una umiliazione grave per la Polizia italiana. L’ideologia conta poco e nessuno, salvo xenofobia e razzismo, conosce uno straccio di ideologia della Lega. Ma la decisione di sottoporre i bambini di un gruppo selezionato come nemico all’umiliazione delle impronte digitali è una decisione fascista.
Mi impegno a tentare con le mie prerogative di parlamentare di impedirlo. Chiedo ai colleghi Deputati e Senatori che si riconoscono nella Costituzione di volersi unire per difendere i bambini Rom, l’onore della nostra Polizia, ciò che resta della nostra civiltà democratica.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 27.6.08
Schedatura etnica
L’impronta del razzismo
di Dijana Pavlovic


Egregio signor Maroni, ministro dell’Interno, Lei annuncia che verranno «censiti» i bambini rom, ma ci rassicura non sarà una «schedatura etnica», un semplice «censimento che riguarderà tutti i nomadi che vivono in Italia, minori compresi».

LA LETTERA L’attrice e mediatrice culturale rom interviene dopo l’annuncio del ministro degli Interni di prendere le impronte digitali dei bimbi rom

Che io sappia, quando si fa un censimento questo riguarda tutti i cittadini dello Stato, lo si fa secondo certe modalità uguali per tutti e con finalità chiare a tutti. Ma Lei per censimento intende forse entrare in un campo con 70 poliziotti, carabinieri, vigili urbani in assetto antisommossa e un furgone della polizia scientifica per rilevare le impronte digitali alle cinque di mattina della famiglia Bezzecchi, 35 cittadini italiani, senza precedenti penali?
Questo è ben altra cosa. Si chiama schedatura etnica e lo sappiamo bene perché l’abbiamo già vissuto nel passato. E dunque è in atto una schedatura su base etnica che vuol dire che si sta creando un archivio parallelo. A cosa servirà l’archivio Rom? Nel passato, l’archivio che aveva creato l’«Ufficio di polizia per zingari» di Monaco, che aveva schedato ed arrestato più di 30.000 Rom tra il ’35 e il ’38, è passato all’Rkpa di Berlino, cioè alla Centrale di polizia criminale del Reich, sotto il controllo diretto di Himmler, il quale l’8 dicembre ’38 ha emanato il Zigeunererlass, decreto fondamentale nella storia dello sterminio zingaro, perché ha stabilito che, «in base all’esperienza e alle ricerche biologico-razziali, la questione zingara andava considerata una questione di razza». Ma, se possibile, mi inquieta di più il Suo annuncio che i primi a essere schedati saranno i minori e se sorpresi a elemosinare saranno sottratti ai loro genitori. Un vero e proprio atto di violenza e discriminazione che nessuna questione di sicurezza può giustificare, tanto più se si considera che dei 152.000 rom presenti in Italia, secondo lo stesso ministero degli Interni, la metà ha meno di 16 anni. Senza tener conto che in Italia sotto i 14 anni non si è punibili e che in questo modo si criminalizza un intero popolo, senza distinzione. Come accade con gli adulti, così anche le migliaia di bambini Rom che vanno a scuola, che cercano faticosamente di aprirsi una strada verso un futuro «normale», per Lei sono pericolosissimi criminali da schedare e da tenere d’occhio. Non è anticostituzionale, illegale e contro la Convenzione dell’ONU sui diritti dei fanciulli? Ma a Lei dovrebbe importare della legge e del diritto, oppure è solo importante solleticare il ventre del Suo popolo? Prendersela con dei bambini, anche se rubano o chiedono l’elemosina è molto più facile che avere a che fare con la più potente organizzazione criminale, la ’ndranheta, che è padrona del territorio negli ordinati vialetti della sua Varese, come in tutta la Lombardia e il nord Italia. Secondo i dati della commissione antimafia e dell’Eurispes questi bravi adulti hanno un fatturato annuo di 36 miliardi di euro (altro che finanziarie di Tremonti), tra traffico di droga, appalti, traffico d’armi e altri sciocchezze certo molto meno gravi dei furtarelli di qualche ragazzino. Ma questo avveniva anche pochi anni fa: cosa c’era di più facile di prendersela con ebrei e zingari? Nessuno di loro reagiva e l’ORDINE era garantito.
Certo, Lei quando ci annuncia queste cose, sorridendo serafico dai salotti tv parlando di sicurezza, forse non pensa ai forni crematori che invece molti Suoi simpatici seguaci in camicia verde invocano impunemente nelle ronde e negli agguati agli «zingari», ma forse a nuove forme di campi di concentramento sì. Mi fa venire i brividi la Sua rassicurazione che questo serve a garantire ai bambini rom «condizioni dignitose» in piena attuazione dei patti di sicurezza di alcune città. In questi ghetti moderni uomini, donne e bambini di etnia rom, che siano cittadini italiani, comunitari o no, verranno sottoposti alla segregazione di un regime speciale che viola qualunque norma di diritto, di umanità e perfino di buon senso e nega un futuro dignitoso ai nostri bambini.

l’Unità 27.6.08
Impunità e pulizia etnica
di Maria Novella Oppo


COME PRIMO EFFETTO della guerra di Berlusconi contro la magistratura, nei tg come nei giornali di carta il calo dei consumi e l'impoverimento delle famiglie sono passati in secondo piano; anzi in terzo, dopo gli Europei di calcio. Non che il premier abbia preordinato anche questo, no, non è così machiavellico: a lui interessano solo gli affari suoi: chiudere i processi e del Paese chi se ne frega. Mentre, ai patrioti della patria inesistente interessano solo il federalismo fiscale e (siccome sono cristiani) il tiro agli immigrati. Lo squallido mercato tra Pdl e Lega, avviene apertamente in tutti i dibattiti tv, coi funzionari dello stato ad personam di Berlusconi (avvocati, giornalisti e An) che da tutte le reti chiedono: ma vi sembra normale che 900 giudici ce l'abbiano con chi è stato votato da tanti italiani? Interrogativo che non sfiora i padani, i quali, in cambio dell'impunità a Berlusconi, esigono la pulizia etnica. A cominciare dai bambini zingari, che sono i più pericolosi perché, se non li si stronca subito, sono pure capaci di diventare grandi.

l’Unità 27.6.08
«Impronte a bimbi rom, una discriminazione»
Il Garante della Privacy: si tocca la dignità dei minori. L’Unicef «preoccupata»
di Eduardo Di Blasi


IL CENSIMENTO Secondo il ministro degli Interni Roberto Maroni, che ieri ha parlato in commissione Affari Costituzionali della Camera, portare le forze di polizia, assieme al personale della Croce Rossa e dei Servizi sociali dei Comuni nei campi rom, per far prendere le impronte a tutti, bambini inclusi, è un censimento. Motiva: «Prenderemo le impronte anche dei minori, in deroga alle attuali norme, proprio per evitare fenomeni come l’accattonaggio. Non sarà certo una schedatura etnica ma un censimento vero e proprio per garantire a chi ha il diritto di rimanere di poter vivere in condizioni decenti». È un’idea che piace anche ai nuovi amministratori di destra a Milano e Roma. Letizia Moratti ritiene «che tutto questo possa anche andare in direzione della tutela dei bambini». Per Gianni Alemanno«i minori nomadi vengono spesso usati per l’accattonaggio e sfruttati, interscambiandoli da famiglia a famiglia ed evitando così le norme sulla revoca della patria potestà». Quindi ben vengano le schedature. Non la pensano alla stessa maniera l’Unicef Italia e il Garante della Privacy. Quest’ultimo rileva in una nota come queste misure «potrebbero coinvolgere delicati problemi di discriminazione che possono toccare anche la dignità delle persone e specialmente dei minori». Mentre Vincenzo Spadafora, presidente di Unicef Italia si dice stupito e preoccupato: «Ci auguriamo che si tratti di una proposta provocatoria destinata a non avere seguito». E chiarisce:«I bambini rom non sono diversi dagli altri bambini, ma soprattutto i bambini non devono essere trattati come gli adulti».
Dopo Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle Comunità israelitiche in Italia che aveva bollato l’idea come una «schedatura etnica», è Gad Lerner a chiedere una mobilitazione della Comunità come quella che nel 2002 bloccò un identico provvedimento ideato dal governo di centrodestra. Anna Finocchiaro, Pd, chiede: «Cosa succederebbe se alle parole “bambini rom” sostituissimo “bambini ebrei”? Il ministro deve riflettere prima di fare certi annunci». Thomas Hammarberg Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa ritiene che «il governo italiano dovrebbe trovare dei metodi più umani, non discriminatori per identificare queste persone». E anche la Mussolini appare critica: «C’è un’identità di visione con il governo ma ci può essere la possibilità di correggere delle cose che magari sono giuste per gli adulti ma non per i bambini».
Maroni, d’altronde, è convinto di aver copiato un’idea di Rosy Bindi. L’ex ministro della Famiglia smentisce: «Una cosa è ragionare sull’identificazione di tutti i bambini per evitare sfruttamento, altra cosa è proporre la schedatura razziale di una minoranza etnica».

l’Unità 27.6.08
Dopo il Cpt, irregolari per sempre
La lotteria dei dannati della terra
di Federica Fantozzi


Difficile da trovare, impossibile da confondere. In fondo a un viottolo di sterpaglie arroventate bordeggiato da una recinzione. Oltre, c’è solo aperta campagna. «Tornate indietro, quando potete» suggerisce a modo suo profetica la voce del navigatore satellitare, perso anche lui.
Via Portuense chilometro dieci e mezzo, non lontano dalla Nuova Fiera di Roma e dal mega-centro commerciale Parco Leonardo, più vicino a un cocomeraro e un autolavaggio. Il Cpt di Ponte Galeria è l’unico del Lazio, uno dei dieci d’Italia. Il fiore all’occhiello del sistema di «permanenza temporanea» per i clandestini, la lotteria della durata massima di 60 giorni tra chi lascerà il Paese e chi no. Una serie di parallelepipedi-bunker in mezzo a un dedalo di corridoi in cemento armato ospita i «settori»: gli uomini a Nord, le donne a Sud. Non si incontrano mai: dormitori e mense separate, barbiere e parrucchiere, calcetto e chiacchiere. Nel cortile, c’è un’ambulanza; dentro, un medico permanente e un dentista. «Né albergo né carcere»: la retorica inchioda il centro a un lessico equidistante tra il buonismo di sinistra e l’ossessione securitaria della destra. Un «residence coercitivo» lo definirà Vincenzo Vita, senatore del Pd venuto a guardare con i suoi occhi.
È un centro «di trattenimento» e non di «prima accoglienza»: dietro il linguaggio burocratico significa che non c’è la situazione esplosiva di Lampedusa, con centinaia di dannati del mare buttati sui materassi di gommapiuma in cortile. Qui «tot posti, tot letti - racconta un funzionario di polizia - Se qualcuno dà in escandescenze e distrugge il letto, ci sarà un posto in meno». La capienza è di 300: 188 per le donne, 112 per gli uomini. Al momento un’ottantina sono vuoti. Gli altri 222 marocchini, tunisini, qualche egiziano, sudanesi, nigeriane, slavi, bosniaci, russi, ucraini, sudamericani. Un paio di romeni e un francese: da comunitari, sono lì per motivi di ordine pubblico e non perché è scaduto il permesso di soggiorno.
L’area amministrativa è pulita e ordinata, parquet sul pavimento e foto di Napolitano alla parete. C’è la saletta dove il giudice tiene le udienze di convalida del provvedimento di espulsione o trattenimento, con avvocato e traduttore. Il bar comune a dipendenti e detenuti, con accessi separati. L’infermeria dove c’è stato un allarme (falso) di Tbc, e si curano i casi di alcolismo e dipendenza da droghe, più frequentemente denti guasti e malattie della pelle. Lo psicologo per depressioni e ansie: «La badante di Ascoli Piceno che prima guadagnava 700 euro al mese e ne mandava 500 a casa e ora è rinchiusa qui, vive un senso di profonda ingiustizia». Nel 2000 c’è stato un morto: «Cause naturali».
Il centro è gestito dalla Croce Rossa. La polizia si occupa delle procedure di identificazione e vigilanza. Sono pochissimi: 10 uomini per affrontare eventuali risse o evasioni, 24 a caccia dell’identità di oltre 200. Il paradosso è che la maggioranza dei clandestini è pregiudicata, ma in anni di galera nessuno si è preoccupato di scoprirne la vera nazionalità. «Ahmed, sedicente algerino», «Greta, sedicente moldava»: solo il 40% verrà identificato nel termine di permanenza nel Cpt. Gli altri si troveranno fuori, sotto il sole a picco, con l’obbligo di andarsene entro cinque giorni e la certezza che gli operatori o le guardie penitenziarie li rivedranno presto. La lotteria è appesa alla collaborazione dei Paesi di provenienza: la Cina neanche risponde ai solleciti, l’Ucraina tarda gettando nella disperazione un muratore che vuole rivedere la moglie. «Due mesi sono troppo pochi - spiega un poliziotto - Riceviamo le risposte quando è troppo tardi». E se con la nuova legge diventeranno 18 mesi? Risposte diplomatiche: «Serviranno nuovi centri o sarà il collasso».
Fuori, persino le lucertole sfuggono l’afa. Il cortile è un susseguirsi surreale di pietra e altissime sbarre d’acciaio. Non una pianta, non un fiore, zero ombra. Luigi Manconi lo ha definito così: «Solo una mente paranoica poteva concepire quel massiccio sistema di gabbie e sbarre, reticolati e cancelli, spunzoni e ferri, serrature e chiavistelli».
Nell’aria immobile vola la preghiera che, cinque volte al giorno, si alza dalla moschea interna. Giovani nigeriane in magliette sgargianti passeggiano bevendo tè da una bottiglietta. Panni stesi. Un gatto annusa dubbioso una ciotola piena di fagiolini. Donne in tuta parlottano. Molte al telefono: è permesso tenere i cellulari, purché senza fotocamera (se c’è, la spaccano). L’amministrazione fornisce gratis schede e sigarette: per due mesi erano finiti i fondi e si è rischiata la rivolta, ma è di nuovo tutto a posto.
Il refettorio femminile è uno stanzone. Un tavolo di giovani cinesi, uno di nere. Alcune pranzano da sole. Giovani, moltissime prostitute. Quattro donne di mezza età, silenziose e un po’ tristi, non possono essere che badanti: rara avis ormai perché «in attesa della sanatoria governativa, nessun prefetto perde tempo con loro». Posate, bottiglie e bicchieri di plastica per evitare atti di autolesionismo. Incellofanati giacciono penne al pomodoro, polpette, fagiolini lessi. Le camerate sono di fronte. 4-6 letti per le donne, 6-8 per gli uomini. Le prime per amicizia si mescolano, i secondi restano divisi per etnie. Si litiga per furti e dispute religiose: sei tunisini musulmani, racconta il medico, hanno aggredito un tunisimo cristiano.
Coperte marroni sui letti, due armadietti, una tv accesa su TeleRoma56. Una donna è ancora a letto, un’altra in pigiama è incollata al video. Sguardi spenti, disinteresse. Sulla parete, tappi di Coca-Cola appiccicati e un vecchio condizionatore spento. Il bagno è squallido: muri scrostati, doccia senza tenda, cesso alla turca, niente specchi. Ci dicono che li stanno ristrutturando. Come sono appena finiti i lavori di ampliamento: altri 64 posti letto da destinare. E c’è il progetto di un «settore trans»: una ventina di posti per «una categoria terza che per disattenzione finisce con il diventare protetta».
Il settore maschile è più duro. La deputata Radicale Rita Bernardini, in una visita recente, è stata colpita dalla «tensione che emanava». Ne è scaturita un’interrogazione parlamentare contro «cibo pessimo, pulizie superficiali, servizio sanitario insufficiente». E per tutelare cinque rifugiati politici - tra afgani, un iracheno e un palestinese - alloggiati insieme agli altri. Alla vista di Vita in giacca e cravatta, i clandestini intuiscono che può aiutarli e gli si affollano intorno. Si forma una fila di casi, ognuno unico. «Lei è senatore? Ah, del partito di Veltroni? - si informa un africano - Vabbé stavolta avete perso, ma la prossima...». Del governo hanno paura, non vogliono restare qui un anno e mezzo, evocano Guantanamo senza sapere esattamente cosa sia. Un albanese si lamenta: «Ho la scabbia, qui non mi curano». Il medico smentisce: «Lo abbiamo portato al San Gallicano, la diagnosi è un’altra». Si avvicina un ragazzo: «Qui viviamo in condizioni molto difficili». Un uomo anziano dal nome incomprensibile e l’aria alterata gesticola: «Vengo dalla ex Jugoslavia, ci avete smembrato. Io sono apolide, ho la giustizia contro. Siamo in due in Italia: io e Berlusconi. Ma lui la fa franca».
«È una realtà di disperazione - dice Vita - La tragedia dell’immigrazione è questa: un mosaico di casi tragici che non hanno soluzione». Nel Cpt ex rapinatore è uguale a muratore è uguale a prostituta è uguale a colf. Sono tutti irregolari nell’ingranaggio di un meccanismo difensivo incapace di fronteggiare la miseria dei nove decimi del mondo. Tutti in possesso di un biglietto della lotteria dove si può solo perdere. In attesa di scoprire se dovranno tornare al passato da cui sono fuggiti o continuare a nascondersi in un eterno presente senza prospettive. Helena, un’esperienza da baby sitter in nero, come Morales, 64enne corriere della droga argentino con 4 anni di prigione alle spalle, 2 milioni da parte e 5 nipotini mai visti. Quando gli dicono che ogni suo viaggio portava morte, annuisce: «È vero, ma non conoscete la periferia di Buenos Aires dove sono nato. Io capisco il vostro punto di vista, voi comprendete il mio».

l’Unità 27.6.08
Soli e delusi, i militanti Pd
«Vogliamo idee, non correnti»
di Maria Zegarelli


Alfredo Malta, è uno di quelli che non si perdeva un discorso di Enrico Berlinguer. E di Giorgio Almirante, «perché dovevo capire come ragionavano dall’altra parte». Poi, in sezione, ore di discussione con i compagni. È uno chef, nella vita e alle Feste de l’Unità. Non se ne perde una, tutta l’estate in giro per l’Italia, a fare volontariato «con i compagni», che adesso si chiamano democratici. È perplesso il democratico Alfredo.
È perplesso il democratico Alfredo. «Fatico a capire certi discorsi che di politica ne contengono davvero poca». Sui quotidiani non si parla d’altro che di fondazioni, tesseramenti, Red, correnti, fassiniani, rutelliani, prodiani... «A noi piacerebbe sentir parlare di nuovo di programmi, opposizione, lavoro, occupazione, sociale. Ci piacerebbe tornare a discutere nei circoli, come si faceva nelle sezioni».
Fernando Morelli, classe ’52, ha scelto Sd. Ma al grembiule dello stand dell’XI municipio, cucina tradizionale, non ci rinuncia. «Qui sono tutti amici miei, fino a due anni fa eravamo nello stesso partito, condividevamo battaglie, campagne elettorali, discussioni. Per me è naturale fare il volontario alla Festa de l’Unità di Roma, questa è casa mia, sono orgoglioso di stare qui, anche se il Pd non è più il mio partito». La Festa de l’Unità a Roma è sempre stata un appuntamento culturale e politico di primo piano. Musica, buon cibo, dibattiti, location sotto le stelle fra la storia antica della città. Ma questa è una edizione particolare: arriva «dopo». Dopo la sconfitta delle politiche, dopo l’avvento di Gianni Alemanno al Campidoglio. È ancora sotto choc il popolo democratico.
Tutto è cambiato, il partito, il governo, l’amministrazione comunale. La Festa no. Non qui. Elvira è fondatrice di un circolo del Tiburtino. Eccola che lustra frigoriferi della bisteccheria. «Sono fiduciosa, credo che questo partito abbia davvero una grande carica innovativa, ha tutti gli ingredienti per la ricetta che serve alla politica italiana. Ma ha anche parecchi difetti che arrivano dal passato, dalla storia dei partiti che lo hanno formato. Non mi piace il proliferare delle correnti, non mi piace ogni volta sentirmi chiedere se ero una ex ds o una ex Margherita». Come si sente la base? «La base sono anche io - risponde - dunque lo so bene come si sente. Sola. Piuttosto lontana dai discorsi dei vertici del partito, un partito che deve fare parecchia strada, che ha pochi punti di riferimento certi. Basta vedere quale è la situazione dei circoli: quelli che funzionano di più sono le ex sezioni ds e non lo dico con piacere, perché vorrei che davvero ci fosse un radicamento capillare del partito che c’è oggi, il Pd».
Oggi sarà tutto pronto, stand allestiti, cucine funzionanti, spazio concerti attrezzato. La festa è una macchina che funziona perfettamente, ogni volta che giri la chiave il motore non tradisce. Una certezza. Volontari all’opera, come ogni anno, 400. Sessant’anni, tanti ne conta la storica festa che fu del Pci e poi di tutte le evoluzioni di quel partito. Quella nazionale non si chiamerà più Festa de l’Unità, ma dato che i vertici del Pd hanno deciso che a livello locale ognuno potrà chiamarla come vuole, a Roma la scelta è stata chiara: continuerà a chiamarsi come sempre. Il manifesto pubblicitario,poi, più chiaro di così non poteva essere: una bella ragazza che si sveglia e la scritta «Ciao, bella». O Bella ciao. O Roma svegliati, riprenditi dalla batosta elettorale e ricomincia daccapo. Il popolo romano delle primarie vuole darsi delle certezze. Micaela Campana, della segreteria Pd della capitale, responsabile dell’area dibattiti alle Terme di Caracalla, spiega: «Sarà un momento importante per il Pd e per la città: un’occasione per riavviare un dibattito e un confronto con la base del partito, con i cittadini. Saranno 33 giorni di dialogo costante, durante i quali affronteremo le tematiche legate a Roma,a questa nuova giunta Alemanno che sta distruggendo quanto è stato costruito negli ultimi 15 anni». Il gruppo Pd capitolino avrà un proprio spazio, i municipi altrettanto. Parteciperanno tutti i circoli, 115, per portare avanti «la fase di ascolto che abbiamo avviato».
Ascolto: questo chiedono i militanti del nuovo partito. Vogliono poter dire la loro. «Questo è il primo momento di aggregazione post-batosta - ragiona Marco Miccoli,responsabile della Festa -, la sconfitta a Roma è stata pesante, adesso bisogna riorganizzarsi, rilanciare un’idea di opposizione alla giunta Alemanno, in una città che alle politiche ha dato il 41% dei consensi al Pd». Veltroni vs D’Alema? «Questo dibattito - dice -mi sembra un po’ datato, si fa fatica a riconoscersi in una opzione piuttosto che in un’altra perché la sensazione è che non ci si stia confrontando su idee e progetti politici». Nasce da qui lo «smarrimento» del popolo delle primarie.
Riccardo Milana, coordinatore romano del Pd, l’umore della base lo conosce bene. «Siamo in una fase di profonda delusione, c’è stata una sconfitta forte. Adesso ci aspetta un lavoro importante: ricostruire la fiducia, creare un’opposizione seria e puntuale. Per questo non possiamo permetterci la riproposizione di un partito fatto di correnti, o di un centralismo democratico svuotato di contenuti politici». Politica. Questo chiede la «pancia del partito».

l’Unità 27.6.08
Aborto, il buio oltre la legge
di Pietro Greco


Come affrontare questo
oceano di dolore?
Con pudore e discrezione
e con un forte impegno
culturale e sociale
nella prevenzione

Una questione non solo
medica ma anche
politica su cui si
esercitano inusitate
e inaccettabili
pressioni religiose

DOMANI con l’Unità un libro di Carlo Flamigni che ripercorre la storia di una conquista civile delle donne, sancita con l’approvazione della 194, e dei tentativi medioevali da parte della Chiesa di cancellare questo diritto

L’aborto è una grande tragedia. L’Organizzazione Mondiale di Sanità calcola che ogni anno nel mondo si verificano oltre 80 milioni di gravidanze non desiderate. Di queste, ben 45 milioni vengono interrotte con un aborto. Molto spesso procurato in condizioni di rischio e/o con tecniche primitive, che determinano la morte di un numero di donne stimato tra 70 e 100mila e un numero ancora più grande - milioni - di donne che subiscono menomazioni e danni, fisici e psichici.
Come affrontare questo oceano di dolore? Con grande pudore e discrezione, da parte di tutti. Con un forte impegno, culturale e sociale, nella prevenzione. E con una grande fiducia (senza paternalismi) nella persona, la donna, che in questa tragedia investe più ogni altra: il suo amore materno, il suo corpo, la sua stessa vita. È questo l’approccio che Carlo Flamigni - medico ginecologo e membro della Commissione nazionale di Bioetica - propone per diminuire il carico dolente che accompagna il fenomeno dell’aborto.
La proposta è frutto di un’enorme esperienza medica, di un’ancora più grande partecipazione umana e di un’attenta riflessione etica. E attraversa per intero il libro L’aborto. Storia e attualità di un problema sociale, che l’Unità offre domani ai suoi lettori, senza far mai venir meno la razionalità logica delle argomentazioni, la chiarezza dell’esposizione e la nettezza delle prese di posizione. Quella che Carlo Flamigni ci propone è un’alta lezione di etica laica. E, soprattutto, un metodo per cercare di affrontare senza superbia uno dei temi più delicati che turbano e dividono la nostra società multietica.
L’aborto, ricorda Flamigni, è un «destino doloroso» che da sempre accompagna le donne (molte donne) nel loro percorso di vita: un’«ombra nera» che talvolta le uccide e sempre la angoscia. Presente in ogni tempo e in ogni angolo della Terra. Spesso usato non solo per evitare di portare avanti una gravidanza indesiderata, ma come strumento di controllo delle nascite. Sempre subìto dalle donne come tragica necessità. Anche se la sua accettabilità sociale è storicamente determinata. L’intensità dell’orrore provocato dall’aborto varia di tempo in tempo, da cultura a cultura, da situazione a situazione. Talvolta l’aborto è entrato (ed entra) in competizione con il matrimonio riparatore, l’offerta di adozione (con o senza compravendita del bambino), persino l’infanticidio come strumento di regolare gravidanze non desiderate. Talaltra l’aborto e persino l’infanticidio sono stati (e sono tuttora) usati come strumento di controllo delle nascite.
Molti popoli, fin dall’antichità, hanno cercato di regolare la pratica tragica dell’aborto. Nessuno è mai riuscito a eradicarla. Qualcuno, però, è riuscito a controllarla. Nel 1956 in Vietnam l’abortion rate era di 256 aborti annui ogni 1.000 donne in età riproduttiva, nel 2004 grazie a politiche di controllo è sceso a 30. In Svizzera, dove la pratica dell’aborto è ben regolata, si verificano 6,6 aborti per 1.000 donne in età riproduttiva. In Estonia, dove l’aborto è mal regolato, l’abortion rate sale a 53,8 aborti ogni 1.000 donne in età riproduttiva. Eccoci, dunque, alla prima, netta presa di posizione di Carlo Flamigni: regolare la piaga dell’aborto, lottando non per vietarlo in astratto ma per prevenirlo in concreto. Trattandolo come un problema di salute, quando la donna sente di dover interrompere una gravidanza. E prevenendo, appunto, i motivi che spingono all’angosciosa decisione, attraverso l’uso dei più efficaci sistemi anticoncezionali, una solida educazione sessuale e la rimozione delle cause economiche e sociali che portano alla decisione di rinunciare a un figlio.
Tenendo sempre presente che l’alternativa all’aborto controllato non è l’assenza di aborti, ma - sostiene Flamigni - l’aborto clandestino. Mentre la storia medica dimostra che il tentativo di controllare la tragedia dell’aborto, sottraendolo alla clandestinità e rendendolo un problema di salute da affidare a strutture mediche, consente di raggiungere due obiettivi di grane importanza: diminuire il numero assoluto di aborti e rendere meno rischiosa la pratica per la donna che lo subisce. Due obiettivi sempre elusi nelle società che evocano un astratto divieto assoluto.
Oggi nella gran parte dei paesi del mondo si cerca di regolare la tragedia dell’aborto, consentendo l’interruzione volontaria di gravidanza con l’assistenza del medico sulla base di principi (tra cui la ricerca del male minore), invece che di valori assoluti. E quasi ovunque il tentativo si risolve non solo nella diminuzione dei rischi di salute per le donne, ma nella diminuzione del numero assoluto di aborti. Quasi ovunque la regolazione avviene riconoscendo in buona sostanza che, quando la salute della donna entra in conflitto con la vita dell’embrione o anche del feto, è la prima a dover essere salvaguardata. In Italia a regolare l’aborto sulla base di questo principio (e non di questo valore, sottolinea Flamigni) è la legge 194, approvata dal Parlamento nel 1978 - trent’anni fa - e confermata dal referendum del 1981. I successi di questa legge sono innegabili. Negli anni ’70 il numero di aborti clandestini in Italia superavano il numero stimato di 350.000. Nell’anno 2000 si erano ridotti a 30.000. Ma anche gli aborti legali sono diminuiti: passando dal massimo di 234.801 del 1982, ai 129.588 del 2005. In questi trent’anni in Italia il numero complessivo di aborti si è, dunque, dimezzato. E, poiché la gran parte avviene in strutture mediche, la mortalità tra le donne è diminuita fin quasi ad azzerarsi.
Da un punto di vista medico si tratta di un successo indiscutibile. L’aborto resta una tragedia. Ma oggi è una tragedia che ha dimensioni minori. L’Italia è uno dei paesi al mondo col minor numero di aborti.
La legge 194 presenta, tuttavia, delle ombre. Una, secondo Carlo Flamigni, consiste nell’obiezione di coscienza tra i medici ginecologi, che in alcune regioni ha raggiunto punte così elevate - il 92% in Basilicata, l’80% in Veneto, contro il 20% in Val d’Aosta - da risultare non solo inspiegabili, ma anche inaccettabili, perché rischiano di svuotare la legge e di riconsegnare le donne povere alle mammane e le donne ricche alle cliniche svizzere. La proposta di Flamigni è, giustamente, radicale: proibire l’obiezione di coscienza. Un istituto giusto quando la legge 194 fu stabilita e un medico si sarebbe trovato, da un giorno all’altro, costretto o a praticare l’aborto o ad abbandonare la professione. Ma ingiusto oggi, perché chi ormai sceglie la professione di ginecologo da esercitare in una struttura pubblica conosce il quadro normativo. L’obiezione di coscienza va abolita, sostiene Flamigni, perché mette a repentaglio la salute delle donne.
Appassionata è anche la difesa che Carlo Flamigni propone della pillola abortiva RU486 - una tecnologia che consente non aborti più facili, ma aborti meno dolorosi. E della cosiddetta «pillola del giorno dopo», che non può in alcun modo essere considerata uno strumento abortivo, ma semplicemente un anticoncezionale.
Carlo Flamigni sa, tuttavia, che il problema dell’aborto non è solo una questione medica. E che non può essere affrontato solo in termini tecnici. È una grande questione politica, su cui si esercitano inusitate pressioni di tipo religioso. Carlo Flamigni vede che la legge 194 è oggi sotto attacco. E che questi attacchi possono metterla pesantemente in discussione. L’attacco avviene su diversi piani, a iniziare da quello culturale. Secondo Flamigni è in atto una «crociata della disperazione» da parte di una componente importante della gerarchia cattolica e dello stesso Pontefice, che ha per oggetto parti della legge e la sua stessa totalità. Questa pressione si fonda su alcuni presupposti concettuali. Il primo è che a guidare la società devono essere valori etici assoluti e intangibili, non principi pragmatici e storicamente determinati. Uno di questi valori è ben noto: la vita di ogni persona è un bene assoluto non negoziabile. E poiché «fin dall’inizio» l’embrione «è uno di noi», una persona a tutti gli effetti, con i medesimi diritti di un adulto, l’aborto deve essere considerato un male assoluto. Da proibire, non da regolare. Risultato di queste assunzioni sembra essere - in prospettiva - l’abrogazione della legge 194. Ma intanto gli attacchi si concentrano su aspetti particolari, in grado di metterne in discussione l’intero impianto. Uno di questi attacchi locali, riguarda, per esempio il ruolo del padre. Si giudica inaccettabile il fatto che nelle decisioni sull’interruzione di gravidanza la legge non preveda un suo ruolo, allo stesso livello di quello della madre. O anche il ruolo del medico. Si giudica inaccettabile che, anche nei primi 90 giorni, l’interruzione della gravidanza non sia il medico ad avere l’ultima parola. O, ancora, il ruolo dei «centri di dissuasione»: si tenta di stabilire negli ospedali presidi di volontari che, scrive Flamigni «avrebbero l’unica funzione di dissuadere la donna dal portare a compimento la propria scelta». Nell’insieme l’obiettivo è chiaro: mettere in discussione il diritto all’autodeterminazione delle donne. Sottrarre loro il «potere di decisione». C’è, in questo attacco, qualcosa che a Carlo Flamigni appare del tutto inaccettabile. L’idea - del tutto priva di fondamenta - che l’aborto sia utilizzato nella nostra società come un metodo di contraccezione e non come una necessità angosciante. L’idea che la donna non sia in grado di pensare e di decidere con la propria testa, per cui occorre che altri decidano a posto suo: il marito, il medico, i gruppi di volontari per la vita. Mentre demandare la scelta alla donna non è solo lo strumento più giusto - è la donna, non il marito, il medico o il volontario, che mette in gioco il suo corpo e il suo amore materno - ma anche il più ragionevole: nessuno più della donna è in grado di scegliere tra il male minore, proprio perché nessuno più di lei ha poste in gioco così alte.
Si dirà: ma questo libro poteva essere scritto trent’anni fa. All’epoca della stesura della 194 o tre anni dopo, all’epoca del referendum. Ma qui sta tutta la sua drammatica attualità. Il libro è una sveglia. Attenti che possiamo ritornare a trent’anni fa. «Temo che le ragazze nate dopo il 1978 siano convinte - scrive Flamigni - che i diritti acquisiti, nessuno te li può più toccare, e non si rendano conto di quanto sta accadendo. In realtà, basta dormire un po’ più a lungo che quando ti svegli i tuoi diritti non ci sono più». Qualcuno te li ha rubati. E i ladri di diritti sono dappertutto. Non lasciamoli agire indisturbati.

l’Unità 27.6.08
Camici sporchi e furbi faccendieri
di Lidia Ravera


«Un aborto poteva costare cinquecento euro ma anche cinquemila. Più la donna che doveva sottoporsi all’intervento aveva urgenza per l’avanzato stato della gravidanza, più il prezzo saliva. E se non aveva i soldi poteva pagare con una prestazione sessuale». L’ho letto sul Corriere della Sera, quindi tocca crederci. Del resto: c’era anche sugli altri giornali. Quindi è così, un’altra puntata della telenovela horror sui “camici sporchi”. Questa volta il set del film è il reparto “ginecologia”: se posso prendermi un passaggio sul tuo corpo ti faccio uno sconto sull’intervento necessario a ridurre il danno che ti ha causato quell’altro, quello che ha fatto sesso con te, sbadatamente. Non vuoi? Allora prezzo pieno. Non li hai? Allora rinuncia all’anestesia, se ce la fai a sopportare il dolore, c’è un tot in meno da pagare. Ammetterete che è difficile credere a questo immondo commercio: sesso, doglie, angoscia, tutto è quotato in borsa, su tutto si può mercanteggiare. È difficile credere che per soldi si sia disposti a qualsiasi cosa, ma proprio a qualsiasi cosa: operare pazienti sani, tagliare mammelle, seviziare vecchi, grattar via feti a pagamento, anche se c’è una legge che consente di riceverlo gratis, quel triste servizio, spesso necessario.
È difficile credere che tutti questi crimini siano compiuti sotto il segno dell’avidità, non certo della miseria. I criminali in camice bianco, sono gente che ha studiato, sono laureati, sono di buona famiglia. Non vengono da situazioni deprivate, non sono cresciuti nei bassi e nei tuguri, con il papà in carcere e la mamma sui marciapiedi. Sono buona borghesia di nascita e di professione, gente vissuta nel benessere e che, anche senza ricorrere a comportamenti criminali, avrebbe vissuto comunque nel benessere.
Che cosa li ha spinti ad abbassarsi fin dove si sono abbassati? Che cosa spinge un professionista a rubare, a ricattare, a fregare donne in difficoltà speculando proprio sulla loro difficoltà, a frodare lo Stato? I soldi. Ma perché il potere dei soldi è in crescita esponenziale in questi anni? Perché travolge, la fame di far più soldi, qualsiasi regola morale, qualsiasi codice, qualsiasi deontologia professionale? Forse perché non ci sono altre passioni in giro? Nessuno crede più in niente, né in Dio né nel sol dell’avvenir, né nel potere salvifico dell’arte. Nessuno ha più ambizioni diverse dal possesso: dal possedere una barca, una villa, una maserati, una pupa di lusso, con cui potere andare la sera in un locale di lusso a farsi guardare da chi non ha potuto entrare a fare il vip. E, a proposito di vip: posso spezzare una lancia a favore di Raffello Follieri, anni 29, già fidanzato con la bellissima «attrice Hathaway», già intimo di Bill e Hillary Clinton, di professione “faccendiere”? Leggo su la Repubblica che, «dopo cinque anni di lussi, feste, aerei privati, panfili, amicizie potenti e un amore hollywoodiano», è stato arrestato per «associazione a delinquere finalizzata alla truffa, trasferimento illecito di danaro e riciclaggio»... e che cosa ha fatto? Ha fatto credere «a New York e ai Clinton» di essere il direttore finanziario del Vaticano. Aveva l’armadio pieno di vestiti da cardinale e, per il resto, come la nostra tradizione di truffatori ci ha insegnato, gettava fumo negli occhi esibendo un tenore di vita da cretino ricco: un affitto mensile da 37 mila dollari, il jet privato, la bellona al fianco e via incarnando la mitologia del cretino povero (o medio). Se non lo fermavano avrebbe senz’altro venduto San Pietro a qualche innocente texano, pronto a vendersi qualche pozzo di petrolio per fare jogging fra le colonne del Bernini. Perché voglio spezzare una lancia in suo favore? Perché ha gabbato il jet set internazionale, con una creatività degna di un grande romanziere. Rischia 225 anni di galera,e la libertà provvisoria gli costerebbe 21 milioni di dollari. Eppure si è limitato a fare fessi dei fessi, non ha approfittato di una ragazza incinta di tre mesi e senza un soldo.
www.lidiaravera.it

l’Unità 27.6.08
Praga, il Pci non si arrese e si oppose
di Adriano Guerra


POLEMICHE Prosegue in sottofondo la tendenza a criminalizzare i comunisti Italiani sul 1956 e sul 1968 praghese. Ma nel primo caso un’abbondante revisione è stata fatta, e nel secondo non ci sono colpe

È ancora in corso su giornali importanti, come il Corriere della sera, la guerra privata che da decenni alcuni studiosi conducono nei confronti del Pci. Una guerra «di posizione» in primo luogo contro Togliatti. Che - ci ricorda ogni anno Federigo Argentieri ora con un articolo, ora con un’intervista, ora ripubblicando il solito testo - nel 1956 non solo ha avallato, ma ha spinto Chrušcëv a decidere l’invasione dell’Ungheria di Imre Nagy. Che nel 1958 ha contribuito a decidere la condanna a morte di Nagy. Che nel 1964 ha personalmente e consapevolmente partecipato alla congiura ordita da Brežnev contro Chrušcëv.
È spesso difficile capire l’origine e il senso delle guerre private. Il dato forse più negativo è che esse possono far dimenticare i meriti acquisiti di chi le conduce. È il caso appunto di Argentieri che, militante del Pci, è stato un protagonista della battaglia che a lungo è stata condotta all’interno del partito per cancellare la posizione presa da Togliatti nei confronti della rivoluzione democratica ungherese e dell’intervento militare sovietico per stroncarla. Forse senza la testarda pressione di Argentieri, Fassino non sarebbe andato a Parigi nel giugno 1988, né Occhetto a Budapest l’anno successivo, per rendere onore alla memoria di Imre Nagy. Sempre per restare al ’56 del tutto opportuno è l’invito di Luciano Canfora a rispondere con chiarezza ai quesiti posti dagli avvenimenti di quell’anno tenendo conto di tutti gli elementi del quadro (Ungheria e Suez, ma non solo) e senza mettere mai da parte le pagine oscure e contradditore (1956, L’anno spartiacque, Sellerio). Nel passato di Imre Nagy vi sono - come si sa - testimonianze di pratiche staliniste. Non per questo si può mettere da parte però il ruolo svolto da Nagy nella prima grande rivolta antistalinista del campo sovietico, o il carattere punitivo e di vendetta che ha avuto la condanna a morte eseguita nei suoi confronti nel giugno del 1958. Ma per Canfora, a differenza di Argentieri, lavorare significa muoversi tra le «sudate carte» e prendere atto, per discuterli, dei risultati cui altri sono giunti. Il discorso vale anche per Victor Zaslavsky che, dopo aver condotto anch’egli una lunga «guerra privata» nei confronti di Togliatti, ci offre adesso un importante contributo sul ’68 di Praga. E lo fa in un saggio appena uscito su Ventunesimo secolo (n.16, Giugno 2008) presentando e analizzando un grande numero di documenti provenienti dagli archivi sovietici e da quelli del Pci. Da queste carte risulta confermato in particolare come il Pci abbia appoggiato per tempo, e «con entusiasmo» la battaglia dei comunisti «rinnovatori» cecoslovacchi e reagito poi con indignazione all’intervento militare sovietico. Senza mai giungere tuttavia ad una rottura radicale con l’Urss. Ma l’interesse per lo scritto di Zaslavsky non sta tanto in questi riconoscimenti. Sta piuttosto nel tentativo compiuto dallo studioso di rispondere ad un interrogativo rimasto sin qui nell’aria. Che è questo: perché, per quanto prevedibile, l’intervento militare del 21 agosto colse il Pci di sorpresa al punto che nei giorni che immediatamente lo precedettero lo stesso segretario del Pci, Luigi Longo, e con lui altri dirigenti di primo piano, si recò in ferie proprio nell’Unione sovietica?
Né ad essere stati colti di sorpresa sono stati soltanto i comunisti italiani: ben 250, riferisce Zaslavsky, sono stati infatti i dirigenti comunisti dei paesi occidentali, che vennero colti dall’intervento mentre si trovavano in ferie nell’Urss. E questo - si ricaverebbe ora da un documento - nonostante fosse stato per tempo comunicato loro, attraverso una lettera, datata 9 luglio 1968 e inviata agli ambasciatori sovietici perché ne comunicassero oralmente il contenuto, che al punto cui si era giunti l’intervento militare non era soltanto probabile. Ma perché nonostante la lettera i dirigenti comunisti italiani, persistettero nella loro visione ottimistica e si recarono nell’Urss? Zaslavsky scrive che tra le carte della Direzione del Pci non sono stati rinvenuti riferimenti al documento sovietico né informazioni sulla reazione di Longo. Accenna ad una incomprensione da parte di quest’ultimo circa la reale posizione sovietica e avanza l’ipotesi che da parte del Pci si sia pensato sino all’ultimo che sarebbe stato possibile evitare quella conclusione tragica. Zaslavsky ricorda anche le iniziative di mediazione avviate dal Pci per una soluzione pacifica della crisi e l’appoggio dato ai comunisti francesi che avevano proposto, ricevendo però l’immediato diniego di Mosca, la convocazione di una conferenza dei partiti comunisti europei sulla questione cecoslovacca. Nonostante la lettera del 9 luglio, e la presenza all’interno del gruppo dirigente di radicati timori su un’iniziativa militare sovietica contro la «Primavera di Praga» (Zaslavsky ricorda in particolare le valutazioni pessimistiche di Berlinguer) ci troveremmo insomma di fronte ad un clamoroso caso di incapacità da parte del Pci di interpretare correttamente quel che correttamente Mosca aveva fatto sapere per tempo. Ma perché non pensare all’ipotesi più semplice e cioè che quella lettera, seppure preparata, e forse persino fatta avere alle ambasciate di Roma, Parigi ecc., potrebbe semplicemente essere stata annullata? Per le ragioni più diverse. Ad esempio per un mutamento intervenuto nella posizione sovietica. Il 19 luglio - si legge nelle memorie di Dubcek - Brežnev propose al leader cecoslovacco un incontro bilaterale, il 29 luglio ci fu l’incontro di Cierna che si concluse con un caloroso abbraccio fra Brežnev e Dubcek, poi ci fu l’incontro di Bratislava coi sovietici che si dichiararono favorevoli ai principi «dell’eguaglianza, del rispetto della sovranità, dell’indipendenza statale e dell’intangibilità territoriale», ecc... In quello stesso periodo - posso aggiungere sulla base dell’esperienza di ex corrispondente a Mosca dell’Unità - ad alcuni membri di una delegazione del Pci che si trovavano nell’Urss venne prima comunicato, determinando stupore ed allarme, e poco dopo smentito, che stesse per prendere il via il temuto intervento. Quel che si ricava dalla vicenda è che le «carte degli archivi» vanno sempre misurate sui fatti e lette utilizzando il buon senso. E i fatti, e il buon senso, dicono che Longo, e così gli altri 250 dirigenti comunisti occidentali, non sarebbero certo andati a Mosca se avessero saputo dagli ambasciatori sovietici che l’Urss aveva deciso di mandare i carri armati a Praga. Di tutta evidenza essi sono partiti per Mosca perché convinti - sulla base di assicurazioni loro fornite dallo stesso Pcus - che si stesse lavorando per una soluzione politica della crisi. Soluzione politica che è stata improvvisamente abbandonata determinando non solo la conclusione tragica della «Primavera di Praga» ma anche una rottura fra il Pcus e i partiti che poi tenteranno la via dell’«eurocomunismo». Rottura che, per quel che riguarda i comunisti italiani, seppure non ha portato allora allo «strappo» cui si perverrà soltanto alla fine del 1980, non è stata più sanata. Non si può dunque parlare di «resa» del Pci. Come si vide l’anno successivo quando alla Conferenza mondiale dei partiti comunisti del 1969 il Pci respingendo tre dei quattro documenti finali presentati allo scopo di ricostruire una politica unitaria di quello che ancora si chiamava movimento comunista mondiale, è uscito di fatto dal «campo» sovietico e dagli obblighi della «disciplina di campo» che ne derivavano. La «resa» verrà più tardi e non ai sovietici. E i documenti forniti ora da Zaslavsky, letti correttamente, aiutano a capire il ruolo giocato nella crisi e nella fine del Pci dalla mancata critica radicale dell’esperienza sovietica e dalla persistente fiducia nella illusoria idea che l’Urss fosse riformabile.

l’Unità 27.6.08
Triste il Paese che profana le lapidi


La profanazione al Monumento del Deportato non è semplice vandalismo
È molto di più

Nella notte tra il 13 e 14 giugno ignoti hanno profanato il Monumento al Deportato eretto su una collinetta del Parco Nord, nel Comune di Sesto San Giovanni. Il Monumento, realizzato su progetto dello Studio BBPR di Lodovico Barbiano di Belgiojoso, è dedicato a tutti i cittadini arrestati dai nazifascisti e deportati nei lager nazisti che lavoravano nella grandi e piccole fabbriche nell’area industriale di Sesto San Giovanni. Su una grossa pietra all’inizio dell'acciotolato si legge una scritta a loro dedicata dai progettisti dell’opera, gli architetti Lodovico Belgiojoso (ex deportato) il figlio Alberico Belgiojoso, ed il Maestro d'Arte Giuseppe Lanzani.
Al termine dell’acciottolato si trova una scalinata ad alti gradini neri, che vogliono rappresentare la scala della morte del lager di Mauthausen, alla fine della quale si erge il monumento: una stele che rappresenta la figura stilizzata del deportato, con i piedi radicati nelle pietre e con pietre al posto della testa. Disposti a semicerchio numerosi masselli di porfido sopra i quali sono incisi 563 nomi di deportati delle industrie locali, deceduti e sopravvissuti. Nel basamento trovano collocazione sei teche contenenti le terre e le ceneri di sei campi di concentramento nazisti. Appoggiati sulla base del Monumento vi sono due grandi catini contenenti i sassi provenienti dalle cave di pietra di Gusen e Mauthausen.
Mani ignote, con i grossi sassi del Monumento hanno distrutto i cristalli che ricoprono cinque delle sei teche ed hanno imbrattato con vernice rossa un massello.
Un gesto inqualificabile, che sarebbe riduttivo definire vandalismo. Lo spregio che si è voluto dimostrare profanando le ceneri di chi si è sacrificato per ridare libertà agli italiani è inaccettabile.
Ancora: nei giorni successivi al 25 aprile, in pieno giorno, in una strada di Sesto è stata spregiata la lapide commemorativa dei fratelli Casiraghi, martiri della Resistenza. Un gruppetto di persone ha incendiato la corona d’alloro deposta alla base della lapide per le celebrazioni del 25 aprile e le fiamme hanno rovinato il marmo della lapide stessa.
Questi episodi ed altri che si sono verificati in diverse città italiane inquietano e preoccupano per il futuro.

La Repubblica 27.6.08
NELLA STANZA DELL'ANALISI
Un libro-intervista di Mario Trevi sulla psicoterapia
L´"arte del dialogo" e le qualità necessarie per la cura
di Luciana Sica


Gran personaggio della cultura junghiana, Mario Trevi ci ha piacevolmente abituati al suo sguardo aperto, tollerante, profondamente laico nei confronti del mondo e del sapere psicoanalitico che coltiva con la statura indiscussa del teorico e la riconosciuta amabilità del terapeuta: sul piano delle idee come sul terreno impervio della pratica clinica. Da sempre, per lui - che ha di recente compiuto ottantaquattro anni - sembrano non esistere amici e avversari, sono inconcepibili gli steccati di scuole e scuolette, i pensieri rigidi e immutabili: a prevalere è invece un atteggiamento di perenne ricerca, un´attenzione critica a modelli mentali diversi che difficilmente si integrano ma neppure si contrappongono, la considerazione della dignità di ogni essere umano nella sua complessità, nell´imperfezione e nell´inevitabile sofferenza.
È quest´aria che si respira leggendo il libro-intervista di Trevi condotto da Alessandro Fedrigo, un aspirante analista di formazione filosofica: s´intitola Dialogo sull´arte del dialogo, alludendo alla relazione tra analista e paziente (sottotitolo "Psicoanalisi e psicoterapia", Feltrinelli, pagg.158, euro 12). Dopo la suggestiva conversazione con il figlio Emanuele, di sapore naturalmente più personale - Invasioni controllate (Castelvecchi) - qui, nel confronto con un allievo, inevitabilmente Trevi assume un atteggiamento più pedagogico sulle varie questioni di grande interesse che via via vengono affrontate. Ne risulta un volume curioso, di piacevole lettura, destinato a un pubblico non necessariamente specialistico.
Il tono è colloquiale, nel segno di una certa affettuosa confidenza. Si comincia con una serie di considerazioni sull´"arte" della psicoterapia e i suoi scopi, molto ben distinti dai risultati e nell´ottica junghiana strettamente legati all´individuazione, a quel processo mai concluso una volta per tutte che spinge verso l´autenticità e l´armonia. Trevi insiste molto sulle qualità necessarie al terapeuta: dall´empatia all´intuizione, dalla pazienza all´attenzione, dall´intelligenza all´umiltà - qualità magari date per scontate nell´esercizio di un mestiere così delicato, e invece piuttosto rare.
D´importanza centrale sono gli studi, la formazione personale, gli interessi intellettuali, più in generale la "cultura" del terapeuta - certamente non è solo un bagaglio tecnico quel che gli occorre, ma "qualcosa" di diverso che non somiglia affatto all´erudizione. Per dirla più chiaramente - citando Trevi - può essere molto più utile la lettura di Dostoevskij e Tolstoj, di Flaubert e Proust, piuttosto che macerarsi su ogni dettaglio di certi trattati di psicopatologia orientati nella più algida elencazione di sintomi e diagnosi.
La parte conclusiva riguarda «la relazione con il paziente» e certe situazioni limite che s´impongono nel lavoro terapeutico, spesso legate al lutto o comunque all´angoscia della morte: sono pagine molto belle queste in cui si parla della necessità di "staccarsi" dalle persone che si amano, che si sono amate una volta per sempre.
Ma per cogliere con immediatezza lo stile personalissimo di questo maestro italiano della psicologia del profondo, sarà forse meglio affidarsi a uno dei passaggi finali in cui Trevi ricorre a un paragone senz´altro inconsueto: «Quando penso alla psicoterapia sia come pratica sia come argomento su cui riflettere mi vengono in mente certi bellissimi disegni di Escher sempre uguali e sempre diversi da se stessi, soprattutto quelli in cui un´immagine centrale si moltiplica e si rimpicciolisce man mano che si procede verso la periferia, sfruttando i vuoti e i pieni in un gioco sapientemente speculare. Chi li guarda non può fare a meno di "portare avanti" ciò che il disegnatore ha interrotto...».

Corriere della Sera 27.6.08
La vera svolta di Togliatti
di Luciano Canfora


Quando non era invalso il costume di ritrattare la parola detta («Sono stato frainteso»), l'oratoria politica aveva una sua grandezza. Scandiva svolte significative e, non di rado, educava. Un bel libro mondadoriano («I discorsi che hanno cambiato l'Italia» a cura di Antonello Capurso) raccoglie una silloge notevole. Giusto al centro del volume figura il celebre discorso di Togliatti al cinema «Modernissimo» di Napoli, passato alla storia come «La svolta di Salerno»: l'undici aprile del 1944.
Educando i quadri del suo partito Togliatti disse, tra l'altro, e quella fu forse la vera svolta: «Noi non possiamo accontentarci di criticare o di inveire, e sia pure nel modo più brillante. Noi dobbiamo possedere una soluzione di tutti i problemi nazionali, dobbiamo indicarla al popolo nel momento opportuno e saper dirigere tutto il Paese alla realizzazione di essa. Trasformando in questo modo il nostro Partito, siamo convinti di non lavorare solo per noi stessi, ma nell'interesse di tutta l'Italia».

Corriere della Sera 27.6.08
Esce da Manni un racconto postumo di Luigi Malerba, scritto per la radio negli anni Ottanta
E venne Epicuro a redimere l'uomo
Il grande filosofo scopre il mondo moderno. Con un colpo di scena
di Luigi Malerba


Un orto ben coltivato, circondato da un muro. Addossato al muro un basso padiglione nel quale si intravedono alcune panche e un tavolo di legno grezzo.
Il filosofo Epicuro, un cinquantenne con una folta barba grigia, cammina fra i solchetti dell'orto, coltivato a rape, cavoli, lattuga, crescione, ravanelli, sedano, cipolle e altre verdure. Lo seguono cinque allievi fra cui una ragazza. Epicuro parla e intanto annaffia le verdure con una brocca piena d'acqua. Quando l'acqua è finita uno degli allievi gli porge un'altra brocca piena e va a riempire quella vuota a una fontanella addossata al muro dell'orto. Intanto Epicuro continua la sua lezione.
«I piaceri si dividono dunque in "naturali e necessari", come cibarsi; in "naturali e non necessari", come cibarsi con alimenti raffinati; e infine vengono i piaceri che non sono "né naturali né necessari", come arricchirsi ». Un allievo con una faccetta simpatica e spiritosa si avvicina al filosofo.
«Maestro Epicuro, posso esprimere un concetto?».
«Sentiamo».
«Io considero i ravanelli crudi un cibo molto raffinato. Il mio amico Sidonio li considera invece un cibo degno delle capre».
«Il tuo amico Sidonio farà bene a lasciare i ravanelli per te o per le capre dal momento che non gli piacciono. Il piacere comunque non è unico e assoluto per tutti, non esiste "il piacere in sé" come dice Platone, ma vari generi di piacere in rapporto alle persone, agli oggetti, alle condizioni delle persone, all'occasione ». Mentre parla, Epicuro distrattamente continua il gesto di innaffiare le verdure, ma la brocca è vuota. Un secondo allievo glielo fa notare. «Maestro Epicuro, stai innaffiando con la brocca vuota».
Epicuro si rende conto della distrazione. «Se veramente continuassi a innaffiare, il fatto che la brocca è vuota non sarebbe rilevante. In realtà non sto innaffiando come tu hai detto, ma sto facendo soltanto il gesto di innaffiare. Insomma sto facendo un innaffiamento "platonico". Con questo genere di innaffiamento le verdure non crescerebbero e noi finiremmo per morire di fame. Esiste una migliore dimostrazione che la filosofia deve essere tutta tesa ad aiutare gli uomini a vivere meglio, possibilmente a raggiungere la felicità, e che è inutile e perciò dannosa quella filosofia che propone soltanto idee astratte?».
«Come Platone» dice la Ragazza.
Epicuro sorride soddisfatto alla Ragazza, poi prende la brocca piena d'acqua che gli porge uno degli allievi e nell'altra mano tiene la brocca vuota. Le mostra tutte e due agli allievi, una vicina all'altra.
Epicuro alza in alto la brocca vuota. «Questa è la filosofia di Platone ». Poi mostra la brocca piena. «E questa è la filosofia di Epicuro».
Poi dà la brocca vuota all'altro allievo perché vada a riempirla, e con quella piena riprende a innaffiare le verdure. Dopo qualche istante si ferma e gira lo sguardo intorno.
«Ravanelli, cavoli, rape, lattuga, barbabietole, sedano, cipolle, cetrioli... lo chiamano "il giardino di delizie", e io sono d'accordo nel dire che queste verdure sono autentiche delizie, ma preferisco che questo luogo venga chiamato "l'Orto di Epicuro" perché di un orto si tratta e non di un giardino».
Il Primo Allievo fa uno sbadiglio. «Posso esprimere un altro concetto? » «Dimmi».
Il Primo Allievo è incerto. «Il sole sta tramontando, maestro Epicuro… ».
«La notizia è interessante, ma generica ».
«Con il tramonto del sole i tuoi allievi sentono la necessità di soddisfare un loro desiderio "naturale e necessario"».
«Se è della cena che intendi parlare, gli ortaggi sono già stati raccolti e lavati. Possiamo dunque entrare nel padiglione».
Epicuro depone la brocca dell'acqua e si avvia verso il padiglione seguito dagli allievi. Posato su un tavolo c'è un grande cesto con molti ortaggi. Gli allievi siedono intorno al tavolo insieme al maestro e prendono una ciotola ciascuno. Sul tavolo c'è anche una brocca piena di vino e delle coppe di metallo.
Gli allievi attendono rispettosamente, ma con impazienza, che Epicuro incominci a mangiare per primo. Il filosofo guarda il cibo, poi guarda gli allievi in attesa, evidentemente affamati.
Sorride malizioso. «L'attesa aumenta il piacere».
Il Primo Allievo mostra segni di nervosismo.
«Posso esprimere un concetto?» «Certo».
«Ho fame: l'attesa prolungata e i morsi della fame che l'accompagnano procurano dolore».
Epicuro risponde allegramente. «Abbandoniamoci dunque a quest'orgia di piacere!».
Epicuro prende un ravanello e lo addenta. Gli allievi incominciano a loro volta a mangiare con voracità. «Quando i nostri nemici ci accusano di essere dei gaudenti dediti ai più sfrenati piaceri dei sensi, in fondo non hanno torto».

Repubblica 27.6.08
Le impronte dei bimbi rom e il silenzio della Chiesa
di Francesco Merlo


A Maroni vorremmo suggerire di prendere le impronte delle mani (e dei piedi) ai neonati cinesi di Milano, che sono già, notoriamente, tutti ladri di identità. Inoltre, per coerenza, potrebbe impartire l´ordine di misurare la lunghezza degli arti ai bimbi di Corleone che crescono (si fa per dire) con il ‘criminal profiling´ di Totò u curtu. Ed è inutile spiegare a un pietoso uomo d´ingegno come il nostro ministro degli Interni che i minori dell´agro nocerino sarnese e della piana del Sele andrebbero – per proteggerli, badate bene! – sottratti alla patria potestà e affidati alla Dia o, in subordine, allo scrittore Roberto Saviano. E contro il bullismo nelle scuole cosa ci sarebbe di meglio che prendere le impronte, al momento dell´iscrizione, anche ai genitori che sono sempre un po´ complici?
Ecco, preferiamo mostrarvi il lato grottesco di questa proposta perché sappiamo bene che Roberto Maroni, credendo di essere astuto, lavora per provocare i nostri buoni sentimenti, e dunque non vogliamo cadere nella sua rozza trappola e farci rubare i pensieri. Insomma a noi viene facile assimilare il bambino ai deboli, agli sfruttati, a tutte le altre vittime dell´umanità adulta. Ma contro l´indignazione i leghisti sono bene attrezzati. Dunque rispondono rinfacciandoci la paura della gente, agitano il valore della sicurezza, e ci eccitano perché vorrebbero che in risposta al loro razzismo scomposto noi santificassimo i rom, negassimo qualsiasi rapporto tra campi nomadi e criminalità, tra immigrazione e delitti.
E invece non è in difesa dell´accattonaggio, né per esaltare la presunta bellezza esotica e imprendibile della zingara Esmeralda che protegge il povero gobbo di Notre Dame, non è insomma in nome della retorica rovesciata dei miserabili che noi diciamo a Maroni che prendere le impronte digitali a bimbi rom è un segno di inciviltà razzista, che neppure ci sorprende perché non è il primo, non è l´ultimo e purtroppo non sarà neppure il peggiore.
Il punto è che, insieme con l´ossessione di Berlusconi per la Giustizia, in questo governo c´è anche l´ossessione leghista per la sicurezza. Ma una cosa è il problema e un´altra cosa l´ossessione. Ebbene, incapace di risolvere il problema che lo ossessiona, Maroni vorrebbe che, per reazione, noi negassimo il problema. Invece noi gli ricordiamo che già il suo predecessore, il mite Giuliano Amato aveva segnalato che in tutte le comunità criminali sta crescendo, anche in Italia, l´uso orribile dei bambini. Ci sono, per esempio, le baby gang. E il libro Gomorra racconta di ragazzini utilizzati nelle vendette trasversali. E in Calabria sono in aumento gli omicidi compiuti da killer ragazzini pagati solo poche centinaia di euro. Ma che facciamo, ministro Maroni, schediamo tutti i bimbi calabresi?
Ecco perché non merita i nostri buoni sentimenti, il ministro Maroni. Perché non è vero che in Italia c´è un dibattito tra rigoristi cazzuti (loro) e lassisti rammolliti (noi). Maroni non c´entra nulla con il dibattito europeo, difficile e importante, tra il rigore e l´accoglienza.
Nei Paesi più civili d´Europa la sicurezza, la serietà e la responsabilità non sono valori di destra. I socialisti francesi e spagnoli, i socialdemocratici tedeschi, i laburisti inglesi e, aggiungiamo, anche i sindaci italiani di centrosinistra hanno maneggiato con durezza l´argomento dell´immigrazione irregolare e della criminalità. Ma senza sparate comiziali, senza colpi di teatro razzisti, senza i paradossi, gli ossimori e le miserie culturali dei leghisti che – come dimenticarlo? – sono quelli che chiamavano gli immigrati di colore bingo bongo, che parlavano di musi di porco e teste scornificate, che invitavano la Marina "a sparare sulle carrette dei clandestini", e denunziavano l´Europa "in mano ai massoni, agli ebrei, ai musulmani e alle mafie degli immigrati". Perché dunque dovremmo stupirci che, arrivati al governo, vogliano prendere le impronte ai bambini rom?
Da anni, ad ogni elezione nelle valli padane, i leghisti affiggono manifesti "giù le mani dai nostri bambini" appropriandosi appunto del vecchio pregiudizio razzista sul misterioso popolo dei ladri di neonati, agitando la leggenda della corte dei miracoli. Si sa che in tutta l´Europa centrale, che registrava il tasso più alto di popolazione zingaresca, per ben tre secoli decreti e leggi furono emanati per "liberare" i bambini degli zingari dai loro genitori naturali, sino alla soluzione finale nazista e dunque all´internamento di adulti e pargoli. Ne furono sterminati più di cinquecentomila. Ebbene, oggi nel rilancio dell´antico pregiudizio con in più la certezza che i bambini rom non siano bambini ma complici, solo criminali in miniatura e dunque più pericolosi e più sfuggenti, c´è la vecchia idea che tutti i bambini del mondo sono allevati per ereditare «la scienza» di papà. E dunque: la criminalità è un destino che il bambino rom ritrova in fondo a se stesso come una roccia.
E va bene che il bambin Gesù non era rom, ma la chiesa che in Italia fonda la sua forza molto più sull´immagine dolce del bambinello che su quella del crocifisso, potrebbe almeno dire che i bambini non si toccano. La Chiesa sì che può (deve) permettersi i buoni sentimenti. Non era Gesù che voleva che lasciassero i bambini venire a lui? La Chiesa, che punisce e scomunica in materia di sesso e di scienza, perché tollera e accetta le volgarità dei leghisti contro i marginali e contro la gente da marciapiedi, contro i disperati dei semafori e dei campi, contro i loro bambini? La Chiesa, che è l´ecclesia dei naufraghi, dei diseredati e dei dannati della Terra, perché non interviene? Forse perché i bimbi rom non fanno beneficenza come il terribile boss della Magliana Renato De Pedis che – lo ha raccontato mercoledì Filippo Ceccarelli - è stato sepolto nel più esclusivo cimitero del Vaticano, "sarcofago di marmo bianco, iscrizioni in oro e zaffiro, l´ovale della foto" e "un attestato di grande benefattore dei poveri..., che ha dato molti contributi per aiutare i giovani, interessandosi in particolare per la loro formazione cristiana e umana". I bambini rom, non avendo avuto la fortuna di essere educati da quel sant´uomo di De Pedis, sono rimasti ladruncoli e tutti infedeli, mentre Maroni, come De Pedis, si dichiara fervente cattolico.
Quando Berlusconi nominò Maroni all´Interno pensammo subito che aveva affidato l´Ordine al Disordine. Il ministero dell´Interno serve a controllare, appunto dall´interno, la tenuta unitaria del Paese contro tutte le cellule disgregative, tanto sociali (delinquenti) quanto politiche (eversori). Ebbene, si sa che la Lega secessionista è una subcultura politica che da più di venti anni attenta, per come può, all´unità del Paese e alla sua legge. Berlusconi, che pensa di essersi liberato del lavoro più sporco affidandolo al suo ministro-mastino, ha in realtà ceduto il controllo dell´eversione all´eversore da controllare. E Maroni, che nella Lega è il più pericoloso perché forse è il meno brutto e il meno ridicolo (ha fatto pure le scuole), sta usando gli aspetti più odiosi del ministero dello Interno – carcere, manette, impronte digitali - per sollevare nuvole di propaganda, per creare effetti placebo alla paura e alle emergenze sociali, in modo da guadagnare ancor più consenso all´eversione.

Il Riformista 27.6.08
La pena di morte che piace ad Obama
di Giuliano da Empoli


Certo che a volte la neo-politica è proprio paradossale. Mercoledì la maggioranza conservatrice della Corte Suprema americana si è divisa sul tema della pena di morte. Per la terza volta negli ultimi sei anni ha posto un limite alla facoltà dei singoli stati di infliggere la sentenza capitale. In caso di violenza su minori che non causi la morte della vittima - hanno statuito i giudici - la pena di morte non si può applicare. È una piccola vittoria per tutti gli abolizionisti. Che per di più ha visto la Corte Suprema di Antonin Scalia e Samuel Alito dividersi e adottare, per una volta, il punto di vista dei liberal.
Ebbene, come credete che abbia commentato il fatto il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti? Con profondo disappunto. «Ritengo che la violenza sui bambini sia un crimine odioso e che meriti la pena di morte», ha dichiarato Barack Obama. Una posizione forse popolare, ma che scavalca a destra la Corte Suprema di George Bush e allinea il senatore liberal dell'Illinois con i conservatori del Texas e dell'Alabama. Nulla di strano, in realtà. Di questi tempi, Barack non può permettersi di farsi inchiodare nella postura dell'intellettuale radical-chic che sorseggia vini francesi mentre flirta con le Pantere Nere. Deve dimostrare, al contrario, di essere in sintonia con l'America profonda. Quella che considera il porto d'armi come un diritto fondamentale, ieri rafforzato da un'altra sentenza della Corte, e la pena di morte come il suo naturale contrappeso. Del resto, non fu forse Bill Clinton, quando era governatore dell'Arkansas, a spedire sulla sedia elettrica un criminale handicappato, nel corso della campagna elettorale del '92? Al di là della questione specifica, però, c'è un tema di carattere più generale. C'è stato un tempo in cui le distinzioni politiche erano chiare e semplici come l'acqua di un ruscello di montagna.
In quell'età dell'oro la destra parteggiava per l'ordine e per l'autorità, in economia voleva uno stato leggero e poche tasse e che poi ciascuno fosse più o meno libero di farsi i fatti suoi. La sinistra, per parte sua, puntava sulla protezione dei più deboli e sulla redistribuzione. In materia di giustizia, i criminali andavano puniti, ma soprattutto rieducati. C'erano da capire le cause del male, non solo da colpirne i sintomi.
Poi sono arrivati Bill Clinton e Tony Blair e le acque hanno cominciato a intorbidirsi. Oggi, la Terza Via sarà anche defunta, ma la neo-politica impone dappertutto agli uomini politici di fare campagna sul terreno dei loro avversari. Si chiama triangolazione ed è il nuovo mantra degli strateghi politici, non solo negli Stati Uniti. L'idea è che chi riesce a neutralizzare l'avversario sui suoi tradizionali punti di forza (la sicurezza e le tasse per la destra e il sociale per la sinistra), vince. Ecco perché Sarkozy si è fatto in quattro per rubare ai socialisti alcune tra le loro icone più venerate. Sia quelle del passato, come Jean Jaurès e Léon Blum, che quelle del presente, il re dell'umanitario Kouchner, il socialista liberale Strauss-Kahn, il mitterandiano Attali. Ecco perché, in Italia, il tremontismo è un'arma micidiale: risponde alle preoccupazioni che sono tradizionalmente appannaggio della sinistra. Certo, a furia di triangolare, il rischio - prima o poi - è di giocarsi l'anima. Qualcuno potrebbe rispondere, però, che in fondo Washington val bene una messa.

Il Riformista 27.6.08
Oh no, Silvio insiste
Traduciamo l'editoriale di ieri del Financial Times su Berlusconi


Silvio Berlusconi è al potere in Italia da quasi 50 giorni. Guardando il suo governo in azione è un po' come riguardare un brutto, vecchio film. Quando il leader di Forza Italia ha governato l'Italia dal 2001 al 2006, ha speso troppo tempo a legiferare per proteggere se stesso dai processi e troppo poco per riformare l'indolente economia italiana. È presto per dare giudizi ultimativi, ovviamente. Ma l'ultima prova di governo di Berlusconi ha le fattezze di un altro film dell'orrore. Ancora una volta, il 71enne primo ministro sta spendendo la maggior parte della sua energia politica legiferando per proteggersi dai pubblici ministeri. Vuol fare approvare una legge che sospenderebbe per un anno molti processi per reati la cui pena massima prevista è di 10 anni. Se questa legge passerà, tenderà un agguato al processo che sta per iniziare il mese prossimo in cui Berlusconi è accusato di aver pagato 600mila euro all'avvocato inglese, David Mills. Non c'è nemmeno bisogno di dire che l'opposizione ha già bollato questa legge come "salva-premier".
Ma Mr. Berlusconi non si ferma a questo. Sta anche provando a introdurre una legge che garantirebbe l'immunità alle massime cariche dello Stato, incluso se stesso. Una siffatta legislazione sarebbe impensabile nella maggior parte dei paesi occidentali ed è stata definita incostituzionale dalla suprema corte italiana quando Berlusconi tentò di introdurla la prima volta nel 2004. Ora che è tornato al potere, Berlusconi ci riprova.
Tutto questo sarebbe di modesto interesse se Berlusconi stesse spendendo lo stesso quantitativo di energia riformando l'economia italiana. Ma anche in questo caso le paure stanno crescendo. L'ultima volta che è stato al potere, uno dei peggiori errori di Berlusconi fu di lasciare la spirale dei livelli di deficit e debito fuori controllo. Uno si chiede se non stiamo per rivedere questo. Il governo Berlusconi la scorsa settimana ha presentato una manovra finanziaria che vedrà il debito pubblico crescere dall'1.9 del Pil nel 2007 al 2.5 del 2008. L'aumento potrebbe essere giustificato dalla bassa crescita economica: ma non ci sono ancora segnali del fatto che questo governo stia mantenendo uno stretto controllo sulla spesa pubblica. Per il bene dell'Italia, la cose devono migliorare proprio da qui. Il paese ha uno dei più lenti tassi di crescita dell'eurozona. Necessita di un governo serio e responsabile per far ripartire l'economia. Berlusconi ieri ha detto che i magistrati italiani lo hanno sottoposto a un calvario senza fine. Ma l'unico calvario che è stato sofferto in questa storia è quello sopportato dall'Italia, la quale ha bisogno di un capovolgimento netto nelle sue fortune politiche ed economiche.

Il Riformista 27.6.08
A Ceppaloni
Il congresso di Rifondazione


Scrive su "Liberazione" di ieri Cathy La Torre, un'iscritta al circolo Migranti di Rifondazione Comunista, di essere stata convocata dalla federazione bolognese del partito, assieme con decine di giovani, per essere interrogata sul perché si è iscritta tardivamente al partito. Rifondazione sta celebrando i preliminari di un congresso difficile, forse decisivo, per la propria esistenza. Volano le accuse di brogli, di tesseramento fasullo. L'ex capogruppo al Senato, Giovanni Russo Spena, che appoggia Ferrero, sostiene che nelle sezioni meridionali c'è un aumento degli iscritti da far paura. I vendoliani rispondono per le rime. Non abbiamo ancora capito bene che cosa divide i due schieramenti. Alla grossa si capisce che Ferrero ha una linea più intransigente e tesa a unire tutto il comunismo possibile, cioè niente, mentre Nichi vuole completare il traghettamento di Rifondazione verso un moderno partito di governo di sinistra un po' radical. È tutto ciò che abbiamo compreso, facendoci suggestionare dalle biografie dei duellanti più che dai documenti perché leggendoli non si capisce una mazza. Tuttavia, prima ancora di cominciare, il congresso sembra attratto più dalla divisione dei beni, dalla lite sulle tessere, dallo scontro personale che dalla politica. C'è stato un tempo in cui i partiti comunisti morivano con più dignità. Se la lite in Rifondazione continua, inutile scervellarsi sul luogo dove svolgere l'assise. Andate a Ceppaloni, cari duri e puri.

giovedì 26 giugno 2008

Corriere della Sera 26.6.08
Maroni: impronte digitali ai minori rom
di Fiorenza Sarzanini


Caso sicurezza: al Senato è iniziato ieri l'esame del disegno di legge. Il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, annuncia che nei campi nomadi «saranno prese le impronte a tutti gli abitanti, minori compresi», ma precisa: «Lo faremo per evitare fenomeni come l'accattonaggio. Non si tratterà di una schedatura etnica».
Dall'opposizione, va all'attacco Rosi Bindi, del Pd: «Si trattano i bambini rom come se fossero incalliti criminali».

ROMA — Il ministro dell'Interno nega che si tratti di una «schedatura», ma la decisione di prendere le impronte digitali anche ai rom minorenni sta già scatenando polemiche. E all'interno del governo è scontro anche sulla regolarizzazione delle badanti, visto che lo stesso titolare del Viminale boccia il piano concordato dai suoi colleghi del Welfare e delle Pari Opportunità.
Il tema sicurezza continua a tenere banco visto che al Senato è iniziato ieri l'esame del disegno di legge che introduce tra l'altro il reato di ingresso illegale, maggiori poteri ai sindaci, disposizioni antimafia e norme più severe per chi sfrutta i minori, compresa la perdita della patria potestà. Roberto Maroni annuncia che nell'ambito del censimento avviato nei campi nomadi «saranno prese le impronte a tutti gli abitanti, minori compresi», ma precisa: «Lo faremo per evitare fenomeni come l'accattonaggio. Non si tratterà di una schedatura etnica, bensì di una ulteriore garanzia perché chi ha il diritto di rimanere possa vivere in condizioni decenti. E per mandare a casa chi non ha il diritto di stare in Italia». Attacca Rosi Bindi «si trattano i bambini rom come se fossero incalliti criminali. Il ministro lo nega, ma questa è una schedatura etnica, francamente inaccettabile».
È invece uno scontro tutto interno all'esecutivo quello che riguarda le badanti. Perché il primo «no» alla proposta di Maurizio Sacconi e Mara Carfagna che mira a regolarizzare chi assiste ultrasettantenni, portatori di handicap e malati gravi arriva proprio da Maroni. «Sono e resto contrario a qualsiasi sanatoria generalizzata: o si fa una norma che non possa essere considerata di questo tipo, e non è facile, o io sono contrario. O si è regolari o si è irregolari, e se si è irregolari l'unico modo per vedere "sanata" la propria condizione è l'espulsione e l'eventuale, successivo reingresso con regolare contratto di lavoro».
Il ministro ne fa una «questione di principio» perché «non c'è un modo per sanare i giusti e rimandare indietro gli ingiusti. I clandestini sono clandestini: le figure del quasi clandestino, del clandestino meritevole di sanatoria o del clandestino eticamente regolare sono figure intermedie che faccio fatica a definire. E poi, perché sanare chi fa da badante a un anziano di 70 anni e non a uno di 69? Perché sanare una badante e non un muratore che magari con il suo lavoro mantiene moglie e tre figli? L'unica distinzione possibile è tra chi rispetta le leggi e entra nel nostro Paese in modo legale e chi le aggira ed entra irregolarmente. C'è chi chiede allo Stato intransigenza nelle leggi e chi poi quando è in gioco il suo interesse personale chiude tutti e due gli occhi: è un tipo di doppia morale che non mi è propria». Immediata è la reazione del segretario del Pd Walter Veltroni secondo il quale «il governo colpirà decine di migliaia di badanti che svolgono una funzione sociale in 350 mila famiglie italiane. È un fatto ingiustificabile».

Repubblica 26.6.08
L’ex presidente dell´Ucei: "È un processo di schedatura costituzionalmente scorretto"
Luzzatto: "C´è un segno razzista timbrati ed esclusi come noi ebrei"
di Alessandra Longo


Inaccettabile prendere le impronte ai bimbi di un gruppo etnico, significa considerarli ladri congeniti
La norma di Maroni mi ricorda quando da piccolo non potevo andare a scuola e mi indicavano per strada

ROMA - «Sono stato bambino e non potevo andare a scuola con gli altri. Ricordo che mi indicavano con il dito: "Mamma, guarda, quello è un giudeo!". Sono cose successe 70 anni fa, cose che mi hanno segnato la carne e la memoria. Cose che non dimenticherò mai per quel che ancora mi resta da vivere. Prendere le impronte ai bambini Rom, come vorrebbe Maroni, significa compiere una schedatura etnica. E questo è totalmente inaccettabile». Amos Luzzatto è a Firenze, a presentare il libro dei suoi 80 anni: «Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra». L´Italia che lo circonda gli piace sempre meno e quest´ultima notizia lo turba profondamente.
Luzzatto, che cosa sta succedendo al nostro Paese? Anni fa sarebbe venuta in mente ad un governo una proposta del genere?
«C´è un razzismo latente nella cultura italiana, dovuto purtroppo ad un´insufficienza culturale. Ciclicamente si manifesta. Ricordo di essere stato a Palazzo Chigi quando, durante un precedente governo Berlusconi, venne fuori l´idea di schedare tutti gli immigrati. Ero presidente dell´Unione delle Comunità ebraiche e dissi che, se le prendevano a loro, avrebbero dovuto prenderle anche a noi. Mi spiegarono che non era un´iniziativa mirata ma solo l´inizio di un processo di identificazione generalizzato. Forse fiutarono l´aria. Alla fine, non ne fecero nulla. Io sono rimasto a quell´episodio».
Adesso non sembra che ci sia alcun imbarazzo. Si evoca esplicitamente la schedatura di bambini.
«Infatti quest´ipotesi è di gran lunga peggiore. Prendere i polpastrelli dei piccoli di un certo gruppo etnico significa considerarli ladri congeniti, prevedere che diventeranno dei delinquenti e commetteranno dei reati. E´ evidente e inaccettabile il segno razziale di questa iniziativa».
Immagino le ricordi qualcosa.
«Sì, mi ricorda il mio essere bambino, bollato, timbrato, come giudeo di cui non fidarsi».
Come finirà?
«Non credo che sia costituzionalmente corretto un processo di schedatura su queste basi chiaramente discriminatorie».
Le armi della legge e quelle della parola...
«Sì, da ebreo esprimo tutta la mia riprovazione».
Si può parlare di nuovo fascismo?
«Direi piuttosto di razzismo. La Lega è una destra populista».
Dove porta la strada della schedatura ai piccoli rom?
«Si comincia così e poi si va avanti con l´allontanamento dalle scuole, le classi differenziate, le discriminazioni diffuse. Questo pesa terribilmente sul vissuto di un bambino che si sente trattato diversamente dai suoi coetanei, vive come un appestato, carico di ossessioni e nevrosi. E´ una ferita che dura una vita».
L´Italia di oggi, quella che si sente rappresentata dal governo Berlusconi, sembra aver preso questa direzione.
«Esattamente la direzione contraria agli obiettivi di integrazione che vogliono dire soprattutto rispetto delle tradizioni e delle culture altrui».
Luzzatto, la gente che non condivide che cosa deve fare? Chiedere, provocatoriamente, come fece lei a suo tempo, che vengano prese le impronte a tutti?
«Noi allora reagimmo così. Certo, in questo caso, sarebbe fuori luogo coinvolgere nella protesta i bambini ebrei. I bambini, tutti i bambini, sono, fino a prova contraria, innocenti e devono essere protetti dalla crudeltà degli adulti».
Com´è quest´Italia?
«Un Paese che ha perso la memoria».

Repubblica 26.6.08
Il sogno delle piccole danzatrici, un documento per esistere


ROMA - E adesso chi avrà il coraggio di dire ad Ambra, la ragazzina di 13 anni che mi sta davanti, che dovrà mettere la sua mano sull´inchiostro, sporcarsi quelle dita affusolate, abituate a muoversi al ritmo della musica, e lasciare all´autorità le sue impronte di etnia sotto controllo? Ambra la prenderà male. Era appena uscita dal suo guscio, aveva appena trovato l´orgoglio dell´identità attraverso la passione per la danza. Storia di un esperimento che, con questo clima, potrebbe bloccarsi fino a morire. Ambra fa parte delle Chejà Celen, «ragazze che ballano». Un vero corpo di ballo, inventato a Roma da Vania Mancini, responsabile del progetto di scolarizzazione dei minori Rom, per conto del Comune veltroniano (e ancor prima rutelliano) in collaborazione con l´Arci.
Vi ricordate Billy Elliot, il ragazzino figlio di minatore, che danzava come un dio sulle punte? Ecco: come in un film, Vania intuisce che, per integrare e mandare a scuola le ragazzine Rom del campo di Monte Mario, bisogna partire dalla loro cultura, dal loro amore per la musica e il ballo. Nasce così il gruppo, si comincia con un vecchio stereo e qualche cd. Ragazzine che si fanno fare i vestiti colorati dalle mamme, che si esibiscono prima nelle scuole e poi anche in un vero teatro con i camerini, quello di Villa Lazzaroni. Giovani Rom che scoprono di "esistere", di valere qualcosa anche per i gagé, i non zingari. Felici finalmente di esprimersi, di danzare a piedi nudi, con il ventre scoperto, al ritmo di canzoni non solo rom ma anche indiane e arabe. La loro storia è in un libro che Vania Mancini ha scritto per le edizioni Sensibili alle Foglie, fotografie di Tano D´Amico. Dice una di loro: «Il mio sogno è di avere un documento, pensa che bello essere libera di esistere, di andare dove voglio». Quando rilasciò la sua testimonianza per il libro, Ambra era dura, diffidente: «Non mi sento italiana, mi sento una Rom. Loro vivono nelle case, noi nelle " stalle"». Che cosa vuoi fare da grande? «La parrucchiera». L´ho incontrata poche settimane fa. Ambra la pensi ancora come allora? «No, sono cambiata. Io danzo con le Chejà Celen e ho capito che da grande voglio fare l´insegnante di ballo».
(a.lo.)

l’Unità 26.6.08
Subito va chiusa la fase delle divisioni e delle scissioni. Per ricomporre in un campo largo un’idea forte di società
Tronti: «La sinistra debole ha nutrito una destra forte»
di Bruno Gravagnuolo


«La sinistra debole declinata come “centrosinistra” ha generato una destra forte». È la tesi di fondo della relazione che Mario Tronti, terrà domani alla Sala della Colonne di Palazzo Marini in Roma, all’Assemblea del Centro per la Riforma dello stato di cui è presidente. Occasione di confronto politico intenso, con protagonisti come D’Alema, Mussi, Reichlin, Bertinotti, Rodotà, Vacca, Ida Dominjanni, Maria Luisa Boccia e tanti altri. Dopo la sconfitta di aprile. E dopo che già il Crs aveva lanciato l’allarme e chiesto un rilancio della sinistra. In base a un documento intitolato «11 tesi dopo lo Tusunami». Ora Tronti, filosofo e pensatore politico, ritorna su quelle tesi, e specifica meglio il profilo della sinistra da inseguire. Sentiamo.
Fare società con la politica. Slogan suggestivo e un po’ criptico per l’assemblea di domani. Di nuovo alle prese con la sinistra e la sua sconfitta?
«È inevitabile. E il titolo indica l’ambizione che dovrebbe essere la ragione stessa della sinistra: fare politica. Contro l’ideologia della società civile “buona” e della politica “cattiva”, tipica della destra. E a cui la sinistra è stata subalterna negli ultimi decenni. La società non è qualcosa di statico da rappresentare e basta, ma qualcosa da costruire»
Da costruire attraverso la sinistra?
«Sì, la sinistra ha il compito di ricostruire un sociale sbriciolato e corporativo, che genera ansia e insicurezza e che alimenta la destra. Perciò ci vuole una politica attiva, capacità espressiva e linguistica a sinistra. Invece l’impressione è che la sinistra non abbia parlato molto...».
Soprattutto che non abbia parlato di sé, né a nome di sé
«Appunto, non ha presentato in alcun modo se stessa come alternativa o progetto. Come forza in grado di esprimere un’idea di società, non totalizzante, ma almeno coerente».
Voi dite «sinistra non come blocco ma come campo». Che significa?
«Vuol dire oltrepassare l’idea di “blocco sociale”, che era un’idea storica della sinistra e che oggi appare superata, in una società scomposta e disomogenea come l’attuale. Il blocco presupponeva grandi classi e aggregati da rappresentare, oggi sfuggenti. Il “campo” consente di includere i frammenti del lavoro in un orizzonte».
Ma gli operai da noi sono 7 milioni e mezzo. Esistono o no?
«Sì, sono quelli, ma non esistono nell’immaginario attuale. Del resto non sono mai esististi di per sé. Se non nello sguardo e nelle reti del movimento operaio: sindacati,cooperative, partiti. Erano quei mondi a far parlare gli operai. Oggi magari c’è un po’ di rappresentanza, ma non rappresentazione del mondo del lavoro. È un universo da raffigurare in modo nuovo».
Ma la “sinistra nuova” deve partire dal lavoro oppure no?
«Il lavoro deve riconquistare una sua centralità politica, attorno a cui aggregare tutte le altre opzioni e le altre culture della soggettività diffusa. Non è operazione facile ed esige un grande sforzo di analisi e di ricerca».
Puntate a una inedita centralità del lavoro nel segno di una rinnovata critica del capitalismo e delle sue forme sociali?
«Dentro la prospettiva che cercerò di esprimere domani, dirò intanto che occorre chiudere una fase. La fase delle scissioni a sinistra. Per aprire un’epoca di ricomposizione. E che dentro possa includere tante anime. Quella socialista e comunista della critica al capitalismo. Quella femminista, quella cattolico-sociale, quella riformista. Sì, anche quella riformista, che pur avendo abbandonato la critica al capitalismo, lavora in società dall’interno. Nel tentativo di privilegiare aspetti del capitalismo contro altri, per rinnovarlo nel suo insieme».
Che messaggio politico inviate al Pd, su queste basi?
«Al Pd diciamo che l’idea di una sinistra che si fa “centrosinistra” è conclusa. Sconfitta, e non solo in Italia, perchè il “blairismo” è finito. Aggiungendo anche che questa impostazione da “terza via” ha generato una destra peggiore, più rigida che in passato. Insomma, è nata una nuova destra identitaria, alimentata proprio dal riformismo debole. D’altro canto va pure superata una sinistra minoritaria, arroccata e autoreferenziale. La sinistra che critica il capitalismo a parole, ma è priva della forza necessaria per mettere in pratica certi obiettivi».
Pensate a una sinistra diffusa, di massa e popolare, che si allea autonomamente con il centro moderato?
«Esattamente. La grande sinistra che immagino non sarà mai maggioritaria, in una società “scomposta” come l’attuale. E deve allearsi, come soggetto egemone e in coalizione, con il centro moderato. Penso quindi a un bipolarismo di coalizione o a un bipartitismo imperfetto. Contro l’errore del bipartitismo perfetto, che in Italia non funziona. E contro le ricadute decisioniste, presidenziali e premierali, tipiche di un’idea secca del bipolarismo, maggioritario o bipartitico. E questo resta un terreno di sfida decisivo e privilegiato per la sinistra contro la destra».

l’Unità 26.6.08
Sinistra democratica. Mussi e Rodotà contro Veltroni:da sprovveduti il dialogo con Berlusconi
di Andrea Carugati


SINISTRA DEMOCRATICA approfitta del momento difficile del Pd e spara ad alzo zero sui cugini democratici. E così il seminario di ieri su «fare opposizione oggi» si trasforma in un tiro al bersaglio. Fabio Mussi utilizza metafore culinarie per demolire l’opposizione di Veltroni: «Quello tra lui e Berlusconi sembra il combattimento tra una bistecca al sangue cotta alla brace e un budino tiepido cucinato a bagnomaria». E ancora, sulle correnti del Pd: «Al congresso Ds mi ero permesso di dire che il Pd non avendo identità era destinato a diventare un grumo di correnti personali, e ora abbiamo anche le sottocorrenti. Ci sono proposte alternative o c’è dell’altro? Ma se c’è dell’altro poi torna la questione morale, spuntano i mariuoli come a Genova, in Calabria, in Basilicata...Gli storici studieranno quella cosa bizzarra, che si è estinta rapidamente e che si chiamava Pd». Su Red, la neonata associazione di D’Alema: «Mi sarei accontentato di “rose”, invece vedo molto white». «Dobbiamo ridare consistenza a un progetto di unificazione a sinistra, per spingere sul Pd perché si riapra una prospettiva di coalizione. Altrimenti la destra governerà forever». Mussi invita alla «disobbedienza civile» contro i militari usati come poliziotti: «Se mi chiedono i documenti non glieli do». E ancora: «Dobbiamo mettere subito in pista uno straccio di opposizione, come si fa a dire che si manifesta tra sei mesi? Significa dire al governo “fai di me ciò che vuoi”». Gli dà man forte Stefano Rodotà, che boccia senza appello il governo ombra, e definisce «sprovveduti» i democratici che hanno creduto nel Berlusconi dialogante. «Pensano che il compito dell’opposizione sia distinguere il Berlusconi Jekyll da Mister Hyde, vogliono che emerga la sua faccia buona. E invece avrebbero dovuto dire che una manovra varata in 9 minuti è una vergogna e che la lettera del premier al presidente del Senato era irricevibile». E le riforme istituzionali? «Come ai tempi della Bicamerale: è il Cavaliere che detta l’agenda». Rodotà chiede al Pd di non mollare le battaglie sui diritti civili, come le coppie di fatto e il testamento biologico: «Abbiamo il coraggio di portare al voto in aula queste proposte di legge. Su aborto e divorzio si dialogò con la complessità del mondo cattolico, non solo con le gerarchie, e quel fronte si divise».

l’Unità 26.6.08
Chiese, sinagoghe e moschee così scelgono tra Obama e McCain


IN GOD WE TRUST Gli Stati Uniti sono una nazione profondamente religiosa, sta scritto persino sulle loro banconote. Dall’ultima inchiesta nazionale sul rapporto tra fede e vita pubblica, risulta che il 92% degli americani crede in Dio. La vera novità è che aumenta la tolleranza tra fedi diverse, mentre perde terreno ogni confessione rigidamente organizzata. In tutte le ultime presidenziali, l’affluenza in chiesa è stata il miglior indicatore dell’orientamento di voto. La schiacciante maggioranza di chi osserva i precetti ha regolarmente votato il candidato repubblicano. Ora in vista delle elezioni di novembre, il voto si presenta molto più fluido rispetto agli schieramenti tradizionali. I democratici guadagnano consenso tra la maggioranza protestante, soprattutto tra i giovani evangelici. E la campagna di Barack Obama ha dedicato uno straordinario impegno per stringere contatti con le varie organizzazioni religiose. Il terreno presenta tuttavia molte insidie: l’ultima è una polemica sull’interpretazione delle scritture in un comizio di Obama: «Nel Levitico la schiavitù sembra ok. Mangiare crostacei è un abominio».
Il rapporto del Pew Research Center’s Forum on Religion & Public Life, basato su un campione di 35mila adulti rappresentativi della popolazione Usa, indica che per la prima volta i consensi del Partito repubblicano tra gli evangelici scendono sotto il 60 per cento. «I nuovi evangelici, una sfida per la destra religiosa», titola il settimanale New Yorker. Si tratta di giovani pragmatici che mettono al primo posto solidarietà sociale e tutela dell’ambiente. Che si riconoscono maggiormente con la figura di Obama piuttosto che con quella di John McCain. Non solo per un fattore generazionale. E c’è la variabile di un impressionante 44 per cento di americani che ha cambiato almeno una volta la propria denominazione religiosa o ha deciso di gestire privatamente la propria spiritualità. Questo è un segmento dove gli indipendenti sono in crescita. La roccaforte repubblicana inespugnabile sono i mormoni, dove il consenso è stabile al 65 per cento.
I cattolici sono considerati un campo di battaglia e rappresentano quasi per il 25 per cento della popolazione Usa. Il 48 per cento è orientato verso i democratici, il 33 per cento verso i repubblicani. L’entusiasmo per gli anni di John F. Kennedy, primo e unico presidente cattolico degli Stati Uniti, si è stemperato negli anni di Reagan con un progressivo spostamento a destra. Gli storici ricordano inoltre che Kennedy non mise mai in primo piano la propria fede. E per meglio spiegare come ha gestito il rapporto tra religione e politica, hanno coniato l’espressione «cattolico per caso».
Più netto lo schieramento della comunità ebraica: 66% con i democratici, 24% con i repubblicani. Ma se si considerano i soli ebrei ortodossi, i democratici crollano al 49 per cento. In tutte le religioni i conservatori sono tali sia nella fede che nell’urna. Con un’unica eccezione: tra le congregazioni protestanti afro americane, dove l’opposizione all’aborto è fortissima e i diritti dei gay sono un tabù, il Partito democratico trionfa con il 77% delle preferenze.
Una coalizione tra i gruppi d’immigrati musulmani ha sostenuto George W. Bush nel 2000, solo per ritrovarsi completamente ignorata dalla Casa Bianca quando il Patriot Act scatena controlli e arresti di massa nelle loro comunità. «La lezione ci è servita e siamo ripartiti da zero - spiega Mahdi Bray, direttore della Muslim American Society Freedom Foundation di Washington - Abbiamo abbandonato una leadership politica composta principalmente da medici, avvocati e professionisti per tornare alla nostra base». E la barra si è velocemente spostata verso il Partito democratico. Ma lo stigma che ha colpito gli arabo americani dopo l’11 settembre rimane. «Basta dire Barack Hussein Obama e si è detto tutto- assicura Arsalan Iftikhar, un giurista specializzato in diritti umani che firma sul periodico Islamica Magazine - Non c’è nemmeno bisogno di pronunciare la parola musulmano». Per questo la comunità islamica ha mantenuto un profilo bassissimo nel sostenere Obama. Qualsiasi manifestazione di appoggio sarebbe sfruttata dai repubblicani per incitare la paura e associarlo a Osama Bin Laden.
Al centro culturale islamico nell’East Village a Manhattan gira una battuta: «Noi dobbiamo dare pubblicamente l’endorsement al candidato che vogliamo fare fuori».
La sinistra storica americana raccomanda un prudente secolarismo. In nome della beata separazione tra stato e chiesa. Ricordando anche gli imbarazzi creati a Obama dal suo ex pastore, il reverendo Jeremiah Wright. Scrive Katha Pollit sul settimanale The Nation: "Per anni i democratici hanno cercato di nascondere il proprio secolarismo per attrarre chi è convinto che Gesù sia repubblicano. Ma nessun partito può legittimamente accampare diritti su Gesù. E se si tiene fuori la religione dai temi della campagna elettorale, possiamo discutere di temi concreti come persone razionali. Dopotutto, quale ipotesi è più campata in aria: che il virus dell’Aids sia uscito dai laboratori del governo o che i morti risorgano dalle loro tombe?".

l’Unità 26.6.08
Costituzione, è ora di tornare a scuola
di Nicola Tranfaglia


Gentile ministro,
la cronaca quotidiana consegna ogni giorno ai lettori e all’opinione pubblica nazionale episodi continui di comportamenti scorretti e antidemocratici di italiani che mostrano di non conoscere la nostra Costituzione e le leggi fondamentali dello Stato manifestando sentimenti razzisti, volontà di aggressioni dentro e fuori la famiglia, comportamenti contrari alle regole approvate dei costituenti e scritte sessant’anni fa nel testo del 1948.
Di fronte a una simile situazione che esprime nel nostro Paese una sorta di crisi morale e di smarrimento dei valori fondamentali che dovrebbero informare le nostre azioni spetta allo Stato intervenire con una massiccia campagna di informazione e di educazione popolare.
Mi chiedo allora e lo chiedo a lei in quanto titolare come ministro della Pubblica Istruzione se il governo, nell’anno che segna il sessantesimo anniversario della Carta costituzionale, se non sia il caso di metter da parte ogni esitazione e fare qualcosa che i governi della Repubblica non hanno mai fatto fino ad ora: decidere di organizzare nelle scuole elementari che segnano il primo incontro dei bambini con la scuola un’educazione civica obbligatoria che dia a tutti, con appositi corsi principali, gli elementi essenziali di conoscenza della costituzione e delle leggi.
È quello che fanno da molto tempo i governi europei nell’Europa anglosassone e del Nord.
In un Paese come l’Italia nel quale governano in quattro regioni le associazioni mafiose indigene e straniere travolgendo le leggi dello Stato e indicando alle nuove generazioni, non lo stato di diritto ma una comunità retta da metodi mafiosi, violenti, parassitari, non è necessario e urgente incominciare subito a instillare nei nostri bambini il senso della democrazia e del governo delle leggi?
Molti ricorderanno che, già alcuni decenni fa, venne introdotta in Italia una materia che si chiamava Educazione Civica ma lo si fece male, nella scuola secondaria e in aggiunta a tutti i programmi esistenti, con il risultato che l’efficacia fu assai scarsa. Ed ora in alcune scuole ci sono progetti degli insegnanti sulla legalità o sulla lotta alla mafia.
Nell’uno o nell’altro caso, sono iniziative sporadiche e che non coprono l’intero territorio nazionale. Quello che è necessario e urgente di fronte alla mafia che avanza ed è sempre più insidiosa e penetrante, è una campagna generale e obbligatoria che veda protagonista lo Stato, mobiliti tutte le scuole e tutti gli insegnanti che sono in grado di farlo puntando a formare cittadini democratici che hanno idee chiare sullo Stato di diritto e su quella che è una democrazia moderna.
Si tratta di far capire a bambini che si affacciano alla vita che cosa significa osservare le regole, comportarsi in maniera onesta e leale, non badare soltanto a se stessi, rispettare gli altri, far valere i propri diritti ma osservare anche i propri doveri, escludere il parassitismo e la violenza dai propri comportamenti.
Sa il ministro che, secondo il decimo rapporto di «Sos Impresa», la mafia è in Italia la più grande azienda del Paese? Che il sommerso nel nostro Paese è una percentuale assai alta rispetto al Pil e rapprensenta una ricchezza enorme sottratta al fisco e al controllo dello Stato?
Perché, se si sente il bisogno di introdurre elementi di educazione civica, come lei stessa ha dichiarato nei giorni scorsi, non lo si fa nell’unico modo efficace sperimentato in altri Paesi con risultati assai positivi, invece che con le modalità precedenti risultate negli scorsi decenni più o meno inutili?
Dico queste cose perché, da oltre trent’anni, ho dedicato miei studi al fenomeno mafioso e ho potuto verificare che, come scriveva Giovanni Falcone in tempi ormai lontani, la repressione giudiziaria non avrà mai ragione da sola della mafia. E, prima di lui, un conservatore illuminato come Leopoldo Franchetti lo aveva capito, già nel 1876, dopo un viaggio in Sicilia. Si cattureranno i capimafia ma l’esercito mafioso sostituirà i generali caduti e proseguirà la sua azione criminale.
Soltanto se si influirà sul modo di pensare e sentire degli italiani, e in particolare delle masse popolari, e si farà in modo che la vita economica delle comunità locali e del Paese sia sana, sarà possibile stroncare il cancro mafioso che, come ogni fenomeno umano, è destinato ad avere un inizio e una fine. Ma se lo Stato resta immobile e non lo contrasta in maniera efficace, resteremo ancora per anni e per decenni a registrare le imprese violente di Cosa nostra, della ‘ndrangheta e della camorra, per non parlare delle consorelle straniere.
Mi auguro che lei, ministro, possa e voglia riflettere su questa idea e dare agli italiani una risposta e una speranza.

l’Unità 26.6.08
Ma le correnti non sono il diavolo
di Giuseppe Tamburrano


Le parole «correnti» e «scissioni» mi sono molto familiari: ho militato in un partito che di scissioni ne ha fatto decine di cui l’unica utile e positiva è stata la prima del 1892, quando i socialisti si separarono dagli anarchici rifiutando ogni scorciatoia violenta ed imboccando la «via maestra» (parole di Turati) della lotta di classe e politica nella legalità, sul terreno della rivoluzione democratica.
Alcuni giornali hanno scritto di un «Midas» del Pd. Non è quello l’episodio che può servire a capire. All’Hotel Midas, nel luglio del 1976, all’indomani di una sconfitta elettorale, la generazione dei cosiddetti «quarantenni» si liberò del segretario De Martino e si impadronì del potere eleggendo a segretario del Psi Bettino Craxi. Tra le molte differenze, quella fondamentale è che alle elezioni del 20 giugno di quell’anno sconfitta non fu tanto la forza socialista le cui liste ottennero lo stesso risultato di elezioni precedenti (circa il 10 per cento) quanto la politica del Psi che vedeva trionfare il suo concorrente a sinistra, il Pci, che diventava così il nuovo interlocutore della Dc. Perciò il paragone con il 13 aprile 2008 non è proponibile.
Se vogliamo andare alla ricerca di precedenti storici che aiutano a capire la vicenda attuale, dobbiamo riferirci ai socialisti nel triennio 1966-1969. I due partiti socialisti, quello di Nenni e quello di Saragat, si riunificano nell’ottobre del 1966, vanno insieme alle elezioni del 1968, sono sconfitti e l’anno dopo si «rescindono».
Le componenti del Pd-Ds e Margherita si separeranno a causa della sconfitta elettorale? Il politologo D’Alimonte ha dimostrato, cifre alla mano, che il Pd non è stato sconfitto alle ultime elezioni. I numeri sono esatti, il ragionamento politico meno. Anche dopo le elezioni del 1968 vi fu chi, politicamente più influente di D’Alimonte, Ugo La Malfa, dimostrò ai socialisti che non vi era stata sconfitta elettorale poiché dai voti socialisti bisognava togliere quelli andati al Psiup, nato dalla scissione del 1964 - eccone una! - della sinistra del Psi. Quella rottura fu una delle tante, inutili e dannose e fu prodotta non dalle correnti, ma dalla separazione tra i due partiti - Psi e Psdi - che non si erano realmente fusi, coabitavano in un unico contenitore politico, il Psu.
Se c’è un fattore di divisione nel Pd sta nella mancata fusione tra i partiti fondativi - Ds e Margherita - come nel caso dei socialisti; se vogliamo usare i termini di Veltroni, nella non ancora raggiunta «identità» del nuovo partito.
Questo è il vero problema, non già l’esistenza di correnti. Se in un partito vi sono diverse linee politiche e programmatiche, queste sono «correnti». Si possono chiamare Fondazioni, Associazioni, Red o Der, o in altro modo: quel che conta è la sostanza. Ma le correnti non vanno «criminalizzate» perché animano la dialettica che è un valore essenziale dei partiti democratici: le correnti non esistono nei partiti centralisti - come furono i partiti comunisti - e in quelli personali, come è quello di Berlusconi. Invece di negare l’esistenza di correnti, sarebbe meglio riconoscerle e dispiegare - anche in forme nuove rispetto al passato - la loro forza propulsiva verso il confronto e il dibattito. Una volta si diceva che per scongiurare la degenerazione delle correnti, occorre «organizzare» il dibattito e renderlo esplicito. Questa è la giusta ricetta per il Pd.
È questa la proposta di D’Alema? Egli ha giustamente detto che non bisogna «demonizzare» le correnti, ma col suo Red (che nella traduzione inglese «rosso» ci piace) propone qualcosa che è una corrente, anzi qualcosa di più, una specie di partito parallelo con «doppia militanza» (Livia Turco), con molti strumenti (sedi, rivista, convegni, iscritti, una TV satellitare...), «aperto», con lo scopo di «andare oltre il partito», di proporre una linea politico-culturale, «un grande progetto». Ciò nonostante D’Alema respinge la definizione di «corrente». La Dc è stata per definizione e per quasi mezzo secolo un partito di correnti: alcune di queste si esprimevano attraverso riviste e «Centri Studi» (non erano ancora di moda le Fondazioni). La Dc ha conosciuto un continuo alternarsi di correnti alla guida del partito e del governo, mai una scissione. È vero che la comune gestione del potere è stato un potente collante; è vero altresì che nella democrazia bloccata di quegli anni la rottura della Dc apriva le porte al Partito comunista e a una grave crisi politica. Meglio le correnti perché quando la lotta politica si esaspera - come fu nel Psi - non vede più i pericoli e il partito diviene vittima di gruppi di potere chiusi e ciechi.
Che cosa farà il Pd? Io credo che supererà questo momento, ma vedo - spero di sbagliarmi - un altro scoglio non lontano: un’altra sconfitta alle elezioni dell’anno prossimo, amministrative e soprattutto europee (con la complicazione della scelta del gruppo politico a Strasburgo) poiché, tra l’altro, in quelle elezioni non funzionerà il richiamo al voto utile che il 13-14 aprile ha portato al Pd parecchi voti. Arrivarci con uno scontro sotterraneo, non chiaro è molto pericoloso. Un confronto aperto può favorire l’eventuale ricambio politico e di gruppi dirigenti senza Midas.

l’Unità 26.6.08
Sms dal Cinema: «Bondi vattene»
di Gabriella Gallozzi


CONFLITTI Il ministro Bondi viene a gran voce invitato a dare le dimissioni dal mondo del cinema del quale dovrebbe curare gli interessi. Abolendo la credit tax il governo ha minato l’intero settore che ora annuncia: niente film italiani ai festival

Il ministro dei beni culturali Bondi se ne deve andare. A chiederlo a gran voce è il movimento dei Centoautori. Mentre tutte le associazioni industriali del cinema italiano (Anica, Agis e Api) e non i «soliti comunisti» proclamano il boicottaggio totale di tutti i festival nazionali (Venezia, Roma, Torino). E persino Barbareschi, del Pdl, si schiera contro il governo. La rivolta è scoppiata ieri a seguito delle promesse non mantenute dal ministro. Ossia la mancata reintroduzione del tax credit nel maxiemendamento presentato l'altra sera dal governo. Quella importantissima misura di sgravi fiscali abolita da Tremonti in cerca di «fondi» per coprire il buco dell'abolizione dell'Ici e che Bondi aveva giurato e spergiurato avrebbe resuscitato in questa sede parlamentare.
«Deve essere chiaro a tutti che il Governo - si legge in un comunicato congiunto delle associazioni industriali - , venendo meno a impegni precisi, ha deciso di infliggere un colpo mortale al cinema italiano nel momento in cui dimostra appieno, anche a livello internazionale, la sua vitalità artistica e industriale. Ulteriori azioni saranno decise al più presto». Anica, Api e Agis si dicono «unite nel manifestare lo sgomento per l'eliminazione delle misure di incentivo fiscale per il cinema decisa dal governo, in incomprensibile contraddizione con la dichiarata volontà di abbandonare le politiche assistenzialistiche del passato per dar vita a un circolo virtuoso di nuovi investimenti, nuova occupazione, nuovi film». Contro quest'«atto devastante», dunque, tutto il cinema italiano è mobilitato.
I Centoautori, dal canto loro, chiedono le dimissioni di Bondi: «Il ministro - dice Paolo Virzì, tra gli esponenti di punta del movimento - ha fatto una figura ridicola e se ne deve andare». Il regista di Tutta la vita davanti, ricorda che «quando gli è stato detto che il ministro Tremonti aveva tagliato gli unici due provvedimenti a sostegno del cinema italiano, fatti dal governo precedente e approvati con una grandissima maggioranza, “tax credit” e “tax shelter”, ha parlato di svista. Bondi si è impegnato a ripristinarli. Cosa che poi si è rimangiato immediatamente". Quindi, d'accordo con le altre associazioni i Centoautori invitano «registi, produttori, e attori, al boicottaggio di tutti i festival italiani, rifiutandosi di partecipare a giurie, concorsi e premi. Non festeggiamo il cinema, mentre il governo fa di tutto per affondarlo». Secondo i Centautori, infatti, «non c'è nulla di tecnico, nulla di economico in questa decisione. Tutti gli studi, anche a livello internazionale, indicano che queste misure generano un “ritorno di cassa” superiore a quanto lo Stato perde in tasse». I «nostri» film, conclude la nota del movimento «è meglio non farli. Potrebbero, come hanno fatto anche recentemente con riconoscimenti internazionali e successo di pubblico, rappresentare un paese che la televisione ha smesso di raccontare. Meglio, molto meglio che tutti coloro che fanno il cinema, sempre più stretti tra duopolio Rai e Mediaset, monopolio Sky e le grandi distribuzioni americane, rimangano nella condizione di questuanti della politica».
Alla protesta si associa l'Anac, la storica associazione degli autori che sottolinea anche «il forsennato spoil system che viene attuato in questi giorni nelle istituzioni cinematografiche, nella totale assenza di qualsiasi forma di consultazione con le categorie interessate». Tutto questo rende più «visibile - prosegue l'Anac - la strategia di questo governo: azzeramento di qualsiasi voce libera e imposizione di un rigido controllo su tutte le attività espressive, tipico di incipienti forme di dittatura mediatici». Mobilitazione unitaria, quindi, per «contrastare questa deriva pericolosa non solo per il cinema ma per la vita democratica del paese». Le promesse non mantenute di Bondi «confermano lo scippo di oltre 150 milioni di euro al cinema italiano», sottolinea Manuela Ghizzoni, capogruppo del Pd in commissione cultura alla Camera. «Cifra prevista dall'ultima finanziaria licenziata dall'esecutivo Prodi nell'ottobre 2007».
Per la senatrice Pd Vittoria Franco «Berlusconi è responsabile di un pesantissimo ritorno indietro. Le promesse di Bondi in Commissione culturale al Senato sul ripristino del tax credit per il cinema erano solo auspici e tali restano. Continueremo la nostra pressione perché venga ripristinato il tax credit quando il decreto fiscale arriverà al Senato». Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21 e parlamentare dell'Italia dei valori, si «augura che il governo voglia almeno recepire gli impegni già assunti in ordine alla copertura del tax credit, misura indispensabile per il rilancio dell'intero comparto cinematografico». Così come si augura Giovanna Melandri, ministro della Comunicazione del governo ombra Pd. Mentre Vincenzo Cerami, ministro ombra della cultura, annuncia «l'impegno del Partito democratico in una dura lotta contro chi vuole spegnere la nostra prestigiosa cinematografia». Quella cinematografia che secondo Barbareschi aveva la colpa di «lavare i nostri panni sporchi» sulla scena internazionale ma che ora, si rende conto anche lui, con questa mazzata del governo rischia di veder «vanificata tutta la fatica fatta in questi anni». Motivo per cui, assicura, «cercherà di convincere il ministro Tremonti» a tornare sui suoi passi.

l’Unità 26.6.08
Bondi conferma Alberoni
Centro di cinematografia. Entra un monsignore


Il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi ha inviato alle Camere la richiesta di parere per confermare il sociologo Francesco Alberoni a presidente del Centro sperimentale di cinematografia. Ha anche chiesto il parere per il rinnovo del consiglio di amministrazione dell’istituto di alta formazione cinematografica: qui ha designato monsignor Dario Viganò (una sorpresa, qui, anche se alti prelati in passato si potevano ritrovare nelle commissioni di censura), il regista Pupi Avati e l’attore Giancarlo Giannini.
La promozione della cultura «non può accompagnarsi a un regime di spesa senza limiti e senza controlli», dichiara Bondi alla commissione cultura del Senato a proposito dell’esigenza di assicurare il rispetto di criteri di efficienza nella spesa degli enti e delle fondazioni che beneficiano del Fus, il fondo unico dello spettacolo. Il ministro ha ricordato che molte Fondazioni liriche hanno accumulato debiti considerevoli. «È necessario intervenire subito con linee di indirizzo che interrompano questa situazione che rischia di diventare ingovernabile. La forma delle Fondazioni - ha proseguito -, presuppone una assunzione di responsabilità che riguarda anche gli enti locali e le Regioni. Il federalismo è una cosa giusta e sacrosanta, ma deve valere anche nella forma della collaborazione nella ricerca dei finanziamenti, nel reperimento delle risorse e nel controllo della spesa».

Corriere della Sera 26.6.08
Fisco e film Un fronte da Sorrentino a Bertolucci. «Sciopero dei festival»
Gli sgravi spariti: il cinema contro Bondi


ROMA — Mondo del cinema in rivolta contro il ministro Sandro Bondi, colpevole di aver cancellato le due norme (tax shelter e tax credit) che avrebbero dovuto dar respiro al cinema italiano liberando nuove risorse. Registi e produttori chiedono le dimissioni del ministro. Bondi: «Auspico che nel-l'iter parlamentare vengano reintrodotte».

L'abolizione di due norme scatena la protesta. Il titolare dei Beni culturali: spero che vengano reintrodotte
Cinema, rivolta anti-fisco: «Basta festival»
Produttori e registi: agevolazioni cancellate per i film italiani, Bondi si dimetta

Le associazioni pronte al boicottaggio delle manifestazioni. All'attacco anche il movimento dei Centoautori

ROMA — Dopo la doppietta di Garrone e Sorrentino a Cannes, s'era parlato di una nuova aria sul cinema italiano. Era ieri. Sembra un secolo fa. I registi e i produttori e tutte le associazioni, Anica, Api, Agis, minacciano di non portare i loro film ai festival italiani, da Venezia a Torino. E il movimento dei Centoautori capeggiato da Bernardo Bertolucci, Daniele Luchetti e Valerio Jalongo, ma dentro ci sono anche i vincitori di Cannes, chiede le dimissioni del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi. Motivo: la cancellazione di due misure per gli sgravi fiscali, tax shelter e tax credit, le due norme che dovevano dar respiro al cinema italiano liberando nuove risorse.
Bondi: «Ho dato il massimo impegno per la reintroduzione di questa utile innovazione a favore del cinema, auspico che nell'iter parlamentare venga reintrodotta». Quelle due misure erano state ottenute nell'ultima Finanziaria del governo Prodi. Tutti parlano di paradosso. Sono d'ispirazione liberale, volute anche dai politici di centro- destra, adottate negli Usa e in Europa; lasciate invece le agevolazioni che aiutano il cinema Usa col credito d'imposta.
Luchetti: «Il governo liberista ha cancellato la prima norma liberista del cinema italiano, che l'avrebbe messo nelle mani del mercato nel momento in cui andiamo bene per qualità e quantità. Vogliono un cinema meno libero e più dipendente dalla politica». Col tax shelter, chiunque può investire in un film una parte dei propri utili «scaricando» il 40 per cento della cifra investita. Col tax credit, se un'impresa audiovisiva ha degli utili e vuol reinvestirli in un altro film, può toglierli dal reddito con cui paga le tasse. E tanti saluti alla Festa del cinema di Roma, visto che il sindaco Alemanno aveva chiesto di rilanciarvi la produzione nazionale. Il nuovo presidente Gian Luigi Rondi: «Questa notizia mi ha profondamente preoccupato, sono norme fondamentali per la sopravvivenza del cinema». «Il cinema è stato giudicato assistenziale dalla destra — dice il produttore Riccardo Tozzi —, il bello è che la crisi Usa ha spinto le major a investire nei mercati locali. Accettiamo le strade più competitive e moderne per attirare capitali, e poi... Le hanno abolite perché non si conosce la situazione».
Il parlamentare del Pdl Luca Barbareschi: «Ho scritto al presidente della Repubblica Napolitano perché possa intercedere. Bondi è furibondo, s'era esposto, aveva dato garanzie... Cercheremo di reinserire un emendamento per la defiscalizzazione. Su quelle norme tutte i partiti dovevano essere d'accordo, ma gli sprechi sul cinema si sono fatti ed è difficile difenderlo ora. Io proporrei un progetto generale, su Cinecittà, sui soldi utili e quelli inutili. La coperta è corta, ne ho parlato con Tremonti. Dice che bisogna avere pazienza, un passo alla volta...». Paolo Virzì: «Sciatteria o disegno politico? Io credo disamore, disattenzione». Perché chiedete la testa del ministro Bondi? «Si era esposto prendendo un impegno personale e ha fatto una figura ridicola. Ha parlato a vuoto in difesa del cinema, ha mostrato la sua totale ininfluenza. In un momento così sfavorevole per l'Italia nel mondo, grazie ai nostri film sembrava di vivere in un Paese anticonformista sulle nostre magagne nazionali. Sì, boicotteremo i festival. Non contate su di noi».
Valerio Cappelli A Cannes I registi Paolo Sorrentino («Il divo») e Matteo Garrone («Gomorra») vincitori a Cannes: solidali con la protesta

Corriere della Sera 26.6.08
L'ex ministro: Massimo proponga un'idea per il futuro
Pd, Parisi apre a D'Alema E ItalianiEuropei va nel Pse
Partito diviso su Di Pietro. Veltroni: ognuno fa la sua parte
di Roberto Zuccolini


L'associazione nella fondazione dei socialisti europei. Dopo Red il segretario prepara le contromosse
ROMA — Red lascia il segno. Sembra piacere, pur tra molti distinguo, persino al «picconatore» ulivista Arturo Parisi. O, meglio, a piacere è soprattutto il fatto che Massimo D'Alema «proponga una proposta per il futuro del Paese ». Anche se vorrebbe essere sicuro che si tratti davvero di «un'idea alternativa» a quella di Walter Veltroni. Ma è tutto il Pd che, il giorno dopo il via ufficiale all'associazione Riformisti e Democratici, continua ad interrogarsi sul superattivismo dalemiano. Perché ogni giorno presenta una novità. È di ieri la notizia che ItalianiEuropei (gran patron lo stesso D'Alema e Giuliano Amato), entrerà nella Foundation for European Progressive Studies (Feps), cioè la Fondazione del Pse. Nel quartier generale di Ie si esulta facendo presente che si tratta del «riconoscimento di un lavoro di anni» e che non riguarda le querelle
interne al Pd. Ma già rutelliani e margheritini in generale entrano in fibrillazione: come, dopo aver aperto con Red uno spazio di dialogo «ecumenico », ora in Europa si torna a guardare al gruppo socialista?
E così, fanno presenti i tessitori del dialogo interno, l'ideale sarebbe un chiarimento tra i due big. Ad un certo punto gira anche la voce di un faccia a faccia, perché si vedono Veltroni e D'Alema uscire insieme dall'aula alla Camera. Ma entrambi smentiscono. Piuttosto è dentro la stessa aula, dove siedono a pochi scranni di distanza, che non di rado i due si scambiano pareri. Ciò è avvenuto anche ieri. Il segretario del Pd fa sapere che va avanti la costruzione del partito, con la direzione che si riunirà tra il 15 e il 20 luglio, alla quale farà seguito l'inizio del tesseramento. Ma al tempo stesso prepara le sue contromosse. Tanto per fare un esempio è previsto un incontro sulle riforme che preceda quello di ItalianiEuropei, che ha invitato Umberto Bossi. Senza contare gli appuntamenti già fissati per i prossimi giorni, dalla riunione del governo ombra a quella dei deputati del Pd. E, se le cose andassero male, non si esclude nuovamente di rispolverare l'arma del congresso di «chiarimento», magari a gennaio. Non per venire incontro alle richieste di Parisi, ma per prendere i dalemiani in contropiede.
E ora, dopo il voto al Senato sul decreto sicurezza che contiene il «blocca-processi», si apre un altro fronte di rottura interna. Che si chiama Di Pietro. Il popolare Antonello Soro, capogruppo alla Camera, promette: «Non subiremo la sua demagogia». Anche Marco Follini si mostra preoccupato: «Preferisco l'udc D'Onofrio: con Di Pietro non abbiamo nulla in comune. E spero che questa sia la posizione di tanti altri nel partito». Proprio il contrario di ciò che pensano i prodiani. Franco Monaco si affretta a rispondere: «Con l'Italia dei Valori siamo impegnati in una battaglia comune, quella contro gli strappi alla legalità. Del resto, non avevamo scelto di fare un unico gruppo con loro in Parlamento?
». Ancora più esplicito è Parisi: «Berlusconi ci risolve tutti i problemi accomunandoci all'ex pm». Che cosa ne pensa Walter Veltroni? «Ognuno fa la sua parte. Di Pietro ha il suo ruolo e noi pure: faremo un'opposizione che si candida al governo dell'Italia». Commenta Emma Bonino: «Invece che andare ad una riflessione, mi sembra che il Pd abbia avviato un redde rationem ».

Corriere della Sera 26.6.08
Il giornale Usa
Nyt, critiche all'Italia: troppo dura sugli immigrati


MILANO — Il «New York Times» critica l'Italia e gli italiani. Secondo il giornale Usa, quella italiana con gli immigrati è una situazione «paradossale», visti i milioni di emigranti che hanno lasciato il nostro Paese nel secolo scorso.
In un articolo da Roma, il giornalista Michael Kimmelman punta l'indice contro la paura crescente verso gli extracomunitari, dettata — secondo il critico— dai «mezzi di informazione e politici populisti». E per illustrare il testo, il quotidiano newyorkese utilizza il manifesto della Lega Nord con un capo pellerossa e la scritta «Loro hanno subito l'immigrazione, ora vivono nelle riserve».
Critiche anche al comune di Roma dove le scuole pubbliche «non si allontanano dalla dieta a base di spaghetti al ragù», abbandonando il programma interculturale.

Corriere della Sera 26.6.08
La ragazza sparita Da due mesi la Dia sta verificando i collegamenti con la morte del banchiere
Il figlio di Calvi: la Orlandi rapita per intimidire la Santa Sede
Nuova pista: presa per errore, verifiche su una socia di Flavio Carboni
di Giovanni Bianconi


ROMA — Un segmento dell'indagine ancora aperta sull'omicidio di Roberto Calvi — il presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra — porta alla scomparsa di Emanuela Orlandi, e all'intreccio tra i due fatti avvenuti a un anno di distanza uno dall'altro. Il banchiere fu ucciso il 18 giugno 1982, la ragazza fu sequestrata il 22 giugno 1983.
Carlo Calvi, figlio di Roberto, ha dichiarato ai magistrati che tuttora cercano la verità sull'omicidio del padre: «Il rapimento della Orlandi è un messaggio teso a intimare al Vaticano il silenzio su certe questioni molto delicate, come quelle di natura finanziaria, che hanno visto il coinvolgimento di banche, mafia, partiti politici. Queste oscure vicende, come il rapimento di Emanuela Orlandi, risulteranno sempre legate alla nostra vicenda, alla morte di mio padre e alla fine dell'Ambrosiano».
Prendendo spunto da questa dichiarazione e da altri elementi emersi nel corso di un procedimento che dura da anni, due mesi fa la Direzione investigativa antimafia ha ricevuto una delega dalla Procura di Roma per approfondire un'ipotesi che non solo tiene insieme i due fatti, ma chiama di nuovo in causa Flavio Carboni, il faccendiere già assolto dall'omicidio Calvi nel giudizio di primo grado, in attesa del processo d'appello. Gli accertamenti richiesti muovono dall'ipotesi, già affacciata in passato, che nel sequestro di Emanuela Orlandi, figlia di un dipendente vaticano, ci sia stato un errore di persona: la vittima avrebbe dovuto essere Raffaella Gugel, una ragazza che assomigliava molto a Emanuela e abitava nello stesso palazzo e allo stessa piano.
Il padre della giovane che solo per caso sarebbe sfuggita al rapimento è Angelo Gugel, assistente personale di papa Giovanni Paolo II e in precedenza - per quanto risulta ai magistrati romani - «stretto collaboratore di Marcinkus», il monsignore ex presidente dello Ior, la banca vaticana.
Già «aiutante di camera» di papa Luciani, pontefice per 33 giorni del 1978, tra Paolo VI e Giovanni Paolo II, Gugel è stato anche al fianco di Benedetto XVI.
Qual è l'ipotetico collegamento con la morte di Calvi e la vicenda dell'Ambrosiano? Il fatto che in diverse società a cui è interessato Flavio Carboni - ancora imputato per l'omicidio del banchiere nonostante l'assoluzione in primo grado - figuri tra i soci tale Rita Gugel: identico cognome dell'assistente del papa, peraltro poco diffuso in Italia. La richiesta giunta alla Dia è di accertare se quella Rita Gugel socia di Carboni sia parente di Angelo, attraverso verifiche anagrafiche e nelle camere di commercio.
L'ipotesi investigativa è dunque nell'eventuale intreccio tra Carboni e un uomo - o una famiglia - molto vicino al papa, alle mosse di monsignor Marcinkus e quindi della finanza vaticana tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, quando lo Ior si mescolò con la vicenda di Calvi e dell'Ambrosiano. Nel caso dell'errore di persona, il sequestro della Orlandi avrebbe dovuto essere un segnale lanciato in quell'ambiente.
Sabina Minardi, l'ex amante del bandito della Magliana Enrico De Pedis che alcune settimane fa ha reso dichiarazioni alla polizia sul rapimento (e a suo dire l'uccisione) della ragazza, non fa alcun accenno a uno sbaglio dei rapitori.
Ma tira in ballo monsignor Marcinkus (morto nel 2006), che dice di aver conosciuto al pari di Carboni e Calvi. In maniera confusa e contraddittoria, sommando indicazioni riscontrabili ad altre già smentite, la nuova testimone ha detto che l'arcivescovo sarebbe il mandante del sequestro, eseguito da De Pedis e i suoi amici. Sul movente riferisce ricordi vaghi, che vanno dai imprecisati documenti in possesso del padre della ragazza al denaro della banda della Magliana affidato al prelato-banchiere. Affermazioni che gli investigatori della squadra mobile considerano la parte più debole di un racconto già traballante. Con maggiore precisione la donna ha rivelato di aver portato a casa di Marcinkus delle prostitute, descrivendo l'appartamento del monsignore e fornendo altri particolari.
Se il coinvolgimento «della Magliana» nel sequestro Orlandi è ancora un'ipotesi, quello nella vicenda Ambrosiano-Calvi è invece una realtà certificata dalla morte di uno dei «testaccini» della banda, ucciso a Milano dopo aver sparato al vice-presidente della banca Roberto Rosone. «Era un avvertimento per Calvi, considerato non più affidabile», spiegò il suo amico e sodale De Pedis, secondo il racconto del pentito Maurizio Abbatino. Due mesi dopo Calvi fu ucciso, e un anno più tardi sparì Emanuela Orlandi: la nuova indagine proverà a verificare eventuali collegamenti mai accennati da Abbatino e dagli altri pentiti della banda.

Corriere della Sera 26.6.08
Simboli oltre la storia
Pompei, alle origini di un mito universale
di Eva Cantarella


Sono oltre due milioni e mezzo, ogni anno, i turisti che visitano Pompei. Ovviamente, le ragioni non mancano. Ma perché non ha la stessa fama la non meno straordinaria Ercolano, che ne ha condiviso il destino di morte? La risposta in un libro interessante e originale Pompei: la costruzione di un mito. Arte, letteratura, aneddotica di un'icona turistica curato da Luciana Jacobelli (Bardi editore).
Distrutta il 24 agosto del 79 d.C., Pompei scomparve sotto una valanga di pomice, ceneri e lapilli eruttati dal Vesuvio. Solo nel 1748 venne riscoperta: e subito scattò il processo di costruzione del suo mito. Artisti famosissimi, re, regine, dame, persino papi si precipitarono a visitarla. Ad alcuni di essi i Borboni regalavano addirittura l'emozione del «ritrovamento in diretta »: dalla terra vulcanica, sotto i loro occhi estasiati, si materializzavano tesori precedentemente preparati da solerti funzionari istruiti dal sovrano di turno. A Pompei, scrisse Stendhal, ci si trova «faccia a faccia con l'antichità». Le circostanze della sua distruzione annullano la distanza storica. Chi entra nelle case e nelle taverne, vede i resti del cibo, legge i graffiti sulle pareti, stabilisce un rapporto con il passato molto diverso da quello di estraneità in genere suscitato dall'antico.
La storia diventa qualcosa di personale, che fa scattare un processo di identificazione, realizzando il sogno del viaggio nel tempo. Non a caso edifici sullo stile delle case e delle ville pompeiane sono stati realizzati in tutto il mondo, dalla Casa dei Dioscuri ad Aschaffenburg in Baviera (1840-48) alla Villa di Diomede realizzata per volere di Girolamo Napoleone a Parigi. Pompei non è solo un sito archeologico, è un un mito, che il libro segue dai suoi albori all'epoca odierna del turismo di massa, in cui la città si conferma inossidabile e inarrivabile icona turistica.

LUCIANA JACOBELLI Pompei: la costruzione di un mito BARDI EDITORE PP. 127, e 20

Repubblica 26.6.08
Gli "schiavi di Hitler" contro la Farnesina
Le vittime italiane del nazismo deluse da Frattini sugli indennizzi
di Andrea Tarquini


Per gli ex forzati italiani penso sia importante ricevere un gesto simbolico. Dargli ora 3000 euro non è quello di cui hanno bisogno

Berlino - Gli ex forzati di Hitler italiani aprono una dura polemica contro il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Rimproverano al titolare della Farnesina quanto da lui detto nel corso della recente visita in Germania e in una lunga intervista al quotidiano Sueddeutsche Zeitung. Che cioè la recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha confermato il diritto a chiedere alla Repubblica federale il risarcimento per chi fu deportato nel Terzo Reich dopo l´8 settembre e costretto ai lavori forzati, sarebbe «pericolosa». Non solo. Il ministro degli esteri ha anche detto che per i deportati avrebbero bisogno di «un gesto simbolico, magari un museo della memoria».
Ricordiamo in breve i fatti. La Cassazione ha stabilito in sostanza il diritto di presentare cause e chiedere risarcimenti. Risarcimenti che dal 2000 la Germania ha concesso a milioni di vittime del nazismo, escludendo però di fatto «con obiezioni pretestuose e di fatto per motivi economici», dice il comunicato dell´Anrp, l´associazione degli ex internati e prigionieri italiani. Furono circa 800mila, civili e militari, i nostri connazionali che dopo la resa italiana agli Alleati e la cobelligeranza al loro fianco furono arrestati e deportati nei territori italiani occupati dalla Wehrmacht. Circa 50mila finirono nei campi di sterminio, altri 750mila lavorarono in condizioni bestiali, soprattutto nell´industria bellica del Reich. Oggi ne restano in vita appena 30mila, il più giovane è nato nel 1924. Ogni giorno che passa, ai loro occhi un gesto d´indennizzo tedesco appare più improbabile. «Mi chiedo allora che significato ha la medaglia d´onore concessa loro dall´Italia», afferma Enzo Orlanducci, presidente dell´Anrp. Che è deciso a dare battaglia.
Secondo l´associazione, un dato inquietante è che nell´intervista Frattini risponde affermativamente alle domande dell´intervistatore tedesco: se l´Italia tema, ove la Germania finisca per essere costretta a pagare, di trovarsi a sua volta ad affrontare una valanga di richieste d´indennizzo per le numerose vittime dei crimini di guerra di cui si rese responsabile in Africa, in Jugoslavia o in Grecia.
Protesta e sensibilizzazione continueranno in ogni modo, assicura Orlanducci. «Abbiamo consegnato al presidente del Parlamento europeo, un tedesco, una lettera di denuncia per chiedere anche una mediazione dell´Europa». Secondo il presidente dell´Anrp, il governo «ha paura che anche l´Italia debba pagare. Abbiamo commesso crimini, per paura di dover pagare non diamo fastidio a nessuno. E´ un´offesa al diritto». Nell´intervista Frattini aveva detto tra l´altro che «se i tribunali decidono caso per caso, quando uno Stato è immune, non ci si può più affidare al principio dell´immunità statale. Ma il mondo ha bisogno di certezza del diritto. Altrimenti si scardina tutto».Repubblica 26.6.08

Repubblica 26.6.08
Odissea. Quale canzone cantano le sirene
Gli enigmi del grande poema
di Alberto Manguel


Da Platone a Dante e a Kafka il segreto di quelle voci attraversa i secoli
È il lettore che ricompone e penetra i testi e dà loro un senso mentre li attraversa

Anticipiamo parte dell´intervento che terrà domani alle 21 alla Biblioteca Classense di Ravenna.

Narra Svetonio che l´imperatore Tiberio, quando si trovava tra professori di letteratura greca, gli rivolgeva tre domande, le quali secondo l´imperatore, non avevano risposta. La terza era la seguente: «Quale canzone cantavano le sirene?» Domanda che, come osservò quindici secoli dopo Sir Thomas Browne, «sebbene enigmatica, non va al di là di una qualunque congettura».
Per tentare una risposta, vediamo quali sono le caratteristiche di tale canto. In primo luogo, è pericoloso, dato che ci attrae irrimediabilmente, facendoci dimenticare il nostro mondo e le nostre responsabilità. In secondo luogo, è rivelatorio, giacché parla di quel che è accaduto e di quel che accadrà, di quello che conosciamo e di quello che non possiamo conoscere. E infine, può essere capito da tutti, gente del luogo e stranieri, greci e barbari, dato che la maggior parte degli uomini naviga in mare e nessuno sa se incontrerà le terribili sirene.
In cosa consiste il pericolo di questo canto? Nella melodia o nelle parole? Nel suono o nel significato? E se tutto rivelano, le sirene conoscono il loro tragico destino, o come specchi di Cassandra alle cui parole nessuno crederà, sono esse stesse le uniche insensibili alla loro musica? E qual è quella lingua che dev´essere universale?
Immaginiamo, come Platone, che non siano parole ma note musicali quelle che le sirene cantano, qualcosa di quella musica pura sarà sufficiente a dargli senso. Un qualcosa trasmesso dalle voci delle sirene (e che non può ridursi a puro ritmo o pura intelligenza) che chiama chi le ascolta come fa un animale in calore, emettendo un suono impossibile da tradurre se non come eco di se stesso. La Chiesa del Medio Evo vide nelle sirene le tentazioni che provocano l´anima nella sua ricerca di Dio, e nelle loro voci l´eco dell´animale che ci allontana dal divino. Ma è forse per quella stessa ragione che il senso del canto delle sirene, a differenza del senso della volontà di Dio, «non va al di là di una qualunque congettura». La questione, credo io, riguarda alcuni aspetti del problema centrale del linguaggio.
Le lingue che si sviluppano nel mondo omerico e pre-omerico, sotto l´influenza di migrazioni e di conquiste, con tentativi di scrittura e di creazione letteraria, furono sempre lingue «tradotte». Ovvero, lingue che per ragioni di guerra o di commercio, servivano a stabilire contatti sia tra chi le condivideva sia con il forestiero, il barbaro, colui le cui parole risuonavano alle orecchie dei popoli della Grecia come un «blablabla» bestiale. Il passaggio da un vocabolario a un altro per comprendersi reciprocamente, è stato (ed è ancora) uno dei misteri essenziali dell´atto intellettuale. Se una comunicazioni semantica, orale o scritta, colloquiale o letteraria, dipende dalle parole che la costituiscono e dalla sintassi che la governa, cos´è che preserviamo quando le sostituiamo con un´altra sintassi e con altre parole? Insomma, cosa resta quando cambiamo il suono, la struttura, i vocaboli, il peso culturale, le convenzioni linguistiche? Cosa traduciamo quando diciamo tradurre? Né senso né suono allora, ma qualcosa che sopravvive alla trasformazione di entrambi, quel che resta quando togliamo tutto. Non so se quell´essenza può essere definita, ma forse per analogia, possiamo intenderla come il canto delle sirene.
Qualcosa sappiamo per certo di essa. La sua essenza divinatoria.
Ogni grande letteratura (o ogni letteratura che chiamiamo grande) sopravvive, bene o male, attraverso le sue reincarnazioni o traduzioni, letture o riletture, trasmettendo una sorta di conoscenza o rivelazione che a sua volta diffonde e accende intuizioni e barlumi in ognuno dei suoi lettori. Questa sua qualità rivelatoria, che ci permette di capire attraverso un romanzo o un poesia qualcosa dei nostri propri misteri, somiglia nei suoi processi di lettura, ai pronostici che gli indovini fanno leggendo i carapaci di tartaruga o i fondi del tè, letture divinatorie condannate dalla chiesa medioevale e recuperate dal nostro secolo. Non si tratta di leggere una scrittura convenzionale nella quale si suppone un codice condiviso tra chi lo utilizza e chi lo decifra, ma di discernere, in una costruzione arbitraria o ready-made, un testo significativo. In tal caso, è il lettore che ricompone e penetra il testo, si colloca agli estremi della pagina dandogli senso nella misura in cui lo attraversa.
Secondo i greci, sono le voci femminili che offrono agli uomini tali testi per la loro ricostruzione e lettura. Cassandra, nell´annunciare il terribile futuro cui il paese si rifiuta di credere; Ecuba, nel gridare il proprio dolore come irrefutabile conseguenza della violenza, conseguenza che i guerrieri (e tra essi Ulisse) si sforzano di ignorare; Andromaca, nello spiegare prima a Ettore e poi a Pirro la teatralità dei loro drammi nei quali, come uomini di guerra, interpretano ciecamente il loro ruolo; Elena, nel cercare di paragonare i suoi pretendenti alla tragica relazione tra la bellezza e la verità; la Sibilla, nel dire verità che non vogliono essere capite; le sirene nel cantare una canzone in cui ogni uomo legge quel che più teme o quel che più lo attrae. Per essere decifrata da tutti, ciascuno a modo proprio, quella lingua criptica è, allo stesso tempo, una profezia chiusa e un testo aperto a infinite traduzioni, nessuna esatta e nessuna esclusiva. Ed è quella qualità ambigua e paradossale, ineffabile e trasparente, che la rende universale.
Nella stessa pagina de La Repubblica in cui compaiono le sirene, Platone racconta che, quando i grandi eroi dell´antichità dovettero scegliere reincarnazioni future, l´anima di Ulisse, ricordando quanto l´ambizione lo avesse fatto soffrire nella sua precedente vita, scelse per la sua nuova vita quella del cittadino comune, destino disprezzato dalle altre anime. In quell´istante Ulisse rifiuta la gloria di Troia, la fama del guerriero inventore e stratega, la conoscenza del mondo dei mari, il dialogo con i cari defunti, l´amore di principesse e di streghe, la corona del vincitore di mostri, il ruolo del rispettabile vendicatore, la reputazione del marito fedele - il tutto in cambio di una vita anonima e tranquilla. È lecito domandarsi se tale saggezza, sorprendente per un uomo il cui destino è l´avventura, non gli sia stata data proprio nel momento in cui, legato all´albero, fu raggiunto dalle voci delle sirene.
Tiresia gli aveva detto che dopo quell´ultimo, misterioso viaggio, la sua morte sarebbe stata serena: «Morte dal mare, ti verrà molto dolce, a ucciderti vinto da una serena vecchiezza. Intorno a te popoli beati saranno». Dante non poté concedergliela, e neppure le generazioni di poeti futuri che tradussero, ognuna a modo proprio, il canto delle sirene. Da Omero a Joyce, quasi tutti i poeti vollero, in un modo o in un altro, che Ulisse fosse un eroe avventuriero. Solo pochi di loro, tra cui Platone, intuirono che doveva essere Ulisse stesso a cambiare il proprio destino, scoprendosi infine ai loro stessi occhi nel meraviglioso canto che crede di ascoltare. Nel IV secolo, l´oratore Libanio, amico dell´imperatore Giuliano l´Apostata, argomentò nella sua Apologia di Socrate che Omero avesse scritto l´Odissea come una lode all´uomo che, al pari di Socrate, aveva voluto conoscere se stesso.
Anche Dante riconobbe l´ambiguità che doveva avere quel canto seduttore. Nel canto XIX del Purgatorio, Dante fa un sogno. Una donna gli si avvicina, «una femmina balba, ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, con le man monche, e di colore scialba».
Dante la contempla e il suo sguardo la rende bella. La donna comincia a cantare e il suo canto incanta il poeta.
«Io son», cantava, «io son dolce serena, che marinari in mezzo mar dismago; tanto son di piacere a sentir piena!»
Dante chiama Virgilio affinché questi gli dica chi è l´apparizione tentatrice, e Virgilio si presenta e la spoglia, rivelando un ventre immondo il cui fetore risveglia il poeta.
L´immagine della sirena ossessiona Dante, come ci ossessiona l´immagine amorosa che esageriamo fino a renderla falsa. La sirena è, così come vuole far intendere Virgilio al suo protetto, non un´autentica visione erotica ma un riflesso concepito dal proprio desiderio. Il canto della sirena (o la sirena stessa) sono proiezioni di quel che Dante nasconde a se stesso, ombra del suo lato oscuro, inammissibile e segreto, il testo segreto che il sogno di Dante inventa e che la sua veglia vuole decifrare.
Kafka propose, secoli dopo, che di fronte alle aspettative di Ulisse, le sirene tacessero, o per sconfiggerlo con il loro silenzio o perché sedotte dal poderoso sguardo dell´eroe, e che l´astuto Ulisse fingesse di ascoltare il canto magico che le sirene gli avevano negato. In quel caso, non fu né la musica né le parole che Ulisse percepì, ma una sorta di foglio bianco, il poema perfetto, teso tra scrittura e lettura, sul punto di essere concepito.
Come Dante nel Purgatorio, possiamo immaginare, perché no, che anche Ulisse, «sazio di prodigi», trasformi il canto udito, voce o silenzio, in canto proprio. Possiamo immaginare che traduca quella lingua universale in un idioma privato e unico, componendo per se stesso una sorta di autobiografia totale, un testo cristallino nel quale Ulisse si riconosce e perfino si scopre.
Forse non è in altro modo che funziona la letteratura.

© Alberto Manguel, 2008 Traduzione Fiammetta Biancatelli
Alberto Manguel ha pubblicato Iliade Odissea, una biografia, (Newton Compton)

il Riformista 26.6.08
Giustizia. Nuovo «messaggio nella bottiglia»
Allarme al Quirinale, la situazione precipita
di Alessandro De Angelis


Parola d'ordine: abbassare i toni su politica e giustizia. Il presidente della Repubblica ci ha provato, di nuovo, nella giornata di ieri. L'eco del discorso di Berlusconi all'assemblea della Confesercenti («I giudici politicizzati sono la metastasi della democrazia») non è ancora arrivato al Quirinale quando, in mattinata, il capo dello Stato prende la parola di fronte al Consiglio nazionale forense. Dove non esita a definirsi «preoccupato». Anzi, «molto preoccupato». È la seconda volta dall'inizio del mese che usa questa espressione, dopo aver molto insistito sul dialogo. Che, in questi giorni, al presidente appare come «un messaggio in una bottiglia», di cui, cioè, non si conosce chi lo raccoglie. Un messaggio in cui il capo dello Stato ha lasciato trapelare, se non pessimismo, quantomeno il timore che il livello dello scontro possa andare fuori controllo. E ancora ieri, lasciando intendere di parlare nel suo ruolo di presidente del Csm, ha affermato di fronte agli avvocati: «Dobbiamo auspicare che la nuova stagione parlamentare porti avanti il percorso delle riforme di cui ha assoluto bisogno l'amministrazione della giustizia nel suo insieme». Indirizzandosi al mondo politico ha poi aggiunto: «Perché vi si riesca, deve affermarsi - ne sono convinto, e non è la prima volta che lo sottolineo - un clima di ascolto reciproco e di confronto costruttivo su questi problemi tra tutte le componenti del mondo della giustizia e del mondo politico e istituzionale». Un messaggio forte, in una giornata diventata incandescente dopo le parole di Berlusconi. A vedere i tg di ieri sembrerebbe che, dopo l'attacco del premier, il discorso di Napolitano sia stato diffuso in maniera meno soft del previsto per creare, almeno, un contraltare mediatico altrettanto efficace.
La preoccupazione del presidente è, dicono al Colle, proprio il «clima di scontro» sulla giustizia. Cui ha contribuito, ieri, anche la presentazione della bozza di parere alla sesta Commissione del Csm dai relatori Livio Pepino e Fabio Roia. La norma varata dal governo che sospende i processi per reati puniti con meno di dieci anni di reclusione viene definita una «amnistia occulta». Al Quirinale minimizzano: «Un giudizio che rispecchia il clima di tensione». Tra l'altro, notano, «non si parla di incostituzionalità». A questo punto però, per Napolitano il sentiero che porta alla promulgazione della legge sulla sicurezza è davvero stretto. Anche perché in questo momento, durante il dibattito parlamentare, il presidente non può che limitarsi ad agire sui toni e sul clima politico, sulla moral suasion appunto. A Napolitano non resta che esprimersi alla fine dell'iter istituzionale. Difficile fare pronostici, anche se appare improbabile sia che possa bocciare la legge, facendo così decadere gli altri effetti del decreto che lui ha controfirmato, sia che possa rinviarne solo una parte alle Camere. Certo è - dice un autorevole fonte del Quirinale - che il presidente può dare un segnale di presa di distanza: se non un messaggio vero e proprio, quantomeno una esternazione per manifestare la gravità della scelta cui viene costretto.
Gioca sul filo della diplomazia il presidente che ieri, emanando il decreto che costituisce l'anticipazione della finanziaria, ha inviato, contestualmente, una lettera ai presidenti di Camera e Senato. Oggetto: il «rischio ingorgo» dei lavori parlamentari a causa dei numerosi provvedimenti all'esame delle Camere. Il capo dello Stato, tornando su un tema sollevato più volte anche durante il governo Prodi, ha sottolineato «l'esigenza che i lavori parlamentari delle prossime settimane siano intensificati e programmati in modo da conciliare al meglio le esigenze dell'azione di governo con la tutela delle prerogative del Parlamento in questa fase eccezionalmente densa e impegnativa dei lavori parlamentari». Una risposta a chi vorrebbe fare un decreto sul "lodo Schifani"? Al Colle a quella voce non ci hanno mai creduto: «Dopo che due settimane fa a Venezia il presidente aveva detto che sulle intercettazioni bisognava procedere con un disegno di legge, come era possibile proporre un decreto su una norma così contestata già passata davanti alla Consulta?». Piuttosto il richiamo sull'ingorgo istituzionale - fatto proprio oggi - sembrerebbe un richiamo, che vale anche per il decreto sicurezza, a una «normale e efficace» dialettica parlamentare. Con l'obiettivo, sempre quello, di abbassare i toni.

Libero 26.6.08
Trovato il tesoretto, ce l’ha Bertinotti
di Oscar Giannino


Io lo so che molti tra voi lettori non ci crederanno. Ma sono legato a Fausto Bertinotti da una stima vera e profonda. Tanto da non avere alcuna difficoltà ad ammettere che rimpiango molto che egli non sia in Parlamento. Ha pagato un amaro prezzo, al fatto di aver indicato per primo e con anni di anticipo alla sinistra antagonista l’abbandono di ogni pratica violenta, e una lettura della globalizzazione più in chiave di nuovo umanesimo lacaniano, che di vecchio leninismo. La conferma di quanto Fausto abbia operato con la testa sulle spalle, viene dai conti che vi presentiamo, quelli di Rifondazione comunista. La vera partita al VII Congresso nazionale di Rifondazione, il prossimo 24 luglio a Chianciano, non è solo politica, per lo sciglimento del partito in un soggetto diverso oppure no. È per il patrimonio che Rifondazione, negli anni di Fausto, ha oculatamente messo in cascina. I conti sono presto fatti. Ci sono circa 27 milioni di euro che a Rifondazione spetteranno nei prossimi tre anni, pur non essendo più in Parlamento, per effetto dei precedenti turni elettorali-nazionale, regionale ed europeo. La legge di rimborso ai partiti in Italia funziona così. E anzi, se passa la leggina di quel callido ex amministratore dei Ds che è Ugo Sposetti, a Rifondazione il flusso aumenterà fino a scavallare le prossime politiche. (...) (...) Sposetti è un genio, in queste cose. Come ha blindato in due anni il patrimonio Ds dalla mire del Pd - è lui il vero antiveltroniano di ferro, il patrimonio fonda la politica e non viceversa - allo stesso modo getta un ponte a Rifondazione in futuro per conto di Massimo D’Alema. E io li capisco, perché le identità di partito si difendono e non praticano l’eutanasia se non coatta, storicamente è giusto così. E dunque, se passa la linea Sposetti che nasce per dare una mano a tutti i partiti esclusi dal Parlamento nell’attuale legislatura, ecco che il flusso di cassa su cui potrà contare l’eligendo capo di Rifondazione supera i 30 milioni di euro. A quest (continua: il seguito nelle edicole, o acquistando una copia del quotidiano on line qui)