martedì 1 luglio 2008

Repubblica 1.7.08
La schedatura etnica
di Stefano Rodotà

Così si crea una scia continua d´ogni nostro passaggio: l´aver guidato un´auto, o aperto una porta, consente di ricostruire le nostre mosse a chiunque sia in possesso delle nostre impronte
Cade l´antica premessa dell´habeas corpus, l´impegno sovrano a "non metter mano" su un corpo che oggi non possiamo intendere solo nella sua fisicità
La società del controllo e la democrazia inquinata
Dopo il caso dei bambini rom, esploso con la proposta di identificarli tramite i polpastrelli, ci si interroga su certe tecniche di riconoscimento che violano la dignità umana

Solo nelle apparenze le impronte digitali possono essere definite uno strumento neutrale. Hanno un forte valore simbolico: chi le raccoglie sembra quasi che si impadronisca del corpo altrui.Esprimono politiche di controllo generalizzato o fortemente aggressive verso gruppi determinati. Possono entrare in conflitto con principi costituzionali fondamentali, come il rispetto della dignità della persona e l´eguaglianza. Per questo i legislatori hanno sempre considerato con prudenza la loro raccolta, hanno cercato di ancorarla a situazioni eccezionali o comunque specifiche, testimoniando così una sorta di cattiva coscienza o una consapevolezza dei rischi di stigmatizzazione sociale legati a forme generalizzate di uso delle impronte.
I segni d´identità e le regole della loro utilizzazione hanno una lunga storia che, nell´età moderna, si lega profondamente alle esigenze d´ordine pubblico. Così è per il nome e per tutte le altre tecniche di identificazione, che hanno conosciuto una straordinaria espansione grazie alla biometria e alla genetica. Una espansione divenuta torrenziale dopo l´11 settembre. Le esigenze di lotta al terrorismo sono state dilatate al di là del ragionevole, hanno visto il congiungersi dei più diversi strumenti nel costruire una società del controllo. Così muta profondamente il rapporto tra lo Stato e le persone, cade l´antica promessa dell´habeas corpus, l´impegno sovrano a "non mettere la mano" su un corpo che oggi non possiamo intendere solo nella sua fisicità, ma nell´intera dimensione costruita dall´accumulo di tecnologie che lo segmentano, lo riducono al segno d´un polpastrello, alla scansione dell´iride, alla traccia del Dna. Il mutamento, dunque, non si ferma al rapporto con lo Stato. Cambia il modo stesso d´intendere la persona, parcellizzata e sempre disponibile per chi voglia impadronirsi dei suoi frammenti, per identificarla, controllarla, discriminarla.
È un contesto nuovo che dobbiamo considerare, dove la tecnica delle impronte digitali non è affatto poco invasiva, assolutamente sicura. Le impronte digitali creano una scia continua d´ogni nostro passaggio: l´aver guidato un´auto, aperto una porta, preso un bicchiere, letto un libro o usato un computer consentono di ricostruire le nostre mosse a chiunque sia in possesso della nostra impronta. Non è così se si adotta un altro criterio di identificazione come la scansione dell´iride: non lasciamo tracce quando guardiamo un oggetto, leggiamo un giornale. Apparentemente meno invasiva, la raccolta delle impronte produce una cascata di effetti sociali che mettono la persona nelle mani di una serie di possibili controllori.
È una tecnica sicura alla quale ricorrere, ad esempio, per sostituire il codice segreto per accedere a un bancomat, evitando così i rischi del furto di identità? No. Se qualcuno "ruba" il mio codice segreto, posso sempre sostituirlo con uno nuovo e continuare così a utilizzare il bancomat. Ma se il furto riguarda l´impronta digitale, poiché questa non è sostituibile, l´effetto è drammatico: sarò escluso da tutti i sistemi fondati sull´identificazione attraverso l´impronta. Non è una ipotesi azzardata. Sappiamo ormai che le impronte sono riproducibili e falsificabili, tanto che qualche mese fa un gruppo di hacker tedeschi ha messo in circolazione con la rivista Die Datenschleuder una strisciolina di plastica dov´è riprodotta l´impronta digitale del ministro dell´Interno Wolfgang Schauble, un fanatico dei sistemi di controllo. Dunque la tecnica delle impronte digitali non solo non è sicura ma, sfidata com´è anche dalle tecnologie della falsificazione, diviene pericolosa, rendendo possibile la disseminazione delle impronte all´insaputa dell´interessato, in occasioni e luoghi che questi non ha mai frequentato.
La prudenza tecnica dovrebbe suggerire la prudenza politica, virtù perduta in molti paesi, e con particolare intensità in Italia. La tecnologia, vecchia o nuova, è ormai intesa come la via regia per la soluzione di ogni problema, abbandonando qualsiasi scrupolo e contribuendo così a deresponsabilizzare e disumanizzare l´agire politico. Si va a frugare in qualsiasi normativa, senza pudore e intelligenza interpretativa del contesto, per concludere che è legittimo ricorrere alle impronte digitali praticamente in ogni caso, con appigli labili o con l´ipocrita argomento del "bene" della persona. Tutto è ridotto a questione d´ordine pubblico, e così può cadere a proposito anche un richiamo a norme fasciste in materia di pubblica sicurezza, emanate dopo che perfino Alfredo Rocco, l´autore del codice penale del 1930, aveva preferito tacere su un punto così delicato.
Da allora non è cambiato nulla? Quanto contano la Costituzione, il valore della persona, tante volte invocato dai politici del centrodestra, pronti tuttavia a scordarsene proprio nelle situazioni in cui dovrebbe essere il primo riferimento? È inaccettabile che si confezioni un patchwork di norme scritte in varie epoche e con finalità persino contrastanti, rivolte a destinatari diversi, per dare base legale a una iniziativa che è una schedatura su base etnica. Dalla Costituzione italiana del 1948 fino alla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea tutti i documenti in materia di libertà e diritti sono fermissimi nell´escludere ogni discriminazione basata sulla razza. Invece, è proprio quello che sta accadendo. La proclamata finalità di assicurare ai bambini rom il rispetto dell´obbligo scolastico, una abitazione decente, la libertà dello sfruttamento riguarda una condizione minorile che tocca drammaticamente migliaia di altri bambini. Un solo esempio. L´evasione dalla scuola dell´obbligo è dell´8 per cento su scala nazionale e arriva al 16 nelle grandi città del Sud. Isolare in questo universo soltanto i rom significa operare una selezione su base etnica, che viola l´eguaglianza e ferisce la dignità. Quando, nel 1949, si scrisse la costituzione della nuova Germania, si volle che il suo primo articolo fosse così concepito: «La dignità umana è inviolabile». Si abbandonava una tradizione che apriva le costituzioni con il riferimento alla libertà e all´eguaglianza proprio perché si voleva reagire all´aspetto del nazismo che più aveva negato l´umano, la persecuzione razziale e la riduzione delle persone a cavie per la sperimentazione.
Il principio di dignità, che dovrebbe essere la misura e il limite d´ogni intervento legislativo, viene cancellato da qualche circolare ministeriale. Questo non ferisce soltanto i rom, adulti o bambini che siano, quando li si obbliga a dare le loro impronte. Corrompe il nostro tessuto sociale e culturale. Se il governo istituisce commissari speciali per i rom e attua per questi una schedatura speciale, legittima e rafforza la stigmatizzazione che già li colpisce. L´"altro" impersona ufficialmente un pericolo, e dunque tacciano per lui le garanzie costituzionali, i principi di civiltà. Si allarga il fossato tra le persone "perbene" e tutti gli altri, proprio là dove il dialogo è l´unica via per produrre vera sicurezza ed evitare che tutti divengano barbari.

Repubblica 1.7.08
Potere e microchip
di Roberto Esposito

Scansione dell´iride dell´occhio, registrazione della traccia vocale, geometria della mano, rilevazione satellitare di ogni movimento... rispetto a queste tecniche biometriche il rilevamento delle impronte appare una procedura perfino arcaica

L´idea di sovranità è oggi messa in crisi
la biopolitIca e i corpi rubati

Sorprende la sorpresa che ha suscitato l´intenzione di estendere il rilevamento delle impronte digitali a tutti i rom, anche bambini, residenti in Italia. Sorprende perché essa non fa che portare alle sue logiche conseguenze un percorso di riduzione biopolitica della democrazia che ha al suo centro la rottura del confine tra pubblico e privato e l´assunzione del corpo come elemento prioritario di identificazione. Ciò è a sua volta la conseguenza del progressivo spostamento dell´agire politico dal piano della condivisione del potere a quello del controllo sociale e poi della sorveglianza generalizzata.
Si tratta di una dinamica - originata ben prima dell´attentato dell´11 settembre 2001, anche se da esso accelerata - che contraddice il presupposto fondamentale dell´ordine politico moderno, in base al quale il corpo dei cittadini non appartiene al sovrano, bensì al soggetto che individualmente lo abita. È vero che già a fine Settecento Bentham aveva immaginato un dispositivo di sorveglianza a suo modo totale - il Panopticon - all´interno del quale ciascun individuo sarebbe stato controllato in tutte le sue mosse da un occhio che egli non poteva a sua volta vedere. Ma ciò valeva, appunto, per dei prigionieri e non per gli uomini liberi, vincolati al sovrano da un patto di obbedienza che non passava per la cessione del proprio corpo, ma per un´opzione della volontà razionale. È in conseguenza di tale presupposto - espresso dalla formula dell´habeas corpus - che si costituiva una civiltà politica secolare, fondata sulla separazione tra pubblico e privato: nulla di ciò che è privato, come appunto il corpo, doveva entrare nella sfera di disponibilità del potere politico. Lo stesso principio di uguaglianza, costitutivo dell´idea di democrazia, si basa su questa separazione funzionale: soltanto se assunti come puri centri di imputazione giuridica che prescinde dagli elementi corporei - e cioè dall´età, dal genere sessuale, dalla provenienza etnica - i cittadini risultano uguali davanti alla legge e ugualmente dotati di diritti politici.
Da tempo questa complessa architettura giuridica e politica mostra segni di cedimento. A incrinarla, nella società globale e multietnica, sono stati a volte gli stessi soggetti - per esempio le donne, ma anche gruppi etnicamente definiti, che hanno rivendicato la propria differenza corporea. Ma è soprattutto il potere sovrano che, minacciato dall´interno e dall´esterno dalla porosità delle frontiere nazionali, si è ristrutturato potenziando sempre più dispositivi di controllo lesivi del principio di uguaglianza, perché diretti precisamente sul corpo come luogo di incancellabile diversità. Ciò è stato reso possibile dall´inserimento di un terzo elemento, la tecnica, nel punto di intersezione tra politica e vita. Già l´uso del Dna ha modificato in radice i termini del processo penale. A questo è seguito lo stoccaggio sistematico di altri dati estraibili dal corpo umano da parte dello Stato o anche di agenzie di governance pubbliche o private. Scansione dell´iride dell´occhio, registrazione della traccia vocale, geometria della mano, rilevazione satellitare di ogni movimento, costituiscono forme di controllo biometrico rispetto alle quali il rilevamento delle impronte appare una procedura perfino arcaica. Già sono allo studio, e anzi in fase di avanzata elaborazione, dispositivi di identificazione - come l´applicazione di microchip subcutanei - che fanno del corpo vivente una semplice appendice organica di un apparato di controllo sempre più invasivo e capillare.
Tutto ciò, come si è detto, è il prodotto del riposizionamento del potere sovrano all´interno degli attuali regimi biopolitici. E dunque l´esito del processo, per certi versi inevitabile, che ha situato la vita al centro di tutte le traiettorie dell´esperienza contemporanea. Questo non toglie che si stia oltrepassando una soglia oltre la quale il termine stesso di democrazia andrà radicalmente ridefinito. Il rischio maggiore è che le stesse procedure di sorveglianza - insieme richieste e subite dalla società della paura - si capovolgano in nuovi fattori di rischio individuale e collettivo. E ciò per un doppio motivo: intanto perché i dispositivi biometrici di controllo - esercitati sulle fasce più esposte ed emarginate di popolazione, come appunto i piccoli rom - determinano nuovi e sempre più potenti effetti di esclusione. E poi perché la consapevolezza diffusa di essere sospettati e sorvegliati attraverso pezzi o zone del proprio corpo, anziché allentare, tende ad accrescere l´inquietudine provocando sempre nuove, e insostenibili, strategie di protezione.

Repubblica 1.7.08
Perché zingari ed ebrei sono vittime predestinate
Il volto banale della xenofobia
di Adriano Prosperi

Rilevare le impronte ai bambini degli zingari è una misura razzista. Le proteste del ministro che le propone e dei molti che silenziosamente o rumorosamente le approvano ci mettono davanti al volto autentico del razzismo.
Che non è quello mostruoso e abnorme che ci piace immaginare per nostra tranquillità: è quello pulito e rispettabile di tanti buoni padri di famiglia amanti della natura, dei cani e dei bambini, bene intenzionati nei confronti dell´umanità, decisi a isolare, rieducare o sopprimere le frange irregolari, sporche, malate, deformi. Una parola dal suono e dal significato benevolo riassume tutto questo: eugenetica. Basta visitare musei e centri di ricerca nelle capitali della scienza medica tedesca per trovarci davanti ai documenti lasciati negli anni dalla volontà di selezionare e migliorare la specie umana. Eppure, come da sempre accade quando si parla di zingari, ebrei e altre vittime predestinate del razzismo, chi propone o difende certe misure non vuole che lo si definisca razzista.
Ma la storia può aiutare a togliergli qualche illusione. Anche a un esame rapido e superficiale emerge che le misure scientifiche applicate al corpo umano sono una cosa diversa e recente, che spicca nel percorso millenario delle barriere di artificiali differenze alzate tra "noi" e "gli altri". All´inizio ci furono quelle linguistiche. Sono l´esito più antico del tentativo di porci al di sopra di altri gruppi umani: "noi" parliamo, "gli altri" farfugliano, balbettano sillabe incomprensibili. Per questo li abbiamo chiamati "barbari". Poi ci furono le barriere religiose: con l´avvento in Europa del cristianesimo come religione universale e obbligatoria, gli "altri" sono diventati gli "infedeli" se al di là dei nostri confini, gli "eretici" o i "giudei" se all´interno. Bisognò individuarli per impedire loro di contaminarci: le mura dei ghetti e un panno giallo sul cappello o una stella di David per gli ebrei, una tunica nera coi diavoli dipinti sopra per gli eretici. Se l´eretico o il giudaizzante finiva sul rogo, l´abitello restava appeso in luogo sacro a perpetuare la memoria e l´infamia. Oggi ne rimane qualcuno nei musei, documento di un passato lontano.
Ma prendere le impronte digitali è cosa diversa.
Sir Francis Galton, il grande scienziato inglese cugino di Darwin e autore di un´opera fondamentale sulla classificazione delle impronte digitali (Fingerprints, 1892), non era razzista. Credeva nella scienza e nelle possibilità di sviluppo dell´intelletto umano. E tuttavia il metodo della rilevazione delle impronte trovò la sua prima applicazione nel 1897 in un´area dove la civiltà occidentale era decisa a modificare una cultura diversa: lo usò un ufficiale di polizia inglese nel Bengala. Dunque fin dall´inizio un metodo nato nell´ambito della ricerca scientifica fu usato su di un popolo dominato dall´Occidente e divenne lo strumento poliziesco per l´identificazione dei criminali. Da allora le tecniche di misurazione dei corpi e di individuazione delle differenze dalla cosiddetta "normalità" si sono prestate all´impiego in funzione della selezione delle "razze" buone e dell´eliminazione di quelle "cattive". Come ha spiegato il maggiore storico del razzismo moderno, George Mosse, nel mondo contemporaneo il razzismo tende a diventare il punto di vista della maggioranza. È un modo di vedere le cose che si è impadronito di idee di uomini di scienza non razzisti e le ha usate per imporre l´ideale di rispettabilità borghese e di moralità della classe media, fatto di pulizia, onestà, serietà morale, duro lavoro e vita familiare. Chi si distacca da quell´ideale è considerato un diverso, un essere pericoloso, un criminale in potenza. La sua esistenza è un attentato alla salute del corpo sociale, quell´individuo collettivo, quella entità gigantesca, preziosa, di cui siamo le membra e che siamo tenuti a proteggere. Se si può isolare scientificamente la diversità - ecco il sogno del razzista - il pericolo si può eliminare. Perché criminale si nasce, non lo si diventa. Come scrisse nel 1938 un avvocato tedesco destinato a grande fortuna, Hans Frank, «la biologia criminale, o teoria della delinquenza congenita, indica l´esistenza di un nesso tra decadimento razziale e tendenze criminali». Ecco perché bisogna portare il bambino figlio di zingari davanti alla macchina che registrerà le sue impronte digitali. La sua è una razza degenerata, decaduta, dedita al nomadismo, all´alcoolismo, al furto. Lui non lo sa, ma noi sì. Prima o poi quella traccia schedata dalla polizia (o dai vigili? a loro la risposta) si rivelerà utile. L´occhio della legge non lo perderà di vista.
Già, l´occhio. La Giustizia ha tanti occhi e tante orecchie. Si discute da millenni se sia più importante l´udito o la vista. C´è chi l´ha rappresentata con la benda sugli occhi, in modo da garantire l´uguaglianza di trattamento a chi è ricco e a chi è povero, ai potenti e ai miserabili. Oggi la Giustizia italiana apre tutti i suoi occhi per guardare i bambini zingari mentre chiude gli occhi e si tura le orecchie davanti ad alcuni potenti. È un fatto nuovo e originale. Si prendano dunque le impronte digitali agli zingari e ai loro bambini. Nelle linee della mano le zingare hanno letto per secoli il nostro destino, ora è venuto il tempo di leggere e decidere il loro. Quanto ai bambini, ci dicono che è per proteggerli. Non per tutti sarà possibile: quella bambina a cui fu messa in mano una bambola esplosiva le dita non ce le ha più.

Corriere della Sera 1.7.08
Le impronte e il caso dei nomadi
E se a Duisburg schedassero gli italiani?
di Giovanni Bianconi
E se a Duisburg schedassero gli italiani?

Sulle impronte digitali dei bambini rom il ministro dell'Interno leghista continua a ripetere che non c'è niente di strano e tantomeno di razzista, e che quella misura è a protezione degli stessi ragazzini costretti a vivere tra topi e padri- padroni. Ma ha avuto buon gioco chi ha replicato che se davvero ci fossero quei bambini in cima ai suoi pensieri, farebbe meglio a trovare il modo per mandarli a scuola. E non si dica che i «rilievi segnaletici» servono a quello: magari per obbligarli a studiare in qualche classe separata?
In realtà l'ordinanza sulle impronte prende le mosse da un decreto nel quale il capo del governo Silvio Berlusconi ha dichiarato «lo stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi» in tre regioni. Un'emergenza- zingari, insomma, decisa a tavolino, vissuta e affrontata come un problema per la nostra tranquillità, non per quella dei bambini che abitano i campi più o meno abusivi. Da qui, dalle «possibili gravi ripercussioni in termini di ordine pubblico e sicurezza per le popolazioni locali» (come recita l'ordinanza governativa), discende quella che inevitabilmente si trasformerà in una schedatura su larga scala, il cui unico criterio è quello dell'appartenenza a un'etnia. E il cui obiettivo non dichiarato sembra quello di realizzare una «banca dati preventiva » di potenziali autori di reati, pre-selezionati dal fatto di essere stati sorpresi in un campo nomadi. In modo che al prossimo furto in appartamento, con le impronte digitali si potrà più facilmente risalire agli autori, se per caso quelle dei ladri coincidessero con qualcuna presente nel «grande archivio».
I rom rubano, certo. Anche da bambini. Come rubano gli italiani, e non solo i più grandi. Come rubano i polacchi, gli albanesi e tutti coloro che decidono di farlo, indipendentemente dalla naziona-lità, dal colore della pelle, dalla religione o dai costumi. È un problema da prevenire e reprimere. Come? Non con misure che hanno un retrogusto razzista e possono trasformarsi nell'anticamera di chissà che cosa.
In Sicilia c'era e c'è la mafia, e alcuni siciliani sono mafiosi. Hanno commesso delitti orrendi, e hanno provocato una vera e propria emergenza nazionale. Fino a mettere in ginocchio lo Stato, come nella stagione delle stragi del 1992-93. Sul luogo in cui fu fatta esplodere la bomba di Capaci che uccise Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta furono trovati dei mozziconi di sigaretta da cui fu estratto il Dna dei possibili attentatori: a qualcuno è mai venuto in mente, allora, di prelevare il codice genetico di tutti i siciliani per fare il confronto? O anche solo di quelli con un cognome diffuso tra le famiglie mafiose? E se dopo la strage di Duisburg i tedeschi avessero deciso di prendere le impronte digitali a tutti gli emigranti calabresi, per essere sicuri di non avere a che fare con degli 'ndranghetisti assassini (che certo non esibiscono documenti autentici), che cosa avrebbe detto il ministro dell'Interno italiano?
Quello attuale sostiene di «voler sapere chi c'è in Italia, dove abita, cosa fa e cosa farà nei prossimi mesi». Cioè vuole delle certezze, anzitutto sull'identità. Ma l'Italia è presumibilmente affollata di gente di malaffare che si nasconde dietro falsi nomi. Non solo extracomunitari, e tantomeno solo «zingari». Che si fa allora, si schedano tutti? Ai tempi del terrorismo giravano per le metropoli centinaia di militanti del «partito armato » entrati in clandestinità, però nessuno ha mai pensato di prelevare le impronte — per dire — a chi frequentava le università o lavorava in certe fabbriche dove potevano proliferare i brigatisti, così da avere certezze al primo controllo di polizia. Semplicemente perché non si può criminalizzare una categoria di persone dentro la quale è molto probabile, o perfino sicuro, che si annidino dei criminali. Ancor meno se quella categoria corrisponde a un'etnia, e ancor meno se la decisione comprende dei bambini con la sola colpa di essere nati nella culla sbagliata. (Sbagliata per chi e perché, poi?).
Una persona a cui è stata presa l'impronta digitale, da quel momento mette la propria firma su ogni oggetto che tocca, comunque e dovunque. Può darsi che secondo qualcuno il bisogno di sicurezza collettiva imponga che a questo si debba arrivare: una maxi-schedatura che consenta di identificare chiunque, subito e con assoluta certezza. Ma allora perché fermarsi ai nomadi, col pericolo di alimentare pruriti razzisti e senza alcuna certezza di archiviare le tracce di tutti i possibili autori di reati? Meglio schedare tutti, senza distinzioni anagrafiche o etniche, così almeno si potrà dire che la misura sarà dettata dall'appartenenza all'unica razza ammissibile: la razza umana.
❜❜ Il bisogno di sicurezza collettiva fa concepire una operazione che consenta di identificare chiunque, subito e con assoluta certezza. Ma perché fermarsi ai nomadi, con il pericolo di alimentare pruriti razzisti e senza alcuna certezza di archiviare le tracce di tutti i possibili autori di reati? Allora controlliamo tutti

l’Unità 1.7.08
Roma. Domenica scatta la schedatura nei campi abusivi
La polizia protesta: sui bimbi effetti devastanti
di Massimiliano Di Dio

Negli insediamenti
entreranno Croce rossa
carabinieri, polizia
guardia di finanza
e vigili urbani

Ora la data è certa: domenica sera parte il censimento dei senza fissa dimora della capitale. Come prima tappa gli insediamenti abusivi. Con o senza le impronte digitali anche per i bimbi rom, saranno invece le linee guida diffuse venerdì in Prefettura a stabilirlo. Certo l’ordinanza del Viminale non lascia dubbi: impronte per tutti, anche a dispetto dei moniti dell’Unione europea. Ma restano lacune e incongruenze nell’ambito delle modalità operative di identificazione dei nomadi. Punti approfonditi anche durante l’incontro avuto due giorni fa dal capo di Gabinetto del ministro, Giuseppe Procaccini, con i tre prefetti interessati dall’emergenza. Milano, Napoli e soprattutto Roma, al centro delle polemiche per le dichiarazioni del prefetto e commissario straordinario per i rom, Carlo Mosca. Il suo no alle impronte non è stato ancora digerito dal ministro Maroni. «Mosca il ribelle. Il commissario rischia il posto» titolavano ieri alcuni giornali. Dalla Prefettura, poche ore dopo, arrivava solo un «No comment. Tutto sarà spiegato nei prossimi giorni». Intanto scendono sul piede di guerra i sindacati di polizia: «Le impronte hanno effetti devastanti sulla psiche di un bambino», e polizia municipale: «Sono compiti di ordine pubblico, non toccano a noi».
Nessuno lo sa ma la macchina del censimento rom è già stata rodata nella capitale. Circa una settimana fa. Senza problemi, senza impronte digitali. E la stessa affidataria dell’incarico ministeriale, la Croce Rossa Italiana, che da anni si occupa di rom con corsi di educazione alla salute e ambulatori pediatrici nei campi, a darne notizia. «Un censimento di prova effettuato in alcuni insediamenti abusivi sul lungotevere prima dell’avvio ufficiale del 6 luglio - spiega Fernando Capuano, presidente del comitato provinciale di Roma della Cri -. Su 60 persone, 58 si sono fatte identificare senza alcun problema. Uno su tre era minorenne».
Nessuna impronta digitale, dunque. Bensì una scheda con nome, cognome ed età presunta - da accertare in casi dubbi con esami a raggi x - di ogni rom. E ancora informazioni su fabbisogni, vaccinazioni obbligatorie, esperienze lavorative. Poi la consegna di un tesserino sanitario da usare per l’accesso ai servizi medici. I dati rimarranno nelle mani della Croce Rossa Italiana e delle Prefetture. Ma sarà così anche dal 6 luglio prossimo? Pare proprio di no. Accanto ai volontari della Cri, intanto ci saranno carabinieri, guardia di finanza, polizia e vigili urbani. A questi ultimi due, sembra, il compito di svolgere l’identificazione. E quindi le impronte digitali. «Per evitare tensioni sarebbe meglio una presenza delle forze armate in borghese - confida ancora Capuano - Già l’enfasi politica di questi giorni potrebbe aver dato spazio a “disturbatori” che, per interessi economici o traffici illeciti all’interno dei campi, potrebbero ostacolare il nostro lavoro».
Sul fronte impronte digitali, oggetto di un confronto tecnico giuridico due giorni fa al Viminale, i dubbi sono molti. A partire da quale età si possono prendere? E chi le prenderà? Polizia o vigili urbani? «I bambini rom sono come tutti gli altri - afferma Gianni Ciotti del sindacato di polizia Silp-Cgil - Allora perché non prendere le impronte anche ai piccoli che vivono nei quartieri con alta percentuale di delinquenti? I campi nomadi sono soprattutto un problema sociale. Solo dopo diventano un problema di polizia. Lo stress psichico che si provoca a un bambino con le impronte è devastante psichicamente». «Finora ci sono stati solo annunci. Noi della municipale stiamo ancora aspettando di essere convocati da Alemanno sul piano sicurezza» dice Marco D’Emilia della Cgil mentre dalla Uil, per voce di Domenico Ilari, fanno sapere: «Come vigili urbani non abbiamo mai preso le impronte digitali. Ci occupiamo di emergenza e campi rom ma l’ordine pubblico non ci compete».

l’Unità 1.7.08
La sentenza Gelmini. «Scuola, tagli inevitabili»
Panini, Cgil: «Tremonti massacra la conoscenza e la ricerca»
La ministra e le impronte per i rom: «Se serve per riportarli in classe...»
di Marina Boscaino

«NON SI PUÒ INTERVENIRE sulla scuola dal punto di vista economico senza toccare i posti». Quella dei 150mila tagli tra personale docente e non docente (con un ammontare, nel giro dei prossimi 3 anni, di un 10% in meno di cattedre, con 87.245 insegnanti in meno, 42.500 Ata in meno e con un risparmio a regime di 3, 189 miliardi) è una manovra «dolorosa, difficile, ma che
non rinvia i problemi, anche perché i problemi non sono più rinviabili». Si è presentata puntuale, garbata, sorridente Mariastella Gelmini, a ribadire un concetto che ormai è chiaro per tutti: la più ferma determinazione a portare avanti un piano di smantellamento della scuola pubblica. E ad illustrarci, invece, come ha fatto più volte parlando della scuola, il migliore dei mondi possibili anche per ciò che riguarda la ricerca scientifica. Ad accoglierla al convegno, «I nostri ricercatori: una ricchezza per il Paese e per l'Europa», c'era ieri a Roma Enrico Panini, segretario generale della Federazione dei Lavoratori della Conoscenza della CGIL (Flcgil).
Panini ha sollevato una serie precisa di questioni, che prendono spunto da fatti recenti e ormai noti, sintetizzabili in una cifra: 8 miliardi di euro. Tale è l'ammontare dei tagli che graveranno su istruzione e conoscenza nella prossima Finanziaria, secondo quanto previsto dal recente Decreto Legge 112, collegato alla manovra finanziaria 2009, approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 18 giugno, che sta per essere discusso dalle Camere. Una vera e propria Finanziaria nella Finanziaria, considerando la clamorosa entità dei tagli.
Gelmini ha risposto con disarmante ovvietà: del resto, chi non commenterebbe negativamente il fatto che in Italia solo lo 0,7% del Pil è destinato alla ricerca, 1/3 della media europea? Chi non stigmatizzerebbe il fatto che l'Italia rappresenta il 14% del Pil europeo, ma contribuisce solo con il 6% all'occupazione nel mondo della ricerca? O non troverebbe disdicevole l'idea che i nostri ricercatori siano umiliati economicamente e che il loro reclutamento avvenga per cordate di potere e non per competenze e risultati scientificamente rilevanti? O inadeguata l'età media dei ricercatori stessi, di gran lunga superiore a quella dei colleghi europei?
Tutto condivisibile, esattamente come il fatto che lo stipendio medio di un insegnante di scuola rappresenta la negazione di qualunque serio investimento culturale sull'istruzione. Insomma, Gelmini si è impegnata a rispondere alle questioni poste da Panini, anche se le buone intenzioni - come sempre - dovrebbero essere confortate da opportuni e precisi stanziamenti.
In realtà, il più attendibile e inattaccabile contraddittorio alle sue benevole ipotesi è già stato garantito da Tremonti. Che se non ha infierito in maniera violenta sulla ricerca, ha certamente posto una serissima ipoteca per l'impoverimento definitivo della scuola pubblica. Perché quei 150.000 posti in meno non sono solo meno stipendi da pagare; ma - dal punto di vista dell'interesse generale - meno cattedre, meno ore di scuola, meno materie; addirittura scuole in meno. Si pensi a territori montuosi come quello della Basilicata, dove piccoli istituti rischiano di essere chiusi a causa dei tagli, ledendo in maniera inaccettabile diritti fondamentali dei bambini e delle loro comunità.
Si preannuncia dunque un autunno bollente e la scuola saprà svolgere il suo compito. Ma, ammonisce Panini: «Nessuno pensi di lasciare la scuola da sola in questa battaglia. La drastica riduzione del diritto all'istruzione è un problema che investe e aggredisce l'insieme della società. Tutti - sindaci, parroci, associazioni, gente comune - devono dare il proprio contributo contro un'emergenza dalla quale nessuno può sentirsi chiamato fuori. Quelle di Tremonti sono politiche di vero e proprio massacro del mondo della conoscenza e della ricerca».
E, per cominciare, riflettiamo su questa affermazione del ministro: «In Italia i rom aumentano, ma i bambini rom che vanno a scuola sono sempre di meno. Se serve a combattere questo fenomeno, ben vengano le impronte anche per loro».
Una proposta così lungimirante di lotta alla dispersione scolastica meriterebbe forse di essere immediatamente estesa. Potremmo provare a vedere se funziona anche a Scampia o allo Zen di Palermo: non si sa mai...

l’Unità 1.7.08
Abusava di minorenni nell’oratorio, sacerdote in manette
Roma, il parroco accusato di violenza sessuale. Avrebbe approfittato di 7 ragazzi, quelli più fragili
di Massimiliano Di Dio

All'epoca aveva solo 11 anni. Altri, 14 al massimo. Da loro mai una parola sul quel drammatico segreto. Neppure una volta divenuti maggiorenni. Poi la denuncia alcuni mesi fa da parte di un altro prete. «Quel sacerdote ha comportamenti anomali, troppo disinvolti con alcuni bambini». Ieri i carabinieri del nucleo investigativo di via in Selci lo hanno arrestato. R.C., 55 anni della parrocchia romana Natività di Maria Santissima, è accusato di violenza sessuale continuata e aggravata. Secondo gli inquirenti, approfittava del suo abito talare per abusare dei bambini che frequentavano l'oratorio o i campi estivi. Non tutti i bambini però. Quelli più fragili. Che lui, almeno dalla fine del 1997, avrebbe scelto con cura prima di portarli nelle stanze del suo appartamento vicino alla chiesa. Sette per ora i ragazzi che hanno raccontato ai carabinieri un passato fatto di abusi e pedofilia. L'ultimo caso risale al 2005 ma le indagini proseguono.
E la notizia dell'arresto del sacerdote non ha sorpreso tutto il quartiere. Su di lui, sulle sue “attenzioni” nei confronti di alcuni ragazzi, le voci giravano da un po'. Le autorità ecclesiastiche, a quanto pare, ne erano al corrente. Il sacerdote era già stato sospeso un mese dall'esercizio delle sue funzioni. «Piena fiducia» nell'operato della magistratura e vicinanza a quanti «sono feriti da questa vicenda», sono state espresse dal vescovo della diocesi di zona (Porto-Santa Rufina), monsignor Gino Reali.
Quasi tre mesi di indagini. Poi la decisione del gip di Roma, Andrea Vardaro, su richiesta del pm Francesco Scavo, di emettere l'ordinanza di custodia cautelare. Pericolo di reiterazione del reato, alla base della richiesta. Il sacerdote, che continuava a svolgere le funzioni di parroco, poteva venire a contatto con altri bambini o ragazzi. Da qui, l'arresto da parte dei carabinieri, ieri mattina, nella parrocchia di via Selva Candida. Proprio dove il sacerdote avrebbe scelto per anni le sue vittime. Bambini anche di 11, 12 anni. Spesso figli di famiglie disagiate o comunque con personalità fragili. Che avrebbero dovuto trovare nell'oratorio o nelle lezioni di catechismo un momento di svago. E invece magari con la promessa di soldi, cd, dvd o vestiti, secondo l'accusa finivano nell'appartamento del sacerdote. «Per mangiare qualcosa insieme», «per ripassare la lezione» diceva lui. Tutto falso, denunciano ora almeno sette ragazzi. Una volta dentro quelle stanze, il sacerdote diventava un altro. Non era più l'amico spiritoso che tutti conoscevano ma l'uomo degli abusi. Preceduti da qualche film pornografico che le vittime erano costrette a guardare insieme a lui. Alcuni di questi film sono stati trovati in casa del sacerdote nel corso della perquisizione. Nel quartiere il mormorio è insistente. «La Chiesa sapeva tutto» dicono alcuni residenti.

Corriere della Sera 1.7.08
Un saggio raccoglie fatti di cronaca, grandi avvenimenti, dittatori che cercarono modelli nel passato
Quando la Storia copia se stessa
Ieri e oggi: sorprendenti analogie scovate da Siegmund Ginzberg. Il caso Russia
di Luciano Canfora

La cliofilia può apparire, ed in parte è, una deformazione mentale. Appellarsi ad un precedente storico per giustificare l'agire politico o ravvisare in un fatto passato l'antecedente di un avvenimento presente, nella convinzione che il primo illumini e aiuti a meglio intendere il secondo, sono i principali aspetti della cliofilia. La parola ha avuto una certa fortuna, talvolta è stata usata con ironia. Nella Talpa della storia di Vladimir Kormer, dimenticato autore sovietico del «dissenso», per esempio, se la rinfaccia come «vizio» l'inquieto genitore- funzionario alle prese col figlio maniaco dell'Occidente. Ma essa non è appannaggio di una parte sola. È stato osservato che anche l'oratoria e la pubblicistica mussoliniana è ossessivamente «cliofilica» sia prima che dopo il salto spericolato dal socialismo al fascismo. E l'oratoria politica delle prime quattro Repubbliche francesi offrirebbe, in questo senso, un eccellente repertorio.
A ben vedere l'atto di nascita è già nella storiografia antica: nell'idea cioè che lo scrivere la storia di fatti reputati epocali giovi alla comprensione della vicenda politica prossima ventura (se non addirittura di ogni tempo). Coloro i quali dunque si volgono ammirati al passato scorgendovi analogie con il presente, come accade a Siegmund Ginzberg nel suo composito e denso
Risse da stadio nella Bisanzio di Giustiniano (Rizzoli), non fanno che portare conferme a quella lontana previsione tucididea nonché sostegno a tutte le prospettive cliofiliche di qualunque orientamento esse siano. «Mi sono accorto — scrive — che nelle pagine dei grandi libri (del passato, ndr.) si potevano trovare tesori insospettati di giornalismo, anticipazioni insospettate della notizia del giorno (...) La meraviglia è che riescano a dirci tanto sulle nostre vicende». Talvolta sono stati gli stessi protagonisti di grandi fasi storiche a leggere se stessi analogicamente, a calarsi dentro una analogia. Ginzberg dedica uno dei suoi capitoli più riusciti alla riflessione di Stalin sul film Ivan il terribile di Eisenstein e lo fa servendosi di una fonte primaria: gli appunti presi dal grande regista e dall'attore che impersonava Ivan (Cerkasov) dopo la loro lunga e tesa conversazione con Stalin (presenti Zdanov e Molotov), il quale per discutere e criticare il film li aveva convocati. L'incontro avvenne nel febbraio del 1947. Gli appunti presi allora dai due sono stati pubblicati mezzo secolo dopo, nel 1998, da Moskovskie Novosti.
L'analogia funzionava in due direzioni. Intendeva significare che il ruolo storico di Ivan IV era stato positivo e inoltre che esso poteva essere accostato, in situazione pur diversa, al ruolo dello stesso Stalin, oppure che proprio la possibilità di un tale accostamento doveva suggerire che il ruolo di Ivan doveva considerarsi sostanzialmente positivo. L'imprevisto che vien fuori dagli appunti è che Stalin e Zdanov non solo criticano il film perché attribuisce a Ivan caratteri che i due non accettano né gradiscono («il vostro Ivan viene presentato come un nevrastenico, un malato di nervi» sbottò Zdanov), ma estendono la loro critica al personaggio storico in quanto tale. E così limitano la portata stessa dell'analogia. «Uno degli errori di Ivan — disse Stalin se si presta fede agli appunti — fu di non essere riuscito a farla finita col potere dei cinque partiti feudali tra cui era costretto a giostrarsi. Fosse riuscito a disfarli, non sarebbe seguita quella che viene chiamata l'Era dei Torbidi. Fatto giustiziare qualcuno — soggiunse con evidente sarcasmo — finiva poi per perdersi a lungo in contrizioni e preghiere».
Un altro attore, anche lui prediletto dal regista, pare avesse detto ad Eisenstein prima del colloquio: «Stalin ha ammazzato molta più gente. E non se ne pente. Proviamo a vedere se si pente dopo aver visto il film!». Lo storicismo «cliofilico» di Stalin rifulge, in quella circostanza, anche nell'elogio che egli fa del cristianesimo. E lo fa in polemica con altri censori che avevano rimproverato al film l'eccessiva presenza della religione. «Non si può dire che noi siamo buoni cristiani — obiettò Stalin in difesa del film. Ma sarebbe sbagliato negare il ruolo progressivo del cristianesimo in quella fase storica. Ebbe un grande significato: segnò il momento in cui lo Stato russo si staccava dall'Oriente e si volgeva verso Occidente. Liberatosi dal giogo tartaro (musulmano), Ivan tendeva a riunificare la Russia come bastione contro le invasioni tartare». Come non pensare, leggendo questa riflessione alla Toynbee, al celebre giudizio di Isaac Deutscher nella sua biografia di Stalin («scacciò la barbarie dalla Russia con metodi barbarici»)?
Ovviamente la cliofilia può avere effetti addormentatori e assolutori nei confronti della «a-moralità» della politica (si intende di quella grande e terribile, non delle operette o pochades della quotidianità parlamentare). Perché, ad esempio, Ivan sentì il bisogno di punire ferocemente ed esemplarmente Novgorod (1570) città a lui fedele e di insospettabile fede ortodossa? Non fu mai dimostrato che Novgorod volesse passare con la Polonia cattolica o con la nemica Svezia. Eppure bastò il sospetto. E anche questo non può che rafforzare l'analogia.
Essa non è un gioco: al contrario, può essere un antidoto al fatalismo storiografico. È banale praticarla entro il semplice orizzonte improduttivo del nil sub sole novum. Al contrario — si potrebbe osservare — giova a rimettere continuamente in discussione il passato. A non appagarsi di giudizi consolidati, a non sistemare una volta per sempre da una parte i buoni e dall'altra i cattivi. In tal senso proprio la coppia Ivan-Stalin risulta istruttiva e foriera di riflessioni non necessariamente rasserenanti.
Poco c'entra Putin in tutto questo, anche se Ginzberg chiama in causa soprattutto lui. Certo, anche il caso Putin può arricchire il quadro in un'altra direzione: quella della continuità nonostante la rottura. E la storia della Russia, così come del suo archetipo bizantino, si presta, alla considerazione della continuità, come un esempio da manuale. Rottura più prolungata e lancinante dell'ottobre 1917 e di tutto ciò che ne seguì è difficile immaginarla. Eppure il potere, la sua forma come il suo esercizio, finì col riassestarsi, dopo la inaudita bufera, nelle forme che la tradizione russa offriva ai protagonisti (e anche agli antagonisti). Rottura più clamorosa, sul finire del Novecento, e più netta, della fine dell'Urss e del dissolvimento del Partito-Stato, è difficile trovare. Eppure le forme del potere di quella che ormai chiamiamo «Demokratura», sia essa retta da Eltsin che fa bombardare il Parlamento o da Putin che fa eleggere presidente un suo sostituto per rimpiazzarlo al più presto, sono ancora debitrici della storia russa e della sua incoercibile continuità. Anche i boiardi, che Ivan cercò di liquidare, sono lì a insidiare i successori del «Terribile». Non bastò neanche la durezza staliniana a farli uscire di scena.

Corriere Fiorentino 1.7.08
Una città due sessi
Il potere è maschio la riscossa è femmina
Le donne: canti, lazzi e l'ultima guerra per il diritto di voto
di Donatella Coccoli

Lì, in Fontebranda, con le donne è successo un quarant'otto. Tra tutte le contradiole senesi, le ocaiole sono rimaste le uniche a non avere diritto di voto in contrada e si son fatte sentire. La diatriba andava avanti da tempo, ma quest'anno l'incendio è divampato, davanti a tutta la città. Accuse, contraccuse, tentativi di trovare un accordo andati in fumo, minacce e propositi di ricorrere alle vie legali. Il dito, naturalmente, è puntato sul dominio dei maschi. Ma non è solo una questione di sessi contrapposti. C'è chi chiama in causa la tradizione, la cultura, rivendicando il diritto a non stravolgere regole secolari. E c'è chi invece sostiene che la tradizione non può essere immutabile, che il mondo cambia e che anche il Palio non può non tenerne conto. L'Oca è lacerata dal dilemma, le altre contrade hanno voltato pagina da tempo, ma una domanda resta per tutte: che cosa c'è per le donne nel futuro del Palio?
Uomini sono i fantini, uomini sono gli alfieri, uomini sono i protagonisti del corteo storico. Sono quasi tutti uomini anche priori, capitani e mangini, quelli che segretamente fanno i «partiti », i patti che possono decidere la corsa. Ma ecco la rivincita, la scalata - lenta, ma inesorabile - delle donne. Sono loro quelle che inventano i canti, quelle che sfidano con parole senza ritegno gli avversari, quelle più trasgressive. Non solo. La riscossa è diventata evidente quando alla ribalta si sono affacciate alcune donne-dirigenti. Attualmente Anna Carli è priore del Montone mentre Maria Aurora Misciattelli è la capitana della Torre che fece riassaporare ai suoi contradaioli il gusto del trionfo nel 2005. Ancora più frequente il caso di donne alla guida delle società di contrada. Un po' paradossalmente, di recente è stata proprio una donna a gestire la società Trieste, quella dell'Oca. Nel 1976 una donna comparve anche nel corteo che rievoca i fasti militari del Medioevo: con perfetta montura sfilò sul cavallo da parata del Montone. E da un paio di anni nel giorno della Tratta si vedono anche le «barbaresche»: in costume assistono all'estrazione a sorte dei cavalli, anche se poi il cavallo assegnato alla contrada viene preso in consegna dal barbaresco uomo (non in costume). Una breccia aperta nel 2006 dalla Giraffa.
Di donne-fantino il Palio ne ricorda una sola, la famosa Rosanna Bonelli detta Rompicollo, che nel ....galoppò senza successo nell'Aquila. Anche se pare che nel 1581 abbia corso una tal Virginia, appena quindicenne. Mentre è solo femminile e trasversale a tutte le contrade, guarda un po', il corso per bandieraie: serve a imparare le tecniche del ricamo e del restauro dei vessilli di seta usati sul Campo.
Uomini, donne, il potere. Un rapporto che anche qui riflette una situazione più generale della società italiana, o un unicum? Siena città vitale grazie all'identità e alla coesione contradaiola o Siena piccola patria conservatrice? Per Alessandro Falassi antropologo, uno dei massimi interpreti del Palio e della città, «questa è una festa di grande autenticità e riflette la società senese. Il Palio mostra e mette in scena i valori di una comunità, riflette Siena com'è. Ed è il depositario della storia, non gli si può chiedere un ruolo che non ha». Certo, negli ultimi decenni sono emerse nuove entità: «i giovani, le classi medie, le donne ». Basta assistere alle prove , spiega Falassi, per rendersi conto dell'apporto vitalissimo, talvolta molto hard, di quest'ultime: «Anche nel Palio ci si sta adeguando ad un equilibrio di uguali. Come nella società senese».
Proprio quando la lotta tra le contrade impazza, la lotta tra i sessi sembra cessare. I giorni del Palio sono «galeotti »: tempo sospeso, notti lunghissime, rulli di tamburo. E nelle contrade ci si innamora. Il Palio, si dice a Siena, crea un certo rigirìo. Lo descrive Francesco Burroni (ocaiolo), attore e autore di rime in vernacolo senese (l'ultimo libro, appena uscito, si intitola «Dal Purgatorio al Paradiso »): la festa...'l vino...i canti...il Paperone.../ lui la guarda...lei fa l'indifferente.../ poi un altro sguardo... e improvvisamente/ scappano via da la 'onfusione"…

Corriere Fiorentino 1.7.08
Boccaccio, quel simpatico sporcaccione
di Antonella Landi

«A Giovanni piaceva più che altro affondare le mani. Seni, fianchi, natiche, cosce: gli andava bene tutto, bastava trovarci roba»

(...) Boccaccio, di Firenze, non voleva sentir parlare. Egli era uno dei quei pochi, pochissimi fiorentini che non si vantavano del fatto di essere nativi della città gigliata. Napoli gli piaceva assaje e per nulla al mondo avrebbe voluto tornare a casa sua, in punta a quel cocuzzolo di Certaldo, e tantomeno in quella città di presuntuosi. Anche perché, a Napoli, sentit'a mme, aveva trovato...l'ammore. Maria dei Conti d'Aquino, figlia illegittima del re Roberto d'Angiò, in realtà già sposata, non fu insensibile al fascino del mancato trovatello toscano.
Lui, da parte sua, l'adorava. «Maremma come tusse' bella tonda e soda!» le diceva lui strizzandole le braccia là dove esse si fanno più cicciotte, vicino all'attaccatura delle spalle. «Uè, tien'e mani a pposto, scostumato!» rideva lei. Poi nell'intimità delle loro stanze, non le pareva vero sbottonarsi quei bustini stretti e fargli assaporare le sue grazie.
Boccaccio aveva una passione incontenibile per la ciccia delle donne. Ma il bello, poi, era che non se ne pentiva mai. Non faceva come Petrarca (‘‘l'amo'', ‘‘non l'amo'', ‘‘l'amo'', ‘‘non l'amo''): lui amava. Senza riserve, senza ritegno. Di pancia. Di brutto. Ma soprattutto amava carnalmente. Sarebbe stato impensabile, per lui, amare solo spiritualmente, come aveva fatto Dante con Beatrice, o come aveva provato a fare Francesco con Laura. A Giovanni piaceva più che altro affondare le mani. Seni, fianchi, natiche, cosce: gli andava bene tutto, bastava trovarci roba. Quando giunse il giorno in cui, per motivi di forza maggiore, dovette smettere di affondarcele e, rifatte in fretta le valigie, si rimise obbligatoriamente in viaggio in direzione nord, credé di morire di crepacuore. «Come fo? Come fo? Come fo?» ripeté ad libitum fino a Firenze, dove il babbo lo aveva urgentemente convocato. «Giovanni, c'ho da dirtene una brutta» annunciò Boccaccino col muso lungo, appena il giovane scene da cavallo: «il Banco ha fallito: s'è perso tutto, da ricchi siamo doventati miserabili, bisogna arricciarsi le maniche e darsi da fare ». «Io 'un so mica fare nulla» rispose suo figlio, «al massimo ti posso dedicare una poesia di consolazione». Invece dovette mettersi a lavorare e smettere di fare il creativo (oltre che lo spiritoso) perché il pane mancava davvero e le rime, la pancia, non l'hanno empita mai. Fino a quel momento aveva coltivato il suo spirito sensibile nello Studio napoletano, all'epoca il più importante centro culturale italiano, frequentando la biblioteca reale e anche la corte angioina, che rappresentava il punto d'incontro tra la cultura arabo-bizantina e quella italo-francese. Da quel momento in poi, invece, strinse la cinghia e accantonò i sogni di gloria poetica, sperando che la fase più brutta della sua vita coincidesse almeno con la più breve. La terribile peste del Trecento intanto giunse a Firenze e si portò via suo padre. «Che meraviglia, qui c'è il materiale per scrivere un centinaio di novelle! » pensava Boccaccio intingendo il pennino nell'inchiostro e attaccando il Decameron, la sua opera più inclita, per stendere la quale gli ci vollero tre anni di studio matto e disperatissimo (o era un altro?!). Con la diffusione della grande raccolta di novelle, rapida giunse per lui la fama letteraria (...).

Repubblica 1.7.08
Arriveranno da tutta Italia, protesta l´Ordine della Campania
Rifiuti, trecento psicologi a Napoli: è polemica
di Patrizia Capua

NAPOLI - Trecento volontari, "psicologi della monnezza", in arrivo in Campania dal centro nord. Tra i mille angeli della raccolta "porta a porta", chiamati dal sottosegretario Guido Bertolaso, ora anche gli esperti per curare gli stress emotivi causati dall´emergenza rifiuti. Bertolaso avrebbe bussato anche alle porte della "Federazione psicologi per i popoli", per arruolarne trecento in soccorso di Napoli. Come, dal centro nord? Si risente l´Ordine degli psicologi della Campania, che ha tanti operatori sul territorio. Claudio Zullo, alla guida di una pattuglia di 3.500 iscritti, ha mandato una lettera al sottosegretario ai rifiuti, proponendo di utilizzare le risorse in campo, un «patrimonio di risorse e competenze», nei diversi ambiti in cui appare possibile e necessario intervenire: psicologia sociale, psicologia delle emergenze, psicologia clinica.
La polemica nata dopo le indiscrezioni del Sole 24 Ore, scoppia alla vigilia della ennesima visita di Berlusconi a Napoli. Il premier arriva oggi, quando oltre seimila famiglie, in città, sono alla prova della raccolta differenziata. Fa tappa nel cantiere del termovalorizzatore di Acerra, presidiato dai bersaglieri fin da sabato scorso.
Dallo staff di Bertolaso fanno sapere che non si vuole escludere nessuno. «I volontari verranno entro luglio per affiancare e supportare il progetto della differenziata. Sono benvenute tutte le energie possibili - spiegano - Fra le associazioni di volontariato riconosciute dalla Protezione civile, ci sono specialisti che si occupano di situazioni di crisi dovute a catastrofi naturali. Accanto ai cinofili, o a quelli che soccorrono chi si perde in montagna, anche gli psicologi dell´emergenza, esperti di situazioni di crisi e di catastrofi naturali. Sono nell´elenco dei soggetti a cui abbiamo scritto per chiedere la disponibilità. In Campania, per fortuna, non dobbiamo affrontare choc psicologici da terremoto né da tsunami. Li abbiamo anche contattati per chiedere di modificare la pagina del sito in cui si parlava con troppa enfasi dei "coraggiosi che andranno a Napoli"».
In questa ondata di mobilitazione, Berlusconi ha chiamato in Campania anche gli alpini. «Il presidente ci ha detto: "Gli alpini non hanno mai detto di no alla Patria", e per servire la Patria noi andremo in Campania purché sia rispettato il nostro ruolo di uomini-soldato. Siamo in attesa di indicazioni», ha annunciato Corrado Perona, presidente dell´Associazione nazionale. «Candidatura generosa anche quella degli alpini» commentano gli uomini di Bertolaso, «anzi, preziosa, mezzo milione di persone con la piuma sul cappello, fratelli che si fanno in quattro per aiutare il prossimo. Ben vengano tutte le energie».

lunedì 30 giugno 2008

Fava al Pd: «Scelga tra noi e Cuffaro»
Si chiude la prima Assemblea nazionale di Sd. «Nel nuovo centrosinistra non ci saranno ospiti e padroni»

dall’inviato a Chianciano Terme

«La costituente sarà
sfida e ricerca,
la linea dell’orizzonte
ora
è frantumata»

«O CON NOI O CON L’UDC» Claudio Fava, coordinatore di Sinistra democratica, rilancia il «dialogo» col Pd ma pone alcune condizioni, oltre a quella già posta sabato da Fabio Mussi, e cioè un «programma decente», che non strizzi l’occhio alla destra su si-
curezza e immigrati. Fava, che ieri a Chianciano ha chiuso la prima assemblea nazionale di Sd, ha chiesto al Pd «pari dignità»: «Nel nuovo centrosinistra non ci saranno padroni di casa e cortesi ospiti». Ma il passaggio più applaudito è quello sul partito di Casini: «Al Pd chiediamo di scegliere tra noi e Cuffaro, è una questione di coerenza». Ma neppure Sd vuole tornare all’Unione, che lo stesso Fava considera una «esperienza malata».
Il numero uno di Sd rilancia l’appuntamento con tutti gli ex compagni dell’Arcobaleno, e anche altri, a settembre «per costruire insieme un’agenda delle cose da fare, qualcosa che sia subito visibile». Per il momento sì al referendum per cancellare il lodo Alfano. E in autunno partiranno altre iniziative referendarie «anche per supplire alla nostra assenza dal Parlamento», ha spiegato ai cronisti. Non c’è il rischio di un flop o di un effetto boomerang dei referendum contro le leggi-vergogna? «Il rischio c’è, ma la cosa più pericolosa sarebbe abituarsi a un governo che modifica la Costituzione materiale nella rassegnazione degli italiani e dell’opposizione», dice Fava, che invita i suoi a «ricominciare a frequentare il paese, ad andare oltre», secondo un’immagine rievocata proprio qui sabato da Achille Occhetto. «Proprio nell’andare oltre sta il senso della costituente di sinistra», dice Fava. Ma cosa sarà questa costituente di sinistra? «Non sarà un atto notarile, la costruzione di nuovi recinti o l’incontro di piccole patrie. Ma l’atto di responsabilità di chi non vuole assistere compiaciuto o distratto alla rovina di questo Paese». «La costituente sarà sfida e ricerca, la linea dell’orizzonte ora è frantumata e precaria ma noi dobbiamo attraversarla: da qualche parte al di là forse c’è Itaca, ma l’importante è mettersi in viaggio e noi l’abbiamo fatto».
A tutti gli altri partner della sinistra Fava chiede di uscire dalle giunte di centrosinistra «in Campania e in Calabria». In Campania, in particolare, sul tema dei rifiuti Fava vede il rischio «della costruzione di un laboratorio autoritario».
Dopo le conclusioni, l’assemblea ha approvato lo statuto (non sarà possibile la doppia iscrizione a Sd e ad un altro partito) ed eletto il consiglio nazionale di 250 persone (42% di donne) che ha confermato all’unanimità Fava coordinatore a voto segreto. a.c.

LA PLATEA
«Essere di sinistra ha senso. Il Pd ha
buttato l’acqua sporca e il bambino»
di Andrea Carugati inviato a Chianciano Terme
«Che cos’è sinistra democratica?». Oda Bozzetti, 50enne delegata di Parma, non è sorpresa della domanda. Tira fuori dalla tasca un foglietto con scritta una frase di John Steinbeck: «Dovunque un bambino nasce gridando per la fame, dovunque si combatte per un lavoro decente, dovunque si lotta per essere liberi cercami e ci sarò». «Ecco, questo siamo noi: romantici, vogliamo ricordare a chi l’ha scordato che la vita non è solo veline o vestiti firmati, ma solidarietà». Troppa nostalgia? «No, è che la sinistra tra le gente c’è ancora, deve solo riscoprirsi. E invece il Pd ha perso l’anima rincorrendo le idee della destra». Magari il Pd vuole essere più moderno... «Se quella è la modernità, non è la mia. Non c’è niente di più antico che accettare una società ingiusta senza pensare di cambiarla».
Non è isolata, la signora Oda, qui sotto il tendone bollente del Palamontepaschi di Chianciano dove suona l’Internazionale e si alzano sparuti (ma non troppo) pugni chiusi. «Ma il reducismo non è la chiave per capire chi siamo», dice Arturo Scotto, 30 anni, ex parlamentare più giovane d’Italia. Circola un questionario, «dieci domande per te», per mettere a fuoco l’identità degli 800 delegati. Di comunismo non c’è traccia, una spruzzatina di socialismo ma la domanda più gettonata è «quanto ti definisci di sinistra?». «Molto» è la risposta. Di sinistra, senza altri fronzoli. Laici, ecologisti, attenti a difendere, e rilanciare, tutto ciò che è pubblico: scuola, sanità. Pacifisti, poco interessati alle alchimie dei partiti, molto di più a «ripartire dalle fabbriche» per costruire la nuova sinistra. E molto poco disposti a chiudersi per sempre all’opposizione, o nella testimonianza. «Noi le mani col governo ce le sporchiamo volentieri», dice Paolo Matteucci, assessore ai Trasporti nella giunta di Filippo Penati alla Provincia di Milano. Una frontiera complicata la sua, stretto tra un presidente Pd molto “legge e ordine” e un Prc che minaccia la crisi un giorno sì e l’altro pure. Eppure lui tira dritto: di sinistra e di governo. E con lui questa platea: «Noi ci siamo per un nuovo centrosinistra col Pd, basta un programma decente», spiega Pino Valenti, pensionato di Forlì. L’antiberlusconismo alla Di Pietro, i girotondi, qui non fanno molta presa. «Il nostro nemico non è Berlusconi, ma la cultura della disuguaglianza, del malaffare, dell’individualismo», dice Milena Naldi, 40enne consigliere comunale a Bologna, anche lei stretta tra il sindaco Cofferati e il Prc. Eppure, in questo spazio di manovra assai angusto, c’è la speranza del popolo di Sd: «Tra la gente lo spazio per una sinistra riformista e di governo c’è», si accalora Omar Riccardi, 35enne consigliere di circoscrizione a Torino, San Salvario. Cita Occhetto, applauditissimo sabato nel suo intervento, in cui ha proposto ancora una volta una «costituente» per «andare oltre» la sinistra del Novecento. Non rischiate di guardare troppo indietro? «No, la verità è che il processo lanciato da Occhetto non si è mai concluso», risponde Omar. «Né D’Alema né Veltroni sono stati in grado di farlo. E non potranno certo farlo quelli che pensano alla salma di Lenin».
Certo, anche qui fa capolino la politica più bolsa, quella delle liturgie, dei comitati politici, degli emendamenti, dei posti in direzione da spartire tra i vari «territori» in lotta fra loro. Del 40enne che voleva fare l’assessore in un municipio di Roma ma è «rimasto fregato dall’accordo tra Pd e Prc». Eppure l’umore è buono, come ricorda con malizia il coordinatore Claudio Fava, riferendosi alla recente assemblea del Pd alla Fiera di Roma: «Qui da noi non ci sono sedie vuote», grida dal palco, e giù applausi. L’umore è buono, sarà per una certa vocazione al martirio di un popolo che dal Pci in poi ne ha patite tante, ma così è. Qui c’è gente che, spesso, lasciando la carovana del Pd ha lasciato anche sogni di carriera politica: «Se uno aveva molto a cuore la carriera non veniva qui dopo il congresso ds di Firenze», sorride Franco Calistri, 60enne dipendente della Regione Umbria. L’idea del «disinteresse» alle poltrone è molto gettonata. Chi ci crede molto è Francesca Mauri di Lodi, 21 anni: «Non ho mai avuto un partito, sono venuta qui perché sono gli unici che possono portare un po’ di novità a sinistra. Con loro si può portare avanti un Dna di sinistra, ma imparando dagli errori, e senza ancorarsi a simboli, tradizioni o poltrone». A Veltroni rimproverano soprattutto di aver buttato via insieme all’«acqua sporca» delle ideologie anche il «bambino» di una identità di sinistra. «Ma qui nessuno vuole fare il satellite del Prc» spiegano. E Tino Magni, colonna di Sd in Lombardia ed ex Fiom: «Però per noi questa società va trasformata, partendo dall’idea che un operaio e un imprenditore non sono la stessa cosa».

Corriere
L'iniziativa di D'Alema
Associazione Red «Subito esaurite le prime ottocento tessere»

ROMA — Non si ferma il tesseramento di Red.
L'associazione di D'Alema, colpita dall'immediato esaurimento delle prime 800 tessere stampate, rilancia. Sono stati ordinati allo studio grafico Beecom due preventivi per altre 5.000 o 10.000 tessere. Martedì la scelta, poi il via alla stampa. «All'indirizzo
riformistiedemocratici@g mail.com arrivano continue richieste di iscrizione», dicono dallo staff di D'Alema. La quota di iscrizione è 100 euro, 500 per i sostenitori, 50 per chi ha meno di 30 anni. La tessera è stata disegnata dal giovane grafico Stefano Bruno.

domenica 29 giugno 2008

l’Unità 29.6.08
«Prendano le impronte anche ai figli nostri»
La provocazione di Mussi al congresso Sd. «Dico al Pd: da soli non si va da nessuna parte»
di Andrea Carugati


NON CHIEDE SOLO «più opposizione» al Pd, Fabio Mussi, ma propone atti di disobbedienza civile. Da Chianciano, dove si sta svolgendo la prima assemblea di Sinistra democratica, l’ex ministro dell’Università mostra tutta la sua indignazione per le cose "gravissime" che stanno succedendo in Italia. E dice, tra gli applausi: «Portiamo anche i nostri bambini italiani nei campi a farsi prendere le impronte insieme ai bimbi Rom: o tutti o nessuno». E ancora: «Se una pattuglia di militari impiegati per l’ordine pubblico mi chiederà i documenti io non li darò». E’ un Mussi battagliero, quello che parla alla sua platea. E sulla "sicurezza" nell’era Berlusconi raccoglie tutto il malessere che si respira qui a Chianciano, dove la difesa dei rom da "leggi razziste" è al centro di quasi tutti gli interventi. Ieri il coordinatore di Sd Claudio Fava, a Veltroni che gli raccomandava più attenzione ai temi della sicurezza, ha risposto che «per noi sicurezza non è il portafoglio rubato al Vigneto, ma i 250 morti ammazzati in Calabria, la risposta a questo bisogno è la lotta alle mafie, non lo smantellamento dei campi nomadi». «La politica non può assecondare o rincorrere il senso comune», dicono Mussi e Fava all’unisono. E l’ex ministro va giù duro: «Dobbiamo far cadere quei sindaci del Pd che continuano a parlare di ronde, manganelli, pistole e zingari. In Italia non c’è un’emergenza rom, è solo una paranoia». Fava fa anche nomi e cognomi di amministratori Pd che su questo tema non gli vanno a genio: «Il presidente della Provincia di Milano Penati ha un’idea reazionaria della sicurezza».
Insomma, Sinistra democratica non ci sta a farsi dare le pagelle sul riformismo dal Pd. E a Veltroni, che proprio qui venerdì ha aperto a nuove alleanze «sui programmi», Mussi risponde: «Da soli non si va da nessuna parte. Certo che dobbiamo ritrovarci sui programmi, ma è una cosa reciproca: su lavoro e precariato non capisco cosa vuole il Pd, sui diritti civili mi pare che non abbiano una posizione. Il programma di un nuovo centrosinistra non può essere quello della destra ma ’un po’ meno’: gli stessi temi, come tasse e sicurezza, ma un po’ meno aggressivi. Ci vuole una nostra agenda». Mussi porge un ironico "benvenuti" a D’Alema e Bersani che hanno ricominciato a ragionare di alleanze a sinistra, e dice: «A sinistra del Pd ci vorrebbe un partito, noi cercheremo di aggregare quanto possibile per condizionare il Pd e poi riaprire una discussione». E Di Pietro? «Io sono per manifestare l’8 luglio e anche per un referendum sul lodo Schifani, ma non possiamo certo consegnare a Di Pietro quel che resta della sinistra italiana». Quanto ai flirt di una parte del Pd con Casini, Fava e Mussi hanno le idee chiare. Dice il primo: «Il Pd deve avere chiaro in mente che o si allea con la sinistra o con l’Udc. Una roba con tutti dentro sarebbe un minestrone indigeribile, peggio dell’Unione. E poi nell’Udc Cuffaro non è una meteora, ma rappresenta un terzo del partito e noi con lui non abbiamo nulla da spartire». E Mussi: «Non si può danzare esageratamente e mi auguro che il Pd non vada ancora più a destra, sarebbe veramente un’esagerazione».
Netta però la chiusura di Sd ad ogni ipotesi di sbarramento per le elezioni europee: «La legge attuale va bene così, per le europee non c’è nessun problema di governabilità. Invito alla saggezza, mi pare che D’Alema sia sulla buona strada», dice Mussi. Sui rapporti a sinistra, infine, Fava vede un futuro prossimo in cui solo una parte dei quattro dell’Arcobaleno costruirà una nuova sinistra: "Non auspico la divisione ma la verità, quella che è mancata all’Arcobaleno: chi vuol fare la costituente comunista la faccia ma non è la nostra strada". Franco Giordano, anche lui tra gli ospiti, non commenta. Ma dice: «Fuori da un campo largo della sinistra Rifondazione non sopravvive».

Corriere della Sera 29.6.08
Effetto Bertillon
di Sergio Luzzatto


Come il nostro ministro dell'Interno, Roberto Maroni, anche Alphonse Bertillon sfoggiava le migliori intenzioni.
Funzionario di prefettura nella Parigi di fine Ottocento, colui che rivoluzionò le tecniche della criminologia grazie al cosiddetto «bertillonnage» (un sistema integrato di misurazioni antropometriche, schedature fotografiche e impronte digitali) dichiarava di farlo a fin di bene: perché l'«onest'uomo» non potesse più andar confuso con un serial killer e perché «i ragazzetti di strada in buona fede che ignorano il loro stato civile» si vedessero restituita una piena identità. Ma nel giro di qualche anno, i rom di Parigi avrebbero imparato a proprie spese il significato ultimo e vero di tanta generosità. Il 16 luglio 1912, una legge speciale sui «nomadi» impose a ciascuno di loro un «carnet antropometrico» fatto di misure craniche, foto di faccia e di profilo, impronte digitali. Di lì a poco, la capitale francese sperimentò un'ondata di razzismo antirom tra le più virulente della sua storia.

il manifesto 29.6.08
I delinquenti fuori e i bambini dentro
di Alessandro Robecchi


Riassumiamo. Da anni ci frantumano gli zebedei che i delinquenti sono liberi mentre le brave persone sono chiuse in casa terrorizzate. Da anni e anni non c'è sera che ogni telegiornale non ci ripeta questa solfa. Così abbiamo visto i paladini della tolleranza zero vincere le elezioni in carrozza e qualche manigoldo di sinistra prendersela con i lavavetri o i venditori di borsette false. Eleganti direttori di giornali sono andati in tivù a dire: eh, la paura percepita! Poi tornavano ai loro giornali a lavorare alacremente per farne percepire di più. Un fortunato libro sulla «casta» ha denunciato schifosi privilegi tirando anch'esso la volata al nuovo governo law & order, che come prima decisione rende impunibili i più alti vertici della casta.
Tra la gente, nei discorsi di tutti i giorni, alcune fantasiose varianti sul tema sicurezza: e se la violentata era tua sorella? Se la vecchietta scippata era tua madre? Se il pirata della strada investiva tuo figlio? A coronamento di cotanta propaganda, la proposta del governo presieduto dall'editore di quegli stessi telegionali che hanno disseminato paura a piene mani, è di bloccare i processi per tutti i reati punibili con meno di dieci anni avvenuti prima del giugno 2002.
Dunque se la violentata era tua sorella, la scippata tua madre e l'investito tuo figlio - ma prima del giugno 2002 - la certezza della pena puoi infilartela in quel posto tipo l'ombrello di Altan. Per il solo fatto che il capo del governo ha un processo in corso, migliaia di delinquenti rischiano di farla franca. Solo sei mesi fa avremmo visto titoloni roboanti in tutti i tg del regno, scandalo, raccapriccio, dove andremo a finire, che vergogna, la gente ha paura e i delinquenti sono impuniti! Conduttori con gli occhi fuori dalle orbite, indignati speciali, strali e anatemi. Oggi la certezza della pena non tira più. E non c'è stupratore, rapinatore o scippatore - ante 2002 - che non si trovi d'accordo con il governo della tolleranza zero. Ma i bambini rom possono lasciare qui le impronte, grazie. Sapete, è per la sicurezza.

l’Unità Roma 29.6.08
I rom artisti costruiscono la loro casa
Oggi la posa della prima pietra in barba al timore degli sgomberi. Il progetto alla Triennale di Milano
di Luciana Cimino


LA CASA Oggi gli abitanti di Casilino 900 cominciano a costruire una nuova casa. In barba ad ogni timore di sgombero, tenteranno di realizzare un prototipo di abitazione alternativo ai container dei mega campi rom. Non una baracca (nessuno sceglie di viverci, meno che mai i bosniaci che prima della guerra in Jugoslavia avevano appartamenti e lavori dignitosi) ma un’opera che sarà esposta alla Triennale di Milano. Sarà nel momento stesso in cui prenderanno in mano un martello per intervenire sul loro ambiente che i rom compiranno già, in qualche modo, un atto artistico. Se per esso intendiamo il tentativo «di comprendere la realtà, tradurla, rappresentarla, raccontarla, trasformarne i problemi in risorse».
Demiurghi di quest’operazione sono gli Stalker, un collettivo di artisti e architetti. Il nome è preso in prestito dall’omonima pellicola del regista russo Tarkovskij. «Non siamo un gruppo formalizzato – spiega l’architetto Francesco Careri, uno dei fondatori - ci piace dire che Stalker è una cosa che accade, una situazione. Chi partecipa all’azione è Stalker, per un giorno o per un anno, non siamo un movimento esclusivo ma inclusivo». Talmente inclusivo che attorno ad esso, nel 2002, è nata una rete, l’Osservatorio Nomade, costituitasi dai rapporti con le realtà che Stalker ha incontrato nel tempo. «Stalker non riesce a chiudere con i luoghi in cui lavora, si creano relazioni affettive e durevoli».
Sono quindi Stalker i rom di Casilino 900 e quelli di Campo Boario, gli studenti che hanno lavorato su Corviale, i curdi del centro Ararat che con loro hanno costruito Tappeto volante, una rielaborazione in corda e rame del soffitto ligneo della Cappella Palatina di Palermo realizzato con 41472 corde di canapa con terminali in rame che scendono da un telaio sospeso. L’opera, di proprietà del Ministero degli Affari Esteri, è stata di recente esposta al Macro ma ha viaggiato per otto anni nel mondo (da Tunisi, a Venezia passando per Sarajevo, Tirana, Salonicco, Cairo, Amman, Damasco , dallo Yemen all’Arabia Saudita, al Qatar, al Pakistan, dall’Oman a Otranto) per mostrare gli stretti legami culturali che uniscono fra loro i paesi del Mediterraneo. «Questo lavoro è emblematico della capacità che ha l’arte di costruire il futuro, è la cosa più bella che abbiamo prodotto per noi che, appunto, non costruiamo oggetti ma percorsi».
Percorrere, camminare, esplorare, perdersi nel «lato oscuro» della città come atto primario di trasform-azione del territorio e quindi come pratica artistica. È questa la cifra stilistica di questo movimento che guarda all’erranza paleolitica così come al dadaismo, ai situazionisti, alla Land art di Robert Smithson, all’arte relazionale, a Pier Paolo Pasolini. «Nel ’96 - ha raccontato Careri al nostro giornale qualche anno fa - gli abbiamo dedicato un omaggio. Avevamo trovato una poesia senza titolo che raccontava Roma dopo una giornata di pioggia, l’acqua sull’asfalto e questa città di prostitute, gru e palazzoni in costruzione che si rifletteva in questo specchio blu. Diceva: "In questa strada blu d’asfalto". Allora abbiamo dipinto di blu 300 metri di strada, al Mandrione. La gente camminava sopra la poesia che noi avevamo fotocopiato su fogli blu attaccati per terra. In quegli anni nessuno pensava a Pasolini come a un camminatore. E invece, se si guardano i suoi film quest’aspetto è evidente: in Mamma Roma c’è una sequenza lunghissima del bimbetto che cammina nel parco dell’acquedotto, il film è tutto sull’andare. E siamo in sintonia con la sua etica. Abbiamo quest’utopia dell’impegno, del riuscire a trasformare le cose da dentro».
Se le tecnologie permettono la riproduzione identica del reale, ecco allora che l’arte per esser tale deve agire su di esso. Stalker interviene, andando a piedi, nel negativo della città costruita, nelle aree interstiziali e di margine, negli spazi abbandonati o in via di trasformazione, e cioè in quelli che nel suo manifesto sono chiamati Territori Attuali, «difficilmente intellegibili, e quindi progettabili, perché privi di una collocazione nel presente, e quindi estranei ai linguaggi del contemporaneo. La loro conoscenza non può che avvenire per esperienza diretta». Il percorso stesso è una mappa cognitiva, «un atto di conoscenza per raccontare fenomeni urbani che gli altri non riescono a leggere e dare le chiavi per la loro trasformazione». Per questo hanno «attraversato» Corviale, affittando nel 2004 una casa al nono piano e realizzando con gli abitanti la tv di quartiere («volevamo capire come il serpentone stava cambiando e qual era l’immaginario che i romani avevano costruito su esso»), hanno seguito i rom kalderesh di Campo Boario nel loro peregrinare dopo gli sgomberi, hanno macinato chilometri sulle rive del Tevere e dell’Aniene alla ricerca del variegato mondo delle baraccopoli, hanno invitato la popolazione lo scorso giugno allo Sleep Aut, la pratica del dormire con i sacchi a pelo per strada.
Sembrava un successo la partecipazione di mille persone (fra cui artisti come i Tete de Bois e Ascanio Celestini) ma a loro non è bastato: «su una popolazione di 3 milioni di abitanti quanti riescono ancora a indignarsi per gli sgomberi coatti?».
«Si può essere esemplari anche nel demolire le baracche – si legge in una lettera che il collettivo ha inviato al sindaco Walter Veltroni nel 2004 dopo lo sgombero del campo di Testaccio - Forse una cerimonia di addio sarebbe stato chiedere troppo, ma far sapere a quelle persone dove sarebbero andate ad abitare qualche giorno prima di demolire loro la casa sarebbe stata una normale regola di educazione civica».

l’Unità Firenze 29.6.08
Doppio appuntamento toscano per ricordare gli orrori del passato
di Valeria Giglioli


Una domenica di inizio estate nel segno della memoria: oggi sono due gli appuntamenti toscani per non dimenticare. Il primo, a Civitella Val di Chiana dove, nella ricorrenza della strage nazista che costò la vita a più di 200 persone, apre i battenti una mostra dedicata a due intellettuali, Giovanni Cau e Helga Elmqvist e promossa da Comune e Provincia di Arezzo. Dopo il trasferimento da Firenze per sfuggire ai pericoli della guerra, la coppia (lui era insegnante di scienze naturali, lei, svedese, traduttrice di favole e raffinata illustratrice) fu travolta dalla furia dei tedeschi: i loro lavori, compresa la riproduzione consultabile di una delle loro favole, saranno esposti fino al 31 luglio alla pinacoteca. L’altro, a Sant’Anna di Stazzema, per le 16 al Museo storico della Resistenza: l’incontro I sommersi e i salvati, contro la chiusura del tribunale militare di La Spezia, che mette a rischio la prosecuzione dei processi per gli eccidi nazifascisti. Ci saranno Sandra Bonsanti, l’avvocato dei familiari delle vittime di Marzabotto Andrea Speranzoni e il sindaco di Stazzema Michele Silicani. In programma anche la proiezione di Lo stato di eccezione, il documentario firmato da Germano Maccioni sul processo per le stragi di Montesole. Si chiude alle 18, nella chiesetta, con il primo concerto dedicato all’Organo della Pace, andato distrutto nel corso della strage e recentemente restaurato.

l’Unità 29.6.08
Opposizione
di Furio Colombo


Veltroni ha fatto tutto il possibile... Adesso però comincia la prova più importante: fare del partito la piazza. Una piazza in cui la storia non comincia e non finisce nel discorso del leader e negli “interventi” dei vice leader

«Chi lo ha votato lo fischia», potrebbe essere lo slogan di questi giorni. È uno slogan che descrive bene uno studio sociologico sul rapporto degli italiani con la vita pubblica.
Politicamente serve poco. Perché il Berlusconi fischiato è identico al Berlusconi votato. Il Berlusconi votato non ha mai fatto nulla per nascondere il Berlusconi fischiato. C’è infatti un’unica cosa di cui non si può accusare Berlusconi: fingersi democratico. Usa la parola, certo. Ma solo per parlare di se stesso, della sua immunità, dei suoi meriti, dei suoi poteri, del suo governo. La sua è la democrazia di uno solo, una democrazia che - come si sa - non esiste, o almeno ha un altro nome, meno benevolo: autoritarismo totalitario.
Ma l’uomo in questione è sempre stato così, si è manifestato e presentato esattamente così in ogni istante della campagna elettorale: accusa, sospetto, insinuazione, ansia di persecuzione, ricerca, a momenti persino affannata, di potere, di altro potere, di più potere.
La controprova è nel rileggere, anche a caso, vita e avventure di Silvio Berlusconi nel suo precedente periodo di governo. Se non ci fosse il senso di pericolo ci sarebbe la noia, tanto è netta la continuità e forte la somiglianza con e tra tutto ciò che ha già detto e già fatto.
È vero, ci sono istanti in cui Berlusconi prova su di se l’immagine dello statista. Ma, appunto, sono istanti. Le folte squadre di cronisti fedeli e di telecamere debitamente inclinate non fanno in tempo a stampare lodi e trasmettere servizi, che il premier ha già cancellato tutto di sua iniziativa. Niente statista. Non gli interessa. La vita è vita se è caccia al nemico.
Il nemico, a causa di un grumo di memoria privato e pubblico, fisico e politico, di paura e di battaglia, prende il nome di «cancro giudiziario». Seguìto dall’esito peggiore: i giudici come metastasi. Due terrori si impastano in un’unica lotta che è più facile da condurre: quella politica.
Cercherò di fare un inventario di ciò che vedo intorno.
* * *
Accanto a me, alla Camera, noto la vitalità di Di Pietro. Attacca tenace, riprende da capo. Non molla neppure per un istante l’impegno della legalità, come simbolo, come condizione democratica, come denuncia. Potete dire che è un ritorno all’indietro ma come definire il pauroso bradisismo italiano in cui ci fanno vivere? Siamo tutti testimoni di un Paese che si abbassa e continua ad abbassarsi di livello, qualità, dignità, e anche: quanto a risorse, forza produttiva, capacità commerciale, credibilità (ormai perduta) di ex protagonista sulla scena europea e del mondo. Ma anche per impoverimento della vita quotidiana di tanti in Italia.
Si ha un bel dire che Di Pietro rifà gli stessi percorsi del giustizialismo e dei girotondi. È vero, ma è vero per forza. L’attacco di Berlusconi ai giudici supera la pur geniale invenzione cinematografica di Moretti. Lo strano e incattivito malumore antigirotondi si sta dissipando persino nella migliore sinistra. Saranno davvero così irritati i nostri ex leader della ex sinistra se tornassero i cittadini a dire il loro no democratico, il loro sì alla Costituzione, accanto all’opposizione?
Inutile negarlo. Nel momento in cui irrompe in scena l’annuncio esplicito e sincero di attacco senza quartiere all’intero impianto giuridico del Paese, si può rimproverare a Di Pietro di farsi trovare sul percorso con una barricata di irruenti argomenti che, come primo, indispensabile risultato, frenano o almeno denunciano l’istinto di devastazione del premier travolto dai suoi fantasmi? Dicono che il linguaggio di Di Pietro sia eccessivo. Certo «magnaccia» è una parola pesante, sia pure per definire Berlusconi mentre, dall’alto del suo immenso potere politico-finanziario, è impegnato a sistemare alcune ragazze. Bonaiuti e Ghedini annunciano querele. È il loro lavoro. Si può capire. Ma «cancro» e «metastasi», le parole usate da Berlusconi per descrivere i giudici, vi paiono lievi? Il cancro si elimina col bisturi. Dunque la parola è più dura e più tragica. Chi la denuncerà?
L’astuto uomo di Arcore è caduto nella trappola: fa scenate in pubblico sui suoi affari privati davanti a platee ansiose che lo avevano eletto in cerca di risposte alle paure e ai rischi di tutti. Volete dire che la gente si aggira per i mercati rionali, dove il prezzo di frutta e verdura sale ogni giorno come il petrolio, mormorando «maledetti giudici»? Pensate che nel fare il pieno di carburante il camionista scambi con l’uomo della pompa volgari ma sentiti giudizi sul CSM che blocca il loro lavoro assolvendo la Forleo e annunciando troppo presto che il lodo Schifani è anticostituzionale?
Quanti commercianti sono stati stroncati dal complotto dei giudici che vogliono a tutti i costi processare Berlusconi? Sanno tutti che la piccola e media impresa era nel panico, quando Rete4 stava per finire sul satellite. Infatti una volta salvata la rete del premier e la sua pubblicità, la Marcegaglia, a nome di tutta l’impresa italiana, ha potuto tirare un respiro di sollievo e dire al Paese: «Finalmente un clima costruttivo».
E Augusto Minzolini, il bravo «retroscenista» che coglie al volo i segni premonitori del nuovo berlusconismo (che è una dose da cavallo del berlusconismo originale) può scrivere: «Tutto questo (il normale lavoro dei giudici, ndr) ha spinto il Cavaliere a scegliere la via maestra, quella che conosce meglio: alzare la voce e decidere. Del resto è sempre più sicuro di avere la gente con sé». «Alla Confesercenti che è di sinistra, c’è stato chi mi ha fischiato ma anche chi ha applaudito le mie critiche ai magistrati (ha detto di loro «cancro» e «metastasi», ndr). Gli italiani sono con me». (La Stampa 26 giugno).
Commentare è un po’ imbarazzante. Si tratta di una situazione mentalmente fuori controllo. È bene ricordare lo stato delle cose per capire se è vero o non è vero che Di Pietro esagera, quando si lancia, ogni volta, come un pompiere da film, contro i sempre nuovi focolai accesi e disseminati tra le istituzioni italiane dal piromane di Arcore.
* * *
Nel paesaggio italiano, per quanto triste, ci sono altri eventi che meritano di essere osservati affinché una descrizione del momento non sembri una passeggiata nel Foro romano.
Mi riferisco all’evento organizzato dai Radicali invitando tanta gente a discutere a Chianciano. E poi al dopo Chianciano e agli appuntamenti che, con il nome del primo incontro, continuano e continueranno ad avvenire a Roma. L’iniziativa di Pannella è questa: troppe persone sono rimaste fuori dalla politica, perché estranee ai partiti presenti ora in Parlamento. Questo vuol dire fuori dalla televisione. Fuori dall’inseguirsi dei dibattiti quotidiani. Vuol dire troppo silenzio.
Si può dissentire in molti modi dai Radicali (io dissento nel rapporto con la giustizia, nella richiesta di abolizione dell’azione penale obbligatoria, nel giudizio drastico sui sindacati). Ma, dal mio punto di vista, è impossibile non fare causa comune con i Radicali in tutta l’attività della Associazione Luca Coscioni, del Tibet, di «Nessuno tocchi Caino», di «Iraq libero» (che voleva dire: via Saddam e niente guerra).
Però - d’accordo o non d’accordo - è impossibile non cogliere nel lungo percorso di Pannella fino ai giorni nostri, il seme pedagogico dello spingere alla discussione politica, in tutti i modi e per qualsiasi ragione. Nel caso di Chianciano, la ragione più importante era evitare il silenzio.
Il campo è sgombro da equivoci perché, come sempre accade dalle parti dei Radicali, non c’è l’ombra del potere.
Ricordo un piccolo film scritto da Woody Allen, quando era già autore geniale ma non ancora regista. In quel film i soldati cominciano a gridarsi frasi da una postazione all’altra, poi si intestardiscono a precisare e a chiarire. Lasciano i bunker opposti e si lanciano in una discussione di ognuno con tutti gli altri. Quasi allo stesso modo, Chianciano ha risposto (o cercato di rispondere) a una domanda che tormenta molti: e adesso con chi parlo di politica? E dove?
Il senso era, mi pare, interrompere la solitudine e i tanti monologhi un po’ autistici che ti raggiungono da tutte le parti. Io non c’ero a Chianciano. Ma - ascoltando Radio radicale - ho l’impressione che la strana idea stia funzionando. In ogni caso continua. E mi piacerebbe che contagiasse il Partito democratico.
* * *
Veltroni ha fatto tutto il possibile. Ha afferrato per i capelli una campagna elettorale che poteva essere vuota e ha riempito molte piazze. Ha perso una cosa, le elezioni, e ne ha vinta un’altra: l’inizio dell’esistenza e della vita politica di un partito che non c’era, il Pd. Adesso però comincia la prova più importante: fare del partito la piazza. Una piazza in cui la storia non comincia e non finisce nel discorso del leader e negli «interventi» dei vice leader. Una piazza in cui «si parla con» e non «si parla a».
No, non sto celebrando l’assemblearismo. Sto cercando il tipo di democrazia che alza la soglia di dignità e di passione dei cittadini attraverso la partecipazione. Uno spazio nato per essere crocevia di nuovo impegno comune e di impegno urgente, in un tempo molto pericoloso. Il Pd non può diventare un circolo ufficiali, con un annesso club dei cadetti. La truppa e le salmerie aspettano fuori. Mentre il vice ammiraglio Bindi discute animatamente con il maggiore Fioroni e il colonnello Parisi avverte il Comando del suo dissenso alla presenza dell’aiutante di campo Realacci, la truppa là fuori potrebbe andarsene.
«Ci sentiamo soli» hanno detto alla nostra Maria Zegarelli (l’Unità 27 giugno) i cittadini rimasti fedeli alla Festa dell’Unità di Roma (si chiama ancora così, come quando c’era la sinistra) evidentemente in attesa di essere raggiunti da un segnale che voglia dire «siamo qui, siamo insieme, ecco ciò che stiamo per fare». Difficile non capirli, dati i tempi.
Sono i tempi di un feroce, nevrotico attacco alla Giustizia. si sta creando come se fosse ovvio, normale, tipica una vistosa condizione di incompatibilità mentale e ambientale tra Berlusconi e la sua carica.
Sono i tempi del tentativo del premier di essere esente da ogni imputazione come nessun premier al mondo (salvo monarchi e Capi di Stato).
Sono i tempi delle punizioni che si abbatteranno su chi oserà pubblicare atti veri e legali (come le intercettazioni dei giudici), in modo che il potere risulti intoccabile.
Sono i tempi in cui i due ministri degli Esteri e della Difesa italiani chiedono insistentemente che i soldati italiani, che già sono impegnati a tentare progetti di aiuto e di pace, questi soldati, trattati come se fossero imboscati, vengano finalmente mandati a morire. Intanto aerei da combattimento costosi come ospedali vengono generosamente offerti in modo così precipitoso da far dire ai colleghi della Nato: «va bene, va bene, un momento di pazienza...».
E certo l’ansia dei due ministri italiani deve avere provocato qualche sorpresa. Nessuno è così impaziente di spingere nei punti peggiori di un fronte i propri connazionali.
Sono tempi di ronde, di vigilantes, di impronte digitali ai bambini Rom, di militarizzazione di un Paese che fino a poco fa era in pace.
Ma, diciamo la verità, sono i tempi del silenzio. E questo isola e angoscia i milioni di italiani che hanno votato per il Pd. Non potremmo, non dovremmo chiudere il circolo ufficiali e unirci con atti e parole forti, e impegni immediati, e chiarissimi «no», ai cittadini che aspettano? È vero, ci sono cose che il governo di Berlusconi sta proponendo che sono, allo stesso tempo, odiose, immorali e «ben viste» dai cittadini, dopo che con tanto impegno è stato seminato il sospetto e coltivata la paura. Adesso, come si sa, la parola-grimaldello, capace di far saltare ogni obiezione, anche a sinistra, è «sicurezza», benché, fuori dalle regioni di mafia, camorra e ’ndrangheta a cui il severo ministro Maroni non presta alcuna attenzione né prevede alcuna ronda, l’Italia sia il Paese statisticamente più sicuro d’Europa.
Ma proprio questa è la prova più ardua e più alta: dire la verità quando tutti ti fanno credere un’altra cosa. Vorrei ricordare il libro «Profili nel coraggio» che nel 1959 ha reso celebre il suo autore, John Kennedy, e ha aperto la strada alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti. Era una serie di esempi di statisti che hanno avuto il coraggio di battersi per una causa persa, ma moralmente necessaria, fino a rovesciare il gioco e a vincere.
Non varrebbe la pena di cominciare dai bambini Rom, di proclamare che siamo noi, il Pd, la loro difesa, fino a rendere impossibile questo trauma volgare e ingiusto a danno dei bambini? Non dovremmo essere noi, il Pd, a intervenire in difesa della Polizia italiana che finora non ha mai fatto foto segnaletiche di piccoli, italiani o stranieri, e si è occupata di loro (i bambini) solo per proteggerli? Non dovremmo cominciare subito con il partecipare ad una «giornata per la Giustizia» contro il tentativo di impiantare un potere senza limiti fondato sull’umiliazione dei giudici e su un Parlamento fantasma?
furiocolombo@unita.it

Repubblica 29.6.08
E Sd sfida il Pd: disobbedienza civile
Prc, Bertinotti sconfitto nella sua sezione


Al circolo Musu, dov´è iscritto anche Ingrao, la mozione Ferrero ha prevalso per 41-7 contro quella di Vendola

ROMA - Brutta sconfitta "casalinga" ieri per Fausto Bertinotti. Roma, quartiere Nomentano. Nel congresso del circolo "Musu" del Prc, dov´è iscritto l´ex presidente della Camera, la mozione proposta da Ferrero ha stravinto: 41 voti contro i 7 della mozione Vendola, sostenuta da Bertinotti. La mozione vincente è stata presentata da Raul Mordenti, leader dei movimenti del ‘68 e del ‘77. Dall´altra parte, Alfonso Gianni, ex sottosegretario. Che la prende con filosofia: «Mi aspettavo 5 voti e non 7. Ne ho spostati due». Battute a parte, per Gianni la sconfitta era attesa: «Il leader della sezione, il sindacalista Cgil Sante Moretti, ha trascinato quasi tutti i voti. E comunque Bertinotti non ha mai fatto attività di sezione, è iscritto lì perché abita lì». Come Pietro Ingrao, che ieri era assente.
Sempre ieri si è chiusa a Chianciano l´assemblea nazionale di Sd. Applauditissimo Fabio Mussi, che raccogliendo l´invito al dialogo di Walter Veltroni ha rilanciato: «La critica sia reciproca. Su sicurezza o immigrati ho molto da rimproverare al Pd». L´ex ministro lancia una sfida al Pd: condividere, nella lotta al governo Berlusconi, atti di disobbedienza civile: «Se un militare ci ferma, rifiutiamoci di fornire le generalità. Se in un campo rom prendono le impronte ai bambini, portiamoci anche i nostri figli».
(m. fv.)

l’Unità 29.6.08
Scambio di dati personali, Stati Uniti ed Europa a un passo dall’accordo
Secondo il New York Times l’intesa consentirebbe a polizie e agenzie di intelligence di ottenere informazioni su viaggi, spese con carte di credito e ricerche sul web


FRA PRIVACY e sicurezza vince la sicurezza. Fra regole Ue e regole Usa, vincono gli Usa. Dopo 7 anni di discussioni, da quel 2001 che ha visto l’America scoprirsi vulnerabile sarebbe vicino, secondo il New York Times, un accordo che consentirà alle polizie e alle agenzie di intelligence europee e statunitensi di scambiarsi informazioni private su persone che vivono di qua e di là dell’oceano. Spese con carte di credito, viaggi, perfino le ricerche effettuate sul web: un Grande Fratello che attraversa l’Atlantico.
Il giornale newyorchese ha ottenuto una bozza dell’intesa che, una volta approvata, segnerà un successo diplomatico per i servizi antiterrorismo americani che si sono spesso scontrati con le norme europee più restrittive sull’uso dei dati personali dei cittadini.
Secondo il quotidiano è dal febbraio 2007 che le parti stanno negoziando e hanno già raggiunto un consenso di massima su 12 temi centrali dell’accordo internazionale «a carattere vincolante». L’amministrazione Usa preferirebbe chiudere prima della fine del mandato del presidente George W. Bush il prossimo gennaio, mentre da parte europea si preferirebbe attendere il 2009 e la conclusione del processo di ratifica del Trattato di Lisbona, che d’altro canto sta incontrando nuove difficoltà dopo il no degli elettori irlandesi nel referendum di due settimane fa. Restano comunque aperte alcune importanti questioni: tra queste la possibilità per i cittadini Ue di far causa al governo degli Stati Uniti per l’uso dei propri dati personali, una eventualità al momento esclusa dalla legislazione americana per i cittadini stranieri ma che potrebbe garantire una più facile accettazione di norme tanto distanti da quelle comunitarie.
La bozza di negoziato è scaturita da due conflitti transatlantici dopo le stragi dell’11 settembre: la polemica sulla richiesta americana di dati sui passeggeri partiti da scali europei e in rotta per gli Usa e quella sul consorzio bancario Swift che segue le tracce dei trasferimenti bancari internazionali. In entrambi i casi gli americani volevano avere accesso ai dati per indagare su potenziali attività in odore di terrorismo: molti paesi europei avevano obiettato adducendo come ragione del no la violazione delle norme nazionali sulla privacy.
Il nuovo testo è stato elaborato dai ministeri della Sicurezza Interna, della Giustizia e dal Dipartimento di Stato americano con le rispettive controparti europee.
Ue e Usa, ha detto al New York Times Stewart A. Baker, vice segretario di stato per la sicurezza interna, stanno cercando di evitare future controversie «trovando un terreno comune sulla privacy e concordando sul fatto che non si possono imporre obblighi conflittuali alle società private». Le indiscrezioni sull’accordo hanno provocato un’alzata di scudi tra gli attivisti per i diritti del cittadino nel timore che le norme a tutela della privacy possano facilmente essere aggirate.
Nell’accordo si afferma ad esempio che un governo non può usare informazioni che rivelino razza, religione, opinioni politiche, salute o vita sessuale «a meno che la legislazione nazionale non preveda appropriate salvaguardie».
La bozza però non precisa cosa venga considerata un’ “appropriata salvaguardia”, suggerendo che ogni governo decida da solo se sta rispettando questa regola.

Corriere della Sera 29.6.08
Cinese in esilio, il premio Nobel per la Letteratura risale alle fonti della sua ispirazione. Dove si fondono Oriente e Occidente
Gao Xingjian. Le mie parole d'acqua e fuoco
«Così gli elementi naturali plasmano i romanzi e la pittura»
di Gao Xingjian


«Per sopravvivere in patria ho dovuto imparare a controllare la collera, che spesso — quando ero giovane — era furiosa ed esplosiva»
«L'aria possiamo definirla anima, senza significato religioso: l'anima è uno stato dello "spirito", che evoca e dal quale si emanano le sensazioni»

Scegliere uno dei quattro elementi, Aria, Acqua, Fuoco, Terra. Scegliere uno dei quattro elementi, identificando in esso la mia predominante interiore e riconducendo a esso la mia opera artistica, per me è molto difficile. La concezione dei quattro elementi, che secondo le teorie dell'antichità occidentale componevano il mondo, corrisponde alla visione del mondo che si aveva nell'antichità in Cina, anche se con alcune differenze. Gli elementi, nella visione cinese, sono cinque e non coincidono perfettamente con quelli occidentali. Abbiamo l'acqua, il fuoco, la terra, ma anche il metallo e il legno. Non c'è invece l'aria. Prima di questa concezione del mondo, in Cina ne esisteva un'altra, alla base dello yin e yang, secondo la quale al contrario tutto proveniva dall'elemento aria. La pratica esoterica di interpretare un individuo a partire da un elemento esisteva in Occidente come in Cina ed esiste tuttora.
Sia rimanendo all'interno del pensiero occidentale sia aderendo a quello cinese, sceglierne uno, ripeto, per me è difficile. In me c'è l'elemento fuoco, non come forza distruttrice, ma come permanenza di uno stato costante di energia. Mi sento molto vicino però anche all'elemento acqua, che più rappresenta per me la vita. L'acqua scorre in molte delle mie opere. E' il corso del fiume Yangzi al centro del romanzo La montagna dell'anima, è il mare profondo e tenebroso sotto la luna in cui nuota l'uomo nel racconto Il crampo, la pozza di acqua fangosa, come una palude che invade lo spazio del magazzino dove si sono rifugiati i tre protagonisti del testo teatrale La fuga, il fiume dell'oblio nell'altro testo teatrale L'altra riva, l'inchiostro di china che uso per dipingere i miei quadri e che si allarga come una macchia liquida nel film La silhouette sinon l'ombre. L'acqua è forse una dominante, ma nello stesso tempo mi sento profondamente radicato anche alla terra, piantato con radici profonde. È il mio essere realista. Ma la mente spesso si libra, vola senza ostacoli, ecco l'aria.
In me, sento che gli elementi aria e terra sono inoltre strettamente legati così come lo sono l'altro polo di opposti, fuoco e acqua. È per questo motivo che mi è assolutamente difficile, se non impossibile, prendere delle distanze da un elemento piuttosto che da un altro. La compresenza dei quattro elementi crea un equilibrio nei contrasti. Tale equilibrio è stato una conquista del tempo. Se lascio sfuggire il mio fuoco, tutto viene messo in crisi. Nel passato, quando ero giovane, accadeva che il fuoco eruttasse come un vulcano. La collera era furiosa ed esplosiva. Ma sotto il regime politico che c'era in Cina, non riuscire a contenere la propria collera era pericolosissimo e mi sono trovato in situazioni davvero problematiche. Ho dovuto imparare, per sopravvivere e non ammalarmi, a controllare il fuoco e a metterlo in armonia con gli altri elementi. Regolare questi elementi contraddittori è veramente un'arte per la vita, è l'arte della vita. Legarmi e legare i quattro elementi mi hanno «destinato » ad amare la natura, la grande natura fisica e la natura umana. E a non pormi in una posizione di giudizio. Non serve a niente dire questo è buono, questo è cattivo. Tutto ciò che esiste ha caratteristiche determinate dalla natura, deve e può essere così e non altrimenti. Sta a noi accettarlo, come parte necessaria della vita. È questo trovare l'equilibrio e provare a non essere infelici. Se parliamo però di natura, nel mondo fisico, non possiamo non parlare anche di scienza e conoscenza scientifica. Essa avanza a velocità impensabili un tempo. La conoscenze e la lettura che diamo di certi fenomeni fisici sono sottoposte rapidamente all'usura del tempo. Ciò che era valido venti anni fa adesso è già superato. Al contrario, nell'arte e nella letteratura, i quattro elementi che vengono applicati alla natura e alla lettura dell'interiorità dell'uomo, di cui sono il riflesso, conservano sempre il loro valore, poiché toccano le sensazioni e sensi: la vista, l'olfatto, l'udito, il tatto. Tutto può essere direttamente captato attraverso i sensi dell'essere umano. L'arte e la letteratura hanno così un linguaggio proprio e diverso rispetto a quello della scienza. Mentre la razionalità e l'analisi, a partire dai mezzi tecnici che vengono adoperati per sperimentare e verificare, sono alla base della scienza, nell'arte tutto deve essere legato dalle sensazioni. Parlando di arte figurativa, trovo che l'arte contemporanea sia diventata molto concettuale, perfino molto «tecnica». Mi sembra che manchi proprio del linguaggio delle sensazioni e che l'influenza del linguaggio scientifico sia eccessiva. Ma la scienza non può sostituire l'arte e il suo linguaggio non può essere quello della creazione artistica. Dovremmo ritornare al linguaggio dell'arte come linguaggio delle sensazioni umane. Abbiamo avuto il culto del meccanicismo all'inizio del XX secolo. È ciò che ha dato impulso alla nascita dell'arte moderna. Ma ormai è il passato. Il culto del linguaggio scientifico adesso è come un gioco da bambini, porta a un paradosso. Ciò che sembrava aderente al proprio tempo e all'avanguardia dal punto di vista scientifico venti anni fa, adesso, con i passi da gigante che fa la scienza, diventa ridicolo. Così, un'opera d'arte che porti in sé quel linguaggio è immediatamente superata e viene meno al carattere di eternità e di valore nel tempo che dovrebbe avere, di cui invece sono testimonianze bellissime molte opere dell'arte romana e greca. Ma l'arte per sopravvivere al proprio tempo deve avere fare appello alle sensazioni umane. E questo perché l'essere umano in fondo è immutabile. Pensiamo di cambiare, ma i principi di fondo che ci governano sono gli stessi da sempre. I quattro elementi, evocando le sensazioni umane, sono alla base del linguaggio dell'arte e della creazioni artistica. Se poi pensiamo in particolare all'elemento aria, noi parliamo dello «spirito». Quando nella teoria dei quattro elementi applicata all'interiorità dell'uomo diciamo «aria», non pensiamo certo alla composizione chimica dell'aria, ma facciamo appello allo «spirito », che è quanto c'è di più profondamente legato alla natura umana dal punto di vista psichico. L'aria, allora, possiamo definirla «anima», non alludendo al concetto religioso. L'anima è uno stato dello «spirito», che evoca e dal quale si emanano le sensazioni. Il linguaggio della creazione artistica è quindi legato all'anima. Noi sentiamo in un'opera se quest'anima esiste e nell'osservatore spettatore questo provoca un'eco. Anche una volta che l'artista è morto, se l'opera ha un'anima, riuscirà a trasmettere delle emozioni, a veicolare la propria anima a chi si troverà a contemplarla, godendo di una proprietà transitiva. I quattro elementi costituiscono un linguaggio per la creazione artistica poiché si basano sullo studio dei sensi e delle sensazioni. E in questo modo, si trasformano da elementi materiali in spirituali.
(Testo tradotto e curato da Simona Polvani)

Corriere della Sera 29.6.08
Un saggio di Jonathan Baron contesta le certezze del «mondo latino» e riapre il dibattito
Bioetica, quando l'utile è morale
La lezione degli scienziati anglosassoni: empirici e possibilisti
di Edoardo Boncinelli


Il conflitto
In questa «guerra di religione» si fronteggiano pragmatismo e utilitarismo da una parte, essenzialismo e normativismo dall'altra

Una guerra di religione o, se preferite, di mentalità, è in atto da un certo numero di anni qui, al centro dell'Europa; una guerra culturale che vede da una parte principalmente l'Italia, e alcune frange di altri Paesi latini, e dall'altra il mondo anglosassone. Certamente meno devastanti del razzismo, ma più sornione, pervasive e forse perniciose, le guerre di religione offrono a chi le combatte il vantaggio di potersi sentire buono, se non santo: si lotta per i propri valori e la propria identità. E ci si sente moralmente superiori. «Gli altri» al contrario non hanno sensibilità, sono barbari, mentre è inutile far notare che, come in ogni guerra, esistono persone degnissime da una parte e dall'altra e loschi figuri sull'una e sull'altra sponda. Nel caso specifico si fronteggiano pragmatismo e utilitarismo da una parte ed essenzialismo e normativismo dall'altra, per non parlare degli opposti atteggiamenti dei due mondi verso il materialismo e l'empirismo. Nel campo morale gli uni amano quasi sempre veder adottare norme universali imposte una volta per tutte, gli altri preferiscono un atteggiamento possibilista e maggiore disponibilità a decidere caso per caso.
La divergenza, nata probabilmente con lo sviluppo della filosofia inglese del Sei-Settecento, nelle sue articolazioni conoscitive e morali, ha raggiunto una nuova notorietà e grande popolarità con il diffondersi delle questioni bioetiche e più in generale con l'imporsi del dibattito pubblico sugli interrogativi sollevati dalla biomedicina. Nelle questioni bioetiche la mentalità angloamericana è avversata apertamente dalle gerarchie della Chiesa cattolica, ma anche da esponenti della cultura laica italiana che affermano con un sospiro che gli anglosassoni hanno una cultura e una sensibilità differenti, ovvero una cultura e una sensibilità sbagliate. Qualcuno in passato si è appellato addirittura a Kant, che sarebbe debitamente preso in considerazione dalle nostre parti, ma non da «quelli», e qualcuno è arrivato a demonizzare tutto ciò che si fa o si dice in campo bioetico soprattutto in Inghilterra, ma anche negli Stati Uniti e in Canada.
Come succede quasi sempre in questi casi, molte affermazioni nascono dall'ignoranza, per esempio a proposito della natura dell'utilitarismo, una dottrina filosofica considerata con grande sufficienza nel nostro Paese — al punto che nel linguaggio quotidiano l'aggettivo «utilitaristico » ha una connotazione assai negativa — ma che possiede invece un grande valore morale e politico se letto e studiato nella sua formulazione più autentica. Si tratta spesso di un vero e proprio abbaglio filosofico, alimentato da interessi culturali non sempre trasparenti.
Queste considerazioni mi sono venute prepotentemente alla mente leggendo Contro la bioetica di Jonathan Baron (Raffaello Cortina, a cura di Luca Guzzardi), un libro molto ponderato, aggiornato e coraggioso, centrato su alcuni aspetti particolari del ragionamento bioetico di oggi. Il titolo non deve ingannare; non si tratta di un libro contro la bioetica, ma di un tentativo sistematico di riconsiderarne alcuni lati sotto varie angolature. «Questo libro — dice infatti l'autore proprio all'inizio dell'opera — mette in relazione tre aree di ricerca che coltivo da anni: la teoria della decisione, l'utilitarismo e la bioetica applicata». Non insisterò sull'utilitarismo, una posizione che «ritiene che la scelta migliore sia quella che comporta il maggior bene atteso», perché ciò richiederebbe un discorso troppo lungo, ma vale la pena spendere due parole sulla moderna teoria della decisione, una disciplina che sta divenendo sempre più importante.
Partendo dalla considerazione che i pareri in tema di bioetica «tendono a fondarsi sulla tradizione e su giudizi intuitivi», l'autore ci ricorda quanto fallaci possano essere proprio i giudizi basati sull'intuizione e sulla prima impressione. Esistono ormai molti lavori, più o meno estesi e articolati, che illustrano tale punto con grande dovizia di particolari. Messo alla prova della logica, il nostro cervello fornisce molto spesso giudizi infondati e lo fa quasi sempre se deve pronunciarsi in fretta. È anche per questo motivo che molte cose costano 19,99 euro invece di 20 o 699 invece di 700. Se è costretto poi a ripensarci e a considerare le cose con più calma, il cervello di ciascuno di noi può anche ricredersi e formulare giudizi più corretti, ma in prima battuta siamo tutti inclini a sbagliare. E sempre nella stessa, prevedibile direzione. Sarebbe assurdo, dice Baron, non tenere conto di queste nostre tendenze innate, soprattutto oggi che le conosciamo bene, e arriva a proporre una sua «analisi utilitarista delle decisioni », una forma di ragionamento e di valutazione che potrebbe portare i comitati di bioetica o il consulente bioetico singolo a sbagliare di meno. Qualcuno potrebbe ribattere, dice il nostro autore, che gli eventuali sbagli sono «semplicemente il prezzo della moralità, ma quale "moralità" ci autorizza a peggiorare la situazione di qualcun altro? ». Al di sopra e al di là delle guerre ideologiche personali, dovrebbe esserci un'attenta e sollecita considerazione per il disagio e il dolore del singolo interessato: gli ideologi disputano, ma è il singolo che soffre. Lui e la sua famiglia.
Il saggio di Jonathan Baron, «Contro la bioetica», è edito da Raffaello Cortina (pp. 322, e 28)

Corriere della Sera 29.6.08
Cagliari: 85 fra olii, bronzi, cementi, marmi a Palazzo Regio per i vent'anni dalla morte
Un sardo per le strade di New York
Costantino Nivola fra Marino Marini, Le Corbusier e Léger
di Sebastiano Grasso


Un antenato? In lamiera verniciata.
Sebastiano Satta? In terracotta. Il modello per il monumento alla Brigata Sassari? In bronzo. L'ingegnere? In marmo. Emilio Lussu? Dipinto a olio. Bozzetti per giornali e riviste? A tempera.
Cagliari ricorda i vent'anni dalla morte di Costantino Nivola (1911-1988) con una mostra di 85 opere, molte delle quali esposte per la prima volta, rintracciate in case private della Sardegna e di cui non si aveva notizia. Al progetto della rassegna, a cura di Carlo Pirovano (catalogo Ilisso) ha lavorato anche la vedova dell'artista, Ruth Guggenheim. Ma nel gennaio scorso se n'è andata per sempre e, adesso, hanno deciso di dedicargliela.
Nivola, sardo di Orano (Nuoro), nel 1921 incontra la studentessa americana a Monza, dove s'è trasferito, con una borsa di studio, all'Istituto per le industrie artistiche. Ha vent'anni: la sposa nel '38.
A Monza, insegnano anche Arturo Martini e Marino Marini. La frequenza dei loro corsi fa sì che Nivola acquisisca una nuova concezione della scultura e la confronti col palcoscenico arcaizzante dei nuraghi. Nascono qui, le sue prime intuizioni e una nuova maniera di vedere il mondo. Fra i docenti, ci sono anche Raffaele De Grada, Pio Semeghini, Edoardo Persico e il grafico Marcello Nizzoli. E proprio in grafica pubblicitaria si specializza il giovane Costantino che, nel '37 va a dirigere la sezione grafica della Olivetti. A Milano ha anche modo di frequentare alcuni letterati come l'ingegnere-poeta Sinisgalli, Quasimodo (che fa avanti e indietro con Sondrio), Gatto, Cardarelli e altri. L'inizio non poteva essere più promettente.
Poi, nel '39, per evitare i Fasci, dopo un breve soggiorno a Parigi, salpa per New York. «Ho bussato alle porte di questa città meravigliosa e centinaia di porte, finestre e cuori si sono aperti. Il doganiere era sconcertato dal mio bagaglio composto di ingenuità, talento e accento straniero» scriverà anni dopo.
Le opere di Cagliari ripercorrono buona parte dell'avventura di Nivola. Dai bozzetti del '34, agli olii anni Quaranta, alle sculture in gesso, sabbia, cemento e tempera anni Cinquanta (per cui inventa la tecnica del sand casting),
ai mappamondi in bronzo, alle figure in marmo, e così via. Un paio di figure femminili ( La madre sarda e la speranza del figlio meraviglioso, per esempio) e L'archeologo fortunato appartengono all'ultimo periodo della sua vita. Pittura, scultura. E ritorno alla pittura.
Una sorta di osmosi fra le varie tecniche gli permette di passare dall'una all'altra con grande facilità, di amalgamare suggestioni antiche con concezioni modernissime («La mia perpetua condizione di naufrago mi permette di salire e scendere quando voglio dal treno del determinismo storico dell'arte moderna e di abbandonare i binari diritti, dove molti miei colleghi sono stati uccisi dalla noia» annoterà).
Così come Martini e Marini hanno incidono profondamente nella sua formazione giovanile, eguale rilevanza avranno, successivamente, Le Corbusier (il quale, nel '46, per un paio d'anni, dipinge nel suio studio) e Fernand Léger. Nivola comprende che alcune delle sue sculture, per respirare, devono essere inserite in strutture architettoniche, sino a creare un tutt'uno.
A New York vive fra il Greenwich Village e Long Island. È lì che incontra De Kooning e Pollock. Ed è lì che riesce a coniugare l'«ancestrale ascendenza mediterranea» col «purismo» di Fernand Léger e la «funzionalità» di Le Corbusier.
COSTANTINO NIVOLA Cagliari, Palazzo Regio, sino al 30 agosto. Tel. 366/3890755.


Repubblica 29.6.08
Come hanno ridotto noi poveri italiani
di Eugenio Scalfari


Nel 1972 due giornalisti del Washington Post iniziarono un´inchiesta sui comportamenti del presidente degli Stati Uniti d´America, Nixon, e dell´entourage dei suoi più intimi collaboratori, accusati di aver spiato i loro avversari del Partito democratico. L´inchiesta andò avanti per due anni con una serie di articoli sempre più documentati e sempre più aspri nei confronti del Presidente, supportati da documenti e testimonianze spesso coperte da anonimato. La Casa Bianca cercò in tutti i modi di intimidire l´editore (anzi l´editrice) di quel giornale senza riuscirvi. Due anni dopo, nel 1974, Nixon si dimise dalla carica per evitare l´imminente e ormai inevitabile messa in stato d´accusa da parte del Congresso.
Nel 1998, cioè ventiquattro anni dopo la conclusione del "Watergate", scoppiò lo scandalo Lewinsky, subito battezzato "Sexygate". Questa volta il bersaglio fu Bill Clinton, presidente democratico. Il reato non era neppure un reato ma pratiche di sesso orale effettuate ripetutamente nella sala ovale della Casa Bianca. Per mesi e mesi i giornali e le televisioni americane e di tutto il mondo aprirono le loro pagine alle rivelazioni sul sesso orale tra Monica e Bill, i protagonisti furono intervistati decine di volte e così pure Hillary, la moglie del Presidente. La vita privata e le intemperanze sessuali di Clinton furono raccontate nei minimi dettagli. Alla scadenza del mandato il giovane Bush, repubblicano, vinse le elezioni a mani basse.
Nessuno in America propose restrizioni alla libertà di stampa. Casa Bianca e Congresso non vararono alcuna legge che vietasse alcunché alla stampa essendo che, per radicata convinzione degli americani, la vita privata e quella pubblica dei politici sono sempre state sotto il controllo dei "media" senza restrizioni di sorta se non nei casi di diffamatoria e calunniosa non verità.
Poche settimane fa è stato presentato al Festival cinematografico di Cannes il film "Il divo" del regista Sorrentino che si è guadagnato il premio della giuria. Il protagonista è un bravissimo attore italiano che impersona Giulio Andreotti, l´accento complessivo del film è colpevolista anche se non risolve volutamente l´enigma di quell´uomo politico che fu sette volte presidente del Consiglio e fu accusato dai giornali e dai tribunali di ogni genere di nefandezze.
Andreotti non ha querelato gli autori del film. Dico di più: Andreotti è stato coinvolto in processi gravissimi, condannato a gravissime pene nei processi di primo grado, poi ridotte o cancellate in appello e definitivamente annullate in Cassazione. Lui non si è mai sottratto ai processi; li ha affrontati e i suoi avvocati l´hanno difeso con tenacia e composta professionalità. Niente a che vedere con il piglio eversivo dell´avvocato Ghedini, difensore di Silvio Berlusconi e redattore delle leggi "ad personam" in favore del suo cliente.
Ricordo qui i casi di Nixon, di Clinton e di Andreotti perché segnano una differenza abissale rispetto al caso Berlusconi. Differenza che riguarda contemporaneamente i protagonisti dei quattro casi, il conformismo della maggior parte della stampa italiana rispetto a quella americana, l´imbambolamento dell´opinione pubblica nostra rispetto alla reattività di quella d´oltreoceano e infine l´incapacità dei parlamentari del centrodestra di distinguere il loro ruolo di membri del potere legislativo dalle insane voglie d´un presidente del Consiglio che si vuole affrancare da ogni controllo istituzionale, giudiziario, politico, mediatico.
* * *
Bisogna tutelare la dignità privata delle persone. Principio sacrosanto. Per tutelarla c´è il codice penale e i previsti reati di calunnia e di diffamazione. Aggravata per mezzo della stampa. Se le pene si ritengono troppo lievi è giusto aggravarle. Se i processi procedono con lentezza si faccia in modo di renderli più veloci. Del resto contro la stampa di solito si procede per "direttissima".
Per proteggere la dignità dei privati (e anche degli uomini pubblici) occorre che la dignità vi sia. Nixon che usa i suoi poteri di presidente per spiare gli avversari politici non ha dignità. Clinton che si rotola sui tappeti della sala ovale con Monica non ha dignità. Berlusconi che traffica con un dirigente della Rai per collocare veline a lui ben note, favorisce quel medesimo dirigente per sue future iniziative private, negozia accordi collusivi tra Rai e Mediaset con dirigenti del servizio pubblico e perfino con un membro dell´Autorità di controllo delle comunicazioni e che infine usa alcuni di questi suoi poteri per convincere membri del Senato ad abbandonare la maggioranza e passare dalla sua parte, non ha dignità.
Ma ne ha ancora di meno quando ritaglia la sua silhouette di imputato in una legge blocca-processi, che intaserà l´intero sistema giudiziario. Nel contempo manda avanti una legge che faccia da scudo alle quattro alte cariche dello Stato. Il tutto con la connivenza dei presidenti delle Camere i quali consentono che vengano inseriti emendamenti inaccettabili e inammissibili in testi di decreto approvati dal presidente della Repubblica.
Giorgio Napolitano ha ben presente il suo ruolo "super partes" anche se le iniziative scriteriate del "premier" rendono sempre più stretto il suo spazio di mediazione. Ma si può star certi che userà i poteri di sua competenza se, nel momento in cui il disegno di legge sull´immunità delle alte cariche dello Stato sarà presentato in Parlamento e calendarizzato, la maggioranza non ritirerà l´emendamento blocca-processi inserito surrettiziamente nel decreto legge sulla sicurezza. Si può star certi che il capo dello Stato rinvierà alle Camere una legge che contenesse quell´emendamento sciagurato, inserito a sua insaputa e non bloccato come sarebbe stato suo stretto dovere dal presidente del Senato. Non già per incostituzionalità, ma per mancanza dei requisiti di urgenza. Della costituzionalità dovrà occuparsi la Corte quando sarà chiamata in causa, sia per la legge sulla sicurezza sia per l´immunità delle alte cariche e per la durata di quel privilegio immunitario.
Un collega cui non manca il talento ma che sta soffrendo (così mi sembra) d´un preoccupante prolasso di moralità deontologica, ha scritto di recente della necessità di concedere a Berlusconi una sorta di salvacondotto giudiziario; solo così, a suo avviso, si potrà risolvere l´anomalia italiana. Naturalmente chi dovrebbe prendersi carico di questa delicata operazione dovrebbe essere l´opposizione che metterebbe così le basi per affermarsi e legittimarsi di fronte alla pubblica opinione.
Favorire le scelleratezze (o le mattane) politiche d´un imputato assurto ai vertici del potere per acquistare credito da una pubblica opinione in larga misura cloroformizzata: è vero che il cinismo è di moda in politica, ma non dovrebbe spadroneggiare anche nei "media". Invece spadroneggia eccome! Questo del salvacondotto è un culmine da primato.
* * *
Lo confesso: ho un debole per la Marcegaglia. È chiara, decisa, dice sì sì, no no. Una capigliatura ondosa. Una femminile virilità. La sua ricetta è meno tasse, meno spese, salari agganciati alla produttività. Il programma di Berlusconi e anche di Tremonti, ma con qualche variante di non piccolo rilievo.
Prima variante: di diminuire le tasse non se ne parlerà fino al 2013. Avevano promesso di portare la pressione fiscale dal 43 al 40 per cento, ma ora che i voti li hanno avuti ci informano che nel 2013 la pressione fiscale sarà del 42,90. È contenta la Marcegaglia? Mi piacerebbe saperlo ma lei di queste cose non parla anche se su questo punto hanno fatto il diavolo a quattro ai tempi di Padoa-Schioppa e di Visco. Loro almeno i soldi li prendevano agli evasori e a Confindustria hanno dato cinque punti in meno di Irap e Ires. Tremonti l´Ires l´ha già riportata al livello originario, cinque punti e mezzo in più. È contenta signora? Lo dica, sì sì, no no, non muore nessuno.
Qualcuno veramente ci lascia la pelle per uno straccio di contratto precario o in nero. Non dovreste espellerli da Confindustria quelli che assumono in nero?
Le spese. Tagliare gli sprechi va bene. Continuità con Padoa-Schioppa. L´Ufficio studi della Confindustria l´ha onestamente ricordato: continuità. Ma Tremonti non taglia solo le spese intermedie, taglia tutto. Tremonti è bravo. Ma lei, gentile Emma, constata con molto disappunto che la crescita nel 2008 sarà zero e nel 2009, se va bene, salirà allo 0,6. Andiamo di lusso. Con l´inflazione al 3,6 e per energia e alimentari al 5,5.
Crescita zero. Investimenti sotto zero. Taglio di spese deflatorio. Però due miliardi buttati per l´Ici. Trecento milioni buttati per Alitalia, che stanno per diventare un milione e mezzo se Banca Intesa darà il disco verde. Sommiamo queste cifre e aggiungiamoci l´elemosina dei 500 milioni "una tantum" ai pensionati poveri. Sono già quattro miliardi buttati dalla finestra. Però niente aumento dei salari se non aumenta la produttività.
Ma i suoi industriali, gentile Marcegaglia, loro per la produttività non è che abbiano fatto miracoli. Salvo il costo del lavoro da comprimere. Prodotti nuovi? Non se ne parla. Ricerca? Idem. Intanto crolla la Borsa. Non è colpa sua, signora Emma, né di Tremonti, né di Draghi. Però crolla. Trichet alzerà i tassi mentre la Fed li abbasserà. Chi ha ragione? Forse Draghi dovrebbe esprimersi e forse anche Tremonti e magari anche Confindustria.
Berlusconi è esentato. Lui si occupa di processi con Ghedini, di militari in strada con La Russa e di schedatura dei "rom" con Maroni. Ha ragione quel genio di Altan sull´ultimo numero dell´Espresso: una donnina con le labbra rosse e gli occhi pensierosi dice: «Ho paura ma non so di che cosa». Gli italiani li avete ridotti così.