mercoledì 2 luglio 2008

l’Unità 2.7.08
Razzismo
Impronte ai bimbi rom, l’Europa invia l’altolà al governo italiano
di Paolo Soldini

Il pasticciaccio brutto di via del Viminale sulle impronte dei bambini rom rischia di precipitare l’Italia in un mare di guai a Bruxelles. Dagli uffici del commissario alla Giustizia Jacques Barrot, che nei giorni scorsi si sono già scottati con la vicenda, proviene un gelido silenzio: «Per ora siamo alle indiscrezioni sui giornali italiani e non esiste alcunché di ufficiale, e neppure di ufficioso. Solo quando riceveremo una qualche comunicazione dal governo di Roma saremo in grado di giudicare». Il governo di Roma, et pour cause, si guarda bene dal comunicare checchessia. Tattica miserevole, giacché il colpo duro sta arrivando, intanto, da un’altra parte. Da voci (solide voci) raccolte al Barleymont, il palazzo della Commissione, sarebbe imminente la partenza per palazzo Chigi di una lettera con una perentoria richiesta di spiegazioni. A inviarla sarebbe il commissario agli Affari sociali, il cèco Vladimir Špidla nella cui competenza rientrano tutti i casi di concreta violazione delle norme contro le discriminazioni. A prescindere dalle sorti legislative dei provvedimenti di cui si discute, le autorità italiane - questa la ratio della lettera - stanno già prendendo le impronte digitali dei bambini di etnìa rom e ciò contrasta con una serie di disposizioni dell’Unione e, in modo particolare ed evidentissimo, con la direttiva 2000/43/CE, la quale vieta espressamente trattamenti particolari sulla base della «origine etnica» dei cittadini. In una parola: il fatto di essere in attesa di comunicazioni ufficiali non esime la Commissione europea dall’obbligo, intanto, di intervenire (e lo farà Špidla), lasciando impregiudicata l’analisi giuridica dei testi che spetterà, a suo tempo, a Barrot. Nella lettera si chiederà un rapporto dettagliato su quanto è avvenuto e sta avvenendo nei campi rom e se la risposta non sarà soddisfacente, l’Italia andrà incontro a sanzioni che vanno dall’apertura di una procedura di infrazione (una «pena» leggera nella normativa Ue, ma con un forte impatto di immagine in un caso che riguarderebbe i diritti fondamentali della persona) al deferimento alla Corte di Giustizia per violazione dell’art. 6 del Trattato dell’Unione, che sarebbe una prima storica assoluta, fino, almeno in teoria, all’applicazione dell’art. 7 del Trattato stesso, il quale, con procedure ultragarantiste e molto rigide ma comunque praticabili, prevede addirittura la sospensione di uno Stato dall’Unione. Finora l’art. 7 è stato evocato solo due volte: come minaccia all’Austria, quando il cancelliere cristiano-democratico Wolfgang Schüssel chiamò al governo Jörg Haider, e nei momenti peggiori dei rapporti tra Bruxelles e la Polonia dei cattivissimi gemelli Kaczynski. Tutte e due le volte non se ne è fatto nulla.
Il ricorso all’art. 7 è quasi fantascienza, almeno allo stato attuale dei fatti, non fosse che perché tra le condizioni che prevede c’è, fra le altre, una maggioranza di tre quarti del Parlamento europeo. Ma le altre opzioni sono apertissime e potrebbero scattare tanto nell’immediato futuro, se Maroni insisterà, quanto alla fine dell’istruttoria che si aprirà quando il governo italiano, bontà sua, si deciderà a spiegare a Bruxelles che cosa intenda fare.
Quello manda in bestia i responsabili della politica dell’Unione, compreso, pare, lo stesso José Manuel Barroso che di Berlusconi non è mai stato nemico, è, oltre al merito, anche il metodo con cui Maroni e i suoi colleghi, a cominciare dall’inutile ministro alle Politiche comunitarie, si stanno muovendo sulla questione. E non ha certo aiutato l’ennesima, infelice uscita da mosca cocchiere del presidente del Consiglio italiano sul «silenzio» cui, secondo lui, sarebbero tenuti i commissari europei di fronte agli affari dei governi.
Maroni - si fa notare - ha detto «una cosa molto imprecisa» sostenendo che la prassi europea già prevede anzi «rende obbligatorio» il rilevamento delle impronte digitale dei bambini. Il regolamento 2008/380, cui l’incauto ministro ha fatto riferimento, fissa le norme tecniche (biometriche) per la concessione dei permessi di soggiorno ai cittadini, bambini sopra i sei anni compresi, extracomunitari. È una normativa che serve a facilitare, uniformando i criteri, il lavoro della polizia nei diversi paesi. Niente a che vedere con i rom, che in Italia sono all’80% cittadini italiani o comunitari, e soprattutto niente a che vedere con criteri selettivi basati sulla «razza» o sull’etnìa, espressamente vietati (e puniti) dalla 2000/43.
Con la sua affermazione il ministro italiano ha gettato discredito sull’intero, delicatissimo, capitolo della politica anti-discriminazioni della Ue. Che l’abbia fatto per leggerezza o con piena consapevolezza, il risultato non cambia. Tanto più che per la sua ordinanza Maroni ha utilizzato in modo molto disinvolto anche la legislazione italiana in un punto (la protezione civile contro le catastrofi naturali) che sta molto a cuore, anche questo, ai responsabili europei. «L’Italie c’est l’Italie - commentava ieri un alto funzionario del Consiglio dei ministri - ma vi rendete conto del precedente che rischiate di creare? Se passa l’idea che si possono adottare misure straordinarie contro le calamità ai problemi creati dagli immigrati, chi impedirà che un giorno il governo di tale o tal altro paese giudichi la tale o tal altra minoranza una calamità da trattare extra-legem?».

l’Unità 2.7.08
È il «garante» di Alemanno il prete arrestato per pedofilia
di Massimiliano Di Dio

«È un grande dolore». Tutto qui quello che il sindaco di Roma Gianni Alemanno riesce a dire dell’arresto di don Ruggero Conti, uno dei «garanti per la famiglia» della sua amministrazione, accusato di violenza sessuale aggravata e continuata nei confronti di alcuni minori dell’oratorio. I radicali lo sfidano: si costituisca parte civile. Ma il sindaco fa finta di niente. E formalmente lo mantiene in carica.
Don Conti accusato di aver violentato minori
I radicali: «Sindaco parte civile». Ma lui tace

DA REGINA COELI, dov’è detenuto da quattro giorni, don Ruggero Conti nega ogni addebito. Anzi incalza: «È tutto un complotto. Sono tutte falsità frutto di cattiveria e gelosia» mentre una parte dei fedeli è incredula: «Lo aspettiamo a braccia aperte». Ma
gli inquirenti hanno ricostruito dieci anni di abusi nella sua parrocchia, partendo dalla denuncia di un altro sacerdote e arrivando alle testimonianze per ora di sette giovani, all'epoca tutti minorenni. E le accuse contro don Conti, 55 anni della parrocchia romana Natività di Maria Santissima, sembrano reggere. Al punto che si è arrivati all'arresto con l'accusa di violenza sessuale aggravata e continuata. Ora il suo caso crea non poco imbarazzo anche in Campidoglio dove solo alcuni mesi fa, prima della campagna elettorale e quindi prima di finire in manette, don Ruggero era stato nominato dallo stesso Alemanno garante per le politiche per le periferie e la famiglia. I radicali ieri hanno chiesto al primo cittadino di costituirsi parte civile. Ma Alemanno non ha risposto. «È stato un grosso dolore. Chiedo ai magistrati tutta la chiarezza possibile e di non fare sconti a nessuno» si è limitato a dire.
Nessun atto cautelativo da parte del Campidoglio nei confronti del sacerdote. Che da un lato contrasta con le condanne espresse in passato da An in altre vicende simili, come quella di Rignano Flaminio. E dall'altro trova forse ragione nel rapporto che lega il prete arrestato al sindaco. Al punto che quest'ultimo lo ha voluto accanto a sé anche in Comune come garante per le politiche per la famiglia e le periferie. «Alemanno passi dalle parole ai fatti: il Comune si costituisca parte civile per meglio assicurare assistenza a chi è doppiamente debole» incalza Mario Staderini dei Radicali. Dietro le sue parole c'è la drammatica vicenda giudiziaria che si è abbattuta dentro la parrocchia di via Selva Candida. Lì, secondo gli inquirenti, don Conti ha abusato negli ultimi dieci anni di ragazzi affidati alle sue cure nell'oratorio e nei campi estivi. Magari dietro la promessa di soldi, cd, dvd o vestiti. Vittime che all'epoca avevano anche solo undici anni. In sette ora hanno raccontato ai carabinieri un passato fatto di abusi e pedofilia. Ma potrebbero essere molti di più. Si cerca poi di far luce sui sospetti e le voci che nel quartiere da anni accompagnano il sacerdote. In passato don Conti era già stato sospeso per un mese dalle autorità ecclesiastiche. «Nel 2006 - spiega l'avvocato Anna D'Alessandro che difende il prete insieme ai legali Riccardo Olivo e Gianfranco D'Onofrio - c'era stata una verifica da parte del Vescovo dopo alcune voci e per un mese don Conti non era stato presente in parrocchia. Poi però è tornato a svolgere il suo ruolo di sempre».
Dal carcere di Regina Coeli, dov'è detenuto da tre giorni, il sacerdote rilancia al complotto. I suoi legali hanno già presentato domanda di scarcerazione e istanza per i domiciliari per problemi cardiaci. Parlano alcuni fedeli. «Di quello che si dice su di lui, la maggior parte è tutto inventato - afferma una signora - Lo conosco da anni, è amico di tutti, sempre solare e spettacolare. Qui in parrocchia lo aspettiamo a braccia aperte e nel frattempo cerchiamo di riportare armonia e normalità in un luogo frequentato da 400 bambini e 100 animatori». Su youtube un video mostra il sacerdote mentre canta. Capelli neri, occhiali, un po' paffuto. Molti i commenti. Alcuni contro, altri a favore come quello di Pindulicchio: «Ho lavorato per lui e non ha commesso una cosa simile. È un personaggio "scomodo" in grado di far del bene alla comunità. Presto si farà luce sui fatti».

l’Unità 2.7.08
La sentenza Onu
Quell’omicidio chiamato stupro
di Slavenka Drakulic

Ricordo con chiarezza la prima vittima di stupro che ho avuto la ventura di conoscere. Era l’autunno del 1992 e mi trovavo in una cittadina non lontana da Zagabria. La donna era una musulmana di Kozarac in Bosnia. Dopo alcuni mesi trascorsi in un campo di prigionia, era arrivata a Zagabria con un gruppo di rifugiati. Selma (non è il suo vero nome) aveva circa 35 anni, capelli castani corti e occhi di un azzurro intenso.
Mi raccontò la sua storia con un filo di voce quasi bisbigliando. Si trovava a casa con i suoi due figli e sua madre quando un gruppo di paramilitari serbi fece irruzione nel cortile. Dissero che cercavano armi, ma a casa di Selma non c’erano armi. In realtà era ben altro quello che volevano.
Con una espressione feroce sul viso, un uomo la afferrò e la spinse nella stanza da letto. Poi gli altri lo raggiunsero. «Poi me lo hanno fatto».
Con queste semplici parole e con lo sguardo basso e fisso sulle mani che tormentava nervosamente, Selma mi ha parlato della sua tragedia. «Per molto tempo dopo quel fatto non sono riuscita a guardare in faccia i miei figli... Non facevo che lavarmi, ma continuavo a sentire addosso il loro odore. Immagini, me lo hanno fatto sul mio letto coniugale», mi ha detto.
Colsi una inflessione di disperazione nelle sue parole. Non piangeva o, quanto meno, non piangeva più. Ma si vergognava e la vergogna non l’abbandonava. Doveva conviverci così come doveva conviverci suo marito.
Il 20 giugno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità una risoluzione che classifica lo stupro un’arma di guerra. Le associazioni per la tutela dei diritti umani hanno saluto questa decisione come un fatto storico, ma non è una riparazione giuridica. Decine di migliaia di vittime delle violenze sessuali in Bosnia non si sono viste ancora riconoscere lo status giuridico di vittime di guerra. Mentre lavoravo al mio libro «They Would Never Hurt a Fly» (NdT, Non farebbero mai del male ad una mosca) sui criminali di guerra dei balcani sotto processo a L’Aja dinanzi al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, mi sono imbattuta nel “caso Foca”. Nel 1992 Dragoljub Kunarac, Radomir Kovac e Zoran Vukovic, tre serbi della città bosniaca di Foca, misero in prigione alcune giovani musulmane, le torturarono, le ridussero in una condizione di schiavitù sessuale e le violentarono. Eppure quegli uomini non riuscivano a capire per quale ragione venivano processati.
Uno di loro si difese dicendo: «ma avrei potuto ucciderle!». Dal suo punto di vista aveva salvato loro la vita. Stupro? Ma che reato può mai essere in confronto all’omicidio?
Questo caso è importante perché il 22 febbraio 2001, Florence Mumbal, giudice del Tribunale Penale Internazionale proveniente dallo Zambia, li giudicò colpevoli. I tre serbi sono stati i primi uomini nella storia del diritto europeo ad essere condannati per crimini contro l’umanità - tortura, riduzione in schiavitù, offesa alla dignità umana e stupri di massa di donne musulmane bosniache.
Questa sentenza riconosceva che la violenza sessuale è un’arma estremamente efficace per le operazioni di pulizia etnica. Non solo copre di vergogna le donne violentate, ma umilia i loro uomini che non sono in grado di proteggerle. La violenza sessuale distrugge l’intera comunità in quanto sul vittime rimane il marchio - mai dimenticato, mai perdonato.
Nel corso del processo contro gli imputati del caso Foca ci fu una testimone, madre di una bambina di 12 anni fatta prigioniera da Radomir Kovac che la violentò e la vendette a un soldato montenegrino per 100 euro. La ragazza non è stata mai più ritrovata. La madre si era presentata in tribunale per guardare in faccia l’aguzzino di sua figlia e per testimoniare contro di lui. Ma quando si alzò in piedi dinanzi alla Corte non riuscì a dire nemmeno una parola. Dalle sue labbra uscì solamente un suono simile all’insopportabile ululato di un cane ferito a morte. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sullo stupro certo non farà tornare a casa la figlia di questa povera donna. Ma è, non di meno, un avvenimento storico perché, finalmente, la violenza sessuale viene classificata come un’arma e può essere punita. Un uomo non potrà più difendersi dicendo che avrebbe potuto uccidere una donna, ma l’aveva “solamente” violentata. Oggi sappiamo, così come lo sapevamo prima che questa risoluzione fosse approvata, che lo stupro è una sorta di lento, differito omicidio.

Slavenka Drakulic collabora con la rivista «The Nation» ed è una scrittrice che vive in Croazia. Il suo ultimo libro, uscito negli Stati Uniti, si intitola «They Would Never Hurt a Fly: War Criminal on Trial in The Hague» (Penguin).
© 2008, The Nation

l’Unità 2.7.08
Resistenza. L’allarme del direttore Parisella: colpa della manovra del governo, convocherò i partigiani
«Il museo di via Tasso rischia lo scioglimento»

«C’è la seria possibilità che il museo di via Tasso, come ente, venga sciolto perchè così prevede il decreto legge 25 giugno 2008 numero 112».
È l’allarme lanciato dal direttore del museo della Liberazione di via Tasso, Antonio Parisella, ai microfoni di Radio Popolare Roma. «I suoi beni, le sue attività e le sue risorse finanziarie - ha aggiunto Parisella - andrebbero ad un ufficio dell’amministrazione dei Beni culturali che lo trasformerebbe in un qualsiasi museo gestito come un ufficio pubblico, togliendogli gran parte del suo significato, che sta proprio nell’essere un’istituzione che è anche parte della società civile. Ci sono due possibilità: una è che durante la discussione per la conversione del decreto si creino degli spazi per riuscire a sopravvivere come soggetti autonomi, l’altra è che alcuni enti vengano ripescati con decreto del ministro». Parisella, direttore a via Tasso dal 2001, annuncia che convocherà il direttivo del museo e le associazioni dei partigiani. Il museo di via Tasso, attualmente visitato da 15mila persone ogni anno, fu inaugurato il 4 giugno 1955 dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e riconosciuto nel 1957. È stato allestito nei locali dell’edificio che, nei mesi dell’occupazione nazista di Roma, venne utilizzato come carcere dal comando della polizia di sicurezza. Le celle di detenzione, che allora occupavano l’intero stabile mentre ora soltanto due dei quattro appartamenti destinati a museo, sono ancora come furono lasciate dai tedeschi in fuga.
A comandare la polizia di sicurezza tedesca a Roma fu posto il tenente colonnello Herbert Kappler, promosso dopo aver combattuto al fronte, che aveva una buona conoscenza dell’ambiente romano. Via Tasso divenne tristemente famosa come luogo dove si poteva essere portati anche senza alcun motivo e da dove si poteva finire diretti al tribunale di guerra, deportati o detenuti al carcere di Regina Coeli. Circa duemila tra uomini e donne vi passarono per essere sottoposti ad interrogatori, torture ed altre violenze. Non vi furono, infatti, solo militari passati in clandestinità o partigiani, ma anche uomini e donne, anziani e ragazzi, cittadini di ogni classe e ceto dai quali Kappler e suoi aiutanti pensavano di poter strappare informazioni sulle organizzazioni clandestine di Resistenza, sui luoghi di accoglienza di ebrei e militari italiani o alleati, su chi produceva stampa clandestina o documenti falsi.

l’Unità 2.7.08
L’Italia sposta 500 soldati nella trincea di Farah
Via ai rinforzi per il contingente italiano nella zona più a rischio della missione in Afghanistan
La Russa: «Combattiamo da un anno, Prodi sapeva». Parisi: «Non è vero». In vigore le nuove regole della missione
di Umberto De Giovannangeli

PIÙ ELICOTTERI In attesa di poter dispiegare i cacciabombardieri Tornado. Più soldati da impiegare nelle aree di combattimento. Caveat modificati, più aggressivi, per rispondere alle sollecitazioni dei comandi americani e Nato. È una visita operativa quella
di Ignazio La Russa in Afghanistan. «Presto» 500 militari italiani saranno impiegati a Farah, turbolenta provincia dell’area occidentale afghana. È quanto emerge in un briefing operativo che il ministro della Difesa ha avuto con il generale Francesco Arena, comandante della regione ovest della missione Isaf della Nato. Attualmente i militari italiani in Afghanistan sono circa 2700, di cui 1300 a Kabul, il resto nella regione ovest di Herat. Il 5 agosto l’Italia cederà alla Francia il comando della Regione della capitale e il contingente si alleggerirà immediatamente di circa 300 uomini, cioè quelli inviati in Afghanistan proprio in funzione di questo periodo di comando. Altri 500 saranno rimpatriati entro ottobre e, contestualmente 500 verranno schierati nell’ovest dove il contingente salirà dunque ad oltre 1900 militari. Se a questi si aggiungono i 500 di Kabul, si ottengono i 2400 autorizzati dal Parlamento. Con i 500 di rinforzo, il comandante della Regione Occidentale potrà contare su due battaglioni ed altre aliquote operative per un totale di mille uomini da schierare sul terreno: 500 ad Herat ed altrettanti a Farah e a Delaram. Attualmente a Farah sono dislocate la Task force 45, composta da uomini delle forze speciali, e una compagnia di fanteria della Brigata aeromobile Friuli per un totale di circa 160 uomini. Un’altra compagnia di fanteria è schierata a Delaram, una sorta di enclave che si trova nella regione sud dell’Afghanistan ma che, per ragioni tattico-operative, ricade sotto il controllo del comando ovest.
Combattono. Adesso è ufficiale. I militari italiani - in particolare la Task Force 45 - impegnati a Farah, nel sud dell’Afghanistan, da un anno combattono periodicamente contro gli insorti talebani. La notizia è confermata a Kabul da La Russa al quale in serata ha replicato l’ex ministro Parisi: «Noi non abbiamo mai nascosto nessuna informazione al Parlamento». Il ministro da Kabul aveva detto: «Il governo Prodi ha tenuto giustamente questa informazione riservata. Lo avrei fatto anch’io al posto di Prodi. Oggi però confermiamo che i nostri militari hanno partecipato ad azioni anche di combattimento». «I soldati italiani - aggiunge La Russa - lo fanno e lo vogliono fare al meglio; per questo mi hanno chiesto altri elicotteri e tre elicotteri saranno inviati entro novembre insieme a i rinforzi di 500 uomini. Si tratta di compiti pericolosi e ringrazio Dio che non abbiamo subito lutti e sofferenze». «Abbiamo meno uomini di quelli che vengono impiegati per garantire l’ordine pubblico in una partita come Roma-Lazio. Il problema è quello sia di poter contare su un maggior numero di militari, sia di un maggior numero di mezzi», incalza il generale Arena. Altro tema caldo è quello dei caveat. La modifica dei «caveat», cioè quelle limitazioni all’impiego dei militari italiani in Afghanistan di cui tanto si è parlato nelle scorse settimane, è già in vigore. I nuovi caveat sono già operativi. «Io ho già firmato», annuncia La Russa. «La modifica dei caveat è operativa», conferma il generale . Vincenzo Camporini, capo di Stato maggiore della Difesa. Il che significa concretamente, spiega La Russa, «che per autorizzare l’impiego dei nostri militari fuori dalla loro area di competenza , il governo non avrà più un massimo di 72 ore (termine lunghissimo, che di fatto rende inutile l’intervento) ma solo sei ore». In sei ore, insomma, l’Italia potrà concedere o negare al comando di Isaf, la missione Nato, l’autorizzazione a impiegare i propri soldati anche nel sud e nell’est del Paese, le zone più a rischio. Finora, però, questa richiesta non c’è stata. Finora.

l’Unità 2.7.08
Se l’architettura fabbricasse felicità
di Franco La Cecla

QUALE MISSIONE PER GLI ARCHITETTI? Se ne discute in questi giorni al congresso mondiale e se ne parlerà alla Biennale di Venezia. Intanto c’è chi chiede alla categoria di progettare edifici tenendo conto della vita delle persone

In questa disciplina
che è una questione
pubblica, si gioca
più che in altri spazi
la questione
della democrazia

Perché dobbiamo continuare ad accettare un ambiente costruito che una corporazione di professionisti preoccupati solo del proprio successo ci impongono come dato di fatto? È divertente che questi stessi professionisti di fronte ad una critica del loro monopolio scarichino le colpe sui politici, in una ideologia saporitamente post-sinistrese. Ma certo sono i politici ad avere la colpa di tutto! Peccato che qualcuno come Foucault, Illich o perfino Negri da anni ci abbia spiegato che il potere non esiste oggi senza la sua articolazione in monopoli professionali dei beni e dei servizi. Il cittadino oggi è non solo sottoposto a regimi polizieschi, ad una idea dello spazio pubblico come luogo del controllo da parte del grande fratello, ma lo spazio della città, è tutto complicemente costruito per assecondare questa tendenza. Architetti, Ingegneri, Pianificatori sono molto lesti a mettersi dalla parte del controllo e dello status quo. Gli spazi della città vengono ridotti a vetrinizzazione e boutique, la dignità dei mercati viene ridotta a shopping mall, e si usa la scusa della emergenza residenziale (emergenza discutibile, visto il patrimonio italiano di stanze vuote e di case dimesse) per lanciare una nuova ondata di periferie, di housing concepito come condanna del centro (o sua destinazione a funzioni da straricchi) decostruzione della città e delle sue occasioni. Gli architetti sono una chiave fondamentale di quello che sta accadendo nel mondo, proprio perché si nascondono dietro ad una facciata da artisti senza responsabilità. Invece essi hanno una influenza enorme nella costruzione del mondo urbano e rurale come si sta costituendo in questi anni, in Italia come in Cina, come in Africa o in India. Proprio perché il pensiero e la modellistica degli architetti ha influenza sul sistema di valori immobiliari e disciplinari. Oggi gli architetti superstar o no che siano sono direttamente in causa nella espropriazione dei cittadini del potere normale sullo spazio delle proprie vite. È inutile che si nascondano dietro cortine di velluto e si autorappresentino oggi come imbarazzate vestali costrette a lavorare per clienti rapaci. Un capovolgimento della loro professione, del loro ruolo è quantomai auspicabile, ma non è semplice come essi vorrebbero presentarlo. Gli architetti dovrebbero diventare un sindacato della felicità dei cittadini, o almeno dei professionisti che si battano per il benessere dei cittadini nel loro spazio di vita.
L’architettura è una questione squisitamente pubblica e quindi in essa si gioca più visibilmente che in altri spazi la questione della democrazia. Corporazioni professionali più attrezzate e reazionarie di quelle degli architetti, come ad esempio i medici, hanno però un cotè di ricerca che in qualche modo, anche se trasversale raggiunge e benefica la popolazione. Ma gli architetti? Queli strumenti hanno elaborato di ricerca negli ultimi vent’anni che hanno realmente contribuito a migliorare la vita quotidiana? Le case vengono costruite oggi peggio di cinquant’anni fa e la grande rivoluzione della bioedilizia sta arrivando a seguito della crisi energetica e non certo grazie alle spinte della corporazione architettonica. Gli strumenti di lettura, di analisi, di ascolto della città non si sono rinnovati negli ultimi trent’anni e oggi l’urbanistica è una disciplina arida che non racconta nulla della vita di cui vivono le città. Catastrofe urbana e catastrofe ambientale vanno di pari passo.
Oggi gli architetti e gli urbanisti sono talmente ignavi che non intervengono in una questione come quella dei campi nomadi e rom, come se non fossero stati loro ad inventare questa soluzione balzana per un paese balzano come l’Italia. Quello che è avvenuto alle professioni del progetto è in qualche modo scandaloso. È vero che come tutte le professioni queste sono soggette a fare i conti con la realtà, con i clienti, con il potere del denaro e del mercato, ma come tutte le professioni consentono spazi di dissenso, anti-corporazioni che rinnovino la disciplina e la riconducano ad un etica pubblica. In California si è costituita da qualche anno «Public Architecture» un sindacato degli architetti eticamente responsabili che ha chiesto a tutti gli studi di architettura del paese di fornire l’un percento del proprio lavoro gratis per progetti pubblici (sembra poco, ma invece è molto, visto che hanno risposto un migliaio di studi). Così sono sorti progetti di centri per handicappati, di case provvisorie e di «alberghi diurni» per lavoratori immigrati e saltuari. Oggi un appello al ritorno all’etica e alla deontologia per le professioni del progetto è lanciato non da pazzi surrealisti, ma dai maggiori critici e storici dell’architettura, da Joseph Rykwert, a Kenneth Frampoton, a Curtis. Solo in Italia gli architetti possono permettersi di pontificare, come se fossero dei politici frustrati, e di non rispondere del proprio lavoro. Fuksas continua a dare ricette al paese, ma non risponde sul disastro provocato a Porta Palazzo, Aldo Aymonino ignora il disastro provocato a danno delle chiese etiopi coperte in maniera vergognosa dalle sue tettoie «architettoniche» che ne hanno accelerato il degrado spendendo cifre vertiginose che avrebbero sfamato l’intera regione.
Non si tratta di fare il processo agli architetti, si tratta però di farli finalmente parlare dello specifico del loro lavoro di cui devono rispondere ai cittadini. Oggi non esiste da nessuna parte un lavoro sulla fortuna di certe opere architettoniche. Gli architetti si sbarazzano dell’opera alla consegna, e non ne sono più responsabili, mentre è allora che l’opera entra nella sua funzione pubblica. Cosa sono le case, le università, gli edifici pubblici, i musei di Gregotti, Purini, Gehry, Zaha Adid, Fuksas, Nouvel, e compagnia bella conosciuta e sconosciuta che sia dopo dieci, vent’anni? Come vivono i cittadini e gli abitanti negli edifici che si sono dovuti sorbire? È possibile che una questione così seria come l’ambiente costruito debba restare tutta nelle mani di questi gigioni delle forme, di questi irresponsabili cronici? O possiamo cominciare a svegliarci e a chiedere qualcosa di più per le nostre citta?


Corriere della Sera 2.7.08
Il Cavaliere sta vincendo L'obiettivo finale è piegare i magistrati
di Massimo Franco
Il sospetto è che al capo del governo non basti un Quirinale mediatore Il miracolo di equilibrio compiuto da Giorgio Napolitano forse non basterà. Il capo dello Stato è riuscito a mettere d'accordo quasi tutti, con una lettera calibratissima inviata ieri al Csm poco prima dell'inizio della seduta. Ma Silvio Berlusconi si prepara ad andare in tv domani sera per dire «pacatamente e serenamente» che «la giustizia è una vera emergenza». E, con parole quasi offensive, ha ridotto l'iniziativa del Quirinale ad un sì alle pressioni dei presidenti di Senato e Camera. Risultato: Napolitano ha dovuto precisare che si è mosso in autonomia; ed il fronte rimane apertissimo, perché la gaffe istituzionale rivela la strategia berlusconiana di marcare il confine fra potere politico e sistema giudiziario.Si tratta di segnali che fanno prevedere tensioni crescenti. Il presidente della Repubblica ha fatto molto per arginarle. Gli è arrivato il plauso del Pdl per avere «invitato il Csm a non esprimersi sulla costituzionalità delle leggi», riconosce il ministro della Giustizia, Angelo Alfano. Walter Veltroni ha avallato «le parole e lo spirito della sua lettera», nonostante l'imbarazzo del Pd. L'unico a masticare amaro è sembrato Antonio Di Pietro, convinto che Napolitano non dovrebbe firmare la legge con cui si sospendono alcuni processi. «Ma», concede, «rispetterò qualunque sua decisione».Sono parole un po' d'ufficio: anche perché fra Di Pietro e il Pd si è aperto il fronte della manifestazione dell'8 luglio, bollata da Veltroni come «un regalo al premier». La loro alleanza è visibilmente in crisi. Ma il vero contrasto, seppure larvato, si delinea fra palazzo Chigi e Quirinale. Le parole di Berlusconi sull'accoglimento da parte di Napolitano delle richieste fattegli lunedì da Renato Schifani e Gianfranco Fini, tendono a mostrare un capo dello Stato accerchiato.È come se le alte cariche parlamentari adesso si muovessero apertamente come portavoci della maggioranza. E nella sua conferenza stampa ad Acerra per l'emergenza dei rifiuti, Berlusconi ieri ha accreditato le pressioni sul capo dello Stato. Ci sarebbe stato una sorta di «avvertimento» sulle conseguenze di un parere di incostituzionalità da parte del Csm: sia sul decreto che sospende alcuni processi, compreso quello che vede imputato il premier; sia sulla norma che vieta la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche: l'argomento che Berlusconi vuole affrontare domani in tv.Per di più, il Cavaliere ipotizza un decreto da fare entrare in vigore subito: ipotesi che per il Pd è una provocazione, ma porta acqua al mulino di Di Pietro, secondo il quale il Cavaliere ha fretta perché conosce il contenuto di alcune telefonate. Così, il Csm accoglie quasi all'unanimità i suggerimenti di Napolitano; e in serata boccia il cosiddetto «blocca-processi» come «irrazionale», senza pronunciarsi sulla sua costituzionalità. Ma il conflitto lievita ugualmente. Il sospetto fondato è che Berlusconi non voglia chiuderlo: almeno fino a quando non riterrà di avere vinto la resa dei conti.
Corriere della Sera 2.7.08
L'imbarazzo del Pd E Veltroni ai suoi «Non ci voleva...»
Il partito «stretto» tra Di Pietro e Berlusconi Inquietudine per l'altolà alla magistratura del capo dello Stato. E cresce il malumore verso il leader dell'Idv
di Francesco Verderami
ROMA — «Non ci voleva», sussurra Walter Veltroni. E in quelle parole confidate con un filo di voce ad alcuni dirigenti del Pd nell'emiciclo di Montecitorio, si avverte un comprensibile senso di inquietudine. Perché il leader democratico sa che la sfida sulla giustizia con Silvio Berlusconi sarà d'ora in avanti ancor più dura. E non contemplerà il pari. «Non ci voleva », dice Veltroni commentando l'altolà del capo dello Stato al Csm, cui «in alcun modo spetta il vaglio di costituzionalità » delle leggi. Potrà sembrare un paradosso, ma non c'è contraddizione tra il concetto espresso riservatamente e il pubblico apprezzamento verso Giorgio Napolitano che farà poco dopo in Transatlantico, perché al capo dell'opposizione è chiara la differenza tra le regole del gioco e lo svolgimento della partita politica.Ma non c'è dubbio che ieri il Colle ha messo in difficoltà il Pd, ammonendo l'organo di autogoverno della magistratura. Il fatto è che il «cartellino giallo » è scattato per l'entrata a gamba tesa del Csm sulla norma blocca processi varata dal governo, che invece avrebbe rappresentato per i Democratici un fattore importante nello scontro con il centrodestra sul decreto. Se fosse passato il giudizio di «incostituzionalità» che era contenuto nella prima bozza del parere messa a punto dai togati, il Pd ne avrebbe tratto forza per contrastare il Cavaliere in Parlamento, si sarebbe conquistato uno spazio per uscire dalla letale morsa del dualismo tra il premier e Antonio Di Pietro. Avrebbe insomma avuto un ruolo.«E invece questa decisione ci inchioda», imprecava Beppe Fioroni con un collega di partito: «La verità è che, anche se Silvio Berlusconi approvasse il decreto con tre fiducie, al Paese non fregherebbe niente. La gente pensa solo a come arrivare a fine mese. Invece siamo costretti qui, appresso a Tonino... ». E appena scorge nelle vicinanze i giornalisti l'ex ministro per una volta ha uno scatto: «No, no. Lasciatemi in pace oggi che non è aria». Ed è evidente il motivo. Il Pd deve pararsi sui due fianchi: da una parte c'è l'ex pm di Mani pulite, dall'altra il «Caimano». Il primo continua a fomentare l'area giustizialista, tanto da ripetere che «Napolitano non deve controfirmare il decreto», e costringendo il capogruppo democratico Antonello Soro a prendere le difese del Quirinale. Il secondo si appresta a una «guerra totale» sulla giustizia, al punto da aver già aperto un nuovo fronte sul provvedimento delle intercettazioni che vorrebbe tramutare in decreto.Ecco perché «non ci voleva» la scelta di Napolitano. E dietro alcuni commenti di circostanza, nel Pd risalta l'imbarazzo. Lo si intravvede nell'espressione da prima Repubblica adottata da Pierluigi Castagnetti come espediente per non esprimersi: «La lettera del capo dello Stato non l'ho letta». Intanto nei capannelli c'è chi cita Carlo Azeglio Ciampi, quasi a evocare un'altra stagione al Quirinale. «Ciampi mi ricorda quando eravamo più giovani... », sorride a denti stretti il prodiano Giulio Santagata, che su Napolitano non proferisce verbo: «Un presidente della Repubblica non si commenta».Eppure non tutti nel Pd hanno il volto affranto, c'è chi — come Mimmo Lucà — invita i colleghi di partito al realismo: «Ma andiamo. Cosa poteva fare il Quirinale dopo quel che era successo nel Csm? Vogliamo dirle le cose come stanno? Ma se persino Nicola Mancino ha traballato...». E d'un fiato racconta un dettaglio non irrilevante: «Lo sapete che aveva minacciato di dimettersi».La rivelazione sul vicepresidente del Csm apre uno squarcio sulle difficoltà di una personalità legata al centrosinistra, ma anche sul livello di malessere che cova tra i democratici, per il silenzio a cui sono costretti nel gioco diabolico che vede nel Cavaliere e in Di Pietro gli indiscussi protagonisti. «E invece bisognerebbe avere il coraggio di romperlo lo schema », s'infervora Francesco Tempestini, ex capo della segreteria di Piero Fassino ai Ds: «Andrebbe detto che Berlusconi sbaglia ad agire così nel campo della giustizia, ma andrebbe anche rilevato ai magistrati di aver debordato con le inchieste su Berlusconi. È ora di rimettere le cose a posto, perché in questa sfida è in gioco anche qualcosa di più importante: le sorti del Paese a livello economico e sociale. Chiaro?». Tempestini nel Pd ha una sensibilità diversa dai «compagni » provenienti dalla scuola comunista. Lui ha un passato socialista. E si sente. Come si sente la tradizione democristiana nel ragionamento di Marco Follini: «Questo Paese ha metabolizzato tutto. Fascisti, comunisti, terroristi. L'unico argomento su cui si alzano le barricate è rimasto ormai la giustizia. Prima o poi le barricate vanno smantellate». È un sentire comune tra gli ex dc, lo stesso che la settimana scorsa portava Franco Marini a confidare la propria preoccupazione per l'andamento delle cose a Carlo Vizzini, presidente forzista della commissione Affari costituzionali del Senato. Ma da ieri il Pd è se possibile ancor più costretto sulla difensiva dal duo Berlusconi-Di Pietro. «E pensare — sorrideva amaro Enzo Carra, altro pd ex dc — che abbiamo scaricato Clemente Mastella perché faceva casino almeno una volta al giorno per avere visibilità... E ora ci tocca sopportare un questurino. E pure in silenzio».

Corriere della Sera 2.7.08
Dissensi nel Partito Democratico
Obama insegue il voto degli evangelici E promette ai gruppi religiosi più soldi di Bush
WASHINGTON — Dov'è finito «il senatore più liberal del Congresso»?Sono passati pochi mesi da quando il National Journal bollò in questo modo Barack Obama. Ma il senatore dell'Illinois, diventato nel frattempo il candidato democratico alla Casa Bianca, ha ormai mutato strategia. Ieri, in una visita in Ohio (il terzo «swinging State», «Stato in bilico», per importanza dopo Florida e Pennsylvania), Obama ha apertamente corteggiato l'elettorato evangelico, tra i principali responsabili della vittorie di Bush, ma freddo nei confronti del candidato repubblicano McCain. Riconoscendo l'incapacità dello Stato nel far fronte, da solo, a «sfide quali la povertà e la tutela dell'ambiente», Obama ha annunciato di voler aumentare gli aiuti federali ai gruppi di beneficenza religiosi.Proprio gli aiuti che furono decisi dalla prima amministrazione Bush, e che furono definiti «problematici», nel 2005, dalla maggioranza degli americani e «lesivi della separazione tra Chiesa e Stato» da molti analisti.«I beneficiari non potranno fare discriminazioni su basi religiose», s'è però difeso Obama (mentre un membro del suo staff, sotto anonimato e poi smentito, assicurava che ai gruppi rimarrà il diritto di assumere o licenziare in base alla religione). Con la mossa di ieri, Obama attacca su tre fronti. Toglie a McCain l'illusione di avere temi, elettori, Stati «sicuri». Vuole convincere gli evangelici moderati, che non lo condannano per la sua difesa del diritto ad abortire. E punta a sventare, forse per sempre, la minaccia nascosta nella definizione al veleno del National Journal.
Corriere della Sera 2.7.08
Il regista . Olmi: «Copiamo le riserve-modello degli indiani»
di Roberto Rizzo
MILANO — Ermanno Olmi, 77 anni il 24 luglio, il regista ( L'albero degli zoccoli, Il mestiere delle armi, I centochiodi, ecc.) che a settembre, alla Mostra del Cinema di Venezia, riceverà il Leone d'oro alla carriera (glielo consegnerà Adriano Celentano), dice che «tutto questo mi mette una profonda inquietudine ».«Tutto questo» è la questione rom e la proposta del ministro Maroni di schedare, attraverso le impronte digitali, i bambini nomadi. Olmi, uomo di dichiarata fede cattolica e regista, come dicono i critici, sempre attento al mondo degli umili, domanda: «Mi piacerebbe sapere dal ministro Maroni se quei ragazzi che vanno in giro a dare la caccia ai rom, che incendiano i loro accampamenti, come è successo a Napoli, sono stati individuati e schedati».Non se ne ha notizia. «Ecco, se non è stato fatto, iniziamo da loro. E proseguiamo con tutti quei ragazzi italiani che disturbano la quiete, che imbrattano i muri delle città, che consumano droga e che sono protagonisti di comportamenti violenti. Chi è favorevole alla schedatura dei bambini rom, convinto che così si impedirebbe loro di andare a rubare, dovrebbe essere d'accordo con la mia proposta. Schediamo tutti i giovani italiani, dalla scuola materna all'università, per evitare che tengano comportamenti contro la legge».L'ha proposto anche un altro ministro leghista, Calderoli: schediamo tutti gli italiani. Ma la sua è stata una provocazione. «La mia non lo è, lo dico sul serio. Calderoli ha ragione. Schedandoci tutti eviteremmo ai quei bambini lo choc della discriminazione, di sentirsi subito dei sospettati. Anzi, aggiungo che noi genitori italiani siamo più colpevoli dei genitori rom. Loro crescono i figli nella miseria e nell'indigenza, noi no. Eppure anche i nostri figli delinquono».Schediamo tutti? «Mi domando se viviamo in una società che vuole essere civile oppure che ha perso il senso della civiltà, che significa saper convivere nel rispetto di tutti».Chi vuole prendere le impronte digitali dice che sono i rom i primi a non voler convivere nel rispetto degli altri. L'operazione condotta a Verona con il fermo di una banda rom che obbligava i bambini a compiere furti conferma questa tesi. «Che tra quella gente, che tra i loro bimbi ci sia una buona percentuale con propensioni ladresche è una realtà sotto gli occhi di tutti. Ma anche tra i giovani non rom c'è una forte propensione a non rispettare la legge. Mettiamo che le dichiarazioni del ministro Maroni abbiano un valore, di cui dubito, non posso che essere totalmente contrario. In passato la comunità intellettuale ha giustificato azioni che ricordano quella proposta da questo governo. È successo con gli ebrei, anche loro erano considerati pericolosi, dei nemici».Sul tema sicurezza percepita dai cittadini il governo, Lega in particolare, ha raccolto parecchi voti. L'opinione pubblica sente come reale il problema rom. «Una volta le zingare leggevano la mano, poi sono state sostituite dai maghi in televisione. Gli uomini facevano ballare gli orsi nelle fiere e nei circhi, ma gli animalisti l'hanno impedito. Altri vivevano di piccolo artigianato, anche quello spazzato via dalle nuove dinamiche dell'economia. Alla fine uno deve sopravvivere, anche attraverso il furto».Campi rom. A Venezia, il sindaco Cacciari ne farà costruire uno nuovo e più accogliente. Altrove si fanno intervenire le ruspe per spazzare via tutto perché i campi impediscono l'integrazione e favoriscono l'illegalità. Secondo lei? «Campo è un brutto termine, mi piacerebbe parlare di riserve perché si dovrebbe fare come nelle riserve indiane. In ogni città, dare dei territori ai rom dove poter vivere secondo le loro tradizioni ma responsabilizzando i capi. Renderli responsabili del comportamento di tutti».❜❜ Territori ai rom Garantiamo ai rom territori nelle città, ma i loro capi siano responsabilizzati Maestro Il regista Ermanno Olmi
Corriere della Sera 2.7.08
L'Olanda vieta il fumo ma non la marijuana
di Marika Viano
AMSTERDAM — Da ieri in Olanda non si può più fumare in hotel, ristoranti, bar, discoteche e coffeeshop, locali in cui si vendono e si possono invece consumare droghe leggere. Ma neanche in musei, teatri, cinema, sale concerti e altre istituzioni culturali, come pure nelle strutture sportive, nei centri commerciali, negli aeroporti. Il motivo: il fumo fa male e anche chi lavora a contatto con il pubblico ha diritto a un ambiente libero dal fumo. Ma non tutti sono entusiasti: 437 proprietari di piccoli caffè hanno intentato ieri una causa per direttissima contro lo Stato. Vogliono una proroga di almeno un anno, perché temono che le loro entrate diminuiscano drasticamente. Il giudice deciderà la prossima settimana. Il divieto vale per il fumo e non per l'hashish e la marijuana puri, così i proprietari di coffeeshop hanno deciso di mettere a disposizione dei propri clienti narghilè e altri strumenti per fumare le droghe leggere senza aggiunta di tabacco. Se un proprietario non rispetta il divieto, la prima volta riceve un richiamo, poi una multa di 300 euro.
Corriere della Sera 2.7.08
prostituzione, schiavismo, cannibalismo
Pirati, armi improprie dei potenti
Altro che rivoluzionari: erano assassini crudeli. La fine del mito salgariano di VALERIO EVANGELISTI
Philip Gosse riesce in un'operazione apparentemente impossibile: condensare in un numero limitato di capitoli un tema ampio che abbraccia diversi secoli e differenti quadranti del mondo, come la storia della pirateria. Lo fa con onestà, capacità di sintesi e chiarezza narrativa. Soprattutto, evita le seduzioni a cui si è prestata di recente certa saggistica, di matrice soprattutto libertaria, che ha scorto nelle «repubbliche dei pirati» (secondo la definizione di Hakim Bey, Le repubbliche dei pirati, Shake 2008) il regno dell'utopia, o addirittura della rivoluzione sessuale. Pure sciocchezze, visto che dai Fratelli della Costa fino a Jean Lafitte e oltre, per non parlare di tempi più remoti, i fuorilegge del mare hanno sempre unito, alle attività consuete di rapina, quella altrettanto fruttuosa di mercanti di schiavi.Quanto alla libera sessualità, coincideva con quella dei bordelli. Le donne pirata, di cui tanto si è favoleggiato, furono in Occidente due sole, Anne Bonnie e Mary Read, trascinate in quella vita dai loro uomini e accettate perché si fingevano maschi (non dovevano essere tanto belle). E nemmeno è vero che tra pirati si praticasse liberamente l'omosessualità, come ha sostenuto B. R. Burg in uno studio pochissimo documentato ( Pirati e sodomia, Eleuthera 1994). La sessualità era libera con le prostitute, le schiave, le indigene caraibiche vendute dai loro mariti. Donne acquistabili, dunque. Si manifestava in forma di violenza carnale nelle città che i pirati riuscivano a conquistare, fossero barbareschi oppure filibustieri del Nuovo Mondo. Quanto alle pratiche omosessuali, erano quelle comuni alla vita di bordo, sotto tutte le latitudini. Ne facevano le spese soprattutto i mozzi, cioè ragazzini e adolescenti provenienti dai brefotrofi e imbarcati a forza. I filibustieri erano a volte omosessuali al largo, eterosessuali a terra.Eppure la leggenda di una pirateria «liberatrice» ha preso piede, sull'onda di film di successo e dei vecchi romanzi salgariani. Va comunque detto che la composizione della Filibusta vi si prestava. Canaglie di tutto il mondo, certamente. La definizione di Marcus Rediker, autore del libro omonimo (Eleuthera 2007), è di sicuro appropriata. Rematori evasi dalle galere, eretici perseguitati, ex detenuti, disertori, contrabbandieri, fanatici e delinquenti. Un'umanità turbolenta, stretta da un solo ideale: arricchirsi in fretta, sperperare in fretta, e poi morire in fretta.Philip Gosse evita le secche dell'idealizzazione a oltranza e, con rapidi cenni, riconduce il fenomeno piratesco alla sfera che gli compete: il banditismo. Al tempo stesso, non cade nell'anglocentrismo proprio di tanti autori inglesi e americani. Costoro hanno definito i primi decenni del '700 come l'«età d'oro della pirateria» soprattutto in virtù di un volume, firmato Capitano Johnson e da taluni attribuito a Daniel Defoe ( Storia generale dei pirati, edizioni Cavallo di ferro 2006), ricco di documentazione sulle gesta degli ultimi filibustieri inglesi della Giamaica. In realtà, se di «età d'oro» si vuole parlare, ci si dovrebbe riferire alla seconda metà del secolo precedente (come ha dimostrato Cruz Apestegui, in Piratas en el Caribe, edizioni Lunwerg 2000). Fu allora che i ladrones del mar del Nordamerica smisero di limitarsi a depredare i galeoni spagnoli di passaggio, e cominciarono a prendere d'assalto le più ricche colonie costiere, travolgendone le difese.Fu l'epoca dell'Olonese, di Henry Morgan, di Roc il Brasiliano, di Laurens de Graaf. Forti, anzi fortissimi, perché incoraggiati dal Re Sole, in guerra con la Spagna. Nel XVII secolo venne meno, di fatto, la distinzione mai troppo chiarita tra pirata e corsaro. Se il secondo, all'epoca di sir Francis Drake, aveva goduto di una «patente di corsa» che quasi lo aggregava alla marina militare del suo Paese, i pirati, lungi dall'essere «liberi professionisti» della rapina in mare, quasi sempre godevano di una lettera d'incarico del governatore francese dell'isola di Tortuga o di quello inglese della Giamaica. A loro consegnavano, solitamente, il dieci per cento di quanto predato.In definitiva, i pirati furono spesso strumento di guerre politiche combattute a distanza e con mezzi non convenzionali, e i loro momenti di declino coincisero con le fasi in cui le potenze committenti ritenevano di non avere più bisogno dei loro servigi. Il declino definitivo e irreversibile si ebbe poi agli albori del XX secolo, quando le navi, meglio difese, diventarono una preda troppo difficile per essere redditizia. Ciò non impedì che episodi di guerra da corsa si avessero anche durante il secondo conflitto mondiale, sia attorno all'Europa che in Asia, con comandanti di navigli militari o di sommergibili autorizzati dai comandi a navigare liberamente e ad affondare e depredare qualsiasi imbarcazione nemica incontrassero. L'introduzione del radar mise fine anche a questa estrema appendice, poco romantica, della pirateria.Rimasero sul mare, invece, i contrabbandieri. A essa si può ascrivere la pirateria ancora esistente, che ha visto nel 2007 centinaia di assalti a yacht, cargo e persino petroliere, a opera di gang organizzate dedite principalmente al contrabbando e attive sulle coste africane, cinesi, malesi oppure, ancora una volta, nei Caraibi. Sconcerta, in questo revival piratesco, l'estrema ferocia dei protagonisti, armati adesso di AK 47 e degli strumenti della moderna tecnologia.I pirati del passato non erano meno crudeli degli attuali, e forse lo erano di più. L'Olonese che fa tagliare mani e piedi agli spagnoli catturati e, in un caso, divora il cuore di uno di essi sotto gli occhi dei compagni; Roc il Brasiliano che fa arrostire alcuni prigionieri e obbliga gli altri a nutrirsi dei loro corpi; Montauban che si diverte a sfilare le budella dal ventre di nemici ancora vivi. Non sono precisamente gesta da eroi libertari, né da Che Guevara in pectore; anche perché il fine, ossessivo, di tanta ferocia è uno solo: la sete di denaro.© Valerio Evangelisti 2008 Leggende Si è favoleggiato delle donne filibustiere, in Occidente furono due: Anne Bonnie e Mary Read La cattura del pirata Barbanera, eroe dei Caraibi, in un dipinto di J.L.G. Ferris del 1718 (foto Bettmann / Corbis)
Corriere della Sera 2.7.08
Tre saggi di Giorgio Cosmacini sulla professione che non ha sempre avuto basi scientifiche
Il medico saltimbanco e l'illusione tecnologica
Giorgio Cosmacini, medico e storico, ha scritto: «La medicina non è una scienza», «Il medico saltimbanco» e «L'anello di Asclepio» Armando Torno
Giorgio Cosmacini con il suo ultimo saggio delinea una storia delle radici della medicina. Si chiamano fisica, chimica, biologia, ecologia ed anche economia. È una non-scienza, forse una filosofia, che dà lustro alle altre scienze; è anche l'unica capace di curare la macchina umana. Se un signore dell'osservazione come Buffon poteva scrivere nella sua Storia naturale «Nella testa di un naturalista, una mosca non deve occupare più posto di quanto ne occupi in natura», per la medicina non vale la medesima regola. Anzi, dopo Pasteur sa che i germi sono più pericolosi di elefanti e balene.Il libro di Cosmacini, intitolato La medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base (Cortina, pp. 134, e 14), esce in un momento propizio: diventa una lettura di grande interesse quando tale disciplina fa più notizia per gli scandali di cronaca che per le scoperte e le vittorie sulle malattie. Proprio nelle nuove pagine di Cosmacini si intuisce il perché. Per dirla semplicemente, egli ricostruisce il patrimonio scientifico di cui la medicina oggi dispone e ne illustra lo status; allo stesso tempo presenta le coordinate contemporanee di questa scienza che muta senza requie le sue etiche e la sua stessa immagine. Basta che il medico si stacchi dall'uomo che deve curare, trasformandosi in manager o in «clinico molecolare» o in tecnico degli aspetti economici delle terapie, per rompere l'incanto di Ippocrate. Il quale si potrebbe riassumere in una frase dell'antico giuramento: «In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l'altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi».È poi uscito un secondo saggio di Cosmacini che illustra anche le possibili radici irrazionali di tale scienza: Il medico saltimbanco (Laterza, pp. 166, e 16). Ovvero vita e avventure di Buonafede Vitali, personaggio citato da Goldoni, che agli inizi del Settecento batte le piazze — facendo ogni cosa, teatro compreso — con preparati a buon mercato che, tuttavia, rendono per la prima volta accessibili a tutti le cure.In margine aggiungiamo che lo storico Cosmacini mai si dimentica di scrutare nelle vite sia dei grandi che dei semplici, mettendo infine la sua a disposizione del lettore. Lo fa forse perché meglio si comprendano le sue radici di medico e studioso, non nascondendo le delusioni e trasformando le gioie in ricordi. Segno, direbbero i moralisti romantici, di una vita spesa al servizio di un ideale. Per tal motivo si può completare la lettura delle sue riflessioni con un terzo libro: L'anello di Asclepio (Viennepierre edizioni, pp. 158, e 22). In esso egli parla delle cose prime e ultime: il primo ricordo di vita, il primo sentore di guerra, il primo giorno d'ambulatorio; l'ultimo giorno d'ospedale, l'ultimo elzeviro ma anche l'ultimatum alla medicina tecnocratica. Non occorrono chiose per queste pagine delicate, dense di ricordi e capaci di guardare con serenità al futuro. Rappresentano la parte conclusiva di un affresco autobiografico che copre «l'età dell'oro», gli anni dal 1997 al 2007

Repubblica 2.7.08
Edmond Husserl
La crisi delle scuienze e i conflitti del pensiero
A settant´anni dalla morte del filosofo
di Antonio Gnoli e Franco Volpi

Per il nazismo era stato uno dei tanti professori ebrei da mettere a tacere: era stato privato della cattedra, isolato, compatito e per di più il suo allievo Martin Heidegger lo aveva tradito
Aveva studiato psicologia con Brentano e matematica con Bernard Bolzano
Le parole ricorrenti in quegli anni erano declino, crisi, tramonto

Quando nel 1938 il filosofo Edmund Husserl morì aveva settantanove anni. Per il nazismo, allora in pieno rigoglio ideologico, Husserl era stato uno dei tanti professori ebrei da mettere a tacere. Gli avevano tolto l´insegnamento, lo avevano isolato, insultato, compatito. Gli avevano perfino vietato l´accesso alla biblioteca dell´Università. E Husserl, ancora in vita, si sentiva un uomo sgomento, disorientato, tradito. Il suo più promettente allievo, quel Martin Heidegger sul quale aveva riposto le più accese speranze, non solo aveva imboccato filosoficamente un´altra strada, ma si era mescolato con la marmaglia nazista, ne aveva caldeggiato lo spirito, appoggiato con entusiasmo i destini, condiviso, fino a un certo punto, la storia. Inaudito. Agli occhi di Husserl quella improvvisa virata era peggio di un colpo di pistola alla tempia. Era tutto quello che non si sarebbe aspettato da quel talento selvaggio che lo aveva già deluso, irritato, amareggiato con Essere e Tempo. Già perché il giovane Martin nel 1927 pubblicò nello Jahrbuch husserliano l´opera con la quale riduceva alla consistenza del semolino la fenomenologia del venerato maestro.
Eppure, nel più perfetto stile gesuitico, Heidegger aveva dedicato Essere e Tempo ad Husserl. Ma più che un omaggio al grande filosofo quella dedica sembrava uno scherzo. Il maestro lesse le complicate pagine dell´allievo e le trovò scandalosamente intrise di tutto ciò che fino a quel momento aveva osteggiato. Come era potuto accadere una cosa del genere? La psicologia di Heidegger somigliava a quella di un sottomarino. Era composta di movimenti invisibili e silenziosi. L´impatto o l´emersione improvvisa avevano sempre qualcosa di sorprendente. Se Husserl era la montagna, Heidegger fu di volta in volta lo scalatore, lo sciatore, il picconatore. Era colui che usava la montagna e, potendo, ne rivendicava perfino il dominio. Otto anni dopo la comparsa di Essere e tempo, Husserl, uomo incline alla depressione e alla malinconia, fu invitato a tenere delle conferenze a Vienna e a Praga. Era il 1935. Fuori dalla Germania il suo nome era ancora venerato. Le sue Ricerche logiche, le sue Meditazioni cartesiane si erano imposte come esempi di rigore filosofico. Anche se non tutti si mostravano convinti che il metodo della riduzione fenomenologica fosse la strada giusta.
Il maestro aveva immaginato che la filosofia avrebbe potuto ambire alla scienza vera solo imbrigliando tutto quello che il caotico mondo della vita produceva: le idee spesso contraddittorie, i valori contrastanti, i programmi confliggenti. Agli occhi di Husserl l´uomo - un´entità finita e mortale - era un impasto di contraddizioni, di velleità di passioni che poco o nulla avevano a che fare con l´idea di filosofia. Che fare, dunque? Egli propose di sospendere quel mondo, di metterlo tra parentesi. Più o meno ragionò così: facciamo finta che quella roba che accade sulla terra non sia mai accaduta, facciamo finta che tutto l´opinabile e il cangiante non esista e allora si comincerà a vedere la potenza dell´Io trascendentale. Ma si poteva sospendere il mondo della vita, compreso tutto quello che nel vecchio continente stava accadendo? Si poteva non tener conto dei terribili venti che si preparavano a soffiare? Circolava una brutta aria in giro per l´Europa. Le parole più ricorrenti erano: declino, crisi, tramonto. Paura e illibertà minacciavano i popoli. Oswald Spengler - ormai celebre più di un attore del cinema muto - aveva dato alle stampe tra il 1918 e il 1922 Tramonto dell´Occidente, che generò una copiosa letteratura sulla crisi spirituale e materiale del vecchio continente.
Anche Husserl, il padre della fenomenologia, così assorto fino ad allora nelle sue microanalisi, incominciò a riflettere su ciò che stava accadendo. Il tema sarebbe stato al centro della sua ultima grande opera, rimasta incompiuta: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Il primo abbozzo fu presentato in una serie di conferenze tenute nell´aprile e nel novembre del 1935 a Vienna e a Praga. Il testo pronunciato fu pubblicato l´anno successivo a Belgrado nella rivista Philosophia, ma solo nel 1954 si riuscì - grazie anche alle carte trafugate e salvate dalla Friburgo nazista da padre Leo Van Breda e messe al sicuro nell´archivio di Lovanio - a ricavare un´edizione esaustiva di quell´opera. Solo allora ci si rese conto che al vecchio Husserl era riuscito finalmente di rispondere in modo adeguato ad Essere e Tempo. Quel testo lo aveva tormentato, indignato, infastidito. E lui, il maestro, era pur sempre la montagna che sovrastava l´allievo. La crisi delle scienze europee (di cui oggi esce una ristampa dal Saggiatore, pagg. 560, euro 15) impressionò i lettori e diede avvio a un grande revival della fenomenologia, che arrivò anche in Italia (tramite Enzo Paci), mescolandosi al marxismo e all´esistenzialismo.
Husserl partiva da un´evidenza incontestabile: la scienza moderna ha raggiunto i suoi straordinari successi al prezzo di una perdita del suo significato per la vita. La sua razionalità ci ha messo in grado di esercitare un dominio vasto sulla terra, ma nulla ci dice sul senso di questo dominio, sulle sue conseguenze. E alla fine ci abbandona a noi stessi proprio in ciò che è decisivo per la nostra esistenza e il suo successo: le scelte di vita e i fini ultimi. Il moderno ideale dell´oggettività scientifica si raggiunse così al prezzo di ridurre alla sola teoria l´antico ideale della conoscenza, abbandonando la prassi alla volontà di potenza.
Per tutta la vita Husserl aveva cercato di combattere il relativismo, di cui le verità scientifiche, erano a loro modo un´emanazione. Non si sentiva un dilettante, uno sprovveduto che si improvvisava critico della scienza. Oltre ad aver studiato psicologia con Brentano si era inoltrato - grazie al filosofo e matematico Bernard Bolzano - per i sentieri rarefatti della matematica. Il suo primo libro del 1891 - che Frege stroncò - era Filosofia dell´aritmetica, cui sarebbero seguite un decennio dopo le Ricerche logiche. Era un uomo affascinato dalla purezza intellettuale. Nulla doveva interporsi tra l´esame della ragione e l´essenzialità del mondo. Ma come provare a rifondare la filosofia come sapere universale, visti i fallimenti, le delusioni gli equivoci che il pensiero filosofico aveva in massima parte fin lì prodotto?
Husserl immaginò che la sola strada percorribile fosse quella di "andare alle cose stesse": zu den Sachen selbst! aveva dichiarato agli inizi del suo programma fenomenologico. Ma che cosa significava questo muoversi verso le cose? Quali cose, quali oggetti, quali enti meritavano uno sguardo libero dal condizionamento scientista e dall´agguato relativista? Husserl pensò che alla filosofia occorresse una "fondazione originaria". Tanto più la sua forza sarebbe stata persuasiva quanto meno si fosse allontanata da quel fondamento che ogni pensiero che si ritenesse tale aspirava a realizzare. In molti avevano provato e in molti avevano fallito. Ma era lì, sulla soglia di quella porta stretta, tra il mondo della vita e il puro pensiero, che si giocava la partita e se voleva vincerla doveva evitare gli errori commessi dai suoi predecessori. Doveva evitare, per esempio, di lasciarsi incantare da un principio unico, un motore da cui tutto nasce e tutto si muove.
Nella Crisi delle scienze europee Husserl considerò il moderno sistema delle scienze come il frutto di una serie di "fondazioni originarie", tra le quali fu decisiva quella rappresentata dalla matematizzazione della fisica iniziata da Galilei. Secondo Husserl si riprendeva così l´antico ideale greco di una scienza razionale dell´essere nella sua totalità, ma esso fu realizzato solo in misura parziale e unilaterale, perché la scienza moderna rimase prigioniera dell´oggettivismo e del naturalismo. E ciò ha finito per favorire la genesi opposta e contraria del soggettivismo e relativismo, producendo un conflitto irrisolvibile, che ha precipitato la filosofia come scienza in una crisi abissale.
La reazione alla scienza e alle sue conseguenze sull´uomo non era certo una novità tra i filosofi. Ma Husserl posizionò la sua critica sul crinale della perdita del senso. Vide nella scienza moderna - nelle sue oggettivazioni e astratte idealità - un superamento del senso comune. Quel superamento alla fine era una più perdita che un arricchimento. Ai suoi occhi la scienza moderna produceva alla fine l´idea di un mondo in sé che, in quanto abitato da forme oggettive, si contrapponeva come mondo vero al mondo soggettivo dell´esperienza comune. Il sapere scientifico finiva così per contrapporsi al mondo dell´esperienza che sta alla base del vivere umano e che è detto «mondo della vita».
Husserl tematizzò il «mondo della vita» (Lebenswelt) in modo esplicito. Interpretò quel concetto anzitutto come il mondo della doxa, ossia quel territorio ovvio e familiare basato su opinioni e convinzioni soggettive, antitetico alle oggettivazioni e alle idealizzazioni del sapere scientifico. Ma quel mondo era qualcosa di più di un coacervo di opinioni se indagato come esperienza originaria. Perciò liberandosi da quel mondo la scienza si impoverì, essa perse il suo significato per la vita, produsse appunto quella che Husserl considerò la «crisi delle scienze europee».
Come uscire dalle devastazioni che la modernità aveva scatenato? Husserl - di cui ricorrono i 70 anni dalla morte - considerò imprescindibile dalla propria filosofia il mondo della vita quale orizzonte universale. Da lì occorreva ripartire per recuperare l´antico ideale - che era stato proprio della filosofia greca - di un sapere razionale in base al quale sarebbe stato possibile orientare la vita individuale, sociale, e politica dell´uomo secondo il principio di una autodeterminazione libera e razionale.
Vasto programma. Sul quale Heidegger ironizzò in più di una occasione. Del resto non erano più fatti per intendersi. L´allievo non andò neppure al funerale del maestro, con la scusa di un malanno che lo aveva trattenuto a letto. E poi tolse la dedica su Essere a tempo. Restava un vago rispetto, una memoria fragile ed equivoca di quegli anni in cui la fenomenologia era la speranza disattesa che il muro tra interiorità ed esteriorità potesse di un tratto crollare.

martedì 1 luglio 2008

Repubblica 1.7.08
La schedatura etnica
di Stefano Rodotà

Così si crea una scia continua d´ogni nostro passaggio: l´aver guidato un´auto, o aperto una porta, consente di ricostruire le nostre mosse a chiunque sia in possesso delle nostre impronte
Cade l´antica premessa dell´habeas corpus, l´impegno sovrano a "non metter mano" su un corpo che oggi non possiamo intendere solo nella sua fisicità
La società del controllo e la democrazia inquinata
Dopo il caso dei bambini rom, esploso con la proposta di identificarli tramite i polpastrelli, ci si interroga su certe tecniche di riconoscimento che violano la dignità umana

Solo nelle apparenze le impronte digitali possono essere definite uno strumento neutrale. Hanno un forte valore simbolico: chi le raccoglie sembra quasi che si impadronisca del corpo altrui.Esprimono politiche di controllo generalizzato o fortemente aggressive verso gruppi determinati. Possono entrare in conflitto con principi costituzionali fondamentali, come il rispetto della dignità della persona e l´eguaglianza. Per questo i legislatori hanno sempre considerato con prudenza la loro raccolta, hanno cercato di ancorarla a situazioni eccezionali o comunque specifiche, testimoniando così una sorta di cattiva coscienza o una consapevolezza dei rischi di stigmatizzazione sociale legati a forme generalizzate di uso delle impronte.
I segni d´identità e le regole della loro utilizzazione hanno una lunga storia che, nell´età moderna, si lega profondamente alle esigenze d´ordine pubblico. Così è per il nome e per tutte le altre tecniche di identificazione, che hanno conosciuto una straordinaria espansione grazie alla biometria e alla genetica. Una espansione divenuta torrenziale dopo l´11 settembre. Le esigenze di lotta al terrorismo sono state dilatate al di là del ragionevole, hanno visto il congiungersi dei più diversi strumenti nel costruire una società del controllo. Così muta profondamente il rapporto tra lo Stato e le persone, cade l´antica promessa dell´habeas corpus, l´impegno sovrano a "non mettere la mano" su un corpo che oggi non possiamo intendere solo nella sua fisicità, ma nell´intera dimensione costruita dall´accumulo di tecnologie che lo segmentano, lo riducono al segno d´un polpastrello, alla scansione dell´iride, alla traccia del Dna. Il mutamento, dunque, non si ferma al rapporto con lo Stato. Cambia il modo stesso d´intendere la persona, parcellizzata e sempre disponibile per chi voglia impadronirsi dei suoi frammenti, per identificarla, controllarla, discriminarla.
È un contesto nuovo che dobbiamo considerare, dove la tecnica delle impronte digitali non è affatto poco invasiva, assolutamente sicura. Le impronte digitali creano una scia continua d´ogni nostro passaggio: l´aver guidato un´auto, aperto una porta, preso un bicchiere, letto un libro o usato un computer consentono di ricostruire le nostre mosse a chiunque sia in possesso della nostra impronta. Non è così se si adotta un altro criterio di identificazione come la scansione dell´iride: non lasciamo tracce quando guardiamo un oggetto, leggiamo un giornale. Apparentemente meno invasiva, la raccolta delle impronte produce una cascata di effetti sociali che mettono la persona nelle mani di una serie di possibili controllori.
È una tecnica sicura alla quale ricorrere, ad esempio, per sostituire il codice segreto per accedere a un bancomat, evitando così i rischi del furto di identità? No. Se qualcuno "ruba" il mio codice segreto, posso sempre sostituirlo con uno nuovo e continuare così a utilizzare il bancomat. Ma se il furto riguarda l´impronta digitale, poiché questa non è sostituibile, l´effetto è drammatico: sarò escluso da tutti i sistemi fondati sull´identificazione attraverso l´impronta. Non è una ipotesi azzardata. Sappiamo ormai che le impronte sono riproducibili e falsificabili, tanto che qualche mese fa un gruppo di hacker tedeschi ha messo in circolazione con la rivista Die Datenschleuder una strisciolina di plastica dov´è riprodotta l´impronta digitale del ministro dell´Interno Wolfgang Schauble, un fanatico dei sistemi di controllo. Dunque la tecnica delle impronte digitali non solo non è sicura ma, sfidata com´è anche dalle tecnologie della falsificazione, diviene pericolosa, rendendo possibile la disseminazione delle impronte all´insaputa dell´interessato, in occasioni e luoghi che questi non ha mai frequentato.
La prudenza tecnica dovrebbe suggerire la prudenza politica, virtù perduta in molti paesi, e con particolare intensità in Italia. La tecnologia, vecchia o nuova, è ormai intesa come la via regia per la soluzione di ogni problema, abbandonando qualsiasi scrupolo e contribuendo così a deresponsabilizzare e disumanizzare l´agire politico. Si va a frugare in qualsiasi normativa, senza pudore e intelligenza interpretativa del contesto, per concludere che è legittimo ricorrere alle impronte digitali praticamente in ogni caso, con appigli labili o con l´ipocrita argomento del "bene" della persona. Tutto è ridotto a questione d´ordine pubblico, e così può cadere a proposito anche un richiamo a norme fasciste in materia di pubblica sicurezza, emanate dopo che perfino Alfredo Rocco, l´autore del codice penale del 1930, aveva preferito tacere su un punto così delicato.
Da allora non è cambiato nulla? Quanto contano la Costituzione, il valore della persona, tante volte invocato dai politici del centrodestra, pronti tuttavia a scordarsene proprio nelle situazioni in cui dovrebbe essere il primo riferimento? È inaccettabile che si confezioni un patchwork di norme scritte in varie epoche e con finalità persino contrastanti, rivolte a destinatari diversi, per dare base legale a una iniziativa che è una schedatura su base etnica. Dalla Costituzione italiana del 1948 fino alla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea tutti i documenti in materia di libertà e diritti sono fermissimi nell´escludere ogni discriminazione basata sulla razza. Invece, è proprio quello che sta accadendo. La proclamata finalità di assicurare ai bambini rom il rispetto dell´obbligo scolastico, una abitazione decente, la libertà dello sfruttamento riguarda una condizione minorile che tocca drammaticamente migliaia di altri bambini. Un solo esempio. L´evasione dalla scuola dell´obbligo è dell´8 per cento su scala nazionale e arriva al 16 nelle grandi città del Sud. Isolare in questo universo soltanto i rom significa operare una selezione su base etnica, che viola l´eguaglianza e ferisce la dignità. Quando, nel 1949, si scrisse la costituzione della nuova Germania, si volle che il suo primo articolo fosse così concepito: «La dignità umana è inviolabile». Si abbandonava una tradizione che apriva le costituzioni con il riferimento alla libertà e all´eguaglianza proprio perché si voleva reagire all´aspetto del nazismo che più aveva negato l´umano, la persecuzione razziale e la riduzione delle persone a cavie per la sperimentazione.
Il principio di dignità, che dovrebbe essere la misura e il limite d´ogni intervento legislativo, viene cancellato da qualche circolare ministeriale. Questo non ferisce soltanto i rom, adulti o bambini che siano, quando li si obbliga a dare le loro impronte. Corrompe il nostro tessuto sociale e culturale. Se il governo istituisce commissari speciali per i rom e attua per questi una schedatura speciale, legittima e rafforza la stigmatizzazione che già li colpisce. L´"altro" impersona ufficialmente un pericolo, e dunque tacciano per lui le garanzie costituzionali, i principi di civiltà. Si allarga il fossato tra le persone "perbene" e tutti gli altri, proprio là dove il dialogo è l´unica via per produrre vera sicurezza ed evitare che tutti divengano barbari.

Repubblica 1.7.08
Potere e microchip
di Roberto Esposito

Scansione dell´iride dell´occhio, registrazione della traccia vocale, geometria della mano, rilevazione satellitare di ogni movimento... rispetto a queste tecniche biometriche il rilevamento delle impronte appare una procedura perfino arcaica

L´idea di sovranità è oggi messa in crisi
la biopolitIca e i corpi rubati

Sorprende la sorpresa che ha suscitato l´intenzione di estendere il rilevamento delle impronte digitali a tutti i rom, anche bambini, residenti in Italia. Sorprende perché essa non fa che portare alle sue logiche conseguenze un percorso di riduzione biopolitica della democrazia che ha al suo centro la rottura del confine tra pubblico e privato e l´assunzione del corpo come elemento prioritario di identificazione. Ciò è a sua volta la conseguenza del progressivo spostamento dell´agire politico dal piano della condivisione del potere a quello del controllo sociale e poi della sorveglianza generalizzata.
Si tratta di una dinamica - originata ben prima dell´attentato dell´11 settembre 2001, anche se da esso accelerata - che contraddice il presupposto fondamentale dell´ordine politico moderno, in base al quale il corpo dei cittadini non appartiene al sovrano, bensì al soggetto che individualmente lo abita. È vero che già a fine Settecento Bentham aveva immaginato un dispositivo di sorveglianza a suo modo totale - il Panopticon - all´interno del quale ciascun individuo sarebbe stato controllato in tutte le sue mosse da un occhio che egli non poteva a sua volta vedere. Ma ciò valeva, appunto, per dei prigionieri e non per gli uomini liberi, vincolati al sovrano da un patto di obbedienza che non passava per la cessione del proprio corpo, ma per un´opzione della volontà razionale. È in conseguenza di tale presupposto - espresso dalla formula dell´habeas corpus - che si costituiva una civiltà politica secolare, fondata sulla separazione tra pubblico e privato: nulla di ciò che è privato, come appunto il corpo, doveva entrare nella sfera di disponibilità del potere politico. Lo stesso principio di uguaglianza, costitutivo dell´idea di democrazia, si basa su questa separazione funzionale: soltanto se assunti come puri centri di imputazione giuridica che prescinde dagli elementi corporei - e cioè dall´età, dal genere sessuale, dalla provenienza etnica - i cittadini risultano uguali davanti alla legge e ugualmente dotati di diritti politici.
Da tempo questa complessa architettura giuridica e politica mostra segni di cedimento. A incrinarla, nella società globale e multietnica, sono stati a volte gli stessi soggetti - per esempio le donne, ma anche gruppi etnicamente definiti, che hanno rivendicato la propria differenza corporea. Ma è soprattutto il potere sovrano che, minacciato dall´interno e dall´esterno dalla porosità delle frontiere nazionali, si è ristrutturato potenziando sempre più dispositivi di controllo lesivi del principio di uguaglianza, perché diretti precisamente sul corpo come luogo di incancellabile diversità. Ciò è stato reso possibile dall´inserimento di un terzo elemento, la tecnica, nel punto di intersezione tra politica e vita. Già l´uso del Dna ha modificato in radice i termini del processo penale. A questo è seguito lo stoccaggio sistematico di altri dati estraibili dal corpo umano da parte dello Stato o anche di agenzie di governance pubbliche o private. Scansione dell´iride dell´occhio, registrazione della traccia vocale, geometria della mano, rilevazione satellitare di ogni movimento, costituiscono forme di controllo biometrico rispetto alle quali il rilevamento delle impronte appare una procedura perfino arcaica. Già sono allo studio, e anzi in fase di avanzata elaborazione, dispositivi di identificazione - come l´applicazione di microchip subcutanei - che fanno del corpo vivente una semplice appendice organica di un apparato di controllo sempre più invasivo e capillare.
Tutto ciò, come si è detto, è il prodotto del riposizionamento del potere sovrano all´interno degli attuali regimi biopolitici. E dunque l´esito del processo, per certi versi inevitabile, che ha situato la vita al centro di tutte le traiettorie dell´esperienza contemporanea. Questo non toglie che si stia oltrepassando una soglia oltre la quale il termine stesso di democrazia andrà radicalmente ridefinito. Il rischio maggiore è che le stesse procedure di sorveglianza - insieme richieste e subite dalla società della paura - si capovolgano in nuovi fattori di rischio individuale e collettivo. E ciò per un doppio motivo: intanto perché i dispositivi biometrici di controllo - esercitati sulle fasce più esposte ed emarginate di popolazione, come appunto i piccoli rom - determinano nuovi e sempre più potenti effetti di esclusione. E poi perché la consapevolezza diffusa di essere sospettati e sorvegliati attraverso pezzi o zone del proprio corpo, anziché allentare, tende ad accrescere l´inquietudine provocando sempre nuove, e insostenibili, strategie di protezione.

Repubblica 1.7.08
Perché zingari ed ebrei sono vittime predestinate
Il volto banale della xenofobia
di Adriano Prosperi

Rilevare le impronte ai bambini degli zingari è una misura razzista. Le proteste del ministro che le propone e dei molti che silenziosamente o rumorosamente le approvano ci mettono davanti al volto autentico del razzismo.
Che non è quello mostruoso e abnorme che ci piace immaginare per nostra tranquillità: è quello pulito e rispettabile di tanti buoni padri di famiglia amanti della natura, dei cani e dei bambini, bene intenzionati nei confronti dell´umanità, decisi a isolare, rieducare o sopprimere le frange irregolari, sporche, malate, deformi. Una parola dal suono e dal significato benevolo riassume tutto questo: eugenetica. Basta visitare musei e centri di ricerca nelle capitali della scienza medica tedesca per trovarci davanti ai documenti lasciati negli anni dalla volontà di selezionare e migliorare la specie umana. Eppure, come da sempre accade quando si parla di zingari, ebrei e altre vittime predestinate del razzismo, chi propone o difende certe misure non vuole che lo si definisca razzista.
Ma la storia può aiutare a togliergli qualche illusione. Anche a un esame rapido e superficiale emerge che le misure scientifiche applicate al corpo umano sono una cosa diversa e recente, che spicca nel percorso millenario delle barriere di artificiali differenze alzate tra "noi" e "gli altri". All´inizio ci furono quelle linguistiche. Sono l´esito più antico del tentativo di porci al di sopra di altri gruppi umani: "noi" parliamo, "gli altri" farfugliano, balbettano sillabe incomprensibili. Per questo li abbiamo chiamati "barbari". Poi ci furono le barriere religiose: con l´avvento in Europa del cristianesimo come religione universale e obbligatoria, gli "altri" sono diventati gli "infedeli" se al di là dei nostri confini, gli "eretici" o i "giudei" se all´interno. Bisognò individuarli per impedire loro di contaminarci: le mura dei ghetti e un panno giallo sul cappello o una stella di David per gli ebrei, una tunica nera coi diavoli dipinti sopra per gli eretici. Se l´eretico o il giudaizzante finiva sul rogo, l´abitello restava appeso in luogo sacro a perpetuare la memoria e l´infamia. Oggi ne rimane qualcuno nei musei, documento di un passato lontano.
Ma prendere le impronte digitali è cosa diversa.
Sir Francis Galton, il grande scienziato inglese cugino di Darwin e autore di un´opera fondamentale sulla classificazione delle impronte digitali (Fingerprints, 1892), non era razzista. Credeva nella scienza e nelle possibilità di sviluppo dell´intelletto umano. E tuttavia il metodo della rilevazione delle impronte trovò la sua prima applicazione nel 1897 in un´area dove la civiltà occidentale era decisa a modificare una cultura diversa: lo usò un ufficiale di polizia inglese nel Bengala. Dunque fin dall´inizio un metodo nato nell´ambito della ricerca scientifica fu usato su di un popolo dominato dall´Occidente e divenne lo strumento poliziesco per l´identificazione dei criminali. Da allora le tecniche di misurazione dei corpi e di individuazione delle differenze dalla cosiddetta "normalità" si sono prestate all´impiego in funzione della selezione delle "razze" buone e dell´eliminazione di quelle "cattive". Come ha spiegato il maggiore storico del razzismo moderno, George Mosse, nel mondo contemporaneo il razzismo tende a diventare il punto di vista della maggioranza. È un modo di vedere le cose che si è impadronito di idee di uomini di scienza non razzisti e le ha usate per imporre l´ideale di rispettabilità borghese e di moralità della classe media, fatto di pulizia, onestà, serietà morale, duro lavoro e vita familiare. Chi si distacca da quell´ideale è considerato un diverso, un essere pericoloso, un criminale in potenza. La sua esistenza è un attentato alla salute del corpo sociale, quell´individuo collettivo, quella entità gigantesca, preziosa, di cui siamo le membra e che siamo tenuti a proteggere. Se si può isolare scientificamente la diversità - ecco il sogno del razzista - il pericolo si può eliminare. Perché criminale si nasce, non lo si diventa. Come scrisse nel 1938 un avvocato tedesco destinato a grande fortuna, Hans Frank, «la biologia criminale, o teoria della delinquenza congenita, indica l´esistenza di un nesso tra decadimento razziale e tendenze criminali». Ecco perché bisogna portare il bambino figlio di zingari davanti alla macchina che registrerà le sue impronte digitali. La sua è una razza degenerata, decaduta, dedita al nomadismo, all´alcoolismo, al furto. Lui non lo sa, ma noi sì. Prima o poi quella traccia schedata dalla polizia (o dai vigili? a loro la risposta) si rivelerà utile. L´occhio della legge non lo perderà di vista.
Già, l´occhio. La Giustizia ha tanti occhi e tante orecchie. Si discute da millenni se sia più importante l´udito o la vista. C´è chi l´ha rappresentata con la benda sugli occhi, in modo da garantire l´uguaglianza di trattamento a chi è ricco e a chi è povero, ai potenti e ai miserabili. Oggi la Giustizia italiana apre tutti i suoi occhi per guardare i bambini zingari mentre chiude gli occhi e si tura le orecchie davanti ad alcuni potenti. È un fatto nuovo e originale. Si prendano dunque le impronte digitali agli zingari e ai loro bambini. Nelle linee della mano le zingare hanno letto per secoli il nostro destino, ora è venuto il tempo di leggere e decidere il loro. Quanto ai bambini, ci dicono che è per proteggerli. Non per tutti sarà possibile: quella bambina a cui fu messa in mano una bambola esplosiva le dita non ce le ha più.

Corriere della Sera 1.7.08
Le impronte e il caso dei nomadi
E se a Duisburg schedassero gli italiani?
di Giovanni Bianconi
E se a Duisburg schedassero gli italiani?

Sulle impronte digitali dei bambini rom il ministro dell'Interno leghista continua a ripetere che non c'è niente di strano e tantomeno di razzista, e che quella misura è a protezione degli stessi ragazzini costretti a vivere tra topi e padri- padroni. Ma ha avuto buon gioco chi ha replicato che se davvero ci fossero quei bambini in cima ai suoi pensieri, farebbe meglio a trovare il modo per mandarli a scuola. E non si dica che i «rilievi segnaletici» servono a quello: magari per obbligarli a studiare in qualche classe separata?
In realtà l'ordinanza sulle impronte prende le mosse da un decreto nel quale il capo del governo Silvio Berlusconi ha dichiarato «lo stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi» in tre regioni. Un'emergenza- zingari, insomma, decisa a tavolino, vissuta e affrontata come un problema per la nostra tranquillità, non per quella dei bambini che abitano i campi più o meno abusivi. Da qui, dalle «possibili gravi ripercussioni in termini di ordine pubblico e sicurezza per le popolazioni locali» (come recita l'ordinanza governativa), discende quella che inevitabilmente si trasformerà in una schedatura su larga scala, il cui unico criterio è quello dell'appartenenza a un'etnia. E il cui obiettivo non dichiarato sembra quello di realizzare una «banca dati preventiva » di potenziali autori di reati, pre-selezionati dal fatto di essere stati sorpresi in un campo nomadi. In modo che al prossimo furto in appartamento, con le impronte digitali si potrà più facilmente risalire agli autori, se per caso quelle dei ladri coincidessero con qualcuna presente nel «grande archivio».
I rom rubano, certo. Anche da bambini. Come rubano gli italiani, e non solo i più grandi. Come rubano i polacchi, gli albanesi e tutti coloro che decidono di farlo, indipendentemente dalla naziona-lità, dal colore della pelle, dalla religione o dai costumi. È un problema da prevenire e reprimere. Come? Non con misure che hanno un retrogusto razzista e possono trasformarsi nell'anticamera di chissà che cosa.
In Sicilia c'era e c'è la mafia, e alcuni siciliani sono mafiosi. Hanno commesso delitti orrendi, e hanno provocato una vera e propria emergenza nazionale. Fino a mettere in ginocchio lo Stato, come nella stagione delle stragi del 1992-93. Sul luogo in cui fu fatta esplodere la bomba di Capaci che uccise Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta furono trovati dei mozziconi di sigaretta da cui fu estratto il Dna dei possibili attentatori: a qualcuno è mai venuto in mente, allora, di prelevare il codice genetico di tutti i siciliani per fare il confronto? O anche solo di quelli con un cognome diffuso tra le famiglie mafiose? E se dopo la strage di Duisburg i tedeschi avessero deciso di prendere le impronte digitali a tutti gli emigranti calabresi, per essere sicuri di non avere a che fare con degli 'ndranghetisti assassini (che certo non esibiscono documenti autentici), che cosa avrebbe detto il ministro dell'Interno italiano?
Quello attuale sostiene di «voler sapere chi c'è in Italia, dove abita, cosa fa e cosa farà nei prossimi mesi». Cioè vuole delle certezze, anzitutto sull'identità. Ma l'Italia è presumibilmente affollata di gente di malaffare che si nasconde dietro falsi nomi. Non solo extracomunitari, e tantomeno solo «zingari». Che si fa allora, si schedano tutti? Ai tempi del terrorismo giravano per le metropoli centinaia di militanti del «partito armato » entrati in clandestinità, però nessuno ha mai pensato di prelevare le impronte — per dire — a chi frequentava le università o lavorava in certe fabbriche dove potevano proliferare i brigatisti, così da avere certezze al primo controllo di polizia. Semplicemente perché non si può criminalizzare una categoria di persone dentro la quale è molto probabile, o perfino sicuro, che si annidino dei criminali. Ancor meno se quella categoria corrisponde a un'etnia, e ancor meno se la decisione comprende dei bambini con la sola colpa di essere nati nella culla sbagliata. (Sbagliata per chi e perché, poi?).
Una persona a cui è stata presa l'impronta digitale, da quel momento mette la propria firma su ogni oggetto che tocca, comunque e dovunque. Può darsi che secondo qualcuno il bisogno di sicurezza collettiva imponga che a questo si debba arrivare: una maxi-schedatura che consenta di identificare chiunque, subito e con assoluta certezza. Ma allora perché fermarsi ai nomadi, col pericolo di alimentare pruriti razzisti e senza alcuna certezza di archiviare le tracce di tutti i possibili autori di reati? Meglio schedare tutti, senza distinzioni anagrafiche o etniche, così almeno si potrà dire che la misura sarà dettata dall'appartenenza all'unica razza ammissibile: la razza umana.
❜❜ Il bisogno di sicurezza collettiva fa concepire una operazione che consenta di identificare chiunque, subito e con assoluta certezza. Ma perché fermarsi ai nomadi, con il pericolo di alimentare pruriti razzisti e senza alcuna certezza di archiviare le tracce di tutti i possibili autori di reati? Allora controlliamo tutti

l’Unità 1.7.08
Roma. Domenica scatta la schedatura nei campi abusivi
La polizia protesta: sui bimbi effetti devastanti
di Massimiliano Di Dio

Negli insediamenti
entreranno Croce rossa
carabinieri, polizia
guardia di finanza
e vigili urbani

Ora la data è certa: domenica sera parte il censimento dei senza fissa dimora della capitale. Come prima tappa gli insediamenti abusivi. Con o senza le impronte digitali anche per i bimbi rom, saranno invece le linee guida diffuse venerdì in Prefettura a stabilirlo. Certo l’ordinanza del Viminale non lascia dubbi: impronte per tutti, anche a dispetto dei moniti dell’Unione europea. Ma restano lacune e incongruenze nell’ambito delle modalità operative di identificazione dei nomadi. Punti approfonditi anche durante l’incontro avuto due giorni fa dal capo di Gabinetto del ministro, Giuseppe Procaccini, con i tre prefetti interessati dall’emergenza. Milano, Napoli e soprattutto Roma, al centro delle polemiche per le dichiarazioni del prefetto e commissario straordinario per i rom, Carlo Mosca. Il suo no alle impronte non è stato ancora digerito dal ministro Maroni. «Mosca il ribelle. Il commissario rischia il posto» titolavano ieri alcuni giornali. Dalla Prefettura, poche ore dopo, arrivava solo un «No comment. Tutto sarà spiegato nei prossimi giorni». Intanto scendono sul piede di guerra i sindacati di polizia: «Le impronte hanno effetti devastanti sulla psiche di un bambino», e polizia municipale: «Sono compiti di ordine pubblico, non toccano a noi».
Nessuno lo sa ma la macchina del censimento rom è già stata rodata nella capitale. Circa una settimana fa. Senza problemi, senza impronte digitali. E la stessa affidataria dell’incarico ministeriale, la Croce Rossa Italiana, che da anni si occupa di rom con corsi di educazione alla salute e ambulatori pediatrici nei campi, a darne notizia. «Un censimento di prova effettuato in alcuni insediamenti abusivi sul lungotevere prima dell’avvio ufficiale del 6 luglio - spiega Fernando Capuano, presidente del comitato provinciale di Roma della Cri -. Su 60 persone, 58 si sono fatte identificare senza alcun problema. Uno su tre era minorenne».
Nessuna impronta digitale, dunque. Bensì una scheda con nome, cognome ed età presunta - da accertare in casi dubbi con esami a raggi x - di ogni rom. E ancora informazioni su fabbisogni, vaccinazioni obbligatorie, esperienze lavorative. Poi la consegna di un tesserino sanitario da usare per l’accesso ai servizi medici. I dati rimarranno nelle mani della Croce Rossa Italiana e delle Prefetture. Ma sarà così anche dal 6 luglio prossimo? Pare proprio di no. Accanto ai volontari della Cri, intanto ci saranno carabinieri, guardia di finanza, polizia e vigili urbani. A questi ultimi due, sembra, il compito di svolgere l’identificazione. E quindi le impronte digitali. «Per evitare tensioni sarebbe meglio una presenza delle forze armate in borghese - confida ancora Capuano - Già l’enfasi politica di questi giorni potrebbe aver dato spazio a “disturbatori” che, per interessi economici o traffici illeciti all’interno dei campi, potrebbero ostacolare il nostro lavoro».
Sul fronte impronte digitali, oggetto di un confronto tecnico giuridico due giorni fa al Viminale, i dubbi sono molti. A partire da quale età si possono prendere? E chi le prenderà? Polizia o vigili urbani? «I bambini rom sono come tutti gli altri - afferma Gianni Ciotti del sindacato di polizia Silp-Cgil - Allora perché non prendere le impronte anche ai piccoli che vivono nei quartieri con alta percentuale di delinquenti? I campi nomadi sono soprattutto un problema sociale. Solo dopo diventano un problema di polizia. Lo stress psichico che si provoca a un bambino con le impronte è devastante psichicamente». «Finora ci sono stati solo annunci. Noi della municipale stiamo ancora aspettando di essere convocati da Alemanno sul piano sicurezza» dice Marco D’Emilia della Cgil mentre dalla Uil, per voce di Domenico Ilari, fanno sapere: «Come vigili urbani non abbiamo mai preso le impronte digitali. Ci occupiamo di emergenza e campi rom ma l’ordine pubblico non ci compete».

l’Unità 1.7.08
La sentenza Gelmini. «Scuola, tagli inevitabili»
Panini, Cgil: «Tremonti massacra la conoscenza e la ricerca»
La ministra e le impronte per i rom: «Se serve per riportarli in classe...»
di Marina Boscaino

«NON SI PUÒ INTERVENIRE sulla scuola dal punto di vista economico senza toccare i posti». Quella dei 150mila tagli tra personale docente e non docente (con un ammontare, nel giro dei prossimi 3 anni, di un 10% in meno di cattedre, con 87.245 insegnanti in meno, 42.500 Ata in meno e con un risparmio a regime di 3, 189 miliardi) è una manovra «dolorosa, difficile, ma che
non rinvia i problemi, anche perché i problemi non sono più rinviabili». Si è presentata puntuale, garbata, sorridente Mariastella Gelmini, a ribadire un concetto che ormai è chiaro per tutti: la più ferma determinazione a portare avanti un piano di smantellamento della scuola pubblica. E ad illustrarci, invece, come ha fatto più volte parlando della scuola, il migliore dei mondi possibili anche per ciò che riguarda la ricerca scientifica. Ad accoglierla al convegno, «I nostri ricercatori: una ricchezza per il Paese e per l'Europa», c'era ieri a Roma Enrico Panini, segretario generale della Federazione dei Lavoratori della Conoscenza della CGIL (Flcgil).
Panini ha sollevato una serie precisa di questioni, che prendono spunto da fatti recenti e ormai noti, sintetizzabili in una cifra: 8 miliardi di euro. Tale è l'ammontare dei tagli che graveranno su istruzione e conoscenza nella prossima Finanziaria, secondo quanto previsto dal recente Decreto Legge 112, collegato alla manovra finanziaria 2009, approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 18 giugno, che sta per essere discusso dalle Camere. Una vera e propria Finanziaria nella Finanziaria, considerando la clamorosa entità dei tagli.
Gelmini ha risposto con disarmante ovvietà: del resto, chi non commenterebbe negativamente il fatto che in Italia solo lo 0,7% del Pil è destinato alla ricerca, 1/3 della media europea? Chi non stigmatizzerebbe il fatto che l'Italia rappresenta il 14% del Pil europeo, ma contribuisce solo con il 6% all'occupazione nel mondo della ricerca? O non troverebbe disdicevole l'idea che i nostri ricercatori siano umiliati economicamente e che il loro reclutamento avvenga per cordate di potere e non per competenze e risultati scientificamente rilevanti? O inadeguata l'età media dei ricercatori stessi, di gran lunga superiore a quella dei colleghi europei?
Tutto condivisibile, esattamente come il fatto che lo stipendio medio di un insegnante di scuola rappresenta la negazione di qualunque serio investimento culturale sull'istruzione. Insomma, Gelmini si è impegnata a rispondere alle questioni poste da Panini, anche se le buone intenzioni - come sempre - dovrebbero essere confortate da opportuni e precisi stanziamenti.
In realtà, il più attendibile e inattaccabile contraddittorio alle sue benevole ipotesi è già stato garantito da Tremonti. Che se non ha infierito in maniera violenta sulla ricerca, ha certamente posto una serissima ipoteca per l'impoverimento definitivo della scuola pubblica. Perché quei 150.000 posti in meno non sono solo meno stipendi da pagare; ma - dal punto di vista dell'interesse generale - meno cattedre, meno ore di scuola, meno materie; addirittura scuole in meno. Si pensi a territori montuosi come quello della Basilicata, dove piccoli istituti rischiano di essere chiusi a causa dei tagli, ledendo in maniera inaccettabile diritti fondamentali dei bambini e delle loro comunità.
Si preannuncia dunque un autunno bollente e la scuola saprà svolgere il suo compito. Ma, ammonisce Panini: «Nessuno pensi di lasciare la scuola da sola in questa battaglia. La drastica riduzione del diritto all'istruzione è un problema che investe e aggredisce l'insieme della società. Tutti - sindaci, parroci, associazioni, gente comune - devono dare il proprio contributo contro un'emergenza dalla quale nessuno può sentirsi chiamato fuori. Quelle di Tremonti sono politiche di vero e proprio massacro del mondo della conoscenza e della ricerca».
E, per cominciare, riflettiamo su questa affermazione del ministro: «In Italia i rom aumentano, ma i bambini rom che vanno a scuola sono sempre di meno. Se serve a combattere questo fenomeno, ben vengano le impronte anche per loro».
Una proposta così lungimirante di lotta alla dispersione scolastica meriterebbe forse di essere immediatamente estesa. Potremmo provare a vedere se funziona anche a Scampia o allo Zen di Palermo: non si sa mai...

l’Unità 1.7.08
Abusava di minorenni nell’oratorio, sacerdote in manette
Roma, il parroco accusato di violenza sessuale. Avrebbe approfittato di 7 ragazzi, quelli più fragili
di Massimiliano Di Dio

All'epoca aveva solo 11 anni. Altri, 14 al massimo. Da loro mai una parola sul quel drammatico segreto. Neppure una volta divenuti maggiorenni. Poi la denuncia alcuni mesi fa da parte di un altro prete. «Quel sacerdote ha comportamenti anomali, troppo disinvolti con alcuni bambini». Ieri i carabinieri del nucleo investigativo di via in Selci lo hanno arrestato. R.C., 55 anni della parrocchia romana Natività di Maria Santissima, è accusato di violenza sessuale continuata e aggravata. Secondo gli inquirenti, approfittava del suo abito talare per abusare dei bambini che frequentavano l'oratorio o i campi estivi. Non tutti i bambini però. Quelli più fragili. Che lui, almeno dalla fine del 1997, avrebbe scelto con cura prima di portarli nelle stanze del suo appartamento vicino alla chiesa. Sette per ora i ragazzi che hanno raccontato ai carabinieri un passato fatto di abusi e pedofilia. L'ultimo caso risale al 2005 ma le indagini proseguono.
E la notizia dell'arresto del sacerdote non ha sorpreso tutto il quartiere. Su di lui, sulle sue “attenzioni” nei confronti di alcuni ragazzi, le voci giravano da un po'. Le autorità ecclesiastiche, a quanto pare, ne erano al corrente. Il sacerdote era già stato sospeso un mese dall'esercizio delle sue funzioni. «Piena fiducia» nell'operato della magistratura e vicinanza a quanti «sono feriti da questa vicenda», sono state espresse dal vescovo della diocesi di zona (Porto-Santa Rufina), monsignor Gino Reali.
Quasi tre mesi di indagini. Poi la decisione del gip di Roma, Andrea Vardaro, su richiesta del pm Francesco Scavo, di emettere l'ordinanza di custodia cautelare. Pericolo di reiterazione del reato, alla base della richiesta. Il sacerdote, che continuava a svolgere le funzioni di parroco, poteva venire a contatto con altri bambini o ragazzi. Da qui, l'arresto da parte dei carabinieri, ieri mattina, nella parrocchia di via Selva Candida. Proprio dove il sacerdote avrebbe scelto per anni le sue vittime. Bambini anche di 11, 12 anni. Spesso figli di famiglie disagiate o comunque con personalità fragili. Che avrebbero dovuto trovare nell'oratorio o nelle lezioni di catechismo un momento di svago. E invece magari con la promessa di soldi, cd, dvd o vestiti, secondo l'accusa finivano nell'appartamento del sacerdote. «Per mangiare qualcosa insieme», «per ripassare la lezione» diceva lui. Tutto falso, denunciano ora almeno sette ragazzi. Una volta dentro quelle stanze, il sacerdote diventava un altro. Non era più l'amico spiritoso che tutti conoscevano ma l'uomo degli abusi. Preceduti da qualche film pornografico che le vittime erano costrette a guardare insieme a lui. Alcuni di questi film sono stati trovati in casa del sacerdote nel corso della perquisizione. Nel quartiere il mormorio è insistente. «La Chiesa sapeva tutto» dicono alcuni residenti.

Corriere della Sera 1.7.08
Un saggio raccoglie fatti di cronaca, grandi avvenimenti, dittatori che cercarono modelli nel passato
Quando la Storia copia se stessa
Ieri e oggi: sorprendenti analogie scovate da Siegmund Ginzberg. Il caso Russia
di Luciano Canfora

La cliofilia può apparire, ed in parte è, una deformazione mentale. Appellarsi ad un precedente storico per giustificare l'agire politico o ravvisare in un fatto passato l'antecedente di un avvenimento presente, nella convinzione che il primo illumini e aiuti a meglio intendere il secondo, sono i principali aspetti della cliofilia. La parola ha avuto una certa fortuna, talvolta è stata usata con ironia. Nella Talpa della storia di Vladimir Kormer, dimenticato autore sovietico del «dissenso», per esempio, se la rinfaccia come «vizio» l'inquieto genitore- funzionario alle prese col figlio maniaco dell'Occidente. Ma essa non è appannaggio di una parte sola. È stato osservato che anche l'oratoria e la pubblicistica mussoliniana è ossessivamente «cliofilica» sia prima che dopo il salto spericolato dal socialismo al fascismo. E l'oratoria politica delle prime quattro Repubbliche francesi offrirebbe, in questo senso, un eccellente repertorio.
A ben vedere l'atto di nascita è già nella storiografia antica: nell'idea cioè che lo scrivere la storia di fatti reputati epocali giovi alla comprensione della vicenda politica prossima ventura (se non addirittura di ogni tempo). Coloro i quali dunque si volgono ammirati al passato scorgendovi analogie con il presente, come accade a Siegmund Ginzberg nel suo composito e denso
Risse da stadio nella Bisanzio di Giustiniano (Rizzoli), non fanno che portare conferme a quella lontana previsione tucididea nonché sostegno a tutte le prospettive cliofiliche di qualunque orientamento esse siano. «Mi sono accorto — scrive — che nelle pagine dei grandi libri (del passato, ndr.) si potevano trovare tesori insospettati di giornalismo, anticipazioni insospettate della notizia del giorno (...) La meraviglia è che riescano a dirci tanto sulle nostre vicende». Talvolta sono stati gli stessi protagonisti di grandi fasi storiche a leggere se stessi analogicamente, a calarsi dentro una analogia. Ginzberg dedica uno dei suoi capitoli più riusciti alla riflessione di Stalin sul film Ivan il terribile di Eisenstein e lo fa servendosi di una fonte primaria: gli appunti presi dal grande regista e dall'attore che impersonava Ivan (Cerkasov) dopo la loro lunga e tesa conversazione con Stalin (presenti Zdanov e Molotov), il quale per discutere e criticare il film li aveva convocati. L'incontro avvenne nel febbraio del 1947. Gli appunti presi allora dai due sono stati pubblicati mezzo secolo dopo, nel 1998, da Moskovskie Novosti.
L'analogia funzionava in due direzioni. Intendeva significare che il ruolo storico di Ivan IV era stato positivo e inoltre che esso poteva essere accostato, in situazione pur diversa, al ruolo dello stesso Stalin, oppure che proprio la possibilità di un tale accostamento doveva suggerire che il ruolo di Ivan doveva considerarsi sostanzialmente positivo. L'imprevisto che vien fuori dagli appunti è che Stalin e Zdanov non solo criticano il film perché attribuisce a Ivan caratteri che i due non accettano né gradiscono («il vostro Ivan viene presentato come un nevrastenico, un malato di nervi» sbottò Zdanov), ma estendono la loro critica al personaggio storico in quanto tale. E così limitano la portata stessa dell'analogia. «Uno degli errori di Ivan — disse Stalin se si presta fede agli appunti — fu di non essere riuscito a farla finita col potere dei cinque partiti feudali tra cui era costretto a giostrarsi. Fosse riuscito a disfarli, non sarebbe seguita quella che viene chiamata l'Era dei Torbidi. Fatto giustiziare qualcuno — soggiunse con evidente sarcasmo — finiva poi per perdersi a lungo in contrizioni e preghiere».
Un altro attore, anche lui prediletto dal regista, pare avesse detto ad Eisenstein prima del colloquio: «Stalin ha ammazzato molta più gente. E non se ne pente. Proviamo a vedere se si pente dopo aver visto il film!». Lo storicismo «cliofilico» di Stalin rifulge, in quella circostanza, anche nell'elogio che egli fa del cristianesimo. E lo fa in polemica con altri censori che avevano rimproverato al film l'eccessiva presenza della religione. «Non si può dire che noi siamo buoni cristiani — obiettò Stalin in difesa del film. Ma sarebbe sbagliato negare il ruolo progressivo del cristianesimo in quella fase storica. Ebbe un grande significato: segnò il momento in cui lo Stato russo si staccava dall'Oriente e si volgeva verso Occidente. Liberatosi dal giogo tartaro (musulmano), Ivan tendeva a riunificare la Russia come bastione contro le invasioni tartare». Come non pensare, leggendo questa riflessione alla Toynbee, al celebre giudizio di Isaac Deutscher nella sua biografia di Stalin («scacciò la barbarie dalla Russia con metodi barbarici»)?
Ovviamente la cliofilia può avere effetti addormentatori e assolutori nei confronti della «a-moralità» della politica (si intende di quella grande e terribile, non delle operette o pochades della quotidianità parlamentare). Perché, ad esempio, Ivan sentì il bisogno di punire ferocemente ed esemplarmente Novgorod (1570) città a lui fedele e di insospettabile fede ortodossa? Non fu mai dimostrato che Novgorod volesse passare con la Polonia cattolica o con la nemica Svezia. Eppure bastò il sospetto. E anche questo non può che rafforzare l'analogia.
Essa non è un gioco: al contrario, può essere un antidoto al fatalismo storiografico. È banale praticarla entro il semplice orizzonte improduttivo del nil sub sole novum. Al contrario — si potrebbe osservare — giova a rimettere continuamente in discussione il passato. A non appagarsi di giudizi consolidati, a non sistemare una volta per sempre da una parte i buoni e dall'altra i cattivi. In tal senso proprio la coppia Ivan-Stalin risulta istruttiva e foriera di riflessioni non necessariamente rasserenanti.
Poco c'entra Putin in tutto questo, anche se Ginzberg chiama in causa soprattutto lui. Certo, anche il caso Putin può arricchire il quadro in un'altra direzione: quella della continuità nonostante la rottura. E la storia della Russia, così come del suo archetipo bizantino, si presta, alla considerazione della continuità, come un esempio da manuale. Rottura più prolungata e lancinante dell'ottobre 1917 e di tutto ciò che ne seguì è difficile immaginarla. Eppure il potere, la sua forma come il suo esercizio, finì col riassestarsi, dopo la inaudita bufera, nelle forme che la tradizione russa offriva ai protagonisti (e anche agli antagonisti). Rottura più clamorosa, sul finire del Novecento, e più netta, della fine dell'Urss e del dissolvimento del Partito-Stato, è difficile trovare. Eppure le forme del potere di quella che ormai chiamiamo «Demokratura», sia essa retta da Eltsin che fa bombardare il Parlamento o da Putin che fa eleggere presidente un suo sostituto per rimpiazzarlo al più presto, sono ancora debitrici della storia russa e della sua incoercibile continuità. Anche i boiardi, che Ivan cercò di liquidare, sono lì a insidiare i successori del «Terribile». Non bastò neanche la durezza staliniana a farli uscire di scena.

Corriere Fiorentino 1.7.08
Una città due sessi
Il potere è maschio la riscossa è femmina
Le donne: canti, lazzi e l'ultima guerra per il diritto di voto
di Donatella Coccoli

Lì, in Fontebranda, con le donne è successo un quarant'otto. Tra tutte le contradiole senesi, le ocaiole sono rimaste le uniche a non avere diritto di voto in contrada e si son fatte sentire. La diatriba andava avanti da tempo, ma quest'anno l'incendio è divampato, davanti a tutta la città. Accuse, contraccuse, tentativi di trovare un accordo andati in fumo, minacce e propositi di ricorrere alle vie legali. Il dito, naturalmente, è puntato sul dominio dei maschi. Ma non è solo una questione di sessi contrapposti. C'è chi chiama in causa la tradizione, la cultura, rivendicando il diritto a non stravolgere regole secolari. E c'è chi invece sostiene che la tradizione non può essere immutabile, che il mondo cambia e che anche il Palio non può non tenerne conto. L'Oca è lacerata dal dilemma, le altre contrade hanno voltato pagina da tempo, ma una domanda resta per tutte: che cosa c'è per le donne nel futuro del Palio?
Uomini sono i fantini, uomini sono gli alfieri, uomini sono i protagonisti del corteo storico. Sono quasi tutti uomini anche priori, capitani e mangini, quelli che segretamente fanno i «partiti », i patti che possono decidere la corsa. Ma ecco la rivincita, la scalata - lenta, ma inesorabile - delle donne. Sono loro quelle che inventano i canti, quelle che sfidano con parole senza ritegno gli avversari, quelle più trasgressive. Non solo. La riscossa è diventata evidente quando alla ribalta si sono affacciate alcune donne-dirigenti. Attualmente Anna Carli è priore del Montone mentre Maria Aurora Misciattelli è la capitana della Torre che fece riassaporare ai suoi contradaioli il gusto del trionfo nel 2005. Ancora più frequente il caso di donne alla guida delle società di contrada. Un po' paradossalmente, di recente è stata proprio una donna a gestire la società Trieste, quella dell'Oca. Nel 1976 una donna comparve anche nel corteo che rievoca i fasti militari del Medioevo: con perfetta montura sfilò sul cavallo da parata del Montone. E da un paio di anni nel giorno della Tratta si vedono anche le «barbaresche»: in costume assistono all'estrazione a sorte dei cavalli, anche se poi il cavallo assegnato alla contrada viene preso in consegna dal barbaresco uomo (non in costume). Una breccia aperta nel 2006 dalla Giraffa.
Di donne-fantino il Palio ne ricorda una sola, la famosa Rosanna Bonelli detta Rompicollo, che nel ....galoppò senza successo nell'Aquila. Anche se pare che nel 1581 abbia corso una tal Virginia, appena quindicenne. Mentre è solo femminile e trasversale a tutte le contrade, guarda un po', il corso per bandieraie: serve a imparare le tecniche del ricamo e del restauro dei vessilli di seta usati sul Campo.
Uomini, donne, il potere. Un rapporto che anche qui riflette una situazione più generale della società italiana, o un unicum? Siena città vitale grazie all'identità e alla coesione contradaiola o Siena piccola patria conservatrice? Per Alessandro Falassi antropologo, uno dei massimi interpreti del Palio e della città, «questa è una festa di grande autenticità e riflette la società senese. Il Palio mostra e mette in scena i valori di una comunità, riflette Siena com'è. Ed è il depositario della storia, non gli si può chiedere un ruolo che non ha». Certo, negli ultimi decenni sono emerse nuove entità: «i giovani, le classi medie, le donne ». Basta assistere alle prove , spiega Falassi, per rendersi conto dell'apporto vitalissimo, talvolta molto hard, di quest'ultime: «Anche nel Palio ci si sta adeguando ad un equilibrio di uguali. Come nella società senese».
Proprio quando la lotta tra le contrade impazza, la lotta tra i sessi sembra cessare. I giorni del Palio sono «galeotti »: tempo sospeso, notti lunghissime, rulli di tamburo. E nelle contrade ci si innamora. Il Palio, si dice a Siena, crea un certo rigirìo. Lo descrive Francesco Burroni (ocaiolo), attore e autore di rime in vernacolo senese (l'ultimo libro, appena uscito, si intitola «Dal Purgatorio al Paradiso »): la festa...'l vino...i canti...il Paperone.../ lui la guarda...lei fa l'indifferente.../ poi un altro sguardo... e improvvisamente/ scappano via da la 'onfusione"…

Corriere Fiorentino 1.7.08
Boccaccio, quel simpatico sporcaccione
di Antonella Landi

«A Giovanni piaceva più che altro affondare le mani. Seni, fianchi, natiche, cosce: gli andava bene tutto, bastava trovarci roba»

(...) Boccaccio, di Firenze, non voleva sentir parlare. Egli era uno dei quei pochi, pochissimi fiorentini che non si vantavano del fatto di essere nativi della città gigliata. Napoli gli piaceva assaje e per nulla al mondo avrebbe voluto tornare a casa sua, in punta a quel cocuzzolo di Certaldo, e tantomeno in quella città di presuntuosi. Anche perché, a Napoli, sentit'a mme, aveva trovato...l'ammore. Maria dei Conti d'Aquino, figlia illegittima del re Roberto d'Angiò, in realtà già sposata, non fu insensibile al fascino del mancato trovatello toscano.
Lui, da parte sua, l'adorava. «Maremma come tusse' bella tonda e soda!» le diceva lui strizzandole le braccia là dove esse si fanno più cicciotte, vicino all'attaccatura delle spalle. «Uè, tien'e mani a pposto, scostumato!» rideva lei. Poi nell'intimità delle loro stanze, non le pareva vero sbottonarsi quei bustini stretti e fargli assaporare le sue grazie.
Boccaccio aveva una passione incontenibile per la ciccia delle donne. Ma il bello, poi, era che non se ne pentiva mai. Non faceva come Petrarca (‘‘l'amo'', ‘‘non l'amo'', ‘‘l'amo'', ‘‘non l'amo''): lui amava. Senza riserve, senza ritegno. Di pancia. Di brutto. Ma soprattutto amava carnalmente. Sarebbe stato impensabile, per lui, amare solo spiritualmente, come aveva fatto Dante con Beatrice, o come aveva provato a fare Francesco con Laura. A Giovanni piaceva più che altro affondare le mani. Seni, fianchi, natiche, cosce: gli andava bene tutto, bastava trovarci roba. Quando giunse il giorno in cui, per motivi di forza maggiore, dovette smettere di affondarcele e, rifatte in fretta le valigie, si rimise obbligatoriamente in viaggio in direzione nord, credé di morire di crepacuore. «Come fo? Come fo? Come fo?» ripeté ad libitum fino a Firenze, dove il babbo lo aveva urgentemente convocato. «Giovanni, c'ho da dirtene una brutta» annunciò Boccaccino col muso lungo, appena il giovane scene da cavallo: «il Banco ha fallito: s'è perso tutto, da ricchi siamo doventati miserabili, bisogna arricciarsi le maniche e darsi da fare ». «Io 'un so mica fare nulla» rispose suo figlio, «al massimo ti posso dedicare una poesia di consolazione». Invece dovette mettersi a lavorare e smettere di fare il creativo (oltre che lo spiritoso) perché il pane mancava davvero e le rime, la pancia, non l'hanno empita mai. Fino a quel momento aveva coltivato il suo spirito sensibile nello Studio napoletano, all'epoca il più importante centro culturale italiano, frequentando la biblioteca reale e anche la corte angioina, che rappresentava il punto d'incontro tra la cultura arabo-bizantina e quella italo-francese. Da quel momento in poi, invece, strinse la cinghia e accantonò i sogni di gloria poetica, sperando che la fase più brutta della sua vita coincidesse almeno con la più breve. La terribile peste del Trecento intanto giunse a Firenze e si portò via suo padre. «Che meraviglia, qui c'è il materiale per scrivere un centinaio di novelle! » pensava Boccaccio intingendo il pennino nell'inchiostro e attaccando il Decameron, la sua opera più inclita, per stendere la quale gli ci vollero tre anni di studio matto e disperatissimo (o era un altro?!). Con la diffusione della grande raccolta di novelle, rapida giunse per lui la fama letteraria (...).

Repubblica 1.7.08
Arriveranno da tutta Italia, protesta l´Ordine della Campania
Rifiuti, trecento psicologi a Napoli: è polemica
di Patrizia Capua

NAPOLI - Trecento volontari, "psicologi della monnezza", in arrivo in Campania dal centro nord. Tra i mille angeli della raccolta "porta a porta", chiamati dal sottosegretario Guido Bertolaso, ora anche gli esperti per curare gli stress emotivi causati dall´emergenza rifiuti. Bertolaso avrebbe bussato anche alle porte della "Federazione psicologi per i popoli", per arruolarne trecento in soccorso di Napoli. Come, dal centro nord? Si risente l´Ordine degli psicologi della Campania, che ha tanti operatori sul territorio. Claudio Zullo, alla guida di una pattuglia di 3.500 iscritti, ha mandato una lettera al sottosegretario ai rifiuti, proponendo di utilizzare le risorse in campo, un «patrimonio di risorse e competenze», nei diversi ambiti in cui appare possibile e necessario intervenire: psicologia sociale, psicologia delle emergenze, psicologia clinica.
La polemica nata dopo le indiscrezioni del Sole 24 Ore, scoppia alla vigilia della ennesima visita di Berlusconi a Napoli. Il premier arriva oggi, quando oltre seimila famiglie, in città, sono alla prova della raccolta differenziata. Fa tappa nel cantiere del termovalorizzatore di Acerra, presidiato dai bersaglieri fin da sabato scorso.
Dallo staff di Bertolaso fanno sapere che non si vuole escludere nessuno. «I volontari verranno entro luglio per affiancare e supportare il progetto della differenziata. Sono benvenute tutte le energie possibili - spiegano - Fra le associazioni di volontariato riconosciute dalla Protezione civile, ci sono specialisti che si occupano di situazioni di crisi dovute a catastrofi naturali. Accanto ai cinofili, o a quelli che soccorrono chi si perde in montagna, anche gli psicologi dell´emergenza, esperti di situazioni di crisi e di catastrofi naturali. Sono nell´elenco dei soggetti a cui abbiamo scritto per chiedere la disponibilità. In Campania, per fortuna, non dobbiamo affrontare choc psicologici da terremoto né da tsunami. Li abbiamo anche contattati per chiedere di modificare la pagina del sito in cui si parlava con troppa enfasi dei "coraggiosi che andranno a Napoli"».
In questa ondata di mobilitazione, Berlusconi ha chiamato in Campania anche gli alpini. «Il presidente ci ha detto: "Gli alpini non hanno mai detto di no alla Patria", e per servire la Patria noi andremo in Campania purché sia rispettato il nostro ruolo di uomini-soldato. Siamo in attesa di indicazioni», ha annunciato Corrado Perona, presidente dell´Associazione nazionale. «Candidatura generosa anche quella degli alpini» commentano gli uomini di Bertolaso, «anzi, preziosa, mezzo milione di persone con la piuma sul cappello, fratelli che si fanno in quattro per aiutare il prossimo. Ben vengano tutte le energie».