giovedì 3 luglio 2008

Comunicato Stampa
LE VOCI DEL RIFIUTO GIORDANO BRUNO


Dopo essere stato messo in scena a Villa Piccolomini nel 2005, al Teatro La Casetta nel 2006 e al teatro Flaiano l'anno scorso, l'atto unico ideato e realizzato da Roberta Pugno viene presentato, con il patrocinio del Comune di Roma e delle Biblioteche di Roma, presso la Casa del Parco a Pineta Sacchetti.
Lo spettacolo si svolge nello spazio retrostante lo splendido casale restaurato recentemente, trasformato per l'occasione in teatro notturno. Alle spalle del pubblico un incredibile paesaggio di distese di campi di grano da cui sorge il Cupolone.
“Le voci del rifiuto” è il racconto dello scontro mortale tra un pensiero che rivoluzionò la visione del mondo e la concezione dell'uomo, e la realtà violenta dell'intolleranza e della falsità.
Lui, filosofo superbo, allegro e appassionato, passa da un'immagine all'altra, da un concetto all'altro: l'universo infinito, la pluralità dei mondi, lo spazio continuo, la sostanza sensibile di cui siamo fatti, la dualità dei contrari, l'incessante trasformazione della materia, l'intelligenza dell'amore.
L'altro, invisibile e nero, con voce immobile ne decreta la fine.
Lei ci viene incontro con passi di danza e movimenti ad arco: da dove nasce il rifiuto? da dove nasce il coraggio? da dove la certezza?
Il suono del sax, che si intreccia alla voce maschile e che accompagna lo stupore della donna, ci dice quanto sia attuale il rifiuto del pensiero religioso e del pensiero razionale.
Di quanto sia indispensabile oggi più che mai la ricerca della bellezza e della “verità”.

Interpreti: eretico impenitente Paolo Izzo; materia d'amore Valentina Vicario; l'Inquisitore Giovanni Vettorazzo
Sax Andrea Mancini
Testo Massimo Caracciolo Anna Maria Di Piazza
Coreografia Francesca Micheletti
Luci suono Alessandro Ugolini
Musiche di scena Luciano Sacchetti

venerdì 11 luglio
ore 20.00 Visita alla mostra di Roberta Pugno con Cinzia Folcarelli
ore 21.00 Rappresentazione
ore 22.30 Brindisi alla Cupola

Inaugurazione mostra venerdì 4 luglio alle ore 18.00
Durata dal 4 al 12 luglio
Orario da martedì a venerdì 9.00-19.00 sabato 10.00-17.00
Sede Casa del Parco Municipio XIX - Pineta Sacchetti via di Pineta Sacchetti 78
tel. 348670189
Sponsor Federlazio di Latina Ibiscos Editrice
Firenze 4 e 5 luglio
venerdì 4 Incontro di Pensare a Sinistra
sabato 5 Seminario nazionale



VENERDì 4 LUGLIO, assemblea di Pensare a Sinistra

Luogo: Firenze

Sede: Palazzo Vecchio, piazza della Signoria, in collaborazione con i gruppi consiliari del Comune di Firenze di SD, PRC, VERDi e Unaltracittà /unaltromondo

Orario: 15-19

- Proposta di organizzazione di Pensare a Sinistra: una rete per la costruzione di una comunità di ricerca politica a sinistra (a cura del gruppo di lavoro: A. Di Corinto, M. Di Paola, T. Fattori, M. Ilardi, S.Levrero)

- Presentazione della traccia di ricerca (preparata da A. Tortorella, M.L. Boccia, G. Marramao)

- Discussione e proposte di lavoro

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SEMINARIO NAZIONALE, 5 LUGLIO 2008

Di chi è la politica? Le diverse forme e modi dell'agire politico

Promosso nell'Assemblea del 19 aprile a Firenze «Per una sinistra unita e plurale» - gruppo di lavoro «Forme della politica» in collaborazione con i gruppi consiliari del Comune di Firenze di SD, PRC, VERDi e Unaltracittà /unaltromondo

Luogo: Firenze

Sede: Palazzo Vecchio, piazza della Signoria


SCHEMA DEI LAVORI

INIZIO: ore 9.30

apertura dei lavori: Anna Picciolini

interventi introduttivi: Maria Luisa Boccia, Pino Ferraris, Paul Ginsborg, Giulio Marcon

GRUPPI DI LAVORO: ore 11-ore 16.30 ( pausa pranzo ore 13.30-14.30)

PLENARIA FINALE con report gruppi di lavoro: ore 17-19

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Adesioni al 1 luglio: Alba Sasso, Aldo Tortorella, Alfonso Gianni, Andrea Alzetta, Andrea Del Monaco, Andrea Montagni, Antonella Signorini, Antonia Sani, Antonio Ferrentino, Aurelio Mancuso, Bia Sarasini, Bianca Pomeranzi, Carlo Peruzzi, Chiara Acciarini, Ciro Pesacane, Dalma Domenghini, Daniela Dioguardi, Davide Biolghini, Elettra Deiana, Elisabetta Piccolotti, Elio Bonfanti, Enrico Lauricella, Francesco Piobbichi, Francesco Raphael Frieri, Franco Russo, Fulvia Bandoli, Gianfranco Bettin, Gigi Sullo, Giorgio Airaudo, Gloria Buffo, Grazia Zuffa, Katia Zanotti, Lalla Trupia, Lidia Menapace, Marco Berlinguer, M.Grazia Campus, Marco Deriu, Maria Rosa Cutrufelli, Marina Pivetta, Marisa Nicchi, Maurizio Acerbo, Mauro Valiani, Mauro Chessa, Michele Di Palma, Nicola Attalmi, Nicola Nicolosi, Paola Patuelli, Paolo Bagnoli, Paolo Cacciari, Paolo Hutter, Piero Di Siena, Piero Manconi, Pietro Folena, Raffaella Chiodo , Renato Cardazzo, Roberta Fantozzi, Roberto Giorgini, Salvatore Bonadonna, Silvana Pisa, Silvano Righi, Stefano Ciccone, Tamar Pitch, Tiziano Rinaldini, Viviana Ciavorella

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INDICE RAGIONATO PROVVISORIO dei Workshop

I quattro workshop esplorano in ambiti diversi un'unica proposta – che la sinistra non può rinascere se non mette al centro della sua attività la creazione di cerchi sempre più estesi di cittadine/i con un approccio profondamente critico rispetto all'organizzazione attuale della società , capaci di lottare insieme per innescare processi di mobilitazione, di rottura e di riforme, e unite/i da modi e regole del tutto nuove per stare insieme in modo democratico e nonviolento.

Modalità : la discussione di ogni gruppo di lavoro è promossa da 4 facilitatrici/facilitatori che hanno il compito di organizzare di presiedere e introdurre la discussione, definire il report per la plenaria finale, predisporre la pubblicazione degli atti ( prossima comunicazione)


Workshop 1: Soggettività , rapporti interpersonali, politica.

Il personale è politico. La necessità di partire dalla soggettività e dai territori della coscienza individuale. La politica non come missione esterna e estraniante ma come realizzazione di un progetto insieme individuale e comune, governato da rapporti interpersonali di rispetto, di auto-disciplina, di non-aggressione, di solidarietà . La cultura del pacifismo non solo come ambizione esterna ma come pratica interna. Le regole che derivano da un'impostazione simile – l'inclusività , l'incoraggiamento alle altre e agli altri a prendere la parola, la rotazione degli incarichi, i tempi concordati degli interventi uguali per tutti, la capacità individuale di contenersi e lasciare spazio. La critica del leaderismo, carismatico e narcisistico, sempre più richiesto dalla politica contemporanea a tutti i livelli e sempre più lontano da qualsiasi modello democratico sostanziale.

Finora non abbiamo saputo praticare quei modelli alternativi di convivenza e tuttora gran parte dei nostri modi di fare politica rispecchiano quelli più tradizionali. La necessità di un ripensamento profondo e l'evolversi di comportamenti e regole diverse. Il contributo del femminismo e del movimento delle donne a questo processo. Donne e uomini nel nostro movimento – valori, disparità , pratiche patriarcali perduranti. La ricerca di una comunità democratica fondata sul sull'uguaglianza tra i generi e il riconoscimento della differenza - non una comunità tout court, falsamente neutra.

Il famoso detto di Clausewitz – 'la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi' – va rovesciato. E' la politica oggi, con le sue pratiche e linguaggio spesso violentissimi, che è la continuazione della guerra con altri mezzi. Come facciamo noi a creare una politica diversa, che si stacchi nelle sue regole e nella sua metodologia dalle violenze che ci circondano?

Una politica intesa come l'opposto della guerra, cioè come modo non distruttivo di gestire i conflitti. Dove inizia la violenza, la coercizione, l'imposizione, la sottomissione…finiscono il dialogo, le «buone relazioni» partecipative e la «buona politica» . Le modalità nonviolente di esercizio del potere come sistema condiviso di regolazione sociale sono il cuore della politica.

Workshop 2: Le vecchie e nuove forme dell'aggregazione politica.

All'inizio del Novecento l'impietosa denuncia di Robert Michels, tuttora di una rilevanza elettrizzante, del grande partito di massa che era la Socialdemocrazia tedesca. Le logiche interne del partito fortemente verticistico e burocratizzato, il suo linguaggio tutto addobbato di un simbolismo militare. La continuità di questo modello per tutto il Novecento europeo, con pochissime eccezioni. La variante del centralismo democratico leninista-comunista, fertilissima per la centralizzazione del potere, molto meno per la democrazia sostanziale. In Italia la funzione educativa di massa del modello partitico comunista per quanto riguarda la solidarietà e la coscienza di classe, l'acculturazione, l'insediamento territoriale, la mobilità sociale (dentro e fuori il partito), ma la sua forte tendenza anche a verticalizzare il potere, a consolidare ruoli tradizionali di genere ed a creare fideismo e leaderismo. Il suo atteggiamento mange-tout verso la società civile e la formazione di una sub-cultura comunista piuttosto che una comunità plurale di cittadine/i critiche.

Mancanza di laicità (non nel senso di rapporto stato-chiesa, ma nel senso di approccio critico).

La ricerca di nuovi modelli di aggregazione che sono in contrasto con l'esperienza novecentesca. Vogliamo proprio salvare la nozione e pratica di partito, e se la risposta è sì, in che forma? Gli esempi di partiti come associazioni, di associazioni come il il partito operaio belga tardo-ottocentesco, analizzati da Ferraris. Le loro basi nella mutualità , nella resistenza di classe, nel federalismo funzionale ed orizzontale. La loro relazione integrante con la società civile – non egemonizzante, non burocratica, senza organizzazioni collaterali. Un partito che cresce dalla società civile e che riesca a rappresentarla in tutta la sua pluralità . Dall'altro lato, le difficoltà di adattare un modello tardo-ottocentesco alle realtà di oggi. La frammentazione delle identità individuali contemporanee, il pericolo di proporre modelli di socialità e di lavoro sul territorio che sono antiquate e superate.

La proposta attuale di un'aggregazione politica basata sulle socialità emergenti e sull'autonomia territoriale e regionale nel contesto di un federalismo sostanziale. La necessità di una forma di organizzazione politica trasparente, Roma-fuggente, che 'decostruisce, cede, decentra, abbassa, distribuisce il potere rendendolo gestibile e controllabile dalle forme di soggettività dirette di autogoverno' (Paolo Cacciari). L'immagine metternichiana del potere che scende in rivoli dall'alto della magnifica fontana imperiale. La nostra contro-immagine dell'acqua che non scende ma sale.

La tensione perenne tra efficacia e democraticità : femminismi, ambientalismi, movimenti non sono riusciti, nonostante i tentativi, a superare il dualismo fra pluralità e unità , lo iato fra perseguimento del più largo consenso e operatività in tempi ragionevoli degli orientamenti. Quali modalità e regole della decisione all'interno di un'organizzazione politica decentrata unitaria e plurale?

Perdurante impermeabilità della politica e dell'economia alle culture dei movimenti degli ultimi quarant'anni.

Workshop 3: Democrazia, partecipazione, deliberazione.

La debolezza attuale della democrazia rappresentativa, minata dall'inefficacia delle istituzioni, dalla pochissima fiducia nella classe politica e nei suoi partiti, dall'autoriproduzione della sfera politica come sfera separata dalla società . La necessità di combinare democrazia partecipativa e democrazia rappresentativa, la libertà degli Antichi con quella dei Moderni. La moda invalsa in tutta Europa di proporre consultazione e partecipazione come rimedio alla debolezza democratica, ma la natura in gran parte fasulla e strumentale di questi tentativi. L'ammonimento del Rapporto indipendente sullo stato della democrazia britannica, Power to the People (2006): 'L'evidenza da noi ricevuta…è che il cinismo popolare nei confronti della consultazione pubblica sia molto forte. Il processo è largamente considerato come privo di significato, dato che è spesso poco chiaro quanto un processo consultivo possa influenzare le decisioni finali prese dai funzionari o dai rappresentanti'

Due parametri sono necessari per identificare un processo di arricchimento democratico attraverso la partecipazione. Il primo, il grado in cui tale processo, mettendo l'accento sulla continuità della partecipazione, contribuisce a creare cerchie sempre più ampie di cittadini critici, informati, partecipi, che dialoghino con politici e amministratori su una base definita di eguaglianza e rispetto reciproco. Il secondo, il grado in cui le prassi deliberative contribuiscono a mutare il comportamento stesso dei politici e l'idea che essi hanno delle loro prerogative e dei loro doveri . Improbabilità , nell'assenza dell'uno o dell'altro parametro, che la sperimentazione deliberativa contribuisca molto al rinnovamento a lungo termine della democrazia.

Uso dei nuovi strumenti di democrazia partecipata per arricchire le nostre forme di democrazia interna. Potenzialità positiva del modello dell' 'Electronic Town Meeting' e di altre forme di 'Open Space Tecnology' , per il coinvolgimento di tante persone che in assemblee 'tradizionali' non prenderebbero mai la parola, nè voterebbero. Invecchiamento e inefficacia dal punto di vista democratico di molte delle nostre attuali forme di aggregazione e processi decisionali. Uso dell' 'e-democracy' ma anche insostituibilità delle riunioni faccia-a-faccia, con nuove modalità comunicative sperimentate nei movimenti e altrove - il cerchio, il giro delle opinioni, i piccoli gruppi….

Workshop 4: Il cambiamento attraverso l'azione riformatrice.

Tradizione socialista e social-democratica delle riforme che scendono dall'alto verso una cittadinanza atomizzata, grata (non sempre) ma passiva. Questo processo come chiave di lettura storica del welfare state europeo. Per contrasto, la proposta dei 'rolling reforms', cioè le riforme che, strada facendo, portano la gente a interessarsi della politica, ad auto-organizzarsi, a prendere una parte attiva e continuativa nel processo riformatore.

Esempio storico dei decreti del 1944 del ministro comunista dell'agricoltura Fausto Gullo, riguardanti la riforma agraria del Mezzogiorno. Uno dei decreti-chiave permetteva ai contadini di occupare terreni incolti o mal coltivati solo se si organizzavano in cooperative di produzione: 'la nuova legge, imponendo ai contadini di organizzarsi in cooperative e comitati per poter usufruire dei benefici previsti, costituì il più robusto incentivo a una loro azione collettiva'.

La tradizione socialista e comunista (Giolitti, Lombardi, Togliatti, ecc.) delle riforme di struttura. Nella loro elaborazione mancanza di riferimento concettuale a una cittadinanza attiva. L'individuo è di nuovo il recipiente non il protagonista dell'azione politica.

Le possibilità delle 'rolling reforms' nell'azione sull'ambiente: la raccolta differenziata e il risparmio energetico, e nella sfera della partecipazione: assessori alla partecipazione che investono in sperimentazioni di auto-organizzazione davvero collettivi e continuativi. Le esperienze della val di Susa e di Vicenza come esempi di coinvolgimento e partecipazione sostanziale dei cittadini rispetto alle amministrazioni.

La necessità di misurare in rapporto alla natura delle riforme eventuali alleanze con il Partito Democratico. Il tema, complesso ma ineludibile, del ruolo dello Stato in relazione alla metodologia delle riforme. La «rivoluzione» come processo riformatore di cui non è possibile prefigurare tutti gli esiti, perchè questi ultimi dipendono anche dai processi partecipativi attivati (Lidia Menapace).

Letture: Questo è un elenco di letture assolutamente parziale. Il legame con i temi dei singoli workshop è puramente indicativo, data la stretta interconnessione fra essi: molte delle letture indicate sono «di frontiera» .

Comunque per il primo Workshop un testo che fa il punto sui vari aspetti è:
Marco Deriu, Dizionario critico delle nuove guerre, EMI, 2005

Per il secondo e il terzo workshop interessanti i contributi contenuti in Alternative per il socialismo, n.5, 2008, da pagina 47 a pag 105 (in particolare quelli di P. Ferraris, M. L. Boccia, L. Raffini).
Testi sicuramente introvabili che sarebbe stato necessario passare allo scanner, vengono indicati solo per sottolineare quanto il dibattito sulle forme della politica sia all'ordine del giorno da almeno 20 anni. Si tratta di tre pubblicazioni del Centro Riforma dello Stato:
Militanza senza appartenenza - n. 6 Materiali e Atti di Democrazia e Diritto - 1986
Il genere della rappresentanza - n. 10 Materiali e Atti di Democrazia e Diritto - 1988
Voce e silenzio. Le donne nella crisi politica degli anni '90 - n. 22 Materiali e Atti di Democrazia e Diritto - 1993
E' esattamente di 20 anni fa un testo di Lidia Menapace, facilmente reperibile in rete:
Lidia Menapace, Divertirsi politicando (per un sistema pattizio di forme politiche) 1988,

In particolare sul terzo workshop:

Stefano Rodotà , Tecnopolitica: la democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione. Laterza, 2004
Luigi Bobbio, Dilemmi della democrazia partecipativa, in Democrazia e diritto, n.4, 2006
Franco Russo, Democrazia identitaria e rappresentanza, in Alternative per il socialismo n. 4, 2008
Paul Ginsborg, la democrazia che non c'è, Torino, Einaudi 2006.

Per il quarto workshop:
Paul Ginsborg, Le riforme di struttura nel dibattito degli anni Cinquanta e Sessanta, in Studi Storici, vol. XXXIII (1992), nos., 2-3, pp. 653-68

Per un approccio di genere, trasversale a tutti i workshop, indichiamo due testi, uno di filosofia politica e l'altro storico, con la consapevolezza di trascurare una bibliografia immensa:
Maria Luisa Boccia, La differenza politica, Il Saggiatore 2002
N. M. Filippini e A. Scattigno (a cura di), Una democrazia incompiuta. Donne e politica in italia dall''800 ai giorni nostri, F.Angeli, 2007

Per informazioni e adesioni: info@xsinistraunitaeplurale.it



LO STORICO "Congressi senza prospettive"
L'affondo di Ginsborg: quanti errori dai leader
di Matteo Bartocci

I partiti della sinistra chiusi in rese dei conti tanto indiavolate quando disastrose, un Pd balcanizzato e imbelle, una società civile stanca e impotente. In queste condizioni contrastare il "berlusconismo che avanza" e ricostruire una "nuova" sinistra è una missione quasi disperata. Paul Ginsborg - con Paolo Cacciari, Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Marco Berlinguer, Pino Ferraris e Giulio Marcon - non molla. E ci riprova il 5 luglio, con un seminario a Firenze nato sull'onda dell'assemblea nazionale convocata ad aprile, all'indomani del cataclisma elettorale.
"Dopo la batosta del voto - spiega il professore inglese - secondo noi era opportuno fermarsi a pensare in modo serio sulle forme e i metodi dell'agire politico prima di passare ai suoi contenuti. Nuove soggettività , crisi dei partiti, democrazia e partecipazione, la natura dell'azione riformista, sono quattro grandi temi della tradizione di sinistra che vanno per forza ripensati subito se vogliamo ripartire".
Professore, in questi giorni si parla tanto di "girotondi". Ma c'è ancora in Italia uno spazio pubblico per il ritorno di minoranze combattive?
Spero di sbagliare, che le cose cambino in autunno, ma credo che non ci siano più le condizioni per una resistenza come quella invocata da Francesco Saverio Borrelli nel 2001-2002. Non è Berlusconi a essere cambiato: è cambiata a fondo la società .
E' d'accordo con chi parla di "regime leggero" (Bertinotti) o vede un rischio "totalitario" per la nostra democrazia (Scalfari e Rossanda)?
Non ho dubbi che sia così. L'anomalia italiana è basata su tre fattori molto semplici, che l'opinione pubblica europea ha tuttora ben presenti. Il capo del governo ha praticato delle cesure profonde con la democrazia come noi la intendiamo: la prima è che insiste esplicitamente nel fare leggi per i suoi interessi e per quelli dei suoi amici. Il concetto liberale dell'equilibrio dei poteri è totalmente sconosciuto al presidente del Consiglio: per lui chi è eletto decide. Un secondo elemento riguarda le televisioni. Sul mezzo di comunicazione più importante della modernità - come dimostrano ancora una volta le vicende di questi ultimi giorni - una sola persona esercita un potere illecito ed esagerato. Le due cose insieme dicono tecnicamente di un regime politico che si discosta nettamente da qualsiasi democrazia rappresentativa europea. La terza anomalia è che chi osa dire queste cose così semplici e veritiere è dipinto dalla destra (ma anche da buona parte della sinistra) come un giustizialista, un estremista o un massimalista. E invece la coscienza di queste anomalie dovrebbe essere assunta da chiunque si dichiari democratico.
A proposito di democratici, le sembra che il Pd assuma questa sua analisi?
Il più grande errore di Veltroni è stato inventare e propagandare un ipotetico Berlusconi statista, saggio, pulito, unificatore. Per Walter la storia degli ultimi vent'anni era da dimenticare, ma la storia non accetta mai di essere sepolta e spesso si prende rivincite terribili. Il partito democratico ora dovrebbe mettere in campo una resistenza ampia insieme a tutte le forze democratiche, progressiste e di sinistra che ci sono, dovrebbe essere il motore di un processo più ampio e inclusivo.
E' un processo però che riguarda innanzitutto i partiti della sinistra. Pensa che in questi congressi si stia sviluppando un dibattito utile?
Non ho proprio parole. Vedo persone molto brave e capaci completamente intrappolate in meccanismi finiti fuori controllo. Sono convinto più che mai che ci voglia un soggetto nostro - federato o unificato che sia - in cui tutti possiamo identificarci e possiamo lavorare. Ma invece di ripartire da un'unità che non ha avuto il tempo di crescere, i partiti si dividono in quattro congressi e decine di mozioni in cui non vedo alcuna prospettiva salvo la divisione ulteriore e la rovina di tanti rapporti. La vecchia leadership dei partiti di sinistra ha gestito in modo pessimo i mesi trascorsi dalla manifestazione dello scorso 20 ottobre fino alle elezioni. Noi a Firenze siamo convinti da sempre che la sinistra è composta da movimenti, partiti e società civile. Ma se i partiti politici implodono, la società civile ha molta difficoltà a "fare da sè". Per questo bisogna cambiare radicalmente le forme della politica, ed è di questo che discuteremo sabato prossimo.

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news: Alberghi: per chi deve ancora organizzarsi ed è in cerca di una proposta alberghiera convenzionata per Venerdì 4 notte:
Hotel Il Fiorino via Osteria del guanto n. 6 tel 055210580
Loro hanno a disposizione una singola e alcune doppie per la notte tra Venerdì e sabato i prezzi sono:
Singola euro 80,00, doppia uso singola 100,00, doppia 115,00

Hotel la Signoria via delle terme n.1 tel 055214530
i prezzi sono Singola 85,00, doppia uso singola 90,00, doppia 100,00

In entrambi i casi sono prezzi in convenzione e quindi chi telefona deve dire che viene al seminario in Palazzo Vecchio

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l'Unità 3.7.08
L’Europa avverte l’Italia «No a differenze su base etnica»
di Paolo Soldini


È confermato: la Commissione europea chiede «chiarimenti» al governo italiano sull’iniziativa di registrare le impronte digitali dei bambini rom. Ne ha dato notizia Antonia Carparelli, capo dell’ufficio brussellese cui è approdato (o meglio: approderà quando Maroni e il resto del governo la smetteranno con l’indegna melina di queste ore) il dossier, e cioè l’Unità inclusione e aspetti sociali dell’immigrazione della Direzione Generale che fa capo al commissario Vladimir Špidla. Ieri, insieme con la Direttrice generale della DG Sanità Paola Testori Goggi e con il rappresentante della Commissione a Roma Pier Virgilio Dastoli, la dott. Carparelli era a Roma per presentare alla stampa italiana l’Agenda sociale europea, un pacchetto di misure contro la povertà e le discriminazioni che contemporaneamente veniva illustrato a Bruxelles. Il tutto un paio d’ore prima che il ministro Maroni si recasse alla Camera a rispondere a un’interrogazione presentata sull’argomento nel question time e, con una ostinazione degna di cause ben più nobili, ripetesse la «gravissima imprecisione» (eufemismo per non dire balla astronomica) secondo cui l’ordinanza per l’«identificazione» dei bimbi nomadi non violerebbe «alcuna norma o direttiva europea».
In realtà ne viola un bel numero, e soprattutto, in modo evidentissimo, quella su cui si basa l’intera politica anti-discriminazioni dell’Unione europea, e cioè la direttiva 2000/43/CE, che ha valore di legge in tutti gli stati dell’Unione e che proibisce espressamente all’art. 1 comma 3 «qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata sulla razza o l’origine etnica» (forse sarebbe utile se Maroni e i suoi pappagalleschi epigoni questa frase se la appuntassero su un taccuino). Il ministro, alla fine del question time, ha anche trovato modo di accendere il suo personale fronte di fuoco con la magistratura attaccando il gip di Verona che ha scarcerato l’altro giorno dei nomadi accusati di aver spinto i figli a rubare. «Continueremo a indagare - ha detto - e controlleremo, ma di più non possiamo fare: siamo nelle mani della giustizia».
Intanto potrebbe cominciare, il ministro dell’Interno, a controllare la coerenza delle sue proprie esternazioni. Alla Camera infatti ha pensato di fare una furbata sostenendo che c’era stato un «equivoco dei giornali» (il Gran Capo docet) e che le misure riguarderebbero non solo i piccoli rom, ma «tutti gli abitanti dei campi nomadi abusivi». Il che però contrasta con quello che Maroni stesso ha più e più volte asserito, e comunque non salva la frittata. Infatti, pure se il ministro per essere coerente ordinasse per assurdo il rilevamento delle impronte digitali di tutti quelli che in Italia sono senza un domicilio ufficiale, italiani o no, incapperebbe in una pratica discriminatoria altrettanto illecita. Non solo rispetto alla normativa Ue ma anche sotto il profilo della Costituzione italiana.
Insomma, più parla e più si mette nei guai da solo. Giustamente i rappresentanti della Commissione, ieri, gli hanno tolto ancora una volta da sotto i piedi il tappeto che il ministro leghista va strapazzando in malo modo da giorni. Dastoli ha messo in evidenza quello che l’«Unità» aveva già scritto ieri, e cioè che il riferimento alla «pratica europea» dietro la quale Maroni aveva cercato di nascondersi riferendosi a un regolamento che effettivamente prevede il prelievo delle impronte digitali anche ai minori è un’altra delle sue - come dire? - «gravi imprecisioni». Il regolamento 380 serve a rendere univoci i criteri di elaborazione dei permessi di soggiorno per gli extracomunitari. Riguardano in minima parte i rom, che all’80% nel nostro paese sono italiani o cittadini comunitari, e non riguardano in alcun modo, ovviamente, i «nomadi». Intanto Špidla, al Barleymont, ribadiva che le norme europee sono «chiare»: «Non si possono stabilire differenze sulla base dell’etnicità». Rispondendo poi a chi gli chiedeva se «è preoccupato» per quanto avviene in Italia, il commissario ha aggiunto che, mentre attende ancora comunicazioni ufficiali, le notizie provenienti da Roma delineano un quadro teoricamente «grave» e «sono tali che sarà importante seguirne gli sviluppi».
Che succederà ora? Il governo italiano, prevedibilmente, continuerà a fare melina e prenderà tutto il tempo possibile per fornire i «chiarimenti» richiesti. A meno che non diventi di per sé punibile la manifesta reticenza del gabinetto Berlusconi (il che però potrebbe avvenire abbastanza presto se le schedature cominceranno ad essere sistematiche e se la Commissione reitererà inascoltata la sua richiesta di spiegazioni), le istituzioni europee non possono adire in proprio alla Corte di Giustizia. Lo può fare però, ricordavano ieri i rappresentanti della Commissione, qualsiasi cittadino europeo, sulla base dell’art. 13 del Trattato in vigore. È ciò che sta già avvenendo in queste ore.

l'Unità 3.7.08
«Il governo Berlusconi criminalizza gli immigrati»
Dura condanna dell’Internazionale socialista al pacchetto sicurezza. «La Ue prenda le distanze»


L'INTERNAZIONALE SOCIALISTA (Is) ha condannato ieri la «politica di criminalizzazione degli immigrati» e le «misure punitive» decise nei loro confronti in Ita-
lia dal «governo Berlusconi», invitando l’Ue a prenderne le distanze. Dopo, dunque, gli attacchi dell’opposizione, dell’Unione europea, della Chiesa e delle varie organizzazioni umanitarie, ieri l’ennesimo affondo contro la politica sull’immigrazione. In una dichiarazione adottata al termine del XXIII congresso dell’Is, si legge: «Noi socialisti democratici non siamo d’accordo con la politica di criminalizzazione degli immigrati -specialmente quando niente è stato fatto per affrontare le cause della migrazione - in quanto ciò equivale a criminalizzare la povertà». E continua: «Per esempio le decisioni prese dal governo Berlusconi di adottare misure punitive contro gli immigranti non debbono diventare la politica delle istituzioni europee».
Il testo critica anche la direttiva sui rimpatri recentemente adottata dal Parlamento europeo che «ha provocato preoccupazione e rigetto in America Latina in merito ai procedimenti di rimpatrio per le loro conseguenze sui diritti umani fondamentali degli immigranti». Si invita inoltre a «garantire pienamente i diritti umani e lavorativi degli immigrati, specialmente dei bambini, includendo quello di non essere separati dalla sua famiglia e tenendo in conto sempre tutti gli aspetti del complesso fenomeno internazionale». Luca Cefisi, coordinatore dell’ufficio esteri del Partito Socialista (PS) ha commentato l’approvazione del documento affermando che «purtroppo il governo italiano viene portato come esempio negativo, non perchè è un governo di centrodestra, ma perchè è l’unico governo europeo, di destra o di sinistra, che sembra sottovalutare i rischi di razzismo e xenofobia, anzi tollera manifestazioni xenofobe che gettano vergogna sul Paese, e rifiuta di prendere in considerazione le dimensioni sociale ed economica del problema migratorio».
L’ex ministro della giustizia spagnolo Juan Fernando Lopez Aguilar, presente al congresso, ha detto all’Ansa di essere «soddisfatto» della dichiarazione rilevando come sia necessario «respingere qualsiasi forma di populismo, xenofobia e discriminazione».

l'Unità Firenze 3.7.08
Impronte ai minori: la storia ci insegni
dii Federico Gelli


Era precisamente l'estate di 70 anni fa e nessuno avrebbe potuto prevedere cosa sarebbe successo di lì a qualche settimana, ma iniziò così: con un censimento, un semplice, apparentemente innocuo censimento. Pochi mesi prima, era il febbraio del 1938, una nota ufficiale del regime fascista aveva provato a rassicurare gli spiriti più inquieti e più avvertiti: «Il governo fascista non pensò mai né pensa adesso di prendere misure politiche, economiche, morali contrarie agli ebrei». Ma poi, dopo che in tutta Italia funzionari e segretari furono messi al lavoro per riempire schede e vagliare questionari, ecco che arrivò il Manifesto della Razza, con le sue dichiarazioni brutali e vergognose («Gli ebrei non appartengono alla razza italiana»), ecco soprattutto che arrivarono le leggi razziali che, promulgate da Vittorio Emanuele nella tenuta di San Rossore, cancellarono di colpo gli ebrei italiani come cittadini.
Non voglio forzare nessun parallelismo tra quelle vicende e l'ordinanza voluta dal ministro Maroni per l'identificazione dei bambini Rom. Voglio persino provare ad accordare il beneficio della buona fede. Eppure non posso fare a meno di ritornare a quelle vicende di ieri per soppesare e valutare cosa sta succedendo nell'Italia di oggi. E sono convinto che le vicende di ieri dovrebbero aiutarci a essere almeno più cauti, uso un aggettivo volutamente debole, in un paese che la vergogna delle leggi razziali l’ha conosciuta.
Per questo concordo pienamente con la domanda che Famiglia Cristiana pone al presidente del consiglio: «Silvio Berlusconi permetterebbe che si prendessero le impronte e ai suoi nipotini?». Mi piacerebbe che lui o chi per lui potessero rispondere. E se poi il problema è davvero quello del bene dei piccoli Rom che non vanno a scuola, inviterei allora il governo a riflettere sui tassi di abbandono scolastico in tante italianissime realtà, soprattutto nel nostro Mezzogiorno. Più decente e più sensata, allora sarebbe l'idea di schedare tutti i minori, a prescindere…
Ci sono decisioni e provvedimenti che reclamano la nostra indignazione e una capacità di mobilitazione. Auspico che la Toscana possa fare la sua parte, in tutto questo. Le premesse ci sono: a partire da quanto la Regione proporrà a tutti già la prossima settimana a San Rossore, con il meeting internazionale dedicato alle discriminazioni razziali, nello stesso luogo in cui 70 anni si consumò la vergogna delle leggi a difesa della razza. Un anniversario ritornato prepotentemente attuale.
*vicepresidente della Regione

l'Unità 3.7.08
Moni Ovadia: «Ci siamo dimenticati che hanno avuto lo stesso destino degli ebrei?»
«Contro i rom, barbarie intollerabile»
di Rossella Battisti


Ha la voce grave, Moni Ovadia, per una volta non ha voglia di scherzare nemmeno un po’. Non è il tempo, non è il luogo, mentre l’Italia sta precipitando nell’imbuto «della barbarie di prendersela con i rom, con i più derelitti, con gli ultimi». Ma davvero, dice Moni, «Maroni crede che gente come Borghezio, Calderoli o Salvini abbiano sentimenti di tenerezza verso i bambini rom?». Dal palco del Palasport a Villorba, due passi dalla Treviso diventata rancorosa e ostile verso gli «altri», c’era anche Ovadia l’altro ieri, e Marco Paolini e Albanese e Bebo Storti, chiamati a raccolta dal giornalista Gian Antonio Stella per parlare di quando gli «zingari erano gli italiani», con 27 milioni di emigranti, quattro dei quali clandestini. Razze, sorta di oratorio civile e comizio di civiltà, ha parlato a quattromila persone nel palasport dato a disposizione da Benetton in un «clima bellissimo, caldissimo». Tra monologhi, riflessioni e canzoni, «cercando di riattivare processi di civiltà in questa barbarie dilagante che non si può più tollerare». Ovadia ha scelto una canzone, sostando poi a lungo sulla riflessione di smetterla con la configurazione dell’ebreo di corte, «quello carino, con lo zucchetto, con il quale ci si fa fotografare insieme per farsi assolvere del passato». Si fa i carini con gli ebrei e e le carinerie al governo di Israele, che ormai è armato fino ai denti, e dunque dalli allo zingaro e al nero... Ma davvero ci siamo dimenticati - continua Moni - che rom e ebrei hanno avuto lo stesso destino? Che sono 500mila i rom morti nelle camere a gas solo perché non hanno trovati altri?
E ancora, l’affondo più doloroso è per un’Italia dalla memoria corta, cortissima, che dimentica che dopo la seconda guerra mondiale erano 743 i criminali di guerra italiani reclamati da africani, slavi, albanesi e greci e nessuno è stato portato davanti ai tribunali «solo perché c’è stata la Resistenza antifascista». I comunisti hanno riportato la libertà in Italia con il sangue dei partigiani, ricorda Ovadia, mentre i fascisti italiani sono stati complici dei nazisti nello sterminare gli innocenti. Troppo facile ricordare le foibe dimenticando quello che c’è stato prima. Troppo semplice dare la colpa ai rom, dimenticando che «i veri criminali sono italiani e si chiamano Toto Riina e Provenzano».
Memoria corta, coscienza sporca: caro Moni, come resistere? «Con tutti i mezzi, manifestazioni, chiamando a raccolta le persone perbene. Ho chiesto all’Arci di indire una marcia per il 7 luglio». Una marcia per chi ha il sogno di vivere in un paese civile, dove si accoglie il disagiato, dove non si emanano leggi sadiche contro chi rappresenta la vera ricchezza del futuro. «L’Europa ha bisogno degli emigranti, sono la sua ricchezza, invece di criminalizzarli e schiavizzarli nei campi di pomodoro...». Non una mobilitazione politica, ma per radunare tutte le persone perbene che hanno a cuore i diritti umani.
Al Pd, l’artista chiede una «voce forte e ferma», perché il nome «democratico» è legato alla Costituzione democratica. Basta con le facilonerie, le distrazioni, la mondanità, ammonisce. Torniamo alla «parte sana» come la chiamava Berlinguer e creiamo alleanze su questa base.

l'Unità 3.7.08
Dalla parte dei bambini. Anche rom
di Luigi Cancrini


Difficile pensare a degli esperti che abbiano suggerito a Maroni di dire pubblicamente che il suo provvedimento è rivolto alla tutela dei bambini rom

I bambini nomadi di cui ricordo di più le storie sono quelli che abbiamo accolto e curato al Centro Aiuto al Bambino Maltrattato e Famiglia. Avevano subito abusi sessuali documentati purtroppo dalle malattie veneree che avevano contratto. Vivono oggi in famiglie che li hanno adottati al termine di processi di cura lunghi e pazienti. Hanno vite sane e normali perché un numero importante di persone competenti si sono occupate di loro. Delle loro vicende e del loro recupero. Come dovrebbe accadere per tutti i bambini che vivono situazioni di difficoltà.
Ho pensato più volte in questi giorni a questi bambini mentre ascoltavo la freddezza ostile di un ministro della Repubblica deciso a “tutelare” l’infanzia che vive nei campi dei nomadi con il più classico dei procedimenti di polizia, la schedatura attraverso le impronte digitali. Chiedendomi che rapporto ci sia fra la rilevazione delle impronte e la tutela dei bambini. Chiedendomi se il ministro sa di cosa parla quando usa parole più grandi di lui come “tutela dei bambini”.
Immaginiamo, per rispondere alla prima di queste domande, l’ufficio di polizia che custodisce le impronte dei minori rom. Le userà, consultando uno schedario, di fronte ad un furto avvenuto in casa del ministro o di un amico del ministro o di una persona comunque di cui il nostro ministro vuole tutelare i beni. Collegare le impronte lasciate nella casa del derubato ad un nome, ad un bambino fornirà forse un aiuto alle indagini anche se è facile pensare che il mandante o i mandanti dei furti non incontreranno difficoltà particolari nell’addestrare i bambini all’uso dei guanti. A nulla serviranno le impronte, invece, nel caso di cui tanto si parla dei bambini che mendicano o che soffrono altri tipi di violenze. Perché?
L’esperienza del Centro Antimendicità del Comune di Roma, quella degli Enti che si occupano quotidianamente dell’inserimento scolastico e della salute dei bambini Rom, quella più specifica dei Centri che si occupano dei bambini (rom e non rom, italiani ed extracomunitari) che subiscono altri tipi di violenze e quella complessiva dei Tribunali per i Minorenni o di abuso dimostra con chiarezza, su migliaia di casi, che identificare il bambino che si vuole tutelare non è mai difficile. Lui/lei sa bene chi è e lo dice e i suoi famigliari, pur negando o minimizzando le violenze, vengono sempre a cercarlo ed a rivendicare il loro diritto ad averlo/a con loro. Nei rari casi in cui la situazione è così grave da metter loro paura semplicemente fuggono. Aprendo le strade all’apertura di una procedura di abbandono e di adottabilità.
Difficile, per chi ha esperienza diretta di questo tipo di situazioni, pensare a degli esperti che abbiano suggerito a Maroni di dire pubblicamente che il suo provvedimento è rivolto alla tutela dei bambini rom. La sua sembra la battuta difensiva di chi, avendo urlato contro persone oggetto di pregiudizio da parte dei suoi elettori più ottusi, cerca di difendersi dalle critiche che inevitabilmente gli piovono addosso. L’unico precedente che so trovare è quello del nazismo che giustificava l’uccisione dei pazienti psichiatrici e degli handicappati gravi dicendo, ai famigliari che protestavano, che lo si faceva per il loro bene, per evitare loro “inutili” sofferenze. Il cinismo che traspare da questo tipo di giustificazione, del resto, è il correlato naturale del razzismo che ispirò allora Hitler ed i suoi e che ispira oggi l’iniziativa politica di un movimento che non è eversivo solo quando parla di scendere in piazza con i fucili. La convinzione di essere figlio di una razza superiore (ariana o padana) e di poter, per questo motivo, giudicare, insultare, sottoporre a procedure umilianti coloro che a questa razza superiore non appartengono si trasforma in una forma pericolosa (e spregevole) di terrorismo ideologico nel momento in cui non è oggetto solo dei discorsi da osteria delle persone con la camicia verde ma anche, che lui lo sappia o no, delle azioni di un uomo di governo. Quelle che andrebbero chieste a gran voce in questa situazione in un Paese civile sono le dimissioni di un ministro che tradisce in modo indecente la costituzione cui ha giurato fedeltà: con le dita incrociate dietro la schiena, magari, come pare abbiano fatto spesso i ministri padani.
Quello di cui poi parleremo ancora un giorno, se un giorno ancora di Politica si riuscirà a parlare, è l’insieme dei provvedimenti necessarii per tutelare sul serio quelli fra i bambini rom (e non rom) che vivono situazioni in cui quella che a loro è negata è soprattutto l’infanzia. Permettendomi io di ricordare, a chi dice che nessuno lo aveva mai fatto, che per due volte ho proposto insieme ad altri parlamentari della Commissione Infanzia, in sede di discussione sulla Finanziaria per il 2007 e per il 2008, emendamenti centrati sul finanziamento di progetti specifici di intervento per l’integrazione dei bambini che vivono in contesti (come i campi nomadi) di particolare difficoltà e che la piccola cifra stanziata per questo scopo dal Governo di Prodi è stata subito cancellata da quello di Berlusconi: con il provvedimento che aboliva l’Ici. Quali che siano le nostre opinioni politiche, quello che non andrebbe dimenticato mai è il principio di realtà ed è il principio di realtà a dirci che tutelare i bambini che vivono in situazioni di grande difficoltà economica, culturale e sociale è possibile solo se si finanziano dei progetti per farlo. Mettendo in campo gli uomini e i mezzi, le competenze professionali e le generosità necessarie per aiutarli a vivere.
L’estate è arrivata e i bambini senza problemi stanno già in vacanza. Il fatto che i più poveri ed i più sfortunati se ne stiano lì nei campi aspettando che i rappresentanti di un paese democratico si occupino di loro solo per identificarli rilevando le loro impronte fa male a me ed a molti altri ma dovrebbe far male soprattutto a chi, godendosi le sue ville ed i suoi paradisi privati, pensava e pensa di poter porre riparo ai problemi del paese con dei provvedimenti che sono semplicemente indecenti. Dall’alto, evidentemente, di un orgoglio mal riposto e di una stupidità che non teme confronti.

l'Unità 3.7.08
Intervista ad Andrea Camilleri
«Subito in piazza, con questo berlusconismo, in autunno rischia d’essere troppo tardi»
di Saverio Lodato


Alla tua età ancora voglia di girotondi?
«No, magari non farò girotondi, però li farò in spirito... Non ho più l’età per fare girotondi e poi per me, con questo caldo, sarebbe letale... Ma mi interessa partecipare allo spirito dei girotondi... ».
Non hai l’impressione che quando la parola «girotondi» viene evocata, ciò equivale a suonare un fortissimo campanello d’allarme sulla cosiddetta emergenza democratica?
«Quale che sia la parola che viene adoperata, rimane il senso di ciò che si vuole fare con questa manifestazione dell’otto luglio a Roma. Chiamatela come volete, le definizioni non sono importanti. Conta la sostanza».
Il centro sinistra è diviso. Il Pd ha detto che non intende partecipare. Furio Colombo, Paolo Flores d’Arcais e Pancho Pardi ritengono invece che sia un appuntamento ineludibile prima dell’autunno.
«Non so perché il Pd non voglia partecipare. Questa è una manifestazione spontanea, organizzata da cittadini certo non più giovanissimi e altrettanto certamente non dediti a violenze di piazza. Quindi anche il Pd potrebbe tranquillamente partecipare. Personalmente parteciperò, senza nessun problema, alla manifestazione autunnale che il Pd dice di volere organizzare... Oltretutto, se mi è concessa la battuta di spirito, a quell’epoca rischiamo veramente di stare freschi, visto che, a mio parere, sarà un po’ troppo tardi».
Andrea Camilleri, arzillo e pimpante come al solito, voce appena arrochita dalle sessanta sigarette giornaliere, non proprio quella che si dice una «modica quantità» , ora si è persino improvvisato poeta, e con risultati apprezzabilissimi, perché Berlusconi e il berlusconismo gli risultano indigesti; li ha sempre visti come la causa fondamentale di una perniciosa diseducazione di massa; ha chiarissimo che l’Italia, continuando così, può solo andare a sbattere, come si dice dalle sue parti.
Perché per te Berlusconi e il berlusconismo hanno sempre avuto il sapore dell’olio di ricino?
«Non tanto il sapore dell’olio di ricino. Quanto il sapore di un anomalia, il sapore di qualcosa che ti resta in gola e non va giù. Pare che l’esperienza di due governi Berlusconi non abbia insegnato nulla agli italiani che lo hanno votato. La polemica, per lui funzionale, contro la giustizia rischia in ogni momento di arrivare a un punto di non ritorno. La mia affermazione che lui non appartiene alla democrazia viene comprovata ogni giorno».
Puoi fare degli esempi?
«Ne faccio solo uno che risale a martedì. Quel giorno il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, fa una preoccupata denuncia nella quale dice che il potere d’acquisto dei salari è enormemente diminuito. Per questo si creano sempre nuova zone di povertà. Benissimo. A queste parole del governatore cosa risponde nella stessa giornata il nostro presidente del consiglio? Che ci sono le condizioni per potere fare un decreto legge sulle intercettazioni. Non ti sembra un ottimo esempio dell’attenzione del premier nei confronti dei problemi dei cittadini nel suo Paese?»
Sono anni che ci provano a soffocare intercettazioni telefoniche e libertà di stampa nel pubblicarle. Ora si è arrivati allo scandalo della vicenda Rai. Visto che ti occupi prevalentemente di parole, «magnaccia», riferito a un presidente del Consiglio, lo trovi un po’ troppo hard come termine?
«Quando presidenti del Consiglio erano persone anche discusse, come Craxi o Andreotti, a chi sarebbe mai venuto in mente di adoperare una parola simile per loro? Io non adopero questo linguaggio ma se qualcuno viene spinto ad adoperarlo vuol dire che qualche buon motivo ce l’ha. E agli scandalizzati di oggi vorrei ricordare che i votanti di sinistra vennero definiti da Berlusconi "coglioni", i magistrati "persone tarate", e, proprio qualche giorno fa, autentica "metastasi"».
Resta il fatto che stavolta Berlusconi l’hanno
votato a stragrande maggioranza.
«Allora devo fare una precisazione: il partito di Berlusconi non ha raggiunto una stragrande maggioranza. Solo che pur non essendo maggioranza, all’interno della sua coalizione, lui personalmente agisce come se avesse il potere assoluto. Ed è proprio questa l’anomalia di cui parlavo prima, difficile da digerire, difficile da accettare. Io personalmente, se si fosse trattato di andare genericamente contro un governo di destra, liberamente eletto dai cittadini, alla manifestazione dell’8 luglio non avrei partecipato, neanche in spirito. Io vado a protestare contro un governo di centro destra monopolizzato da Berlusconi che è totalmente prono ai suoi interessi personali».
Lodo Alfano e norma salva processi, appunto. Ma com’è possibile che a sinistra, periodicamente, qualcuno si convinca che Berlusconi
non è più quello di
una volta?
«Sai, probabilmente molti erano in buona fede nel crederlo. E avranno avuto un amarissimo risveglio dalla loro illusione. Dovevano forse ricordarsi di qualcun vecchio proverbio dei nonni».
Diccene qualcuno.
«Rispondo con un classico, in lingua italiana: il lupo perde il pelo ma non il vizio... E con un classico, in dialetto siciliano: cu nasci tunnu un po’ moriri quadratu...»
Tutto ciò premesso, che giudizio dai dei primi atti di questo governo?
«Ma quali sono stati questi atti di governo? Il tentativo, fallito, di salvare rete quattro? Di economia non ne capisco. So solo che ogni giorno leggo sui giornali, e apprendo dalle televisioni, notizie inquietanti sullo stato dell’economia italiana. Non saranno certamente i tagli alla scuola, alla ricerca, alla sanità, a risolvere il problema dei problemi: la stagnazione dell’economia. In questa direzione non vedo alcun provvedimento del governo, a parte i soliti proclami di Tremonti e Brunetta che riguardano sempre il futuro e mai il presente».
Però il prelevamento delle impronte ai bambini Rom è diventato immediatamente operativo.
«Questo sì, perché equivale esattamente a quello che, come ci racconta Manzoni, capitava durante la peste di Milano. Mentre le persone morivano a migliaia il governo dava la caccia agli untori che, fra parentesi, non erano mai esistiti. Insomma, le uniche cose che questo governo ha fatto sin qui sono quelle remunerative sotto il profilo demagogico... o che interessano personalmente il direttore dell’orchestra...».
E poi, già che ci siamo, perché non prendere anche le impronte a tutti i piccoli figli dei mafiosi?
«Ma tu vorresti mettere sullo stesso piano figli dei mafiosi e figli degli zingari? C’è una differenza abissale fra le due categorie: i mafiosi aiutano la politica, i Rom sono utili alla politica solo demagogicamente ma, purtroppo per loro, non elettoralmente...»
saverio.lodato@virgilio.it

l'Unità Firenze 3.7.08
La sinistra in piazza contro Berlusconi. Il Pd no

In piazza contro le leggi vergogna del governo Berlusconi su giustizia e informazione. Ma non solo: «Manifestiamo anche sulla questione sociale e gli interventi del governo sugli stranieri. La nostra piattaforma è più larga di quella della manifestazione dell’8 luglio a Roma», spiega Massimo Torelli della Sinistra Unita e Plurale. Che insieme a Liberacittadinanza, il Comitato per la difesa della Costituzione e Unaltracittà ha organizzato la manifestazione che stasera a Firenze partirà alle 21 da piazza Ghiberti, per arrivare in corteo al tribunale vicino a Palazzo Vecchio. Finora hanno aderito l’Arci, la RSU dell’Ateneo fiorentino, la FLC-CGIL, l’Università di Firenze-Statunitensi contro la guerra, il Circolo Ricreativo Culturale Brozzi, il Gruppo Consiliare in Palazzo Vecchio PRC, quello di Unaltracittà e di Sinistra Democratica, i Verdi e l’associazione Grosseto per la Costituzione.
Dal Pd non è arrivata l’adesione ufficiale alla manifestazione. «Non ci è giunto nessun invito, eravamo all’oscuro su questa iniziativa», spiega il segretario fiorentino Giacomo Billi. Secondo cui «l’opposizione a Berlusconi deve essere dura, ma in queste forme si rischia di fargli l’ennesimo regalo. Sposo la linea nazionale dettata da Veltroni». Tommaso Galgani

l'Unità 3.7.08
«La Chiesa ha coperto don Ruggero»
di Massimiliano Di Dio


«DOPO AVER denunciato ai miei superiori gli abusi che avvenivano in parrocchia sono stato isolato. Tanto come uomo quanto come sacerdote. Mi fu persino
vietato di esercitare regolarmente le mie funzioni, suscitando in me amarezza, sconforto e un forte disagio. Don Ruggero invece fu sospeso per un mese ma quello è stato solo un atto dovuto. Che non ha prodotto alcun risultato se non quello di dimostrare che chi doveva sapere, in realtà sapeva». Ha paura don Claudio ma non si tira indietro. La sua vita non è più la stessa da quando ha messo nero su bianco davanti ai carabinieri gli abusi commessi negli ultimi dieci anni dentro la parrocchia romana Natività di Maria Santissima. Per quegli episodi don Ruggero Conti, 55 anni, è stato arrestato per violenza sessuale aggravata e continuata. «È tutto un complotto», è stata l’unica reazione del sacerdote finito in manette. «Dopo 11 anni di esperienza, processi vinti e proposte di leggi, non saremo mai scesi in campo per un semplice complotto», replica Roberto Mirabile, presidente dell’associazione onlus La Caramella Buona. A lui don Claudio si è rivolto dopo il muro di silenzio eretto dalle autorità ecclesiastiche e sempre attraverso quell’associazione parla oggi. Intanto, proprio ieri in Procura è stato ascoltato monsignor Gino Reali, vescovo della diocesi di zona (Porto Santa Rufina). Sul contenuto dell’interrogatorio c’è il massimo riserbo. E nel frattempo a Regina Coeli un perito ha visitato don Conti. E tra cinque giorni dirà se le sue condizioni di salute sono compatibili con il carcere.
Don Claudio, cosa l’aveva insospettita?
«Don Ruggero manifestava attenzioni particolari per i minori, che si evidenziavano nel contatto fisico. Ad alcuni di questi episodi hanno assistito gli stessi fedeli della parrocchia. Ad esempio quando ha baciato un ragazzo sulla bocca fuori dal piazzale della chiesa. Oppure quando ha fatto sedere sulle sue ginocchia un chierichetto e gli ha accarezzato la schiena. Io stesso l’ho visto baciargli ripetutamente le mani dentro la segreteria parrocchiale».
Non è stato l’unico episodio al quale ha assistito direttamente.
«In un’altra occasione entrai improvvisamente nel mio ufficio e vidi don Ruggero che aveva le mani all’interno della coscia di un minore. Dopo aver ritirato la mano, si irrigidì ma non disse nulla. Un ragazzo ha raccontato al cugino di un abuso con il parroco. E poi c’era quel gran via vai di minori che senza motivo dormivano all’interno del suo appartamento».
Monsignor Reali ne era al corrente?
«La situazione era conosciuta dal Vescovo, era ormai di dominio pubblico. Molti ragazzi erano in possesso delle chiavi di casa del parroco, copia direttamente consegnata loro dal sacerdote. Una cosa che non ha mai fatto nemmeno con noi vicari. E poi in casa aveva materiale pornografico, canali televisivi che trasmettevano film porno».
La Magistratura ora farà il suo corso. Ma la Chiesa come può combattere la piaga interna della
pedofilia?
«Preferirei non esprimermi in quanto, nonostante l’accaduto, in cuor mio sento ancora la forza di credere nella vera grande missione della Chiesa. Che certo non può essere minata da singoli episodi».
Lei però non è stato ascoltato dalle autorità ecclesiastiche.
«Un aiuto e conforto concreto l’ho ottenuto rivolgendomi all’associazione onlus La Caramella buona, nella quale ho trovato subito un punto di riferimento e il coraggio per procedere nel mio intento di tutelare i ragazzi della parrocchia».

l'Unità 3.7.08
Mehta a Napoli: tagli disastrosi alla cultura
di Elisabetta Torselli


Uno stuolo di archi, fiati, percussioni, un numero impressionante di coriste e coristi. Fa un certo effetto il colpo d’occhio del concerto a doppio coro e doppia orchestra in piazza del Plebiscito, un luogo tradizionale per appuntamenti politici e per happening rock e pop, per riportare la speranza nel cuore di Napoli. Ma ora, per affermare che questa non è solo la città di rifiuti, Camorra e Gomorra, va bene il messaggio della Nona di Beethoven eseguita ieri sera, con diretta televisiva su Raitre, nella grande e centralissima piazza napoletana, da due orchestre e due cori insieme, quelli del Maggio Musicale Fiorentino e quelli del San Carlo di Napoli. Zubin Mehta (il maestro indiano è il direttore principale del Teatro del Maggio) era sul podio, il quartetto vocale era formato da Ingrid Kaiserfeld, Anna Maria Chiuri, Robert Gambill, Juha Uusitalo, Renzo Arbore in giacca color fragola in mezzo agli abiti scuri, ha presentato la serata. Poi, sabato 5 luglio, sullo stesso palcoscenico ci sarà la danza con Roberto Bolle (presente ieri sera) in «Bolle & Friends». Proprio il danzatore era fra gli ospiti di ieri sera insieme a Carla Fracci, Toni Servillo, Lina Sastri, Maria Grazia Cucinotta, Giovanni Minoli, Ferzan Ozpetek. Invece non ha potuto esserci «con rammarico» il presidente della Repubblica Napolitano: esprimendo «fiducia» nella città, dicendosi certo che la serata rilancerà il San Carlo, ha scritto in una lettera che «il delicato momento che la vita istituzionale del Paese sta attraversando mi rende difficile allontanarmi da Roma».
Restano, s’intende, le questioni tecniche legate all’eseguire in spazi così grandi, all’aperto, una musica nata per tutt’altre cornici. Ma sono piuttosto altri aspetti che meritano di essere segnalati. La musica classica che guadagna la prima serata in tv: non è banale. Le scelte diverse che si possono fare per un concerto così: aperto e a ingresso libero, o no?
La sera precedente, il primo luglio, a Firenze, in piazza Signoria a conclusione del 71esimo Maggio, il concerto (sempre Mehta alla guida stavolta «solo» dell’orchestra e coro del Maggio) era libero, liberissimo, e così Beethoven ha dovuto vedersela con chi tranquillamente pretendeva di fendere la folla accalcata per la Nona, magari con il cane, con la bicicletta (addirittura scampanellando), con la pizza e il gelato, in ogni caso con tutto ciò che comporta il fare sempre, convintamente e quasi risentitamente i propri comodi.
A Napoli invece c’è stata la decisione di chiudere la piazza, piazzarci le poltroncine e vendere i biglietti (prezzi da 15 a 100 euro, 9.000 posti a sedere venduti), però mettendo i maxischermo in altri punti della città. Quale delle due modalità vi sembra più «civile»? Questione interessante, ma eccoci tornati ad una parola chiave: alla diffusa, forse un po’ logora e rassicurante, ma sempre valida percezione della Nona, in particolare del suo quarto movimento sull’Inno alla gioia di Schiller, come un simbolo di civiltà, di civiltà europea.
Ne ha parlato ieri mattina a Palazzo San Giacomo, sede dell’amministrazione cittadina, il sindaco Rosa Russo Iervolino e il presidente della Regione Antonio Bassolino, conferendo un’onoreficenza a Mehta, che dal canto suo ha rievocato come Napoli sia stata la prima città europea su cui misero piede, sbarcando in Europa, all’inizio degli anni Cinquanta, otto ragazzi indiani che andavano a studiare in Europa. Uno era lui. Allora il San Carlo poté solo vederlo, oggi questo splendido teatro italiano nato nel Settecento ha il proprio museo che ne ripercorre la storia e ne illustra i cimeli: foto, foto di scena, costumi, bozzetti, locandine, in una mostra che fa da anteprima all’apertura vera e proprio del museo, inaugurata ieri, poche ore prima del concerto, alla presenza del ministro ai Beni culturali Sandro Bondi.
Ma è un momento difficile per la musica in Italia, come dimostrano i tagli ulteriori al Fondo Unico Spettacolo (che per il solo Teatro del Maggio, molto incisivamente colpito, ammonterebbero a 6 milioni di euro). Tagli che ieri Mehta ha definito «catastrofici» invocando la defiscalizzazione dei contributi dei privati ai teatri: idea approvata dal ministro il quale, definendo la collaborazione fiorentino-partenopea «un modello da seguire», ha garantito che il Fus non sarà tagliato (Tremonti lo ascolterà?). Dietro questo concerto c’è Salvatore Nastasi, direttore dello spettacolo dal vivo al ministero, rimasto al suo posto nonostante il cambio di governo, crediamo ascoltato dal suo capo di adesso, Bondi, non meno che dal predecessore, Rutelli. Qualche stagione fa, in un momento difficile per il teatro fiorentino, Nastasi fu il commissario ministeriale incaricato di risolvere quella crisi, così come ora lo è al San Carlo di Napoli. Questo concerto vuole anche essere un’iniezione di fiducia per Napoli e per la musica a Napoli. Ma prepariamoci a tempi sempre più duri.

Corriere della Sera 3.6.08
Giovani e ubriachi. Per scelta
È l'ultima moda del sabato sera, lo fa un ragazzo su 10. Allarme per l'aumento del consumo di alcol dei ragazzini
di Lorenzo Salvia


Il confronto L'Istituto superiore di sanità ha analizzato i dati di oggi e di 10 anni fa: +1,9% di bevitori tra i 14 e i 17 anni
I divieti Carlo Giovanardi vuole recuperare la norma di Livia Turco sull'innalzamento del limite di acquisto da 16 a 18 anni

Ci avviciniamo ai Paesi del Nord Europa ma non è una buona notizia. Anzi. Un tempo per i giovani italiani si parlava di consumo «moderato»: di solito a casa, mezzo bicchiere di vino per il pranzo della domenica, magari sotto lo sguardo orgoglioso di papà e il sopracciglio alzato della mamma. Poi è arrivato il vento del nord: happy hour (paghi meno se bevi il pomeriggio), nuove bibite alcoliche mascherate da simpatici succhi di frutta. E il diffondersi di quella che un tempo si chiamava ciucca del sabato sera e che adesso in termini tecnici prende il nome di
binge drinking: bere non per il piacere di farsi una birra o un prosecco ma con l'obiettivo scientifico di ubriacarsi. I risultati li ha messi in fila l'Osservatorio nazionale alcol dell'Istituto superiore di sanità. Un confronto fra la situazione di oggi e quella di 10 anni fa che fa davvero spavento. Specie per le ragazze e in generale per la fascia d'età più bassa, sotto i 17 anni.
La spesa al supermercato
Considerando l'intera popolazione senza distinzione d'età, la fetta di italiani che dichiarano di consumare alcol almeno una volta alla settimana è stabile, intorno al 70 per cento. Ma non è stabile affatto il dato che riguarda i ragazzi tra i 14 e i 17 anni, passato dal 5,1 al 7 per cento. In dieci anni sono aumentati di quasi la metà. Vale la pena di ricordare (perché non tutti lo sanno e molti fanno finta di non saperlo) che in Italia è vietato vendere alcolici a chi ha meno di 16 anni. Ma da noi si comincia ben prima: 11 anni, contro una media europea che galleggia intorno a quota 13. La situazione diventa ancora più preoccupante se si entra nei locali frequentati dai ragazzi. Nei mesi passati gli esperti dell'Osservatorio nazionale sull'alcol sono andati in giro per le discoteche italiane a intervistare i ragazzi e a studiarne i comportamenti al bancone. Si beve, senza distinzioni d'età e di orario. Con buona pace del limite dei 16 anni e anche di quello che scatta per tutti, maggiorenni compresi, alle 2 di notte. Prima di entrare in discoteca si passa al supermarket a fare la spesona, e anche questa è una moda che viene dal Nord Europa. Birra e superalcolici costano meno. E basta travasare il tutto in bottiglie più piccole per avere il cicchetto sempre a disposizione a bordo pista. Il risultato? Tra i giovani fra i 16 e i 25 anni bevono tre su quattro, il 74 per cento. Se si scende sotto i 15 anni (addirittura un anno meno del limite di legge) non cambia quasi nulla: beve il 67 per cento. La legge praticamente non esiste.
È sabato sera e che sarà mai? Errore. L'Organizzazione mondiale per la sanità ricorda che al di sotto dei 16 anni l'organismo umano non è in grado di metabolizzare l'alcol. Un veleno capace di mandare in tilt il fegato e il sistema nervoso centrale. La capacità di smaltire questa sostanza, che ricorda l'Oms è tossica e potenzialmente cancerogena, si completa tra i 18 e i 20 anni. Per cui anche a quell'età non bisognerebbe bere più di un bicchiere al giorno.
Le cattive ragazze
Per capire come siano le ragazzine i soggetti più a rischio conviene restare vicino agli esperti dell'Osservatorio nazionale sull'alcol nel loro viaggio in discoteca. Abbiamo già visto che beve il 67 per cento dei giovanissimi sotto i 15 anni. In questa speciale categoria le ragazzine fanno peggio dei ragazzini: il 31 per cento di loro supera i due bicchieri contro il 25 per cento dei loro compagni. E con l'età le cose non migliorano. Dieci anni fa diceva di bere almeno una volta alla settimana il 53,7 per cento delle ragazze fra i 18 e i 19 anni. Adesso siamo arrivati al 60,9 per cento. Quello che si impara da piccoli si conserva da grandi. Secondo uno studio del Centro alcologico della Regione Lazio non rinuncia ad almeno un bicchiere di vino al giorno la metà delle donne incinte. Con il risultato che 47 bambini ogni mille nascono con la cosiddetta sindrome fedoalcologica, e cioè problemi vari che vanno dai deficit di apprendimento alle difficoltà di socializzazione. Alcolizzati senza mai aver preso un bicchiere in mano.
Il record del Nord Est
È un altro segnale di come la situazione stia peggiorando. Il binge drinking, bere esclusivamente allo scopo di ubriacarsi, è cresciuto nel 2007 di circa il 5 per cento rispetto a dieci anni prima. Una pratica che si ferma all'1,9 per cento dei ragazzi, ma forse sarebbe meglio chiamarli bambini, tra gli 11 e i 15 anni. E che raggiunge il valore più alto (17,2 per cento) tra i 20 e i 24 anni, quando ormai i ragazzi sono diventati professionisti e si buttano sui cocktail. Il fenomeno è più diffuso nel Nord Est, dove coinvolge un ragazzo su dieci al di sotto dei 29 anni. Un po' meno nel Nord Ovest (8,6 per cento) e al Sud dove si ferma al 7 per cento.
Problema europeo
Non è certo una consolazione ma il boom dell'alcol fra i giovani non è un problema solo italiano. In Grecia gli ultimi da di intervenire. Anche l'Unione Europea ha detto la sua. Con numeri che non hanno bisogno di commenti: nel vecchio continente un giovane su quattro tra quelli che muoiono tra i 15 e i 29 anni muore a causa dell'alcol, una buona metà dopo un incidente stradale provocato dalla guida in stato d'ebbrezza. E a chi sostiene — a ragione, certo — che le industrie del settore danno lavoro ad un buon numero di persone, l'Ue ha risposto sullo stesso terreno, quello inattaccabile dell'economia: il consumo di alcol, in termini di cure mediche, costa ai Paesi dell'Ue il 5 per cento del Pil. Da qui l'invito (ottimistico) di ridurre a zero il numero dei bevitori sotto i 15 anni entro il 2010.
Il limite d'età
E in Italia? Alla fine dell'anno scorso l'allora ministro della Salute Livia Turco aveva proposto di innalzare da 16 a 18 anni l'età minima per poter acquistare alcolici. Non se ne è fatto nulla. Resistenze trasversali e anche la scelta di una linea diversa: prevedere sanzioni più severe per chi guida in stato d'ebbrezza. Ma i giovanissimi non guidano e quindi per loro nessuna novità. Il nuovo governo potrebbe riesaminare la pratica: «Portare il limite di acquisto dai 16 ai 18 anni mi sembra una buona idea» dice Carlo Giovanardi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle tossicodipendenze. «Così come sarebbe bene — aggiunge — estendere il divieto nelle discoteche dalle due in poi, non solo per i minori ma per tutti, anche a pub, bar e chioschi vari». Proprio i posti dove i ragazzini vanno a fare la scorta prima di lanciarsi in pista.

Repubblica 3.7.08
Il principe senza legge
di Stefano Rodotà


È un´amara estate per chi contempla il panorama costituzionale, sconvolto da iniziative, mosse, parole che ne stanno alterando la fisionomia. La riforma del sistema politico, con il risultato delle elezioni, è stata compiuta senza atti formali, senza bisogno di cambiamenti della legge elettorale. E mentre si discute di un dialogo bipartisan come condizione indispensabile della riforma costituzionale, questa viene implacabilmente realizzata da un quotidiano e unilaterale esercizio del potere.
La forza delle cose si impone, gli equilibri democratici vacillano. Stanno cambiando gli assetti al vertice dello Stato, con una lotta tra poteri costituzionali che non ha precedenti nella storia della Repubblica. Vengono travolti principi fondativi come quelli dell´eguaglianza e della solidarietà. Cambia così l´assetto della società, non più fatta di liberi ed eguali, rispettati nella loro autonomia e nella loro dignità, ma di nuovo ordinata gerarchicamente, con gli ultimi, con i dannati della terra posti in fondo alla scala sociale-immigrati, rom, poveri.
Non è un fulmine a ciel sereno. Da anni, molte forze lavoravano per questo risultato, molti apprendisti stregoni davano il loro contributo. Si pubblicavano libelli contro la solidarietà; si ridimensionava, fin quasi ad azzerarla, la portata del principio di eguaglianza; si accettava senza batter ciglio che la Costituzione fosse definita "ferrovecchio" o "minestra riscaldata"; la difesa dei princìpi si faceva sempre più tiepida; si diffondeva in ambienti altrimenti insospettabili la convinzione che la logica del mercato imponesse la riscrittura dell´articolo 41 della Costituzione, apparendo evidentemente eccessivo che la libertà dell´iniziativa economica avesse un limite invalicabile addirittura nel rispetto della sicurezza (e le morti sul lavoro?), della libertà, della dignità umana.; si accettava che le commissioni bicamerali mettessero allegramente le mani sulla delicatissima materia della giustizia. Gli anticorpi democratici si indebolivano e i difensori della logica complessiva della Costituzione venivano definiti "nobilmente conservatori", con una formula apparentemente rispettosa, ma in realtà liquidatoria. È una storia che comincia ai tempi della "Grande riforma" craxiana, e che oggi sembra giungere a compimento.
È come se si fosse aperta una voragine nella quale precipitano masse di detriti accumulate negli anni. Tutta la Costituzione è sotto scacco, a cominciare proprio dalla sua prima parte, quella dei princìpi e dei diritti, che pure, a parole, si dichiara intoccabile. Tutto è rimesso in discussione. La dignità sociale e l´eguaglianza tra le persone, a cominciare da ogni forma di discriminazione fondata sulla razza e sulla condizione personale. La libertà d´informazione, considerata non solo sul versante dei giornalisti, ma in primo luogo dalla parte dei cittadini, titolari del fondamentale diritto di controllare in modo capillare e diffuso tutti i detentori di poteri: "la luce del sole è il miglior disinfettante", diceva un grande giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, riferendosi non solo alla corruzione, ma a tutti gli usi distorti del potere pubblico e privato. La libertà personale e quella di circolazione, sulle quali incidono fortemente le diverse tecniche di sorveglianza. La libertà di comunicazione, colpita non solo e non tanto dalle intercettazioni, per la cui diffusione lo scandalo è massimo, ma dalla implacabile, continua raccolta e conservazione per anni dei dati riguardanti telefonate, sms, accessi a internet, che davvero configurano una società del controllo e di cui nessuno sembra preoccuparsi.
Può una democrazia sopravvivere bordeggiando sempre più ai margini estremi della legalità costituzionale, sempre alla ricerca di qualche aggiustamento che non la maltratti troppo, e così perdendo progressivamente il senso stesso di quella legalità che dovrebbe da tutti essere vissuta come limite invalicabile? Chi si prende cura di questa democrazia che, di giorno in giorno, si presenta con i tratti delle sue pericolose degenerazioni, che la fanno definire come autoritaria o plebiscitaria, che conosce quegli intrecci perversi tra politica e uso delle tecnologie della comunicazione che sono la versione più aggiornata del populismo?
Se facciamo un piccolo, e confortante, esercizio di memoria e riandiamo a due anni fa, al giugno del 2006, ci imbattiamo nel referendum con il quale i cittadini italiani respinsero una riforma costituzionale che andava proprio in quella direzione. Rilegittimata dal voto popolare, la Costituzione del 1948 sembrava avviata al più ragionevole destino di una sua buona "manutenzione". Ma, da allora, sembra passato un secolo. La Costituzione è stata messa in un angolo, le file dei suoi difensori si assottigliano e sono in difficoltà. La legalità, costituzionale e ordinaria, non è più un valore in sé. Viene ormai presentata come una variabile dipendente dal voto. Le elezioni non sono più un esercizio di democrazia. Diventano un lavacro, l´unto dal voto popolare deve essere considerato intoccabile. Torna tra noi il principe sciolto dall´osservanza delle leggi, e quindi legittimato a liberarsi di quelle che contraddicono questa sua ritrovata natura. È qui il vero senso del cambiamento: non nel fastidio per questo o quel tipo di controllo, ma nel radicale rifiuto di correre i rischi della democrazia.
Delle telefonate del Presidente del consiglio mi inquietano molte cose, ma soprattutto il fatto di essersi posto al centro di un sistema di feudalità dal quale nasce, quasi come una conseguenza inevitabile, la pretesa dell´immunità. Un corteo lo accompagna nel tradurre in fatti questa sua pretesa. Scompare il governo, integralmente sostituito dagli scatti d´umore del suo Presidente, che ne muta le deliberazioni a suo piacimento, che lo vede come puro luogo di registrazione. La tanto pubblicizzata approvazione in soli 9 minuti dell´intera manovra economico-finanziaria del prossimo triennio è stata presentata come un miracolo di efficienza, mentre era la prova della scomparsa della collegialità della decisione, della discussione come sale della democrazia: non un segno di vitalità, ma di morte, come i 21 grammi che si perdono appunto nel morire, raccontati nel film di Alejandro Gonzalez Inarritu. Il Parlamento ha clamorosamente rinunciato ad esercitare la sua funzione di controllo e di filtro, sembra ignorare il fatto che il procedimento legislativo non è cosa di cui il Presidente del consiglio possa disporre secondo la sua volontà.
I controlli scompaiono. Vecchia aspirazione d´ogni potere. La magistratura non deve essere liberata dai suoi problemi, responsabilizzata nel modo giusto. Deve essere presentata come il vero demone che attenta alla democrazia, aggressiva e inefficiente, quasi che i suoi molti limiti non dipendessero da una lunghissima disattenzione del potere politico che l´ha fatta marcire nelle sue obiettive difficoltà, che ha progressivamente azzerato la propria responsabilità appunto politica e ha preteso di sciogliersi dal controllo di legalità in quanto tale. Gli anni di Mani pulite sono rappresentati come un golpe, azzerando la memoria degli abissi di illegalità che furono disvelati. E la totale normalizzazione della magistratura diventa la via attraverso la quale passa, con la minacciata disciplina autoritaria della diffusione delle intercettazioni, anche la normalizzazione del sistema della comunicazione. Poco e male informati, i cittadini sono pronti ad essere usati come docile "carne da sondaggio", per applaudire le decisioni del principe secondo la più classica delle tecniche plebiscitarie.
A custodire Costituzione e legalità rimangono il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Ma questo non è un residuo segno di buona salute, è anch´esso il sintomo d´una patologia. La democrazia non può ritirarsi dal sistema in generale, rifugiandosi in alcuni luoghi soltanto. Ma da qui si può e si deve comunque ripartire, soprattutto se la voce dei cittadini e dell´opposizione riuscirà a trovare i toni forti e giusti di cui abbiamo bisogno.

Repubblica 3.7.08
La Rossanda e l'allarme di Umberto "Gran brutta aria, regime ancora no"
"Se il 47% degli italiani rifiuta i rom, bisogna battersi contro di loro"
Gli intellettuali sul rischio-autoritarismo. La fondatrice del "manifesto": con Di Pietro in piazza mai
Lo scrittore Matvejevic: in Italia solo l'involucro della democrazia
di Alessandra Longo


ROMA - Difficile non confrontarsi con le parole di Umberto Eco. Difficile non chiedersi se davvero noi italiani siamo con un piede nel burrone, se davvero la democrazia qui, adesso, è in pericolo. «Non siamo ancora al regime – dice Rossana Rossanda – ma ci sono molti segnali di avvicinamento. Siamo al limite, tira un´aria brutta. Trovo importante che Eco sia intervenuto. Il rischio c´è. E a preoccuparmi non sono solo le gesta di Berlusconi, di La Russa, della "banda" che ci governa, ma il guasto profondo che si è prodotto nella società italiana, nell´opinione pubblica». Da Parigi, dove ormai vive quasi in pianta stabile, senza tuttavia perdere nulla di quel che succede in Italia, Rossanda vede un Paese incline al «populismo», in cerca del «capro espiatorio», «del poveraccio, del diverso», su cui far convergere frustrazioni, rancori, paure: «Se è vero che il 47 per cento degli italiani prova repulsione all´idea di vivere accanto a un Rom, allora bisogna battersi contro quel 47 per cento, ribellarsi all´egoismo, all´individualismo, risvegliare le coscienze».
Una democrazia, quella italiana, che scivola lentamente in altro. Dice Eco che «la maggioranza ha diritto di governare», ma altra cosa è il sentirsi depositari dell´unica verità. Dacia Maraini si farà prendere pubblicamente le impronte, il 7 luglio prossimo, a Roma, come atto di protesta contro uno dei provvedimenti più odiosi decisi da questo governo, la schedatura dei piccoli Rom. E´ d´accordo con Eco: «Questo Paese è borderline dal punto di vista della democrazia. Berlusconi non tiene conto di nulla, è un estremista, gestisce l´Italia come fosse una sua azienda. Maggioranza non può essere diritto di impunità, non è dominio sulla minoranza, non implica l´uso personalistico, poliziesco della politica».
La storia non si ripete o, semmai, si può ripetere in farsa, «ma anche le farse, a volte, possono essere inquietanti», avverte Rossanda che attribuisce un certo torpore etico anche alla scomparsa dei comunisti alla Berlinguer: «Potevi non essere d´accordo con loro, ma il Pci di allora, con le sue denunce, ti faceva sentire in colpa, agitava le coscienze». Oggi gli anticorpi sembrano minori. Che serva il ritorno alla piazza? «Se fossi a Roma – dice Rossanda - non andrei alla manifestazione dell´8 luglio perché intravvedo in Di Pietro un´idea della democrazia alimentata dalla vendicatività che non condivido». A ognuno il suo. Vincenzo Cerami pensa che, «per carità, un girotondo vada benissimo» ma da un «grande partito come il Pd, doverosamente dotato di senso delle responsabilità istituzionali, ci si attende una manifestazione alta, matura». Eco, dice Cerami, ha ragione quando fiuta il pericolo-regime in Italia ma l´immagine di «una minoranza che non osa reagire» non si applica certo all´opposizione veltroniana che, a mio avviso, non è né paciosa né tranquilla. Io dico: una manifestazione il Pd la farà, con i suoi tempi, con i suoi modi, senza un linguaggio impulsivo. Lasciamo che la maggioranza si cuocia nel suo brodo, lasciamo che vengano più allo scoperto...».
Lo scrittore Predrag Matvejevic, che ha conosciuto il regime croato di Tudjman e l´aria irrespirabile dei Paesi dell´Est, e ha ricevuto la cittadinanza italiana dal presidente Napolitano, tifa per un´Italia più reattiva: «Una democrazia a rischio può scivolare facilmente in quello che io chiamo "democratura" dove tutto sembra come prima, dove si proclama con forza il rito della democrazia ma, in realtà, è rimasto solo l´involucro».

Repubblica 3.7.08
Per la Cina io non esisto
Intervista al Premio Nobel Gao Xingjian
Un esilio lungo vent'anni
di Federico Rampini


"Nel mio paese sono una non-persona Hanno cancellato il mio nome dall´elenco dei Nobel, ma io non sono un dissidente, solo uno scrittore"
"Dopo i fatti di Tienanmen il Governo ha ripreso a esercitare un controllo duro"
"Gli studenti cinesi all´estero sono tutti iscritti al partito e si controllano tra loro"

AGLIANA (PISTOIA). Esiste una Grande Muraglia invisibile che impedisce la comprensione fra l´Occidente e la Cina? Noi e loro siamo destinati a non capirci perché i nostri linguaggi, i sistemi di valori, i contesti storici delle due civiltà sono troppo distanti? Il teorema dell´incomunicabilità ha avuto un revival in tempi recenti, da quando si è visto che il formidabile sviluppo economico cinese non sfocia automaticamente nella evoluzione politica verso la liberaldemocrazia. I leader della Repubblica Popolare difendono da tempo una presunta e irriducibile diversità dei «valori asiatici» per respingere le critiche sui diritti umani e le libertà. Pochi possono affrontare questo tema con la lucidità di Gao Xingjian, il premio Nobel cinese della letteratura.
Romanziere, commediografo e pittore, Gao vive in esilio a Parigi dal 1988. L´esperienza della diaspora ne fa un osservatore acuto dei due mondi. Lo incontro ad Agliana, dove è venuto ad assistere alla messa in scena de La Fuga (Titivillus Edizioni, traduzione di Simona Polvani), il suo dramma ispirato alla rivolta di Piazza Tienanmen.
Lei parla perfettamente francese eppure da vent´anni continua a scrivere in mandarino. La distanza linguistica è il segnale che ci sono idee, vicende, rappresentazioni del mondo che restano «intraducibili» al di fuori del contesto storico in cui sono nate?
«Non sottovaluto le difficoltà della traduzione. Ma dagli ostacoli grammaticali, lessicali e sintattici non bisogna estrapolare delle conclusioni estreme. Capire la Cina, per un europeo di oggi, non è più difficile di quanto lo sia per voi stessi capire la Grecia antica: anche quello indubbiamente era un mondo assai diverso. Del resto anch´io sono in grado di leggere e di amare i classici greci. Non ci sono delle vere barriere per la comunicazione tra Occidente e Oriente. Io sono un esempio di questa possibilità. Sono interessato da sempre alla cultura occidentale, ma anche a quella sudamericana, africana, e conosco in parte quella indiana».
Dunque lei che cosa risponde a chi teorizza che i valori occidentali non si possono esportare a Pechino?
«L´impressione dell´incomunicabilità tra i due mondi è una creazione della politica. E´ evidente l´interesse che ha il regime di Pechino a far credere che le civiltà sono compartimenti stagni. La storia ci ha dimostrato più volte il contrario. Nel passato i missionari cattolici hanno tradotto e hanno permesso di conoscere in Occidente molti filosofi classici cinesi; insieme hanno tradotto in cinese i testi religiosi europei. Questo poteva avvenire perché certe dinastie imperiali del passato erano meno totalitarie della Repubblica Popolare. Nella Cina contemporanea ci furono una certa riapertura, una maggiore libertà di circolazione delle informazioni e degli scambi dopo la morte di Mao Zedong. Poi vennero i fatti di Piazza Tienanmen e il Governo ha ripreso a esercitare un controllo molto forte. Può esserci un dialogo tra culture, poiché le relazioni si fondano su un tessuto comune: è la natura umana che è la stessa, ed è universale. L´unica vera barriera tra di noi è politica».
Lei è l´unico autore cinese ad avere ricevuto il Nobel. Negli ultimi vent´anni l´atteggiamento del regime nei suoi confronti non è mai cambiato?
«Io in Cina ufficialmente non esisto. Continuo a essere invisibile, una non-persona. Nelle enciclopedie, nei testi di storia letteraria, o negli archivi dei giornali, hanno cancellato il mio nome dall´elenco dei premi Nobel della Letteratura. Quindi per i cinesi il Nobel del 2000 non fu mai assegnato. Quando vado a Hong Kong - l´unica città cinese dove mi è consentito rientrare per il suo statuto autonomo - ci sono dei connazionali che vengono ad ascoltarmi, a dialogare con me. Possono farlo a patto che non scrivano nulla su di me quando tornano a casa. In questo senso qualcosa è cambiato. Il dibattito tra i cinesi, nella loro vita privata, è certamente più libero e disinvolto rispetto ai tempi del maoismo. Ma tutto ciò che diventa pubblico è ancora sottoposto a un controllo e a limitazioni stringenti».
Perfino fare i conti con il maoismo continua a essere difficile. Lei con Il libro di un uomo solo è una delle rare eccezioni.
«Il mio Libro di un uomo solo non è un diario né un reportage, è un romanzo, quindi una rielaborazione in forma narrativa, ma effettivamente vi racconto la mia esperienza di quel periodo. Sul nazismo sono stati scritti decine e decine di libri che raccontano le sue atrocità, sul maoismo la letteratura è ancora povera. Con il mio romanzo ho voluto lasciare una testimonianza sull´orrore della Rivoluzione culturale. Ho cercato di andare fino in fondo. Ho provato a far capire quali siano le ragioni per cui un regime può arrivare a controllare milioni di persone e ridurle a niente. La Cina dopo la morte di Mao Zedong voleva far credere al resto del mondo che era cambiata ma non lo era abbastanza; alcuni meccanismi della paura e del controllo sociale sono in opera anche adesso. Perciò leggo poco di quello che si pubblica oggi nel mio paese. Quando la condizione preventiva per riuscire a essere pubblicati è la disciplina dell´autocensura, manca una condizione per il fiorire della creazione artistica».
Nel testo teatrale La Fuga c´è la denuncia della repressione ma c´è anche una visione disillusa, perfino cinica, sulle varie componenti che confluirono nella rivolta di Piazza Tienanmen nel 1989. Per questo lei si attirò le critiche di alcuni dissidenti. Nel mondo degli esuli lei rimane abbastanza isolato, un caso a parte.
«Ho sempre rifiutato di farmi rinchiudere nella definizione del dissidente. E´ un marchio nel quale non mi riconosco. Questa mia scelta non riguarda solo la Cina, ma più in generale la questione dell´impegno politico dell´artista. Io sono convinto che anche nell´arte dobbiamo essere capaci di superare il Novecento, il secolo delle grandi guerre ideologiche. Quando rileggo Brecht o Sartre m´imbatto troppo spesso in pagine irrimediabilmente datate, perché le loro posizioni sono vecchie, palesemente sbagliate, insostenibili. Brecht lo ammiro tuttora come un genio dell´innovazione teatrale, eppure la sua militanza politica in qualche modo impoverisce la sua opera. Io rifiuto tutti gli "ismi". Credo che lo scrittore deve riuscire a raccontare una vicenda umana - anche piccola, modesta, del tutto privata - ma che si possa forse rileggere mille anni dopo come una storia universale che continua a interessarci».
Molti occidentali sono rimasti turbati da quanto è avvenuto negli ultimi mesi in Cina. Dopo la rivolta del Tibet e la repressione scatenata dal governo di Pechino, si è avuta la sensazione che la maggioranza dei cinesi siano solidali del regime in nome del nazionalismo. Un´impressione rafforzata durante le contestazioni contro la fiaccola olimpica a Londra, Parigi, San Francisco: da una parte c´erano i militanti dei diritti umani, ma in difesa della fiaccola si sono schierate le comunità degli emigrati e degli studenti cinesi all´estero, una forte manifestazione di patriottismo e di compattezza nazionale.
«Io sono uno scrittore, non un giornalista. Non so trovare risposte precise, spiegazioni dettagliate di questi eventi. Io vi invito a non fermarvi alle apparenze. Bisogna sempre chiedersi cosa c´è dietro, quali interessi sono in gioco, quali forze stanno muovendosi. Ci sono stati dei segnali sul ruolo che le ambasciate cinesi hanno svolto per mobilitare i connazionali all´estero. Gli studenti cinesi che frequentano le università occidentali grazie alle borse di studio, che lo sappiate o no, sono spesso iscritti al partito comunista. Si sorvegliano reciprocamente, molti di loro sanno che dovranno tornare in patria. In quanto agli immigrati cinesi che sono scesi in piazza per difendere la fiaccola a Parigi o altrove, molti lavorano nel commercio. Hanno bisogno di intrattenere buoni rapporti con la Repubblica Popolare che è la fonte dei loro affari. Scavando sotto il nazionalismo spesso si trovano scelte di convenienza, interessi economici. Credo inoltre che il governo cinese stia utilizzando i Giochi per far crescere il nazionalismo in Cina e nei cinesi che vivono all´estero. Se inizi a parlare di ideologia, anche in Cina, nessuno ti sta a sentire, ma se parli di interessi allora è facile catturare l´attenzione».

il Riformista 3.7.08
Brava Comencini
Finalmente la fine del comunismo
di Filippo La Porta


L'illusione del bene di Cristina Comencini (Feltrinelli), stasera in lizza per il Premio Strega, è il primo romanzo che racconta il lutto di un'idea, e in particolare dell'idea di comunismo, così pervasiva e direi «fondante» nella storia italiana ed europea. In ciò è un romanzo fortemente «realistico» oltre che «di idee».
Quando si accusa la letteratura italiana di scarso realismo non bisogna infatti intendere per «realtà» solo quella della cronaca. Altrimenti il successo attuale del reportage, e di un libro come Gomorra , basterebbe a compensare una lacuna del genere. No, per «realtà» intendo anche i grandi temi e conflitti del nostro tempo, troppo spesso ignorati dai nostri scrittori «minimalisti»… Prendiamo proprio la fine del comunismo, esemplificata dalla Caduta del Muro nel 1989. Un evento che ha modificato in modo irreversibile il nostro immaginario e le nostre mappe ideologiche (ad es. il tentato golpe contro Gorbaciov in Russia, nell'agosto del '91, ad opera della nomenklatura comunista, venne giustamente considerato «di destra»…). Da quel momento due o tre generazioni si sono ritrovate quasi all'improvviso prive di una «fede», di un sistema di credenze e certezze granitico, di una ideologia che era stata la più compiuta secolarizzazione degli assoluti religiosi… Alfonso Berardinelli ha osservato che oggi in Occidente il comunismo, come del resto il fascismo, ha a che fare con una psicopatologia. La sua sembra una ritorsione postuma contro quei regimi che rinchiudevano in manicomio i propri dissidenti. Ma, al di là del paradosso, indica una verità inoppugnabile. Dopo l'89, dopo lo sbriciolamento dei socialismi reali (e il loro svelare universi di corruzione e miseria inimmaginabili), appare ben arduo dichiararsi in buona fede comunisti. È una bugia e una distorsione della personalità prima ancora di un errore politico e morale. Anche perché, aggiungo, non serve neanche più per opporsi all'esistente: negli ultimi anni i critici più irriducibili della società sono stati intellettuali radicali che non hanno nulla a che fare con il marxismo (Lasch, Illich, Sachs, Chomski…).
Il protagonista del romanzo si congeda non tanto dalla «illusione del bene» quanto dalla illusione del bene quando diventa sentimento collettivo, teoria prescrittiva, insomma pretesa pedagogico-autoritaria di raddrizzare la natura umana. Inseguendo il tenue filo dei propri ideali giovanili, spogliati del loro involucro ideologico, il protagonista ritrova un dialogo inaspettato con chi dall'altra parte del Muro, e proprio nel '68, aveva la stessa ansia di ribellione e di utopia, benché chiamata con nome diverso. La Comencini affronta intrepidamente una problematica così impegnativa attraverso una storia avvincente, in cui le idee si sciolgono «naturalmente» in destini concreti; e usando una prosa cordiale, affabile ma non perciò pacificata o priva di dissonanze. Credo che per questo meriterebbe un riconoscimento

mercoledì 2 luglio 2008

l’Unità 2.7.08
Razzismo
Impronte ai bimbi rom, l’Europa invia l’altolà al governo italiano
di Paolo Soldini

Il pasticciaccio brutto di via del Viminale sulle impronte dei bambini rom rischia di precipitare l’Italia in un mare di guai a Bruxelles. Dagli uffici del commissario alla Giustizia Jacques Barrot, che nei giorni scorsi si sono già scottati con la vicenda, proviene un gelido silenzio: «Per ora siamo alle indiscrezioni sui giornali italiani e non esiste alcunché di ufficiale, e neppure di ufficioso. Solo quando riceveremo una qualche comunicazione dal governo di Roma saremo in grado di giudicare». Il governo di Roma, et pour cause, si guarda bene dal comunicare checchessia. Tattica miserevole, giacché il colpo duro sta arrivando, intanto, da un’altra parte. Da voci (solide voci) raccolte al Barleymont, il palazzo della Commissione, sarebbe imminente la partenza per palazzo Chigi di una lettera con una perentoria richiesta di spiegazioni. A inviarla sarebbe il commissario agli Affari sociali, il cèco Vladimir Špidla nella cui competenza rientrano tutti i casi di concreta violazione delle norme contro le discriminazioni. A prescindere dalle sorti legislative dei provvedimenti di cui si discute, le autorità italiane - questa la ratio della lettera - stanno già prendendo le impronte digitali dei bambini di etnìa rom e ciò contrasta con una serie di disposizioni dell’Unione e, in modo particolare ed evidentissimo, con la direttiva 2000/43/CE, la quale vieta espressamente trattamenti particolari sulla base della «origine etnica» dei cittadini. In una parola: il fatto di essere in attesa di comunicazioni ufficiali non esime la Commissione europea dall’obbligo, intanto, di intervenire (e lo farà Špidla), lasciando impregiudicata l’analisi giuridica dei testi che spetterà, a suo tempo, a Barrot. Nella lettera si chiederà un rapporto dettagliato su quanto è avvenuto e sta avvenendo nei campi rom e se la risposta non sarà soddisfacente, l’Italia andrà incontro a sanzioni che vanno dall’apertura di una procedura di infrazione (una «pena» leggera nella normativa Ue, ma con un forte impatto di immagine in un caso che riguarderebbe i diritti fondamentali della persona) al deferimento alla Corte di Giustizia per violazione dell’art. 6 del Trattato dell’Unione, che sarebbe una prima storica assoluta, fino, almeno in teoria, all’applicazione dell’art. 7 del Trattato stesso, il quale, con procedure ultragarantiste e molto rigide ma comunque praticabili, prevede addirittura la sospensione di uno Stato dall’Unione. Finora l’art. 7 è stato evocato solo due volte: come minaccia all’Austria, quando il cancelliere cristiano-democratico Wolfgang Schüssel chiamò al governo Jörg Haider, e nei momenti peggiori dei rapporti tra Bruxelles e la Polonia dei cattivissimi gemelli Kaczynski. Tutte e due le volte non se ne è fatto nulla.
Il ricorso all’art. 7 è quasi fantascienza, almeno allo stato attuale dei fatti, non fosse che perché tra le condizioni che prevede c’è, fra le altre, una maggioranza di tre quarti del Parlamento europeo. Ma le altre opzioni sono apertissime e potrebbero scattare tanto nell’immediato futuro, se Maroni insisterà, quanto alla fine dell’istruttoria che si aprirà quando il governo italiano, bontà sua, si deciderà a spiegare a Bruxelles che cosa intenda fare.
Quello manda in bestia i responsabili della politica dell’Unione, compreso, pare, lo stesso José Manuel Barroso che di Berlusconi non è mai stato nemico, è, oltre al merito, anche il metodo con cui Maroni e i suoi colleghi, a cominciare dall’inutile ministro alle Politiche comunitarie, si stanno muovendo sulla questione. E non ha certo aiutato l’ennesima, infelice uscita da mosca cocchiere del presidente del Consiglio italiano sul «silenzio» cui, secondo lui, sarebbero tenuti i commissari europei di fronte agli affari dei governi.
Maroni - si fa notare - ha detto «una cosa molto imprecisa» sostenendo che la prassi europea già prevede anzi «rende obbligatorio» il rilevamento delle impronte digitale dei bambini. Il regolamento 2008/380, cui l’incauto ministro ha fatto riferimento, fissa le norme tecniche (biometriche) per la concessione dei permessi di soggiorno ai cittadini, bambini sopra i sei anni compresi, extracomunitari. È una normativa che serve a facilitare, uniformando i criteri, il lavoro della polizia nei diversi paesi. Niente a che vedere con i rom, che in Italia sono all’80% cittadini italiani o comunitari, e soprattutto niente a che vedere con criteri selettivi basati sulla «razza» o sull’etnìa, espressamente vietati (e puniti) dalla 2000/43.
Con la sua affermazione il ministro italiano ha gettato discredito sull’intero, delicatissimo, capitolo della politica anti-discriminazioni della Ue. Che l’abbia fatto per leggerezza o con piena consapevolezza, il risultato non cambia. Tanto più che per la sua ordinanza Maroni ha utilizzato in modo molto disinvolto anche la legislazione italiana in un punto (la protezione civile contro le catastrofi naturali) che sta molto a cuore, anche questo, ai responsabili europei. «L’Italie c’est l’Italie - commentava ieri un alto funzionario del Consiglio dei ministri - ma vi rendete conto del precedente che rischiate di creare? Se passa l’idea che si possono adottare misure straordinarie contro le calamità ai problemi creati dagli immigrati, chi impedirà che un giorno il governo di tale o tal altro paese giudichi la tale o tal altra minoranza una calamità da trattare extra-legem?».

l’Unità 2.7.08
È il «garante» di Alemanno il prete arrestato per pedofilia
di Massimiliano Di Dio

«È un grande dolore». Tutto qui quello che il sindaco di Roma Gianni Alemanno riesce a dire dell’arresto di don Ruggero Conti, uno dei «garanti per la famiglia» della sua amministrazione, accusato di violenza sessuale aggravata e continuata nei confronti di alcuni minori dell’oratorio. I radicali lo sfidano: si costituisca parte civile. Ma il sindaco fa finta di niente. E formalmente lo mantiene in carica.
Don Conti accusato di aver violentato minori
I radicali: «Sindaco parte civile». Ma lui tace

DA REGINA COELI, dov’è detenuto da quattro giorni, don Ruggero Conti nega ogni addebito. Anzi incalza: «È tutto un complotto. Sono tutte falsità frutto di cattiveria e gelosia» mentre una parte dei fedeli è incredula: «Lo aspettiamo a braccia aperte». Ma
gli inquirenti hanno ricostruito dieci anni di abusi nella sua parrocchia, partendo dalla denuncia di un altro sacerdote e arrivando alle testimonianze per ora di sette giovani, all'epoca tutti minorenni. E le accuse contro don Conti, 55 anni della parrocchia romana Natività di Maria Santissima, sembrano reggere. Al punto che si è arrivati all'arresto con l'accusa di violenza sessuale aggravata e continuata. Ora il suo caso crea non poco imbarazzo anche in Campidoglio dove solo alcuni mesi fa, prima della campagna elettorale e quindi prima di finire in manette, don Ruggero era stato nominato dallo stesso Alemanno garante per le politiche per le periferie e la famiglia. I radicali ieri hanno chiesto al primo cittadino di costituirsi parte civile. Ma Alemanno non ha risposto. «È stato un grosso dolore. Chiedo ai magistrati tutta la chiarezza possibile e di non fare sconti a nessuno» si è limitato a dire.
Nessun atto cautelativo da parte del Campidoglio nei confronti del sacerdote. Che da un lato contrasta con le condanne espresse in passato da An in altre vicende simili, come quella di Rignano Flaminio. E dall'altro trova forse ragione nel rapporto che lega il prete arrestato al sindaco. Al punto che quest'ultimo lo ha voluto accanto a sé anche in Comune come garante per le politiche per la famiglia e le periferie. «Alemanno passi dalle parole ai fatti: il Comune si costituisca parte civile per meglio assicurare assistenza a chi è doppiamente debole» incalza Mario Staderini dei Radicali. Dietro le sue parole c'è la drammatica vicenda giudiziaria che si è abbattuta dentro la parrocchia di via Selva Candida. Lì, secondo gli inquirenti, don Conti ha abusato negli ultimi dieci anni di ragazzi affidati alle sue cure nell'oratorio e nei campi estivi. Magari dietro la promessa di soldi, cd, dvd o vestiti. Vittime che all'epoca avevano anche solo undici anni. In sette ora hanno raccontato ai carabinieri un passato fatto di abusi e pedofilia. Ma potrebbero essere molti di più. Si cerca poi di far luce sui sospetti e le voci che nel quartiere da anni accompagnano il sacerdote. In passato don Conti era già stato sospeso per un mese dalle autorità ecclesiastiche. «Nel 2006 - spiega l'avvocato Anna D'Alessandro che difende il prete insieme ai legali Riccardo Olivo e Gianfranco D'Onofrio - c'era stata una verifica da parte del Vescovo dopo alcune voci e per un mese don Conti non era stato presente in parrocchia. Poi però è tornato a svolgere il suo ruolo di sempre».
Dal carcere di Regina Coeli, dov'è detenuto da tre giorni, il sacerdote rilancia al complotto. I suoi legali hanno già presentato domanda di scarcerazione e istanza per i domiciliari per problemi cardiaci. Parlano alcuni fedeli. «Di quello che si dice su di lui, la maggior parte è tutto inventato - afferma una signora - Lo conosco da anni, è amico di tutti, sempre solare e spettacolare. Qui in parrocchia lo aspettiamo a braccia aperte e nel frattempo cerchiamo di riportare armonia e normalità in un luogo frequentato da 400 bambini e 100 animatori». Su youtube un video mostra il sacerdote mentre canta. Capelli neri, occhiali, un po' paffuto. Molti i commenti. Alcuni contro, altri a favore come quello di Pindulicchio: «Ho lavorato per lui e non ha commesso una cosa simile. È un personaggio "scomodo" in grado di far del bene alla comunità. Presto si farà luce sui fatti».

l’Unità 2.7.08
La sentenza Onu
Quell’omicidio chiamato stupro
di Slavenka Drakulic

Ricordo con chiarezza la prima vittima di stupro che ho avuto la ventura di conoscere. Era l’autunno del 1992 e mi trovavo in una cittadina non lontana da Zagabria. La donna era una musulmana di Kozarac in Bosnia. Dopo alcuni mesi trascorsi in un campo di prigionia, era arrivata a Zagabria con un gruppo di rifugiati. Selma (non è il suo vero nome) aveva circa 35 anni, capelli castani corti e occhi di un azzurro intenso.
Mi raccontò la sua storia con un filo di voce quasi bisbigliando. Si trovava a casa con i suoi due figli e sua madre quando un gruppo di paramilitari serbi fece irruzione nel cortile. Dissero che cercavano armi, ma a casa di Selma non c’erano armi. In realtà era ben altro quello che volevano.
Con una espressione feroce sul viso, un uomo la afferrò e la spinse nella stanza da letto. Poi gli altri lo raggiunsero. «Poi me lo hanno fatto».
Con queste semplici parole e con lo sguardo basso e fisso sulle mani che tormentava nervosamente, Selma mi ha parlato della sua tragedia. «Per molto tempo dopo quel fatto non sono riuscita a guardare in faccia i miei figli... Non facevo che lavarmi, ma continuavo a sentire addosso il loro odore. Immagini, me lo hanno fatto sul mio letto coniugale», mi ha detto.
Colsi una inflessione di disperazione nelle sue parole. Non piangeva o, quanto meno, non piangeva più. Ma si vergognava e la vergogna non l’abbandonava. Doveva conviverci così come doveva conviverci suo marito.
Il 20 giugno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità una risoluzione che classifica lo stupro un’arma di guerra. Le associazioni per la tutela dei diritti umani hanno saluto questa decisione come un fatto storico, ma non è una riparazione giuridica. Decine di migliaia di vittime delle violenze sessuali in Bosnia non si sono viste ancora riconoscere lo status giuridico di vittime di guerra. Mentre lavoravo al mio libro «They Would Never Hurt a Fly» (NdT, Non farebbero mai del male ad una mosca) sui criminali di guerra dei balcani sotto processo a L’Aja dinanzi al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, mi sono imbattuta nel “caso Foca”. Nel 1992 Dragoljub Kunarac, Radomir Kovac e Zoran Vukovic, tre serbi della città bosniaca di Foca, misero in prigione alcune giovani musulmane, le torturarono, le ridussero in una condizione di schiavitù sessuale e le violentarono. Eppure quegli uomini non riuscivano a capire per quale ragione venivano processati.
Uno di loro si difese dicendo: «ma avrei potuto ucciderle!». Dal suo punto di vista aveva salvato loro la vita. Stupro? Ma che reato può mai essere in confronto all’omicidio?
Questo caso è importante perché il 22 febbraio 2001, Florence Mumbal, giudice del Tribunale Penale Internazionale proveniente dallo Zambia, li giudicò colpevoli. I tre serbi sono stati i primi uomini nella storia del diritto europeo ad essere condannati per crimini contro l’umanità - tortura, riduzione in schiavitù, offesa alla dignità umana e stupri di massa di donne musulmane bosniache.
Questa sentenza riconosceva che la violenza sessuale è un’arma estremamente efficace per le operazioni di pulizia etnica. Non solo copre di vergogna le donne violentate, ma umilia i loro uomini che non sono in grado di proteggerle. La violenza sessuale distrugge l’intera comunità in quanto sul vittime rimane il marchio - mai dimenticato, mai perdonato.
Nel corso del processo contro gli imputati del caso Foca ci fu una testimone, madre di una bambina di 12 anni fatta prigioniera da Radomir Kovac che la violentò e la vendette a un soldato montenegrino per 100 euro. La ragazza non è stata mai più ritrovata. La madre si era presentata in tribunale per guardare in faccia l’aguzzino di sua figlia e per testimoniare contro di lui. Ma quando si alzò in piedi dinanzi alla Corte non riuscì a dire nemmeno una parola. Dalle sue labbra uscì solamente un suono simile all’insopportabile ululato di un cane ferito a morte. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sullo stupro certo non farà tornare a casa la figlia di questa povera donna. Ma è, non di meno, un avvenimento storico perché, finalmente, la violenza sessuale viene classificata come un’arma e può essere punita. Un uomo non potrà più difendersi dicendo che avrebbe potuto uccidere una donna, ma l’aveva “solamente” violentata. Oggi sappiamo, così come lo sapevamo prima che questa risoluzione fosse approvata, che lo stupro è una sorta di lento, differito omicidio.

Slavenka Drakulic collabora con la rivista «The Nation» ed è una scrittrice che vive in Croazia. Il suo ultimo libro, uscito negli Stati Uniti, si intitola «They Would Never Hurt a Fly: War Criminal on Trial in The Hague» (Penguin).
© 2008, The Nation

l’Unità 2.7.08
Resistenza. L’allarme del direttore Parisella: colpa della manovra del governo, convocherò i partigiani
«Il museo di via Tasso rischia lo scioglimento»

«C’è la seria possibilità che il museo di via Tasso, come ente, venga sciolto perchè così prevede il decreto legge 25 giugno 2008 numero 112».
È l’allarme lanciato dal direttore del museo della Liberazione di via Tasso, Antonio Parisella, ai microfoni di Radio Popolare Roma. «I suoi beni, le sue attività e le sue risorse finanziarie - ha aggiunto Parisella - andrebbero ad un ufficio dell’amministrazione dei Beni culturali che lo trasformerebbe in un qualsiasi museo gestito come un ufficio pubblico, togliendogli gran parte del suo significato, che sta proprio nell’essere un’istituzione che è anche parte della società civile. Ci sono due possibilità: una è che durante la discussione per la conversione del decreto si creino degli spazi per riuscire a sopravvivere come soggetti autonomi, l’altra è che alcuni enti vengano ripescati con decreto del ministro». Parisella, direttore a via Tasso dal 2001, annuncia che convocherà il direttivo del museo e le associazioni dei partigiani. Il museo di via Tasso, attualmente visitato da 15mila persone ogni anno, fu inaugurato il 4 giugno 1955 dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e riconosciuto nel 1957. È stato allestito nei locali dell’edificio che, nei mesi dell’occupazione nazista di Roma, venne utilizzato come carcere dal comando della polizia di sicurezza. Le celle di detenzione, che allora occupavano l’intero stabile mentre ora soltanto due dei quattro appartamenti destinati a museo, sono ancora come furono lasciate dai tedeschi in fuga.
A comandare la polizia di sicurezza tedesca a Roma fu posto il tenente colonnello Herbert Kappler, promosso dopo aver combattuto al fronte, che aveva una buona conoscenza dell’ambiente romano. Via Tasso divenne tristemente famosa come luogo dove si poteva essere portati anche senza alcun motivo e da dove si poteva finire diretti al tribunale di guerra, deportati o detenuti al carcere di Regina Coeli. Circa duemila tra uomini e donne vi passarono per essere sottoposti ad interrogatori, torture ed altre violenze. Non vi furono, infatti, solo militari passati in clandestinità o partigiani, ma anche uomini e donne, anziani e ragazzi, cittadini di ogni classe e ceto dai quali Kappler e suoi aiutanti pensavano di poter strappare informazioni sulle organizzazioni clandestine di Resistenza, sui luoghi di accoglienza di ebrei e militari italiani o alleati, su chi produceva stampa clandestina o documenti falsi.

l’Unità 2.7.08
L’Italia sposta 500 soldati nella trincea di Farah
Via ai rinforzi per il contingente italiano nella zona più a rischio della missione in Afghanistan
La Russa: «Combattiamo da un anno, Prodi sapeva». Parisi: «Non è vero». In vigore le nuove regole della missione
di Umberto De Giovannangeli

PIÙ ELICOTTERI In attesa di poter dispiegare i cacciabombardieri Tornado. Più soldati da impiegare nelle aree di combattimento. Caveat modificati, più aggressivi, per rispondere alle sollecitazioni dei comandi americani e Nato. È una visita operativa quella
di Ignazio La Russa in Afghanistan. «Presto» 500 militari italiani saranno impiegati a Farah, turbolenta provincia dell’area occidentale afghana. È quanto emerge in un briefing operativo che il ministro della Difesa ha avuto con il generale Francesco Arena, comandante della regione ovest della missione Isaf della Nato. Attualmente i militari italiani in Afghanistan sono circa 2700, di cui 1300 a Kabul, il resto nella regione ovest di Herat. Il 5 agosto l’Italia cederà alla Francia il comando della Regione della capitale e il contingente si alleggerirà immediatamente di circa 300 uomini, cioè quelli inviati in Afghanistan proprio in funzione di questo periodo di comando. Altri 500 saranno rimpatriati entro ottobre e, contestualmente 500 verranno schierati nell’ovest dove il contingente salirà dunque ad oltre 1900 militari. Se a questi si aggiungono i 500 di Kabul, si ottengono i 2400 autorizzati dal Parlamento. Con i 500 di rinforzo, il comandante della Regione Occidentale potrà contare su due battaglioni ed altre aliquote operative per un totale di mille uomini da schierare sul terreno: 500 ad Herat ed altrettanti a Farah e a Delaram. Attualmente a Farah sono dislocate la Task force 45, composta da uomini delle forze speciali, e una compagnia di fanteria della Brigata aeromobile Friuli per un totale di circa 160 uomini. Un’altra compagnia di fanteria è schierata a Delaram, una sorta di enclave che si trova nella regione sud dell’Afghanistan ma che, per ragioni tattico-operative, ricade sotto il controllo del comando ovest.
Combattono. Adesso è ufficiale. I militari italiani - in particolare la Task Force 45 - impegnati a Farah, nel sud dell’Afghanistan, da un anno combattono periodicamente contro gli insorti talebani. La notizia è confermata a Kabul da La Russa al quale in serata ha replicato l’ex ministro Parisi: «Noi non abbiamo mai nascosto nessuna informazione al Parlamento». Il ministro da Kabul aveva detto: «Il governo Prodi ha tenuto giustamente questa informazione riservata. Lo avrei fatto anch’io al posto di Prodi. Oggi però confermiamo che i nostri militari hanno partecipato ad azioni anche di combattimento». «I soldati italiani - aggiunge La Russa - lo fanno e lo vogliono fare al meglio; per questo mi hanno chiesto altri elicotteri e tre elicotteri saranno inviati entro novembre insieme a i rinforzi di 500 uomini. Si tratta di compiti pericolosi e ringrazio Dio che non abbiamo subito lutti e sofferenze». «Abbiamo meno uomini di quelli che vengono impiegati per garantire l’ordine pubblico in una partita come Roma-Lazio. Il problema è quello sia di poter contare su un maggior numero di militari, sia di un maggior numero di mezzi», incalza il generale Arena. Altro tema caldo è quello dei caveat. La modifica dei «caveat», cioè quelle limitazioni all’impiego dei militari italiani in Afghanistan di cui tanto si è parlato nelle scorse settimane, è già in vigore. I nuovi caveat sono già operativi. «Io ho già firmato», annuncia La Russa. «La modifica dei caveat è operativa», conferma il generale . Vincenzo Camporini, capo di Stato maggiore della Difesa. Il che significa concretamente, spiega La Russa, «che per autorizzare l’impiego dei nostri militari fuori dalla loro area di competenza , il governo non avrà più un massimo di 72 ore (termine lunghissimo, che di fatto rende inutile l’intervento) ma solo sei ore». In sei ore, insomma, l’Italia potrà concedere o negare al comando di Isaf, la missione Nato, l’autorizzazione a impiegare i propri soldati anche nel sud e nell’est del Paese, le zone più a rischio. Finora, però, questa richiesta non c’è stata. Finora.

l’Unità 2.7.08
Se l’architettura fabbricasse felicità
di Franco La Cecla

QUALE MISSIONE PER GLI ARCHITETTI? Se ne discute in questi giorni al congresso mondiale e se ne parlerà alla Biennale di Venezia. Intanto c’è chi chiede alla categoria di progettare edifici tenendo conto della vita delle persone

In questa disciplina
che è una questione
pubblica, si gioca
più che in altri spazi
la questione
della democrazia

Perché dobbiamo continuare ad accettare un ambiente costruito che una corporazione di professionisti preoccupati solo del proprio successo ci impongono come dato di fatto? È divertente che questi stessi professionisti di fronte ad una critica del loro monopolio scarichino le colpe sui politici, in una ideologia saporitamente post-sinistrese. Ma certo sono i politici ad avere la colpa di tutto! Peccato che qualcuno come Foucault, Illich o perfino Negri da anni ci abbia spiegato che il potere non esiste oggi senza la sua articolazione in monopoli professionali dei beni e dei servizi. Il cittadino oggi è non solo sottoposto a regimi polizieschi, ad una idea dello spazio pubblico come luogo del controllo da parte del grande fratello, ma lo spazio della città, è tutto complicemente costruito per assecondare questa tendenza. Architetti, Ingegneri, Pianificatori sono molto lesti a mettersi dalla parte del controllo e dello status quo. Gli spazi della città vengono ridotti a vetrinizzazione e boutique, la dignità dei mercati viene ridotta a shopping mall, e si usa la scusa della emergenza residenziale (emergenza discutibile, visto il patrimonio italiano di stanze vuote e di case dimesse) per lanciare una nuova ondata di periferie, di housing concepito come condanna del centro (o sua destinazione a funzioni da straricchi) decostruzione della città e delle sue occasioni. Gli architetti sono una chiave fondamentale di quello che sta accadendo nel mondo, proprio perché si nascondono dietro ad una facciata da artisti senza responsabilità. Invece essi hanno una influenza enorme nella costruzione del mondo urbano e rurale come si sta costituendo in questi anni, in Italia come in Cina, come in Africa o in India. Proprio perché il pensiero e la modellistica degli architetti ha influenza sul sistema di valori immobiliari e disciplinari. Oggi gli architetti superstar o no che siano sono direttamente in causa nella espropriazione dei cittadini del potere normale sullo spazio delle proprie vite. È inutile che si nascondano dietro cortine di velluto e si autorappresentino oggi come imbarazzate vestali costrette a lavorare per clienti rapaci. Un capovolgimento della loro professione, del loro ruolo è quantomai auspicabile, ma non è semplice come essi vorrebbero presentarlo. Gli architetti dovrebbero diventare un sindacato della felicità dei cittadini, o almeno dei professionisti che si battano per il benessere dei cittadini nel loro spazio di vita.
L’architettura è una questione squisitamente pubblica e quindi in essa si gioca più visibilmente che in altri spazi la questione della democrazia. Corporazioni professionali più attrezzate e reazionarie di quelle degli architetti, come ad esempio i medici, hanno però un cotè di ricerca che in qualche modo, anche se trasversale raggiunge e benefica la popolazione. Ma gli architetti? Queli strumenti hanno elaborato di ricerca negli ultimi vent’anni che hanno realmente contribuito a migliorare la vita quotidiana? Le case vengono costruite oggi peggio di cinquant’anni fa e la grande rivoluzione della bioedilizia sta arrivando a seguito della crisi energetica e non certo grazie alle spinte della corporazione architettonica. Gli strumenti di lettura, di analisi, di ascolto della città non si sono rinnovati negli ultimi trent’anni e oggi l’urbanistica è una disciplina arida che non racconta nulla della vita di cui vivono le città. Catastrofe urbana e catastrofe ambientale vanno di pari passo.
Oggi gli architetti e gli urbanisti sono talmente ignavi che non intervengono in una questione come quella dei campi nomadi e rom, come se non fossero stati loro ad inventare questa soluzione balzana per un paese balzano come l’Italia. Quello che è avvenuto alle professioni del progetto è in qualche modo scandaloso. È vero che come tutte le professioni queste sono soggette a fare i conti con la realtà, con i clienti, con il potere del denaro e del mercato, ma come tutte le professioni consentono spazi di dissenso, anti-corporazioni che rinnovino la disciplina e la riconducano ad un etica pubblica. In California si è costituita da qualche anno «Public Architecture» un sindacato degli architetti eticamente responsabili che ha chiesto a tutti gli studi di architettura del paese di fornire l’un percento del proprio lavoro gratis per progetti pubblici (sembra poco, ma invece è molto, visto che hanno risposto un migliaio di studi). Così sono sorti progetti di centri per handicappati, di case provvisorie e di «alberghi diurni» per lavoratori immigrati e saltuari. Oggi un appello al ritorno all’etica e alla deontologia per le professioni del progetto è lanciato non da pazzi surrealisti, ma dai maggiori critici e storici dell’architettura, da Joseph Rykwert, a Kenneth Frampoton, a Curtis. Solo in Italia gli architetti possono permettersi di pontificare, come se fossero dei politici frustrati, e di non rispondere del proprio lavoro. Fuksas continua a dare ricette al paese, ma non risponde sul disastro provocato a Porta Palazzo, Aldo Aymonino ignora il disastro provocato a danno delle chiese etiopi coperte in maniera vergognosa dalle sue tettoie «architettoniche» che ne hanno accelerato il degrado spendendo cifre vertiginose che avrebbero sfamato l’intera regione.
Non si tratta di fare il processo agli architetti, si tratta però di farli finalmente parlare dello specifico del loro lavoro di cui devono rispondere ai cittadini. Oggi non esiste da nessuna parte un lavoro sulla fortuna di certe opere architettoniche. Gli architetti si sbarazzano dell’opera alla consegna, e non ne sono più responsabili, mentre è allora che l’opera entra nella sua funzione pubblica. Cosa sono le case, le università, gli edifici pubblici, i musei di Gregotti, Purini, Gehry, Zaha Adid, Fuksas, Nouvel, e compagnia bella conosciuta e sconosciuta che sia dopo dieci, vent’anni? Come vivono i cittadini e gli abitanti negli edifici che si sono dovuti sorbire? È possibile che una questione così seria come l’ambiente costruito debba restare tutta nelle mani di questi gigioni delle forme, di questi irresponsabili cronici? O possiamo cominciare a svegliarci e a chiedere qualcosa di più per le nostre citta?


Corriere della Sera 2.7.08
Il Cavaliere sta vincendo L'obiettivo finale è piegare i magistrati
di Massimo Franco
Il sospetto è che al capo del governo non basti un Quirinale mediatore Il miracolo di equilibrio compiuto da Giorgio Napolitano forse non basterà. Il capo dello Stato è riuscito a mettere d'accordo quasi tutti, con una lettera calibratissima inviata ieri al Csm poco prima dell'inizio della seduta. Ma Silvio Berlusconi si prepara ad andare in tv domani sera per dire «pacatamente e serenamente» che «la giustizia è una vera emergenza». E, con parole quasi offensive, ha ridotto l'iniziativa del Quirinale ad un sì alle pressioni dei presidenti di Senato e Camera. Risultato: Napolitano ha dovuto precisare che si è mosso in autonomia; ed il fronte rimane apertissimo, perché la gaffe istituzionale rivela la strategia berlusconiana di marcare il confine fra potere politico e sistema giudiziario.Si tratta di segnali che fanno prevedere tensioni crescenti. Il presidente della Repubblica ha fatto molto per arginarle. Gli è arrivato il plauso del Pdl per avere «invitato il Csm a non esprimersi sulla costituzionalità delle leggi», riconosce il ministro della Giustizia, Angelo Alfano. Walter Veltroni ha avallato «le parole e lo spirito della sua lettera», nonostante l'imbarazzo del Pd. L'unico a masticare amaro è sembrato Antonio Di Pietro, convinto che Napolitano non dovrebbe firmare la legge con cui si sospendono alcuni processi. «Ma», concede, «rispetterò qualunque sua decisione».Sono parole un po' d'ufficio: anche perché fra Di Pietro e il Pd si è aperto il fronte della manifestazione dell'8 luglio, bollata da Veltroni come «un regalo al premier». La loro alleanza è visibilmente in crisi. Ma il vero contrasto, seppure larvato, si delinea fra palazzo Chigi e Quirinale. Le parole di Berlusconi sull'accoglimento da parte di Napolitano delle richieste fattegli lunedì da Renato Schifani e Gianfranco Fini, tendono a mostrare un capo dello Stato accerchiato.È come se le alte cariche parlamentari adesso si muovessero apertamente come portavoci della maggioranza. E nella sua conferenza stampa ad Acerra per l'emergenza dei rifiuti, Berlusconi ieri ha accreditato le pressioni sul capo dello Stato. Ci sarebbe stato una sorta di «avvertimento» sulle conseguenze di un parere di incostituzionalità da parte del Csm: sia sul decreto che sospende alcuni processi, compreso quello che vede imputato il premier; sia sulla norma che vieta la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche: l'argomento che Berlusconi vuole affrontare domani in tv.Per di più, il Cavaliere ipotizza un decreto da fare entrare in vigore subito: ipotesi che per il Pd è una provocazione, ma porta acqua al mulino di Di Pietro, secondo il quale il Cavaliere ha fretta perché conosce il contenuto di alcune telefonate. Così, il Csm accoglie quasi all'unanimità i suggerimenti di Napolitano; e in serata boccia il cosiddetto «blocca-processi» come «irrazionale», senza pronunciarsi sulla sua costituzionalità. Ma il conflitto lievita ugualmente. Il sospetto fondato è che Berlusconi non voglia chiuderlo: almeno fino a quando non riterrà di avere vinto la resa dei conti.
Corriere della Sera 2.7.08
L'imbarazzo del Pd E Veltroni ai suoi «Non ci voleva...»
Il partito «stretto» tra Di Pietro e Berlusconi Inquietudine per l'altolà alla magistratura del capo dello Stato. E cresce il malumore verso il leader dell'Idv
di Francesco Verderami
ROMA — «Non ci voleva», sussurra Walter Veltroni. E in quelle parole confidate con un filo di voce ad alcuni dirigenti del Pd nell'emiciclo di Montecitorio, si avverte un comprensibile senso di inquietudine. Perché il leader democratico sa che la sfida sulla giustizia con Silvio Berlusconi sarà d'ora in avanti ancor più dura. E non contemplerà il pari. «Non ci voleva », dice Veltroni commentando l'altolà del capo dello Stato al Csm, cui «in alcun modo spetta il vaglio di costituzionalità » delle leggi. Potrà sembrare un paradosso, ma non c'è contraddizione tra il concetto espresso riservatamente e il pubblico apprezzamento verso Giorgio Napolitano che farà poco dopo in Transatlantico, perché al capo dell'opposizione è chiara la differenza tra le regole del gioco e lo svolgimento della partita politica.Ma non c'è dubbio che ieri il Colle ha messo in difficoltà il Pd, ammonendo l'organo di autogoverno della magistratura. Il fatto è che il «cartellino giallo » è scattato per l'entrata a gamba tesa del Csm sulla norma blocca processi varata dal governo, che invece avrebbe rappresentato per i Democratici un fattore importante nello scontro con il centrodestra sul decreto. Se fosse passato il giudizio di «incostituzionalità» che era contenuto nella prima bozza del parere messa a punto dai togati, il Pd ne avrebbe tratto forza per contrastare il Cavaliere in Parlamento, si sarebbe conquistato uno spazio per uscire dalla letale morsa del dualismo tra il premier e Antonio Di Pietro. Avrebbe insomma avuto un ruolo.«E invece questa decisione ci inchioda», imprecava Beppe Fioroni con un collega di partito: «La verità è che, anche se Silvio Berlusconi approvasse il decreto con tre fiducie, al Paese non fregherebbe niente. La gente pensa solo a come arrivare a fine mese. Invece siamo costretti qui, appresso a Tonino... ». E appena scorge nelle vicinanze i giornalisti l'ex ministro per una volta ha uno scatto: «No, no. Lasciatemi in pace oggi che non è aria». Ed è evidente il motivo. Il Pd deve pararsi sui due fianchi: da una parte c'è l'ex pm di Mani pulite, dall'altra il «Caimano». Il primo continua a fomentare l'area giustizialista, tanto da ripetere che «Napolitano non deve controfirmare il decreto», e costringendo il capogruppo democratico Antonello Soro a prendere le difese del Quirinale. Il secondo si appresta a una «guerra totale» sulla giustizia, al punto da aver già aperto un nuovo fronte sul provvedimento delle intercettazioni che vorrebbe tramutare in decreto.Ecco perché «non ci voleva» la scelta di Napolitano. E dietro alcuni commenti di circostanza, nel Pd risalta l'imbarazzo. Lo si intravvede nell'espressione da prima Repubblica adottata da Pierluigi Castagnetti come espediente per non esprimersi: «La lettera del capo dello Stato non l'ho letta». Intanto nei capannelli c'è chi cita Carlo Azeglio Ciampi, quasi a evocare un'altra stagione al Quirinale. «Ciampi mi ricorda quando eravamo più giovani... », sorride a denti stretti il prodiano Giulio Santagata, che su Napolitano non proferisce verbo: «Un presidente della Repubblica non si commenta».Eppure non tutti nel Pd hanno il volto affranto, c'è chi — come Mimmo Lucà — invita i colleghi di partito al realismo: «Ma andiamo. Cosa poteva fare il Quirinale dopo quel che era successo nel Csm? Vogliamo dirle le cose come stanno? Ma se persino Nicola Mancino ha traballato...». E d'un fiato racconta un dettaglio non irrilevante: «Lo sapete che aveva minacciato di dimettersi».La rivelazione sul vicepresidente del Csm apre uno squarcio sulle difficoltà di una personalità legata al centrosinistra, ma anche sul livello di malessere che cova tra i democratici, per il silenzio a cui sono costretti nel gioco diabolico che vede nel Cavaliere e in Di Pietro gli indiscussi protagonisti. «E invece bisognerebbe avere il coraggio di romperlo lo schema », s'infervora Francesco Tempestini, ex capo della segreteria di Piero Fassino ai Ds: «Andrebbe detto che Berlusconi sbaglia ad agire così nel campo della giustizia, ma andrebbe anche rilevato ai magistrati di aver debordato con le inchieste su Berlusconi. È ora di rimettere le cose a posto, perché in questa sfida è in gioco anche qualcosa di più importante: le sorti del Paese a livello economico e sociale. Chiaro?». Tempestini nel Pd ha una sensibilità diversa dai «compagni » provenienti dalla scuola comunista. Lui ha un passato socialista. E si sente. Come si sente la tradizione democristiana nel ragionamento di Marco Follini: «Questo Paese ha metabolizzato tutto. Fascisti, comunisti, terroristi. L'unico argomento su cui si alzano le barricate è rimasto ormai la giustizia. Prima o poi le barricate vanno smantellate». È un sentire comune tra gli ex dc, lo stesso che la settimana scorsa portava Franco Marini a confidare la propria preoccupazione per l'andamento delle cose a Carlo Vizzini, presidente forzista della commissione Affari costituzionali del Senato. Ma da ieri il Pd è se possibile ancor più costretto sulla difensiva dal duo Berlusconi-Di Pietro. «E pensare — sorrideva amaro Enzo Carra, altro pd ex dc — che abbiamo scaricato Clemente Mastella perché faceva casino almeno una volta al giorno per avere visibilità... E ora ci tocca sopportare un questurino. E pure in silenzio».

Corriere della Sera 2.7.08
Dissensi nel Partito Democratico
Obama insegue il voto degli evangelici E promette ai gruppi religiosi più soldi di Bush
WASHINGTON — Dov'è finito «il senatore più liberal del Congresso»?Sono passati pochi mesi da quando il National Journal bollò in questo modo Barack Obama. Ma il senatore dell'Illinois, diventato nel frattempo il candidato democratico alla Casa Bianca, ha ormai mutato strategia. Ieri, in una visita in Ohio (il terzo «swinging State», «Stato in bilico», per importanza dopo Florida e Pennsylvania), Obama ha apertamente corteggiato l'elettorato evangelico, tra i principali responsabili della vittorie di Bush, ma freddo nei confronti del candidato repubblicano McCain. Riconoscendo l'incapacità dello Stato nel far fronte, da solo, a «sfide quali la povertà e la tutela dell'ambiente», Obama ha annunciato di voler aumentare gli aiuti federali ai gruppi di beneficenza religiosi.Proprio gli aiuti che furono decisi dalla prima amministrazione Bush, e che furono definiti «problematici», nel 2005, dalla maggioranza degli americani e «lesivi della separazione tra Chiesa e Stato» da molti analisti.«I beneficiari non potranno fare discriminazioni su basi religiose», s'è però difeso Obama (mentre un membro del suo staff, sotto anonimato e poi smentito, assicurava che ai gruppi rimarrà il diritto di assumere o licenziare in base alla religione). Con la mossa di ieri, Obama attacca su tre fronti. Toglie a McCain l'illusione di avere temi, elettori, Stati «sicuri». Vuole convincere gli evangelici moderati, che non lo condannano per la sua difesa del diritto ad abortire. E punta a sventare, forse per sempre, la minaccia nascosta nella definizione al veleno del National Journal.
Corriere della Sera 2.7.08
Il regista . Olmi: «Copiamo le riserve-modello degli indiani»
di Roberto Rizzo
MILANO — Ermanno Olmi, 77 anni il 24 luglio, il regista ( L'albero degli zoccoli, Il mestiere delle armi, I centochiodi, ecc.) che a settembre, alla Mostra del Cinema di Venezia, riceverà il Leone d'oro alla carriera (glielo consegnerà Adriano Celentano), dice che «tutto questo mi mette una profonda inquietudine ».«Tutto questo» è la questione rom e la proposta del ministro Maroni di schedare, attraverso le impronte digitali, i bambini nomadi. Olmi, uomo di dichiarata fede cattolica e regista, come dicono i critici, sempre attento al mondo degli umili, domanda: «Mi piacerebbe sapere dal ministro Maroni se quei ragazzi che vanno in giro a dare la caccia ai rom, che incendiano i loro accampamenti, come è successo a Napoli, sono stati individuati e schedati».Non se ne ha notizia. «Ecco, se non è stato fatto, iniziamo da loro. E proseguiamo con tutti quei ragazzi italiani che disturbano la quiete, che imbrattano i muri delle città, che consumano droga e che sono protagonisti di comportamenti violenti. Chi è favorevole alla schedatura dei bambini rom, convinto che così si impedirebbe loro di andare a rubare, dovrebbe essere d'accordo con la mia proposta. Schediamo tutti i giovani italiani, dalla scuola materna all'università, per evitare che tengano comportamenti contro la legge».L'ha proposto anche un altro ministro leghista, Calderoli: schediamo tutti gli italiani. Ma la sua è stata una provocazione. «La mia non lo è, lo dico sul serio. Calderoli ha ragione. Schedandoci tutti eviteremmo ai quei bambini lo choc della discriminazione, di sentirsi subito dei sospettati. Anzi, aggiungo che noi genitori italiani siamo più colpevoli dei genitori rom. Loro crescono i figli nella miseria e nell'indigenza, noi no. Eppure anche i nostri figli delinquono».Schediamo tutti? «Mi domando se viviamo in una società che vuole essere civile oppure che ha perso il senso della civiltà, che significa saper convivere nel rispetto di tutti».Chi vuole prendere le impronte digitali dice che sono i rom i primi a non voler convivere nel rispetto degli altri. L'operazione condotta a Verona con il fermo di una banda rom che obbligava i bambini a compiere furti conferma questa tesi. «Che tra quella gente, che tra i loro bimbi ci sia una buona percentuale con propensioni ladresche è una realtà sotto gli occhi di tutti. Ma anche tra i giovani non rom c'è una forte propensione a non rispettare la legge. Mettiamo che le dichiarazioni del ministro Maroni abbiano un valore, di cui dubito, non posso che essere totalmente contrario. In passato la comunità intellettuale ha giustificato azioni che ricordano quella proposta da questo governo. È successo con gli ebrei, anche loro erano considerati pericolosi, dei nemici».Sul tema sicurezza percepita dai cittadini il governo, Lega in particolare, ha raccolto parecchi voti. L'opinione pubblica sente come reale il problema rom. «Una volta le zingare leggevano la mano, poi sono state sostituite dai maghi in televisione. Gli uomini facevano ballare gli orsi nelle fiere e nei circhi, ma gli animalisti l'hanno impedito. Altri vivevano di piccolo artigianato, anche quello spazzato via dalle nuove dinamiche dell'economia. Alla fine uno deve sopravvivere, anche attraverso il furto».Campi rom. A Venezia, il sindaco Cacciari ne farà costruire uno nuovo e più accogliente. Altrove si fanno intervenire le ruspe per spazzare via tutto perché i campi impediscono l'integrazione e favoriscono l'illegalità. Secondo lei? «Campo è un brutto termine, mi piacerebbe parlare di riserve perché si dovrebbe fare come nelle riserve indiane. In ogni città, dare dei territori ai rom dove poter vivere secondo le loro tradizioni ma responsabilizzando i capi. Renderli responsabili del comportamento di tutti».❜❜ Territori ai rom Garantiamo ai rom territori nelle città, ma i loro capi siano responsabilizzati Maestro Il regista Ermanno Olmi
Corriere della Sera 2.7.08
L'Olanda vieta il fumo ma non la marijuana
di Marika Viano
AMSTERDAM — Da ieri in Olanda non si può più fumare in hotel, ristoranti, bar, discoteche e coffeeshop, locali in cui si vendono e si possono invece consumare droghe leggere. Ma neanche in musei, teatri, cinema, sale concerti e altre istituzioni culturali, come pure nelle strutture sportive, nei centri commerciali, negli aeroporti. Il motivo: il fumo fa male e anche chi lavora a contatto con il pubblico ha diritto a un ambiente libero dal fumo. Ma non tutti sono entusiasti: 437 proprietari di piccoli caffè hanno intentato ieri una causa per direttissima contro lo Stato. Vogliono una proroga di almeno un anno, perché temono che le loro entrate diminuiscano drasticamente. Il giudice deciderà la prossima settimana. Il divieto vale per il fumo e non per l'hashish e la marijuana puri, così i proprietari di coffeeshop hanno deciso di mettere a disposizione dei propri clienti narghilè e altri strumenti per fumare le droghe leggere senza aggiunta di tabacco. Se un proprietario non rispetta il divieto, la prima volta riceve un richiamo, poi una multa di 300 euro.
Corriere della Sera 2.7.08
prostituzione, schiavismo, cannibalismo
Pirati, armi improprie dei potenti
Altro che rivoluzionari: erano assassini crudeli. La fine del mito salgariano di VALERIO EVANGELISTI
Philip Gosse riesce in un'operazione apparentemente impossibile: condensare in un numero limitato di capitoli un tema ampio che abbraccia diversi secoli e differenti quadranti del mondo, come la storia della pirateria. Lo fa con onestà, capacità di sintesi e chiarezza narrativa. Soprattutto, evita le seduzioni a cui si è prestata di recente certa saggistica, di matrice soprattutto libertaria, che ha scorto nelle «repubbliche dei pirati» (secondo la definizione di Hakim Bey, Le repubbliche dei pirati, Shake 2008) il regno dell'utopia, o addirittura della rivoluzione sessuale. Pure sciocchezze, visto che dai Fratelli della Costa fino a Jean Lafitte e oltre, per non parlare di tempi più remoti, i fuorilegge del mare hanno sempre unito, alle attività consuete di rapina, quella altrettanto fruttuosa di mercanti di schiavi.Quanto alla libera sessualità, coincideva con quella dei bordelli. Le donne pirata, di cui tanto si è favoleggiato, furono in Occidente due sole, Anne Bonnie e Mary Read, trascinate in quella vita dai loro uomini e accettate perché si fingevano maschi (non dovevano essere tanto belle). E nemmeno è vero che tra pirati si praticasse liberamente l'omosessualità, come ha sostenuto B. R. Burg in uno studio pochissimo documentato ( Pirati e sodomia, Eleuthera 1994). La sessualità era libera con le prostitute, le schiave, le indigene caraibiche vendute dai loro mariti. Donne acquistabili, dunque. Si manifestava in forma di violenza carnale nelle città che i pirati riuscivano a conquistare, fossero barbareschi oppure filibustieri del Nuovo Mondo. Quanto alle pratiche omosessuali, erano quelle comuni alla vita di bordo, sotto tutte le latitudini. Ne facevano le spese soprattutto i mozzi, cioè ragazzini e adolescenti provenienti dai brefotrofi e imbarcati a forza. I filibustieri erano a volte omosessuali al largo, eterosessuali a terra.Eppure la leggenda di una pirateria «liberatrice» ha preso piede, sull'onda di film di successo e dei vecchi romanzi salgariani. Va comunque detto che la composizione della Filibusta vi si prestava. Canaglie di tutto il mondo, certamente. La definizione di Marcus Rediker, autore del libro omonimo (Eleuthera 2007), è di sicuro appropriata. Rematori evasi dalle galere, eretici perseguitati, ex detenuti, disertori, contrabbandieri, fanatici e delinquenti. Un'umanità turbolenta, stretta da un solo ideale: arricchirsi in fretta, sperperare in fretta, e poi morire in fretta.Philip Gosse evita le secche dell'idealizzazione a oltranza e, con rapidi cenni, riconduce il fenomeno piratesco alla sfera che gli compete: il banditismo. Al tempo stesso, non cade nell'anglocentrismo proprio di tanti autori inglesi e americani. Costoro hanno definito i primi decenni del '700 come l'«età d'oro della pirateria» soprattutto in virtù di un volume, firmato Capitano Johnson e da taluni attribuito a Daniel Defoe ( Storia generale dei pirati, edizioni Cavallo di ferro 2006), ricco di documentazione sulle gesta degli ultimi filibustieri inglesi della Giamaica. In realtà, se di «età d'oro» si vuole parlare, ci si dovrebbe riferire alla seconda metà del secolo precedente (come ha dimostrato Cruz Apestegui, in Piratas en el Caribe, edizioni Lunwerg 2000). Fu allora che i ladrones del mar del Nordamerica smisero di limitarsi a depredare i galeoni spagnoli di passaggio, e cominciarono a prendere d'assalto le più ricche colonie costiere, travolgendone le difese.Fu l'epoca dell'Olonese, di Henry Morgan, di Roc il Brasiliano, di Laurens de Graaf. Forti, anzi fortissimi, perché incoraggiati dal Re Sole, in guerra con la Spagna. Nel XVII secolo venne meno, di fatto, la distinzione mai troppo chiarita tra pirata e corsaro. Se il secondo, all'epoca di sir Francis Drake, aveva goduto di una «patente di corsa» che quasi lo aggregava alla marina militare del suo Paese, i pirati, lungi dall'essere «liberi professionisti» della rapina in mare, quasi sempre godevano di una lettera d'incarico del governatore francese dell'isola di Tortuga o di quello inglese della Giamaica. A loro consegnavano, solitamente, il dieci per cento di quanto predato.In definitiva, i pirati furono spesso strumento di guerre politiche combattute a distanza e con mezzi non convenzionali, e i loro momenti di declino coincisero con le fasi in cui le potenze committenti ritenevano di non avere più bisogno dei loro servigi. Il declino definitivo e irreversibile si ebbe poi agli albori del XX secolo, quando le navi, meglio difese, diventarono una preda troppo difficile per essere redditizia. Ciò non impedì che episodi di guerra da corsa si avessero anche durante il secondo conflitto mondiale, sia attorno all'Europa che in Asia, con comandanti di navigli militari o di sommergibili autorizzati dai comandi a navigare liberamente e ad affondare e depredare qualsiasi imbarcazione nemica incontrassero. L'introduzione del radar mise fine anche a questa estrema appendice, poco romantica, della pirateria.Rimasero sul mare, invece, i contrabbandieri. A essa si può ascrivere la pirateria ancora esistente, che ha visto nel 2007 centinaia di assalti a yacht, cargo e persino petroliere, a opera di gang organizzate dedite principalmente al contrabbando e attive sulle coste africane, cinesi, malesi oppure, ancora una volta, nei Caraibi. Sconcerta, in questo revival piratesco, l'estrema ferocia dei protagonisti, armati adesso di AK 47 e degli strumenti della moderna tecnologia.I pirati del passato non erano meno crudeli degli attuali, e forse lo erano di più. L'Olonese che fa tagliare mani e piedi agli spagnoli catturati e, in un caso, divora il cuore di uno di essi sotto gli occhi dei compagni; Roc il Brasiliano che fa arrostire alcuni prigionieri e obbliga gli altri a nutrirsi dei loro corpi; Montauban che si diverte a sfilare le budella dal ventre di nemici ancora vivi. Non sono precisamente gesta da eroi libertari, né da Che Guevara in pectore; anche perché il fine, ossessivo, di tanta ferocia è uno solo: la sete di denaro.© Valerio Evangelisti 2008 Leggende Si è favoleggiato delle donne filibustiere, in Occidente furono due: Anne Bonnie e Mary Read La cattura del pirata Barbanera, eroe dei Caraibi, in un dipinto di J.L.G. Ferris del 1718 (foto Bettmann / Corbis)
Corriere della Sera 2.7.08
Tre saggi di Giorgio Cosmacini sulla professione che non ha sempre avuto basi scientifiche
Il medico saltimbanco e l'illusione tecnologica
Giorgio Cosmacini, medico e storico, ha scritto: «La medicina non è una scienza», «Il medico saltimbanco» e «L'anello di Asclepio» Armando Torno
Giorgio Cosmacini con il suo ultimo saggio delinea una storia delle radici della medicina. Si chiamano fisica, chimica, biologia, ecologia ed anche economia. È una non-scienza, forse una filosofia, che dà lustro alle altre scienze; è anche l'unica capace di curare la macchina umana. Se un signore dell'osservazione come Buffon poteva scrivere nella sua Storia naturale «Nella testa di un naturalista, una mosca non deve occupare più posto di quanto ne occupi in natura», per la medicina non vale la medesima regola. Anzi, dopo Pasteur sa che i germi sono più pericolosi di elefanti e balene.Il libro di Cosmacini, intitolato La medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base (Cortina, pp. 134, e 14), esce in un momento propizio: diventa una lettura di grande interesse quando tale disciplina fa più notizia per gli scandali di cronaca che per le scoperte e le vittorie sulle malattie. Proprio nelle nuove pagine di Cosmacini si intuisce il perché. Per dirla semplicemente, egli ricostruisce il patrimonio scientifico di cui la medicina oggi dispone e ne illustra lo status; allo stesso tempo presenta le coordinate contemporanee di questa scienza che muta senza requie le sue etiche e la sua stessa immagine. Basta che il medico si stacchi dall'uomo che deve curare, trasformandosi in manager o in «clinico molecolare» o in tecnico degli aspetti economici delle terapie, per rompere l'incanto di Ippocrate. Il quale si potrebbe riassumere in una frase dell'antico giuramento: «In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l'altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi».È poi uscito un secondo saggio di Cosmacini che illustra anche le possibili radici irrazionali di tale scienza: Il medico saltimbanco (Laterza, pp. 166, e 16). Ovvero vita e avventure di Buonafede Vitali, personaggio citato da Goldoni, che agli inizi del Settecento batte le piazze — facendo ogni cosa, teatro compreso — con preparati a buon mercato che, tuttavia, rendono per la prima volta accessibili a tutti le cure.In margine aggiungiamo che lo storico Cosmacini mai si dimentica di scrutare nelle vite sia dei grandi che dei semplici, mettendo infine la sua a disposizione del lettore. Lo fa forse perché meglio si comprendano le sue radici di medico e studioso, non nascondendo le delusioni e trasformando le gioie in ricordi. Segno, direbbero i moralisti romantici, di una vita spesa al servizio di un ideale. Per tal motivo si può completare la lettura delle sue riflessioni con un terzo libro: L'anello di Asclepio (Viennepierre edizioni, pp. 158, e 22). In esso egli parla delle cose prime e ultime: il primo ricordo di vita, il primo sentore di guerra, il primo giorno d'ambulatorio; l'ultimo giorno d'ospedale, l'ultimo elzeviro ma anche l'ultimatum alla medicina tecnocratica. Non occorrono chiose per queste pagine delicate, dense di ricordi e capaci di guardare con serenità al futuro. Rappresentano la parte conclusiva di un affresco autobiografico che copre «l'età dell'oro», gli anni dal 1997 al 2007

Repubblica 2.7.08
Edmond Husserl
La crisi delle scuienze e i conflitti del pensiero
A settant´anni dalla morte del filosofo
di Antonio Gnoli e Franco Volpi

Per il nazismo era stato uno dei tanti professori ebrei da mettere a tacere: era stato privato della cattedra, isolato, compatito e per di più il suo allievo Martin Heidegger lo aveva tradito
Aveva studiato psicologia con Brentano e matematica con Bernard Bolzano
Le parole ricorrenti in quegli anni erano declino, crisi, tramonto

Quando nel 1938 il filosofo Edmund Husserl morì aveva settantanove anni. Per il nazismo, allora in pieno rigoglio ideologico, Husserl era stato uno dei tanti professori ebrei da mettere a tacere. Gli avevano tolto l´insegnamento, lo avevano isolato, insultato, compatito. Gli avevano perfino vietato l´accesso alla biblioteca dell´Università. E Husserl, ancora in vita, si sentiva un uomo sgomento, disorientato, tradito. Il suo più promettente allievo, quel Martin Heidegger sul quale aveva riposto le più accese speranze, non solo aveva imboccato filosoficamente un´altra strada, ma si era mescolato con la marmaglia nazista, ne aveva caldeggiato lo spirito, appoggiato con entusiasmo i destini, condiviso, fino a un certo punto, la storia. Inaudito. Agli occhi di Husserl quella improvvisa virata era peggio di un colpo di pistola alla tempia. Era tutto quello che non si sarebbe aspettato da quel talento selvaggio che lo aveva già deluso, irritato, amareggiato con Essere e Tempo. Già perché il giovane Martin nel 1927 pubblicò nello Jahrbuch husserliano l´opera con la quale riduceva alla consistenza del semolino la fenomenologia del venerato maestro.
Eppure, nel più perfetto stile gesuitico, Heidegger aveva dedicato Essere e Tempo ad Husserl. Ma più che un omaggio al grande filosofo quella dedica sembrava uno scherzo. Il maestro lesse le complicate pagine dell´allievo e le trovò scandalosamente intrise di tutto ciò che fino a quel momento aveva osteggiato. Come era potuto accadere una cosa del genere? La psicologia di Heidegger somigliava a quella di un sottomarino. Era composta di movimenti invisibili e silenziosi. L´impatto o l´emersione improvvisa avevano sempre qualcosa di sorprendente. Se Husserl era la montagna, Heidegger fu di volta in volta lo scalatore, lo sciatore, il picconatore. Era colui che usava la montagna e, potendo, ne rivendicava perfino il dominio. Otto anni dopo la comparsa di Essere e tempo, Husserl, uomo incline alla depressione e alla malinconia, fu invitato a tenere delle conferenze a Vienna e a Praga. Era il 1935. Fuori dalla Germania il suo nome era ancora venerato. Le sue Ricerche logiche, le sue Meditazioni cartesiane si erano imposte come esempi di rigore filosofico. Anche se non tutti si mostravano convinti che il metodo della riduzione fenomenologica fosse la strada giusta.
Il maestro aveva immaginato che la filosofia avrebbe potuto ambire alla scienza vera solo imbrigliando tutto quello che il caotico mondo della vita produceva: le idee spesso contraddittorie, i valori contrastanti, i programmi confliggenti. Agli occhi di Husserl l´uomo - un´entità finita e mortale - era un impasto di contraddizioni, di velleità di passioni che poco o nulla avevano a che fare con l´idea di filosofia. Che fare, dunque? Egli propose di sospendere quel mondo, di metterlo tra parentesi. Più o meno ragionò così: facciamo finta che quella roba che accade sulla terra non sia mai accaduta, facciamo finta che tutto l´opinabile e il cangiante non esista e allora si comincerà a vedere la potenza dell´Io trascendentale. Ma si poteva sospendere il mondo della vita, compreso tutto quello che nel vecchio continente stava accadendo? Si poteva non tener conto dei terribili venti che si preparavano a soffiare? Circolava una brutta aria in giro per l´Europa. Le parole più ricorrenti erano: declino, crisi, tramonto. Paura e illibertà minacciavano i popoli. Oswald Spengler - ormai celebre più di un attore del cinema muto - aveva dato alle stampe tra il 1918 e il 1922 Tramonto dell´Occidente, che generò una copiosa letteratura sulla crisi spirituale e materiale del vecchio continente.
Anche Husserl, il padre della fenomenologia, così assorto fino ad allora nelle sue microanalisi, incominciò a riflettere su ciò che stava accadendo. Il tema sarebbe stato al centro della sua ultima grande opera, rimasta incompiuta: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Il primo abbozzo fu presentato in una serie di conferenze tenute nell´aprile e nel novembre del 1935 a Vienna e a Praga. Il testo pronunciato fu pubblicato l´anno successivo a Belgrado nella rivista Philosophia, ma solo nel 1954 si riuscì - grazie anche alle carte trafugate e salvate dalla Friburgo nazista da padre Leo Van Breda e messe al sicuro nell´archivio di Lovanio - a ricavare un´edizione esaustiva di quell´opera. Solo allora ci si rese conto che al vecchio Husserl era riuscito finalmente di rispondere in modo adeguato ad Essere e Tempo. Quel testo lo aveva tormentato, indignato, infastidito. E lui, il maestro, era pur sempre la montagna che sovrastava l´allievo. La crisi delle scienze europee (di cui oggi esce una ristampa dal Saggiatore, pagg. 560, euro 15) impressionò i lettori e diede avvio a un grande revival della fenomenologia, che arrivò anche in Italia (tramite Enzo Paci), mescolandosi al marxismo e all´esistenzialismo.
Husserl partiva da un´evidenza incontestabile: la scienza moderna ha raggiunto i suoi straordinari successi al prezzo di una perdita del suo significato per la vita. La sua razionalità ci ha messo in grado di esercitare un dominio vasto sulla terra, ma nulla ci dice sul senso di questo dominio, sulle sue conseguenze. E alla fine ci abbandona a noi stessi proprio in ciò che è decisivo per la nostra esistenza e il suo successo: le scelte di vita e i fini ultimi. Il moderno ideale dell´oggettività scientifica si raggiunse così al prezzo di ridurre alla sola teoria l´antico ideale della conoscenza, abbandonando la prassi alla volontà di potenza.
Per tutta la vita Husserl aveva cercato di combattere il relativismo, di cui le verità scientifiche, erano a loro modo un´emanazione. Non si sentiva un dilettante, uno sprovveduto che si improvvisava critico della scienza. Oltre ad aver studiato psicologia con Brentano si era inoltrato - grazie al filosofo e matematico Bernard Bolzano - per i sentieri rarefatti della matematica. Il suo primo libro del 1891 - che Frege stroncò - era Filosofia dell´aritmetica, cui sarebbero seguite un decennio dopo le Ricerche logiche. Era un uomo affascinato dalla purezza intellettuale. Nulla doveva interporsi tra l´esame della ragione e l´essenzialità del mondo. Ma come provare a rifondare la filosofia come sapere universale, visti i fallimenti, le delusioni gli equivoci che il pensiero filosofico aveva in massima parte fin lì prodotto?
Husserl immaginò che la sola strada percorribile fosse quella di "andare alle cose stesse": zu den Sachen selbst! aveva dichiarato agli inizi del suo programma fenomenologico. Ma che cosa significava questo muoversi verso le cose? Quali cose, quali oggetti, quali enti meritavano uno sguardo libero dal condizionamento scientista e dall´agguato relativista? Husserl pensò che alla filosofia occorresse una "fondazione originaria". Tanto più la sua forza sarebbe stata persuasiva quanto meno si fosse allontanata da quel fondamento che ogni pensiero che si ritenesse tale aspirava a realizzare. In molti avevano provato e in molti avevano fallito. Ma era lì, sulla soglia di quella porta stretta, tra il mondo della vita e il puro pensiero, che si giocava la partita e se voleva vincerla doveva evitare gli errori commessi dai suoi predecessori. Doveva evitare, per esempio, di lasciarsi incantare da un principio unico, un motore da cui tutto nasce e tutto si muove.
Nella Crisi delle scienze europee Husserl considerò il moderno sistema delle scienze come il frutto di una serie di "fondazioni originarie", tra le quali fu decisiva quella rappresentata dalla matematizzazione della fisica iniziata da Galilei. Secondo Husserl si riprendeva così l´antico ideale greco di una scienza razionale dell´essere nella sua totalità, ma esso fu realizzato solo in misura parziale e unilaterale, perché la scienza moderna rimase prigioniera dell´oggettivismo e del naturalismo. E ciò ha finito per favorire la genesi opposta e contraria del soggettivismo e relativismo, producendo un conflitto irrisolvibile, che ha precipitato la filosofia come scienza in una crisi abissale.
La reazione alla scienza e alle sue conseguenze sull´uomo non era certo una novità tra i filosofi. Ma Husserl posizionò la sua critica sul crinale della perdita del senso. Vide nella scienza moderna - nelle sue oggettivazioni e astratte idealità - un superamento del senso comune. Quel superamento alla fine era una più perdita che un arricchimento. Ai suoi occhi la scienza moderna produceva alla fine l´idea di un mondo in sé che, in quanto abitato da forme oggettive, si contrapponeva come mondo vero al mondo soggettivo dell´esperienza comune. Il sapere scientifico finiva così per contrapporsi al mondo dell´esperienza che sta alla base del vivere umano e che è detto «mondo della vita».
Husserl tematizzò il «mondo della vita» (Lebenswelt) in modo esplicito. Interpretò quel concetto anzitutto come il mondo della doxa, ossia quel territorio ovvio e familiare basato su opinioni e convinzioni soggettive, antitetico alle oggettivazioni e alle idealizzazioni del sapere scientifico. Ma quel mondo era qualcosa di più di un coacervo di opinioni se indagato come esperienza originaria. Perciò liberandosi da quel mondo la scienza si impoverì, essa perse il suo significato per la vita, produsse appunto quella che Husserl considerò la «crisi delle scienze europee».
Come uscire dalle devastazioni che la modernità aveva scatenato? Husserl - di cui ricorrono i 70 anni dalla morte - considerò imprescindibile dalla propria filosofia il mondo della vita quale orizzonte universale. Da lì occorreva ripartire per recuperare l´antico ideale - che era stato proprio della filosofia greca - di un sapere razionale in base al quale sarebbe stato possibile orientare la vita individuale, sociale, e politica dell´uomo secondo il principio di una autodeterminazione libera e razionale.
Vasto programma. Sul quale Heidegger ironizzò in più di una occasione. Del resto non erano più fatti per intendersi. L´allievo non andò neppure al funerale del maestro, con la scusa di un malanno che lo aveva trattenuto a letto. E poi tolse la dedica su Essere a tempo. Restava un vago rispetto, una memoria fragile ed equivoca di quegli anni in cui la fenomenologia era la speranza disattesa che il muro tra interiorità ed esteriorità potesse di un tratto crollare.