venerdì 4 luglio 2008

l'Unità 4.7.08
«Alla Diaz la vendetta dei Poliziotti»
«Diaz, dai poliziotti un muro d’omertà»
Processo agli agenti, i pm: la vicenda della pattuglia «assalita» a sassate fu un pretesto per il blitz
di Maria Zegarelli


Omertà. Come nei processi contro i mafiosi. O per violenza sessuale. Così è andata anche con le indagini sul massacro alla scuola Diaz durante il G8 di Genova nel 2001. Omertosi gli agenti, i dirigenti della polizia,chiunque sapeva e ha omesso di dire. Il pubblico ministero Enrico Zucca apre la requisitoria contro i 29 poliziotti coinvolti nei fatti. Parole pesanti come pietre: l'irruzione alla scuola Diaz fu decisa perché la Polizia voleva riscattare la sua immagine, offuscata dai giorni del G8 e dall'omicidio di Carlo Giuliani. Il quadro probatorio, oggi, dice il pm, è più chiaro che durante l’istruttoria.

L'ASSALTO alla pattuglia della polizia davanti alla scuola, la presunta sassaiola che ha dato il via all'irruzione che sfociò nell'arresto di 93 manifestanti e nella «macelleria messicana», non ci fu. «La sera del 21 luglio in via Cesare Battisti e nelle vie limitrofe della scuola non vigeva neppure il codice penale».
Insiste il pm, pubblica accusa insieme a Francesco Albini Cardona, quel lancio di oggetti fu un episodio minore. «Si evince dalle tante testimonianze di tante persone diverse. Su un punto tutte concordano: nessuno bloccò le auto delle forze dell'ordine,nessuno lanciò sassi. Forse una bottiglia». Nell'aula bunker del Tribunale di Genova si riapre una delle pagine più inquietanti della storia della Seconda Repubblica, esordio al governo di Silvio Berlusconi.
Giorni di guerriglia e pestaggi, di polizia cilena e troppi responsabili mai identificati. 29 tra poliziotti e funzionari con accuse che vanno dal porto di armi da guerra al pestaggio al falso ideologico, alle lesioni, circondati dall'omertà. Omertà che ha impedito, come ha sostenuto il vicequestore aggiunto di Genova, Salvemini, di risalire ai componenti della pattuglia che quella sera del 21 luglio passò sotto la scuola, dove erano alloggiati i ragazzi del Genoa Social Forum.
Nessun imputato presente in aula. Nel lungo elenco nomi eccellenti: Spartaco Mortola, all'epoca capo della Digos genovese, Francesco Gratteri e Giovanni Lunari, rispettivamente direttore dello Sco e vicedirettore dell'Ucigos; Gilberto Caldarozzi, vicedirettore dello Sco e Vincenzo Canterini, comandante del VII Nucleo sperimentale del I reparto della Squadra mobile di Roma. Assenti in aula anche Pietro Troiani, vice questore e l'autista Michele Burgio. È grazie a quello che - secondo l'accusa - fecero quella sera i due poliziotti se questo processo non si fermerà per effetto del decreto blocca processi.
Quella sera Troiani e Burgio - dice il pm - entrarono nella scuola con due molotov, per creare «una falsa prova» contro i manifestanti, le «zecche», come vennero definiti durante i colloqui tra gli agenti in strada e quelli della centrale operativa quella notte. Troiani e Bugio sono accusati di porto d'arma da guerra. Un reato grave, che non rientra tra quelli previsti nell'emendamento al decreto sicurezza. Un reato salva-processo. Ironia della sorte.
In aula ci sono Heidi Giuliani, madre di Carlo, e Mark Covell, reporter inglese massacrato di botte dalla polizia. Il magistrato descrive la scena di un uomo a terra, inerme, tanti agenti che picchiano a sangue. Fino a quando arriva il poliziotto «buono» che interviene e salva la vita al reporter.
«I processi alla polizia sono sempre difficili, perché c'è il timore di mettere in discussione le istituzioni», ma questa vicenda - dice Zucca - si può accostare ai processi per violenza sessuale e a quelli contro la criminalità organizzata. Ai primi perché la tentazione è quella di colpevolizzare la vittima, ai secondi perché «è difficile indagare a causa di comportamenti di omertà». «Riteniamo - dice - di aver usato prudenza nelle indagini, ma ora chiediamo alla giustizia rigore».
Fu il prefetto Ansoino Andreassi a rivelare che fu deciso dall'alto di dare un segnale. Arrestare i responsabili dei disordini, riabilitare l'immagine andata in pezzi con i disordini in città e l'omicidio di Giuliani. Durante le quattro ore di udienza il pm ripercorre con dovizia di particolari quanto avvenne quando passarono le pattuglie della polizia sotto la scuola. Dagli elementi probatori non si può che dedurre «il sostanziale ridimensionamento di quell'episodio».
La perquisizione nasce ufficialmente con l'obiettivo di colpire i responsabili della sassaiola. Mortola nella sua relazione racconta di aver trovato un gruppo di persone vestite di nero che bevevano birra. «Suggestivo l'accoppiamento birra-bottiglia-lancio». Il dirigente era convinto - malgrado nel corso di una telefonata Kovac, responsabile del dormitorio, avesse garantito che lì c'erano solo i ragazzi del Gsf - che la Diaz ospitasse i sovversivi.
La difesa mostra segni di impazienza. Che c'entra, tutto questo con i capi d'accusa? È di fondamentale importanza per il pm quell'episodio. Da lì parte tutto. Due pattuglioni distinti che si incontrano davanti ai cancelli della scuola. Buio, urla, ragazzi spaventati che fuggono. Il massacro. Da oggi si ricomincia da lì. Si entra nella Diaz, la «macelleria messicana». Per arrivare a Bolzaneto. Alle torture. Reato non previsto dal codice.

l'Unità 4.7.08
Il reporter pestato: «Berlusconi e Fini responsabili»

MARK COVELLIl giornalista di Indymedia Uk e collaboratore della Bbc, c’è un processo per tentato omicidio ai suoi danni: assurdo, voglio la verità

Calci, manganellate,un polmone perforato,denti rotti. Un litro e mezzo di sangue trasfuso. Arrestato con l'accusa di essere un black block. «You are black block, we kill black block». Noi uccidiamo i black block. Questo urlavano gli agenti mentre in gruppo picchiavano senza pietà Mark Covell, ormai a terra. Mark era un reporter di Indymedia Uk, un network, collaboratore della Bbc, inviato a Genova per seguire il G8 del 2001. Non stava scappando,quando arrivò la polizia: stava cercando di raggiungere il terzo piano della scuola degli orrori, dove era stato sistemato il «New dispatch», la sua postazione di lavoro. Agitava la sua tessera di giornalista, l'accredito stampa. Niente da fare. Quelli picchiavano a sangue. Da allora sono passati sette anni. Da allora chiede giustizia. C'è un processo per tentato omicidio ai suoi danni, ma è contro ignoti perché finora nessuno è riuscito a identificare i responsabili di quel pestaggio. «Considero responsabili il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e quello della Camera Gianfranco Fini, allora ministro in carica, per il mancato accertamento della realtà», dice con la voce rotta dall'emozione. Nel processo in corso contro i 29 poliziotti si è costituito parte civile, perché ingiustamente arrestato. «Human football», così sentì quella notte. «Un pallone umano» a cui ognuno a turno tirava un calcio. Le forze dell'ordine chiamarono l'ambulanza dopo 40 minuti dal pestaggio. Un carabiniere quando arrivò lo scambiò per un «fantoccio». Oggi è di nuovo a Genova, per il processo.
Covell, oggi il pm ha ricostruito i passaggi di quella sera e il pestaggio di cui sei stato vittima. Cosa hai provato?
«Una grande emozione, molta sofferenza, ma nello stesso tempo mi sento sollevato perché in un'aula di giustizia si racconta quella terribile storia. Ancora oggi non ci sono responsabili, si procede contro ignoti. Di questo considero responsabili il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi e quello della Camera Gianfranco Fini».
Cosa ti aspetti da questo processo?
«Spero che venga fuori la verità, vorrei vedere puniti i responsabili dell'irruzione nella scuola Diaz. Quella sera lì dentro era una macelleria. Ho visto donne e giovani picchiati a sangue, a terra».
Si interrompe. L'emozione ha il sopravvento.Questione di minuti,poi il reporter, il suo essere inglese, hanno la meglio.
Hai sentito che il processo rischia la sospensione a causa del decreto salva-processi?
«Il pubblico ministero mi ha spiegato che se l'emendamento resta così come è il processo dovrebbe andare avanti. Ma nel caso in cui si fermasse ricorrerebbe immediatamente alla Corte di Giustizia europea. Quello che è successo qui a Genova nel 2001 è gravissimo. Mi rendo conto che questo processo potrebbe essere uno degli obiettivi di quel decreto che il governo vorrebbe approvare, ma sono fiducioso».
m.ze.

l'Unità 4.7.08
Ferrero-Vendola, separati in casa: verso un congresso con due distinte platee
Rifondazione. Partito sempre più spaccato, anche se il governatore della Puglia dice «nessuna scissione». Ma la tenzone rischia di finire in tribunale
di Simone Collini


Annullato congresso di circolo in Calabria favorevole a Nichi
Ferrero: le tessere non erano in regola
La risposta: quei voti sono regolari faremo disobbedienza
Nessuno scambio segretario-segreteria

La parola «scissione» andrà pure «bandita», come dice Nichi Vendola, ma la scena è decisamente da separati in casa. Dopo che la commissione congressuale in mattinata annulla un congresso di circolo di Reggio Calabria, finito 345 a 2 per la mozione che candida a segretario del Prc il governatore della Puglia, nel pomeriggio l’attività ferve a via del Policlinico, sede del partito. Vendola convoca una conferenza stampa per far sapere che per quanto li riguarda «l’annullamento è un atto illegale», che «quei voti sono validi» e che la sua mozione praticherà «un atto di disobbedienza per difendere il partito». Neanche il tempo di uscire dalla Sala Libertini che nella stessa stanza entra Paolo Ferrero per raccontare la sua versione dei fatti: «La legalità va tutelata sempre, nel Paese come nel partito, e le decisioni prese dalla commissione congressuale vanno rispettate», dice l’ex ministro spiegando che all’organismo di garanzia (nel quale sono rappresentate tutte e cinque le mozioni) risulta che di quegli oltre trecento votanti «nessuno aveva la tessera del 2008» e che nel tesseramento di altri circoli «si sono riscontrate delle anomalie», tanto che in alcune zone sarebbero quasi più gli iscritti al Prc che i votanti della Sinistra arcobaleno alle elezioni di aprile. Vendola è in un corridoio poco distante, dice che «non c’è nessun tesseramento drogato», che i sostenitori della mozione Ferrero-Grassi «ci vogliono impedire una vittoria praticamente ormai certa con interventi chirurgici ai nostri danni» e che non accetterà «una militarizzazione per cui l’espulsione di una parte va a vantaggio dell’altra parte».
Il bilancio a fine giornata è che a Chianciano magari ci arrivano pure, ma con due platee congressuali diverse. E che quindi l’assise nazionale del Prc finirà prima ancora di cominciare. Vendola infatti non accetta il verdetto su Reggio Calabria perché sa che è soltanto il primo annullamento, a cui seguiranno quelli di Portici, Castellammare di Stabia, Brescia e di tutti gli altri contestati per troppi nuovi iscritti dalla mozione Ferrero-Grassi. Ed è un primo annullamento pesante quello di ieri, visto che con una platea congressuale di 45mila votanti i 345 voti azzerati rappresentano da soli quasi un prezioso 1% (finora le prime due mozioni sono staccate di poco). «Noi vogliamo che finisca in politica e non in tribunale», risponde il governatore pugliese a chi gli domanda se si andrà davanti ai magistrati. E «in politica» non vuol dire accettare la proposta (a sentire i bertinottiani) ventilata dai ferreriani (che però smentiscono) di chiudere il congresso a tavolino con la vittoria al 49% di Vendola, al quale andrebbe l’incarico di segretario, mentre la segreteria sarebbe di nomina dell’area Ferrero-Grassi-Mantovani.
Con i suoi Vendola è stato chiaro: gli iscritti, anche quelli nuovi, hanno il diritto di veder riconosciuto il loro pronunciamento, e quindi al congresso nazionale di Chianciano (24-27 luglio) andranno tanti delegati della mozione quanti risulteranno dal calcolo totale dei voti, non da quelli registrati o invalidati dalla commissione congressuale.
Nel ‘21 finì con i comunisti che abbandonarono la sala del teatro Goldoni intonando l’Internazionale. Questa volta potrebbe finire con due gruppi di delegati che si contestano l’un l’altro il diritto di accedere nella stessa sala.

il Riformista 4.7.08
I senza Fausto: si rischia un congresso sub judice
Vendola e Ferrero, un altro passo verso il tribunale
di Alessandro Calvi


Rischia di essere un congresso sub judice quello che a fine luglio eleggerà il successore di Fausto Bertinotti alla guida di Rifondazione comunista. Ma potrebbe anche andare peggio. C'è chi parla di scissione, anche soltanto per negarla. E, per quanto nessuno la voglia considerare una possibilità praticabile, esiste il rischio che il risultato del congresso lo possa decidere un tribunale. Intanto, mentre Rifondazione si avvita in uno scontro interno dall'esito imprevedibile, Antonio Di Pietro chiama il popolo in piazza. E anche su questo nel Prc ci si divide. «Noi l'8 ci saremo», ha annunciato Paolo Ferrero, mentre, a proposito dell'ex pm, Niki Vendola, ha affermato: «È solo invettiva, così non si costruisce l'opposizione».
L'ultima novità, quella che ieri ha fatto esplodere platealmente lo scontro interno al Prc - provocando la convocazione di due conferenze stampa gemelle, l'una dopo l'altra, presso la sede nazionale del partito - è l'annullamento del voto di un circolo calabrese, quello di Reggio Calabria Centro, dove aveva prevalso la mozione che sostiene Vendola. Alla base della decisione presa dalla Commissione congressuale, c'è ancora il tesseramento sul quale è ormai guerra aperta tra le diverse mozioni in corsa per la segreteria, soprattutto tra la 2, quella di Vendola e dei bertinottiani, e la 1 che vede schierati Paolo Ferrero e Ramon Mantovani. Cuore del problema, la regola secondo cui possono votare ai congressi tutti coloro che si sono iscritti al partito almeno 10 giorni prima. Proprio sul possesso dei requisiti per il voto è scattato l'annullamento del congresso reggino.
Se la questione in altri tempi sarebbe rimasta un fatto tutto interno al partito, ora diventa invece un fatto politico. Ferrero ha richiamato tutti al rispetto delle regole. Vendola ha annunciato la disobbedienza civile: si considerano validi i voti annullati. E ciò getta un'ombra sull'esito finale del congresso, soprattutto nel caso di una vittoria sul filo di lana per cui fosse decisivo anche l'ultimo voto.
«Non accettiamo questo annullamento», ha attaccato Vendola che ha definito «atto grave e illegale» la decisione della commissione congressuale che, ha spiegato, impedisce la possibilità di ripetere il congresso di Reggio Calabria. «Di fronte ad un atto così grave - ha annunciato - confermiamo la nostra cultura della disobbedienza, questa volta per difendere il partito da un atto burocratico, autoritario e arbitrario». Insomma, si va avanti come se quei voti fossero validi. Vendola ha quindi definito «insopportabile» il fatto che nel Prc si sia «introiettato un sentimento leghista» e che dunque si guardi con sospetto al fatto che nel sud vi sia stato un aumento degli iscritti. «Non c'è nessun tesseramento drogato - ha concluso - Ci vogliono impedire una vittoria praticamente ormai certa con interventi di censura chirurgica ai nostri danni».
Di tutt'altro tenore è stata la risposta di Ferrero che ha invitato al rispetto delle regole e ha spiegato che il congresso di Chianciano dovrà decidere la linea politica del partito che poi dovrà avere una gestione unitaria. Quindi è tornato sul tesseramento. Secondo Ferrero, i numeri relativi al 2008 sarebbero superiori a quelli del 2007. Ciò sarebbe però avvenuto soltanto in alcune zone - «a macchia di leopardo», ha detto - spiegando che ciò produce un «elemento di preoccupazione» perché «per un partito piccolo come Rifondazione il rischio è quello dello snaturamento della comunità». «Il nostro - ha aggiunto Mantovani - è un partito di iscritti e militanti, qualcuno vorrebbe che il nostro congresso assomigliasse alle primarie del Partito democratico». Infine, Ferrero ha fornito qualche dato secondo il quale a ieri la mozione numero 1 avrebbe ottenuto 9560 voti contro i 9489 della mozione numero 2, con poco più della metà dei congressi già conclusi.
La strada verso Chianciano si annuncia in salita. Soprattutto se dovessero saltar fuori altre contestazioni sul tesseramento. Quello di Reggio Calabria potrebbe infatti non essere l'ultimo caso. Il prossimo, forse, addirittura Roma.

l'Unità 4.7.08
D’Alema: Berlusconi ha demolito se stesso
«Il decreto sulle intercettazioni è inaccettabile, la Costituzione non prevede urgenze personali»
di Simone Collini


«BERLUSCONI era riuscito a dare un'immagine, in parte accreditata dalla stampa, di un suo profilo nuovo, di uomo attento ai problemi del Paese. In pochi giorni è riuscito, anche con una certa furia, a demolire questa immagine e a ripresentarci quella di uomo
di potere dominato da problemi suoi, e che concepisce l'uso del governo come funzionale a risolverli». Massimo D'Alema parla alla Festa dell'Unità di Roma negli stessi minuti in cui sarebbe dovuta andare in onda la puntata di Matrix con il premier come ospite. «Importante - dice rispondendo ad Antonio Padellaro che lo intervista - non è la rinuncia a una trasmissione televisiva, ma se verrà confermata la rinuncia all'uso del decreto legge per affrontare una questione che per sua natura non può essere affrontata con un simile strumento». L'oggetto della discussione è un provvedimento legislativo sulle intercettazioni (e D'Alema sottolinea che «la sistematica pubblicazione di materiali coperti da segreto istruttorio e' un problema in uno Stato di diritto») in una giornata in cui le indiscrezioni su colloqui pruriginosi riguardanti il premier si sprecano. «La Costituzione non prevede urgenze personali, quelle ognuno se le risolve da sé. Altre sono le urgenze del Paese, e l'uso di un decreto legge per regolamentare le intercettazione sarebbe inaccettabile e gravissimo, il rischio di un conflitto istituzionale sarebbe molto forte. Se sarà confermata la marcia indietro di Berlusconi sarebbe segno di saggezza».
D'Alema difende il dialogo sulle regole tra maggioranza e opposizione, dice che è "obbligatorio" con chi rappresenta la maggioranza degli elettori e che «se la destra dice no se ne deve assumere la responsabilità», e però precisa che il dialogo è «uno strumento, non una politica». Poi una frecciata a Gianfranco Fini: «faccia il presidente della Camera anzichè continuare a fare il leader della maggioranza». Critica l’”orribile" proposta di Maroni di prendere le impronte digitali ai bambini rom e il reato di immigrazione clandestina, che «mina i fondamenti costituzionali perché la legge punisce degli atti, non delle condizioni», insiste sul concetto che l'opposizione «si fa con grandi campagne popolari» e sul fatto che «il Pd ha dimostrato di essere forte ma per ora è largamente ancora soltanto un progetto, bisogna radicarlo». Il che vuol dire, aggiunge l'ex vicepremier, procedere rapidamente col tesseramento: «Attendo trepidamente la tessera. Per ora in mano ho soltanto un attestato. Ecco perché ho fatto la battuta: sono un simpatizzante del Pd. Altro che partito liquido. Io sono per la rapida solidificazione».
L'area dibattiti della Festa dell'Unità (nome difeso da D'Alema) è affollata. In prima, seduto sul prato, l’ex esponente di An Gustavo Selva. Anche quando l'ex ministro degli Esteri dice che il governo ombra del Pd «è un modo di organizzare l'opposizione» e che però «c'è un problema»: «Il governo ombra siamo solo noi, mentre non solo noi siamo all'opposizione», dice ribadendo la critica alla tentazione all'autosufficienza, in cui può sconfinare l'impegno nella vocazione maggioritaria. «Dobbiamo studiare forme di collaborazione tra tutte le forze dell'opposizione». Stando attenti, aggiunge però, a non farsi trascinare da altri partiti in "risse" che alla fine dei conti avvantaggiano Berlusconi e la destra, non il centrosinistra. Il riferimento tutt'altro che casuale è alla manifestazione dell'8 luglio e alle esternazioni di Antonio Di Pietro. «Non si può fare il giochino di convocarsi a vicenda. E non ci si può fare attirare da Berlusconi nell'ennesima rissa sulla giustizia, sentendoci poi dire proprio da lui che non sono questi i problemi del Paese» (sorriso sul palco e risata della platea). «Conosciamo il piazze piene urne vuote. Una manifestazione serve non per far sfogare gli umori, ma se il giorno dopo almeno un italiano in più viene convinto delle nostre ragioni».

l'Unità 4.7.08
«Alleanze sui programmi da Udc a Rc»
Intervista a Bettini: alleanze larghe
Dall’Udc a Rifondazione
di Andrea Carugati


«La situazione è pesantissima, il premier e il governo ormai hanno sotterrato ogni intenzione di dialogo e dichiarato guerra a Veltroni e al Pd, scegliendo la strada dei colpi di mano per difendere ancora una volta interessi personali. Sarà opposizione dura». Goffredo Bettini, coordinatore politico del Pd e braccio destro di Walter Veltroni, pone una domanda a palazzo Chigi: «Il decreto blocca-processi toglie la possibilità di avere giustizia per reati gravissimi come rapina, stupro, corruzione, frode fiscale. Si parla di 100mila processi che saranno sospesi: è questa la sicurezza di cui parlavano? In realtà è un indulto mascherato».
Alla luce di tutto questo, è pentito dei mesi di dialogo con Berlusconi, prima e dopo il voto?
«Assolutamente no. Berlusconi all’inizio fece dichiarazioni di grande apertura e disponibilità a costruire almeno sulle regole un dialogo con l’opposizione. Un nostro rifiuto pregiudiziale sarebbe stato un errore. Ora che Berlusconi capovolge totalmente la sua posizione noi abbiamo ancor più legittimità nel dare a lui ogni responsabilità della rottura e dello scontro e abbiamo più forza nel dimostrare alla maggioranza degli italiani quanto le sue promesse siano state vane».
E il Pd come deve reagire a questi colpi di mano sulla giustizia? Giusto non partecipare alla piazza girotondina dell’8 luglio?
«La nostra opposizione sarà molto forte e visibile e costruita su tempi medi e lunghi, con due obiettivi: convincere la maggioranza degli italiani e unire i temi della giustizia alla grande priorità che investe il Paese, e cioè la drammatica riduzione del valore degli stipendi e delle pensioni. Una vera alternativa riformista non si può accontentare di lanciare grida d’allarme ma deve mettere in campo proposte meditate e persuasive».
E la piazza?
«È per le ragioni che ho appena illustrato che non abbiamo condiviso la piattaforma della manifestazione dell’8 luglio. Il messaggio di quella iniziativa ci appare estremista, urlato, e anche un po’ confuso. Alla fine tendono a restringere il consenso e le alleanze e sbagliano i bersagli, tant’è che alcuni dei promotori se la prendono soprattutto con il Pd e con Veltroni, che sono la vera alternativa a Berlusconi, e attaccano anche il presidente Napolitano, un adamantino democratico impegnato a garantire il rispetto delle regole».
Insomma, per voi niente da spartire con Flores?
«Ci sono modi diversi di protestare. Quello non è il nostro, non è adatto a una grande forza riformista, anche se a quella manifestazione hanno aderito tanti amici per i quali nutro una grandissima stima e che considero compagni di lotta. Penso a Furio Colombo, che peraltro ha espresso forti perplessità sugli atteggiamenti più esasperati».
In piazza però ci saranno anche dirigenti del Pd, come Parisi...
«Ognuno è libero di manifestare la sua voglia di opposizione nelle forme che crede, ma nel gruppo dirigente nazionale del Pd c’è stata una valutazione unanime su quella iniziativa».
Niente piazza, dunque. Come si vedrà la vostra dura opposizione?
«Con una nettissima battaglia parlamentare. Se si confermeranno le scelte annunciate, a partire dal decreto sulle intercettazioni, utilizzeremo tutti gli strumenti regolamentari per rendere difficile la strada al governo e per segnalare il punto di guardia a cui si è arrivati. E poi pensiamo a forme di petizione popolare da far firmare ai cittadini nelle nostre feste, nei tanti incontri che organizzeremo prima della grande manifestazione di popolo di fine ottobre».
E il vostro rapporto con Di Pietro? Temete che punti ai vostri voti, quelli più “radicali” sui temi dell’antiberlusconismo?
«Se il Pd avesse ancora il complesso di una critica alla sua sinistra dimostrerebbe di essere immaturo. Il semplice antiberlusconismo non ci ha mai fatto vincere. Il nostro compito è di essere noi, proprio noi, credibili agli occhi degli italiani per guidare il Paese. Il viaggio in campagna elettorale con Di Pietro è stato proficuo, in quella fase è stato leale e collaborativo. Poi ha cambiato linea. In parte lo capisco, stando all’opposizione ha voluto riconquistare uno spazio di manovra e di visibilità che si raccorda meglio alla sua storia politica. Ciò non toglie che in ogni occasione possibile le opposizioni devono collaborare e unirsi».
L’asse tra Veltroni e Casini può aprire all’Idv nuovi spazi?
«Di fronte agli strappi e alle prepotenze della maggioranza è utile allargare e unire il fronte di chi si oppone. Usciamo dall’assillo se dialogare di più da una parte o dall’altra. Dobbiamo dialogare con tutti e per quanto riguarda le future alleanze per il governo costruire il fronte più ampio sulla base di una seria coesione programmatica».
Una alleanza con Idv, Udc e la sinistra? Non rischiate di rifare l’Unione?
«Il punto è costruire il campo più largo possibile di alleanze a partire, come dice sempre Veltroni, da una rigorosa verifica di convergenze sui programmi, che poi devono essere rispettati quando si governa. Non è un processo che si verifica a priori, ma nel fuoco della dinamica politica».
E la vocazione maggioritaria?
«La sfida che abbiamo lanciato affermando la nostra vocazione maggioritaria non significa autosufficienza, e lo abbiamo ripetuto fino alla noia, ma ambizione di mettere in moto e di innovare tutto il campo delle forze di centrosinistra per spingerle a mettere al primo posto la coerenza tra le promesse agli elettori e i comportamenti che poi si perseguono dal governo».
Dunque non vedrebbe come fumo negli occhi una coalizione dall’Udc al Prc?
«Oggi sarebbe davvero irrealistica. Se poi si creano le condizioni di innovazione che ho indicato non vedrei come fumo negli occhi nessuna alleanza nel campo democratico. Ma non sarebbe la vecchia Unione, bensì un nuovo centrosinistra più coeso e credibile con un forte baricentro riformista».
Torniamo alle intercettazioni. Lei come le regolamenterebbe?
«È un tema delicatissimo che investe una giusta esigenza di privacy dei cittadini da tutelare integralmente senza rendere più difficili le indagini dei magistrati. È evidente che mancano del tutto i requisiti di necessità e urgenza per un decreto. Ma sono per arrestare una diffusione barbara di conversazioni private che non hanno rilievo penale».
Se si tratta di conversazioni in cui un leader politico raccomanda delle attrici è giusto che i cittadini sappiano?
«Se sono conversazioni private e senza rilievo penale, no».
Se Berlusconi dovesse rinunciare al decreto potreste dialogare su questo tema?
«Si tornerebbe a un normale confronto parlamentare per regolamentare questa materia».
Lei dopo il voto aveva proposto un congresso anticipato del Pd. È ancora di questa opinione?
«Se la spinta sincera alla costruzione comune del Pd dovesse venir meno perché covano prospettive politiche legittime ma diverse, allora sarebbe meglio il congresso. È una mia opinione personale: in quel caso sarebbe meglio una discussione franca e democratica che ridia la parola ai cittadini e agli iscritti. Non ho mai paura del confronto in mare aperto, temo lo sfarinamento e la opacità delle manovre di potere».

l'Unità 4.7.08
Rom, la sfida del prefetto «Niente impronte ai bimbi»
Roma, Carlo Mosca: non servono, è solo una discriminazione
Sì a foto e accertamenti con la procura minorile. S. Egidio: no al razzismo
di Massimiliano Di Dio


SULLE impronte ai bimbi rom, il prefetto di Roma Carlo Mosca è categorico. «Non è accettabile - dice - che possano essere fatte discriminazioni. Per i bambini non bisogna arrivare all'identificazione con le impronte digitali». Piuttosto fotografie e accertamenti
d'intesa con la Procura nei casi di dubbi sulla paternità di un minore. E comunque evitare rilievi non dattiloscopici anche per tutti gli altri nomadi. Perché, afferma ancora il commissario straordinario del Lazio, «non sono necessari». Non demorde Mosca. Anzi va per la sua strada nel censimento dei senza fissa dimora laziali, confermando il suo ruolo di «garante dei diritti civili e sociali» che sono «il lavoro, la scuola e la salute». Lontano quindi dalle indicazioni almeno iniziali del ministro Maroni: «Impronte per tutti». E più cauto rispetto a un altro prefetto interessato dall'emergenza, quello di Napoli, dove si è già iniziato a prendere le impronte a tutti i minori al di sopra dei 14 anni. «Sarebbe una pratica umiliante e degradante. Inutile al fine della definizione del rapporto di parentela» denuncia la Comunità di Sant'Egidio pronta a scendere in campo contro un censimento discriminatorio perché legato all'etnia e alla religione con una manifestazione dal titolo «Diamoci la mano, non le impronte». «Non siamo contrari all'identificazione - aggiunge il portavoce Marazziti - ma come avviene per i bambini italiani è il genitore che ne deve dichiarare l'identità. Ancora non è tardi per cambiare. Occorre una piattaforma del buonsenso per affrontare seriamente la questione zingari».
Oggi in Prefettura saranno definite le linee di intervento del censimento romano. L'inizio delle operazioni, che riguarderanno oltre 9mila rom che vivono nei 50 campi abusivi e nei 20 regolari della capitale, continua a slittare. Prima dal 6 al 10 luglio. Ora sembra fissato al 14 luglio. La Croce Rossa ha proposto al prefetto Mosca un sistema impiegato in Albania. E quindi una scheda con nome, cognome ed età presunta - da accertare in casi dubbi con esami a raggi x - di ogni rom. Ancora informazioni su fabbisogni, vaccinazioni obbligatorie, esperienze lavorative e la consegna ai nomadi di un tesserino sanitario da usare per l'accesso ai servizi medici. Una copia della scheda rimarrà al soggetto censito, l'altra finirà nelle mani delle autorità. Ovviamente nel rispetto della privacy.
Resta tuttavia un'incognita: il ruolo delle forze dell'ordine nel censimento. Carabinieri, poliziotti, finanzieri e vigili dovrebbero affiancare il personale della Cri. «Magari in borghese» sollecitavano gli stessi volontari. E comunque con funzioni legate all'identificazione anagrafica dei rom. Senza prendere le impronte, come da un lato hanno chiesto Caritas, Comunità di Sant'Egidio, Arci e gli stessi rom. «Non permetteremo a nessuno di toccare i nostri figli» ha ripetuto ieri Najo Adzpovic del campo Casilino 900, uno dei più grandi della capitale. E dall'altro ha ribadito ieri lo stesso commissario straordinario. «Se i nomadi si rifiutano di farsi identificare - ha precisato Mosca - sarà necessario ricorrere ai rilievi segnaletici ma senza arrivare al rilievo dattiloscopico». Quindi foto e rilievi antropometrici (peso, altezza e così via) da decidere caso per caso. Facendo salva la possibilità in situazioni estreme di ricorrere anche ad accertamenti d'intesa con il Tribunale per i minorenni e alla Procura. «Il problema dei minori rom esiste - ha concluso ancora Marazziti della comunità di Sant'Egidio - ma si tratta di migliorare le loro condizioni di vita, di battersi per la loro scolarizzazione».

Nel censimento indicata etnia e religione del soggetto fermato
Ecco (a sinistra) una delle prime schedature di rom. Questa è stata fatta a Napoli. Nella riproduzione la copia di un documento di identità utilizzato per il censimento. Essere identificati in base alla etnia o alla religione è una cosa «sbagliata e discriminatoria» ha denunciato ieri Sant'Egidio, che ha mostrato la copia del censimento fatto a Napoli, a un cittadino serbo di etnia rom. Nel documento, su carta intestata del «Commissario delegato per l'emergenza insediamenti comunità nomadi nella regione Campania», dopo le generalità solite c'è anche la dicitura «religione» e l’etnia. Sotto la foto, le impronte digitali.

l'Unità 4.7.08
Una vergogna morale, un’idiozia giuridica
di Giancarlo Ferrero


La sola idea che si imponga a dei bambini la schedatura mediante impronte digitali provoca una reazione di disgusto interiore in chiunque non abbia completamente perso il senso dell’umanità. Non si tratta, infatti, di un’operazione psichicamente e socialmente indolore: nell’immaginario collettivo e nella coscienza dei cittadini l’impronta digitale è una macchia nera sull’immagine e l’onorabilità della persona, un segno visibile e permanente di biasimo per la cattiva condotta di chi è costretto a rilasciarla, una sorta di condanna per il reprobo, tanto è vero che le si prende all’ingresso nelle case di reclusione (nel nostro caso si prescinde persino da un provvedimento giurisdizionale). È' vero che in genere i bambini degli zingari sono abituati all’emarginazione sociale ed al disprezzo della gente per bene, ma forse non è il caso di infierire ulteriormente con operazioni fortemente diseducative. La circostanza poi che i destinatari appartengano ai “Rom”, cioè ad un gruppo ben determinato di individui con caratteristiche proprie che li distinguono e separano dagli altri, sempre specie umana, ma di razza diversa, lascia poco spazio alla qualificazione della manovra, dagli splendidi precedenti storici. Se poi questi bambini sono anche cittadini italiani, è bene apportare qualche ritocco all’art. 3 della Costituzione che pretende l’eguaglianza tra loro (ma la Costituzione è ormai ridotta dalla maggioranza politica ad un mero ruolo celebrativo, come la regina d’Inghilterra, anche se molto più povera). Per evitare noie ed accuse da parte di quella sottocategoria di intellettuali chiamati giuristi e sempre che Tramonti sia d’accordo (il costo sarebbe alto) l’operazione potrebbe essere estesa a tutti gli italiani, iniziando dai parlamentari, notoriamente affetti da scoordinamenti digitali (gentilmente ribattezzati pianisti).
Di certo la coraggiosa manovra (c’è sempre il rischio che qualche protervo bambino dia uno schiaffo allo schedatore) non va a beneficio dei bambini più diseredati che difficilmente recepiscono la cattura della fotografia del dito come primo passo verso l’integrazione con gli altri bambini perbene. Ovviamente non servono neppure ad aumentare la sicurezza della massa dei cittadini che possono passare l’intera loro vita senza imbattersi in un “Rom” (di sicuro in un numero inferiore ai candidati al prossimo concorso in magistratura)
Oltre alla vergogna che ci sta screditando agli occhi del mondo, l’operazione “macchia” (che impegnerà un po’ di uomini delle nostre forze dell’ordine) è giuridicamente inutile. Non solo è superata da altri strumenti di identificazione e può anche rivelarsi poco sicura nel futuro (la dolorosa alterazione dei polpastrelli non è una pratica sconosciuta), ma si pone in concorrenza con specifiche e più civili disposizioni normative. L’art. 671 del nostro stagionato e ritoccato codice penale esplicitamente prevede come reato «Chiunque si vale per mendicare, di una persona minore degli anni 14 ... ovvero permette che tale persona mendichi ... è punito con l’arresto ... La condanna comporta la sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori».
Se veramente si volessero proteggere i bambini più sfortunati e per giunta “Rom” sarebbe sufficiente una sorveglianza attiva da parte delle varie polizie e la conseguente individuazione degli sfruttatori. Oltretutto si ridurrebbe la gravissima piaga della violazione dell’obbligo scolastico, agevolando veramente l’integrazione che non si avrà mai senza un minimo di scolarizzazione. Le leggi, e non solo questa, ci sono, ma “chi pon mano ad elle?”. Non certo uno Stato che giorno per giorno si allontana dalla civiltà di una nazione moderna ed efficiente e che ignora o disattende le leggi scomode e non ha alcuna idea di come si organizzino gli uffici pubblici si impieghino in modo corretto ed umano le forze dell’ordine.

l'Unità 4.7.08
Il viaggio di Eugenio
di Sergio Zavoli


Anche il libro di Scalfari può contribuire al risveglio di cose lasciate andare

L’articolo dedicato da Walter Veltroni, su l’Unità, al libro di Eugenio Scalfari, «L’uomo che non credeva in Dio», ha dato un risalto nuovo all’attualità delle questioni non strettamente letterarie e filosofiche di cui si nutre la prova dello scrittore, ispirata a una “confessione” coraggiosa e complessa. Veltroni, che ha una particolare sensibilità per le pieghe psicologiche, morali e civili dei testi in cui alla modalità espressiva di segno linguistico si aggiunge una sorta di controcanto esistenziale e di filigrana interiore, è andato direttamente alla vera natura del volume, pensato secondo la maniera del ricordo e della coscienza, del percepito e del taciuto, fino a quando non dichiara, senza le soggezioni di prima, la consapevolezza dell’irrisolto e forse dell’irrisolvibile in una materia controversa, che non si esaurisce con risposte soltanto razionali o soltanto canoniche. Credo di conoscere, dopo averla colta anche nelle attitudini del padre, la vocazione di Veltroni per la drammatica dualità del fondere, ma anche del separare, la vecchia nozione e la nuova lettura del dilemma di fondo: la fides et ratio, cioè la presenza di Dio in sé, nel suo proprio arbitrio e dominio, e in noi, nella nostra facoltà di intenderlo e viverlo. A questa distinzione, sebbene per merito anche suo appaiano evidenti gli aspetti pretestuosi dell'inconciliabilità, Veltroni contrappone la problematicità e il realismo di chi designa nel futuro il nostro vero scopo: quello di spendersi sempre e comunque per il dopo, dove ci aspetta tutta la curiosità, l’amore e la sofferenza intrinsechi nell’esser nati per vivere, non solo per esistere, cioè per fare della nostra anche la vita altrui, e di questa la nostra stessa. Si può dunque capire come un libro che fin dalla sua premessa, cioè dal titolo, affronta innumerevoli percorsi di segno così personale e così pubblico possa creare tra due persone assai diverse una condivisione non solo metaforica del “viaggio” su questa terra, cioè procedendo, anziché solo per frammenti, secondo quanto ci tiene insieme, la vita, il cui senso “altro non è che viverla”. E che per Walter comincia - ecco l’esca struggente che il libro offre ai suoi ricordi - dalla più incolmata delle giovinezze: la scomparsa prematura del padre e la filialità dimezzata. Ricordo come Scalfari si era espresso, in un editoriale di limpida ispirazione laica, sull’immagine estrema, addirittura metafisica, della paternità, e fu quando vennero proposti - non saprei quanto introdotti e osservati - alcuni emendamenti, nientemeno, al Pater Noster. In quell’articolo, molto riguardoso del sentimento dei credenti, egli riconosceva la ragionevolezza e persino l’utilità di modificare talune espressioni della preghiera insegnata da Gesù. E rimasi colpito, ricordo che ne scrissi, dal suo consenso alla decisione dei vescovi di lasciarne intatto l’incipit, cioè le quattro parole che con quella premessa celeste, qui es in coelis, fondano il senso dell’adesione al cristianesimo, dopo tremila anni di storia mediterranea e occidentale, soprattutto nella parte scientificamente e tecnologicamente più evoluta del mondo. Scalfari, da uomo anche di filosofia, metteva mano a categorie riconducibili alla storia e alla metafisica, credo assumendo il principio secondo cui, liberi da ogni enfasi mistica, diventa retorico, e comunque inutile, chiedersi quale sarà il destino dell’uomo, essendo l’uomo stesso il proprio destino. Ed ecco che le domande, sciolte dall’intoccabilità delle “quattro parole”, dovute al mistero della fede, venivano a toccare questioni concrete del pensare, del sentire e dell’agire d’oggi. Un esempio: se al progredire della scienza fa riscontro il disincanto, o la delusione, o addirittura la perdita di Dio, dovremmo dedurne che la prima tentazione cui siamo indotti è di credere soltanto in qualcosa di visibile, desunto dal nostro sempre più temerario contestare il ruolo del Padre? Oppure in una religione invisibile, nascosta da un creatore geloso, pronto a lasciarsi negare piuttosto che essere discusso? Ma c’è anche chi pensa di poter porre altrimenti, cioè radicalmente, il dilemma: domandandosi se le proprie sconfitte non siano anche la sconfitta di Dio. D’altronde, se Dio si è fatto uomo e nulla, o ben poco, è cambiato nell’indole e nella storia dell’umanità, il fallimento non è anche suo? E se la ragione non riuscisse a fare il gran salto, quale significato assumerebbe, in rapporto a Dio, tutta la grandiosità e tutto l’orrore messi insieme dalle cinquantamila generazioni che ci dividono dal primo homo sapiens? Vivere, propone qualcuno, come se Dio non ci fosse: ma non centuplicheremmo le nostre responsabilità morali, ha detto Dietrich Bonhoeffer, il pastore e teologo protestante impiccato nel campo nazista di Flossenburg, ricordandoci che Cristo aveva affrontato il mondo, e ne era morto, per salvarlo? E poi, perché cercare pretesti nelle difficoltà che questa materia ancora ci pone proprio in tempi nei quali scienza e umanesimo hanno ogni giorno un motivo in più per confrontarsi e cercare un’intesa? L’odierno dibattito sull’etica, fondato sulla domanda se tutto ciò che è possibile è sempre anche lecito, non postula forse questa attesa di credenti e non credenti: che dopo gli oscurantismi, in cui per paradosso è il Dio nascosto a primeggiare, si faccia largo la nuova alleanza tra una fede e una ragione illuminate proprio dalla modernità? La fede, che ci prolunga dopo la morte, può portarci dove la scienza non può? Oppure sarà negli alambicchi, o sotto la lente di un microscopio, la spiegazione di tutto?
A volte penso, da cronista, che molte risposte non siano venute - e non solo quelle alte, perpendicolari - perché non erano state fatte le domande. Il libro di Scalfari, anche in questo senso, interpreta una crescente esigenza di attenzione a tali problemi. Lo scenario in cui Veltroni li colloca gli fa dire con Roland Barthes - facendo il verso, parrebbe, alla realtà di questi stessi giorni - che «la fotografia è rivoluzionaria non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando è pensosa»! Cioè quando la realtà “pensa la vita”, per cambiarla. Veltroni non inclina a credere alle conclusioni dogmatiche, e forse non rifiuta del tutto la convinzione di Scalfari secondo cui «la verità assoluta non esiste e quella soggettiva, e relativa, dipende dal punto di vista con cui guardi te stesso e il mondo»; in ogni caso sa che «non c’è un’alternativa alla vita», che tutto è sempre davanti, dove abita, laicamente, il destino dell’uomo. Dove ci giochiamo tutto, per chi crede anche il dopo.
Su questi temi, in un dialogo che presuppone un progetto anche civile, Scalfari e Veltroni si scambiano una vocazione che gli scettici considerano poco politica: l’ottimismo. Mentre, proprio quando la politica sembra non avere più la forza di credere in ciò che si può fare, e perciò stesso va fatto, occorre ricondurre pensieri e azioni all’incontro, sí, dei “frammenti”, ma prima ancora degli archetipi, cioè dei valori su cui convenire, e impegnarsi, esplicitando la necessità di opporsi alla tentazione degli egoismi e delle negazioni meramente opportunistici. Occorrerebbe invece essere tutti persuasi che, al di là di ogni eccesso di semplificazione, ci intenderemmo meglio, credenti, agnostici e non credenti, se alla cultura ideologica cominciassimo a opporre la cultura dell'etica, la quale non ha né potrebbe usare linguaggi teorici o teologici per difendere una subdola visione strumentale delle rispettive identità.
Se è vero che questa modernità pone sempre più il problema del consenso interiore a ciò che l’intelligenza è in grado di sprigionare, dovremmo collocare il dibattito in un terreno aperto alla sensibilità di ognuno e quindi di tutti, guidati dall'idea che l'uomo non è qui per rifare l’uomo - un progetto a cui credo non penserebbe neppure Dio - ma perché l’uomo non sia o non diventi meno di un uomo.
Non si tratta di consegnarci a una sorta di estasi della storia, né andrebbe intesa come un privilegio laico una cultura che inseguisse il mito euforico della sola ragione: sono molte le osservazioni di Veltroni, e talune coincidono con «L’uomo che non credeva in Dio» collegandosi a un momento cruciale della sua stessa, personale, complessità. Non gli è nuovo, al pari di tanti altri, il doverla affrontare: seppe presto che Mosca non sarebbe più stata la Gerusalemme del proletariato, - «... perché il cielo e la terra di prima sono scomparsi...», si legge nell’Apocalisse di Giovanni - e oggi ha sufficiente realismo per capire che a Pechino, a Tokio, a Delhi, cioè nell’Oriente estremo, sta nascendo il credo, questa volta economicistico e finanziario, del riscatto globale. Finito, insomma, il tempo di un mito, stiamo vivendone un altro: votato, sebbene premano immani problemi, a una astratta conquista della felicità - con il richiamo d'obbligo all’atto fondativo degli Stati Uniti d’America - pur sapendo che dall’Occidente non possiamo più attenderci, oggi, annunci di palingenesi. Non a caso si vive con la sensazione di progredire camminando su qualcosa d’irreale, comunque di fragile, di minato. E a parer mio non è affatto singolare che anche questo libro e la recensione da cui ho preso le mosse - apparentemente estranei alle durezze della realtà - possano contribuire al risveglio di qualcosa di lasciato andare e persino di perduto; presupposto dei desideri e delle speranze da collocare dentro la più incontestabile e coinvolgente delle identità: la nostra vita. Un filosofo di questo tempo, Ernst Bloch, ha detto: «La ragione non può fiorire senza la speranza, la speranza non può parlare senza la ragione». Teniamolo a mente, per il giorno già annunciato in cui ci rimetteremo in “viaggio”.

Corriere Fiorentino 4.7.03
Parla Paul Ginsborg alla vigilia della due giorni che prende il via oggi in Palazzo Vecchio
«Sinistra unita, ma senza rompere col Pd»
di M.F.


Di nuovo a Firenze, dove si era incontrata subito dopo il tracollo elettorale, la sinistra cerca di ritrovare se stessa. Due giorni di incontri e seminari , dal pomeriggio di oggi a Palazzo Vecchio, promosso dall'associazione per la Sinistra unita e plurale, di cui fa parte il professor Paul Ginsborg, «agitatore» dei movimenti. «Vogliamo ripensare i modi e le forme delle politica, dopo la batosta elettorale. Ci possono esser forme di democrazia partecipata, avanzata che possono sostenere la democrazia rappresentativa? Qual è l'azione riformista nel 2008. Ci sono riforme che aiutano a alimentare la partecipazione e l'attività della cittadinanza: le "rolling reform", che come una palla di neve, accumulano in sè la partecipazione della cittadinanza, non come scende dall'alto».
Ma, dopo il pessimo risulatto elettorale dell'aprile scorso, c'è ancora vita a sinistra?
«Il 19 aprile, subito dopo i risultati elettorali, abbiamo visto al Palacongressi tante persone partecipare per capire gli errori e guardare al futuro. Non solo a livello fiorentino, ma anche nazionale. Il seminario di oggi e domani è indirizzato a quelle persone, che credono nelle necessità di una sinistra su base moderne. Sindacalisti, attivisti della società civile. anche nei partiti Appunto, i partiti. I 4 ex Sinistra arcobaleno, stanno commettendo gli stessi errori che li hanno portati fuori dal Parlamento?
«Penso che la loro reazione alla sconfitta elettorale è stata sbagliata. Profondamente. Penso che manca in Italia una sinistra rinnovata e riunificata presente in parlamento, una sinistra sinistra. Per me sarebe stato molto importante proseguire con tutta la nostra forza nella strada dell'aggregazione e dell'unità. Proprio per la necessità di avere delle voci a livello istituzionali. Non solo mettere insieme 4 sigle, ma un rinnovamento e discussione per l'aggregazione. Invece i partiti sono andati nella frammentazione ulteriore».
E il Pd? Rottura definitiva?
«La strategia di Veltroni di andare da solo è stata un errore: in realtà significava andare senza la sinistra, perché poi con Di Pietro ci è andato. Ora tutti si rendono conto che è stato sbagliato: in questa situazione di emergenza democratica è molto importante cercare le basi di azioni che uniscano il Pd con la sinistra. Non perché penso che la sinistra sia incapace di rientrare in parlamento: ma perché dobbiamo trovare accordi sui contenuti, lavorare assieme. Senza pregiudizi. Non solo contro Berlusconi».

Repubblica 4.7.08
Picco all´inizio di settimana per il contraccettivo d´emergenza
Boom tra le ragazzine della "pillola del lunedì"
di Laura Pertici


Ogni giorno in Italia cinquecento giovanissime fanno uso del contraccettivo d´emergenza. Con un picco all´inizio della settimana perché nel weekend i rapporti sessuali sono più frequenti

Una ricerca dell´Aied rivela: le figlie sono più informate delle madri
I ginecologi: per le giovani non sostituisce gli anticoncezionali, per le over40 sì

È la pillola del lunedì. È la pillola delle ragazzine. Ogni ventiquattr´ore cinquecento giovanissime mandano giù una pasticca per paura di rimanere incinta. Ma è soprattutto dopo il fine settimana che la cercano, quella pillola. Le richieste schizzano ogni lunedì. In Italia è boom della contraccezione d´emergenza, si sta diffondendo soprattutto tra quante hanno tra i 14 e i 20 anni. Sono le adolescenti le più informate, coloro che consumano la metà delle confezioni vendute di Norlevo e Levonelle, ovvero i due marchi che nel nostro Paese rappresentano il farmaco con prescrizione obbligatoria arrivato nel novembre del 2000. Da allora si è sempre registrato un aumento di richieste. Ma nel 2007 c´è stato il salto: 370mila confezioni (anche se la stima si spinge oltre le 400mila) distribuite in farmacia, 53mila in più del 2006. È stato doppiato l´aumento medio di tutti gli altri anni. I dati sono della Sigo, la Società italiana di ginecologia ed ostetricia. È allarme rosso? Affacciandosi sull´Europa sembrerebbe di no. Nella cattolica quanto moderna Spagna di pillole se ne vendono 600mila. In Francia oltre un milione. In Gran Bretagna due milioni. Ma qui da noi il levonorgestrel, il principio attivo della pillola del giorno dopo, è comunque affare che riguarda un´adolescente su dieci. Meglio approfondire.
L´Aied, l´Associazione italiana per l´educazione demografica, ha messo a confronto la conoscenza di donne di tutte le età per capire il fenomeno contraccezione d´emergenza. «Abbiamo realizzato questo lavoro nella primavera del 2007 - spiega Luigi Laratta, presidente dell´Aied - ma avevamo il timore che fotografasse solo una parte della popolazione femminile, perché ai nostri centri si rivolgono in prevalenza donne del ceto medio-alto». Chiedendo però alle giovanissime, parlando con le ginecologhe nei consultori delle Asl e con i medici che nei week end presidiano i pronto soccorso (uniche strutture cui ci si può rivolgere per avere una ricetta nel fine settimana), si riceve lo stesso tipo di risposte contabilizzate nel sondaggio Aied (l´inchiesta video si trova sul sito tv. repubblica. it).
Così si constata che le ragazzine non si sorprendono. Sono quasi spavalde. «Io l´ho presa - confessa una quindicenne - mi ha accompagnata in consultorio mia sorella. I miei non lo sanno, figurati». «Ho chiesto la ricetta al medico di mia madre - dice una ragazza di 17 anni - È stato imbarazzante, ma si era rotto il preservativo, che dovevo fare?». «A me non è mai servita - afferma una sua coetanea - la prima volta ne ho sentito parlare alle medie». Quindi le figlie sono molto più informate delle madri sui luoghi deputati all´assistenza, in caso di rapporto a rischio. Sanno benissimo che la pillola del giorno dopo va presa entro 72 ore e preferibilmente nelle prime dodici. I genitori sono quasi sempre all´oscuro dell´attività sessuale che le riguarda. Mamma e papà neanche immaginano del ricorso al Norlevo.
Frammenti di vita reale che si specchiano nei numeri dell´Aied: il 93 per cento delle ragazze tra i 15 ed i 19 anni (contro il 90 per cento delle over 40) conosce le finalità della pillola: evitare una fecondazione in seguito a un rapporto sessuale considerato non protetto. Otto ragazzine su dieci (il doppio delle ultraquarantenni) sanno che in caso di bisogno possono rivolgersi a un consultorio. Le signore mature sono ben più legate all´idea del medico di famiglia, tanto che solo 1,5 adulte (tre su dieci tra le adolescenti) pensa all´ospedale. Nove teenager su dieci sono coscienti che la pillola del giorno dopo vada assunta entro tre giorni, mentre lo ricordano sette donne adulte su dieci. Eppure, quando serve, sono le over 40 le più tempestive: il 78 per cento delle adulte contro il 56 per cento delle giovani ingoia il Norlevo nelle prime 24 ore.
Se ne deduce che il levonorgestrel viene utilizzato dalle ragazze con eccessiva leggerezza? «Direi proprio di no - afferma Daniela Fantini, ginecologa che da trent´anni lavora sia nella Asl Provincia Milano sia nel consultorio privato e laico Cemp - io intervengo quasi sempre dopo la rottura di un preservativo, soprattutto il lunedì mattina, visto che i rapporti si fanno più frequenti nel week end. E che le giovani non mentano lo dimostra il fatto che devo estrarre loro dei pezzetti di condom». Eppure la Sigo all´inizio di giugno denunciava: la pillola del giorno dopo sta diventando l´unica forma di contraccezione usata dalle giovani. Come dire niente condom, niente spirale, niente pillola contraccettiva, niente cerotto, ormai le ragazze trasformano in emergenza anche la routine. «Dalle mie visite non risulta - osserva la ginecologa del centro adolescenti Aied di Roma, Paola Piattella - le ragazze, pure le giovanissime, in prevalenza chiedono aiuto se c´è stato un incidente». «Casomai sono le signore ad usare il Norlevo come contraccettivo - aggiunge Daniela Fantini - quando hanno rapporti sessuali tanto saltuari da non voler far ricorso ad altri metodi». C´è da chiedersi se l´assunzione di levonorgestrel sia pericolosa, quando frequente. «Prendere la pillola del giorno dopo anche ogni due mesi non comporta conseguenze serie - puntualizza Paola Piattella - Ma questa è un´informazione che alle adolescenti va data con parsimonia, perché è bene che mantengano il timore nei confronti di un farmaco di emergenza. Meglio investire sull´incontro in consultorio. E su una contraccezione regolare».

Repubblica 4.7.08
Rifondazione, bagarre sul congresso e Vendola annuncia disobbedienza


ROMA - La rottura definitiva dentro Rifondazione sembra ormai questione di ore. Perché le mozioni di Paolo Ferrero e Nichi Vendola si giocano la leadership sul filo del rasoio e proprio ieri è stato annullata la votazione del circolo di Reggio Calabria che vale quasi l´1% del totale. In Calabria avrebbe vinto Vendola, ma la commissione regolamento ha cancellato il risultato. Ora il governatore pugliese annuncia una «campagna di disobbedienza» contro la decisione. Tradotto: porterò comunque al congresso nazionale (24-27 luglio) i delegati di Reggio. Il rischio è che alle assise si arrivi con due platee contrapposte. E che una scissione diventi più probabile.

Repubblica 4.7.08
Il Papa leggerà la Bibbia in tv, il via a ottobre


ROMA - Benedetto XVI aprirà la straordinaria maratona biblica che per sette giorni e sei notti sarà dedicata alla lettura completa dell´Antico e del Nuovo Testamento nella suggestiva basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Dal 5 all´11 ottobre si alterneranno al leggio milleduecento persone fra operai, studenti, scolari, agenti, sportivi, politici, militari.
Cattolici, protestanti, ortodossi ed ebrei. Chiuderà il segretario di Stato Bertone con la lettura dell´Apocalisse. Ogni novanta minuti ci sarà un intermezzo musicale. Gli interventi del Papa e di Bertone andranno in onda su Raiuno. L´intero progetto, nato su iniziativa della strutturai Rai Vaticano, diretta da Giuseppe De Carli, e intitolato "La Bibbia, giorno e notte" sarà trasmesso nello spazio gestito da Rai Educational sul satellite. Il primo libro della Genesi sarà declamato in italiano da Benedetto XVI e poi in ebraico dal rabbino capo di Roma, Di Segni. L´inizio del vangelo di Giovanni sarà letto in greco. A convincere Ratzinger - spiega il ministro della Cultura vaticano mons. Ravasi - è stata la suggestione di un «puro annuncio della Parola». Non si sa ancora se il pontefice verrà o sarà trasmessa una registrazione.
Protestano per l´iniziativa gli atei dell´Uaar, precisando che «le altre confessioni non hanno spazi simili nelle reti di stato italiane, per non parlare degli atei». Gli evangelici ricordano, invece, che il progetto si fonda anche sulla collaborazione della Società Biblica Italiana.
(m. pol.)

Corriere della Sera 4.7.03
Contro il ministro Facci («Vada via») e il dipietrista Donadi
Carfagna sotto attacco Ma la solidarietà è bipartisan
Armeni e Gagliardi: nel mirino perché donna. Carra: fango giustizialista
Santanché: «Se una cretina arriva in un posto importante c'è vera parità. Non dico che la Carfagna sia cretina ma se lei è inadeguata lo sono anche tanti ministri uomini»
di Lorenzo Salvia


ROMA — «Mara Rosaria Carfagna dovrebbe dimettersi perché tutto sommato è un danno per il governo cui appartiene». D'accordo, le pagine sono quelle del Riformista,
quotidiano di sinistra anche se mai ortodosso. Ma a scrivere è Filippo Facci, che di sinistra certo non è. Firma del Giornale,
volto di Mediaset, autore della rubrica che sul quotidiano di Antonio Polito prende significativamente il nome di «Destri ». Fuoco amico. Sostiene Facci che le intercettazioni non c'entrano, ma che il ministro per le Pari opportunità rappresenta il «punto di non ritorno per un elettorato cui puoi propinare quasi tutto ma non tutto. Ha cominciato a fare politica nel 2006 e a metà del 2008 è diventata ministro: è troppo, punto». Via dal governo non per quelle telefonate che si addensano sul Palazzo ma perché inadeguata. Nello stesso giorno c'è anche il fuoco nemico. Arriva dal partito di Di Pietro con la firma di Massimo Donadi: «Se Bill Clinton avesse fatto Monica Lewinsky ministro la vicenda sarebbe diventata di rilevanza politica oppure no?». Non fa il nome della Carfagna, la donna che Berlusconi avrebbe voluto sposare, parole sue, se non ci fosse stata già Veronica. Ma di cosa parla si capisce benissimo. E a chiarire il tutto ci pensa Antonio Di Pietro in persona: «Sarebbe immorale se il presidente del Consiglio avesse nominato ministro una persona per ragioni diverse da quelle politiche». E aggiunge «il gossip politico fa male anche agli interessati, ma soprattutto ai coniugi degli interessati». Mara Carfagna è a Napoli e non risponde: «Non mi occupo di intercettazioni, di gossip, di stupidaggini. Non fanno parte della delega del mio ministero ». Ma incassa la solidarietà di molte donne, anche a sinistra.
Alessandra Mussolini se la ride: «Ricordo più di un ministro per le Pari opportunità che scippava i disegni di legge a noi parlamentari. Noi studiavamo, e quelle si pigliavano gli applausi. Mara no. Ci ascolta, è umile. E poi fare il ministro è come fare la mamma: all'inizio non sai fare nulla, ma giorno dopo giorno impari». A colpire la Mussolini è stata una riunione che pochi giorni fa il ministro ha fatto alla Camera con tutte le parlamentari del Popolo della Libertà. «Ci ha illustrato — racconta Margherita Boniver — un eccellente progetto contro la prostituzione che, ispirato al modello britannico, vieta l'adescamento in luogo pubblico. Intelligente, equilibrata. Attenta ai suggerimenti e senza la falsa forza di chi vuole imporre la propria opinione».
Certo, è anche solidarietà di parte. Verso una collega di partito e, di riflesso, verso il grande capo. Ma pure attraversando il fossato che un tempo divideva destra e sinistra c'è chi la Carfagna la difende. «Il paragone con la Lewinsky è una volgarità gratuita» dice la giornalista Ritanna Armeni che pure del ministro non ha condiviso tante cose, a partire dall'esternazioni sui gay. «E chiederne le dimissioni perché non ha esperienza — aggiunge — significa essere davvero strabici. Se andiamo a guardare gli ultimi governi non ricordo presidi al ministero dell'Istruzione, professori alla Giustizia o espertoni vari alla Difesa». Alla fine la storia è sempre quella: «Prendersela con le donne è sempre facile». Condivide e sottoscrive Rina Gagliardi, ex parlamentare di Rifondazione: «Non ho alcuna ragione specifica per esprimere la mia solidarietà a questa signora ma sono sempre un po' sospettosa quando si attacca una donna. Non è adeguata al ruolo? Probabile. Ma perché, il ministro della Giustizia, che si occupa peraltro di cose un tantino più importanti, non è ornamentale anche lui?». Non sparate sulle donne. La scrittrice Lidia Ravera la pensa diversamente: «È un bersaglio fin troppo facile. La stellina tv diventa ministro perché cara al presidente, uno stereotipo, un po' mi fa pena poverina». Ma la sua è solo una premessa: «Va bene svecchiare la classe politica. Ma farlo cooptando le amiche e i figli degli amici è un insulto alle istituzioni».
La leghista Carolina Lussana invita ad aspettare: «Non conta da dove si viene, conta quello che si fa. Ed è ancora troppo presto per giudicare il lavoro della Carfagna. Lasciamola in pace e, per favore, evitiamo scivoloni come quel paragone sulla Lewinsky: è la dimostrazione che quando si arriva in un posto importante la tentazione della battuta facile e del pregiudizio non muoiono mai». Chiara Moroni, invece, se la prende con Facci, che è pure amico suo: «Liberissimo di pensare che un ministro non sia adeguato. Ma che per questo il ministro medesimo si debba dimettere, beh, mi sembra davvero che abbia una considerazione troppo elevata del proprio ruolo. Mara è brava e alla lunga tutti lo capiranno». Daniela Santanché, come capita spesso, sceglie la provocazione: «Quando una cretina arriva in un posto importante vuol dire che c'è vera parità. Non dico che la Carfagna sia cretina ma se lei è inadeguata lo sono anche tanti ministri uomini, presenti e passati. Solo che di loro nessuno dice niente. È il solito tiro al piccione contro le donne». Ecco, e gli uomini che ne pensano? «Tutti i ministri di questo governo — dice il giornalista Marco Travaglio — sono scelti con lo stesso criterio, il totale servilismo verso il capo. Sono fotocopiatrici e almeno lei è una fotocopiatrice carina. O si dimette in blocco il governo oppure viva la Carfagna». Antonio Martusciello, di Forza Italia e campano come la ministra, torna alle origini del partito: «Siamo nati proprio per portare nel Palazzo chi non aveva a che fare con le vecchie liturgie della politica. Perché questo deve essere un difetto solo per lei?». Anche Enzo Carra torna indietro con la memoria. A quando lui, all'epoca portavoce della Dc, fu portato in manette in tribunale: «Poveretta, qua si mesta nel fango. E questo è giustizialismo. Anzi, se permettete, manettismo».

Il Mattino 4.7.08
La battaglia degli eroi anonimi
di Aurelio Lepre


«MOSCA 1941». Tra l’estate e l’autunno i nazisti conquistavano ampie zone dell’Urss ma la resistenza delle grandi città rappresentò il primo forte contributo alla caduta e alla sconfitta di Hitler
L’ANALISI STORICA. Braithwaite esamina le ragioni che portarono a questo risultato e il ruolo ricoperto da Stalin Soprattutto risalta l’immagine di un conflitto visto dalla trincea

La seconda guerra mondiale è stata un avvenimento centrale nella storia del XX secolo e ancora oggi ne risentiamo, per molti aspetti, le conseguenze. Finora essa è stata rivissuta nel ricordo, ma la generazione che l’ha conosciuta si va sempre più assottigliando e presto anche questa forma di conoscenza finirà. Si tratta di una forma molto ingannevole, forse non quanto lo sono le ricostruzioni storiche dovute a motivazioni ideologiche e politiche a cui assistiamo spesso. Nell’ambito di una condanna del nazismo e del fascismo diventata ormai generale, è sempre più alto il numero di chi, per ragioni politiche, sottovaluta il ruolo avuto dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Anche per questo motivo bisogna accogliere con favore la traduzione di un’opera come Mosca 1941 di Rodric Braithwaite (Mondadori, pagg. 394, euro 22), che studia una delle battaglie decisive per le sorti della seconda guerra mondiale. Nell’estate e nell’autunno del 1941 i tedeschi conquistarono vastissime regioni europee dell’Unione Sovietica. Le loro truppe assediarono Leningrado, mentre i loro carri armati arrivavano alla periferia di Mosca. La resistenza delle due città fu il primo, fondamentale contributo che i sovietici diedero alla sconfitta di Hitler. Senza la coatta, ma non per questo meno decisiva, alleanza tra Urss, Gran Bretagna e Stati Uniti, è probabile che la Germania nazista avrebbe vinto la guerra o, quanto meno, che essa sarebbe durata molto più a lungo e con esiti imprevedibili. Per questo, se si vuol parlare del secondo conflitto mondiale, occorre farlo tenendo conto di tutti i fatti - come, appunto, la battaglia di Mosca -, anche se essi danno un’immagine oggi poco gradita a questa o a quella parte politica. Senza peraltro enfatizzarli o trascurandone gli aspetti più oscuri. In Mosca 1941 appaiono evidenti sia le colpe di Stalin, nell’impreparazione ad affrontare la guerra con Hitler, che era stato considerato meno pericoloso dell’«imperialismo borghese» nel periodo precedente l’invasione, sia la sua capacità di reagire dopo il crollo psicologico alla notizia che le truppe tedesche, considerate se non proprio amiche almeno non ostili, avevano cominciato ad attraversare le frontiere dell’Urss. Non si tratta, beninteso, nemmeno per questo aspetto, di una rivalutazione del dittatore e del comunismo, ma solo della ricostruzione di ciò che realmente avvenne, del significato e del peso che ebbe allora. Braithwaite si serve sia della documentazione d’archivio (e anche di quella più recente), sia delle testimonianze degli uomini che furono protagonisti di quegli avvenimenti. Ne viene fuori l’immagine molto viva di una guerra vista con gli occhi di coloro che combatterono o ne subirono gli effetti, delle loro vicende quotidiane, dei piccoli, sconosciuti eroismi e delle piccole vigliaccherie. Sullo sfondo però di una società in cui la miscela di un antico nazionalismo (che poteva richiamarsi alla lotta contro Napoleone) e della più recente ideologia comunista, in cui il patriottismo assumeva la nuova veste della resistenza popolare all’attacco «imperialista», creava condizioni di guerra diverse da quelle conosciute da altri paesi europei. Anche nell’Unione Sovietica il ricordo della guerra e della battaglia di Mosca, sebbene i governanti facessero il possibile per tenerlo vivo, andò lentamente svanendo. Nella Russia odierna resta, nei sopravvissuti, nostalgia per giorni che appaiono nella memoria ancora più eroici di quello che furono in realtà. Una di loro ha detto: «Credevamo tutti nella vittoria, credevamo l’uno nell’altro, non sentimmo quell’amarezza e ahimé quella solitudine che si prova oggi». La lettura dell’opera di Braithwaite mostra che amarezza e solitudine ci furono anche allora. Ma questo è uno dei principali problemi che devono essere affrontati dagli storici della seconda guerra mondiale. Se ci si affida troppo alla memoria, si corre il rischio della mitizzazione, positiva o negativa. Se si ricorre solo ai documenti, c’è il pericolo di tenere sullo sfondo quelli che la subirono nella loro carne. Anche i ricordi dei sopravvissuti di Mosca, non sempre coincidenti con ciò che dice la documentazione scritta, ne sono una prova.

giovedì 3 luglio 2008

Comunicato Stampa
LE VOCI DEL RIFIUTO GIORDANO BRUNO


Dopo essere stato messo in scena a Villa Piccolomini nel 2005, al Teatro La Casetta nel 2006 e al teatro Flaiano l'anno scorso, l'atto unico ideato e realizzato da Roberta Pugno viene presentato, con il patrocinio del Comune di Roma e delle Biblioteche di Roma, presso la Casa del Parco a Pineta Sacchetti.
Lo spettacolo si svolge nello spazio retrostante lo splendido casale restaurato recentemente, trasformato per l'occasione in teatro notturno. Alle spalle del pubblico un incredibile paesaggio di distese di campi di grano da cui sorge il Cupolone.
“Le voci del rifiuto” è il racconto dello scontro mortale tra un pensiero che rivoluzionò la visione del mondo e la concezione dell'uomo, e la realtà violenta dell'intolleranza e della falsità.
Lui, filosofo superbo, allegro e appassionato, passa da un'immagine all'altra, da un concetto all'altro: l'universo infinito, la pluralità dei mondi, lo spazio continuo, la sostanza sensibile di cui siamo fatti, la dualità dei contrari, l'incessante trasformazione della materia, l'intelligenza dell'amore.
L'altro, invisibile e nero, con voce immobile ne decreta la fine.
Lei ci viene incontro con passi di danza e movimenti ad arco: da dove nasce il rifiuto? da dove nasce il coraggio? da dove la certezza?
Il suono del sax, che si intreccia alla voce maschile e che accompagna lo stupore della donna, ci dice quanto sia attuale il rifiuto del pensiero religioso e del pensiero razionale.
Di quanto sia indispensabile oggi più che mai la ricerca della bellezza e della “verità”.

Interpreti: eretico impenitente Paolo Izzo; materia d'amore Valentina Vicario; l'Inquisitore Giovanni Vettorazzo
Sax Andrea Mancini
Testo Massimo Caracciolo Anna Maria Di Piazza
Coreografia Francesca Micheletti
Luci suono Alessandro Ugolini
Musiche di scena Luciano Sacchetti

venerdì 11 luglio
ore 20.00 Visita alla mostra di Roberta Pugno con Cinzia Folcarelli
ore 21.00 Rappresentazione
ore 22.30 Brindisi alla Cupola

Inaugurazione mostra venerdì 4 luglio alle ore 18.00
Durata dal 4 al 12 luglio
Orario da martedì a venerdì 9.00-19.00 sabato 10.00-17.00
Sede Casa del Parco Municipio XIX - Pineta Sacchetti via di Pineta Sacchetti 78
tel. 348670189
Sponsor Federlazio di Latina Ibiscos Editrice
Firenze 4 e 5 luglio
venerdì 4 Incontro di Pensare a Sinistra
sabato 5 Seminario nazionale



VENERDì 4 LUGLIO, assemblea di Pensare a Sinistra

Luogo: Firenze

Sede: Palazzo Vecchio, piazza della Signoria, in collaborazione con i gruppi consiliari del Comune di Firenze di SD, PRC, VERDi e Unaltracittà /unaltromondo

Orario: 15-19

- Proposta di organizzazione di Pensare a Sinistra: una rete per la costruzione di una comunità di ricerca politica a sinistra (a cura del gruppo di lavoro: A. Di Corinto, M. Di Paola, T. Fattori, M. Ilardi, S.Levrero)

- Presentazione della traccia di ricerca (preparata da A. Tortorella, M.L. Boccia, G. Marramao)

- Discussione e proposte di lavoro

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SEMINARIO NAZIONALE, 5 LUGLIO 2008

Di chi è la politica? Le diverse forme e modi dell'agire politico

Promosso nell'Assemblea del 19 aprile a Firenze «Per una sinistra unita e plurale» - gruppo di lavoro «Forme della politica» in collaborazione con i gruppi consiliari del Comune di Firenze di SD, PRC, VERDi e Unaltracittà /unaltromondo

Luogo: Firenze

Sede: Palazzo Vecchio, piazza della Signoria


SCHEMA DEI LAVORI

INIZIO: ore 9.30

apertura dei lavori: Anna Picciolini

interventi introduttivi: Maria Luisa Boccia, Pino Ferraris, Paul Ginsborg, Giulio Marcon

GRUPPI DI LAVORO: ore 11-ore 16.30 ( pausa pranzo ore 13.30-14.30)

PLENARIA FINALE con report gruppi di lavoro: ore 17-19

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Adesioni al 1 luglio: Alba Sasso, Aldo Tortorella, Alfonso Gianni, Andrea Alzetta, Andrea Del Monaco, Andrea Montagni, Antonella Signorini, Antonia Sani, Antonio Ferrentino, Aurelio Mancuso, Bia Sarasini, Bianca Pomeranzi, Carlo Peruzzi, Chiara Acciarini, Ciro Pesacane, Dalma Domenghini, Daniela Dioguardi, Davide Biolghini, Elettra Deiana, Elisabetta Piccolotti, Elio Bonfanti, Enrico Lauricella, Francesco Piobbichi, Francesco Raphael Frieri, Franco Russo, Fulvia Bandoli, Gianfranco Bettin, Gigi Sullo, Giorgio Airaudo, Gloria Buffo, Grazia Zuffa, Katia Zanotti, Lalla Trupia, Lidia Menapace, Marco Berlinguer, M.Grazia Campus, Marco Deriu, Maria Rosa Cutrufelli, Marina Pivetta, Marisa Nicchi, Maurizio Acerbo, Mauro Valiani, Mauro Chessa, Michele Di Palma, Nicola Attalmi, Nicola Nicolosi, Paola Patuelli, Paolo Bagnoli, Paolo Cacciari, Paolo Hutter, Piero Di Siena, Piero Manconi, Pietro Folena, Raffaella Chiodo , Renato Cardazzo, Roberta Fantozzi, Roberto Giorgini, Salvatore Bonadonna, Silvana Pisa, Silvano Righi, Stefano Ciccone, Tamar Pitch, Tiziano Rinaldini, Viviana Ciavorella

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INDICE RAGIONATO PROVVISORIO dei Workshop

I quattro workshop esplorano in ambiti diversi un'unica proposta – che la sinistra non può rinascere se non mette al centro della sua attività la creazione di cerchi sempre più estesi di cittadine/i con un approccio profondamente critico rispetto all'organizzazione attuale della società , capaci di lottare insieme per innescare processi di mobilitazione, di rottura e di riforme, e unite/i da modi e regole del tutto nuove per stare insieme in modo democratico e nonviolento.

Modalità : la discussione di ogni gruppo di lavoro è promossa da 4 facilitatrici/facilitatori che hanno il compito di organizzare di presiedere e introdurre la discussione, definire il report per la plenaria finale, predisporre la pubblicazione degli atti ( prossima comunicazione)


Workshop 1: Soggettività , rapporti interpersonali, politica.

Il personale è politico. La necessità di partire dalla soggettività e dai territori della coscienza individuale. La politica non come missione esterna e estraniante ma come realizzazione di un progetto insieme individuale e comune, governato da rapporti interpersonali di rispetto, di auto-disciplina, di non-aggressione, di solidarietà . La cultura del pacifismo non solo come ambizione esterna ma come pratica interna. Le regole che derivano da un'impostazione simile – l'inclusività , l'incoraggiamento alle altre e agli altri a prendere la parola, la rotazione degli incarichi, i tempi concordati degli interventi uguali per tutti, la capacità individuale di contenersi e lasciare spazio. La critica del leaderismo, carismatico e narcisistico, sempre più richiesto dalla politica contemporanea a tutti i livelli e sempre più lontano da qualsiasi modello democratico sostanziale.

Finora non abbiamo saputo praticare quei modelli alternativi di convivenza e tuttora gran parte dei nostri modi di fare politica rispecchiano quelli più tradizionali. La necessità di un ripensamento profondo e l'evolversi di comportamenti e regole diverse. Il contributo del femminismo e del movimento delle donne a questo processo. Donne e uomini nel nostro movimento – valori, disparità , pratiche patriarcali perduranti. La ricerca di una comunità democratica fondata sul sull'uguaglianza tra i generi e il riconoscimento della differenza - non una comunità tout court, falsamente neutra.

Il famoso detto di Clausewitz – 'la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi' – va rovesciato. E' la politica oggi, con le sue pratiche e linguaggio spesso violentissimi, che è la continuazione della guerra con altri mezzi. Come facciamo noi a creare una politica diversa, che si stacchi nelle sue regole e nella sua metodologia dalle violenze che ci circondano?

Una politica intesa come l'opposto della guerra, cioè come modo non distruttivo di gestire i conflitti. Dove inizia la violenza, la coercizione, l'imposizione, la sottomissione…finiscono il dialogo, le «buone relazioni» partecipative e la «buona politica» . Le modalità nonviolente di esercizio del potere come sistema condiviso di regolazione sociale sono il cuore della politica.

Workshop 2: Le vecchie e nuove forme dell'aggregazione politica.

All'inizio del Novecento l'impietosa denuncia di Robert Michels, tuttora di una rilevanza elettrizzante, del grande partito di massa che era la Socialdemocrazia tedesca. Le logiche interne del partito fortemente verticistico e burocratizzato, il suo linguaggio tutto addobbato di un simbolismo militare. La continuità di questo modello per tutto il Novecento europeo, con pochissime eccezioni. La variante del centralismo democratico leninista-comunista, fertilissima per la centralizzazione del potere, molto meno per la democrazia sostanziale. In Italia la funzione educativa di massa del modello partitico comunista per quanto riguarda la solidarietà e la coscienza di classe, l'acculturazione, l'insediamento territoriale, la mobilità sociale (dentro e fuori il partito), ma la sua forte tendenza anche a verticalizzare il potere, a consolidare ruoli tradizionali di genere ed a creare fideismo e leaderismo. Il suo atteggiamento mange-tout verso la società civile e la formazione di una sub-cultura comunista piuttosto che una comunità plurale di cittadine/i critiche.

Mancanza di laicità (non nel senso di rapporto stato-chiesa, ma nel senso di approccio critico).

La ricerca di nuovi modelli di aggregazione che sono in contrasto con l'esperienza novecentesca. Vogliamo proprio salvare la nozione e pratica di partito, e se la risposta è sì, in che forma? Gli esempi di partiti come associazioni, di associazioni come il il partito operaio belga tardo-ottocentesco, analizzati da Ferraris. Le loro basi nella mutualità , nella resistenza di classe, nel federalismo funzionale ed orizzontale. La loro relazione integrante con la società civile – non egemonizzante, non burocratica, senza organizzazioni collaterali. Un partito che cresce dalla società civile e che riesca a rappresentarla in tutta la sua pluralità . Dall'altro lato, le difficoltà di adattare un modello tardo-ottocentesco alle realtà di oggi. La frammentazione delle identità individuali contemporanee, il pericolo di proporre modelli di socialità e di lavoro sul territorio che sono antiquate e superate.

La proposta attuale di un'aggregazione politica basata sulle socialità emergenti e sull'autonomia territoriale e regionale nel contesto di un federalismo sostanziale. La necessità di una forma di organizzazione politica trasparente, Roma-fuggente, che 'decostruisce, cede, decentra, abbassa, distribuisce il potere rendendolo gestibile e controllabile dalle forme di soggettività dirette di autogoverno' (Paolo Cacciari). L'immagine metternichiana del potere che scende in rivoli dall'alto della magnifica fontana imperiale. La nostra contro-immagine dell'acqua che non scende ma sale.

La tensione perenne tra efficacia e democraticità : femminismi, ambientalismi, movimenti non sono riusciti, nonostante i tentativi, a superare il dualismo fra pluralità e unità , lo iato fra perseguimento del più largo consenso e operatività in tempi ragionevoli degli orientamenti. Quali modalità e regole della decisione all'interno di un'organizzazione politica decentrata unitaria e plurale?

Perdurante impermeabilità della politica e dell'economia alle culture dei movimenti degli ultimi quarant'anni.

Workshop 3: Democrazia, partecipazione, deliberazione.

La debolezza attuale della democrazia rappresentativa, minata dall'inefficacia delle istituzioni, dalla pochissima fiducia nella classe politica e nei suoi partiti, dall'autoriproduzione della sfera politica come sfera separata dalla società . La necessità di combinare democrazia partecipativa e democrazia rappresentativa, la libertà degli Antichi con quella dei Moderni. La moda invalsa in tutta Europa di proporre consultazione e partecipazione come rimedio alla debolezza democratica, ma la natura in gran parte fasulla e strumentale di questi tentativi. L'ammonimento del Rapporto indipendente sullo stato della democrazia britannica, Power to the People (2006): 'L'evidenza da noi ricevuta…è che il cinismo popolare nei confronti della consultazione pubblica sia molto forte. Il processo è largamente considerato come privo di significato, dato che è spesso poco chiaro quanto un processo consultivo possa influenzare le decisioni finali prese dai funzionari o dai rappresentanti'

Due parametri sono necessari per identificare un processo di arricchimento democratico attraverso la partecipazione. Il primo, il grado in cui tale processo, mettendo l'accento sulla continuità della partecipazione, contribuisce a creare cerchie sempre più ampie di cittadini critici, informati, partecipi, che dialoghino con politici e amministratori su una base definita di eguaglianza e rispetto reciproco. Il secondo, il grado in cui le prassi deliberative contribuiscono a mutare il comportamento stesso dei politici e l'idea che essi hanno delle loro prerogative e dei loro doveri . Improbabilità , nell'assenza dell'uno o dell'altro parametro, che la sperimentazione deliberativa contribuisca molto al rinnovamento a lungo termine della democrazia.

Uso dei nuovi strumenti di democrazia partecipata per arricchire le nostre forme di democrazia interna. Potenzialità positiva del modello dell' 'Electronic Town Meeting' e di altre forme di 'Open Space Tecnology' , per il coinvolgimento di tante persone che in assemblee 'tradizionali' non prenderebbero mai la parola, nè voterebbero. Invecchiamento e inefficacia dal punto di vista democratico di molte delle nostre attuali forme di aggregazione e processi decisionali. Uso dell' 'e-democracy' ma anche insostituibilità delle riunioni faccia-a-faccia, con nuove modalità comunicative sperimentate nei movimenti e altrove - il cerchio, il giro delle opinioni, i piccoli gruppi….

Workshop 4: Il cambiamento attraverso l'azione riformatrice.

Tradizione socialista e social-democratica delle riforme che scendono dall'alto verso una cittadinanza atomizzata, grata (non sempre) ma passiva. Questo processo come chiave di lettura storica del welfare state europeo. Per contrasto, la proposta dei 'rolling reforms', cioè le riforme che, strada facendo, portano la gente a interessarsi della politica, ad auto-organizzarsi, a prendere una parte attiva e continuativa nel processo riformatore.

Esempio storico dei decreti del 1944 del ministro comunista dell'agricoltura Fausto Gullo, riguardanti la riforma agraria del Mezzogiorno. Uno dei decreti-chiave permetteva ai contadini di occupare terreni incolti o mal coltivati solo se si organizzavano in cooperative di produzione: 'la nuova legge, imponendo ai contadini di organizzarsi in cooperative e comitati per poter usufruire dei benefici previsti, costituì il più robusto incentivo a una loro azione collettiva'.

La tradizione socialista e comunista (Giolitti, Lombardi, Togliatti, ecc.) delle riforme di struttura. Nella loro elaborazione mancanza di riferimento concettuale a una cittadinanza attiva. L'individuo è di nuovo il recipiente non il protagonista dell'azione politica.

Le possibilità delle 'rolling reforms' nell'azione sull'ambiente: la raccolta differenziata e il risparmio energetico, e nella sfera della partecipazione: assessori alla partecipazione che investono in sperimentazioni di auto-organizzazione davvero collettivi e continuativi. Le esperienze della val di Susa e di Vicenza come esempi di coinvolgimento e partecipazione sostanziale dei cittadini rispetto alle amministrazioni.

La necessità di misurare in rapporto alla natura delle riforme eventuali alleanze con il Partito Democratico. Il tema, complesso ma ineludibile, del ruolo dello Stato in relazione alla metodologia delle riforme. La «rivoluzione» come processo riformatore di cui non è possibile prefigurare tutti gli esiti, perchè questi ultimi dipendono anche dai processi partecipativi attivati (Lidia Menapace).

Letture: Questo è un elenco di letture assolutamente parziale. Il legame con i temi dei singoli workshop è puramente indicativo, data la stretta interconnessione fra essi: molte delle letture indicate sono «di frontiera» .

Comunque per il primo Workshop un testo che fa il punto sui vari aspetti è:
Marco Deriu, Dizionario critico delle nuove guerre, EMI, 2005

Per il secondo e il terzo workshop interessanti i contributi contenuti in Alternative per il socialismo, n.5, 2008, da pagina 47 a pag 105 (in particolare quelli di P. Ferraris, M. L. Boccia, L. Raffini).
Testi sicuramente introvabili che sarebbe stato necessario passare allo scanner, vengono indicati solo per sottolineare quanto il dibattito sulle forme della politica sia all'ordine del giorno da almeno 20 anni. Si tratta di tre pubblicazioni del Centro Riforma dello Stato:
Militanza senza appartenenza - n. 6 Materiali e Atti di Democrazia e Diritto - 1986
Il genere della rappresentanza - n. 10 Materiali e Atti di Democrazia e Diritto - 1988
Voce e silenzio. Le donne nella crisi politica degli anni '90 - n. 22 Materiali e Atti di Democrazia e Diritto - 1993
E' esattamente di 20 anni fa un testo di Lidia Menapace, facilmente reperibile in rete:
Lidia Menapace, Divertirsi politicando (per un sistema pattizio di forme politiche) 1988,

In particolare sul terzo workshop:

Stefano Rodotà , Tecnopolitica: la democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione. Laterza, 2004
Luigi Bobbio, Dilemmi della democrazia partecipativa, in Democrazia e diritto, n.4, 2006
Franco Russo, Democrazia identitaria e rappresentanza, in Alternative per il socialismo n. 4, 2008
Paul Ginsborg, la democrazia che non c'è, Torino, Einaudi 2006.

Per il quarto workshop:
Paul Ginsborg, Le riforme di struttura nel dibattito degli anni Cinquanta e Sessanta, in Studi Storici, vol. XXXIII (1992), nos., 2-3, pp. 653-68

Per un approccio di genere, trasversale a tutti i workshop, indichiamo due testi, uno di filosofia politica e l'altro storico, con la consapevolezza di trascurare una bibliografia immensa:
Maria Luisa Boccia, La differenza politica, Il Saggiatore 2002
N. M. Filippini e A. Scattigno (a cura di), Una democrazia incompiuta. Donne e politica in italia dall''800 ai giorni nostri, F.Angeli, 2007

Per informazioni e adesioni: info@xsinistraunitaeplurale.it



LO STORICO "Congressi senza prospettive"
L'affondo di Ginsborg: quanti errori dai leader
di Matteo Bartocci

I partiti della sinistra chiusi in rese dei conti tanto indiavolate quando disastrose, un Pd balcanizzato e imbelle, una società civile stanca e impotente. In queste condizioni contrastare il "berlusconismo che avanza" e ricostruire una "nuova" sinistra è una missione quasi disperata. Paul Ginsborg - con Paolo Cacciari, Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Marco Berlinguer, Pino Ferraris e Giulio Marcon - non molla. E ci riprova il 5 luglio, con un seminario a Firenze nato sull'onda dell'assemblea nazionale convocata ad aprile, all'indomani del cataclisma elettorale.
"Dopo la batosta del voto - spiega il professore inglese - secondo noi era opportuno fermarsi a pensare in modo serio sulle forme e i metodi dell'agire politico prima di passare ai suoi contenuti. Nuove soggettività , crisi dei partiti, democrazia e partecipazione, la natura dell'azione riformista, sono quattro grandi temi della tradizione di sinistra che vanno per forza ripensati subito se vogliamo ripartire".
Professore, in questi giorni si parla tanto di "girotondi". Ma c'è ancora in Italia uno spazio pubblico per il ritorno di minoranze combattive?
Spero di sbagliare, che le cose cambino in autunno, ma credo che non ci siano più le condizioni per una resistenza come quella invocata da Francesco Saverio Borrelli nel 2001-2002. Non è Berlusconi a essere cambiato: è cambiata a fondo la società .
E' d'accordo con chi parla di "regime leggero" (Bertinotti) o vede un rischio "totalitario" per la nostra democrazia (Scalfari e Rossanda)?
Non ho dubbi che sia così. L'anomalia italiana è basata su tre fattori molto semplici, che l'opinione pubblica europea ha tuttora ben presenti. Il capo del governo ha praticato delle cesure profonde con la democrazia come noi la intendiamo: la prima è che insiste esplicitamente nel fare leggi per i suoi interessi e per quelli dei suoi amici. Il concetto liberale dell'equilibrio dei poteri è totalmente sconosciuto al presidente del Consiglio: per lui chi è eletto decide. Un secondo elemento riguarda le televisioni. Sul mezzo di comunicazione più importante della modernità - come dimostrano ancora una volta le vicende di questi ultimi giorni - una sola persona esercita un potere illecito ed esagerato. Le due cose insieme dicono tecnicamente di un regime politico che si discosta nettamente da qualsiasi democrazia rappresentativa europea. La terza anomalia è che chi osa dire queste cose così semplici e veritiere è dipinto dalla destra (ma anche da buona parte della sinistra) come un giustizialista, un estremista o un massimalista. E invece la coscienza di queste anomalie dovrebbe essere assunta da chiunque si dichiari democratico.
A proposito di democratici, le sembra che il Pd assuma questa sua analisi?
Il più grande errore di Veltroni è stato inventare e propagandare un ipotetico Berlusconi statista, saggio, pulito, unificatore. Per Walter la storia degli ultimi vent'anni era da dimenticare, ma la storia non accetta mai di essere sepolta e spesso si prende rivincite terribili. Il partito democratico ora dovrebbe mettere in campo una resistenza ampia insieme a tutte le forze democratiche, progressiste e di sinistra che ci sono, dovrebbe essere il motore di un processo più ampio e inclusivo.
E' un processo però che riguarda innanzitutto i partiti della sinistra. Pensa che in questi congressi si stia sviluppando un dibattito utile?
Non ho proprio parole. Vedo persone molto brave e capaci completamente intrappolate in meccanismi finiti fuori controllo. Sono convinto più che mai che ci voglia un soggetto nostro - federato o unificato che sia - in cui tutti possiamo identificarci e possiamo lavorare. Ma invece di ripartire da un'unità che non ha avuto il tempo di crescere, i partiti si dividono in quattro congressi e decine di mozioni in cui non vedo alcuna prospettiva salvo la divisione ulteriore e la rovina di tanti rapporti. La vecchia leadership dei partiti di sinistra ha gestito in modo pessimo i mesi trascorsi dalla manifestazione dello scorso 20 ottobre fino alle elezioni. Noi a Firenze siamo convinti da sempre che la sinistra è composta da movimenti, partiti e società civile. Ma se i partiti politici implodono, la società civile ha molta difficoltà a "fare da sè". Per questo bisogna cambiare radicalmente le forme della politica, ed è di questo che discuteremo sabato prossimo.

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news: Alberghi: per chi deve ancora organizzarsi ed è in cerca di una proposta alberghiera convenzionata per Venerdì 4 notte:
Hotel Il Fiorino via Osteria del guanto n. 6 tel 055210580
Loro hanno a disposizione una singola e alcune doppie per la notte tra Venerdì e sabato i prezzi sono:
Singola euro 80,00, doppia uso singola 100,00, doppia 115,00

Hotel la Signoria via delle terme n.1 tel 055214530
i prezzi sono Singola 85,00, doppia uso singola 90,00, doppia 100,00

In entrambi i casi sono prezzi in convenzione e quindi chi telefona deve dire che viene al seminario in Palazzo Vecchio

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l'Unità 3.7.08
L’Europa avverte l’Italia «No a differenze su base etnica»
di Paolo Soldini


È confermato: la Commissione europea chiede «chiarimenti» al governo italiano sull’iniziativa di registrare le impronte digitali dei bambini rom. Ne ha dato notizia Antonia Carparelli, capo dell’ufficio brussellese cui è approdato (o meglio: approderà quando Maroni e il resto del governo la smetteranno con l’indegna melina di queste ore) il dossier, e cioè l’Unità inclusione e aspetti sociali dell’immigrazione della Direzione Generale che fa capo al commissario Vladimir Špidla. Ieri, insieme con la Direttrice generale della DG Sanità Paola Testori Goggi e con il rappresentante della Commissione a Roma Pier Virgilio Dastoli, la dott. Carparelli era a Roma per presentare alla stampa italiana l’Agenda sociale europea, un pacchetto di misure contro la povertà e le discriminazioni che contemporaneamente veniva illustrato a Bruxelles. Il tutto un paio d’ore prima che il ministro Maroni si recasse alla Camera a rispondere a un’interrogazione presentata sull’argomento nel question time e, con una ostinazione degna di cause ben più nobili, ripetesse la «gravissima imprecisione» (eufemismo per non dire balla astronomica) secondo cui l’ordinanza per l’«identificazione» dei bimbi nomadi non violerebbe «alcuna norma o direttiva europea».
In realtà ne viola un bel numero, e soprattutto, in modo evidentissimo, quella su cui si basa l’intera politica anti-discriminazioni dell’Unione europea, e cioè la direttiva 2000/43/CE, che ha valore di legge in tutti gli stati dell’Unione e che proibisce espressamente all’art. 1 comma 3 «qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata sulla razza o l’origine etnica» (forse sarebbe utile se Maroni e i suoi pappagalleschi epigoni questa frase se la appuntassero su un taccuino). Il ministro, alla fine del question time, ha anche trovato modo di accendere il suo personale fronte di fuoco con la magistratura attaccando il gip di Verona che ha scarcerato l’altro giorno dei nomadi accusati di aver spinto i figli a rubare. «Continueremo a indagare - ha detto - e controlleremo, ma di più non possiamo fare: siamo nelle mani della giustizia».
Intanto potrebbe cominciare, il ministro dell’Interno, a controllare la coerenza delle sue proprie esternazioni. Alla Camera infatti ha pensato di fare una furbata sostenendo che c’era stato un «equivoco dei giornali» (il Gran Capo docet) e che le misure riguarderebbero non solo i piccoli rom, ma «tutti gli abitanti dei campi nomadi abusivi». Il che però contrasta con quello che Maroni stesso ha più e più volte asserito, e comunque non salva la frittata. Infatti, pure se il ministro per essere coerente ordinasse per assurdo il rilevamento delle impronte digitali di tutti quelli che in Italia sono senza un domicilio ufficiale, italiani o no, incapperebbe in una pratica discriminatoria altrettanto illecita. Non solo rispetto alla normativa Ue ma anche sotto il profilo della Costituzione italiana.
Insomma, più parla e più si mette nei guai da solo. Giustamente i rappresentanti della Commissione, ieri, gli hanno tolto ancora una volta da sotto i piedi il tappeto che il ministro leghista va strapazzando in malo modo da giorni. Dastoli ha messo in evidenza quello che l’«Unità» aveva già scritto ieri, e cioè che il riferimento alla «pratica europea» dietro la quale Maroni aveva cercato di nascondersi riferendosi a un regolamento che effettivamente prevede il prelievo delle impronte digitali anche ai minori è un’altra delle sue - come dire? - «gravi imprecisioni». Il regolamento 380 serve a rendere univoci i criteri di elaborazione dei permessi di soggiorno per gli extracomunitari. Riguardano in minima parte i rom, che all’80% nel nostro paese sono italiani o cittadini comunitari, e non riguardano in alcun modo, ovviamente, i «nomadi». Intanto Špidla, al Barleymont, ribadiva che le norme europee sono «chiare»: «Non si possono stabilire differenze sulla base dell’etnicità». Rispondendo poi a chi gli chiedeva se «è preoccupato» per quanto avviene in Italia, il commissario ha aggiunto che, mentre attende ancora comunicazioni ufficiali, le notizie provenienti da Roma delineano un quadro teoricamente «grave» e «sono tali che sarà importante seguirne gli sviluppi».
Che succederà ora? Il governo italiano, prevedibilmente, continuerà a fare melina e prenderà tutto il tempo possibile per fornire i «chiarimenti» richiesti. A meno che non diventi di per sé punibile la manifesta reticenza del gabinetto Berlusconi (il che però potrebbe avvenire abbastanza presto se le schedature cominceranno ad essere sistematiche e se la Commissione reitererà inascoltata la sua richiesta di spiegazioni), le istituzioni europee non possono adire in proprio alla Corte di Giustizia. Lo può fare però, ricordavano ieri i rappresentanti della Commissione, qualsiasi cittadino europeo, sulla base dell’art. 13 del Trattato in vigore. È ciò che sta già avvenendo in queste ore.

l'Unità 3.7.08
«Il governo Berlusconi criminalizza gli immigrati»
Dura condanna dell’Internazionale socialista al pacchetto sicurezza. «La Ue prenda le distanze»


L'INTERNAZIONALE SOCIALISTA (Is) ha condannato ieri la «politica di criminalizzazione degli immigrati» e le «misure punitive» decise nei loro confronti in Ita-
lia dal «governo Berlusconi», invitando l’Ue a prenderne le distanze. Dopo, dunque, gli attacchi dell’opposizione, dell’Unione europea, della Chiesa e delle varie organizzazioni umanitarie, ieri l’ennesimo affondo contro la politica sull’immigrazione. In una dichiarazione adottata al termine del XXIII congresso dell’Is, si legge: «Noi socialisti democratici non siamo d’accordo con la politica di criminalizzazione degli immigrati -specialmente quando niente è stato fatto per affrontare le cause della migrazione - in quanto ciò equivale a criminalizzare la povertà». E continua: «Per esempio le decisioni prese dal governo Berlusconi di adottare misure punitive contro gli immigranti non debbono diventare la politica delle istituzioni europee».
Il testo critica anche la direttiva sui rimpatri recentemente adottata dal Parlamento europeo che «ha provocato preoccupazione e rigetto in America Latina in merito ai procedimenti di rimpatrio per le loro conseguenze sui diritti umani fondamentali degli immigranti». Si invita inoltre a «garantire pienamente i diritti umani e lavorativi degli immigrati, specialmente dei bambini, includendo quello di non essere separati dalla sua famiglia e tenendo in conto sempre tutti gli aspetti del complesso fenomeno internazionale». Luca Cefisi, coordinatore dell’ufficio esteri del Partito Socialista (PS) ha commentato l’approvazione del documento affermando che «purtroppo il governo italiano viene portato come esempio negativo, non perchè è un governo di centrodestra, ma perchè è l’unico governo europeo, di destra o di sinistra, che sembra sottovalutare i rischi di razzismo e xenofobia, anzi tollera manifestazioni xenofobe che gettano vergogna sul Paese, e rifiuta di prendere in considerazione le dimensioni sociale ed economica del problema migratorio».
L’ex ministro della giustizia spagnolo Juan Fernando Lopez Aguilar, presente al congresso, ha detto all’Ansa di essere «soddisfatto» della dichiarazione rilevando come sia necessario «respingere qualsiasi forma di populismo, xenofobia e discriminazione».

l'Unità Firenze 3.7.08
Impronte ai minori: la storia ci insegni
dii Federico Gelli


Era precisamente l'estate di 70 anni fa e nessuno avrebbe potuto prevedere cosa sarebbe successo di lì a qualche settimana, ma iniziò così: con un censimento, un semplice, apparentemente innocuo censimento. Pochi mesi prima, era il febbraio del 1938, una nota ufficiale del regime fascista aveva provato a rassicurare gli spiriti più inquieti e più avvertiti: «Il governo fascista non pensò mai né pensa adesso di prendere misure politiche, economiche, morali contrarie agli ebrei». Ma poi, dopo che in tutta Italia funzionari e segretari furono messi al lavoro per riempire schede e vagliare questionari, ecco che arrivò il Manifesto della Razza, con le sue dichiarazioni brutali e vergognose («Gli ebrei non appartengono alla razza italiana»), ecco soprattutto che arrivarono le leggi razziali che, promulgate da Vittorio Emanuele nella tenuta di San Rossore, cancellarono di colpo gli ebrei italiani come cittadini.
Non voglio forzare nessun parallelismo tra quelle vicende e l'ordinanza voluta dal ministro Maroni per l'identificazione dei bambini Rom. Voglio persino provare ad accordare il beneficio della buona fede. Eppure non posso fare a meno di ritornare a quelle vicende di ieri per soppesare e valutare cosa sta succedendo nell'Italia di oggi. E sono convinto che le vicende di ieri dovrebbero aiutarci a essere almeno più cauti, uso un aggettivo volutamente debole, in un paese che la vergogna delle leggi razziali l’ha conosciuta.
Per questo concordo pienamente con la domanda che Famiglia Cristiana pone al presidente del consiglio: «Silvio Berlusconi permetterebbe che si prendessero le impronte e ai suoi nipotini?». Mi piacerebbe che lui o chi per lui potessero rispondere. E se poi il problema è davvero quello del bene dei piccoli Rom che non vanno a scuola, inviterei allora il governo a riflettere sui tassi di abbandono scolastico in tante italianissime realtà, soprattutto nel nostro Mezzogiorno. Più decente e più sensata, allora sarebbe l'idea di schedare tutti i minori, a prescindere…
Ci sono decisioni e provvedimenti che reclamano la nostra indignazione e una capacità di mobilitazione. Auspico che la Toscana possa fare la sua parte, in tutto questo. Le premesse ci sono: a partire da quanto la Regione proporrà a tutti già la prossima settimana a San Rossore, con il meeting internazionale dedicato alle discriminazioni razziali, nello stesso luogo in cui 70 anni si consumò la vergogna delle leggi a difesa della razza. Un anniversario ritornato prepotentemente attuale.
*vicepresidente della Regione

l'Unità 3.7.08
Moni Ovadia: «Ci siamo dimenticati che hanno avuto lo stesso destino degli ebrei?»
«Contro i rom, barbarie intollerabile»
di Rossella Battisti


Ha la voce grave, Moni Ovadia, per una volta non ha voglia di scherzare nemmeno un po’. Non è il tempo, non è il luogo, mentre l’Italia sta precipitando nell’imbuto «della barbarie di prendersela con i rom, con i più derelitti, con gli ultimi». Ma davvero, dice Moni, «Maroni crede che gente come Borghezio, Calderoli o Salvini abbiano sentimenti di tenerezza verso i bambini rom?». Dal palco del Palasport a Villorba, due passi dalla Treviso diventata rancorosa e ostile verso gli «altri», c’era anche Ovadia l’altro ieri, e Marco Paolini e Albanese e Bebo Storti, chiamati a raccolta dal giornalista Gian Antonio Stella per parlare di quando gli «zingari erano gli italiani», con 27 milioni di emigranti, quattro dei quali clandestini. Razze, sorta di oratorio civile e comizio di civiltà, ha parlato a quattromila persone nel palasport dato a disposizione da Benetton in un «clima bellissimo, caldissimo». Tra monologhi, riflessioni e canzoni, «cercando di riattivare processi di civiltà in questa barbarie dilagante che non si può più tollerare». Ovadia ha scelto una canzone, sostando poi a lungo sulla riflessione di smetterla con la configurazione dell’ebreo di corte, «quello carino, con lo zucchetto, con il quale ci si fa fotografare insieme per farsi assolvere del passato». Si fa i carini con gli ebrei e e le carinerie al governo di Israele, che ormai è armato fino ai denti, e dunque dalli allo zingaro e al nero... Ma davvero ci siamo dimenticati - continua Moni - che rom e ebrei hanno avuto lo stesso destino? Che sono 500mila i rom morti nelle camere a gas solo perché non hanno trovati altri?
E ancora, l’affondo più doloroso è per un’Italia dalla memoria corta, cortissima, che dimentica che dopo la seconda guerra mondiale erano 743 i criminali di guerra italiani reclamati da africani, slavi, albanesi e greci e nessuno è stato portato davanti ai tribunali «solo perché c’è stata la Resistenza antifascista». I comunisti hanno riportato la libertà in Italia con il sangue dei partigiani, ricorda Ovadia, mentre i fascisti italiani sono stati complici dei nazisti nello sterminare gli innocenti. Troppo facile ricordare le foibe dimenticando quello che c’è stato prima. Troppo semplice dare la colpa ai rom, dimenticando che «i veri criminali sono italiani e si chiamano Toto Riina e Provenzano».
Memoria corta, coscienza sporca: caro Moni, come resistere? «Con tutti i mezzi, manifestazioni, chiamando a raccolta le persone perbene. Ho chiesto all’Arci di indire una marcia per il 7 luglio». Una marcia per chi ha il sogno di vivere in un paese civile, dove si accoglie il disagiato, dove non si emanano leggi sadiche contro chi rappresenta la vera ricchezza del futuro. «L’Europa ha bisogno degli emigranti, sono la sua ricchezza, invece di criminalizzarli e schiavizzarli nei campi di pomodoro...». Non una mobilitazione politica, ma per radunare tutte le persone perbene che hanno a cuore i diritti umani.
Al Pd, l’artista chiede una «voce forte e ferma», perché il nome «democratico» è legato alla Costituzione democratica. Basta con le facilonerie, le distrazioni, la mondanità, ammonisce. Torniamo alla «parte sana» come la chiamava Berlinguer e creiamo alleanze su questa base.

l'Unità 3.7.08
Dalla parte dei bambini. Anche rom
di Luigi Cancrini


Difficile pensare a degli esperti che abbiano suggerito a Maroni di dire pubblicamente che il suo provvedimento è rivolto alla tutela dei bambini rom

I bambini nomadi di cui ricordo di più le storie sono quelli che abbiamo accolto e curato al Centro Aiuto al Bambino Maltrattato e Famiglia. Avevano subito abusi sessuali documentati purtroppo dalle malattie veneree che avevano contratto. Vivono oggi in famiglie che li hanno adottati al termine di processi di cura lunghi e pazienti. Hanno vite sane e normali perché un numero importante di persone competenti si sono occupate di loro. Delle loro vicende e del loro recupero. Come dovrebbe accadere per tutti i bambini che vivono situazioni di difficoltà.
Ho pensato più volte in questi giorni a questi bambini mentre ascoltavo la freddezza ostile di un ministro della Repubblica deciso a “tutelare” l’infanzia che vive nei campi dei nomadi con il più classico dei procedimenti di polizia, la schedatura attraverso le impronte digitali. Chiedendomi che rapporto ci sia fra la rilevazione delle impronte e la tutela dei bambini. Chiedendomi se il ministro sa di cosa parla quando usa parole più grandi di lui come “tutela dei bambini”.
Immaginiamo, per rispondere alla prima di queste domande, l’ufficio di polizia che custodisce le impronte dei minori rom. Le userà, consultando uno schedario, di fronte ad un furto avvenuto in casa del ministro o di un amico del ministro o di una persona comunque di cui il nostro ministro vuole tutelare i beni. Collegare le impronte lasciate nella casa del derubato ad un nome, ad un bambino fornirà forse un aiuto alle indagini anche se è facile pensare che il mandante o i mandanti dei furti non incontreranno difficoltà particolari nell’addestrare i bambini all’uso dei guanti. A nulla serviranno le impronte, invece, nel caso di cui tanto si parla dei bambini che mendicano o che soffrono altri tipi di violenze. Perché?
L’esperienza del Centro Antimendicità del Comune di Roma, quella degli Enti che si occupano quotidianamente dell’inserimento scolastico e della salute dei bambini Rom, quella più specifica dei Centri che si occupano dei bambini (rom e non rom, italiani ed extracomunitari) che subiscono altri tipi di violenze e quella complessiva dei Tribunali per i Minorenni o di abuso dimostra con chiarezza, su migliaia di casi, che identificare il bambino che si vuole tutelare non è mai difficile. Lui/lei sa bene chi è e lo dice e i suoi famigliari, pur negando o minimizzando le violenze, vengono sempre a cercarlo ed a rivendicare il loro diritto ad averlo/a con loro. Nei rari casi in cui la situazione è così grave da metter loro paura semplicemente fuggono. Aprendo le strade all’apertura di una procedura di abbandono e di adottabilità.
Difficile, per chi ha esperienza diretta di questo tipo di situazioni, pensare a degli esperti che abbiano suggerito a Maroni di dire pubblicamente che il suo provvedimento è rivolto alla tutela dei bambini rom. La sua sembra la battuta difensiva di chi, avendo urlato contro persone oggetto di pregiudizio da parte dei suoi elettori più ottusi, cerca di difendersi dalle critiche che inevitabilmente gli piovono addosso. L’unico precedente che so trovare è quello del nazismo che giustificava l’uccisione dei pazienti psichiatrici e degli handicappati gravi dicendo, ai famigliari che protestavano, che lo si faceva per il loro bene, per evitare loro “inutili” sofferenze. Il cinismo che traspare da questo tipo di giustificazione, del resto, è il correlato naturale del razzismo che ispirò allora Hitler ed i suoi e che ispira oggi l’iniziativa politica di un movimento che non è eversivo solo quando parla di scendere in piazza con i fucili. La convinzione di essere figlio di una razza superiore (ariana o padana) e di poter, per questo motivo, giudicare, insultare, sottoporre a procedure umilianti coloro che a questa razza superiore non appartengono si trasforma in una forma pericolosa (e spregevole) di terrorismo ideologico nel momento in cui non è oggetto solo dei discorsi da osteria delle persone con la camicia verde ma anche, che lui lo sappia o no, delle azioni di un uomo di governo. Quelle che andrebbero chieste a gran voce in questa situazione in un Paese civile sono le dimissioni di un ministro che tradisce in modo indecente la costituzione cui ha giurato fedeltà: con le dita incrociate dietro la schiena, magari, come pare abbiano fatto spesso i ministri padani.
Quello di cui poi parleremo ancora un giorno, se un giorno ancora di Politica si riuscirà a parlare, è l’insieme dei provvedimenti necessarii per tutelare sul serio quelli fra i bambini rom (e non rom) che vivono situazioni in cui quella che a loro è negata è soprattutto l’infanzia. Permettendomi io di ricordare, a chi dice che nessuno lo aveva mai fatto, che per due volte ho proposto insieme ad altri parlamentari della Commissione Infanzia, in sede di discussione sulla Finanziaria per il 2007 e per il 2008, emendamenti centrati sul finanziamento di progetti specifici di intervento per l’integrazione dei bambini che vivono in contesti (come i campi nomadi) di particolare difficoltà e che la piccola cifra stanziata per questo scopo dal Governo di Prodi è stata subito cancellata da quello di Berlusconi: con il provvedimento che aboliva l’Ici. Quali che siano le nostre opinioni politiche, quello che non andrebbe dimenticato mai è il principio di realtà ed è il principio di realtà a dirci che tutelare i bambini che vivono in situazioni di grande difficoltà economica, culturale e sociale è possibile solo se si finanziano dei progetti per farlo. Mettendo in campo gli uomini e i mezzi, le competenze professionali e le generosità necessarie per aiutarli a vivere.
L’estate è arrivata e i bambini senza problemi stanno già in vacanza. Il fatto che i più poveri ed i più sfortunati se ne stiano lì nei campi aspettando che i rappresentanti di un paese democratico si occupino di loro solo per identificarli rilevando le loro impronte fa male a me ed a molti altri ma dovrebbe far male soprattutto a chi, godendosi le sue ville ed i suoi paradisi privati, pensava e pensa di poter porre riparo ai problemi del paese con dei provvedimenti che sono semplicemente indecenti. Dall’alto, evidentemente, di un orgoglio mal riposto e di una stupidità che non teme confronti.

l'Unità 3.7.08
Intervista ad Andrea Camilleri
«Subito in piazza, con questo berlusconismo, in autunno rischia d’essere troppo tardi»
di Saverio Lodato


Alla tua età ancora voglia di girotondi?
«No, magari non farò girotondi, però li farò in spirito... Non ho più l’età per fare girotondi e poi per me, con questo caldo, sarebbe letale... Ma mi interessa partecipare allo spirito dei girotondi... ».
Non hai l’impressione che quando la parola «girotondi» viene evocata, ciò equivale a suonare un fortissimo campanello d’allarme sulla cosiddetta emergenza democratica?
«Quale che sia la parola che viene adoperata, rimane il senso di ciò che si vuole fare con questa manifestazione dell’otto luglio a Roma. Chiamatela come volete, le definizioni non sono importanti. Conta la sostanza».
Il centro sinistra è diviso. Il Pd ha detto che non intende partecipare. Furio Colombo, Paolo Flores d’Arcais e Pancho Pardi ritengono invece che sia un appuntamento ineludibile prima dell’autunno.
«Non so perché il Pd non voglia partecipare. Questa è una manifestazione spontanea, organizzata da cittadini certo non più giovanissimi e altrettanto certamente non dediti a violenze di piazza. Quindi anche il Pd potrebbe tranquillamente partecipare. Personalmente parteciperò, senza nessun problema, alla manifestazione autunnale che il Pd dice di volere organizzare... Oltretutto, se mi è concessa la battuta di spirito, a quell’epoca rischiamo veramente di stare freschi, visto che, a mio parere, sarà un po’ troppo tardi».
Andrea Camilleri, arzillo e pimpante come al solito, voce appena arrochita dalle sessanta sigarette giornaliere, non proprio quella che si dice una «modica quantità» , ora si è persino improvvisato poeta, e con risultati apprezzabilissimi, perché Berlusconi e il berlusconismo gli risultano indigesti; li ha sempre visti come la causa fondamentale di una perniciosa diseducazione di massa; ha chiarissimo che l’Italia, continuando così, può solo andare a sbattere, come si dice dalle sue parti.
Perché per te Berlusconi e il berlusconismo hanno sempre avuto il sapore dell’olio di ricino?
«Non tanto il sapore dell’olio di ricino. Quanto il sapore di un anomalia, il sapore di qualcosa che ti resta in gola e non va giù. Pare che l’esperienza di due governi Berlusconi non abbia insegnato nulla agli italiani che lo hanno votato. La polemica, per lui funzionale, contro la giustizia rischia in ogni momento di arrivare a un punto di non ritorno. La mia affermazione che lui non appartiene alla democrazia viene comprovata ogni giorno».
Puoi fare degli esempi?
«Ne faccio solo uno che risale a martedì. Quel giorno il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, fa una preoccupata denuncia nella quale dice che il potere d’acquisto dei salari è enormemente diminuito. Per questo si creano sempre nuova zone di povertà. Benissimo. A queste parole del governatore cosa risponde nella stessa giornata il nostro presidente del consiglio? Che ci sono le condizioni per potere fare un decreto legge sulle intercettazioni. Non ti sembra un ottimo esempio dell’attenzione del premier nei confronti dei problemi dei cittadini nel suo Paese?»
Sono anni che ci provano a soffocare intercettazioni telefoniche e libertà di stampa nel pubblicarle. Ora si è arrivati allo scandalo della vicenda Rai. Visto che ti occupi prevalentemente di parole, «magnaccia», riferito a un presidente del Consiglio, lo trovi un po’ troppo hard come termine?
«Quando presidenti del Consiglio erano persone anche discusse, come Craxi o Andreotti, a chi sarebbe mai venuto in mente di adoperare una parola simile per loro? Io non adopero questo linguaggio ma se qualcuno viene spinto ad adoperarlo vuol dire che qualche buon motivo ce l’ha. E agli scandalizzati di oggi vorrei ricordare che i votanti di sinistra vennero definiti da Berlusconi "coglioni", i magistrati "persone tarate", e, proprio qualche giorno fa, autentica "metastasi"».
Resta il fatto che stavolta Berlusconi l’hanno
votato a stragrande maggioranza.
«Allora devo fare una precisazione: il partito di Berlusconi non ha raggiunto una stragrande maggioranza. Solo che pur non essendo maggioranza, all’interno della sua coalizione, lui personalmente agisce come se avesse il potere assoluto. Ed è proprio questa l’anomalia di cui parlavo prima, difficile da digerire, difficile da accettare. Io personalmente, se si fosse trattato di andare genericamente contro un governo di destra, liberamente eletto dai cittadini, alla manifestazione dell’8 luglio non avrei partecipato, neanche in spirito. Io vado a protestare contro un governo di centro destra monopolizzato da Berlusconi che è totalmente prono ai suoi interessi personali».
Lodo Alfano e norma salva processi, appunto. Ma com’è possibile che a sinistra, periodicamente, qualcuno si convinca che Berlusconi
non è più quello di
una volta?
«Sai, probabilmente molti erano in buona fede nel crederlo. E avranno avuto un amarissimo risveglio dalla loro illusione. Dovevano forse ricordarsi di qualcun vecchio proverbio dei nonni».
Diccene qualcuno.
«Rispondo con un classico, in lingua italiana: il lupo perde il pelo ma non il vizio... E con un classico, in dialetto siciliano: cu nasci tunnu un po’ moriri quadratu...»
Tutto ciò premesso, che giudizio dai dei primi atti di questo governo?
«Ma quali sono stati questi atti di governo? Il tentativo, fallito, di salvare rete quattro? Di economia non ne capisco. So solo che ogni giorno leggo sui giornali, e apprendo dalle televisioni, notizie inquietanti sullo stato dell’economia italiana. Non saranno certamente i tagli alla scuola, alla ricerca, alla sanità, a risolvere il problema dei problemi: la stagnazione dell’economia. In questa direzione non vedo alcun provvedimento del governo, a parte i soliti proclami di Tremonti e Brunetta che riguardano sempre il futuro e mai il presente».
Però il prelevamento delle impronte ai bambini Rom è diventato immediatamente operativo.
«Questo sì, perché equivale esattamente a quello che, come ci racconta Manzoni, capitava durante la peste di Milano. Mentre le persone morivano a migliaia il governo dava la caccia agli untori che, fra parentesi, non erano mai esistiti. Insomma, le uniche cose che questo governo ha fatto sin qui sono quelle remunerative sotto il profilo demagogico... o che interessano personalmente il direttore dell’orchestra...».
E poi, già che ci siamo, perché non prendere anche le impronte a tutti i piccoli figli dei mafiosi?
«Ma tu vorresti mettere sullo stesso piano figli dei mafiosi e figli degli zingari? C’è una differenza abissale fra le due categorie: i mafiosi aiutano la politica, i Rom sono utili alla politica solo demagogicamente ma, purtroppo per loro, non elettoralmente...»
saverio.lodato@virgilio.it

l'Unità Firenze 3.7.08
La sinistra in piazza contro Berlusconi. Il Pd no

In piazza contro le leggi vergogna del governo Berlusconi su giustizia e informazione. Ma non solo: «Manifestiamo anche sulla questione sociale e gli interventi del governo sugli stranieri. La nostra piattaforma è più larga di quella della manifestazione dell’8 luglio a Roma», spiega Massimo Torelli della Sinistra Unita e Plurale. Che insieme a Liberacittadinanza, il Comitato per la difesa della Costituzione e Unaltracittà ha organizzato la manifestazione che stasera a Firenze partirà alle 21 da piazza Ghiberti, per arrivare in corteo al tribunale vicino a Palazzo Vecchio. Finora hanno aderito l’Arci, la RSU dell’Ateneo fiorentino, la FLC-CGIL, l’Università di Firenze-Statunitensi contro la guerra, il Circolo Ricreativo Culturale Brozzi, il Gruppo Consiliare in Palazzo Vecchio PRC, quello di Unaltracittà e di Sinistra Democratica, i Verdi e l’associazione Grosseto per la Costituzione.
Dal Pd non è arrivata l’adesione ufficiale alla manifestazione. «Non ci è giunto nessun invito, eravamo all’oscuro su questa iniziativa», spiega il segretario fiorentino Giacomo Billi. Secondo cui «l’opposizione a Berlusconi deve essere dura, ma in queste forme si rischia di fargli l’ennesimo regalo. Sposo la linea nazionale dettata da Veltroni». Tommaso Galgani

l'Unità 3.7.08
«La Chiesa ha coperto don Ruggero»
di Massimiliano Di Dio


«DOPO AVER denunciato ai miei superiori gli abusi che avvenivano in parrocchia sono stato isolato. Tanto come uomo quanto come sacerdote. Mi fu persino
vietato di esercitare regolarmente le mie funzioni, suscitando in me amarezza, sconforto e un forte disagio. Don Ruggero invece fu sospeso per un mese ma quello è stato solo un atto dovuto. Che non ha prodotto alcun risultato se non quello di dimostrare che chi doveva sapere, in realtà sapeva». Ha paura don Claudio ma non si tira indietro. La sua vita non è più la stessa da quando ha messo nero su bianco davanti ai carabinieri gli abusi commessi negli ultimi dieci anni dentro la parrocchia romana Natività di Maria Santissima. Per quegli episodi don Ruggero Conti, 55 anni, è stato arrestato per violenza sessuale aggravata e continuata. «È tutto un complotto», è stata l’unica reazione del sacerdote finito in manette. «Dopo 11 anni di esperienza, processi vinti e proposte di leggi, non saremo mai scesi in campo per un semplice complotto», replica Roberto Mirabile, presidente dell’associazione onlus La Caramella Buona. A lui don Claudio si è rivolto dopo il muro di silenzio eretto dalle autorità ecclesiastiche e sempre attraverso quell’associazione parla oggi. Intanto, proprio ieri in Procura è stato ascoltato monsignor Gino Reali, vescovo della diocesi di zona (Porto Santa Rufina). Sul contenuto dell’interrogatorio c’è il massimo riserbo. E nel frattempo a Regina Coeli un perito ha visitato don Conti. E tra cinque giorni dirà se le sue condizioni di salute sono compatibili con il carcere.
Don Claudio, cosa l’aveva insospettita?
«Don Ruggero manifestava attenzioni particolari per i minori, che si evidenziavano nel contatto fisico. Ad alcuni di questi episodi hanno assistito gli stessi fedeli della parrocchia. Ad esempio quando ha baciato un ragazzo sulla bocca fuori dal piazzale della chiesa. Oppure quando ha fatto sedere sulle sue ginocchia un chierichetto e gli ha accarezzato la schiena. Io stesso l’ho visto baciargli ripetutamente le mani dentro la segreteria parrocchiale».
Non è stato l’unico episodio al quale ha assistito direttamente.
«In un’altra occasione entrai improvvisamente nel mio ufficio e vidi don Ruggero che aveva le mani all’interno della coscia di un minore. Dopo aver ritirato la mano, si irrigidì ma non disse nulla. Un ragazzo ha raccontato al cugino di un abuso con il parroco. E poi c’era quel gran via vai di minori che senza motivo dormivano all’interno del suo appartamento».
Monsignor Reali ne era al corrente?
«La situazione era conosciuta dal Vescovo, era ormai di dominio pubblico. Molti ragazzi erano in possesso delle chiavi di casa del parroco, copia direttamente consegnata loro dal sacerdote. Una cosa che non ha mai fatto nemmeno con noi vicari. E poi in casa aveva materiale pornografico, canali televisivi che trasmettevano film porno».
La Magistratura ora farà il suo corso. Ma la Chiesa come può combattere la piaga interna della
pedofilia?
«Preferirei non esprimermi in quanto, nonostante l’accaduto, in cuor mio sento ancora la forza di credere nella vera grande missione della Chiesa. Che certo non può essere minata da singoli episodi».
Lei però non è stato ascoltato dalle autorità ecclesiastiche.
«Un aiuto e conforto concreto l’ho ottenuto rivolgendomi all’associazione onlus La Caramella buona, nella quale ho trovato subito un punto di riferimento e il coraggio per procedere nel mio intento di tutelare i ragazzi della parrocchia».

l'Unità 3.7.08
Mehta a Napoli: tagli disastrosi alla cultura
di Elisabetta Torselli


Uno stuolo di archi, fiati, percussioni, un numero impressionante di coriste e coristi. Fa un certo effetto il colpo d’occhio del concerto a doppio coro e doppia orchestra in piazza del Plebiscito, un luogo tradizionale per appuntamenti politici e per happening rock e pop, per riportare la speranza nel cuore di Napoli. Ma ora, per affermare che questa non è solo la città di rifiuti, Camorra e Gomorra, va bene il messaggio della Nona di Beethoven eseguita ieri sera, con diretta televisiva su Raitre, nella grande e centralissima piazza napoletana, da due orchestre e due cori insieme, quelli del Maggio Musicale Fiorentino e quelli del San Carlo di Napoli. Zubin Mehta (il maestro indiano è il direttore principale del Teatro del Maggio) era sul podio, il quartetto vocale era formato da Ingrid Kaiserfeld, Anna Maria Chiuri, Robert Gambill, Juha Uusitalo, Renzo Arbore in giacca color fragola in mezzo agli abiti scuri, ha presentato la serata. Poi, sabato 5 luglio, sullo stesso palcoscenico ci sarà la danza con Roberto Bolle (presente ieri sera) in «Bolle & Friends». Proprio il danzatore era fra gli ospiti di ieri sera insieme a Carla Fracci, Toni Servillo, Lina Sastri, Maria Grazia Cucinotta, Giovanni Minoli, Ferzan Ozpetek. Invece non ha potuto esserci «con rammarico» il presidente della Repubblica Napolitano: esprimendo «fiducia» nella città, dicendosi certo che la serata rilancerà il San Carlo, ha scritto in una lettera che «il delicato momento che la vita istituzionale del Paese sta attraversando mi rende difficile allontanarmi da Roma».
Restano, s’intende, le questioni tecniche legate all’eseguire in spazi così grandi, all’aperto, una musica nata per tutt’altre cornici. Ma sono piuttosto altri aspetti che meritano di essere segnalati. La musica classica che guadagna la prima serata in tv: non è banale. Le scelte diverse che si possono fare per un concerto così: aperto e a ingresso libero, o no?
La sera precedente, il primo luglio, a Firenze, in piazza Signoria a conclusione del 71esimo Maggio, il concerto (sempre Mehta alla guida stavolta «solo» dell’orchestra e coro del Maggio) era libero, liberissimo, e così Beethoven ha dovuto vedersela con chi tranquillamente pretendeva di fendere la folla accalcata per la Nona, magari con il cane, con la bicicletta (addirittura scampanellando), con la pizza e il gelato, in ogni caso con tutto ciò che comporta il fare sempre, convintamente e quasi risentitamente i propri comodi.
A Napoli invece c’è stata la decisione di chiudere la piazza, piazzarci le poltroncine e vendere i biglietti (prezzi da 15 a 100 euro, 9.000 posti a sedere venduti), però mettendo i maxischermo in altri punti della città. Quale delle due modalità vi sembra più «civile»? Questione interessante, ma eccoci tornati ad una parola chiave: alla diffusa, forse un po’ logora e rassicurante, ma sempre valida percezione della Nona, in particolare del suo quarto movimento sull’Inno alla gioia di Schiller, come un simbolo di civiltà, di civiltà europea.
Ne ha parlato ieri mattina a Palazzo San Giacomo, sede dell’amministrazione cittadina, il sindaco Rosa Russo Iervolino e il presidente della Regione Antonio Bassolino, conferendo un’onoreficenza a Mehta, che dal canto suo ha rievocato come Napoli sia stata la prima città europea su cui misero piede, sbarcando in Europa, all’inizio degli anni Cinquanta, otto ragazzi indiani che andavano a studiare in Europa. Uno era lui. Allora il San Carlo poté solo vederlo, oggi questo splendido teatro italiano nato nel Settecento ha il proprio museo che ne ripercorre la storia e ne illustra i cimeli: foto, foto di scena, costumi, bozzetti, locandine, in una mostra che fa da anteprima all’apertura vera e proprio del museo, inaugurata ieri, poche ore prima del concerto, alla presenza del ministro ai Beni culturali Sandro Bondi.
Ma è un momento difficile per la musica in Italia, come dimostrano i tagli ulteriori al Fondo Unico Spettacolo (che per il solo Teatro del Maggio, molto incisivamente colpito, ammonterebbero a 6 milioni di euro). Tagli che ieri Mehta ha definito «catastrofici» invocando la defiscalizzazione dei contributi dei privati ai teatri: idea approvata dal ministro il quale, definendo la collaborazione fiorentino-partenopea «un modello da seguire», ha garantito che il Fus non sarà tagliato (Tremonti lo ascolterà?). Dietro questo concerto c’è Salvatore Nastasi, direttore dello spettacolo dal vivo al ministero, rimasto al suo posto nonostante il cambio di governo, crediamo ascoltato dal suo capo di adesso, Bondi, non meno che dal predecessore, Rutelli. Qualche stagione fa, in un momento difficile per il teatro fiorentino, Nastasi fu il commissario ministeriale incaricato di risolvere quella crisi, così come ora lo è al San Carlo di Napoli. Questo concerto vuole anche essere un’iniezione di fiducia per Napoli e per la musica a Napoli. Ma prepariamoci a tempi sempre più duri.

Corriere della Sera 3.6.08
Giovani e ubriachi. Per scelta
È l'ultima moda del sabato sera, lo fa un ragazzo su 10. Allarme per l'aumento del consumo di alcol dei ragazzini
di Lorenzo Salvia


Il confronto L'Istituto superiore di sanità ha analizzato i dati di oggi e di 10 anni fa: +1,9% di bevitori tra i 14 e i 17 anni
I divieti Carlo Giovanardi vuole recuperare la norma di Livia Turco sull'innalzamento del limite di acquisto da 16 a 18 anni

Ci avviciniamo ai Paesi del Nord Europa ma non è una buona notizia. Anzi. Un tempo per i giovani italiani si parlava di consumo «moderato»: di solito a casa, mezzo bicchiere di vino per il pranzo della domenica, magari sotto lo sguardo orgoglioso di papà e il sopracciglio alzato della mamma. Poi è arrivato il vento del nord: happy hour (paghi meno se bevi il pomeriggio), nuove bibite alcoliche mascherate da simpatici succhi di frutta. E il diffondersi di quella che un tempo si chiamava ciucca del sabato sera e che adesso in termini tecnici prende il nome di
binge drinking: bere non per il piacere di farsi una birra o un prosecco ma con l'obiettivo scientifico di ubriacarsi. I risultati li ha messi in fila l'Osservatorio nazionale alcol dell'Istituto superiore di sanità. Un confronto fra la situazione di oggi e quella di 10 anni fa che fa davvero spavento. Specie per le ragazze e in generale per la fascia d'età più bassa, sotto i 17 anni.
La spesa al supermercato
Considerando l'intera popolazione senza distinzione d'età, la fetta di italiani che dichiarano di consumare alcol almeno una volta alla settimana è stabile, intorno al 70 per cento. Ma non è stabile affatto il dato che riguarda i ragazzi tra i 14 e i 17 anni, passato dal 5,1 al 7 per cento. In dieci anni sono aumentati di quasi la metà. Vale la pena di ricordare (perché non tutti lo sanno e molti fanno finta di non saperlo) che in Italia è vietato vendere alcolici a chi ha meno di 16 anni. Ma da noi si comincia ben prima: 11 anni, contro una media europea che galleggia intorno a quota 13. La situazione diventa ancora più preoccupante se si entra nei locali frequentati dai ragazzi. Nei mesi passati gli esperti dell'Osservatorio nazionale sull'alcol sono andati in giro per le discoteche italiane a intervistare i ragazzi e a studiarne i comportamenti al bancone. Si beve, senza distinzioni d'età e di orario. Con buona pace del limite dei 16 anni e anche di quello che scatta per tutti, maggiorenni compresi, alle 2 di notte. Prima di entrare in discoteca si passa al supermarket a fare la spesona, e anche questa è una moda che viene dal Nord Europa. Birra e superalcolici costano meno. E basta travasare il tutto in bottiglie più piccole per avere il cicchetto sempre a disposizione a bordo pista. Il risultato? Tra i giovani fra i 16 e i 25 anni bevono tre su quattro, il 74 per cento. Se si scende sotto i 15 anni (addirittura un anno meno del limite di legge) non cambia quasi nulla: beve il 67 per cento. La legge praticamente non esiste.
È sabato sera e che sarà mai? Errore. L'Organizzazione mondiale per la sanità ricorda che al di sotto dei 16 anni l'organismo umano non è in grado di metabolizzare l'alcol. Un veleno capace di mandare in tilt il fegato e il sistema nervoso centrale. La capacità di smaltire questa sostanza, che ricorda l'Oms è tossica e potenzialmente cancerogena, si completa tra i 18 e i 20 anni. Per cui anche a quell'età non bisognerebbe bere più di un bicchiere al giorno.
Le cattive ragazze
Per capire come siano le ragazzine i soggetti più a rischio conviene restare vicino agli esperti dell'Osservatorio nazionale sull'alcol nel loro viaggio in discoteca. Abbiamo già visto che beve il 67 per cento dei giovanissimi sotto i 15 anni. In questa speciale categoria le ragazzine fanno peggio dei ragazzini: il 31 per cento di loro supera i due bicchieri contro il 25 per cento dei loro compagni. E con l'età le cose non migliorano. Dieci anni fa diceva di bere almeno una volta alla settimana il 53,7 per cento delle ragazze fra i 18 e i 19 anni. Adesso siamo arrivati al 60,9 per cento. Quello che si impara da piccoli si conserva da grandi. Secondo uno studio del Centro alcologico della Regione Lazio non rinuncia ad almeno un bicchiere di vino al giorno la metà delle donne incinte. Con il risultato che 47 bambini ogni mille nascono con la cosiddetta sindrome fedoalcologica, e cioè problemi vari che vanno dai deficit di apprendimento alle difficoltà di socializzazione. Alcolizzati senza mai aver preso un bicchiere in mano.
Il record del Nord Est
È un altro segnale di come la situazione stia peggiorando. Il binge drinking, bere esclusivamente allo scopo di ubriacarsi, è cresciuto nel 2007 di circa il 5 per cento rispetto a dieci anni prima. Una pratica che si ferma all'1,9 per cento dei ragazzi, ma forse sarebbe meglio chiamarli bambini, tra gli 11 e i 15 anni. E che raggiunge il valore più alto (17,2 per cento) tra i 20 e i 24 anni, quando ormai i ragazzi sono diventati professionisti e si buttano sui cocktail. Il fenomeno è più diffuso nel Nord Est, dove coinvolge un ragazzo su dieci al di sotto dei 29 anni. Un po' meno nel Nord Ovest (8,6 per cento) e al Sud dove si ferma al 7 per cento.
Problema europeo
Non è certo una consolazione ma il boom dell'alcol fra i giovani non è un problema solo italiano. In Grecia gli ultimi da di intervenire. Anche l'Unione Europea ha detto la sua. Con numeri che non hanno bisogno di commenti: nel vecchio continente un giovane su quattro tra quelli che muoiono tra i 15 e i 29 anni muore a causa dell'alcol, una buona metà dopo un incidente stradale provocato dalla guida in stato d'ebbrezza. E a chi sostiene — a ragione, certo — che le industrie del settore danno lavoro ad un buon numero di persone, l'Ue ha risposto sullo stesso terreno, quello inattaccabile dell'economia: il consumo di alcol, in termini di cure mediche, costa ai Paesi dell'Ue il 5 per cento del Pil. Da qui l'invito (ottimistico) di ridurre a zero il numero dei bevitori sotto i 15 anni entro il 2010.
Il limite d'età
E in Italia? Alla fine dell'anno scorso l'allora ministro della Salute Livia Turco aveva proposto di innalzare da 16 a 18 anni l'età minima per poter acquistare alcolici. Non se ne è fatto nulla. Resistenze trasversali e anche la scelta di una linea diversa: prevedere sanzioni più severe per chi guida in stato d'ebbrezza. Ma i giovanissimi non guidano e quindi per loro nessuna novità. Il nuovo governo potrebbe riesaminare la pratica: «Portare il limite di acquisto dai 16 ai 18 anni mi sembra una buona idea» dice Carlo Giovanardi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle tossicodipendenze. «Così come sarebbe bene — aggiunge — estendere il divieto nelle discoteche dalle due in poi, non solo per i minori ma per tutti, anche a pub, bar e chioschi vari». Proprio i posti dove i ragazzini vanno a fare la scorta prima di lanciarsi in pista.

Repubblica 3.7.08
Il principe senza legge
di Stefano Rodotà


È un´amara estate per chi contempla il panorama costituzionale, sconvolto da iniziative, mosse, parole che ne stanno alterando la fisionomia. La riforma del sistema politico, con il risultato delle elezioni, è stata compiuta senza atti formali, senza bisogno di cambiamenti della legge elettorale. E mentre si discute di un dialogo bipartisan come condizione indispensabile della riforma costituzionale, questa viene implacabilmente realizzata da un quotidiano e unilaterale esercizio del potere.
La forza delle cose si impone, gli equilibri democratici vacillano. Stanno cambiando gli assetti al vertice dello Stato, con una lotta tra poteri costituzionali che non ha precedenti nella storia della Repubblica. Vengono travolti principi fondativi come quelli dell´eguaglianza e della solidarietà. Cambia così l´assetto della società, non più fatta di liberi ed eguali, rispettati nella loro autonomia e nella loro dignità, ma di nuovo ordinata gerarchicamente, con gli ultimi, con i dannati della terra posti in fondo alla scala sociale-immigrati, rom, poveri.
Non è un fulmine a ciel sereno. Da anni, molte forze lavoravano per questo risultato, molti apprendisti stregoni davano il loro contributo. Si pubblicavano libelli contro la solidarietà; si ridimensionava, fin quasi ad azzerarla, la portata del principio di eguaglianza; si accettava senza batter ciglio che la Costituzione fosse definita "ferrovecchio" o "minestra riscaldata"; la difesa dei princìpi si faceva sempre più tiepida; si diffondeva in ambienti altrimenti insospettabili la convinzione che la logica del mercato imponesse la riscrittura dell´articolo 41 della Costituzione, apparendo evidentemente eccessivo che la libertà dell´iniziativa economica avesse un limite invalicabile addirittura nel rispetto della sicurezza (e le morti sul lavoro?), della libertà, della dignità umana.; si accettava che le commissioni bicamerali mettessero allegramente le mani sulla delicatissima materia della giustizia. Gli anticorpi democratici si indebolivano e i difensori della logica complessiva della Costituzione venivano definiti "nobilmente conservatori", con una formula apparentemente rispettosa, ma in realtà liquidatoria. È una storia che comincia ai tempi della "Grande riforma" craxiana, e che oggi sembra giungere a compimento.
È come se si fosse aperta una voragine nella quale precipitano masse di detriti accumulate negli anni. Tutta la Costituzione è sotto scacco, a cominciare proprio dalla sua prima parte, quella dei princìpi e dei diritti, che pure, a parole, si dichiara intoccabile. Tutto è rimesso in discussione. La dignità sociale e l´eguaglianza tra le persone, a cominciare da ogni forma di discriminazione fondata sulla razza e sulla condizione personale. La libertà d´informazione, considerata non solo sul versante dei giornalisti, ma in primo luogo dalla parte dei cittadini, titolari del fondamentale diritto di controllare in modo capillare e diffuso tutti i detentori di poteri: "la luce del sole è il miglior disinfettante", diceva un grande giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, riferendosi non solo alla corruzione, ma a tutti gli usi distorti del potere pubblico e privato. La libertà personale e quella di circolazione, sulle quali incidono fortemente le diverse tecniche di sorveglianza. La libertà di comunicazione, colpita non solo e non tanto dalle intercettazioni, per la cui diffusione lo scandalo è massimo, ma dalla implacabile, continua raccolta e conservazione per anni dei dati riguardanti telefonate, sms, accessi a internet, che davvero configurano una società del controllo e di cui nessuno sembra preoccuparsi.
Può una democrazia sopravvivere bordeggiando sempre più ai margini estremi della legalità costituzionale, sempre alla ricerca di qualche aggiustamento che non la maltratti troppo, e così perdendo progressivamente il senso stesso di quella legalità che dovrebbe da tutti essere vissuta come limite invalicabile? Chi si prende cura di questa democrazia che, di giorno in giorno, si presenta con i tratti delle sue pericolose degenerazioni, che la fanno definire come autoritaria o plebiscitaria, che conosce quegli intrecci perversi tra politica e uso delle tecnologie della comunicazione che sono la versione più aggiornata del populismo?
Se facciamo un piccolo, e confortante, esercizio di memoria e riandiamo a due anni fa, al giugno del 2006, ci imbattiamo nel referendum con il quale i cittadini italiani respinsero una riforma costituzionale che andava proprio in quella direzione. Rilegittimata dal voto popolare, la Costituzione del 1948 sembrava avviata al più ragionevole destino di una sua buona "manutenzione". Ma, da allora, sembra passato un secolo. La Costituzione è stata messa in un angolo, le file dei suoi difensori si assottigliano e sono in difficoltà. La legalità, costituzionale e ordinaria, non è più un valore in sé. Viene ormai presentata come una variabile dipendente dal voto. Le elezioni non sono più un esercizio di democrazia. Diventano un lavacro, l´unto dal voto popolare deve essere considerato intoccabile. Torna tra noi il principe sciolto dall´osservanza delle leggi, e quindi legittimato a liberarsi di quelle che contraddicono questa sua ritrovata natura. È qui il vero senso del cambiamento: non nel fastidio per questo o quel tipo di controllo, ma nel radicale rifiuto di correre i rischi della democrazia.
Delle telefonate del Presidente del consiglio mi inquietano molte cose, ma soprattutto il fatto di essersi posto al centro di un sistema di feudalità dal quale nasce, quasi come una conseguenza inevitabile, la pretesa dell´immunità. Un corteo lo accompagna nel tradurre in fatti questa sua pretesa. Scompare il governo, integralmente sostituito dagli scatti d´umore del suo Presidente, che ne muta le deliberazioni a suo piacimento, che lo vede come puro luogo di registrazione. La tanto pubblicizzata approvazione in soli 9 minuti dell´intera manovra economico-finanziaria del prossimo triennio è stata presentata come un miracolo di efficienza, mentre era la prova della scomparsa della collegialità della decisione, della discussione come sale della democrazia: non un segno di vitalità, ma di morte, come i 21 grammi che si perdono appunto nel morire, raccontati nel film di Alejandro Gonzalez Inarritu. Il Parlamento ha clamorosamente rinunciato ad esercitare la sua funzione di controllo e di filtro, sembra ignorare il fatto che il procedimento legislativo non è cosa di cui il Presidente del consiglio possa disporre secondo la sua volontà.
I controlli scompaiono. Vecchia aspirazione d´ogni potere. La magistratura non deve essere liberata dai suoi problemi, responsabilizzata nel modo giusto. Deve essere presentata come il vero demone che attenta alla democrazia, aggressiva e inefficiente, quasi che i suoi molti limiti non dipendessero da una lunghissima disattenzione del potere politico che l´ha fatta marcire nelle sue obiettive difficoltà, che ha progressivamente azzerato la propria responsabilità appunto politica e ha preteso di sciogliersi dal controllo di legalità in quanto tale. Gli anni di Mani pulite sono rappresentati come un golpe, azzerando la memoria degli abissi di illegalità che furono disvelati. E la totale normalizzazione della magistratura diventa la via attraverso la quale passa, con la minacciata disciplina autoritaria della diffusione delle intercettazioni, anche la normalizzazione del sistema della comunicazione. Poco e male informati, i cittadini sono pronti ad essere usati come docile "carne da sondaggio", per applaudire le decisioni del principe secondo la più classica delle tecniche plebiscitarie.
A custodire Costituzione e legalità rimangono il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Ma questo non è un residuo segno di buona salute, è anch´esso il sintomo d´una patologia. La democrazia non può ritirarsi dal sistema in generale, rifugiandosi in alcuni luoghi soltanto. Ma da qui si può e si deve comunque ripartire, soprattutto se la voce dei cittadini e dell´opposizione riuscirà a trovare i toni forti e giusti di cui abbiamo bisogno.

Repubblica 3.7.08
La Rossanda e l'allarme di Umberto "Gran brutta aria, regime ancora no"
"Se il 47% degli italiani rifiuta i rom, bisogna battersi contro di loro"
Gli intellettuali sul rischio-autoritarismo. La fondatrice del "manifesto": con Di Pietro in piazza mai
Lo scrittore Matvejevic: in Italia solo l'involucro della democrazia
di Alessandra Longo


ROMA - Difficile non confrontarsi con le parole di Umberto Eco. Difficile non chiedersi se davvero noi italiani siamo con un piede nel burrone, se davvero la democrazia qui, adesso, è in pericolo. «Non siamo ancora al regime – dice Rossana Rossanda – ma ci sono molti segnali di avvicinamento. Siamo al limite, tira un´aria brutta. Trovo importante che Eco sia intervenuto. Il rischio c´è. E a preoccuparmi non sono solo le gesta di Berlusconi, di La Russa, della "banda" che ci governa, ma il guasto profondo che si è prodotto nella società italiana, nell´opinione pubblica». Da Parigi, dove ormai vive quasi in pianta stabile, senza tuttavia perdere nulla di quel che succede in Italia, Rossanda vede un Paese incline al «populismo», in cerca del «capro espiatorio», «del poveraccio, del diverso», su cui far convergere frustrazioni, rancori, paure: «Se è vero che il 47 per cento degli italiani prova repulsione all´idea di vivere accanto a un Rom, allora bisogna battersi contro quel 47 per cento, ribellarsi all´egoismo, all´individualismo, risvegliare le coscienze».
Una democrazia, quella italiana, che scivola lentamente in altro. Dice Eco che «la maggioranza ha diritto di governare», ma altra cosa è il sentirsi depositari dell´unica verità. Dacia Maraini si farà prendere pubblicamente le impronte, il 7 luglio prossimo, a Roma, come atto di protesta contro uno dei provvedimenti più odiosi decisi da questo governo, la schedatura dei piccoli Rom. E´ d´accordo con Eco: «Questo Paese è borderline dal punto di vista della democrazia. Berlusconi non tiene conto di nulla, è un estremista, gestisce l´Italia come fosse una sua azienda. Maggioranza non può essere diritto di impunità, non è dominio sulla minoranza, non implica l´uso personalistico, poliziesco della politica».
La storia non si ripete o, semmai, si può ripetere in farsa, «ma anche le farse, a volte, possono essere inquietanti», avverte Rossanda che attribuisce un certo torpore etico anche alla scomparsa dei comunisti alla Berlinguer: «Potevi non essere d´accordo con loro, ma il Pci di allora, con le sue denunce, ti faceva sentire in colpa, agitava le coscienze». Oggi gli anticorpi sembrano minori. Che serva il ritorno alla piazza? «Se fossi a Roma – dice Rossanda - non andrei alla manifestazione dell´8 luglio perché intravvedo in Di Pietro un´idea della democrazia alimentata dalla vendicatività che non condivido». A ognuno il suo. Vincenzo Cerami pensa che, «per carità, un girotondo vada benissimo» ma da un «grande partito come il Pd, doverosamente dotato di senso delle responsabilità istituzionali, ci si attende una manifestazione alta, matura». Eco, dice Cerami, ha ragione quando fiuta il pericolo-regime in Italia ma l´immagine di «una minoranza che non osa reagire» non si applica certo all´opposizione veltroniana che, a mio avviso, non è né paciosa né tranquilla. Io dico: una manifestazione il Pd la farà, con i suoi tempi, con i suoi modi, senza un linguaggio impulsivo. Lasciamo che la maggioranza si cuocia nel suo brodo, lasciamo che vengano più allo scoperto...».
Lo scrittore Predrag Matvejevic, che ha conosciuto il regime croato di Tudjman e l´aria irrespirabile dei Paesi dell´Est, e ha ricevuto la cittadinanza italiana dal presidente Napolitano, tifa per un´Italia più reattiva: «Una democrazia a rischio può scivolare facilmente in quello che io chiamo "democratura" dove tutto sembra come prima, dove si proclama con forza il rito della democrazia ma, in realtà, è rimasto solo l´involucro».

Repubblica 3.7.08
Per la Cina io non esisto
Intervista al Premio Nobel Gao Xingjian
Un esilio lungo vent'anni
di Federico Rampini


"Nel mio paese sono una non-persona Hanno cancellato il mio nome dall´elenco dei Nobel, ma io non sono un dissidente, solo uno scrittore"
"Dopo i fatti di Tienanmen il Governo ha ripreso a esercitare un controllo duro"
"Gli studenti cinesi all´estero sono tutti iscritti al partito e si controllano tra loro"

AGLIANA (PISTOIA). Esiste una Grande Muraglia invisibile che impedisce la comprensione fra l´Occidente e la Cina? Noi e loro siamo destinati a non capirci perché i nostri linguaggi, i sistemi di valori, i contesti storici delle due civiltà sono troppo distanti? Il teorema dell´incomunicabilità ha avuto un revival in tempi recenti, da quando si è visto che il formidabile sviluppo economico cinese non sfocia automaticamente nella evoluzione politica verso la liberaldemocrazia. I leader della Repubblica Popolare difendono da tempo una presunta e irriducibile diversità dei «valori asiatici» per respingere le critiche sui diritti umani e le libertà. Pochi possono affrontare questo tema con la lucidità di Gao Xingjian, il premio Nobel cinese della letteratura.
Romanziere, commediografo e pittore, Gao vive in esilio a Parigi dal 1988. L´esperienza della diaspora ne fa un osservatore acuto dei due mondi. Lo incontro ad Agliana, dove è venuto ad assistere alla messa in scena de La Fuga (Titivillus Edizioni, traduzione di Simona Polvani), il suo dramma ispirato alla rivolta di Piazza Tienanmen.
Lei parla perfettamente francese eppure da vent´anni continua a scrivere in mandarino. La distanza linguistica è il segnale che ci sono idee, vicende, rappresentazioni del mondo che restano «intraducibili» al di fuori del contesto storico in cui sono nate?
«Non sottovaluto le difficoltà della traduzione. Ma dagli ostacoli grammaticali, lessicali e sintattici non bisogna estrapolare delle conclusioni estreme. Capire la Cina, per un europeo di oggi, non è più difficile di quanto lo sia per voi stessi capire la Grecia antica: anche quello indubbiamente era un mondo assai diverso. Del resto anch´io sono in grado di leggere e di amare i classici greci. Non ci sono delle vere barriere per la comunicazione tra Occidente e Oriente. Io sono un esempio di questa possibilità. Sono interessato da sempre alla cultura occidentale, ma anche a quella sudamericana, africana, e conosco in parte quella indiana».
Dunque lei che cosa risponde a chi teorizza che i valori occidentali non si possono esportare a Pechino?
«L´impressione dell´incomunicabilità tra i due mondi è una creazione della politica. E´ evidente l´interesse che ha il regime di Pechino a far credere che le civiltà sono compartimenti stagni. La storia ci ha dimostrato più volte il contrario. Nel passato i missionari cattolici hanno tradotto e hanno permesso di conoscere in Occidente molti filosofi classici cinesi; insieme hanno tradotto in cinese i testi religiosi europei. Questo poteva avvenire perché certe dinastie imperiali del passato erano meno totalitarie della Repubblica Popolare. Nella Cina contemporanea ci furono una certa riapertura, una maggiore libertà di circolazione delle informazioni e degli scambi dopo la morte di Mao Zedong. Poi vennero i fatti di Piazza Tienanmen e il Governo ha ripreso a esercitare un controllo molto forte. Può esserci un dialogo tra culture, poiché le relazioni si fondano su un tessuto comune: è la natura umana che è la stessa, ed è universale. L´unica vera barriera tra di noi è politica».
Lei è l´unico autore cinese ad avere ricevuto il Nobel. Negli ultimi vent´anni l´atteggiamento del regime nei suoi confronti non è mai cambiato?
«Io in Cina ufficialmente non esisto. Continuo a essere invisibile, una non-persona. Nelle enciclopedie, nei testi di storia letteraria, o negli archivi dei giornali, hanno cancellato il mio nome dall´elenco dei premi Nobel della Letteratura. Quindi per i cinesi il Nobel del 2000 non fu mai assegnato. Quando vado a Hong Kong - l´unica città cinese dove mi è consentito rientrare per il suo statuto autonomo - ci sono dei connazionali che vengono ad ascoltarmi, a dialogare con me. Possono farlo a patto che non scrivano nulla su di me quando tornano a casa. In questo senso qualcosa è cambiato. Il dibattito tra i cinesi, nella loro vita privata, è certamente più libero e disinvolto rispetto ai tempi del maoismo. Ma tutto ciò che diventa pubblico è ancora sottoposto a un controllo e a limitazioni stringenti».
Perfino fare i conti con il maoismo continua a essere difficile. Lei con Il libro di un uomo solo è una delle rare eccezioni.
«Il mio Libro di un uomo solo non è un diario né un reportage, è un romanzo, quindi una rielaborazione in forma narrativa, ma effettivamente vi racconto la mia esperienza di quel periodo. Sul nazismo sono stati scritti decine e decine di libri che raccontano le sue atrocità, sul maoismo la letteratura è ancora povera. Con il mio romanzo ho voluto lasciare una testimonianza sull´orrore della Rivoluzione culturale. Ho cercato di andare fino in fondo. Ho provato a far capire quali siano le ragioni per cui un regime può arrivare a controllare milioni di persone e ridurle a niente. La Cina dopo la morte di Mao Zedong voleva far credere al resto del mondo che era cambiata ma non lo era abbastanza; alcuni meccanismi della paura e del controllo sociale sono in opera anche adesso. Perciò leggo poco di quello che si pubblica oggi nel mio paese. Quando la condizione preventiva per riuscire a essere pubblicati è la disciplina dell´autocensura, manca una condizione per il fiorire della creazione artistica».
Nel testo teatrale La Fuga c´è la denuncia della repressione ma c´è anche una visione disillusa, perfino cinica, sulle varie componenti che confluirono nella rivolta di Piazza Tienanmen nel 1989. Per questo lei si attirò le critiche di alcuni dissidenti. Nel mondo degli esuli lei rimane abbastanza isolato, un caso a parte.
«Ho sempre rifiutato di farmi rinchiudere nella definizione del dissidente. E´ un marchio nel quale non mi riconosco. Questa mia scelta non riguarda solo la Cina, ma più in generale la questione dell´impegno politico dell´artista. Io sono convinto che anche nell´arte dobbiamo essere capaci di superare il Novecento, il secolo delle grandi guerre ideologiche. Quando rileggo Brecht o Sartre m´imbatto troppo spesso in pagine irrimediabilmente datate, perché le loro posizioni sono vecchie, palesemente sbagliate, insostenibili. Brecht lo ammiro tuttora come un genio dell´innovazione teatrale, eppure la sua militanza politica in qualche modo impoverisce la sua opera. Io rifiuto tutti gli "ismi". Credo che lo scrittore deve riuscire a raccontare una vicenda umana - anche piccola, modesta, del tutto privata - ma che si possa forse rileggere mille anni dopo come una storia universale che continua a interessarci».
Molti occidentali sono rimasti turbati da quanto è avvenuto negli ultimi mesi in Cina. Dopo la rivolta del Tibet e la repressione scatenata dal governo di Pechino, si è avuta la sensazione che la maggioranza dei cinesi siano solidali del regime in nome del nazionalismo. Un´impressione rafforzata durante le contestazioni contro la fiaccola olimpica a Londra, Parigi, San Francisco: da una parte c´erano i militanti dei diritti umani, ma in difesa della fiaccola si sono schierate le comunità degli emigrati e degli studenti cinesi all´estero, una forte manifestazione di patriottismo e di compattezza nazionale.
«Io sono uno scrittore, non un giornalista. Non so trovare risposte precise, spiegazioni dettagliate di questi eventi. Io vi invito a non fermarvi alle apparenze. Bisogna sempre chiedersi cosa c´è dietro, quali interessi sono in gioco, quali forze stanno muovendosi. Ci sono stati dei segnali sul ruolo che le ambasciate cinesi hanno svolto per mobilitare i connazionali all´estero. Gli studenti cinesi che frequentano le università occidentali grazie alle borse di studio, che lo sappiate o no, sono spesso iscritti al partito comunista. Si sorvegliano reciprocamente, molti di loro sanno che dovranno tornare in patria. In quanto agli immigrati cinesi che sono scesi in piazza per difendere la fiaccola a Parigi o altrove, molti lavorano nel commercio. Hanno bisogno di intrattenere buoni rapporti con la Repubblica Popolare che è la fonte dei loro affari. Scavando sotto il nazionalismo spesso si trovano scelte di convenienza, interessi economici. Credo inoltre che il governo cinese stia utilizzando i Giochi per far crescere il nazionalismo in Cina e nei cinesi che vivono all´estero. Se inizi a parlare di ideologia, anche in Cina, nessuno ti sta a sentire, ma se parli di interessi allora è facile catturare l´attenzione».

il Riformista 3.7.08
Brava Comencini
Finalmente la fine del comunismo
di Filippo La Porta


L'illusione del bene di Cristina Comencini (Feltrinelli), stasera in lizza per il Premio Strega, è il primo romanzo che racconta il lutto di un'idea, e in particolare dell'idea di comunismo, così pervasiva e direi «fondante» nella storia italiana ed europea. In ciò è un romanzo fortemente «realistico» oltre che «di idee».
Quando si accusa la letteratura italiana di scarso realismo non bisogna infatti intendere per «realtà» solo quella della cronaca. Altrimenti il successo attuale del reportage, e di un libro come Gomorra , basterebbe a compensare una lacuna del genere. No, per «realtà» intendo anche i grandi temi e conflitti del nostro tempo, troppo spesso ignorati dai nostri scrittori «minimalisti»… Prendiamo proprio la fine del comunismo, esemplificata dalla Caduta del Muro nel 1989. Un evento che ha modificato in modo irreversibile il nostro immaginario e le nostre mappe ideologiche (ad es. il tentato golpe contro Gorbaciov in Russia, nell'agosto del '91, ad opera della nomenklatura comunista, venne giustamente considerato «di destra»…). Da quel momento due o tre generazioni si sono ritrovate quasi all'improvviso prive di una «fede», di un sistema di credenze e certezze granitico, di una ideologia che era stata la più compiuta secolarizzazione degli assoluti religiosi… Alfonso Berardinelli ha osservato che oggi in Occidente il comunismo, come del resto il fascismo, ha a che fare con una psicopatologia. La sua sembra una ritorsione postuma contro quei regimi che rinchiudevano in manicomio i propri dissidenti. Ma, al di là del paradosso, indica una verità inoppugnabile. Dopo l'89, dopo lo sbriciolamento dei socialismi reali (e il loro svelare universi di corruzione e miseria inimmaginabili), appare ben arduo dichiararsi in buona fede comunisti. È una bugia e una distorsione della personalità prima ancora di un errore politico e morale. Anche perché, aggiungo, non serve neanche più per opporsi all'esistente: negli ultimi anni i critici più irriducibili della società sono stati intellettuali radicali che non hanno nulla a che fare con il marxismo (Lasch, Illich, Sachs, Chomski…).
Il protagonista del romanzo si congeda non tanto dalla «illusione del bene» quanto dalla illusione del bene quando diventa sentimento collettivo, teoria prescrittiva, insomma pretesa pedagogico-autoritaria di raddrizzare la natura umana. Inseguendo il tenue filo dei propri ideali giovanili, spogliati del loro involucro ideologico, il protagonista ritrova un dialogo inaspettato con chi dall'altra parte del Muro, e proprio nel '68, aveva la stessa ansia di ribellione e di utopia, benché chiamata con nome diverso. La Comencini affronta intrepidamente una problematica così impegnativa attraverso una storia avvincente, in cui le idee si sciolgono «naturalmente» in destini concreti; e usando una prosa cordiale, affabile ma non perciò pacificata o priva di dissonanze. Credo che per questo meriterebbe un riconoscimento