domenica 6 luglio 2008

l'Unità Roma 6.7.08
Una valanga di impronte vi sommergerà
Domani a piazza Vittorio la raccolta dei «segni identificativi dattiloscopici»
L’iniziativa dell’Arci e della Associazione deportati ha raccolto migliaia di adesioni
di Luciana Cimino


Camilleri e Celestini, Dacia Maraini e Moni Ovadia, il partito radicale, il partito democratico, la Sinistra Arcobaleno, i sindacati, le associazioni delle popolazioni rom e sinti

Una valanga d’impronte li sommergerà. Non quelle dei bambini rom e sinti che vogliono schedare, ma quelle di tutti i cittadini di Roma indignati per il piano sicurezza del governo e in particolare per questo provvedimento su cui anche il Commissariato Europeo ai diritti umani e quello agli affari sociali avevano espresso forti perplessità. L’idea è di Arci e Aned (Associazione nazionale ex deportati) che chiamano all’appello la società civile organizzando una "schedatura" pubblica e volontaria di tutte le persone che condividono la protesta. Alla manifestazione sarà presente, con una delegazione, il presidente della Federazione Nazionale Rom e Sinti Insieme, Nazareno Guarnieri, e l’artista rom Antun Blasevich terrà una performance. Le impronte digitali raccolte saranno inviate al ministro dell’Interno Roberto Maroni, autore e fervente sostenitore della norma, su una cartolina con il messaggio: «Non toccate i bambini rom e sinti. Prendetevi le nostre impronte». «Chiediamo a tutte le forze politiche di opposizione, a quelle democratiche, alle associazioni, ai media, ai singoli di aiutarci a fermare questo scempio della vita civile e democratica del nostro paese, in cui il razzismo è ormai pratica di governo», ha detto il responsabile di Arci Immigrazione, Filippo Miraglia. E le risposte non si sono fatte attendere. Domani a piazza Vittorio (dalle ore 17.30 alle 20), luogo simbolo della multiculturalità capitolina, a farsi schedare ci saranno anche Moni Ovadia, Andrea Camilleri, Dacia Maraini, Ascanio Celestini. E poi hanno aderito Magistratura Democratica, Ebrei per la pace, Antigone, Legambiente, politici dei verdi, del Partito Radicale, di Sinistra Arcobaleno, come Fabio Mussi e del Pd, come Livia Turco e Pina Picierno. «La proposta di Maroni - ha detto il ministro alle politiche giovanili del governo ombra - riporta il nostro Paese indietro negli anni, a quando vennero introdotte le barbare leggi razziali». Cecilia Taranto, segretaria della Cgil di Roma e Lazio, promette un’adesione massiccia di dirigenti e iscritti al sindacato e annuncia la partenza «di una campagna nei luoghi di lavoro e nei territori della regione».
«Il sindacato andrà nei luoghi di lavoro per spiegare che l'obbligo delle impronte digitali per nomadi e immigrati contenuto nel decreto Maroni è, di fatto, una schedatura etnica». «C'è bisogno di una vera politica d'integrazione – ha detto Taranto - fondata sui diritti e sui bisogni che le popolazioni migranti esprimono. Per questo Cgil Cisl Uil hanno chiesto alla Regione Lazio di convocare un consiglio straordinario e di dare avvio a un piano per le popolazioni nomadi del Lazio». Adesione convinta anche da parte del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, che parla di «schedatura discriminatoria, immorale e illegittima». Il provvedimento è inviso anche a parte importante dell'associazionismo cattolico: già la Comunità di Sant'Egidio si era espressa negativamente mentre Mons. Vittorio Nozza aveva annunciato, pochi giorni fa, che, da parte della Caritas, «non ci sarà alcuna collaborazione con le istituzioni in tal senso». «Associazioni laiche e cattoliche, italiane e internazionali, intellettuali, artisti, giornalisti, politici – è l'appello degli organizzatori - hanno denunciato il razzismo di questa misura giudicata un grave vulnus della democrazia e della Convenzione per la tutela dei diritti del fanciullo».

l'Unità 6.7.08
Un Panorama agghiacciante
di Dijana Pavlovic


«Ho rubato un orologio / e l’ho messo sotto le costole / per far sì che il mio petto non sia vuoto / per far sì che dentro non ci passi il vento. / Lo puoi sentire proprio bene come batte sotto la camicia / se pensi che sia il cuore ti sbagli. / Io il cuore ce l’ho in gola da quando sono nata».
È una poesia di un poeta serbo, Miroslav Antic. Avere il cuore in gola è lo stato d’animo di tutti i bambini Rom che vivono in Italia e che non rubano. Ma ci sono altri bambini che stanno male in questo Paese. Due esempi.
Palermo: mi racconta un’amica che lavora in una Fondazione antimafia che per una recita in una scuola di Palermo hanno proposto un tema sulla mafia, ma è stato rifiutato, allora hanno fatto un sondaggio tra i ragazzi su che cosa volevano rappresentare. Risultato: tutti i ragazzi, nessun escluso, volevano mettere in scena una rapina in banca e uccidere i poliziotti.
Napoli: le maestre delle scuole di Ponticelli hanno proposto ai bambini un tema su quello che è accaduto nei campi Rom. Risultato: nei temi e nei disegni si inneggia al rogo dei campi a cui molti di loro addirittura hanno partecipato.
Di chi sono figli questi bambini? Non solo dei loro genitori naturali, ma anche di Maroni e della “cultura” delle sue camice verdi che percorrono questo Paese in ronde minacciose. E sono anche figli di chi, sull’ultimo numero di Panorama, criminalizza un intero popolo con la foto di un bambino rom e il titolo: «Nati per rubare». Ricorda il passato e riviste come «La difesa della razza».
La politica di Maroni, condannata dalla comunità internazionale, dalla chiesa e dall’associazionismo, ha bisogno dell’appoggio della comunicazione. E allora ecco che scoppia il caso dei bambini “nati per rubare”, proprio nel momento giusto.
Tante volte negli ultimi anni mi sono sentita impotente quando ho incontrato situazioni di abuso nei confronti dei minori rom e le ho denunciate alla polizia e agli assistenti sociali. Ho combattuto per un anno perché un bambino venisse tolto ai genitori e messo in un ambiente protetto perchè subiva violenze in famiglia. Mi è stato sempre risposto che i bambini rom non vengono presi nelle comunità perché tanto scappano sempre, per loro non c’è niente da fare.
E poi ci sono esempi eclatanti che sono sfuggiti a Panorama: per esempio a Rho dei bambini rom hanno telefonato al Telefono Azzurro perché i loro genitori li volevano costringere a elemosinare. Qualcuno si è occupato di questo caso e ha cercato di capire le ragioni di questo gesto? Nessuno, perché pubblicizzare un esempio di consapevolezza frutto di una situazione positiva di un campo regolare, nel quale i bambini vanno a scuola, contrasta con il pregiudizio razzista e con la necessità di sostenere una politica che crea un’emergenza inesistente per nascondere i problemi ben più seri e profondi di un paese in crisi.
Io vengo da un Paese devastato da guerre civili, bombardamenti, dittature e libertà negate - di infamie ne ho viste tante! Ma speculare in questo modo sui bambini è qualcosa di più di un’infamia, è un crimine morale.
Nessun bambino è nato per essere ladro, mafioso o assassino. Bisognerebbe proteggerli tutti, dai loro genitori e da questa politica barbara che non si fa scrupoli di usarli per interessi di bottega e fare in modo che nessuno di loro abbia il cuore in gola: né quelli di Palermo, né quelli di Napoli, né quelli Rom, né nessun altro.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l'Unità 6.7.08
Le impronte di Berlusconi
di Furio Colombo


C’è una frase che viene ripetuta all’infinito fin dal tempo (che ormai abbiamo dimenticato) in cui Silvio Berlusconi ha incominciato a invelenire l’Italia, creando sempre nuovi nemici e invitando sempre più cittadini a combattersi o a cedere, ciascuno nel suo campo e secondo il suo mestiere. I giornalisti o lo servono o gli gettano fango. I magistrati o si piegano o sono eversivi. I politici o accettano di chiamare «dialogo» il suo monologo, o vengono denunciati come sinistra «distruttiva» e «radicale» (con buona pace del partito di Marco Pannella il cui nome viene continuamente usato e abusato).
Ma ecco la frase che viene ripetuta all’infinito: «Non basta essere contro Berlusconi. Bisogna dire per cosa si è e quale progetto di società si indica». Consciamente o no, buona fede o no, la frase finisce per suonare come un invito a posticipare: prima il grande e compiuto disegno della società che vogliamo e poi l’impegno contro Berlusconi. Questa volta colgo la frase da una pubblicazione (la rivista Left) da un articolo (l’attività tuttora in corso dei «mille di Chianciano», riuniti intorno all’invito di Pannella di discutere di una nuova politica) e da una protagonista, Elettra Deiana, già deputata della Sinistra Arcobaleno, che non si prestano all’introduzione negativa che io ne ho fatto. Vedo per forza vera ansia, vera fatica, vera ricerca sul come venirne fuori. Sia nel come partecipare non inutilmente alla vita pubblica di ogni giorno; sia come disegno di quel grande e famoso progetto a cui - ci dicono - è doveroso lavorare. Ma ci sono situazioni e momenti in cui non puoi dedicarti per prima cosa al grande progetto. Per prima cosa i cittadini ti chiedono: e adesso? E oggi? E stamattina?
Mi rendo conto che questa domanda segna una linea di demarcazione fra chi, facendo politica negli anni e nei decenni, ha maturato la persuasione che i tempi lunghi ci sono comunque e che le grandi costruzioni (e le grandi speranze) richiedono tempi lunghi; e chi, entrato passionalmente in politica in un momento di emergenza (o che viene vista e vissuta come emergenza) crede alla risposta impetuosa e immediata.
Pesano su questa demarcazione anche la persuasione, a volte spazientita, del vecchio militante (sapessi quante emergenze abbiamo vissuto!) e l’irritazione dei giovani strateghi che hanno un altro senso del tempo e vogliono essere lasciati lavorare nelle diverse e «articolate» strategie. E percepiscono la tendenza a drammatizzare come il gesto di urtare il gomito di uno che, sapendolo fare, sta disegnando. Qualche lettore potrebbe chiedermi: se vedi con chiarezza le obiezioni che ti riguardano perché continui a urtare il gomito del disegnatore paziente? Non sarà un fatto umorale, che in politica conta poco?
* * *
Umorale la mia reazione al pesante e devastante ritorno di Berlusconi un po’ lo è. È addirittura una questione di età. Avevo la stessa età dei bambini Rom che questo governo italiano vuole obbligare a premere il dito sul tampone d’inchiostro per prelevare le loro impronte digitali, mentre gli altri bambini non Rom stanno a guardare.
Avevo la stessa età dei piccoli e umiliati Rom di oggi quando gli «ispettori della razza», scuola per scuola, classe per classe, hanno cominciato a fare l’appello dei piccoli ebrei per espellerli.
Ho raccontato molte volte il senso di scandalo che ho provato (i bambini possono e sanno indignarsi) di fronte al silenzio degli insegnanti. Nella mia scuola la buona maestra che ci raccontava ogni giorno una puntata di Pinocchio se stavamo bravi, il buon maestro, mutilato di guerra, che narrava episodi di eroismo da lasciarci tesi e ammirati, lo scattante giovanotto della ginnastica e il direttore didattico da cui ti mandavano a discutere (lui discuteva benevolmente con i bambini) di presunte o vere mancanze, tutti sono rimasti impassibili e in silenzio mentre continuava il tremendo appello. E persino se non sapevamo che quello era già l’appello di Auschwitz, il silenzio è stato la prima agghiacciante esperienza di molte piccole vite.
Ora vi pare che prima di impegnarmi con tutta la forza, l’offesa, l’indignazione, l’opposizione di cui sono capace contro le impronte a cui vengono obbligati i bambini Rom (metà dei quali sono italiani), vi pare che possa ammonire me stesso ripetendo la frase: «non basta essere contro Berlusconi, bisogna prima dire per cosa si è e quale progetto di società si indica»?
La mia, intanto, è una società che non perseguita nessuno e tanto meno i bambini e tanto meno i bambini Rom che sono parte di uno dei due popoli per i quali nazisti e fascisti e «difensori della razza» avevano previsto lo sterminio.
Può darsi che non abbia ancora chiare tutte le regole socio-economiche della società umana ed equilibrata che dovrà venire. Come mi insegnano Zapatero e Sarkozy, Angela Merkel e Barack Obama, forse i punti di riferimento di una più vasta azione politica potranno essere un poco più a destra o alquanto più a sinistra. Più fondati sull’impegno individuale oppure sul solidarismo che protegge i più deboli. Ma, per prima cosa, dobbiamo restare dentro il percorso della civiltà. Il decreto Maroni che impone le impronte ai bambini e obbliga ciascun Rom a dichiarare la propria religione (moduli del genere, sull’intimo e delicato territorio della religione non sono mai apparsi nella pur spaventata America dopo l’11 settembre, così come neppure una sola Moschea, in quel Paese, è divenuta territorio di incursioni delle varie polizie anti-terrorismo) il decreto Maroni colpisce la civiltà nei suoi punti vitali e tende a far uscire il Paese Italia da decenti regole civili. Io che ho visto cominciare questo percorso fondato sulla selezione di un nemico da isolare e separare cominciando dai bambini, non ho nessuna intenzione di ritornare sul problema solo dopo avere disegnato un progetto di società. L’offesa avviene adesso e adesso va fermata.
* * *
Accadono in questa Italia che ho appena finito di descrivere con ansia e costernazione, alcuni fatti che voglio elencare qui di seguito perché hanno importanza per tutti.
1. Per la prima volta nella storia italiana un alto funzionario dello Stato incaricato di eseguire, dice no alle impronte digitali dei bambini. È il Prefetto di Roma, Carlo Mosca. Non è la cosa più facile del mondo per un prefetto dire no al ministro dell’Interno. Maroni è ostinato e sordo alle ragioni che gli vengono da tante parti del suo Paese (non parlo di parti politiche, parlo di Chiese e di cultura, della comunità di Sant’Egidio, di Famiglia Cristiana, praticamente di ogni prete o associazione che abbiamo lavorato con e accanto ai Rom, della Comunità Ebraica italiana, delle Comunità Valdesi) perché rappresenta la Padania (cioè uno stato mentale fondato sulla persecuzione degli «altri») in Italia. È ministro della Repubblica italiana con i voti (tanti voti, certo) di alcune tribù del Nord che continuano a minacciare la scissione dall’Italia quando non vengono zittiti in tempo dal Capo Bossi, unico governo da loro riconosciuto.
Uno così che fa il ministro e che deve offrire vittime alle superstizioni delle sue tribù, sarà fatalmente vendicativo.
Ma il Prefetto Mosca non ha cambiato idea. Chiedo che gli italiani ricordino il caso unico del no limpido e chiaro, in nome della civiltà comune, dell’unico alto funzionario del Paese Italia (più noto nel mondo, per il diffuso opportunismo, il «tengo famiglia», una certa viltà, il silenzio dei miei maestri elementari di bambino e dei miei colleghi giornalisti di adesso) che abbia osato pubblicamente dire no al ministro di cui è rappresentante.
2. I «gagè» di tutta Italia hanno scritto, firmato e fatto circolare un appello che dichiara il decreto Maroni una violazione della Carta dei diritti dell’uomo (Nazioni Unite) della Unione Europea e di tutte le Costituzioni nazionali a cominciare da quella italiana.
Chi sono i gagè? Nella lingua rom «gagè» sono le persone non Rom (come i «goyim» nella lingua yiddish, sono i cristiani o comunque i non ebrei). Ecco un brano del loro appello, che ho avuto da Dijana Pavlovic, la giovane attrice e attivista Rom che scrive per questo giornale.
«Noi gagè credevamo che, dopo la fine della seconda guerra mondiale e le scelte della comunità internazionale, non fosse più possibile rivedere nei nostri Paesi i fantasmi di un passato che volevamo bandito per sempre. La carta dei diritti dell’uomo, le costituzioni nazionali, i trattati della comunità europea impediscono ogni forma di razzismo e ogni atto che discrimini e segreghi una minoranza etnica o religiosa (...).
Non è lecito in un Paese civile schedare i bambini. Tanto meno è ammissibile, per l’intera comunità internazionale, che questa schedatura avvenga su base etnica. Ma non è così per il nostro governo. Il suo ministro dell’Interno, uno dei capi supremi delle camicie verdi che inneggiano alla secessione padana, alla cacciata dei Rom ed extracomunitari, che percorrono in ronde minacciose le città, ha dato disposizione che i bambini Rom siano schedati con il rilievo delle impronte digitali.
(...) Questo è il volto avvelenato del nostro Paese. Ma i veri colpevoli siamo noi, i gagè, che credono nella propria superiorità etnica, esportano con la forza le proprie idee,aggrediscono un popolo che non riconosce confini, non ha terre da difendere con guerre, non ha bandiere in nome delle quali massacrare i diversi da sé».
Propongo che tanti aggiungano le loro firme a questo manifesto (tra i primi a sottoscrivere, Moni Ovadia) che si conclude con la dichiarazione «ci rifiutiamo di essere diversi. Pretendiamo che siano prelevate le nostre impronte digitali».
3. Ecco le ragioni per cui alcuni di noi hanno deciso di promuovere e partecipare all’evento dell’8 luglio. Non è un partito preso o un frivolo accanimento in luogo di una normale, serena opposizione. Non c’è niente di normale e niente di sereno in un Parlamento ingorgato di provvedimenti personali salva-Berlusconi, in cui i lavori sono diretti da presidenti che in realtà sono capi-partito e come tali vanno insieme al Quirinale a dire non ciò che provano o sentono tutti i deputati e tutti i senatori, come richiede il loro ufficio. No, vanno al Quirinale - coperti da quelle cariche - per dire ciò che vogliono i loro partiti. Ovviamente ciò richiede più che mai di dare tutto il nostro sostegno, da cittadini, prima ancora che da politici, al Capo dello Stato.
Ecco le ragioni che spingono alcuni di noi, e certo molti cittadini, e certo il popolo Rom, a incontrarsi adesso, subito, mentre il cosiddetto «pacchetto sicurezza» viene imposto al nostro Paese, triste timbro di discriminazione e razzismo. Come le leggi razziali del fascismo, questa irresponsabile serie di decisioni ci umilia in Italia, ci isola in Europa, ci separa dalla nostra Costituzione, interrompe il rapporto con la grande eredità della Resistenza a cui si deve la nostra libertà.
La nostra libertà è unica. O è intatta o non lo è. O ci riguarda tutti o costruisce una odiosa apartheid.
È bene alzarsi e dirlo adesso, con tanti cittadini e tanti Rom che ci hanno detto «veniamo», e con il loro coordinatore, Alexian Santino Spinelli (professore all’Università di Trieste) che parlerà insieme a noi. E poi ci saremo tutti in autunno, nella manifestazione politica già annunciata da Walter Veltroni con il Pd. E ci siamo ogni giorno in Parlamento per dire ben chiaro il nostro no, per tentare di cancellare sul futuro dell’Italia le impronte di Berlusconi.
furiocolombo@unita.it

l'Unità 6.7.08
Foa: legge uguale per tutti
ecco la nostra battaglia
intervista di Bruno Gravagnuolo


«Sono molto preoccupato per la situazione dell’Italia. A 60 anni dalla Costituzione, è indispensabile avviare una battaglia in difesa dello stato di diritto». Vittorio Foa aderisce al documento dei cento costituzionalisti contro gli strappi da parte del governo rispetto ai principi costituzionali. E in una conversazione con l’Unità dice: «Sono sempre rimasto fedele al principio che la legge è uguale per tutti».
«Sono stato deputato alla Costituente. Ho votato la Costituzione repubblicana. Molti anni sono passati da allora, ma sono rimasto incrollabilmente fedele al principio che la legge è eguale per tutti. Aderisco quindi al documento dei costituzionalisti». Comincia così, con queste parole puntigliosamente scelte come appello, l’insolita conversazione «da lontano» con Vittorio Foa. Da lontano, perché il grande leader azionista, lasciata Formia, è a Pescasseroli. E tra noi e lui c’è la moglie Sesa Tatò, che con impagabile premura e pazienza ci fa da «interprete», quando Foa non sente bene al telefono le domande.
Perciò, dopo la dichiarazione di apertura, con la quale Foa si schiera al fianco dei cento costituzionalisti - che hanno denunciato lo strappo ai principi costituzionali del «Lodo Alfano» e della «norma blocca processi» - cerchiamo di decifrare il suo umore. E magari di strappargli una diagnosi sul presente, sul Pd e sulle «carte» dell’opposizione. Dunque, dice Foa: «Sono preoccupato, molto preoccupato in questa fase. Ecco perché è indispensabile avviare una battaglia in difesa dello stato di diritto». Già, ma ne è capace l’opposizione del Pd? È adeguata a riguardo? Risponde secco Foa: «Non intendo replicare su questo, diciamo che spero di sì...». E sulle «due opposizioni», quella «girotondina» e quella di governo e di proposta, aggiunge: «Non voglio prendere posizione in favore dell’una o dell’altra, ma reputo che l’opposizione non debba dividersi...». Lotta di lunga lena, e speranza di creare uniti una nuova onda di opinione nel paese? «L’importante - chiarisce Foa - è tener duro sull’eguaglianza e la parità dei diritti in Italia. Quanto alla speranza, certo che occorre averne! Decisivo è mantenere una certa volontà di lotta sui princìpi, per tenere aperta la situazione e sveglie le coscienze».
Torna il vecchio Foa «movimentista»? «No - ribatte - non è questione di movimentismo o del suo contrario. Certe scelte dipendono dai momenti storici. E quel che conta è battersi in questo momento. Tenendo conto che nel nostro paese c’è una destra profonda, che viene da lontano...». Viene voglia di approfondire, facendo un passo indietro dagli appelli e dalla mischia. Perché questa «destra profonda»? E che intende Foa con questo motivo?
Per capirlo, almeno in parte, cerchiamo di frugare tra i pensieri del Foa di adesso. Sesa Tatò ci spiega che qui a Pescasseroli, Foa passa gran parte del suo tempo a riscrivere la prefazione di una suo libro fortunato: Questo Novecento, uscito per Einaudi una decina di anni fa. Verrà ristampato, e dentro la prefazione ci sono alcuni temi chiave. Un certo pessimismo «sulla guerra e le sue forme mutate». Sul suo inedito significato per gli uomini, dopo il Novecento. Poi l’attenzione alle «nuove povertà, di cui pochi si occupano». Infine una riflessione su ciò che è stata l’Italia, «dall’inizio della prima guerra mondiale ad oggi». E qui c’è l’innesco con l’idea della «destra profonda». Una costante della nostra storia, secondo Foa. Ma perché questa «anomalia italiana» rispetto agli altri paesi avanzati? E la risposta di Foa arriva netta e chiara: «Perchè l’Italia è nata tardi rispetto agli altri stati. E male... e inoltre anche in virtù di un certo ruolo pervasivo della Chiesa, la famosa “Questione Vaticana”....». Da ultimo, proviamo ad allargare un po’il campo: Obama e il suo succeso negli Usa. A Foa piace decisamente, gli fa un’ottima impressione. E dal candidato nero si «aspetta molto». Ecco la speranza di Foa: «Progressista vero. Può contribuire a cambiare lo scenario mondiale, se vince». Insomma, Obama per Foa è in grado di dare un’imagine diversa del suo paese. Quella di una nazione più fraterna e generosa: «Soprattutto lo spero...». Volge al termine « l’intervista impervia» a Vittorio Foa con l’aiuto della moglie. Non senza una battuta dallo sfondo del vecchio leader: «Dì che venga a trovarmi a Formia... che facciamo un’intervista più lunga...». Già, magari per i 98 anni, il 18 settembre. E allora piazziamo l’ultima domanda: che effetto fa avere quasi cento anni? Si sente «leggero», o troppo pieno di ricordi? Risposta diretta dell’interessato, in viva voce: «È bello! Venga, venga pure per il mio centenerio!». Ma non avevamo detto per i 98? «D’accordo, anticipiamo...». Grazie. Fine dell’intervista impervia a Vittorio Foa, «uomo-secolo».

l'Unità 6.7.08
Prc, anche «Liberazione» finisce nel tritacarne della crisi
Il giornale sotto accusa per essersi schierato troppo apertamente a favore di Vendola


Neanche “Liberazione” esce indenne dalle pesanti polemiche che stanno scuotendo Rifondazione comunista. Il giorno dopo che la commissione congressuale ha annullato il congresso di circolo di Reggio Calabria finito 345 a 39 per la mozione Vendola, il giornale del Prc ha pubblicato un editoriale in prima pagina dal titolo: «Annullare i congressi? Una pazzia». L’appello era a smetterla con «i ricorsi e i boicottaggi» argomentati con i «troppi nuovi iscritti» e a evitare che «l’appuntamento di Chianciano» (dove dal 24 al 27 si svolge il congresso nazionale del Prc) si trasformi in «una conta al massacro».
Parole che non sono piaciute ai sostenitori delle altre quattro mozioni che si contrappongono a quella che candida a segretario Vendola, che hanno scritto delle dure lettere di risposta pubblicate su “Liberazione” di ieri. Il primo firmatario della mozione Ferrero-Grassi, Acerbo, ha detto che «non si sentiva davvero il bisogno che anche il giornale (che dovrebbe essere di tutto il partito) scendesse in campo così pesantemente» per di più delegittimando la commissione nazionale per il congresso. E le altre mozioni sono intervenute dicendo che un giornale deve informare, non dettare la linea, e che “Liberazione” «ripete il vecchio vizio terzo-internazionalista che la politica deve avere la supremazia sulle garanzie».
Il direttore Piero Sansonetti, nel mirino dell’area Ferrero-Grassi da settimane, ha risposto definendo «ingenerose» le accuse di essere «berlusconiano, stalinista o terzointernazionalista» e scrivendo che «un giornale deve saper dire la sua anche se è in contrasto con il partito al quale appartiene», criticando l’esclusione dalle scelte congressuali di iscritti sui quali non c’è «straccio di prova» di truffe e ricordando che nel Pci «nessuno si è mai sognato di annullare un congresso». Poi Sansonetti ha raccontato un episodio di quando, da caporedattore all’Unità, fu convocato a Botteghe Oscure e accusato di antitogliattismo per alcuni articoli pubblicati in prima pagina. Venne assolto. C’erano Pajetta, Napolitano, Petruccioli, Natta, Occhetto. «Dissero che avevamo il diritto a criticare Togliatti sull’Unità. Dissero che l’Unità era autonoma. Avevo sempre considerato poco democratico il Pci, ma in confronto a queste cose che avvengono ora mi appare come il regno della liberalità e della democrazia...».

l'Unità 6.7.08
Bettini critica D’Alema, scontro con la Turco
Al convegno della sinistra Pd anche Berlinguer, Maura Cossutta e Folena: messaggio alle forze rimaste fuori dal Parlamento
di Simone Collini


LA SINISTRA DEL PD si organizza e lancia un messaggio alle forze rimaste fuori dal Parlamento. La nascita ufficiale di “A Sinistra” sarà a settembre, ma ieri Vincenzo Vita, Livia Turco, Sergio Gentili, Paolo Nerozzi, Famiano Crucianelli e gli altri promotori dell’iniziativa hanno gettato le basi del progetto: un’associazione (che potrà poi evolversi in fondazione) che dovrà diventare «luogo di incontro» e «laboratorio di dialogo» per tutta la sinistra (come osservatori extra-Pd sono arrivati Giovanni Berlinguer, Maura Cossutta, Piero Folena), che organizzerà seminari e si doterà di un mensile (che nasce dall’esperienza di “Aprile”, dell’ex correntone diessino) e che però non farà tessere.
Caratteristica, quest’ultima, che non è passata inosservata allo sguardo di Goffredo Bettini. Il coordinatore del Pd è intervenuto come ospite all’affollata assemblea fondativa al Centro congressi Frentani giudicando positivamente l’operazione, non ultimo perché «quest’area culturale della sinistra - ha detto prendendo la parola - è quella che meno si identifica con una persona, usando una parola brutta direi con un capobastone». Ribadendo parole usate da Walter Veltroni nella lettera inviata agli organizzatori, Bettini ha lodato il «pluralismo interno» ma ha anche avvertito - con quella che dai presenti è stata letta come una stoccata a D’Alema e al tesseramento avviato dall’associazione “Red” - che «questo deve restare come fatto virtuoso dentro la democrazia del partito e non ci devono essere nuclei organizzativi che si estraneano»: «Qualcuno ha detto “è stato fatto perché non è ancora sufficiente la democrazia nel Pd”, ma allora io dico: d’accordo, però allora diamoci una mano, iniziamo dai circoli e dalla forza che daremo ai nostri iscritti, costruiamo il partito dalla base, io sono contro le dinamiche correntizie, dove c’è un comando burocratico che decide dall’alto e scende giù pe’ li rami fino alla scelta dell’ultimo consigliere comunale». Il discorso non è piaciuto troppo a Livia Turco, che ha replicato con poche, chiare parole: «Io non credo che nel Pd ci siano capibastone, e penso che tutti i luoghi del Pd, tutte le fondazioni, siano luoghi liberi». Ma quelle sul confine tra pluralismo e correntismo non sono state le sole parole che hanno agitato le acque all’interno del partito. Dopo aver replicato alla «violenta polemica» innescata da Parisi per l’intervista a l’Unità sottolineando che «parlare oggi di alleanze con Udc e Prc è immaturo ma bisogna dare una prospettiva al partito ed evitare di scadere nell’autosufficienza, che è perdente, isolata e boriosa», Bettini è passato a un’analisi della sconfitta di Roma, dicendo che il centrodestra dopo 15 anni all’opposizione aveva molta più voglia di vincere e il centrosinistra «si è seduto un po’ troppo sul potere». Ma di fronte al mormorio della platea ha anche aggiunto: «Certo, la sconfitta riguarda anche la scelta del candidato sindaco». Qui è scattato forte un applauso, e il coordinatore del Pd ha cercato di smorzarlo dicendo che si tratta di «un’autocritica in prima persona, non rivolta a nessuno». Ma comunque le parole sono uscite rapidamente fuori dal Centro congressi Frentani e dopo la chiusura dei lavori Bettini è tornato a farsi sentire tramite le agenzie di stampa per precisare il suo pensiero, sottolineando che tra le varie cause della sconfitta c’è stato anche il fatto che «Rutelli nella contesa elettorale non sia riuscito a far emergere il suo profilo civico, facendo prevalere quella di leader politico inevitabilmente più problematico nel rapporto con gli elettori». Per quanto riguarda i fondatori della nuova associazione, quello che meno li ha convinti è stata la parte sulle alleanze. «Non si può mettere sullo stesso piano Udc e Rifondazione», ha sottolineato Vita, eletto membro del coordinamento ristretto che lavorerà per il varo in autunno di “A sinistra” insieme a Gentili, Nerozzi, Crucianelli, la direttrice di “Aprile” Carla Ronga e, come rappresentante dei territori, il consigliere regionale della Toscana Loriano Valentini. E le distanze, oltre che dai centristi, sono state prese anche nei confronti di Di Pietro, accusato da Crucianelli di alimentare il «rischio pollaio» in un centrosinistra frammentato.

l'Unità 6.7.08
Italia 2008. Odissea nella cocaina
di Luigi Cancrini


I numeri
1,3 milioni i consumatori di cocaina in Italia (ma solo 30mila escono allo scoperto)
150 mila tossicodipendenti è senza cure e non si avvicina ai Sert
16,5% dei giovani ha avuto cocaina tra le mani (sondaggio per il ministero della Difesa)
20,1% dei ragazzi tra 16 e 18 anni può facilmente procurarsi coca (dati Labos)
14% dei ragazzi che frequentano corsi per la patente dichiara di aver assunto cocaina negli ultimi 2 mesi (ricerca Milano)

Lo sballo «normale». La coca ha fatto irruzione nel quotidiano di una quantità, fino a ieri impensabile, di persone «ordinarie». Non è più qualcosa di eversivo, ma solo e banalmente un aiuto: come il caffè o le sigarette. Le «regole», i mix, il «mercato» e i tentacoli di Gomorra: viaggio nell’universo della «neve»
A differenza dell’eroina, la cocaina non è un narcotico ma una sostanza stimolante del sistema nervoso centrale. Viene estratta dalle foglie di una pianta, l’Eritroxylon coca, originaria dell’altopiano delle Ande. In campo medico è stata usata, dal 1860 in poi, come anestetico locale della cute e delle mucose; il suo uso è oggi, tuttavia, piuttosto limitato dopo che sostanze ottenute per sintesi e molto più sicure (come la novocaina) hanno preso in gran parte il suo posto. L’Eritroxylon coca è originaria delle regioni andine del Sudamerica dove vive tra i 700 e i 2000 metri di altezza e dove cresce spontaneamente. L’uso è antichissimo. Foglie di Eritroxylon sono state trovate in tombe Incas del XIII secolo.
Dagli Indios alla Coca-Cola
L’uso endemico avviene per via orale: secche e polverizzate, le foglie mescolate con una piccola quantità di materia alcalina sono tenute in bocca e masticate lentamente. Le piccole dosi di cocaina così assunte fanno aumentare la pressione, accelerano la frequenza cardiaca e accrescono la capacità dell’organismo umano di utilizzare l’ossigeno. Masticando coca un indios è capace di camminare per tre giorni trasportando grandi pesi o di lavorare all’aria rarefatta dei 2000 e più metri sul livello del mare e con scarse quantità di cibo. Anche il consumatore occidentale, del resto, ha avuto modo di verificare l’utilità dell’antica sostanza prima che le autorità sanitarie internazionali intervenissero nel 1904 ad impedirglielo perché un’infusione di foglie di coca faceva parte della formula originale della Coca-Cola. La bevanda conteneva abbastanza droga da allarmare le autorità sanitarie statunitensi, ma solo nel 1904 la Coca-Cola Company cambiò il procedimento di preparazione della bevanda, rimuovendone la cocaina prima di usare le foglie di coca. In cambio del servizio reso alle autorità sanitarie la Coca-Cola Company ottenne allora il monopolio della produzione della cocaina per scopi medici negli Usa, con notevole vantaggio economico.
La cocaina raffinata, che costituisce l’1% della foglia, ha effetti abbastanza diversi da quelli della coca. Inalata o «sniffata» essa entra rapidamente in circolo determinando uno stato di euforia ed un discreto aumento della pressione arteriosa. Limitati ad una-due ore di tempo, questi effetti sono seguiti da una fase depressiva in cui lo stimolo ad assumere nuovamente cocaina è particolarmente forte. La tendenza a modulare con l’aiuto dell’alcool gli up e i down di questa esperienza è molto comune fra i consumatori abituali di cocaina che appartenevano, inizialmente, a due grandi categorie di persone: quelle che riuscivano a limitare l’uso della sostanza a situazioni particolari, come le feste o i viaggi e quelle che per curiosità, per moda o altro, avendo fatto esperienza con la cocaina, incominciavano ad assumerne dosi ripetute sviluppando forme diverse di dipendenza.
Nuove tendenze
Quella che si sta verificando oggi nel clima sempre più frenetico della società occidentale è, tuttavia, un fenomeno abbastanza diverso da questi più tradizionali. Schematizzando molto, l’impressione è quella di una irruzione della cocaina nel quotidiano di una quantità fino a ieri impensabile di persone «normali» cui la cocaina viene presentata e che la cocaina utilizzano non più (o non solo) come una sostanza capace di permettere uno «sballo» ma come una specie di aiuto (normale: come il caffè o le sigarette) per la loro possibilità di stare piacevolmente (o un po’ meno sgradevolmente) nel mondo.
Roberto Saviano ha efficacemente illustrato in Gomorra i dati alla base di queste osservazioni e le strategie utilizzate dai clans camorristi per favorire e per sfruttare questa innovazione fondamentale per i marketing di una droga che è particolarmente adatta alle esigenze della modernità: trasformando quella che in passato era una droga d’élite in un prodotto «accessibile al consumo di massa, con diversi gradi di qualità ma capace di soddisfare ogni esigenza». Il 90% dei consumatori di cocaina (lo studio riportato da Saviano è del gruppo Abele) è composto da studenti più o meno svogliati e da lavoratori che sentono di avere il bisogno di rilassarsi o, nel caso di quelli più duramente sfruttati, la voglia di trovare «la forza di fare qualcosa che somigli a un gesto umano e vivo e non solo un surrogato di fatica». La coca viene presa dai camionisti per guidare di notte, dagli imprenditori «iperattivi», dai professionisti che debbono resistere ore davanti al computer, dai parlamentari messi in difficoltà dalla lontananza da casa (come ebbe modo di spiegarci Cesa poco più di un anno fa dopo che le Iene e la polizia lo avevano ben documentato), dagli operai delle fabbriche o dell’edilizia che lavorano in nero e debbono andare avanti senza sosta per settimane senza nessun tipo di pausa. «Un solvente della fatica, scrive Saviano, un anestetico del dolore, una protesi alla felicità» per migliaia e migliaia di uomini che sembrano ripetere, senza rendersene conto, i riti di un consumo che era quello delle povere popolazioni andine. Per soddisfare un mercato che ha necessità di droga come risorsa e non soltanto come stordimento bisognava tuttavia trasformare lo spaccio, renderlo flessibile, slegato dalle rigidità criminali ed è stato proprio questo, sempre secondo Saviano, il salto di qualità compiuto dal clan di Di Lauro: la liberalizzazione dello spaccio e dell’approvvigionamento di droga. Per i cartelli criminali italiani (quelli contro cui si batteva Falcone) la vendita di grosse partite viene tradizionalmente preferita alla vendita di partite medie e piccole. Per Di Lauro invece la vendita di partite medie è stata scelta per far diffondere una piccola imprenditoria dello spaccio capace di creare nuovi clienti. Trasformando in spacciatore, assai difficile da identificare per la polizia, il vacanziere o il diciassettenne di buona famiglia, il commerciante o il professionista.
I danni
I rischi legati all’uso saltuario, soprattutto se la cocaina viene associata all’alcool, sono quelli di cui si è parlato spesso sui giornali a proposito dei vip e, in persone predisposte, i problemi legati al sovraccarico del cuore. Nei casi più gravi, l’assunzione di dosi ripetute e crescenti può determinare però diversi disturbi fisici e mentali fino a configurare il quadro di una sindrome psicotica (con allucinazioni visive e vissuti persecutorii) sufficientemente tipica. I disturbi cardiaci sono frequenti soprattutto se si abusa anche di alcool.
Pasta base di coca (PBC) e crack
La PBC è il primo prodotto di lavorazione della foglia di coca, venduto a basso prezzo nei paesi in cui la coca viene coltivata. Il crack è cocaina lavorata con bicarbonato per ottenere un prodotto che è efficace pur contenendo meno principio attivo e che può essere venduto a basso prezzo. PBC e crack costano poco perché la concentrazione di cocaina è più bassa (uno a tre rispetto alla cocaina) ma, fumati con le sigarette, determinano effetti rapidissimi (dopo 3-5 secondi) e subito molto forti. L’euforia legata al «flash» si accompagna ad una brusca (e spesso pericolosa) salita della pressione e della frequenza cardiaca che possono accompagnarsi a dolori cardiaci. L’effetto (uno stordimento improvviso, una perdita fulminea del rapporto con la realtà nel proprio corpo) è assai breve e l’assunzione (il fumo) viene ripetuta spesso a distanza di pochi minuti determinando in tempi rapidi una dipendenza che ha qualcosa di disperato e che si diffonde facilmente fra gli adolescenti delle periferie urbane più degradate: Lima, Bogotà o Quito per il «bazuco», New York, Los Angeles. Poco adatte al consumo voluttuario, crack e PBC determinano facilmente dipendenza (un bisogno psicologico progressivamente più forte di ripetere l’esperienza) e tossicomania (un coinvolgimento personale totale della persona nelle sue abitudini autodistruttive). Su linee molto simili a quelle seguite dall’eroina.
Cocaina e adolescenti italiani
La facilità con cui la cocaina sta entrando nelle problematiche o nelle abitudini degli adolescenti e dei giovanissimi nel nostro paese è ben documentata ormai da una serie di ricerche i cui risultati sono terribilmente convergenti. Studiando per conto del Ministero della Difesa 5096 volontari aspiranti della ferma breve, 786 allievi aspiranti all’Accademia militare e 309 aspiranti allievi sottufficiali che hanno riempito un questionario prima di sottoporsi ai rispettivi esami di ammissione Sgritta ed altri hanno verificato che il 31,5% degli esaminandi conosce persone che usano cocaina, il 25% se l’è vista offrire, il 16,5 % l’ha avuta in mano, il 21,5% ha desiderato di provarla. Studiando con un analogo questionario 1502 giovani calabresi che frequentavano le scuole medie e superiori, il Labos ha verificato in modo sostanzialmente analogo che il 20,1% di questi ragazzi (età fra i 16 e i 18 anni) avrebbe potuto «facilmente» procurarsi della cocaina e che il 31,3% di loro aveva amici che ne facevano uso mentre Saman, utilizzando lo stesso questionario anonimo con 392 ragazzi delle medie superiori di Apricena (Foggia) ha verificato valori ancora superiori: 27% di ragazzi che potevano procurarsela facilmente e 36% che conoscevano chi ne faceva uso. In un questionario anonimo a Milano, il 14% dei ragazzi che frequentano i corsi per la patente d’auto dichiarò d’altra parte di aver assunto coca almeno una volta negli ultimi due mesi. Si tratta, come si vede, di dati che aprono uno scenario impressionante sui successi ottenuti dalla camorra con le sue nuove strategie di vendita. Proponendo un problema inquietante soprattutto a chi si occupa di prevenzione. Ma proponendo soprattutto un quesito inquietante sulla posizione di chi in questi giorni (Giovanardi) ha riferito in Parlamento sulla situazione della droga nel nostro paese: dichiarandosi allarmato soprattutto dagli spinelli e accuratamente evitando di menzionare le vere grandi urgenze. Ansiosamente e astutamente riportando il problema droga nella dimensione educativa famigliare per nascondere il modo in cui il suo Governo non trova (non vuole trovare) i soldi per un’offensiva vera contro la cocaina?
(1 - continua)

l'Unità 6.7.08
Operai, baristi, «pierre» e care ragazze:
«Noi, il popolo della “bamba” che non ti molla»
di g.v.


«Qui a Torino la coca o te la lavi tu con il bicarbonato o con l’ammoniaca (metodo che personalmente preferisco), oppure si trova ormai da circa 2 anni la coca già lavata in "cubetti"... beh, questa è tutt’altra cosa, molto più potente, credo, anche se non ne sono sicura, che sia il vero e proprio crack. Mi hanno detto che questa è una prerogativa di Torino... Sono stata a Roma e i ragazzi non l’avevano mai vista». L’ultima emergenza si chiama crack, o cocaina basata. I ragazzi di 15 anni hanno imparato a farla da soli: con il bicarbonato, le bottigliette. Crack è il rumore che produce quando brucia. Chi lavora nelle comunità dice che l’Italia sembrava ne fosse immune. Invece no, e l’abuso di cocaina, l’aumento esponenziale dei consumatori, il fatto che chi usa questa droga resta nel sommerso, che è la droga delle persone apparentemente normali, sta creando un problema.
Un milione e trecentomila persone che ne fanno uso, appena trentamila che escono allo scoperto. I nuovi tossici sono baristi, Pr, diciassettenni e ora anche operai che tirano per sostenere meglio i turni. «Insomma - spiega Riccardo De Faccio delle Cnca - , non esistono più le storie di perdizione del tossicodipendente da eroina che si perde, appunto, nella sua roba. Ora il consumo è legato al modo di vivere, è occasione che cementa i rapporti di coppia». E i nuovi tossici hanno messo in crisi il sistema del recupero e della disintossicazione. Come rivela anche la relazione al Parlamento: 150mila tossicodipendenti è senza cure e non si avvicina ai Sert.
Giovanni ha 37 anni e una moglie giovane. Soldi facili, perché gestisce diverse agenzie di viaggio nel milanese. Una vita normale, ma ogni fine settimana Giovanni spariva, in giro per la città a farsi di alcol e cocaina. È finito al pronto soccorso. «È come se avesse la necessità di questo sballo, di questo abuso» racconta chi lo ha avuto in cura. È una dipendenza psicologica. Ecco, a Giovanni ad esempio, era impossibile oltroché inutile dire «Vai in comunità per 18 mesi». Serviva una soluzione diversa che però ancora non c’è.
Maria, 27 anni, di Venezia. «Lavoro in banca e mi sto laureando in lingue. Nella vita, fin da 13 anni, ho provato quasi tutto. A 13 anni, cannone e whisky in disco la domenica pomeriggio... sempre tutto con i dovuti modi perché non potevo farmi vedere sballata. Poi arriva lei: la “coca”, la “bamba”, “snow”! Droga per gente coi soldi, però che sballo. Sono sempre rimasta pacata nel prenderla. La mia testa mi era sempre vicina… e poi? Arriva il lavoro in banca... palla al balzo dice mamma. E il direttore? 10 grammi al giorno sempre ovunque. Comincio piano, ... tanto poi smetto … 1, 2, 4, 5 ... al giorno... gratis... ».
Luigi cocainomane lo è diventato per non pagare le dosi. Pr di una discoteca milanese, un giorno gli hanno proposto, visto che aveva iniziato a consumare cocaina, di smerciarne visto che l’ambiente era giusto. «Alla fine è arrivato da noi - racconta De Faccio - , ha chiesto un percorso con uno psicologo che fa interventi ambulatoriali perché alla fine era diventato un buon spacciatore di cocaina, ma soprattutto ormai un consumatore». Spiega De Faccio: «Questo meccanismo del consumo ha svelato che ora soprattutto nelle grandi città la coca non è più spacciata dalle organizzazioni criminali. A Roma, Milano, Verona i clan arrivano allo spaccio fino a una purezza della cocaina del 50%. In piazza tu la trovi al 10%. Allora loro vendono a spacciatori locali quantità di coca al 50%. Il tam tam ci dice che la cocaina in questo momento si vende da sola. È lo spaccio della normalità: dal barista al pr che arrotondano e si garantiscono il consumo gratis».

l'Unità 6.7.08
Josef Koudelka. Gli occhi della rivolta
Sette giorni in 250 immagini
di Oreste Pivetta


«Ora che vedo il mio libro capisco che è un documento storico, ma prima non lo pensavo». Quarant'anni dopo aver immortalato in immagini memorabili l'invasione sovietica di Praga del 1968, durante sette giorni, dall’arrivo delle prime truppe del Patto di Varsavia, il grande fotoreporter ceco Josef Koudelka è stato a Milano per presentare la mostra delle sue fotografie, «Invasione Praga 68», che rimarrà aperta fino al 7 settembre presso il Centro internazionale di fotografia Forma (in piazza Tito Lucrezio Caro 1). Il catalogo, edito da Contrasto, insieme con le foto di Koudelka, duecentocinquanta in tutto, e con alcuni testi critici, e la mostra presentano una “rassegna stampa” dell’epoca: dal comunicato della Tass che il 21 agosto annunciava l’ingresso delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia a brani di articoli del Rude Pravo, di altri giornali e riviste, a una sorta di antologia di slogan che erano comparsi sui manifesti o, scritti a calce, sui muri della città.

Josef Koudelka tra le sue fotografie, quelle di Praga 1968. Adesso, trent’anni dopo, sono in mostra anche in Italia, a Milano, la storia d’allora alla prova del presente e della distanza. Di mezzo il «muro di Berlino», che è crollato, e il crollo sembra aver
moltiplicato gli anni. Josef Koudelka di anni ne ha settanta, ne aveva diciotto all’epoca di Budapest, trentenne fotografò i carri armati del Patto di Varsavia e del socialismo reale nelle strade di Praga. Koudelka, la camicia verde militare, le maniche rimboccate, i capelli biondi un po’ lunghi un po’ sparsi, sembra molto più giovane, forse per l’allegria e per l’ironia o per le maniere disincantate con le quali parla del suo passato, ad esempio di quella notte d’agosto quando tre volte un’amica lo avvertì che qualcosa di eccezionale stava avvenendo a Praga, che stavano arrivando i russi, e tre volte si girò dall’altra parte e si rimise a dormire. Finalmente si decise a dar retta alla sua informatrice. scese in strada e cominciò a fotografare. Fotografò per giorni e giorni, consumò metri e metri di pellicola, nascose dove poteva il risultato del suo lavoro e alla fine si ritrovò con uno straordinario reportage, come mai si sarebbe sognato: la cronaca in diretta della rivolta di Praga, della passione di un popolo che aveva creduto in Dubcek e nella sua strada.
Parla sorridendo, tra inglese francese spagnolo italiano.
Le sue foto di Praga arrivarono negli Stati Uniti nel 1969. Senza mai citare il nome dell’autore, le distribuì Magnum (che era allora presieduta da Elliott Erwitt). Così “un fotografo ceco anonimo” vinse il premio Robert Capa. Perchè quel reportage ritrovasse il suo autore, sarebbe dovuto passare un quarto di secolo: nel 1984, in una grande mostra organizzata dall’Ars Council of Great Britain all’Hayward Gallery di Londra e in un libro, intitolato semplicemente “Josef Koudelka”, pubblicato dal Centre National de la Photographie di Parigi. Koudelka, dal 1970 ormai esule, diviso tra Londra e Parigi, non aveva mai voluto firmare quelle foto per proteggere i suoi familiari rimasti in Cecoslovacchia. La morte del padre lo liberò dalla paura. Il padre conta molto nella sua vita. Gli chiedo di Budapest e Praga. Come visse il Cinquantasei ungherese e come rivisse il Sessantotto praghese. Cominciano, per me, le sorprese, perchè di Budapest non gli era arrivato nulla e la politica non la sentiva proprio...
«Sono nato in Moravia, sono cresciuto in un paese tra i monti, Valchov, qualche centinaio di abitanti, e non mi importava niente di quello che poteva succedere altrove. Mio padre non era iscritto al partito e mi diceva, indicandomi i compaesani, tutti comunisti con la tessera: non dicono la verità, non hanno voglia di lavorare, vorrebbero poter comandare. Accadeva a Valchov quel che poteva capitare in qualsiasi paese fascista, ad esempio nella Spagna di quei tempi. A quattordici anni partii per Praga e mio padre mi raccomandò di guardare con i miei occhi e di pensare con la mia testa. Fu così che incominciai a capire che la scuola non mi aiutava a crescere libero. Per casa condividevo una stanza con altri tredici ragazzi: dopo una settimana la pensavano tutti come, che a scuola non si poteva dire quanto avevamo in testa e che la scuola era lontana dall’insegnarci la verità. Questa storia si trascinava anche fuori dalla scuola: leggevi un giornale, senza fidarti, e cercavi di farti un’opinione opposta a quanto stava scritto, così alla fine ti convincevi, giusto per pensare il contrario, che gli americani facessero bene a bombardare il Vietnam. Non sono arrivato a tanto, ma il rischio c’era. La politica, come era capitato a mio padre, continuò a essermi estranea. D’altra parte per fare politica mi sarei dovuto iscrivere al partito, all’unico partito...».
La curiosità della fotografia la conquistò da piccolo e dopo gli amici e i familiari cominciò a fotografare gli zingari. A Praga nel ‘68 era appunto appena rientrato dalla Romania, dove si era interessato ai rom. Perchè questa attenzione?
«Ero entrato in un complesso folkloristico e mi appassionava tutta la musica popolare della mia terra e i rom ne sono straordinari interpreti. Devo molto alla musica, anche un viaggio in Italia nel 1961. Feci il giro delle feste dell’Unità e mi accorsi che i comunisti italiani erano diversi dai nostri. A Siena il capo del partito ci accompagnò in una grande gelateria. Era il proprietario. Come era possibile?».
Però Praga viveva una certa vivacità culturale. Si capisce anche dalla sua biografia, ad esempio dalle sue collaborazioni con il teatro (fotografo di scena), con le riviste...
«Mi chiamavano, fotografavo, finiva lì. Non avevo rapporti. Ero un isolato. Ero ormai un ingegnere aereonautico».
Va bene. Torniamo al 1968. Era partito per la Romania con Milena Hubschmannova per conoscere gli zingari. Torna e il giorno dopo, al risveglio, trova i carri armati.
«Quando la mia amica mi telefonò, le dissi che si stava sbagliando. All’ultimo mi convinsi e uscii e cominciai... Perchè lo feci? Perchè ero un cecoslovacco: la passione civile mi spingeva in strada con la macchina fotografica, perchè fotografare era la cosa che sapevo fare meglio. Sono arrivato per primo e ne ho approfittato. Ma non pensavo alla pubblicazione. Ero ceko e lì dovevo stare...».
Nelle sue foto di Praga c’è la gente, ci sono i soldati, ci sono i carri armati. La gente protesta per difendere la propria libertà e la propria dignità. Nei confronti dei soldati non si avverte odio. I manifestanti cercano di parlare e molto spesso parlano con i soldati del Patto di Varsavia. Lei stesso guarda i soldati senza ostilità, quasi con compassione. Poveracci tutti, lontani da casa. Mi vengono i mente i poliziotti proletari di Pasolini. L’odio sembra tutto indirizzato verso gli strumenti della repressione: i carri armati, i tanks. Anche in quella foto del militare sul carro in fiamme che punta il fucile contro un manifestante, che scopre il petto invitandolo a sparare, l’attenzione è per gli occhi spauriti, smarriti, inconsapevoli del soldato...
«Certo. Poveracci. Erano poveracci. C’era gente normale nelle strade e i soldati erano persone normali che non sapevano quasi dove fossero, perchè fossero lì. In comune avevano un sistema politico, che aveva condizionato, ordinato, guidato la loro esistenza. I miei concittadini volevano discutere, neppure loro capivano, s’interrogavano e interrogavano i soldati. Valeva anche per me. Un giorno passò un carro armato e alcuni mani s’agitarono in segno di saluto. Vidi le facce. Giorni prima avevo conosciuto quei ragazzi. Avevo chiacchierato con loro. Ricordo che un settimanale italiano, Epoca, pubblico a più riprese alcune mie foto di Praga: una volta le presentò come lo sguardo di una soldato russo sull’invasione. Da qualunque parte fossi, ero sempre in mezzo».
Per noi i soldati sono i nazisti e i nazisti ci appaiono sempre orrendi. Lei ricorda la guerra mondiale?
«Ricordo la guerra e ricordo la liberazione. I tedeschi li ho visti, quando attraversarono il mio paese per andare in Russia. Una mattina, davanti a casa, vidi i cadaveri dei partigiani».
Ha avuto paura quei giorni a Praga?
«Le pallottole in certi casi non si sa da dove arrivino. Le senti alle spalle, di lato, di fronte. In certe situazioni non si ragiona più. Una volta fotografai un corteo funebre. I soldati volevano prendermi. Mi rifugiai tra i parenti, che mi coprirono, mi nascosero, mi fecero fuggire su un camion, coperto da un telo. Correvo sempre. Anche per nascondere i rullini delle foto».
Dove li nascondeva?
«Anche sopra lo sciacquone di una toilette. Passavo a recuperarli, quando l’aria era calma».
C’è una sua bellissima foto: tante mani che si protendono per raggiungere una copia del Rude Pravo. I giornali e la radio soprattutto segnarono quella “rivoluzione” come poche altre...
«Infatti gli invasori scelsero come bersaglio privilegiato la sede di Radio Praga, che i praghesi difesero strenuamente».
Nel 1970 lei lasciò Praga con un visto di tre mesi. Sarebbe tornato nel 1990. Dopo vent’anni d’esilio.
«L’esilio ti fa due regali. Il primo sta nella possibilità di ricominciare una vita, tutto daccapo, di nuovo, con la mente aperta, senza pregiudizi nei confronti degli altri e, all’inizio, almeno, ti senti libero. Il secondo sta nell’emozione del ritorno. Vidi la mia città come non l’avevo mai conosciuta».
Tornando, ha fotografato i luoghi della rivolta.
«No, proprio no. Me lo hanno chiesto, proprio ora. No, non mi interessa. La ritengo solo una idea giornalistica».
Nel 1990 le sue foto dell’invasione di Praga vennero presentate e pubblicate nel suo paese. Come furono accolte?
«La gente voleva dimenticare. Dal Sessantotto erano passati vent’anni ed erano stati vent’anni disastrosi nella vita della gente, come se la storia di ciascuno si fosse interrotta e qualcosa, tanto, troppo, fosse andato distrutto. Ci sono voluti anni, perchè la gente riaprisse quella parentesi e ricominciasse a riflettere sul suo destino tra il ‘68 e l’89».
Dopo gli zingari e Praga, ha fotografato il paesaggio, ad esempio quello devastato dalle miniere di lignite a cielo aperto della Sassia e prima le cave nei monti metalliferi della Boemia. Perchè quest’altro tema?
«Un critico messicano mi ha definito il fotografo della “fine”: la fine degli zingari, che devono terminare il loro nomadismo; la fine del socialismo; la fine del paesaggio. Potrei aggiungere che la morte è anche l’unica cosa che ti aiuta a capire la vita: lo scriveva quel critico messicano».
L’esilio per lei è stato anche sinonimo di viaggio...
«Sono quarant’anni che viaggio. Fa parte del mio lavoro. Mi fa sempre un grande piacere arrivare. Mi fa ancora più piacere partire».
Non ha mai pensato di partire per l’Irak o per l’Afghanistan per fotografare quelle guerre?
«No. Non mi attrae la violenza. Mi interessa la parte migliore della gente».
Ripete in inglese: the best of the people. Quante fotografie aveva scattato nel Sessantotto di Praga?
«Duecento rullini. Ho scelto le migliori. Ci sono sequenze di sedici o di quattro fotografie che dovrebbero rappresentare una scena che si evolve, da più punti di vista».
E sfoglia il grande volume, pubblicato in Italia da Contrasto di Roberto Koch, “Invasione Praga 68”, e sfogliandolo insieme rapidamente colpiscono i volti e la intensità degli sguardi. Una pagina è la bellissima immagine di Emil Zatopek, il grande maratoneta, olimpionico, la camicia a quadrettoni, la giacca di lana, beve un caffè, la faccia stanca, in pena. Su Rude Pravo, Zatopek invitava il comitato olimpico internazionale a escludere l’Unione sovietica dai Giochi di Città del Messico.
«Ho scelto le foto migliori. Un buona fotografia mi entra in testa e non la posso dimenticare. Questa è una buona fotografia».
Dove andrà adesso?
«Mi hanno invitato in Israele. Ma non sono sicuro...».

l'Unità 6.7.08
Il '68 di Praga
Solo l’ultima illusione di un mondo scomparso?
di Adriano Guerra


MOVIMENTI Il ’68 dei movimenti e quello di Praga. Il primo - si dice - ha attraversato i confini del secolo ed è giunto, nel bene e nel male, sino ai nostri giorni. L’altro apparterrebbe invece soltanto al secolo scorso: un momento di luce subito spento. La primavera
di Praga, dunque. La "rivoluzione dimenticata", come ha scritto Enzo Bettizza presentando i reportages scritti allora. (Primavera indimenticata è invece il titolo di un piccolo volume preparato dall’Unità nel 1988…). Ma siamo davvero di fronte a momenti di una storia interrotta, anzi finita? Momenti di quando c’erano l’Urss, il comunismo, l’Europa divisa a metà, la Cecoslovacchia che teneva insieme cechi e slovacchi. Un mondo scomparso, ora che l’0ccidente, e la Nato, hanno raggiunto Praga, Budapest, Varsavia… .
Con la sconfitta della primavera di Praga - ha scritto Istávn Rév in un libro di dura e inquietante lettura soprattutto, ma non solo, per chi presumeva di conoscere, anche soltanto per averle vissute, quelle vicende - è caduta «l’ultima speranza di poter riformare il socialismo esistente insieme all’utopia di un socialismo dal volto umano». Ma anche Rév ha un dubbio: perché a Praga - ha scritto - con la «rivoluzione di velluto» del 1991 e l’ascesa dell’ex dissidente Waclav Havel alla testa del paese e del leader della primavera di Praga, l’ex comunista Dubcek, alla presidenza del parlamento, ha preso il via, come già era accaduto in Ungheria, un «racconto di redenzione» congiungendo passato e presente. Mettendo allo scoperto un filo, una connessione che unisce comunisti, comunisti riformatori, socialdemocratici e dissidenti: una «traiettoria - ha scritto ancora Rév - che porta dallo stalinismo all’alleanza diretta fra ex comunisti e anticomunisti». E che - si può aggiungere - porta da un secolo all’altro. Ecco dove sta la linea di continuità che in tutti i paesi dell’Europa centrale ed orientale ha visto i partiti ex comunisti diventare forze di governo…
Accidenti della storia, si dirà. Ma perché non vedere in quel che è avvenuto la prova che l’Europa di oggi è anche il risultato delle lotte - da quelle polacche e ungheresi del ’56, al ’68 cecoslovacco, all’ ’80 polacco - condotte per liquidare i caratteri stalinisti dei regimi che hanno caratterizzato i paesi dell’Est, e recuperare, sull’onda del XX Congresso del Pcus, valori di libertà e di democrazia che erano stati banditi ma che erano tuttavia presenti in quelle società?
Certo non bisogna semplificare troppo. Rév per primo. mettendoci di fronte il macabro balletto del Panteon degli eroi del cimitero di Budapest, cosi come di quelli di Praga e delle altre capitali dell’Europa dell’Est, coi resti mortali delle vittime e insieme dei carnefici dello stalinismo che, ora spostati e ora rimessi negli antichi loculi, quasi si confondono, ci aiuta a non cadere in una lettura troppo facile del passato. Quel che ci viene mostrato è che, in ogni caso ,l a storia di quello che è stato chiamato l’«impero esterno» sovietico è stata caratterizzata dalle lotte dirette a liberare quelle società e quei regimi dalla presenza dello stalinismo considerato alla stregua di un corpo estraneo e quindi separabile dal tessuto economico-sociale.
Certo c’era in questa visione delle vicende del «socialismo realizzato» l’illusione che il sistema sovietico fosse riformabile e che la sua storia non fosse che la storia dei tentativi di riformarlo. Si trattava - sappiamo - di una illusione. Ma quante battaglie di libertà e di democrazia - lo ha ricordato di recente sul Corriere Sergio Luzzatto a Piero Melograni presentando il diario della discesa in campo del diciasettenne Bruno Trentin, sono state combattute - felix culpa della Resistenza - pensando ad ideali che si sarebbero poi rivelati illusori e anche fallaci. Un’illusione dunque quella di Dubcek e degli uomini del «socialismo dal volto umano»? Fino ad un certo punto, se è vero, come è vero, che a Praga - l’informazione viene da Luciano Antonetti - si discute oggi sull’attualità di quel che si è detto e fatto nel ’68 non già soltanto per ricordare l’impatto che quei giorni hanno avuto oltreché sulle rive della Moldava anche a Mosca e a Roma, ma per la validità che i progetti di società democratiche ai quali allora si pensava potrebbero avere per i nostri giorni, per la "democrazia malata" dei nostri giorni.
Quanto all’Italia e alla felix culpa del Pci si può aggiungere che i comunisti italiani, seppure, come ha scritto ancora Luzzatto, guardarono con speranza e fiducia - e non furono certo gli unici a farlo nell’Europa occupata dai nazisti - all’«Armata rossa del maresciallo Stalin», seppero respingere però, e per tempo, le tentazioni sia della «via jugoslava» che tendeva a unificare «rivoluzione antifascista» e «rivoluzione sociale», sia quella successiva e, dall’esito catastrofico, greca. Sempre a proposito del ’68 del Pci è opportuno segnalare ancora che interessanti novità vengono dalle carte che Alexander Höbel, da tempo impegnato sui temi della Primavera di Praga, ha utilizzato per una ricostruzione di quei giorni. Quel che viene in particolare alla luce è la consapevolezza con la quale la decisione - che non aveva precedenti nella storia del partito - di esprimere una posizione decisamente critica nei confronti dell’Unione sovietica è stata presa e sostenuta dal gruppo dirigente del Pci in modo unanime. Anche se nei confronti di Mosca ci si avvicinò in quei giorni - la testimonianza è di Cossutta - al «punto della rottura irreversibile». Occorre «preservare questo nostro partito…. . Ci sono dei prezzi che non possiamo pagare... nemmeno se si dovesse rinunciare ad una edizione dell’Unità» (Il quotidiano usciva allora in edizioni separate a Roma e a Milano), ha detto Giancarlo Pajetta nel corso della riunione della Direzione del 23 agosto 1968 ponendo il problema dell’autonomia del Pci anche sul piano finanziario. Poi, nei mesi, e negli anni, successivi, verranno i distinguo e anche i passi indietro. Ma la posizione critica assunta il 21 agosto venne nella sostanza mantenuta sulla base di una linea che tendeva ad un tempo «ad evitare le rotture - come dirà Berlinguer - e ad approfondire le nostre posizioni…qualcosa di irrinunciabile».
La novità presente nell’atteggiamento del Pci - registra ancora Höbel - venne immediatamente colta dagli osservatori americani: «La posizione del partito italiano - si legge in un messaggio inviato a Washington dall’ambasciatore Ackley - è un rifiuto completo della guida sovietica del movimento comunista mondiale, anche se i comunisti italiani continuano a dire cose educate sull’importanza dell’Urss».
I fatti - come si vide alla conferenza di Mosca del 1969 a conclusione della quale il Pci respinse tre dei quattro documenti finali dedicati ai compiti che il movimento comunista mondiale avrebbe dovuto far propri a sostegno della politica sovietica - hanno confermato la previsione di Ackley. Il che non ha certo impedito che anche il comunismo italiano, per quanto diverso, democratico, occidentale, scomparisse dalla scena. E per ragioni - qui vale l’osservazione di Luzzatto sul carattere illusorio degli obbiettivi di trasformazione perseguiti - che non sono semplicemente imputabili a errori degli uomini, a ritardi e a limiti. Ma questa circostanza non è una buona ragione per stendere veli sulle pagine del passato. Tanto più che, come ci ricorda Rév, e con lui coloro che qui da noi continuano a proporre nomi per il Panteon della sinistra, volenti o nolenti il passato è sempre dentro al futuro.
Enzo Bettizza, La Primavera di Praga: La rivoluzione dimenticata, Mondadori, Milano 2008;
István Rèv, Giustizia retroattiva. Feltrinelli, Milano, 2007,
Alexander Höbel, Il contrasto tra Pci e Pcus sull’intervento in Cecoslovacchia. Nuove acquisizioni, in: Studi storici, n.2, 2007, pp. 523-550 (dello stesso autore si veda la relazione al convegno sulla Primavera di Praga che ha avuto luogo a Roma il 7 e 8 maggio 2008 per iniziativa dell’Università di Roma).

l'Unità 6.7.08
Gerusalemme. I terroristi «free lance»
di Umberto De Giovannangeli


PADRI PREMUROSI Studentesse modello. Fino al giorno in cui decidono di trasformarsi in «shahid» (martiri). Sono i terroristi «free lance». Sganciati dai gruppi tradizionali, e per questo più difficili da individuare. Come Hussam Dwayat, che alla guida di un bulldozer ha seminato la morte nel cuore della Città Santa
Agiscono da soli. Mimetizzati da una vita «ufficiale» irrepresensibile. Coltivano nel segreto della loro mente un odio che li accompagna giorno dopo giorno. Fino all’attimo fatale. Quando divengono «shahid». Sono i «free lance» del terrorismo palestinese. Non sono inquadrati nei gruppi radicali dell’Intifada, non godono del loro sostegno militare e logistico. Compaiono dal nulla e lasciano il segno. Di sangue. Colpendo in una via affollata o seminando la morte in un collegio rabbinico. L’intelligence di Tel Aviv ammette la difficoltà di prevenire queste azioni, perché con i «free lance» del terrore non c’è infiltrazione che regga: agiscono da soli, al massimo con coperture familiari. Agiscono da soli. Come ha fatto Hussam Tayassir Dwayat, che a bordo di una gigantesca ruspa in una torrida mattinata di luglio (il 2) ha seminato la morte nella centrale Jaffa Road. (tre le vittime). Dwayat aveva 30 anni e viveva con la moglie e due figli nel sobborgo di Zur Baher, alla periferia di Gerusalemme Est. I vicini di casa lo descrivono come una persona tranquilla, dedito alla famiglia, un padre che dedicava molto del suo tempo ai due figli. Per anni Dwayat ha avuto come fidanzata una ebrea israeliana, ha rivelato la suocera dell'attentatore palestinese, spiegando che la relazione con la donna risaliva a un periodo precedente al suo matrimonio con una connazionale. Hoda Dabash, suocera dell'attentatore poi ucciso dalle truppe israeliane, ha raccontato oggi che l'ex fidanzata israeliana del figlio era stata ospitata per un mese e mezzo dalla famiglia di lui. L'uomo aveva anche fatto da padre a un figlio di lei, che adesso ha nove anni. Negli ultimi mesi, raccontano ancora i vicini, Dawyat si era chiuso in se stesso, e aveva avuto problemi di droga: si era avvicinato all'Islam, anche se non sembrava avere particolari simpatie politiche. Gli 007 dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno israeliano), hanno rovistato nella sua vita, giungendo alla conclusione che Hussam Tayassir Dwayat, non era inquadrato in alcuna delle tante fazioni armate palestinesi.
Come non era inquadrato Ala Hisham Abu Dheim, 25 anni. Di mestiere faceva l’autista. I suoi datori di lavoro raccontano di un giovane riservato, «parlava poco, mai di politica, ed era sempre puntuale...». Puntuale anche nel giorno dell’orrore. Quella notte del 6 marzo, quando «Hisham l’autista» fa irruzione nel Merkaz Harav Yeshiva, il più importante collegio rabbinico di Gerusalemme, nel quartiere di Kyriat Moshe, noto centro di studi ebraici vicino al movimento dei coloni. Hisham, travestito da studente, raggiunge l’ingresso del collegio e si dirige verso la biblioteca, in quel momento affollata di studenti intenti alla lettura. In un attimo si scatena un inferno di piombo. Il bilancio è di nove morti (otto studenti più l’attentatore) e sette feriti. Hisham Abu Dheim aveva passaporto israeliano e abitava a Gerusalemme Est. Aveva lavorato come autista anche nel collegio che quella notte aveva trasformato in un campo di battaglia. Anche lui era un «free lance» del terrore. Hisham veniva da una famiglia benestante, molto conosciuta: Hisham, racconta suo cugino Yad, era una persona semplice, lavorava come autista, era religioso certo, ma non integralista. Doveva sposarsi con Rihad, 17 anni; stava allestendo l’appartamento in cui sarebbe andato a vivere con la moglie, sempre nella grande casa della famiglia. «Nessuno in famiglia si occupa di politica», ripete Yad.
Persone all’apparenza irreprensibili, se non addirittura un modello di generosità. Come Wafa Idris, la prima donna-kamikaze palestinese. Wafa Idris era una volontaria delle squadre di pronto soccorso della Mezzaluna Rossa, una che curava feriti e salvava vite umane. «Voleva essere d’aiuto, ne traeva grande soddisfazione», è il ricordo di Wael Qadan, direttore della Mezzaluna Rossa di Ramallah. Wafa Idris il 28 gennaio 2002 si è fatta saltare in aria in Jaffa Street: oltre se stessa, ha ucciso una guida turistica di 81 anni e ferito alcune dozzine di persone. Wafa aveva 28 anni. Qualche mese prima si era iscritta a un corso di specializzazione che sarebbe dovuto cominciare in marzo e che l’avrebbe qualificata a dedicarsi esclusivamente, a tempo pieno e professionalmente, e dunque non più solo come volontaria, agli interventi di assistenza medica urgenti.
Nelle prigioni israeliane vi sono 75 terroriste palestinesi che hanno tentato un’azione suicida, o l’hanno progettata o hanno fiancheggiato altri attentatori. Tra le 75 c’è Samaa Atta Bader, 23 anni di Nablus, laureanda in legge dell’università Al-Najah: «Io - racconta - ho deciso di sacrificarmi per vendicarci uccidendo più soldati che potevo». Samaa è stata arrestata, in seguito ad una soffiata, il 16 giugno 2004. Ha detto che non ha avuto bisogno di particolare preparazione ideologica, giacché aveva sentito parlar molto a scuola della «shaidada » (il martirio) e poi, ha aggiunto, «il 99% dei miei amici che hanno avuto fratelli o parenti ammazzati è pronto al sacrificio».
Hussam, Hisham, Wafa, Samaa...Sono solo alcuni dei terroristi «free lance». Un frammento di un terrorismo che si proietta su scala mondiale, più pericoloso perché invisibile, anonimo e autonomo da ogni organizzazione e comando superiore, centralizzato. I nuovi terroristi, rimarca Jason Burke, tra i più autorevoli studiosi di Al Qaeda, saranno «operatori free lance» privi di connessioni palesi con i gruppi tradizionali.
Non solo Gerusalemme ma anche altre città israeliane hanno conosciuto la determinazione feroce di questi terroristi dal volto «angelico». Come era quello di Hanadi Taysir Jaradat. Hanadi, 29 anni, aveva studiato in Giordania ed esercitava la professione di avvocato a Jenin, in Cisgiordania, sua città natale. Jenin, tristemente nota come la «capitale» dei kamikaze. È il 4 ottobre 2003, quando una potente esplosione in un ristorante sul lungomare di Haifa, città portuale nel nord d’Israele, provoca 19 morti, tra cui cinque bambini fra i due e i quattro anni, oltre una cinquantina di feriti. A farsi saltare in aria è Hanadi Taysir Jaradat, la kamikaze dalla faccia d’angelo. Si è voluta sacrificare, spiegarono i familiari, per vendicare il fratello e suo cugino, ambedue miliziani della Jihad islamica uccisi dalle truppe israeliane. Sono solo alcune storie esemplari di una lunga gallerie di terroristi «free lance», di uomini e donne della «porta accanto» che un giorno hanno spalancato le porte dell’inferno.

Corriere della Sera 6.7.08
Madrid Offensiva del premier socialista contro la Chiesa anche sull'aborto
Zapatero: via i crocifissi dai luoghi pubblici
Il Psoe: «Un diritto l'interruzione di gravidanza»
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — Per i socialisti del premier Zapatero la Spagna non è ancora abbastanza laica. Ed è anche arrivata ora di rimettere mano alla legge sull'aborto, mentre si comincia a parlare, seppure sommessamente, di eutanasia. Il 37˚ congresso del Psoe, che conclude oggi tre giorni di lavori a Madrid, traccia le linee di un futuro che non concilierà il sonno dei vescovi più conservatori: via i crocifissi da scuole e uffici pubblici; niente più giuramenti ufficiali sulla Bibbia, niente più funerali di Stato secondo il rito cattolico.
Laicità al centro del 37esimo Congresso dei socialisti. Che chiedono anche l'abolizione dei funerali religiosi di Stato

MADRID — Arrivano tutte insieme, anche se non proprio inattese, le cattive notizie per il presidente della Conferenza Episcopale spagnola, cardinale Antonio María Rouco Varela: secondo i socialisti, al governo, la Spagna non è ancora abbastanza laica. Ed è anche arrivata ora di rimettere mano alla legge sull'aborto, ormai più che ventenne; mentre si comincia a parlare, seppure sommessamente, di eutanasia. Il 37esimo congresso del Psoe, che conclude oggi tre giorni di lavori a Madrid, traccia le linee di un futuro che non concilierà il sonno dei vescovi più conservatori della Chiesa iberica: via i crocifissi da scuole e uffici pubblici; niente più giuramenti ufficiali sulla Bibbia, niente più funerali di Stato secondo il rito cattolico. Il partito di maggioranza non prevede una tabella di marcia serrata e, dopo molte discussioni e ripensamenti, ha deciso di aggiungere l'avverbio «progressivamente» nel comunicato (non vincolante per il Governo) in cui riassume i suoi propositi di riforma della Legge organica sulla libertà religiosa. Ma «la Chiesa cattolica deve essere cosciente che la Costituzione non le riconosce privilegi », si legge nella nota.
Pur ammettendo che «democrazia e religione non sono incompatibili », i socialisti spagnoli si impegnano a realizzare «la laicità che la Costituzione conferisce allo Stato». E citano i passi già compiuti in questa direzione, più o meno gli stessi che, sei mesi fa, avevano spinto la Conferenza episcopale spagnola a chiedere agli elettori cattolici di non votarli: l'educazione civica nelle scuole, il riconoscimento dei matrimoni omosessuali, lo snellimento delle pratiche per il divorzio, l'impulso alla ricerca biomedica.
La questione più dibattuta è stata quella dei funerali di Stato: se non saranno celebrati secondo il rito cattolico, quale liturgia alternativa può proporre un sistema perfettamente laico e aconfessionale? Nella versione definitiva del testo, la segreteria del Psoe ha preferito sfumare il tenore iniziale considerando piuttosto «indispensabile una legislazione che stabilisca nuovi criteri di collaborazione tra confessioni religiose e amministrazioni pubbliche e assicuri a tutte le confessioni un trattamento uguale». Pur senza ritoccare gli accordi raggiunti nel 1979 tra Stato e Santa Sede, come reclamava invece l'ala oltranzista, rappresentata da Izquierda Socialista.
Ieri il Segretario organizzativo del Psoe, José Blanco, ha aggiunto altre spine nel fianco dei vescovi annunciando che la legge sull'aborto dovrà essere rivista. Proposito confermato dalla numero due del Governo, Maria Teresa Fernández de la Vega, che ha parlato di una «riforma avanguardista in difesa dei diritti delle donne». Una commissione di esperti studierà la situazione in Europa per ispirarsi alle leggi più avanzate, prima di formulare modifiche alla normativa del 1985. Durante la campagna elettorale il Premier e Segretario del partito (riconfermato ieri col 98,53% dei voti), José Luis Rodríguez Zapatero, interrogato sull'argomento, aveva preferito mantenersi vago, sostenendo che non c'era urgenza né necessità di modificare la legge.
Un'altra donna, infine, entra nella direzione del Psoe: Leire Pajín, basca, 32 anni, attuale Segretaria di Stato per la Cooperazione internazionale, è la nuova numero tre del partito.

Repubblica 6.7.08
La lezione che arriva da Madrid
di Guido Rampoldi


Se crediamo agli scettici, particolarmente numerosi in Vaticano, Zapatero non ha alcuna intenzione di entrare in urto con la Santa Sede, tantomeno con i partitini cattolici che gli prestano i voti necessari a governare.
Dunque non dovremmo prendere sul serio i cambiamenti promessi ieri dalla direzione del partito socialista, dall´introduzione dell´eutanasia ad una riforma dell´aborto.
Progetti del resto vaghi, proiettati in un futuro indefinito (i «prossimi anni») e condizionati ad una «domanda sociale» che al momento pare debole. E per tutto questo staremmo assistendo non ai preparativi per una nuova «offensiva laicista», formula che piace molto all´impressionabile curia spagnola, ma ad una manovra diversiva: Zapatero intenderebbe sia accrescere la confusione nella destra spagnola, dove liberali e clericali sono entrati in frizione, sia accontentare la sinistra del partito socialista, cresciuta con le elezioni di marzo, nelle quali il Psoe ha anticipato il Pd di Veltroni perdendo molti voti dove li cercava, nel centro, e risucchiandone altri dall´area rosso-verde. Eppure la questione che i socialisti ormai da anni reiterano non è affatto strumentale: nell´Europa multietnica quale posto spetta oggi ai cleri delle religioni nazionali? Può la Chiesa cattolica rivendicare una centralità, e i relativi privilegi, in base ad una sorta di diritto storico?
A queste domande finora la curia spagnola ha risposto con una tesi debolissima, i socialisti con una condotta ambivalente. Come la direzione del Psoe ha ribadito ieri, la religione cattolica è la fede più praticata in Spagna ma certo non l´unica. La Costituzione spagnola «non le assegna alcun privilegio», e di questo la Chiesa «deve essere cosciente», ammonisce il vertice socialista. Per questo in futuro i funerali di Stato non saranno celebrati con rito cattolico, e i crocefissi spariranno dagli uffici pubblici, dove peraltro sono da lustri quasi introvabili.
Ma mentre faceva la voce grossa il governo socialista manteneva, e addirittura ampliava, i privilegi economici di cui oggi gode la Chiesa cattolica. Ha influito la folta presenza cattolica nell´elettorato socialista, e forse anche la consapevolezza che quando si tratta di dare concretezza alla parola più utilizzata dalla sinistra, "solidarietà", chi ha una fede autentica è più generoso di noi liberi pensatori.
Ma il trattamento di favore ottenuto non ha placato la curia belligerante. Capeggiati dal primate di Spagna, Canizares, questi prelati sostengono che la Chiesa spagnola (dunque essi stessi) è custode dei valori nazionali. Per così dire li incarna, li rappresenta. Già il fatto che esistano "valori spagnoli", capaci di spandersi come un dna in ciascuno, è tesi spericolata. E anche a prendere sul serio quello spengleriano "carattere dei popoli", bisognerebbe dimostrare che i "valori spagnoli", in teoria costruiti dalle vicissitudini storiche, sono intrinsecamente cattolici. Un profano, per esempio, potrebbe obiettare che in Spagna i costumi sessuali hanno scarse relazioni con la morale predicata per mille anni dai pulpiti, e molte di più con la grande tradizione anarchica e protofemminista, comunque anticlericale, del Novecento. Se ne potrebbe discutere per anni: quel che qui importa è lo slittamento "politico" che comporta l´arroccarsi nel recinto dei "valori nazionali" e delle "radici cristiane".
Se si tribalizza per difendere la propria centralità dagli assalti del "relativismo" e dall´invasione di fedi straniere, le religioni degli immigrati, la Chiesa cambia. Perde non solo lo slancio universalista ma anche la vocazione grossomodo liberale che le aveva instillato il pontificato planetario di Wojtyla. E finisce per consegnarsi a protettori interessati. Come risulta chiaro da quel che sta avvenendo dentro il Partido popular, l´avversario dei socialisti. Con il congresso di giugno il capo del Pp, Mariano Rajoy, ha spostato l´asse del partito verso «il centro», come dice lui, comunque lontano dalle posizioni della curia belligerante.
Quest´ultima appoggia apertamente con la sua radio, la virulenta Cope, quella destra radicale guidata da Aznar che è uscita dal congresso sconfitta ma non debellata. A spaccare il partito adesso sono anche questioni "etiche" che molti prelati giudicano fondamentali, dalla legge sui matrimoni gay (difesa da una parte del Pp) fino all´ideologia delle "radici cristiane", che lascia assai tiepido Rajoy. Ma anche la relazione con il passato divide.
A giudicare dai loro silenzi non pochi prelati rimpiangono i tempi di Franco, quando la Spagna era sempre in processione. E anche in questo hanno trovato una sintonia con la destra della destra, quella che rifiuta di condannare la dittatura e perfino di cancellare i titoli onorifici attribuiti al Caudillo da alcuni municipi.
Quando lo guidava Aznar, il Pp era il partito che in Europa Berlusconi e Fini consideravano a loro più prossimo. Con Rajoy non c´è la stessa simpatia. Ma quanto avverrà a Madrid potrebbe ugualmente essere di ammaestramento in Italia all´attuale maggioranza, come il Pp una sommatoria di culture politiche difficilmente conciliabili. Dopotutto anche nella destra italiana c´è chi ha sufficiente dignità e senso dello Stato per aspirare a rappresentare quel che la Spagna ha e l´Italia non riesce a darsi: una destra laica e liberale, una destra europea.

il Riformista 6.7.08
Pieranunzi, jazz da camera
di Vittorio Castelnuovo


Attivo dagli anni Settanta ed approdato recentemente all'etichetta Cam, con la quale ha inciso dischi di diseguale valore, il musicista Enrico Pieranunzi, che sta al jazz come il suo mentore Giorgio Manganelli stava alla letteratura, ha realizzato un disco («Enrico Pieranunzi plays Domenico Scalatti») che formalmente mette insieme il gusto dell'improvvisazione, matrice afro-americana dalla quale proviene, con la tradizione cameristica, cui appartiene invece il clavicembalista Domenico Scarlatti. Figlio d'arte di Alessandro Scarlatti - proprio come Enrico, ricordando il papà Alvaro, bravissimo chitarrista - Domenico nacque a Napoli nel 1685 e morì a Madrid nel 1757; compiendo un tragitto simile a quello di Luigi Boccherini, l'altro schietto rappresentante del Settecento strumentale italiano, che venne al mondo a Lucca nel 1743 e si spense sempre a Madrid nel 1805. Dietro una logica musicale incalzante ed una serenità quasi pastorale, dove venivano adunate tutte le grazie del secolo di appartenenza, nella sua musica Scarlatti anticipava ed educava il tempo con improvvise forme di malinconia, secondo una dolente ed incessante esplorazione che trova riscontro nella parabola contemporanea del pianista romano.
Sono stati numerosi gli esperimenti effettuati per accostare i due modi, giustapponendoli spesso con effetti suggestivi; pure rammentandone i risultati discontinui, è opportuno citare per esempio il lavoro del brasiliano Uri Caine, multiforme e contraddittoria figura di agitatore musicale perfetta per i palinsesti attuali. Ma nell'album di Pieranunzi, lungo il canale sotterraneo individuato quasi attraverso una fedeltà all'enigma del passato e grazie al quale le due esperienze sono messe sullo stesso piano arrivando a formare un unico racconto melodico, c'è qualcosa di differente. Ripensa il paesaggio mentale, combinando musica e significato, individuando un'espressione ancora innominata, un incanto ancora inedito: l'illusione di aver trovato il segreto, la luce che rispetta la nostalgia dell'ombra, il presentimento di una svolta.
Con l'ausilio del solo pianoforte; chiamando a sé sia le mezze ombre della cultura indio-europea, che il desiderio e gli inganni dell'immaginario occidentale, Enrico Pieranunzi ribadisce come la via diretta gli sia preclusa. Affermando, pur nel bisogno di essere ascoltato, la propria diversità anche rispetto all'arte e celebrando l'avvento della differenza.
«Enrico Pieranunzi plays Domenico Scalatti», Cam

sabato 5 luglio 2008

l'Unità 5.7.08
Santino Spinelli. Professore di letteratura rom e fondatore dell’associazione «Thém Romanò»: in Italia c’è un’apartheid contro di noi
«Anche noi rom ci saremo, contro la vergogna delle impronte»
di Maristella Iervasi


A distanza esatta di un mese dalla grande manifestazione a Roma, il popolo Rom (ri)esce dai campi e dalle roulotte e dà voce al proprio disagio. Martedì 8 luglio anche i Rom e Sinti saranno in piazza Navona al fianco di Furio Colombo, Flores D’Arcais e Pardi contro le «leggi vergogna» del governo Berlusconi, impronte ai bimbi Rom compresi. Ne parliamo con Santino Spinelli, rom italiano, professore di lingua e letteratura rom all’Università di Trieste, nonchè musicista (in arte Alexian) e fondatore dell’associazione nazionale «Thèm Romanò».
Parlerà anche lei dal palco di piazza Navona?
«Prenderò il microfono per ribadire come facemmo già l’8 giugno scorso che stiamo tornando alle leggi razziali: oltre al commissario per i rom adesso vogliono le impronte. Altro che censimento come sostiene il ministro Maroni! È una schedatura bella e buona: riguarda una sola etnia, quindi è discriminazione».
E cosa pensate di fare?
«L’8 mattina ci incontreremo con il coordinamento nazionale antidiscriminazione e firmeremo un sorta di patto di gemellaggio. Poi andremo tutti a piazza Navona. L’8 luglio dovrà essere ricordato come la giornata del movimento di liberazione di Rom e Sinti».
In che senso?
«Via dai campi e stop alla segregazione razziale. Si è fatta passare l’idea che i Rom sono nomadi per cultura. Niente di più falso. Il primo campo rom è stato istituito a Colonia (Germania) dai nazisti nel ‘34. I rom che oggi continuano vivere nei campi, nella ex Jugoslavia e in Romania vivevano nelle case. I diritti dei rom, dunque, vengono palesemente violati. All’estero tutti se ne accorgono e la chiamano apartheid, in Italia invece continuano a chiamarla cultura. Così accade che l’errore di un rom viene elevato a modello culturale».
Come la molotov di Ponticelli per il presunto sequestro di una bimba italiana...
«Un capro espiatorio creato ad hoc per distillare paure mai esistite. Non c’è stato nessun sequestro di bimba. La magistratura può confermalo. Di certo invece c’è stato il lancio di una molotov contro donne e bambini inermi a Ponticelli ma nessun italiano è stato indagato. Contro i Rom è lecito buttare molotov?».
Chi vive nei campi che clima avverte al di fuori della sua roulotte?
«I Rom vivono in sofferenza e paura. Siamo un popolo pacifista: non siamo arrivati con le armi in Europa e non abbiamo creato un esercito. Siamo cittadini e come tali rivendichiamo diritti e sicurezza. Non siamo zingari, la nostra cultura è romanì. Vivere in un campo nomadi è illegale, è contro l’umanità. Non è una scelta dei Rom. Potrà mai diventare capo del governo o presidente della Repubblica un Rom in Italia, se gli si nega il diritto al lavoro, alla casa, all’assistenza sanitaria?»

l'Unità 5.7.08
Italia, settant’anni di razzismo


Il 14 luglio 1938 a Roma faceva molto caldo; il giorno seguente la temperatura sarebbe salita ancora, fino a superare i 33 gradi. Nella seconda parte della giornata, cominciò a circolare il nuovo numero de Il Giornale d’Italia, quotidiano pomeridiano della capitale, che recava già la data del giorno seguente. In prima pagina, le colonne di destra erano interamente dedicate a un lungo documento, articolato in dieci punti - come fosse una nuova esternazione divina - e intitolato Il fascismo e i problema (sic) della razza. Una breve premessa segnalava che il testo costituiva «la posizione del Fascismo nei confronti dei problemi della razza». Con ciò la popolazione italiana veniva pubblicamente informata (o meglio: notificata) che il fascismo (ossia: non semplicemente Benito Mussolini o il governo, ma l’intera struttura divinizzante partito-ideologia-Stato-Nazione) aveva una “posizione” ufficiale sui “problemi della razza”. Il carattere totalitario del regime la rendeva vincolante, quanto meno nei suoi principi generali. Il giorno dopo (il 15 luglio) il documento fu pubblicato da tutti gli altri quotidiani.
Poiché il 26 luglio i giornali riferirono i nomi di dieci professori e assistenti universitari che avevano “redatto o aderito” al decalogo, esso è stato spesso ridenominato «Manifesto degli scienziati razzisti». Questa definizione è però fuorviante, per via del fatto che, di là dalle responsabilità tecniche di scrittura, il documento fu appunto presentato come “posizione del Fascismo” e non come posizione di un gruppo di intellettuali. Oggi poi sappiamo con certezza che proprio Mussolini ne sollecitò la stesura e ne indicò la linea. Pertanto è di gran lunga più adeguato parlare di «Manifesto fascista della razza» o «Manifesto del razzismo fascista». Altrimenti, volenti o no, si depista la conoscenza e si nega la storia.
Secondo alcuni volumi e siti web, compreso it.wikipedia.org, ai dieci docenti universitari che avevano ufficialmente “redatto o aderito” al decalogo, vanno aggiunte alcune centinaia di personalità «che aderirono ufficialmente al manifesto oppure sostennero pubblicamente le leggi razziali fasciste». Questa affermazione è erronea, nella sua prima parte. All’epoca infatti non vi fu alcuna raccolta di sottoscrizioni al “Manifesto”. E però è vero che molti giovani e molti intellettuali (e in particolar modo tanti intellettuali giovani) scelsero di divenire, a seconda dei casi, teorici, o divulgatori, o propagandisti del razzismo e dell’antisemitismo.
In effetti il vocabolo “razza” aveva fatto la sua comparsa nel corpus legislativo nazionale almeno all’inizio del Novecento (ossia prima del fascismo), con riferimento alle popolazioni della colonia Eritrea. Esso dapprima aveva un significato quasi solo nomenclatore, ma ben presto iniziò ad avere un portato discriminatorio. Del 1921 - ossia sempre prima della “marcia su Roma” - è l’affermazione del governatore di quella colonia sul «prestigio che deve circondare la razza dominante di fronte all’elemento indigeno». Nel ventennio fascista il suo utilizzo si intensificò, dapprima connesso direttamente (ma non con esclusività) alla politica demografica e poi legato al primato dei bianchi sui neri e progressivamente a quello degli ariani-cattolici sugli ebrei (ma già nel giugno 1919 Mussolini si era già scagliato sul suo giornale contro gli ebrei capitalisti dell’ovest e bolscevichi dell’est, «legati da vincoli di razza ... contro la razza ariana»). Nel 1927 il dittatore annunciò di voler “curare” la “razza italiana”; nel 1935 scrisse: «Noi fascisti riconosciamo l’esistenza delle razze, le loro differenze e la loro gerarchia»; l’anno seguente (a Etiopia conquistata) il ministro della stampa e propaganda Galeazzo Ciano ricordò: «È necessaria una netta separazione fra razza dominante e razza dominata»; nei primi mesi del 1937, il decreto legge contro le convivenze “razzialmente miste” in Etiopia e i provvedimenti governativi con misure demografiche furono pubblicamente motivati con le dizioni interscambiabili di «per l’integrità della razza» e «per la difesa della razza». Il 5 gennaio 1937 il sottosegretario agli Esteri Giuseppe Bastianini chiese a tutte le rappresentanze diplomatiche italiane di riferire su «entità, ... caratteri, ... importanza, ... attività economiche, … tendenze politiche, … criminalità, … attività illecite, ... stampa» delle varie comunità ebraiche; e nel giugno di quell’anno il dittatore, in un articolo non firmato, tornò a presentare gli ebrei come una “razza”, nonché come «un riuscitissimo esempio di razzismo».
Il «Manifesto fascista della razza» del 14 luglio 1938 ebbe lo scopo di rafforzare il razzismo “anticamita”, dandogli una solida (così si riteneva) strutturazione ideologica, e di esplicitare quello “antisemita”, integrandolo con il primo. Ciascun punto del decalogo recava un titolo, la cui successione era: «1, Le razze umane esistono. 2, Esistono grandi razze e piccole razze. 3, Il concetto di razza è concetto puramente biologico. 4, La popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà ariana. 5, È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. 6, Esiste ormai una pura razza italiana. 7, È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. 8, È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. 9 Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. 10, I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo». Con ciò il razzismo e l’antisemitismo iniziarono a far parte ufficialmente della vita del “bel Paese”. Seguirono le leggi antiebraiche e nuove leggi contro il temuto “meticciato” tra bianchi e neri e per la «difesa del prestigio di razza». L’Italia divenne insomma a tutti gli effetti uno Stato razziale, un Paese razzista.
Non sappiamo ancora se la temperatura romana di questo 14 luglio 2008 risulterà altrettanto bollente. Ma nulla può uguagliare il bollore suscitato, in questo anno settantesimo dal varo di quel decalogo razzista, dall’udire parlamentari italiani pronunciare frasi quali «l’associazione a delinquere tipica delle famiglie ebraiche», o «sono ancora alla ricerca, qualcuno me lo segnali se lo conosce, di un ebreo in Italia con un lavoro regolare». Scusate, mi accorgo di aver citato malamente: in verità le due frasi contengono il vocabolo “rom” e non le parole “ebraiche” o “ebreo”; ma vi è poi differenza?

l'Unità Roma 5.7.08
Impronte ai bambini rom, Mosca: non polemizzo, applico la legge
di Massimiliano Di Dio


L’aurea del prefetto ’ribelle’ non gli appartiene. Ma certo il suo no alle impronte sui bimbi rom ha lasciato il segno. Dentro e fuori il Viminale. «Prefetto Mosca, ci sono state reazioni alle sue parole?» gli chiedo mentre esce da Palazzo Valentini per un incontro con l’ex presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick. «Quello che voglio è lavorare - risponde Mosca con serenità - Non voglio avere contrasti con nessuno. L’importante è che le cose siano fatte nel rispetto della legge. E sapete bene che se ci sono delinquenti, vogliamo tutti che siano allontanati». Neppure una parola di rivalsa contro quanti, a partire dal ministro Maroni, avevano inizialmente cercato di tirarlo per la giacca sotto il diktat "Impronte per tutti". In perfetto stile Mosca. D’altronde, ogni volta che può, è lui stesso a sottolineare: «L’esercizio della democrazia è pazienza». E ora può dire di dettare la linea anche altrove, come dimostrano le scelte del collega milanese. «Raccolta delle impronte digitali solo se non sarà possibile identificarli con certezza in altro modo» faceva sapere ieri la Prefettura di Milano. «Mosca che si contrappone a Maroni? Merita un elogio» afferma Enzo Carra del Pd. Che poi azzarda anche il paragone: «È un italiano d’altri tempi - aggiunge - Ricorda ’il piccolo giudice siciliano di Porte Aperte, indimenticabile romanzo di Sciascia, che non si piegò al conformismo d’allora rifiutandosi di emettere una sentenza capitale».
Ieri il commissario straordinario ha incontrato Croce Rossa Italiana, forze dell’ordine e gli altri membri dello staff voluto per avviare le operazioni di censimento e risistemazione dei campi nomadi laziali. Un incontro tecnico diretto a meglio definire punto per punto il contenuto delle schede che serviranno a identificare i rom e valutare le proposte di documenti d’identità con fotografie. Quindi l’analisi anche della tessera sanitaria e degli obiettivi di integrazione sociale che dovranno accompagnare l’intero lavoro.
Sempre ovviamente secondo i poteri conferiti a Mosca dall’ordinanza del ministro Maroni. Il commissario capitolino l’ha studiata nei minimi dettagli (l’inizio del censimento è previsto per il 14 luglio, ma sono già iniziati i colloqui della Prefettura con le comunità dei campi). comprese le scelte in tema di identificazione. Frutto di attento esame giuridico, ora ripreso anche da altre città. «Il prefetto di Roma non ha minimamente messo in discussione la direttiva del Governo - sostiene Antonio Corona, presidente dell’Associazione Prefettizi - Si è semplicemente limitato a ragionare sulle modalità migliori per l’identificazione dei minori. Che per Mosca risulterebbero i rilievi fotografici mentre per il ministro le impronte. Tutto qui». Una attenzione, quella del prefetto che suscita ampi consensi: «Le impronte ai bimbi rom - ha detto il capogruppo del Pd in consiglio comunale Umberto Marroni - sono una discriminazione su base razziale verso un’etnia che comprende un cinquanta per cento di cittadini italiani».

l'Unità 5.7.08
Rapporto Censis: il telecomando della paura
di Silvia Garambois


RAPPORTO CENSIS Da dove arriva quella «percezione della paura» che allarma così tanto gli italiani? Da tv, tg, fiction e varietà, più che dal crimine: lo sostiene la ricercatrice Elisa Manna in uno studio che sarà presentato in un summit a settembre

Da dove arriva la nostra quotidiana paura? Quella «percezione della paura», spropositata rispetto ai dati del crimine, incomparabile nel confronto con le ansie dei cittadini americani o del resto d’Europa? Quella che - anche - ha aiutato il centro destra a vincere le elezioni? Su questa angoscia che corre sottopelle, hanno responsabilità i giornali, ha delle «colpe» la tv? Elisa Manna, ricercatrice del Censis, studiosa dei media e di come ne rappresentano la società, nella relazione che sta preparando per il World Social Summit che si svolgerà a settembre a Roma, ha abolito ogni punto di domanda.
Anzi, ci racconta «come» i media italiani amplificano la paura. Lo fa analizzando i telegiornali, i varietà, le fiction, e la loro rappresentazione della realtà. E non ci va leggera: «Una melma vischiosa e putrida di violenze familiari - scrive -, di raptus, di abusi su bambini indifesi, di "seminfermità mentali” inonda le televisioni ogni giorno, invade intere pagine di quotidiani, si installa saldamente nelle “fasce protette” della tv, assuefacendo piccoli telespettatori di ogni età alle nefandezze della vita più oscure e irriferibili».
Il summit mondiale, organizzato dalla Fondazione Roma con la collaborazione del Censis, ha convocato sociologi, economisti, scrittori, premi Nobel ai «Dialoghi per combattere le paure planetarie», e nella preparazione dell’evento - tra tanti temi - il ruolo dei media risulta assolutamente centrale. È vero che la cronaca nera suscita, da sempre, caldissime attenzioni nel pubblico; non c’è estate a memoria d’uomo in cui un «giallo» non abbia impegnato giornali, tv e chiacchiere da ombrellone; ma in questi anni - secondo la ricercatrice - il meccanismo è come impazzito, «e il giallo dell’estate ormai - ci dice - dura tutta l’anno».
Possibile che ci sia tanta colpa nella tv?
«In preparazione del summit abbiamo ripreso in mano, guardandole da un’altra angolatura, le ricerche di questi anni: in particolare una commissionata dalla Rai nel 2002 sulla rappresentazione dei bambini e del dolore in tv e un’altra, recentissima, realizzata con l’Unione europea su donne e media. Ebbene, nel 47,4% dei casi il bambino viene rappresentato come vittima di un omicidio, mentre la donna compare nei telegiornali prevalentemente come vittima di casi di cronaca nera, addirittura nel 67,8% dei casi. Questo utilizzo dell’immagine dei minori e delle donne veicola una dimensione di ansia sociale e di preoccupazione, per la sicurezza, per l’incolumità fisica. Trent’anni fa nessuna ragazza avrebbe mai detto "non posso andare nel tal posto perché è pericoloso". Oggi invece anche le più giovani hanno interiorizzato che c’è lo stupratore in agguato, l’extracomunitario pronto ad aggredirle. Per carità: gli stupri ci sono! Ma in tv e sui giornali, riguardo alle donne, si parla solo di quello».
Cioè una rappresentazione falsata della realtà…
«La donna-vittima intriga, incuriosisce; forse solo il bambino-vittima la batte in termini di appeal mediatico. Le donne nei media italiani sono particolarmente deformate rispetto a quel che avviene negli altri Paesi, ci se ne accorge persino girando l’Europa da turisti e guardando i cartelloni pubblicitari… Il primo dato che in Italia balza agli occhi è che alle donne patinate e rutilanti della pubblicità, giovani e belle (quando non volgari), dove si arriva all’azzeramento della figura femminile che diventa solo un oggetto, si affianca l’altra immagine della protagonista della cronaca nera, vittima di violenza e di stupro, o donna-strega, donna malefica. Le donne della realtà, invece, praticamente non esistono: non sono abbastanza spettacolari!».
E i bambini?
«Una situazione speculare: o bello, biondo e riccioluto o vittima. Nei fatti, sempre un ruolo sociale non riconosciuto. Addirittura l’analisi che abbiamo fatto sulle rubriche di approfondimento, che dovrebbe essere la programmazione più "nobile", ci ha mostrato nei numeri che quando viene invitata una donna come esperto - a parte quelle che appartengono a una "nicchia" professionale (sociologhe, psicologhe) - si tratta soprattutto di astrologhe o esperte di cucina: è l’archetipo della donna a contatto con la natura, della maga, che non ha niente a che vedere con quello che hanno rappresentato nella società le donne negli ultimi trent’anni. Se serve un esperto di biotecnologie, invece, si chiama un uomo… In tv si utilizzano parametri che non sono neppure "maschili", ma rivolti a un maschio mediocre, e che non rispondono alle esigenze e alle professionalità acquisite dalle donne».
Lei mette sotto accusa la tv anche per la ricerca dei particolari inquietanti.
«In certi casi le immagini danno senso alla notizia, ma la maggior parte è assolutamente strumentale, e spesso sono un vero colpo allo stomaco. C’è un salto di "anti-qualità" nell’informazione, con una morbosità sui dettagli sanguinolenti che a volte è veramente impressionante. Se si è solo un po’ distratti si salta dai Ris del telegiornale a quelli della fiction senza neppure rendersene conto».

Corriere della Sera 5.7.08
Razzismo. Se ritorna il fantasma
Settanta anni dopo il varo delle leggi antisemite si parla nuovamente d'intolleranza e xenofobia
di Marco Gasperetti


La storia si riscrive nella pineta, tra i monti pisani e il mare ai confini con la Versilia. Si ripresenta, non immutabile, ma trasfigurata, guarita dai mali orribili e assoluti del fascismo e del nazismo, come un «eterno ritorno» purificato.
A San Rossore, un tempo residenza estiva di re e presidenti della Repubblica e oggi parco naturale, nell'estate del 1938 Vittorio Emanuele III promulgò le leggi razziali che seguirono la pubblicazione dell'odioso manifesto della razza sottoscritto da un gruppo di fascisti, sedicenti intellettuali. Oggi, esattamente 70 anni dopo, negli stessi luoghi, altri intellettuali dal pensiero libero presenteranno un altro manifesto sulla «razza umana», un decalogo contro il razzismo e l'intolleranza, un inno all'amore per i popoli e le genti.
Accadrà il 10 e l'11 luglio durante l'ottava edizione del Meeting, che ogni anno la Regione Toscana dedica a uno dei problemi mondiali. Un summit che chiama a raccolta politici, scienziati e artisti per una due giorni di discussioni e dibattiti senza «se e senza ma». Con nomi celebri. Tra questi Jolanda Betancourt, mamma della candidata alla presidenza della Colombia prigioniera dei guerriglieri, il cardinale Silvano Piovanelli, il nobel Dario Fo, Walter Veltroni, Emma Bonino, Erri De Luca, Moni Ovadia.
Nell'area delle Cascine Vecchie, sotto tendoni ribattezzati Gandhi, Anna Frank, Luther King, si parlerà di popoli e culture. Si affronteranno le problematiche legate alla genetica, ai flussi migratori, alle ideologie. Si discuterà di tecnologie, antropologia, sociologia.
Con uno sguardo profetico al futuro. «Perché razzismo e xenofobia si combattono anche ricordando il passato e allo stesso tempo guardando al domani — dice Claudio Martini, governatore della Toscana —. Oggi abbiamo nuove forme, insidiose e subdole da combattere, e settant'anni dopo il tema della razza è tornato di drammatica attualità. Non voglio fare esagerati parallelismi con fascismo e nazismo, ma quando le nostre società entrano in qualche difficoltà, scatta uno stesso meccanismo perverso: si scaricano i problemi su qualcuno, ci si inventa il nemico, che è il diverso, il più debole. E si generalizza, si spara sul mucchio. A San Rossore noi cercheremo di capire perché il 5% della nostra popolazione, gli immigrati, crea più apprensione di mafia, camorra e 'ndrangheta ».
Ricco il carnet di appuntamenti. Dalla presentazione del nuovo manifesto degli scienziati antirazzisti voluto dal governatore Martini e preparato dal genetista Marcello Buiatti, agli incontri con lo scienziato della politica Marco Revelli, l'antropologo Antonio Guerci, il genetista Lucio Luzzatto. Scienza e anche politica. Con Walter Veltroni e Claudio Martini. E pure con Emma Bonino e il ministro tunisino Mohamed Mehdi Mlika per un dibattito sullle ideologie del razzismo. E l'arte? Presente, anch'essa, come testimonianza di un antirazzismo imprescindibile dalla creatività. Al Meeting ci sono l'attore e musicista Moni Ovadia, il fotografo Oliviero Toscani, l'autore radiofonico Adulai Bah. Ci sarà pure lui, Nelson Mandela. Non nella realtà, ma in videomessaggio.

Corriere della Sera 5.7.08
L'analisi. Gli studiosi e la persecuzione degli ebrei
L'Italia dei «giusti» tra gli orrori della Storia
di Sergio Romano


Per studiare la svolta razzista di Mussolini gli studiosi non hanno atteso il settantesimo anniversario delle leggi razziali. Nella fase che ha preceduto e seguito la commissione di Tina Anselmi sulla confisca dei beni ebraici e la promulgazione di un giorno della memoria in ricordo delle vittime del genocidio, sono apparsi molti libri: alcuni di carattere generale, altri dedicati a temi specifici come quello degli scienziati che firmarono il manifesto della razza o dei professori che non esitarono a insediarsi nelle cattedre da cui i loro colleghi ebrei erano stati cacciati.
Non vi è quasi nulla, quindi, che il lettore desideroso d'informarsi non possa trovare nelle librerie e nelle biblioteche.
Ma la ricorrenza può servire per uno sguardo d'insieme allo spazio che le leggi razziali hanno occupato nella vita pubblica e nelle coscienza degli italiani dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi. Vedo almeno tre fasi distinte.
Nella prima fase, sino all'inizio degli anni Sessanta, il tema è continuamente evocato nei ricordi personali, nelle conversazioni private, nel racconto delle esperienze di coloro che hanno avuto la fortuna di sopravvivere. Ma il Paese è dominato dai problemi della ricostruzione e dello sviluppo, le sinistre non sono particolarmente interessate alle vicende dell'ebraismo europeo e gli ebrei preferiscono curare silenziosamente le loro ferite. La seconda fase comincia all'inizio degli anni Sessanta con due libri: La «Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo» di Renzo De Felice, pubblicato da Einaudi nel 1961, e la «Storia degli ebrei in Italia» di Attilio Milano, apparso presso lo stesso editore nel 1963. Le personalità degli autori sono molto diverse. De Felice è lo studioso che tutti conoscono, già allora impegnato nella sua monumentale biografia di Mussolini. Attilio Milano è un ebreo romano, nato nel 1907, emigrato in Palestina nel 1939, autore di studi sull'ebraismo mediterraneo.
Il primo è uno storico accademico, il secondo un appassionato cultore di «storia patria», preciso, scrupoloso e animato da un profondo sentimento di pietà per la tragedia dei suoi compagni di fede. Ma nella parte che concerne la politica razziale del regime i loro libri giungono grosso modo alle stesse conclusioni. Ambedue sanno che l'antisemitismo di Mussolini, sino alla seconda metà degli anni Trenta, fu generico, sporadico, non diverso da quello di altri esponenti della sinistra europea, spesso bruscamente interrotto da alcune sferzanti denuncie della politica anti-ebraica del nazismo. E ambedue sanno che molti aspetti della sua politica — il ritorno all'ordine negli anni Venti, le garanzie per gli ebrei all'epoca del Concordato, la protezione delle comunità ebraiche nel Mediterraneo, il nazionalismo — gli avevano procurato le simpatie della maggioranza dell'ebraismo italiano.
Occorre quindi spiegare le ragioni della svolta. Per De Felice e Milano esse vanno ricercate anzitutto nel desiderio di rendere «totalitaria» e «granitica » l'alleanza con la Germania. Ma De Felice sottolinea anche l'esperienza della guerra d'Etiopia dove la promiscuità sessuale dei vincitori suscita in Mussolini il timore che il colonialismo italiano produca un meticciato di massa. Occorreva educare gli italiani alla coscienza della propria identità, occorreva fare «l'italiano» contro la volontà degli italiani. Ma occorreva anche evitare eccessive somiglianze con la Germania.
Come ricorda Marie-Anne Matard- Bonucci in un libro appena pubblicato dal Mulino («L'Italia fascista e la persecuzione degli ebrei»), un bollettino politico, «L'Informazione diplomatica » del 5 agosto 1938, pubblicò un testo probabilmente scritto da Mussolini in cui si leggeva tra l'altro: «Discriminare non significa perseguitare ».
La terza fase comincia con la crescente importanza del genocidio hitleriano nella vita pubblica europea e americana degli ultimi trent'anni ed è anche il risultato di un certo «sessantottismo » della cultura italiana.
Nel grande filone della storiografia dell'Olocausto una nuova generazione di studiosi si concentra soprattutto sul tema della responsabilità collettiva della società nazionale, sull'antisemitismo che avrebbe caratterizzato il fascismo sin dalle sue origini, sulle colpe della Chiesa. Se confrontata all'opera di De Felice e Milano, questa impostazione illumina alcuni aspetti dimenticati o trascurati, ma presenta un inconveniente. Rende difficilmente comprensibile la disapprovazione della grande maggioranza degli italiani, l'aiuto offerto da rappresentanti della diplomazia e della pubblica amministrazione. E oscura quello che Attilio Milano definì «l'esempio di superiore umanità» delle autorità militari italiane nelle zone occupate della Croazia, della Dalmazia, del Montenegro, della Grecia centrale e di alcuni dipartimenti francesi; luoghi divenuti «per i molti ebrei che vi abitavano e per i più ancora che vi si erano rifugiati, un parco protetto contro le pressanti minacce » tedesche. Nel ricordare, settant'anni dopo, la più brutta pagina della storia nazionale italiana, non sarebbe giusto dimenticare i molti «giusti » a cui premeva dimostrare che vi era ancora un'Italia dell'onore e della pietà.

Corriere della Sera 5.7.08
Nel Paese di Pulcinella spaventato dalle lumache
di Erri De Luca


Da noi si perseguitano solo i poveri, che siano dirimpettai albanesi o remoti curdi. Se sono ricchi offriamo loro volentieri mogli e figlie

La paura in politica è un abbondante serbatoio di voti, come pure il coraggio. Durante tempi eroici diventa maggioranza chi fa leva sulla resistenza alle avversità, sul sentimento di sacrificio e di slancio solidale. Durante tempi vili vince chi aizza le paure, i rancori, circondando la vita civile di filo spinato. La povera nazionale di calcio ai campionati europei ha rappresentato bene il nostro blocco nervoso difensivo senza slancio in avanti La paura è una merce deperibile. Ci stanca, ci si abitua, perde presa, allora bisogna rinnovarla con stratagemmi. Ci si propone di schedare in massa gli zingari, rilevare impronte digitali anche ai bambini. La misura stuzzica l'immaginazione a fare di più: invece di far loro lasciare un'impronta, perché non provvedere piuttosto a mettere un'impronta su di loro? Un tatuaggio obbligatorio, magari un numero su un braccio? Sarebbe costoso. Ma si può imporre loro di portare sul risvolto del vestito, bene in vista, una zeta cucita, lettera ultima del nostro alfabeto, per loro lettera iniziale di riconoscimento. E poi buttarla anche sul ridere, come fece il film
La vita è bella. Il padre spiegherebbe al figlio che è la zeta di Zorro.
Il bello di chi sfrutta la paura, il suo vantaggio, è che procura amnesia. Dimentica il tempo precedente, dà a un paese invecchiato l'aria imbambolata di uno nato ieri. Le impronte digitali ai bimbi zingari sono razzismo? Ma no, sono gli zingari a voler essere una razza, è una scelta loro.
Da noi si mettono nei campi di concentramento migratori colpevoli di viaggio, madri e bambini inclusi se no è troppo poco. Da noi si chiamano Centri di Permanenza Temporanea: permanenza, un buon nome alberghiero per un posto con sbarre, filo spinato, guardie. Servono i campi di concentramento a fermare il flusso migratorio? No, ma servono molto a compiacere il sentimento di paura ben aizzato. È razzismo la caccia all'immigrato? Ma no, è opera di scoraggiamento a fin di bene. Il razzismo, come la mafia, non esiste. Il sospettato di esserlo nega come Totò Riina: «Tutte bugiarderie». La differenza sta solo nel fatto che uno sta in prigione e l'altro al potere.
Nella città della mia infanzia si usa un'espressione per la persona che si impaurisce facilmente: Pulcinella spaventato dalle lumache. Le vede nel cesto che tirano fuori le corna e se ne scappa. Il nostro è un paese spaventato dalle lumache. Non è il caso di chiamare razzista la sua paura e le meschine misure di compiacimento dei peggiori sentimenti. Razzismo è una parola tragica e seria, il razzista è uno che va a fondo della sua avversione e si permette di trascurare il suo vantaggio: il razzista azzanna e perseguita anche il ricco della specie odiata. Da noi invece si perseguitano solo i poveri, che siano dirimpettai albanesi o remoti curdi. Se sono ricchi offriamo loro volentieri mogli e figlie. Il razzismo è un odio disinteressato, il nostrano è una varietà condita di tornaconto.
Sono tempi per vili, orgogliosi di esserlo. Non mi auguro tempi eroici, non troverebbero personale di rappresentanza.

Corriere della Sera 5.7.08
Le razze umane non esistono


Il primo articolo del Manifesto degli scienziati antirazzisti, 2008, sottoscritto da diversi docenti (si può aderire via internet sul sito www.regione.toscana.it):
I. Le razze umane non esistono. L'esistenza delle razze umane è un'astrazione derivante da una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone, percepite dai nostri sensi, erroneamente associate a differenze «psicologiche» e interpretate sulla base di pregiudizi secolari. Queste astratte suddivisioni, basate sull'idea che gli umani formino gruppi biologicamente ed ereditariamente ben distinti, sono pure invenzioni da sempre utilizzate per classificare arbitrariamente uomini e donne in «migliori» e «peggiori» e quindi discriminare questi ultimi (sempre i più deboli), dopo averli additati come la chiave di tutti i mali nei momenti di crisi.

Corriere della Sera Roma 5.7.08
Nei campi Il capo dell'insediamento rom di Tor Vergata
«Contro le impronte ai nostri figli pronti a una causa legale europea»
di P. Br.


«La questione impronte l'abbiamo affrontata subito tra noi. Se fossero venuti a chiederle ai nostri figli e nipoti gli avremmo fatto trovare l'avvocato...».
Sono finite in Via Salamanca, a Tor Vergata, le roulotte cacciate poco tempo dal lungotevere di Testaccio dove stazionavano da una decina di anni. Eccoli i «Sinti», calderai, argentieri guidati da Aldo Hudorovich, 57 anni, portavoce dei trecento rom in grande maggioranza figli di famiglie giuliano-dalmate. Hudorovich ha appena riattaccato il telefono. Ha parlato ancora una volta con l'avvocato Fabrizio Consiglio. Due le formule più ripetute nel corso della breve conversazione: «Se vogliono le impronte, portiamo l'ordinanza davanti alla Corte Costituzionale». Oppure: «Sennò ricorriamo all'Alta Corte dell'Aia».
La linea di difesa è stata sistemata, ora alla luce degli aggiustamenti prodotti dalla Prefettura di Roma la tensione sulle impronte si smorza.
Ma non l'indignazione dei capi «sinti». Hudorovich è riunito con altri capofamiglia, intorno vanno e vengono ragazzini, sono quaranta i loro adolescenti, uno indossa la maglia azzurra col numero 10 e il nome di Totti. «Io sono nato a Milano nel 1951 — spiega il portavoce —. La mia famiglia veniva sì da Fiume, come tante altre, ma da allora viviamo, nasciamo, cresciamo in Italia. Qui siamo tutti italiani, tra gli adulti molti sono quelli che hanno prestato servizio militare, riceviamo i certificati elettorali per votare, in tasca abbiamo i documenti come ogni altro italiano, i morti li seppelliamo qui in Italia e non nell'ex Iugoslavia. Siamo stati censiti, certo, non una ma più volte. Però mai ci è stato chiesto di dare le nostre impronte digitali, mai di sottoporre i nostri figli a questa umiliazione incredibile...".
Hudorovich aggiunge: «I nostri bambini sono perfettamente inseriti, andavano fino a giugno in due scuole come la Regina Margherita di Trastevere e la IV Novembre di Testaccio, vorremmo continuare a farli frequentare lì e assicurazioni in questo senso ci sono state date. I nostri ragazzi non sono mai stati trovati ad elemosinare o a compiere furti. La nostra comunità si occupa di metalli, pulisce l'argento, fabbrica argenteria. Siamo evangelici di religione, il credo ci impone di non rubare. Abbiamo lavorato anche per importanti alberghi del centro. Dunque, noi pensiamo che se vogliono identificare i piccoli rom che compiono malefatte questi dati ce li hanno già. I piccoli che vengono portati al centro antimendicità di via Vinovo, a Roma, sono conosciuti. Quelli che vengono arrestati sono fotosegnalati. Dunque, di che altro c'è bisogno?». Il più vecchio aggiunge: «Noi siamo in Italia da moltissimi anni, la metà dei rom è fatta di sinti, saremo 70 mila...Siamo o non siamo italiani?».

Repubblica 5.7.08
La memoria
Quel censimento etnico di settanta anni fa
di Gad Lerner


Cominciò con un inaspettato censimento etnico, nel mezzo dell´estate di settant´anni fa, la vergognosa storia delle leggi razziali italiane. Alle prefetture fu diramata una circolare, in data 11 agosto 1938, disponendo una «esatta rilevazione degli ebrei residenti nelle provincie del regno», da compiersi «con celerità, precisione e massimo riserbo». La schedatura fu completata in una decina di giorni.
Furono 47.825 gli ebrei censiti sul territorio del regno, di cui 8.713 stranieri (nei confronti dei quali fu immediatamente decretata l´espulsione). Per la verità si trattava di cifre già note al Viminale. «Il censimento quindi fu destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», scrive la storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci ne L´Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (il Mulino). Naturalmente, di fronte alle proteste dei malcapitati cittadini fatti oggetto di quella schedature etnica fu risposto che essa non aveva carattere persecutorio, anzi, sarebbe servita a proteggerli.
Nelle diversissime condizioni storiche, politiche e sociali di oggi, torna questo argomento beffardo e peloso: la rilevazione delle impronte ai bambini rom? Ma è una misura disposta nel loro interesse, contro la piaga dello sfruttamento minorile!
Si tratta di un artifizio retorico adoperato più volte nella storia da parte dei fautori di misure discriminatorie: «Lo facciamo per il loro bene». A sostenere la raccolta delle impronte sono gli stessi che inneggiano allo sgombero delle baracche anche là dove si lasciano in mezzo alla strada donne incinte e bambini. Ma che importa, se il popolo è con noi? Lo so che proporre un´analogia fra l´Italia 1938 e l´Italia 2008 non solo è arduo, ma stride con la sensibilità dei più. L´esperienza sollecita a distinguere fra l´innocenza degli ebrei e la colpevolezza dei rom. La percentuale di devianza riscontrabile fra gli zingari non è paragonabile allo stile di vita dei cittadini israeliti, settant´anni fa.
Eppure dovrebbero suonare familiari alle nostre orecchie contemporanee certi argomenti escogitati allora dalla propaganda razzista, circa le "tendenze del carattere ebraico". Li elenco così come riportati nel libro già citato: nomadismo e «repulsione congenita dell´idea di Stato»; assenza di scrupoli e avidità; intellettualismo esasperato; grande capacità ad adattarsi per mimetismo; sensualismo e immoralità; concezione tragica della vita e quindi aspirazioni rivoluzionarie, diffidenza, vittimismo, spirito polemico e così via.
Guarda caso, per primo veniva sempre il nomadismo. Seguito da quella che Gianfranco Fini, in un impeto lombrosiano, ha stigmatizzato come «non integrabilità» di «certe etnie»; propense – per natura? per cultura? per commercio? – al ratto dei bambini. Il che ci impone di ricordare per l´ennesima volta che negli ultimi vent´anni non è stato mai dimostrato il sequestro di un bambino ad opera degli zingari.
Un´opinione pubblica aizzata a temere i rom più della camorra, si trova così desensibilizzata di fronte al sopruso e all´ingiustizia quando essi si abbattono su una minoranza in cui si registrano percentuali di devianza superiori alla media. Tale è l´abitudine a considerare gli zingari nel loro insieme come popolo criminale, da giustificare ben più che la nomina di "Commissari per l´emergenza nomadi", incaricati del nuovo censimento etnico. Un giornalista come Magdi Allam è giunto a mostrare stupore per la facilità con cui si è concesso il passaporto italiano a settantamila rom. Ignorando forse che si tratta di comunità residenti nella penisola da oltre cinquecento anni: troppo pochi per concedere loro la cittadinanza? Eppure sono cristiani come lui…
Il censimento etnico del 1938, «destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», come ci ricorda Marie-Anne Matard-Bonucci, in ciò non è molto dissimile dal censimento dei non meglio precisati "campi nomadi" del 2008. In conversazioni private lo confidano gli stessi funzionari prefettizi incaricati di eseguirlo: quasi dappertutto le schedature necessarie erano già state effettuate da tempo.
L´iniziativa in corso riveste dunque un carattere dimostrativo. E i responsabili delle forze dell´ordine procedono senza fretta, disobbedendo il più possibile alla richiesta di prendere le impronte digitali anche ai minori non punibili, nella speranza di dilazionare così le misure che in teoria dovrebbero immediatamente conseguirne: evacuazione totale dei campi abusivi e di quelli autorizzati ma fuori norma; espulsione immediata dei nomadi extracomunitari e, dopo un soggiorno di tre mesi, anche dei nomadi comunitari. Si tratta di promesse elettorali che per essere rispettate implicherebbero un salto di qualità organizzativo e politico difficilmente sostenibile. Dove mandare gli abitanti delle baraccopoli italiane – pochissime delle quali "in regola" – se venissero davvero smantellate tutte in pochi mesi? Chi lo predica può anche ipocritamente menare scandalo per il fatto che tanta povera gente, non tutti rom, non tutti stranieri, vivano fra i topi e l´immondizia. Ma sa benissimo di alludere a una "eliminazione del problema" che in altri tempi storici è sfociata nella deportazione e nello sterminio.
Un´insinuazione offensiva, la mia? Lo riconosco. Nessun leader politico italiano si dice favorevole alla "soluzione finale". Ma la deroga governativa al principio universalistico dei diritti di cittadinanza, sostenuta da giornali che esibiscono un linguaggio degno de "La Difesa della razza", aprono un varco all´inciviltà futura.
Negli anni scorsi fu purtroppo facile preconizzare la deriva razzista in atto. Per questo sarebbe miope illudersi di posticipare la denuncia, magari nell´attesa che si plachi l´allarmismo e venga ridimensionata la piaga della microcriminalità. Gli operatori sociali ci spiegano che sarebbe sbagliato manifestare indulgenza nei confronti dell´illegalità e dei comportamenti brutali contro le donne e i bambini, diffusi nelle comunità rom. Ma altrettanto pericoloso sarebbe manifestare indulgenza riguardo alla codificazione di norme palesemente discriminatorie, che incoraggiano l´odio e la guerra fra poveri.
Non si può sommare abuso ad abuso di fronte ai maltrattamenti subiti dai bambini rom. Quando i figli degli italiani poveri venivano venduti per fare i mendicanti nelle strade di Londra, l´esule Giuseppe Mazzini si dedicò alla loro istruzione, non a raccogliere le loro impronte digitali. L´ipocrisia di schedarli "per il loro bene" serve solo a rivendicare come prassi sistematica, e non eccezionale, la revoca della patria potestà. Dopo le impronte, è la prossima tappa simbolica della "linea dura". Siccome i rom non sono come noi, l´unico modo di salvare i loro figli è portarglieli via: così si ragiona nel paese che liquida l´"integrazione" come utopia buonista.
A proposito del sempre più diffuso impiego dispregiativo della parola "buonismo", vale infine la pena di evocare un´altra reminescenza dell´estate 1938. Chi ebbe il coraggio di criticare le leggi razziali fu allora tacciato di "pietismo". Con questa accusa furono espulsi circa mille tesserati dal Partito nazionale fascista. E allora viva il buonismo, viva il pietismo.

l'Unità 5.7.08
Il pm accusa: «Alla Diaz fu un massacro»
La requisitoria al processo per il G8 di Genova: «Nella scuola 93 vittime innocenti»
di Maria Zegarelli


«Fu un massacro». Questa è l'unica cosa che unisce gli occupanti della Diaz di Genova durante il G8. Non i reati che la polizia tentò di addebitare loro. Non l'associazione per delinquere. Il pestaggio da parte dei poliziotti che quella notte del 21 luglio fecero irruzione è l'unica vicenda che rese tutti uguali.
«Volevano ammazzarli tutti Alla Diaz fu un massacro»
Gli agenti gridavano «nessuno sa che siamo qui, ieri vi sentivate forti oggi state male»
Ragazze nel sangue Capelli tagliati, sputi e gesti coitali nei confronti delle giovani ormai a terra
Le immagini choc. Le riprese video non mostrano un solo manifestante che picchia. Solo manganelli alzati
Il racconto di Valeria Bruschi: «Dopo i pestaggi in palestra hanno preso quelli dai piani superiori e hanno continuato»
Quando i pm chiesero le foto degli agenti per i riconoscimenti arrivarono scatti anche di 15 anni prima...

IL PROCESSO AI POLIZIOTTI Quello andato in scena nella scuola la notte del 21 luglio del 2001 «fu un pestaggio e non venne mai fornita alcuna prova che vi fosse una giustificazione al comportamento degli uomini che entrarono alla Diaz». Nella requisitoria del pm il racconto della «macelleria messicana» di quel maledetto G8

Uomini e donne, giovani inermi, in ginocchio con le mani alzate in segno di resa colpiti con calci e manganellate. Insultati, umiliati. «Nessuno sa che siamo qui, vi eliminiamo tutti. Ieri vi sentivate forti, oggi state male». Capelli tagliati, sputi, «gesti coitali», nei confronti delle ragazze a terra in un lago di sangue. «Bastardi» urlavano con i manganelli in pugno. Il pubblico ministero Francesco Cardona Albini apre la seconda udienza per la requisitoria in corso all'aula bunker del tribunale di Genova definendo un massacro l'operazione di «messa in sicurezza» della scuola dove dormivano i no global. Sei ore di ricostruzione minuziosa delle prove raccolte, dei verbali, degli interrogatori. E dei filmati (questo è il primo processo che raccoglie una quantità enorme di materiale girato da telecamere di operatori tv) per dimostrare che così come non ci fu l'assalto alle pattuglie della polizia la sera 21 luglio (quello preso a pretesto dalle forze dell’ordine per decidere l'irruzione), non ci fu neanche la «massiccia resistenza» da parte dei no global ai pattuglioni della polizia che cercarono di entrare nella scuola. I 29 alti funzionari e agenti accusati di reati che vanno dalla falsa testimonianza, al porto d'armi da guerra, alle lesioni gravi, alla calunnia, alla violenza privata, quella notte non erano uomini dello Stato. E non lo furono in seguito, quando omisero di riferire quanto accaduto, fornendo una versione dei fatti che non ha trovato riscontro alcuno durante le indagini e nel racconto dei testimoni.
«Fu un pestaggio - dice il pm - e non venne mai fornita alcuna prova che vi fosse una giustificazione al comportamento degli uomini che entrarono alla Diaz. Non fu posta alcuna resistenza da parte dei manifestanti, non ci fu alcun lancio di oggetti e non c'è alcuna prova sul luogo specifico del ritrovamento di armi all'interno della scuola». L'unica cosa trovata sono due molotov, quelle portate dagli agenti per poter accusare i manifestanti. Quelle grazie alle quali questo processo probabilmente resterà in piedi, malgrado l'emendamento voluto da Berlusconi per bloccare tutti procedimenti in corso. Cardona smonta anche la tesi sostenuta dagli imputati secondo cui le ferite diagnosticate alle vittime del pestaggio erano pregresse. Quella ipotesi contrasta con «le migliaia di immagini e con la documentazione medica prodotta dalle parti offese». Non c'erano armi e bastoni, o oggetti contundenti, nella scuola. Se non quelli introdotti dagli agenti. Dagli uomini del VII nucleo del reparto della squadra mobile di Roma, condotti da Canterini e da quelli degli altri reparti intervenuti.
Il pm elenca i referti medici dei manifestanti e quelli degli agenti. Ai primi vengono riscontrate fratture e rottura di ossa, traumi cranici,caduta di denti, squarci sul corpo. 79 feriti,in totale.Molti gravi. Ai secondi, vengono repertati: traumi distorsivi alle mani, alle ginocchia, alle spalle. Lividi, dita sbucciate. Le prognosi non superano gli otto giorni. Gli agenti feriti sono 11 in tutto. Su oltre 150 impegnati nell'azione. Come si concilia tutto questo con la tesi della «forte resistenza agli operatori e alle colluttazioni?». Non si concilia.
Come si concilia la tesi del lancio di oggetti pesanti, come sedie e scrivanie dalle finestre della Diaz con quei 58 secondi che separano lo sfondamento del cancello da parte degli uomini di Canterini - alle 23.59 - a quello in cui sfondano il portone? Non si concilia. «Dov'è la resistenza?», chiede il magistrato. La resistenza di cui parla Canterini in quella prima «relazioncina» che gli chiese il suo superiore Gratteri, di fatto, sostiene Cardona, non ci fu. Canterini quando stese il rapporto non sapeva che le telecamere dei cineoperatori piazzati nell'edificio di fronte avevano ripreso tutto, lo sfondamento del cancello e quello del portone. In quei documenti non c'è traccia di oggetti che volano. Si vedono chiaramente, invece, agenti che entrati nella scuola pestano persone buttate a terra. Non c'èun manifestante in piedi che lotta con gli agenti. Ci sono solo divise e manganelli che si alzano e si abbassano.
Ed eccola la ricostruzione di quei dieci minuti che sembrano un secolo, durante i quali «il codice penale non vigeva più». Dentro la scuola, nella palestra, al pian terreno, ci sono un gruppo di 11 spagnoli, dei giovani turchi, dei tedeschi che stanno dietro un muretto, alcuni italiani. Sentono i tre colpi con cui viene sfondato il portone, uno soltanto,cerca di mettere un divano dietro la porta. Gli altri decidono di mettersi in ginocchio con le mani alzate. C'è chi dorme e si sveglia all'improvviso, chi ha lo spazzolino dei denti in mano. Chi tenta di fuggire. Fuori, nella serra, alcuni giovani,intanto, vengono trascinati nel cortile e picchiati. Mark Covell, il reporter inglese, viene quasi ammazzato. La telecamera riprende.
Dentro la palestra arrivano i primi agenti che «iniziano a lanciare contro gli ospiti della Diaz sedie e mobilia.Vengono raggiunti da altri colleghi e parte il pestaggio». Una giovane, viene colpita da un calcio sul volto, cade. L'agente infierisce. Tra di loro c'è un giornalista, cerca di soccorrere la ragazza, viene colpito anche lui. Da tre, quattro agenti. «Un poliziotto entra urlando, saltellando - racconta un altro giovane -. "bastardi", gridava». Ecco la testimonianza di Valeria Bruschi. «Dopo il pestaggio in palestra non è finita. Trascinavano giù quelli dai piani superiori e picchiavano. I funzionari erano lì, assistevano, qualcuno si girava, come se volesse chiudere gli occhi su una marachella». «Siete bambini cattivi», dice uno di loro. Ai piani superiori Melanine viene picchiata fino ad avere le convulsioni, gli occhi girati, spasmi. Stesso trattamento per Manfredi, Provenzano… Decine di nomi, uno dopo l'altro, di vittime inermi. Melanie viene «salvata» da un funzionario, Michelangelo Fournier, il vice di Canterini, quello che - ricorda il pm - «in aula squarcia il velo di silenzio durato sei anni» e dice che quella notte alla Diaz fu «una macelleria messicana». Quello che racconta ai giudici di «aver taciuto per carità di Patria», perché alcuni degli episodi accaduti «erano infamanti per tutte le forze dell'ordine». Perché un poliziotto non può tirare fuori il coltello e tagliare i capelli alla vittima,come un trofeo da portarsi a casa. Non può sputare e urlare «vi ammazziamo tutti». Fouriner squarcia il velo, ma dà una versione dei fatti che poi corregge, cerca di tirarsi fuori da ogni responsabilità, ma ci sta dentro fino al collo. «I racconti delle vittime sono terrificanti» dice Cardona. E ciò che «sembrava impossibile si rivelato possibile». Ce ne sono di ossa rotte in questo processo. Forse anche grazie all'uso di mazze di baseball portate dagli agenti per colpire.
Che dire poi delle difficoltà incontrate durante le indagini per identificare i poliziotti che avevano partecipato? Quando i pm chiesero a tutte le questure di Italia di inviare le foto degli agenti per poi procedere al riconoscimento da parte delle vittime, in procura arrivarono fotografie scattate anche quindici anni prima. Quando ne chiesero di più aggiornate non ne arrivarono o arrivarono con una lentezza sospetta. Che dire di tutti i nomi dei picchiatori rimasti ignoti? Che dire delle molotov, illecitamente introdotte dagli agenti e poi misteriosamente scomparse dalle prove a carico dei funzionari? Quella è stata davvero una pagina nera della storia della Seconda Repubblica. «Urgente accertare la verità» dicono da Roma Giovanna Melandri, Ermete Realacci, Paolo Cento. Mercoledì l'accusa ricostruirà un altro pezzo di quella storia. Giovedì chiederà le condanne per i 29 imputati.

l'Unità 5.7.08
Quella notte alla Diaz. Macelleria messicana
di Oreste Pivetta


Sette anni dopo si deve ancora chiedere chi diede licenza al peggio, chi ispirò e consentì quei comportamenti che non sarebbero dispiaciuti a Videla o a Pinochet
La definizione del pubblico ministero, ad apertura di requisitoria, ieri, è stata: «Un massacro». Al grido: «Adesso vi finiamo, bastardi. Morirete tutti!». «Macelleria messicana» aveva già spiegato un funzionario di polizia.

Esattamente un anno fa, Michelangelo Fournier, all’epoca vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, aveva raccontato così: «Arrivato al primo piano dell'istituto ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana. Sono rimasto terrorizzato e basito quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: “basta basta” e cacciai via i poliziotti che picchiavano. Intorno alla ragazza per terra c’erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze». Le macchie di sangue sulle parenti o sul pavimento della palestra, le ciocche di capelli strappate sui gradini tra il primo e il secondo piano le ricordiamo anche noi.
Come sia andata, sette anni fa, durante la notte dell’irruzione nella scuola Diaz a Genova, come sia andata nei giorni del G8, nelle ore e nei giorni prima e dopo la morte di Carletto Giuliani, non è un mistero e non lo è mai stato. Un massacro, una macelleria, una violenza assurda contro i manifestanti, una violenza di cui si era persa traccia, almeno da decenni, almeno in Italia. Di fronte a tanti, vittime e testimoni, migliaia di testimoni. In quegli stessi giorni cominciò l’innarrestabile e assai rozza corsa alla falsificazione e alla mistificazione, a sminuire, a rimpicciolire. Cominciò sui tavoli di una caserma dei carabinieri imbandita di magliette nere (quelle dei black blok), di assi e di chiodi da carpentieri (quelli raccolti nel cantiere che era la scuola in restauro proprio appresso alla Diaz), di bottiglie incendiarie confezionate per la mostra ad uso dei cronisti. Continuò oscurando responsabilità o indicando colpevoli che non avrebbero avuto nulla da dire, come il prefetto Arnaldo La Barbera, nel frattempo deceduto, o come il prefetto Ansoino Andreassi, teste giudicato “inattendibile” per la semplice ragione che s’era sempre schierato contro l’intervento alla Diaz... Gli altri erano “buoni”, invece, per la semplice ragione che s’erano presentati davanti ai magistrati dopo aver studiato verbali, dopo aver aggiornato e concordato versioni, dopo aver dimenticato quello che andava dimenticato. La procura, nella richiesta di rinvio a giudizio per Gianni De Gennaro, l’ultimo commissario all’immondizia napoletana, prima dell’arrivo (o del ritorno) di Bertolaso, scrisse chiaro: «L’operazione è stata semplice. Si è trattato di eliminare gli accenti sui ruoli di responsabilità degli imputati». Ma non si può occultare e mistificare all’infinito. Che il capo della polizia qualche colpa l’avesse avuta nella gestione dei giorni terribili di Genova sarebbe apparso a chiunque inevitabile. Ma una volta, davanti ai parlamentari, De Gennaro ebbe la sfrontatezza di negare tutto: non so nulla, disse. Come sarebbe stato possibile: il capo della polizia che non sa nulla della Diaz e del resto, di piazze e di strade, di una gestione dell’ordine pubblica che si dovrebbe definire folle, se non si sapesse che i folli non esistono, mentre si sa dell’esistenza ai vertici della polizia di gente istruita di tattiche militari, che sa pensare e riflettere, di lunga esperienza.
Ancora, sette anni dopo, si chiede di “fare luce”. È urgente, dice l’onorevole Melandri, arrivare rapidamente ad accertare le responsabilità di coloro che parteciparono o rivestirono un ruolo nell'irruzione nella scuola Diaz. È uno scandalo che si debba ancora chiedere chi comandava, chi decideva, chi partecipava. Chi organizzava, secondo un piano, non certo sospinto dagli ipotetici furori della “piazza”, l’assalto alla Diaz, di nottetempo, o i pestaggi della caserma Bolzaneto, ore e ore dopo.
Ma la curiosità dovrebbe riguardare anche chi ispirò e chi alla lontana consentì quell’improvviso incrudelirsi dei comportamenti, chi diede licenza al peggio, a un ripiegare in atteggiamenti che non sarebbero dispiaciuti a Videla o a Pinochet.
Il G8 e la sua gestione furono le prime prove del nuovo governo Berlusconi, del nuovo centrodestra, di una cultura. Castelli, allora ministro della Giustizia (dal cui ministero dipendeva la polizia penitenziaria vista all’opera a Bolzaneto) disse che le violenze viste anche in tv e quelle denunciate erano tutte favole. Ammise soltanto al più episodi isolati o fatti «equivocati dagli imputati». Rimanere in piedi otto ore di fila, le botte o altro di peggio erano solo un equivoco. Del resto, spiegò l’allora ministro, anche i metalmeccanici restano i piedi otto ore di fila. Castelli dimostrò per tutti che non esisteva voglia di capire, di chiarire: altro che rispetto istituzionale e costituzionale o semplicemente rispetto “umano”. Quella affidata a Castelli fu la risposta della politica. Gli altri si accodarono. Per il futuro potrebbe provvedere la norma blocca processi, che, se ci sarà, bloccherà anche Genova e la Diaz.


Tenere insieme «questione sociale» e «difesa» di una «democrazia a rischio». Veltroni non aspetta l’autunno e non offre campo libero a Di Pietro e ai “nuovi girotondi”. All’8 luglio di Piazza Navona il leader Pd risponde lanciando la raccolta di «cinque milioni di firme» per dire «no al governo che forza la mano sulla giustizia e non fa nulla per salari e pensioni, né per le famiglie in affanno». La manifestazione Pd annunciata per il dopo estate si organizza già da subito, in sostanza. Sulla base di una “iniziativa di massa” che incalza il governo. Cinque milioni di firme, numeri nettamente superiori alle adesioni su cui potrà contare la manifestazione dell’8 luglio, anche se questa non rappresenterà sicuramente un flop. II Pd, tuttavia, è attento a non contrapporre la sua petizione su economia e giustizia all’appuntamento al quale ha aderito anche Di Pietro. Veltroni, anzi, propone un Partito democratico «non ostile» a Piazza Navona, ma che marca il proprio profilo d’opposizione scegliendo strade diverse da quelle neo girotondine. E leggendo le parole del leader Idv - «l’8 luglio non sarà il giorno della conta contro il Pd» - o ricordando i toni con i quali ha stemperato interpretazioni anti loft dell’appuntamento di Piazza Navona, si comprende che nessun destino rende ineluttabile la rotta di collisione tra opposizione riformista e opposizione “radicale”. O la demonizzazione reciproca sulla scelta di date diverse per scendere in piazza. Dipende anche dagli organizzatori, e dallo stesso Di Pietro, la possibilità che l’8 luglio non divenga una scadenza lacerante, a vantaggio di Berlusconi. Che ieri, dopo le firme anti-governo annunciate da Veltroni, ha accusato «la sinistra riformista» di aver siglato «un patto scellerato con l'ala giacobina e giustizialista della società italiana». Toni belligeranti che contraddicono i fatti concreti sui quali sta ragionando il premier su input di Gianni Letta. Il Sottosegretario alla presidenza del Consiglio avrebbe sondato anche la disponibilità di Veltroni per un percorso di «rasserenamento politico e istituzionale» che possa permettere di rilanciare il dialogo sulle riforme, sul quale insiste il Quirinale. Il tragitto parte dal «mezzo passo indietro» (parole di Vannino Chiti) del governo sulle intercettazioni e proseguirebbe con il ritiro della norma salva-premier dal decreto sicurezza (il ministro ombra Pd, Tenaglia, ricorda che bloccherebbe «il 30% dei processi»). E ciò potrebbe avvenire all’interno di uno scambio che consentirebbe alla maggioranza di approvare il lodo Alfano in tempi rapidi (prima dell’estate, come legge ordinaria e sondando la disponibilità dell’opposizione a non ricorrere all’ostruzionismo). L’immunità per le Alte cariche dello Stato, poi, potrebbe diventare oggetto di una legge costituzionale da inserire nell’agenda delle riforme. Un percorso che sconta le diffidenze dell’opposizione, ma anche quelle di Berlusconi. Il Cavaliere pretenderebbe una sorta di salvacondotto d’impunità da far valere a Milano con i giudici del processo Mills o, in alternativa, un rallentamento dei procedimenti giudiziari - anche di quello napoletano - che investono l’inquilino di Palazzo Chigi. Richieste che, evidentemente, il premier ritiene praticabili, nella logica della giustizia uguale per tutti ma non per lui. E che dovrebbero «rasserenarlo» ancor di più dopo la distruzione di intercettazioni - più o meno imbarazzanti - considerate dai magistrati «irrilevanti ai fini del processo». Il Cavaliere abbassa i toni - e non procede per decreto - perché punta a ottenere per vie più morbide ciò che dovrebbe incassare a prezzo di uno scontro con il Capo dello Stato? Ieri, in realtà, Berlusconi si è scagliato ancora contro giudici e pm. «Avrà abbassato i toni - commenta Veltroni - ma ha rivolto accuse che il premier di un altro Paese non avrebbe mai fatto». È «il problema del rapporto con la magistratura», in realtà, «a dominare il governo».

l'Unità 5.7.08
8 luglio, i promotori «Sarà protesta civile»
Sul palco Travaglio, Colombo, Parisi, Sabina Guzzanti
Fava: se ci sarà un attacco al Colle ce ne andiamo via
di Giuseppe Vittori


«Non abbiamo il complesso di piazza San Giovanni. Meglio esserci»
Pannella non ci sarà. Parteciperanno Sinistra critica e i comunisti di Ferrando

BEPPE GRILLO non potrà esserci perché impegnato lontano da Roma, però interverrà a piazza Navona in videoconferenza. E Arturo Parisi sarà sul palco. I promotori dell’iniziativa dell’8 luglio contro le «leggi canaglia», vale a dire i provvedimenti del governo in materia di sicurezza e intercettazioni, hanno spiegato in una conferenza stampa a Montecitorio il senso della manifestazione. Paolo Flores d’Arcais, Pancho Pardi e Furio Colombo hanno negato che ci sia alcuna divisione con il Pd.
Anche Antonio Di Pietro ha in parte tentato di gettare acqua sul fuoco delle polemiche, dicendo: «Non posso immaginare guerre fratricide al nostro interno quando l’opposizione, in questo momento, deve essere unita più che mai»; in parte ha lanciato altri messaggi al Pd e alle altre forze che hanno deciso di non aderire: «La conta non ci interessa, e invito coloro che stanno all’opposizione a non tifare che il proprio elettorato non venga».
L'elenco delle adesioni lo fa Flores: sul palco si alterneranno Marco Travaglio, Sabina Guzzanti, Ascanio Celestini, Andrea Camilleri, Rita Borsellino, Moni Ovadia, Lidia Ravera e Arturo Parisi. «Ci sarà anche il professor Alexian Spinelli, rappresentante del popolo Rom, e molti militanti del Pd - sostiene il direttore di “Micromega” - che si stanno organizzando per essere presenti. Oltre a semplici cittadini».
Tre gli slogan scelti: «L’articolo 3 della Costituzione - spiega ancora Flores - che parla dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; poi, secondo slogan, la scritta che campeggia in tutti i tribunali, “la legge è uguale per tutti”. Infine, il terzo: la frase di una sentenza della Corte Suprema degli Stati uniti del 1972 che sembra scritta per l’Italia di oggi».
A citarla è Furio Colombo: «Nessun governo potrà censurare la libertà di stampa affinché la stampa sia libera di censurare i governi». Su quanti saranno in piazza martedì prossimo, Pardi sottolinea: «Non abbiamo il complesso di piazza San Giovanni. Anche se non ci sarà un milione di persone, l’importante è esserci e lanciare un messaggio. Questa è un’iniziativa civile che punta a riaprire un nuovo ciclo», a dimostrare anche che «piazza e riformismo vanno perfettamente d’accordo».
In un’intervista a Tv7 anticipata dal Tg1 della sera Walter Veltroni fa sapere che non ci sta «ripensando» sull’adesione del Pd: «Io ho rispetto per gli organizzatori, per chi ha dato vita ai girotondi. In questi giorni ho letto tante cose. Non condivido». E a quella che Marco Pannella definisce «la saga dei moralisti» non ci saranno neanche i Radicali. Saranno invece in piazza Sinistra critica e il Partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando.
Sinistra democratica ha deciso di partecipare all’iniziativa già al congresso di Chianciano dell’altra settimana, ma il movimento politico guidato da Claudio Fava precisa che «non può essere una manifestazione polemica verso altre forze del centrosinistra bensì un atto di protesta civile e di rinnovata adesione ai principi della nostra Costituzione e delle sue Istituzioni», che avrebbe preferito un’iniziativa «senza interventi di esponenti politici», e soprattutto avverte: «Sarebbe un errore gravissimo se dal palco venisse attaccata la Presidenza della Repubblica, se così fosse ce ne andremmo cercando di convincere più gente possibile a fare altrettanto».

l'Unità 5.7.08
«Il Psoe si batterà per maggiori diritti eutanasia inclusa»
Intervista a l’Unità di Jesus Caldera sui socialisti spagnoli da ieri a congresso
di Toni Fontana


SI È APERTO ieri a Madrid il 37° Congresso del Psoe. Jesus Caldera, già ministro del Lavoro, è uno dei principali protagonisti. Ha redatto il documento congressuale e Zapatero lo ha incaricato di unificare le fondazioni socialiste per dare vita ad un «centro del
pensiero progressista». «Il pensiero riformista non è in c risi – afferma – in Spagna concederemo il diritto di voto amministrativo agli immigranti, estenderemo la legislazione sull’aborto e l’eutanasia, difenderemo la libertà di pensiero e di espressione abolendo tutti i simboli religiosi dai luoghi pubblici. Il capitalismo selvaggio ha fallito, noi guardiano a Barack Obama, e al rilancio di una strategia riformista nel mondo».
Il 22 luglio saranno trascorsi 100 giorni della nascita del secondo governo Zapatero. Pochi per fare un bilancio, ma sufficienti per trarre alcune indicazioni. La «desaceleracion» economica rischia di tenere banco anche al Congresso...
«La situazione economica è preoccupante, ma la società spagnola è matura e sa che la crisi è planetaria, le difficoltà finanziarie provengono dagli Stati Uniti, dalla restrizione dei crediti, dall’aumento dei costi energetici. Noi siamo prepararti, possiamo contare su un disavanzo di bilancio, il nostro debito pubblico è certamente inferiore a quello dell’Italia, possediamo gli strumenti per uscire dalla crisi, per sviluppare politiche attive in un anno, un anno e mezzo. Non corriamo il rischio di fare marcia indietro, di rinunciare alle conquiste ottenute. Le protezioni sociali non sono in discussione. Se avesse vinto la destra i diritti sociali sarebbero già stati tagliati. Nel Congresso stiamo discutendo soprattutto dei diritti sociali, ci proponiamo di migliorare la legislazione sull’aborto, di introdurre il diritto di voto per gli immigranti nelle elezioni municipali, di estendere i principi di laicità, di affermare il diritto e la tutela di tutte le convinzioni religiose».
In che modo?
«Abolendo nei luoghi pubblici ogni simbolo di carattere religioso. Intendiamo affermare la piena tutela delle libertà individuali e collettive e proseguire nel cammino della precedente legislatura nella quale sono state approvare le leggi sull’assistenza, contro la violenza sulle donne, sull’eguaglianza».
Sono strati presentati più di 5000 emendamenti, la base vuole discutere. La stampa sostiene che l’apparato del partito cercherà di frenare il dibattito.
«Gli emendamenti sono quasi 6000. Le linee essenziali che emergono sono molto chiare: la crisi economica non deve pregiudicare la protezione sociale. La base chiede di rafforzare i diritti individuali e dei lavoratori. Per questo ci siamo opposti alla direttiva europea che permette di estendere a 60 ore l’orario lavorativo. Nel Congresso discuteremo sui mutamenti climatici, sulla lotta alla fame nel mondo che, per noi socialisti, è una priorità; noi ci schieriamo per uno sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente, per un nuovo modello di produzione. La base pretende che il governo segua una politica progressista. Aborto, laicità, eutanasia, diritti sono i nostri cavalli di battaglia. La maggioranza degli spagnoli ci appoggia».
Ci sarà un rinnovamnento della classe dirigente?
«Ci saranno più donne e più giovani, il rinnovamento sarà profondo».
Lei sta unficando le fondazioni del Psoe per dar vita ad un unico centro di pensiero.
«Zapatero mi ha incaricato di unificare le fondazioni d’ ispirazione socialista per incrementare la nostra presenza all’estero e diffondere le idee progressiste. La Spagna rappresenta un buon esempio di integrazione tra modernità, crescita economica, diritti sociali ed eguali opportunità. Questi punti cardini possono essere diffusi anche al di fuori dei confini. Sono stato incaricato di creare un “centro di pensiero progressista”». Sto organizzando un’èquipe internazionale di lavoro sulle cause e le possibili soluzioni della crisi alimentare che sta affliggendo molte zone del pianeta. Intendiamo presentare una piattaforma di avanguardia nel movimento progressista internazionale. Sono stato a Londra, Parigi e Bruxelles e sto intensificando i contatti con i progressisti italiani. Ho partecipato alla campagna elettorale di Walter Veltroni e siamo fortemente interessati a collaborare e rafforzare la collaborazione con i riformisti italiani. Ciò che sta accadendo nel mondo non è determinato da cause tecniche ma rappresenta la crisi di un modello globale di pensiero fondato sui valori della conservazione, sostenuto dai repubblicani americani. Se gli Usa avessero controllato e diretto il mercato finanziario non vi sarebbe stata la crisi dei mutui subrprime. Ciò accade perché prevale un capitalismo senza limiti che punta solo sul profitto, senza curarsi dei danni ambientali, sociali ed economici. Anche Banca Mondiale e Fondo monetario ammettono che sono stati fatti errori. La divisione internazionale del lavoro ha condannato alcune regioni al sottosviluppo, l’agricoltura è stata penalizzata, sono state imposte regole del commercio ingiuste. Noi progressisti abbiamo un obbligo “etico” a presentare un programma per un diverso ordine mondiale fondato sul principio della solidarietà e sulla rinuncia ad un capitalismo senza regole».
In Europa però spira un altro vento…
«Noi siamo ottimisti. La globalizzazione può essere positiva, sappiamo di avere regione, guardiano a Omaba e alla sua nuova semsibilità. Bush ha fatto molti danni, dall’Iraq alla gestione finanziaria. Occorre cambiare strada: possibile».
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l'Unità 5.7.08
Ismail Kadaré. L’Albania di Hoxha? Un paese ermafrodita
di Maria Serena Palieri


«La figlia di Agamennone» prima parte del dittico arrivò clandestina in Francia nel 1986. Doveva fungere da testamento nel caso di morte sospetta dello scrittore

Dal 70 al 90, quando sono espatriato a Parigi, il mio status era surreale: ero «lo» scrittore amato dall’Occidente nel paese nemico numero uno dello stesso Occidente

Il nostro pianeta è troppo piccolo per permettersi il lusso di ignorare Dante Alighieri. Sfuggire a Dante è impossibile come sfuggire alla propria coscienza

ISMAIL KADARÉ arriva oggi in Italia per ricevere il Premio Flaiano. In due romanzi da poco usciti per Longanesi il grande scrittore albanese, più volte candidato al Nobel, offre un magnifico e cupo ritratto del totalitarismo

Ci sono immagini che, terminata la lettura di un libro, te ne restano in mente come emblemi. Nel Successore, l’ultimo romanzo di Ismail Kadaré, è quella della «Guida» - ovvero Enver Hoxha, il dittatore che tenne in suo potere l’Albania per quarant’anni, dalla fine della guerra alla morte, avvenuta nel 1985 - che fa ingresso all’inaugurazione della nuova casa del suo delfino. Col suo fasto, la dimora sembra prefigurare il passaggio di poteri tra i due uomini, che dovrebbe avvenire alla morte della Guida. Ma ecco l’anziano dittatore, ormai quasi cieco, in lungo mantello nero, che gioca con l’interruttore modernissimo che spicca su una parete del salone: da un lato è luce sempre più piena, ma dall’altro, clic, la stanza precipita nel buio. Con lo stesso ludico arbitrio, il «Prijs», la Guida, deciderà della vita del suo fedelissimo: gli succederà davvero o sarà lui a morire prima, andandosene in circostanze misteriose? Terminato nel 2004, Il successore è la seconda parte d’un dittico che Kadaré avviò tra il 1984 e il 1986 con il romanzo La figlia di Agamennone. Sulla falsariga della tragedia eschilea dell’Atride, di sua figlia Ifigenia e della moglie Clitennestra, ecco la vicenda di una fanciulla, Suzana, immolata sull’altare della ragion di Stato: non potrà sposare l’amante cui - con innocente fame di eros - ha concesso la propria verginità, perché andrà a nozze con un altro, in apparenza più consono alla dimensione di potere teocratico cui è vocato suo padre; ma nel secondo volume si scopre che il promesso sposo è figlio di «nobilastri», accusa infamante nell’Albania comunista, da qui la caduta in rovina del Successore e della sua famiglia. Il primo libro, racconta nella postfazione Claude Durand, editore di Fayard, arrivò in Francia, da Tirana dove lui si era appositamente recato, dissimulato tra le sue carte, insieme con un altro romanzo, L’Ombre, con L’envol du migrateur e delle raccolte di versi. Depositati alla Banque de la Cité, gli scritti fungevano da assicurazione sulla memoria: Fayard aveva l’incarico di tradurli e pubblicarli se Ismail Kadaré fosse morto, magari in modo «accidentale». Il dittico è il più spietato ed esplicito atto d’accusa che lo scrittore di Gjirokastra abbia mosso al regime di Hoxha - la monarchia comunista che aveva trasformato l’Albania, scrive, in un «paese ermafrodita» - senza più i veli dell’allusione utilizzati altrove, per esempio nel Palazzo dei sogni. Dunque, era lo scudo da utilizzare se il regime avesse tentato, post-mortem, di manipolare la sua memoria. Kafkiano (per una volta l’aggettivo non è un abuso), cupamente magnifico, di una potenza, a tratti, quasi intollerabile, il dittico, - specie nel secondo romanzo - certifica di nuovo la grandezza dello scrittore del Generale dell’armata morta, più volte candidato al Nobel. Mentre, in contemporanea, escono da noi anche due suoi saggi. Uno su Eschilo, l’altro su Dante. Quest’ultimo con una tesi assai interessante: che l’Alighieri, col suo Inferno, abbia prefigurato il mondo fino a oggi, un mondo, il nostro, «dantesco» nella labirintica claustrofobia delle sue metropoli.
«La figlia di Agamennone» e «Il Successore» è un dittico che merita d’essere definito non un romanzo, ma «il» romanzo, del totalitarismo. Cos’è, signor Kadaré, il totalitarismo?
«È un forma di potere ben conosciuta nel mondo, che si è evoluta per millenni, ma i cui dati sono ricorrenti. È un potere totale che non sopporta falle. Il complesso del totalitarismo, la sua malattia mortale, è che la prima falla che si apre in esso ne determina la fine. Perciò non sopporta incrinature».
L’idea corrente è che sia stato il Novecento a inventare i totalitarismi, cioè i fascismi e il comunismo. Quali ne sono stati, prima, i prototipi?
«Il sistema di potere degli Egizi, per esempio. I Greci, loro, ne hanno scritto, la tragedia greca ne parla, ma essa riportava ciò che avveniva nel mondo intorno. Perché la “tirannia” greca era piuttosto un’oligarchia, di tiranni ce ne furono trenta, e questo cambia parecchio. Pensi se ci fossero stati trenta Stalin o trenta Mussolini...».
Però la memoria del totalitarismo, quel controllo che esso esercitava fino nel profondo delle coscienze, sembra scomparsa nel sentire di chi, oggi, persone comuni e non intellettuali, arriva qui dai paesi dell’Est Europa. Russi, romeni, albanesi, raccontano quel passato con nostalgia per il modello di giustizia sociale al più lamentandone la mancanza di libertà. Come mai la memoria del totalitarismo sfuma così facilmente?
«La macchina dell’oblio non è assurda, è necessaria. Senza l’oblio non potremmo avere memoria. Ma a volte si dimentica troppo. La macchina perde colpi, funziona male».
Si dice «comunismo», al singolare. In realtà ciascuno aveva il proprio. Quello albanese quali caratteristiche aveva?
«Era il peggiore. O meglio, il peggiore dopo quello cambogiano e quello cinese. Subito dopo ecco il nostro e quello romeno. Era un mosaico di due fasi, quella stalinista e quella post-stalinista. Il comunismo asiatico era più duro, lì la persecuzione di scrittori e intellettuali è arrivata a livelli inimmaginabili, la Rivoluzione culturale cinese è stata, in questo senso, la più grande ecatombe della storia, però il comunismo cinese non è stato ancora studiato bene».
Forse perché la Repubblica Popolare esiste ancora?
«Anche perché in Occidente c’erano dei maîtres-à-penser che, la Cina, la sostenevano».
Rispetto a questo scenario, lei ritiene di aver sperimentato, in Albania, maggiore libertà?
«Nel 1980 se non altro ho potuto scrivere un romanzo di 600 pagine, Il concerto, dove raccontavo un’ecatombe di intellettuali e la morte che correva dentro la cupola del potere. Facevo un paragone tra Macbeth che, nella tragedia di Shakespeare, uccide il re, e la Cina dov’era stato il re, Mao Tse Tung, ad aver fatto uccidere il candidato alla successione Lin Piao. Scrivevo nomi e cognomi. Finii il romanzo mentre Enver Hoxha liquidava, lui, il suo delfino, Mehmet Shehu. Hoxha lo ebbe in visione e il romanzo non uscì fino alla sua morte. Ma insomma, avevo potuto scriverlo».
Lei ha lasciato l’Albania nel 1990, cinque anni dopo la morte di Hoxha. Come mai non l’aveva fatto prima? E lì di quale statuto godeva? Viveva del suo scrivere? Era amato o messo al bando?
«Lasciare una dittatura è difficile, c’era il rischio di rappresaglie per la mia famiglia. In Albania ero molto amato dai progressisti, studenti e professori, ma anche gente semplice, ed ero odiato dai militanti fanatici del regime e tenuto d’occhio dalla polizia segreta. Il mio status, dopo il 1970, era davvero strano, perché in quell’anno cominciarono a tradurre le mie opere in una quantità di lingue, e così ero amato sia in patria, nel paese che era il nemico numero uno dell’Occidente, che nell’Occidente stesso. Ero un paradosso, ero “lo” scrittore di un paese stalinista amato all’Ovest. Sapevo di avere due tipi di lettori, gli albanesi indottrinati e i lettori di là, internazionali, liberi. E, sì, vivevo del mio scrivere».
In contemporanea con la seconda parte del dittico romanzesco escono in Italia due suoi saggi, «Dante, l’inevitabile», per Fandango Libri, ed «Eschilo, questo grande perdente», per un’etichetta neonata, Controluce. Il richiamo alla tragedia classica è, in questi due romanzi, esplicito fin dal titolo del primo. E l’aggettivo «dantesco» descrive il cupo inferno in cui si erge la figura del «Prijs», la Guida, il dittatore. Quale ruolo hanno avuto i Greci, da un lato, e Dante, nella sua formazione?
«Un’influenza profonda, costituiscono il sommo dell’arte. È questo che, nei saggi, ho cercato di esprimere. Che il testo su Dante appaia ora in Italia è un piacere, è un onore».
La vicenda che lei narra nei due romanzi è calcata sull’«Orestea». Ma ciò che il Successore/Agamennone immola per far carriera non è il semplice corpo di sua figlia, Suzana/Ifigenia. È, più in profondità, la sua sessualità. È al suo eros che la ragazza deve rinunciare. Perché ha circoscritto il sacrificio di Suzana a questa sfera e non ha parlato invece d’amore, di cuore, di sentimenti?
«Volevo dare al sacrificio una connotazione “genetica”, qualcosa che parlasse della possibilità di cambiare la natura umana in profondità. E accentuare questo lato dell’amore: il totalitarismo riduce l’amore, come tutte le passioni, a uno stato molto povero, primitivo».
Dopo il crollo del regime lei è potuto tornare in Albania. L’ha fatto subito? E oggi com’è il paese, rispetto al passato?
«Non è un paese né ricco né felice. Io, qui, sono tornato subito, appena ho potuto, me l’ero ripromesso e ho mantenuto la parola. Trascorro metà dell’anno vicino a Durazzo, sul mare, in una località il cui nome è arcaico e significa “la montagna dell’uomo”. L’Albania oggi potrebbe essere felice, per via della libertà conquistata. Ma pretende di più. E se lo merita, io credo».

In libreria non solo romanzi. Anche i saggi su Eschilo e Dante
Con «Il Successore» (pp. 149, euro 12,60) romanzo appena uscito, sono arrivati a tredici i titoli di Ismail Kadaré pubblicati da Longanesi.
In questa stagione è uscito anche La figlia di Agamennone (pp. 109, euro 13). La traduzione di entrambi, a opera di Francesco Bruno, è dalla versione francese, anziché dall’originale albanese,
Tea ha da poco rimandato in libreria, in tascabile, Chi ha riportato Doruntina? (pp. 142, euro 8, trad. F. Bruno) una vicenda dai toni da thriller ambientata nell’Albania medievale, composta da Kadaré nel 1980.
Per Fandango Libri Francesca Spinelli ha tradotto il saggio Dante, l’inevitabile (pp.53, euro 9). La neonata editrice salentina Controluce pubblica invece Eschilo, il gran perdente (pp. 140, euro 13) nella traduzione, qui, dall’albanese, di Adriana Prizreni.

l'Unità 5.7.08
Appelli. Lo lanciano lo scrittore e il regista
Tabucchi e de Oliveira: «Basta ai doppiaggi»


Un appello all'Unione europea: smettiamola di doppiare i film, proiettiamoli in lingua originale con sottotitoli! L’appello lo hanno lanciato giovedì sera lo scrittore Antonio Tabucchi e il regista portoghese Manoel de Oliveira (100 anni a dicembre) in un incontro alla Cinemateque francaise di Parigi. «È anche una questione di diritto d'autore - ha detto Tabucchi - Non possiamo proteggere un corpo mettendogli in bocca le parole di un altro. È peccaminoso!». «Anch'io non sopporto il doppiaggio dei film. E secondo me anche Michel Piccoli che è qui in sala con noi tra il pubblico si aggiunge a questo appello», ha continuato il regista applaudendo l'attore francese. In Italia, Spagna e Germania - ha spiegato Tabucchi - si continuano a doppiare i film perchè nel '39 Hitler e Mussolini lo avevano stabilito in un patto per ragioni nazionalistiche. La serie di incontri con gli artisti e di proiezioni di film d'autore alla Cinematheque si inseriscono nella stagione culturale europea organizzata in Francia in occasione della presidenza dell'Unione europea. La serata ha proiettato il primo film di Oliveira del 1929, Douro, Faina Fluvial, un muto in bianco e nero di 18 minuti. «Avevo vent'anni - ha raccontato il regista - e fu mio padre a finanziarlo». E, parlando di religione, ha detto: «La cosa più sexy per me è la religione. l'universo è sexy. Amare la religione o la scienza è la stessa cosa. Io sono di tradizione cattolica, diciamo che non credendo credo».