lunedì 7 luglio 2008

l'Unità 7.7.08
Negato il voto ad una trentina di iscritti, ma “passano” la compagna e l’ex portavoce di Ferrero
Rifondazione, la guerra delle tessere in salsa trasteverina
di s.c.


Sempre peggio, dentro Rifondazione comunista. A incendiare le polveri questa volta (dopo l’annullamento del congresso di Reggio Calabria vinto dalla mozione Vendola) è quanto avvenuto al circolo Trastevere di Roma. Lo racconta l’ex senatrice Prc Rina Gagliardi: «La commissione politica ha contestato il diritto di voto a una trentina di iscritti». Motivo? «La loro iscrizione non sarebbe stata visionata dal direttivo quando invece le iscrizioni, tutte regolari, erano note alla federazione». Un cavillo, lamentano i vendoliani, che ha escluso dal diritto al voto persone tutt’altro che di ignota provenienza, come la capo ufficio stampa del Prc al Senato Nanni Riccobono, lo storico ambientalista Bernardo Rossi Doria, molti che venivano dalla storica sezione romana del “manifesto” di via Pomponazzi. È stata consentita la votazione soltanto “sub judice” all’ex senatore Prc Salvatore Bonadonna, essendosi trasferito da Monteverde, e alla dirigente Cgil Wilma Casavecchia, entrambi iscritti al Prc da 14 anni. «La cosa particolare - osserva Gagliardi - è che non è stato fatto nessun problema a due neo iscritti: la compagna di Paolo Ferrero e l’ex portavoce dello stesso ex ministro».
E la cosa ancora più particolare sono i tempi, viene denunciato sul sito della mozione Vendola: «Il direttivo aveva avuto modo di vistare e convalidare solo alcune iscrizioni, incluse le due di cui sopra, e purtroppo non le altre. Solo che gli esclusi si erano iscritti prima dei due fortunati compagni votanti, non dopo. Com’è che il direttivo per loro non ha trovato tempo? Braccia allargate. Il lavoro, gli impegni...».
Ferrero si dice «disgustato»: «Capisco che io sia oggetto di denigrazione, ma non avrei mai immaginato di veder coinvolta la sfera affettiva. Mi chiedo se sia questa la nonviolenza che chiedeva Vendola nella discussione interna». Quanto alla legittimità dei tesseramenti, l’ex ministro dice che «a pronunciarsi sarà la commissione di garanzia».
Non servono commissioni per capire che per il Prc la parola fine è già stata pronunciata.

l'Unità 7.7.08
Il Psoe incorona Zapatero: più diritti nella mia Spagna laica
di Toni Fontana


Torri panciute a forma di dirigibile, strade larghe, ponti ciclabili, condomini dalle forme avveniristiche abitati da un ceto medio preoccupato per la crisi, ma che prenota ristoranti da 80 euro a coperto con due giorni di anticipo. Ecco la città del terzo millennio, tutta fast food e giochi per i bimbi, che il Psoe di Zapatero ha eletto a tempio della politica. Dal Campo de La Naciones, Madrid Est, è partita la carovana socialista finita trionfalmente il 9 marzo, qui, nel faraonico palazzo dei Congressi, Zapatero ha strappato ai militanti il secondo mandato (2004) con il 95,5% del voti e ieri, ha chiuso il 37° congresso con un discorso dai toni utopici, fortemente realistici, insistentemente orgogliosi.
Ha alzato la voce solo quando ha attaccato la destra che lo accusa di inerzia di fronte ai crescenti affanni dell’economia, per ribadire che la Spagna uscirà dall’empasse senza ridurre salari e pensioni, ma anzi tutelerà «chi è più debole e vulnerabile», ha centrato le conclusioni sui «valori umani che prevalgono sulla logica del denaro», sul «socialismo come progetto di convivenza e di integrazione» sul «diritto degli immigrati di partecipare al benessere del Paese», ha strappato applausi scroscianti rivolgendosi ai 995 delegati di «un parito unito, capace di produrre idee».
Per assurdo, il leader di un paese moderno, laico e dinamico come la Spagna, ha chiuso il Congresso del suo partito con un risultato «bulgaro», è stato acclamato dal 98,5% dei delegati, la linea seguita dal gruppo dirigente ha ottenuto il 100% dei consensi, le conclusioni delle commissioni di lavoro sono state approvate per acclamazione, pressochè all’unanimità. Finito il discorso del leader, i delegati hanno tirato per mani i trolley e sono corsi alle stazioni tra abbracci e qualche lacrima. Non c’è retorica in tutto questo. Il Psoe appare oggi una formazione anomala in Europa, qualcuno scherza e definisce quello di Zapatero «l’ultimo partito leninista», e, quando ieri si stavano spegnendo i riflettori, molti, anche tra i ministri, hanno alzato il pugno e cantato con le lacrime agli occhi l’Internazionale.
La più convinta è apparsa la 31enne Liere Pajin, che teneva un braccio «ad angolo retto» con il pungo chiuso in alto e l’altro attorno al collo di Zapatero che l’ha eletta responsabile dell’organizzazione del Psoe, la numero tre del partito.
Politicamente il Congresso è apparso tuttavia a tratti noioso e scontato.
La temuta ribellione della sinistra socialista non c’è stata, gli uomini di Zapatero hanno assorbito le critiche con una decisa e marcata svolta «izquierdista». Il leader doveva ribaltare tre accuse che, dal 9 marzo (vittoria con il 43,87%, 169 deputati, sette meno della maggioranza assoluta), rimbalzano sulla stampa e fanno presa anche tra i militanti: inattività legislativa, cedimento alla destra sui temi dell’immigrazione, occultamento della verità sulla crisi economica. Zapatero ha risolto la prima questione assicurando che la Spagna «continuerà sulla strada delle riforme per le modernizzazione». E ieri ha elencato le iniziative che sono in cantiere. La revisione della legge sull’aborto (rimasta invariata da 23 anni) appare una priorità. «Nessuna donna che abortisce può essere incriminata» - ha detto ieri Zapatero alludendo a recenti inchieste avviate dalla magistratura. E negli emendamenti approvati all’unanimità si parla di «rispetto della volontà della donna» e di «diritto alla salute e al controllo della maternità».
Si tratta comunque di indicazioni. La vice di Zapatero, Maria Teresa de la Vaga ha annunciato che la revisione della legge «sarà ampia», ma il Congresso non è entrato nei dettagli. Né Zapatero, né i documenti congressuali parlano espressamente di eutanasia, ma il leader ha accennato ieri al diritto «ad una morte degna» e nelle relazioni approvate si accenna ad un «aiuto per porre fine all’accanimento terapeutico». Anche in questo caso il Congresso si limita ad aprire un dibattito.
In quanto al contrastato rapporto con la Chiesa cattolica il leader socialista si è limitato a ribadire «il carattere laico dello Stato», approvando così indirettamente le indicazioni emerse nel dibattito come l’abolizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici (quindi anche i crocifissi nelle scuole) e l’abolizione di funerali di Stato con rito religioso. Al tema dell’immigrazione Zapatero ha dedicato buona parte del suo intervento. Molti militanti, anche pubblicamente, hanno manifestato dissenso per l’appoggio dato dagli europarlamentari del Psoe alla Direttiva del Rientro che apre la strada alla detenzione anche per 18 mesi nei Cpt.
Intervistato da El Pais, Zapatero si è spinto a definire «progressista» la direttiva di Bruxelles e ieri, per sedare i malumori, ha spiegato che la Spagna si oppone all’immigrazione illegale, ma offre la «piena integrazione» agli stranieri regolari che, ben presto, potranno votare alle elezioni amministrative.
Poi ha scatenato l’applauso della platea aggiungendo che «se negli asili non ci sono posti liberi non è colpa degli immigrati e dei loro figli, ma degli amministratori». Non tutti, all’esterno del partito, sono convinti che la svolta laicista sia sufficiente per dissipare i dubbi che circondano i primi 100 giorni del secondo governo Zapatero. El Pais sospetta ad esempio che il leader «eluda le risposte» in special modo sulla crisi.
Qualche dato aiuta a capire ciò che bolle in Spagna. Nel settembre 2007 la crescita del Pil viaggiava sul 3,3%, due mesi dopo sul 3,1%, si attestava al 2,3% nell’aprile 2008 e ora sta sotto al 2%. Secondo analisi diffuse ieri il salario medio spagnolo si è ridotto dello 0,7% (18mila euro contro 19mila dell’Italia). La crisi si fa sentire soprattutto nel settore edilizio e molti immigrati stanno rischiando il posto. Zapatero ha aperto il Congresso assicurando il «governo rilancerà la crescita economica, mantenendo e aumentando, le politiche sociali».
Ieri ha detto che gli investimenti stranieri sono aumentati del 50% (16 milioni di euro nelle ultime settimane) e soprattutto ha orgogliosamente ribadito la sua fiducia sul fatto che la Spagna saprà superare le difficoltà puntando «sull’innovazione ed il rilancio delle infrastrutture». Lotta alla fame e ai mutamenti climatici, energie rinnovabili (obiettivo è di arrivare al 20%), aiuti ai Paesi in via di sviluppo sono stati gli altri temi toccati da Zapatero.
Oltre 200 gli invitati, 50 le delegazioni straniere. Per il Pd c’erano Lapo Pistelli e Luciano Vecchi. «Nelle peculiarità della Spagna - osserva Vecchi, della direzione del partito di Veltroni - è interessante l’approccio del Psoe allo sviluppo dei diritti individuali in un’ottica di responsabilità collettiva. L’affermazione dei diritti non è solo di principio, ma rappresenta una leva per favorire la trasformazione sociale ed economica del Paese».

l'Unità 7.7.08
Un premier senza paura
di Luigi Bonanate


La parabola delle leadership europee è estremamente volubile: Gordon Brown è in caduta libera, Sarkozy si aggrappa alla Betancourt per avere un po’ di successo in Francia, Berlusconi... beh, lasciamo andare. Invece Zapatero (fresco vincitore delle elezioni, per la seconda volta, sei mesi fa) va a gonfie vele.
Non soltanto gli spagnoli hanno scoperto che non porta sfortuna e non più di una settimana fa ha accompagnato alle vittoria europea la squadra di calcio nazionale, ma c’è di più.
Mentre in Italia facevamo i conti per stabilire definitivamente se il prodotto nazionale lordo spagnolo avesse davvero superato quello italiano, Zapatero — e questa è davvero una notizia — faceva politica. La faceva proponendo la ridiscussione della legge sull’aborto, sulle lungaggini delle pratiche per il divorzio, sulla morte assistita, sulla presenza o meno dei crocefissi nelle aule, sui funerali di Stato cattolici: tutti temi di chiara impostazione sociale su cui il premier ha chiamato al dibattito le assise del suo partito, il Psoe. Zapatero ha capito che la politica deve dettare, più che i contenuti, le procedure secondo le quali evolve una società. Proprio questo è la democrazia in azione: dibattiti e discussioni destinati non a stabilire che cosa sia vero o giusto (anche se tutti abbiamo il dovere di ricercarlo) ma cosa appaia più equilibrato a una pubblica opinione. A questo servono le elezioni. Quando la politica svolge la sua funzione di regolatore della vita sociale anche i treni possono arrivare in orario (come effettivamente in modo stupefacente succede in Spagna) senza aver bisogno del fascismo.
Già, il fascismo spagnolo: è caduto da quasi un quarto di secolo, ma in molti di noi è rimasto vivo lo stereotipo di una Spagna «cattolicissima», che non fu invece altro che uno degli artifici mediatici del regime franchista per accreditarsi come un governo tradizionale e storico. La cultura spagnola — dopo il «siglo de oro» e fino al franchismo — non ha mai sofferto di crisi religiose come è successo alla Germania o alla Francia con le guerre di religione. Si può essere cattolici senza esser fascisti e, a dire il vero, la maggior parte dei fascisti non sono veri cattolici. Sembra proprio questa la chiave di volta che consente a Zapatero di vincere le elezioni sia quando sono politiche sia quando si svolgono all’interno del partito: adesso è stato riconfermato (terza volta) alla segreteria del Psoe: senza rivali. Era successo — chi se lo ricorda ancora? — anche a Bettino Craxi, qui da noi, che venne addirittura rieletto, nel 1984, per acclamazione, suscitando il famoso articolo di Bobbio sulla democrazia dell’applauso. La differenza, con Zapatero, è che al posto della demagogia si fa politica: anche in questo il modello-Zapatero appare tanto diverso da quello della maggior parte dei suoi colleghi europei. Il suo è un governo che lavora tutti i giorni, per così dire, e non si intorcina in improbabili riforme della giustizia, non si disperde nei decreti sulle intercettazioni (tutti i Paesi del mondo hanno una chiara e sufficiente legislazione al riguardo: basterebbe rispettarla) ma cerca di costruire un modello di Stato. Non è proprio questo il compito di quello che chiamiamo «statista»?
In questo quadro, la politica religiosa del governo spagnolo merita di essere considerata per quel che propone, e non sulla base di stucchevoli pregiudizi sull’anti-clericalismo o sul laicismo. La riaffermazione della laicità, invece, è uno dei capisaldi proprio di quelle radici cattoliche dell’Europa che — giova non dimenticarlo — si nutrono anche di universalismo, tolleranza, interculturalità e libertà (anche religiosa: e per tutti). Quale credente vorrebbe mai vedere la sua religione imposta ai non credenti con le baionette? E così Zapatero, al potere da cinque anni, ha sempre seguito una linea coerente senza trasformarsi o piegarsi di fronte a difficoltà occasionali. E curiosamente, i risultati non solo sono giunti senza troppe difficoltà ma anche senza grande chiasso: si è discusso di più in Italia, senza concluder nulla, di coppie di fatto o di matrimoni gay che non in Spagna. In Spagna tutto ciò è ormai acquisito e la società spagnola non si è disgregata, mentre in Italia non se ne è fatto nulla — come dire: abbiamo perso tempo e la società non si è migliorata per nulla, non ha saputo dare prova della benché minima capacità di auto-riformarsi.
Il modello-Zapatero — il potere non logora chi sa far politica (chi vuole lo applichi anche a Berlusconi) — potrebbe esserci particolarmente utile nel momento in cui, ai confini dell’Europa, si annuncia un nuovo grande, intricatissimo, conflitto religioso. O politico? La Corte costituzionale turca sta, verosimilmente, per mettere fuori legge il partito politico che ha espresso niente meno che il Primo ministro in carica, Erdogan, con l’accusa di violazione dei princìpi laici e a-confessionali della Costituzione turca, voluta da Atatürk ormai un secolo fa, al termine di una storia, quella dell’un tempo grandissimo, potentissimo e religiosissimo impero turco. Che politica e religione non dovessero mescolarsi e reciprocamente sfruttarsi è una lezione che i turchi sembrano aver dimenticato tanto che corrono verso una crisi istituzionale estrema che rischia, tra l’altro, di escluderli definitivamente dalla rincorsa del treno europeo.Anche per questo diciamoci che, di religione e crocefissi, di veli che coprono la donna sul capo, sul viso o sul corpo, si può discutere senza che nessuno debba gridare allo scandalo: questa sì sarebbe una bella notizia. Rispettare tutti vuol dire rispettare usi e costumi di chiunque, in quanto portatori di storie, saggezza popolare, tradizioni. Invece che scontrarsi a ogni passo, potrebbero meglio convivere le une con le altre se accettassimo di parlarne e discuterne senza arroganza, senza pregiudizi, sena paura di perdere: in democrazia c’è sempre modo di rifarsi. C’è stato un tempo in cui il crocefisso veniva brandito come una clava: se Dio vuole, proprio i cattolici se ne sono liberati, e ora possiamo darci programmi di discussione evoluti e consapevoli. Si può far politica anche senza anatemi. Anzi, è ancora meglio.

l'Unità 7.7.08
Scusi, da che parte si va per il nirvana?
di Ugo Leonzio


TUTTI IN INDIA Lo desideriamo, lo cerchiamo, lo inseguiamo. Ma né la beatitudine di una vacanza perfetta, né qualsiasi altra forma mistica di piacere, assolutamente nessuna, può essere il «nirvana», perché non c’è...

Non si lascia catturare neppure dall’estasi cerebrale, di cui parla per esperienza la neurologa Jill Bolte Taylor
Il suo segreto è racchiuso in questa piccola frase «Io sono ciò che mi assorbe», cioè uno specchio vuoto

Quando l’India era ricca solo di fachiri e sui marciapiedi si respirava ancora quell’odore di merda bollita che alcuni scaltri viaggiatori definirono poi l’odore dell’India, mi capitò di passare a Benares (Varanasi) una notte, insonne per il caldo e le zanzare in un ashram per vedove anziane o morenti che non avevano trovato asilo neppure nella casa della morte, a fianco al Manikarnika Ghat, sulla riva occidentale del Gange, dove si bruciano i cadaveri e ci si libera per sempre. Mi aveva portato lì, un errore della leggendaria guida dell’India, Seeking the Master. La «guide bleu» dei guru e degli ashrams pubblicato a Londra da MacMillan non specificava che l’ashram era per sole donne. Era il periodo dei monsoni e non c’era un buco per dormire neppure negli alberghetti di Godaulia intorno a Vishwanath, il tempio d’oro dedicato a Shiva.
Un’offerta generosa di rupie convinsero la decrepita direttrice dell’ashram a concedermi un angoletto duro e nudo sotto la tettoia. La notte era lunga, a poco a poco si spensero i mantra dei pellegrini, rimasero solo i latrati dei cani.
La città era poco illuminata, solo remoti lumini di lampade a olio sfioravano le ombre che non potevano prendere sonno.
Anche la vecchia non dormiva. Aveva smesso il suo mantra infinito «Ram, Ram, Ram» e osservava i corpi delle sue ospiti avvolti nei sari senza colore, sembrava contarli. Di tanto in tanto i suoi occhi scuri e senza ciglia si posavano sui miei. Provai a chiederle se davvero nella santa città in cui ci trovavamo, la più antica, la più santa dell’India, si poteva raggiungere, morendo, il sospirato nirvana per cui mi ero messo in viaggio su un decrepito magic bus con l’esile conforto di una pipetta afgana.
La sua bocca socchiusa non cercò una risposta, con un movimento impercettibile della mano indicò l’unico angolo illuminato del pavimento dove formiche, mosche e zanzare combattevano una lotta fratricida per la conquista di un escremento di cane. Le mosche ebbero la meglio e si addensarono come una bocca vibrante su quel pasto coprendolo con un ronzio eccitato. Durò qualche minuto poi le inghiottì il silenzio, un silenzio così profondo che sembrava digerire anche la notte. Le mosche erano catturate da un’estasi così profonda da crollare una dopo l’altra sul quel torbido tesoro.
La vecchia indicò l’escremento e a voce così bassa che un dormiente non avrebbe potuto udire, sussurrò: «Nirvana». Lo ripetè più volte, a voce sempre, come se si trattasse di un segreto tra noi, mentre le mosche si erano risvegliate e difendevano forsennate il loro fragrante nirvana, dall’ennesimo attacco delle formiche.
La vecchia era troppo saggia per prendermi in giro e mostrandomi quell’oggetto di desiderio mi faceva capire che nessuna forma di piacere, assolutamente nessuna, può essere il «nirvana».
Il piacere è una metamorfosi del dolore. E l’ego è l’oggetto di questa metamorfosi. Dove c’è un ego non può esserci il nirvana. Ma le mosche non hanno un ego. Il nirvana indicato dalla vecchia era certamente diverso, almeno in parte, da quello sperimentato da Jill Bolte Taylor, neurologa della Harvard University, specializzata in sofisticate ricerche cervello. Certo, non è una cosa cui pensiamo tutti i giorni ma proviamo a immaginare cosa accadrebbe se ci colpisse un ictus, mentre ci svegliamo o camminiamo per strada? Un dolore acuto in fondo al bulbo oculare o in un punto incredibilmente profondo al centro del cervello. Un grosso e grasso vaso sanguigno si rompe e nel giro di qualche minuto il lobo sinistro del cervello, sorgente prediletta del nostro ego, del giudizio, dell’analisi, e del gusto comincia a spegnersi. Buio, confusione, panico? No, al contrario. Ci si libera da una prigione, ci sentiamo leggeri come il genio di Aladino quando esce dalla sua claustrofobica lampada.
Il chiacchiericcio della mente, l’implacabile brusio che produce i pensieri scivola via trasciandosi dietro i problemi, le delusioni, le ansie, le speranze che lo tengono in vita. Le percezioni fisiche cambiano, non si limitano più al ristretto confine su cui la nostra epidermide incontra solitamente l’aria ma possiamo vedere atomi e molecole costruire il nostro corpo mescolando atomi e molecole con lo spazio intorno a noi. Ci è chiaro finalmente, che tutte le creature, gli alberi, i fiori, le scogliere e gli insetti che le abitano, l’intero mondo e il cosmo non fanno solo parte ma creano quel meraviglioso, unico campo di abbagliante, sontuosa energia che ci piacerebbe chiamare nirvana.
Jill Bolte Taylor, nel suo libro My Stroke of Insight, recentemente pubblicato da Viking Press, se ne è fatta un’idea quando un embolo della grandezza di una pallina da golf ha deciso di occupare abusivamente il suo cervello con una forte emorragia, togliendole l’uso dell’emisfero cerebrale sinistro insieme alla capacità di parlare, di riconoscere numeri, lettere, volti, compreso quello di sua madre e più o meno tutte le funzioni analitiche di base che ci permettono di prendere un taxi o di bere un the.
Dopo otto anni Jill Bolte Taylor è rientrata nel suo corpo perfettamente restaurato. L’emisfero sinistro non era completamente distrutto, ma il biglietto fortunato della lotteria che le ha permesso il ritorno nel vecchio mondo rumoroso, confuso e maleodorante, è stata una insopprimibile voglia di raccontare la sua esperienza del nirvana. Un esperienza di neuroni, priva di misticismi e piena di beatitudine. Il nirvana di Jill è una dimensione del cervello che potremmo raggiungere quando vogliamo, approfondendo lo studio dei suoi due emisferi. Se in un futuro non lontano potremo raggiungere il nirvana con una supposta o una meringa alla fragola, sarà un’ottima alternativa alle playstation, ai blackberry, alle foto digitali, agli iPod, ai blog, a You Tube (e ai guru, ai viaggi taroccati, ai vari Orienti autolesionisti, come quelli descritti da Rosa Matteucci in India per signorine appena uscito da Rizzoli). Ma il nirvana non si lascia catturare da un gioco di neuroni e l’esperienza di Jill Bolte Taylor. Va ad aggiungersi ad altri milioni di casi documentati da Elisabeth Kubler Ross, Raymond Moody e da un’infinità di altri ricercatori che inseguono il beato «nirvana» con lo stesso spirito (ma assai meno speranze) degli scopritori di tesori perduti.
Quelli tra voi che stanno per andare in vacanza e già annusano l’ebbrezza dell’atollo perduto, con le famose sabbie immacolate, i capanni ventilati e i cocktail tropicali serviti da chi volete dentro jacuzzi più spumose dell’oceano senza che nulla e nessuno venga a disturbare, stanno già pregustando l’inizio di un nirvana che può essere migliorato con un caicco d’epoca, uno shopping sulla Via della Seta o se siete davvero incontentabili una circoambulazione del Kailash (per saperne di più, molto, molto di più, leggete Il monte sacro di John Snelling appena uscito dal Saggiatore).
Tuttavia, né l’estasi cerebrale di Jill Bolte Taylor né la beatitudine di una perfetta vacanza né qualsiasi altra forma mistica di piacere può essere il nirvana perché il nirvana, ormai lo avrete capito, non è. Quindi? Una pericolosa frase di Meister Eckart dovrebbe mettervi in guardia mentre chiudete la borsa in partenza per Zanzibar o le Andamane con sandali, jellaba e parei d’arcobaleno. «Io sono ciò che mi assorbe». Tutto Meister Eckart è pericoloso per chi non vede il suo insegnamento come una pratica zen ma neanche nello Shobogenzo, il capolavoro dello zen Soto scritto dal grande Dogen Zenji troverete un’affermazione così... Immaginate di essere una mosca o una formica, un affamato cannibale, o prigionieri di un lager in cui si offre e si nega la fatale fragranza di un Big Mac. Ovunque voi siate, dai vostri geni esplode una pulsione primordiale assai più antica dell’ego e della la vostra libido, una pulsione cieca che vuole essere soddisfatta e per esserlo vi assorbe. Se questa pulsione viene bloccata, anche la vostra mente si blocca, anche la vostra vita. Siete prigionieri di questa pulsione che si sbriciola in mille desideri e in diecimila paura. È una pulsione cannibale come la vita quotidiana. Come ci possiamo liberare?
Con il nirvana. Il nirvana? Pensateci. L’aereo ha già sorvolato spiagge, atolli e palmizi e ora atterra finalmente in un paradiso ad aria condizionata.
Io sono ciò che mi assorbe. Il segreto del nirvana è racchiuso in questa piccola frase. Fra poco sarete immerse nelle acque cristalline. Sì, il profumo dell’atollo è magnifico, avete ragione, è assolutamente identico a Eau Sauvage di Dior ma leggete ancora queste ultime righe... Se potete diventare ciò che vi assorbe (e lo state diventando), significa che potete diventare qualsiasi cosa. Quindi, non siete nulla. Siete una potenzialità pronta a svanire. Ecco il nirvana, uno specchio vuoto, uno specchio che riflette qualsiasi cosa, qualsiasi emozione ma non trattiene nulla, non contiene nulla. Nulla, come Dior... (pronti per il cocktail di benvenuto?)

l'Unità 7.7.08
L’Istituto nazionale di neuroscienze si presenta
Tra ricordi e paure. Le novità sul cervello
di Cristiana Pulcinelli


L’Istituto Nazionale di Neuroscienze (INN) ha avuto il suo battesimo ufficiale solo pochi giorni fa, ma la sua gestazione è stata molto lunga. Era il 1989 quando il presidente americano George Bush tradusse in legge il decreto che proponeva di considerare quello che iniziava nel 1990 come il decennio del cervello. «L’Italia fu la prima ad aderire all’iniziativa», racconta Piergiorgio Strata che all’epoca era presidente della società italiana di neuroscienze e oggi è presidente del neonato Istituto.
Fu in quel periodo che si pensò di fondare un istituto nazionale per la ricerca sul cervello. L’Istituto faticò a vedere la luce, ma nel 2004 è nato il consorzio universitario che nel 2007 è stato riconosciuto dal Ministero dell’università e della ricerca. Al momento vi partecipano 8 centri universitari che si trovano a Brescia, Cagliari, Ferrara, Genova, Napoli, Torino, Verona, Milano. Lo scopo dell’istituto è triplice: favorire la collaborazione tra i singoli centri che fanno parte del consorzio; puntare sulla formazione dei ricercatori; promuovere la comunicazione con i cittadini sui temi delle neuroscienze.
I primi risultati scientifici già ci sono. Ad esempio, a gennaio del 2008 un gruppo di ricercatori dell’INN ha individuato un meccanismo fisiologico alla base della formazione dei ricordi spiacevoli, ovvero della memoria della paura. Il meccanismo ha luogo nella corteccia del cervelletto e coinvolge le sinapsi inibitorie che regolano l’attività delle cellule di Purkinje. Tali sinapsi, dice lo studio, si modificano nel tempo affinché solo gli stimoli effettivamente legati tra loro, come per esempio un suono associato a una lieve scossa elettrica, diventino parte di uno stesso, spiacevole, ricordo. La ricerca è stata pubblicata dalla rivista Proceeding of the National Academy of Sciences.
Un’altra ricerca targata INN riguarda la nostra capacità di immaginazione. I risultati dello studio pubblicato a febbraio scorso sulla rivista Cortex dimostrano che possiamo ricostruire mentalmente non solo l’immagine visiva di un paesaggio o il volto di una persona, ma anche lo squillo di un telefono, la fragranza di un profumo, il sapore di un piatto prelibato o la morbidezza del velluto: tutto senza che gli stimoli provenienti da questi elementi raggiungano realmente i nostri sensi. Inoltre, i dati sperimentali dimostrano che i circuiti neuronali coinvolti nella formazione delle immagini visive mentali sono localizzati nel lobo temporale sinistro della corteccia cerebrale.
E ancora, due ricerche pubblicate su Brain Research Reviews e Frontiers in Neuroendocrinology dimostrano come nelle piante, nella plastica dei contenitori alimentari e in molti oggetti di uso comune sono presenti, in piccole quantità, sostanze chimiche capaci di interferire con il nostro sistema endocrino. Molte di queste sostanze sono xenoestrogeni e, come gli estrogeni prodotti dagli organismi viventi, sono in grado di modulare il differenziamento dei neuroni e alterare il comportamento.

l'Unità Lettere 7.7.08
Impronte ai piccoli rom: noi autori di libri per bambini lanciamo un appello

Cara Unità,
come autori di libri per bambini e ragazzi esprimiamo una forte preoccupazione per le iniziative assunte recentemente dal ministero dell’Interno di usare come metodo di identificazione per i minori Rom la schedatura delle impronte digitali.
Troppo spesso, nel documentarci per scrivere le nostre storie, abbiamo incontrato leggi che “per il bene” di bambini emarginati e senza voce in capitolo, hanno di fatto sancito ingiustizie e discriminazioni.
Se vogliamo far sì che i piccoli Rom non vivano fra i topi, cerchiamo di integrarli con le loro famiglie, di mandarli a scuola, di toglierli da situazioni di degrado, invece di fare le barricate quando si tenta di sistemarli in situazioni più dignitose.
Qualora questa misura fosse effettivamente attuata, violando a nostro parere i principi che regolano la convivenza civile come la Costituzione, la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia approvata dalle Nazioni Unite nel 1989 e ratificata dall’Italia nel 1991, non potremmo fare a meno di provare un forte senso di disagio nel proporre ai nostri piccoli lettori testi che parlano di solidarietà, di incontro fra i popoli o narrano di violenze e prevaricazioni subite dai loro coetanei come se fossero accadute nel passato e non potessero ripetersi mai più.
Non vorremmo appartenere a uno Stato che un giorno debba chiedere scusa alle sue minoranze.
Vanna Cercenà, Emanuela Nava, Dino Ticli, Moony Witcher, Alberto Melis, Janna Carioli, Angelo Petrosino, Francesco D'Adamo, Luisa Mattia, Emanuela Bussolati, Arianna Papini, Guido Sgardoli, Roberto Denti, Giusi Quarenghi, Angela Nanetti, Stefano Bordiglioni, Aquilino, Bruno Tognolini

l'Unità 7.7.08
La terribile attualità di Primo Levi
di Luigi Cancrini


Caro Cancrini,
per attenuare lo scoramento da sconfitta elettorale, mi era stata davvero utile la tua severa riflessione su Giacobini e Sanculotti (Unità del 28 aprile 2008) e mi sono anche difeso da incursioni di sdegno o ribrezzo, evitando accuratamente ogni telegiornale. Ma imprudentemente ieri ho ripreso in mano, dopo vent’anni, «I sommersi ed i salvati» di Primo Levi ed alcune considerazioni sulla “zona grigia” mi hanno precipitato di nuovo nell’amarezza. Ciò che infatti allora lessi come una lucidissima narrazione di fatti accaduti, oggi mi appare pieno di forza profetica e di ammonimenti per il futuro! E ne sono angosciato. Vorrei proporre quattro brevi stralci ai lettori dell’Unità: i primi due si attagliano già ora al nostro presente; il terzo ad un futuro, di cui vediamo i prodromi.
« ... era ben visibile in lui (Rumkowsky, capo collaborazionista del ghetto di Lodz) ... la sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione distorta del mondo, l’arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione, l’aggrapparsi convulso alle leve del comando, il disprezzo delle leggi».
«... incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile, ...., seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso...».
«La violenza ... è sotto i nostri occhi.... Attende solo il nuovo istrione... che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali».
Ma perché è così difficile arginare la “libidine di potere” e la pulsione a prevaricare il prossimo, che si ripropone sempre nella storia degli uomini?
Giancarlo Rossi

La prima cosa che mi viene da rispondere è che una responsabilità particolarmente importante è quella di chi, potendolo, non reagisce come dovrebbe. Dei giornali e dei telegiornali che riferiscono le opinioni di Maroni sui bambini rom e quelle di Alfano sulla possibilità di sospendere i processi come se fossero opinioni rispettabili espresse all’interno di un dibattito fra persone civili. È nel momento in cui delle idee eversive o razziste vengono presentate come delle idee normali, infatti, che il razzismo e l’eversione trovano diritto di cittadinanza nel quotidiano di chi le ascolta. Quello che si decide nei talk show televisivi e sulle primi pagine dei giornali è in realtà, oggi, l’insieme delle cose che si possono dire o non dire (e dunque insegnare e dunque praticare). Con conseguenze che a volte sono drammatiche.
Riflettiamo per un attimo ancora sulla schedatura dei bambini rom. Ho già discusso su questo giornale l’assurdità di un ragionamento che ne parla come di una misura utile per tutelarli. Quello che vorrei segnalare qui, tuttavia, è il modo in cui di questo problema si è parlato nei telegiornali: di seguito proponendo, senza che il giornalista prendesse posizione l’opinione di Famiglia Cristiana («il provvedimento è indecente») e quella di Maroni («è un provvedimento di tutela») oppure quella di un Commissario Europeo («il procedimento è inaccettabile») e quella di Maroni («il provvedimento è in linea con la legislazione europea»). Raccontato in questo modo, il fatto di cui si parla si perde nel magma indistinto delle comunicazioni politiche: su cui è normale che si esprimano opinioni diverse di cui il giornalista deve dare conto con uguale rilievo (la par condicio). Liberando se stesso dal dovere di prendere posizione e lasciando il telespettatore solo con i suoi pregiudizi (della serie “Maroni è un leghista” o della serie “i Rom sono cattivi”). Lasciando ai colleghi della carta stampata (la cui posizione è chiara fin dal nome del giornale per cui scrivono) il compito di sottolineare l’importanza di una delle posizioni e l’inciviltà dell’altra. Con il risultato finale, però, di collocare la scelta di Maroni nel novero delle opinioni politiche rispettabili.
Una copertina come quella di Panorama, 4 luglio del 2008, in cui la foto di un ragazzo rom piegato su una panca, il volto nascosto dalle mani campeggia sul titolo «Nati per rubare» meriterebbe un’azione penale e una sospensione della pubblicazione per qualche mese se qualcuno si preoccupasse oggi di tutelare la dignità delle persone che non hanno avvocati o parlamentari alle loro dipendenze (e per la dignità, alla fine, della stampa italiana). Questa copertina vergognosa non dà luogo a reazioni di nessun tipo invece e potentemente veicola, dai parrucchieri e sulle spiagge, l’idea stupida di chi continua a pensare che la moralità dei comportamenti dipende dall’etnia cui si appartiene.
Insisto su questo punto, caro Giancarlo, perché credo che questo sia davvero un elemento cruciale del processo di imbarbarimento per cui quello che conta non è il merito delle opinioni ma il “gradimento” di un pubblico distratto, svogliato e terribilmente poco informato. All’interno di una situazione in cui quello che sembra essere definitivamente venuto meno è la condivisione dei grandi principi cui si ispira la nostra Costituzione.
Nasce proprio da qui, a mio avviso, quella che Primo Levi chiama «la sindrome del potere protetto e incontrastato» perché la «visione distorta» del mondo propria di chi ha responsabilità di governo viene confermata ogni giorno dagli adulatori (che mi danno ragione sempre, qualsiasi cosa io dica) e dai detrattori (che lo sono ugualmente sempre, qualsiasi cosa io dica) e perché questo sentirsi immune dalle critiche di chi crede solo in sé stesso è continuamente rinforzato dalla staticità delle posizioni di chi informa stando “con me o contro di me”. Rinunciando al ruolo di osservatore obiettivo e distaccato, quello che veniva definito un tempo “il quarto potere” rischia di diventare uno strumento in più nelle mani di chi ha il potere vero: politico ed economico. Instaurare una dittatura basata sul consenso passa attraverso alcuni passaggi obbligati. Il primo di essi è quello di far passare l’idea per cui i provvedimenti che portano alla dittatura sono normali (o legali). L’aiuto dei media è fondamentale in questa fase per costruire il mito di un istrione (o di un gruppo di istrioni) capaci di «organizzare e di legalizzare la violenza dichiarandola necessaria e dovuta». Sul modo in cui questa «marea di violenza» sia collegata «all’intolleranza, alla libidine del potere, alle ragioni economiche, al fanatismo religioso o politico e agli attriti razziali» Primo Levi ha semplicemente ragione. Descrive in modo efficace quello che oggi accade sotto i nostri occhi.

Corriere della Sera 7.7.08
Girotondi, duello sulla piazza «Filmate i provocatori»
Con Di Pietro anche il figlio di Bachelet. La Bindi: fa bene
In piazza Navona Flores d'Arcais e Sabina Guzzanti. La manifestazione sarà chiusa da Furio Colombo
di Alessandro Trocino


ROMA — Domani sul palco di piazza Navona saranno in sedici, salvo sorprese. Da Antonio Di Pietro a Paolo Flores d'Arcais, da Ascanio Celestini a Sabina Guzzanti. Tutti insieme appassionatamente contro le «leggi- canaglia» di Silvio Berlusconi e in difesa «della democrazia in pericolo». Una squadra variegata di attori, politici e intellettuali che saranno in scena dalle 18. Anche se gli occhi di molti, e in particolare dello stato maggiore del Pd, saranno puntati più probabilmente sul megaschermo. Qui spunterà, in collegamento video, Beppe Grillo, il comico diventato blogger e fustigatore di costumi. Sullo stesso video potrebbe comparire un'altra barba celebre, quella di Umberto Eco, impossibilitato a partecipare di persona, per il quale si sta verificando la possibilità tecnica di un collegamento.
Walter Veltroni, si sa, non ha dato l'adesione personale e del partito alla manifestazione. E, anzi, sponsorizza una linea di opposizione parlamentare dura ma che non scada in posizioni «estremiste», magari censorie verso il capo dello Stato. Come a qualcuno nel Pd pare possa diventare l'evento. Tanto che Giorgio Merlo lo ha definito un «caravanserraglio forcaiolo, moralista e populista».
Ma c'è chi non condivide, come il prodiano Franco Monaco, che invita «a non esasperare le divisioni». E chi aderisce, come Giovanni Bachelet, figlio del vicepresidente del Csm ucciso dalle Br, nonché membro della direzione nazionale del Pd. Il suo è un «sì meditato», che spera in uno stile «sobrio, civile e unitario». Il professore invita il Pd a guardare con simpatia alla manifestazione: «Non ci saranno estremisti, solo gente affezionata all'idea che la giustizia debba essere uguale per tutti». Rosy Bindi, nelle cui liste si è candidato Bachelet alle primarie, non sarà in piazza, dopo le critiche a Veltroni e al capo dello Stato. Ma apprezza la scelta: «È un girotondino vero, è giusto e sono contenta che aderisca. Noi siamo un gruppo plurale. E poi la piazza va ascoltata».
Bachelet vorrebbe «una manifestazione senza bandiere» e «un palco senza politici professionisti ». Non sarà accontentato: il Prc promette di partecipare con i propri simboli. E sul palco sfileranno Antonio Di Pietro e altri parlamentari. Non avranno diritto di parola, invece, i leader di Prc e Pdci, che lo avrebbero molto desiderato. «Non vogliamo che diventi una passerella politica. Ma sono sicuro che capiranno», assicura Pancho Pardi.
A chiudere l'evento Furio Colombo, giornalista e deputato Pd: «Il mio intervento sarà tutto concentrato contro la vergognosa idea delle impronte digitali. In piazza mi hanno assicurato la loro presenza molti rom con i bambini». Colombo non teme il «grillismo»: «Certamente la nostra non sarà una manifestazione antipolitica. Non siamo né indifferenti né sprezzanti». Quanto al Pd, «ce ne sarà più di quello che si immagina. Io poi sono tra i fondatori: non è chiaro come questa possa essere interpretata come una manifestazione contro il mio partito».
Che un po' di tensione ci sia, lo dimostra la «precauzione» chiesta da Pardi: «Siccome si sentono voci di disordini e di provocazioni, lanciamo un invito a tutti: portate i telefonini e filmate. Sarà una forma spontanea di controllo». Un «piccolo fratello democratico». Che nulla potrà, però, contro la mina vagante Grillo. Qualcuno teme possa scagliare un j'accuse anche al Pd. Quasi una replica del Nanni Moretti di piazza Navona 2002: «Con questi dirigenti non vinceremo mai».

Corriere della Sera 7.7.08
Il procuratore di Torino «Non sono questioni che riguardano la magistratura, ma tutti i cittadini»
Caselli: problemi gravi, il corteo è legittimo
di Mario Porqueddu


Se la giustizia funziona sempre peggio, il risultato è che la sicurezza e i diritti non sono tutelati Che la politica parli così tanto di sicurezza, per poi non realizzare le condizioni necessarie a garantirla, direi che è per lo meno contraddittorio

MILANO — Nel merito dei singoli provvedimenti non vuole entrare. Sull'immunità per le più alte cariche dello Stato preferisce non dire nulla: «Sono temi sui quali si è già espressa l'Associazione nazionale magistrati. Che, per altro, è in stato di agitazione». In compenso, circa l'opportunità di organizzare una manifestazione sulla giustizia non ha dubbi: «A me sembra più che legittimo».
Asciutto, lapidario, il procuratore di Torino Gian Carlo Caselli, uno dei magistrati che hanno impersonato la lotta alla mafia in Italia, parla alla vigilia della protesta dei girotondini contro i provvedimenti del governo in tema di giustizia, etichettati (non da lui, ma da chi animerà il corteo) come «leggi canaglia». L'appuntamento ha diviso il centrosinistra: Di Pietro e l'Italia dei valori saranno in piazza, il Partito democratico no. Sia Veltroni che D'Alema hanno dichiarato di non condividere l'iniziativa.
Caselli la pensa diversamente. «In questo momento — dice — i problemi della giustizia sono tanti e molto gravi». Non solo: «Le soluzioni prospettate, dal cosiddetto "blocca-processi", a certi profili in tema di intercettazioni, fino ai tagli pesantissimi al bilancio della giustizia che si ritrovano nella Finanziaria, invece di risolvere la crisi sono destinate ad aggravarla ». Conclusione: «Di fronte a tutto questo, a me sembra legittimo prendere posizione. A patto che lo si faccia sempre in modo civile e dialettico».
Secondo il procuratore torinese, il fatto che su questi problemi, «che sono gravissimi», l'opinione pubblica faccia sentire la sua voce non è solo legittimo. In qualche modo è naturale che i cittadini si preoccupino di quello che succede alla giustizia. «Perché non si tratta di guai "della magistratura" — spiega Caselli —, ma di problemi del Paese: di tutti gli italiani. Se la giustizia funziona sempre peggio, il risultato è che la sicurezza e i diritti delle persone non sono tutelati a dovere ». Quindi chiude, con parole che illustrano quello che a chi lavora nei palazzi di giustizia appare come un corto circuito: «Che la politica parli così tanto di sicurezza, per poi non realizzare le condizioni necessarie a garantirla, direi che è per lo meno contradditorio».

Corriere della Sera 7.7.08
Scoperta. Studioso israeliano sul «New York Times»: è la prova che mancava da anni
«Un Messia risorto prima di Gesù» La stele divide archeologi e biblisti
Trovata sul Mar Morto. Il testo: «In tre giorni tu vivrai»
Un raro esempio di tavola non incisa ma scritta ad inchiostro. Risalirebbe ad alcuni decenni prima della nascita di Cristo
di Giulia Ziino


MILANO — Una tavola di pietra alta circa un metro con un testo di 87 righe scritto in ebraico potrebbe mettere in discussione le convinzioni sia storiche che religiose sulla figura di Gesù. La stele in questione, infatti, secondo alcuni studiosi risalirebbe a diversi decenni prima della nascita di Cristo e, nel testo, farebbe riferimento ad un Messia destinato a resuscitare dai morti «dopo tre giorni». In pratica, se le analisi chimiche e testuali confermeranno la datazione e la lettera della lapide, ci troveremmo di fronte alla prova tangibile che l'idea di un Messia morto e risorto dopo tre giorni era presente nel mondo ebraico ben prima dell'avvento di Gesù.
La scoperta della stele, che si dice proveniente dal Mar Morto, risale a circa un decennio fa: ne era entrato in possesso un antiquario giordano che l'ha poi rivenduta ad un collezionista svizzero- israeliano, David Jeselsohn, che l'ha tenuta in casa per anni senza sapere cosa avesse per le mani. Quando qualche anno fa Ada Yardeni, esperta di scrittura ebraica, l'ha esaminata, si è affrettata a pubblicare la notizia in uno studio scritto con il collega Binyamin Elitzur. A quell'articolo ne sono seguiti altri di vari studiosi del settore finché la notizia non è uscita dal cerchio ristretto degli addetti ai lavori per finire sul sito del New York Times, da dove sta creando scompiglio tra archeologici e biblisti.
La tavola, non incisa ma scritta a inchiostro (il testo è in due colonne, simili a quelle della Torah), è spezzata e in diversi punti il testo — una visione dell'Apocalisse basata sul Vecchio Testamento — è di difficile lettura. Il punto che scotta, alla riga 80, suona più o meno così: «In tre giorni tu vivrai, io, Gabriel, te lo ordino». Un imperativo che, secondo alcuni, sarebbe rivolto dall'arcangelo Gabriele ad un Messia venuto a riscattare col suo sangue la terra d'Israele dal dominio romano. Per Israel Knohl, professore di Studi biblici all'Università di Gerusalemme e autore di studi sul «Messia prima di Cristo», la stele del Mar Morto (ribattezzata la Rivelazione di Gabriele) è la prova che aspettava, la classica pistola fumante. Ma non tutti sono d'accordo e lo stato frammentario del testo non chiarisce i dubbi. Qualcosa in più si potrà dire dopo che saranno resi noti i risultati delle analisi chimiche fatte sulla tavola: Yuval Goren, l'archeologo dell'Università di Tel Aviv che le ha condotte, non anticipa dettagli ma assicura che non ci sono dubbi sull'autenticità della stele.

Repubblica 7.7.08
Diritti, solidarietà e uguaglianza così la sinistra entra nel futuro
di José Luis Zapatero


La solidarietà che caratterizza la società spagnola si fonda sul rispetto dei diritti. Proprio di questi ci siamo occupati nei giorni passati, quando abbiamo discusso la portata della libertà religiosa; del riconoscimento e della protezione dei milioni di spagnoli cattolici; della tutela degli spagnoli non cattolici; delle conseguenze inderogabili della norma costituzionale sul carattere laico dello Stato.
Fin dall´inizio, il socialismo in Spagna è stato un progetto di convivenza, un progetto per vivere insieme. È un progetto la cui vocazione è quella di includere, la cui volontà è di integrare. È nato per permettere alle classi lavoratrici di usufruire dei frutti dello sviluppo economico, della cultura, della conoscenza, è nato per riconoscere i loro diritti politici, per fornire loro protezione di fronte agli infortuni, per permettere loro di attingere la condizione di piena cittadinanza. È stato così, distribuendo a più persone, a tutte le persone possibili, la titolarità dei diritti, dell´istruzione e del benessere, che le nostre società sono diventate più sicure, più prospere, più degne e più libere.
Per questo, negli ultimi anni in Spagna ci siamo impegnati a prendere le misure necessarie per integrare coloro che ancora vivono senza speranza, abbandonati o senza assistenza. È per questo che ci siamo impegnati a favore dei disabili, riconoscendo loro i diritti che chiedevano da tempo: nel campo del lavoro, contro le barriere architettoniche, nelle nuove tecnologie, nei mezzi di trasporto, nell´esercizio del diritto al voto. Ed è sempre per questo che ci siamo impegnati per le persone in situazione di difficoltà. Affinché recuperino la loro dignità. Affinché non si sentano abbandonate. Affinché sia minore la loro solitudine.
Allo stesso modo, dobbiamo adoperarci per raggiungere la piena integrazione nella nostra società delle persone che vengono a lavorare e a vivere nel nostro Paese. Questa piena integrazione è una garanzia per la nostra prosperità, la nostra dignità e la nostra libertà.
Ho scelto come motto "La forza del cambiamento". Il Cambiamento è la trasformazione della società affinché i valori umani prevalgano sul denaro e sul potere. Noi socialisti, in Spagna, sappiamo da molto tempo, da più di un secolo, che la più grande forza che sostiene il cambiamento, la forza che conduce e trascina il mondo, la forza trasformatrice più potente è la forza delle idee.
Per questo motivo, è evidente che si deve essere capaci di fare due cose allo stesso tempo: trasformare il presente a cominciare dal governo e immaginare il futuro a partire dalle idee.
Per questo, infine, ho scelto un nome per battezzare un osservatorio creato per esplorare il futuro: un laboratorio il cui oggetto di ricerca sarà la società. Il nome dello spazio che accoglierà i dibattiti, il nome di questa piattaforma di pensiero d azione, di teoria e di pratica, sarà Fundación Ideas, la Fondazione delle Idee. Ideas, idee, è una parola bellissima ma è anche un acrostico formato dalle lettere iniziali di cinque concetti che sono la nostra ragione di essere e di esistere:
I, come Igualidad, uguaglianza. Perché i socialisti spagnoli sono una forza impegnata a far sì che nessuna persona sia l´ombra di un´altra persona; persone oneste che non transigono di fronte alla discriminazione; perché sanno che la Spagna e il mondo non possono fare a meno del talento, della sensibilità e della forza delle donne. E i socialisti sono il Partito dell´Uguaglianza.
D, come diritti. Perché i socialisti sono la forza centrale della democrazia spagnola, perché abbiamo partecipato a tutte le lotte nelle quali si è giocato il futuro della libertà. Perché pensiamo che una società è grande quando i suoi cittadini sono liberi; che un Paese è libero quando i suoi cittadini hanno pieni diritti. Siamo il partito di Diritti della Cittadinanza.
E, come ecologia. Perché comprendiamo che non vi è ricchezza maggiore dell´aria che respiriamo, dell´acqua che beviamo; perché sappiamo che non vi è progresso duraturo senza rispetto per l´ambiente; perché comprendiamo che l´essere umano non può continuare a degradare il mondo senza mettere a rischio la propria sopravvivenza. Siamo il partito dell´Ambiente, il partito dell´Ecologia.
A, come azione. Perché siamo una forza di cambiamento, di trasformazione, un partito che pensa e agisce. A cominciare dal governo e dalla strada; dai governi locali e dalle fabbriche, dal mondo produttivo privato e dalle Ong. Una forza che pensa e agisce. Che sogna il futuro e che governa il presente. Siamo un partito di Azione.
S, come solidarietà. Perché nei tempi di abbondanza estendiamo i diritti sociali e il benessere sociale. Perché nei tempi difficili proteggiamo i più deboli. Perché esistiamo affinché la ricchezza e il potere siano meglio distribuiti. Perciò siamo il partito della Solidarietà.
Questo sarà il nome e questi sono i princìpi che guideranno i socialisti spagnoli nell´individuare le strade che ci permetteranno di accedere al futuro: uguaglianza, diritti, ecologia, azione e solidarietà. Sarà uno strumento potente. Ci permetterà di pensare meglio, di rinnovare le nostre proposte, di dare più peso ai nostri messaggi. Sarà uno strumento utile per i cittadini. Permetterà loro di partecipare. Li metterà al corrente di tutti i progressi. Fornirà loro soluzioni e nuove speranze. Ho una grande fiducia nel lavoro che porterà avanti la Fundaciòn Ideas. Rappresentiamo la Spagna che ha fiducia in se stessa. La Spagna che sa di essere protagonista di un successo storico collettivo.
Questi sono alcuni brani del discorso pronunciato ieri dal premier spagnolo José Luis Rodrìguez Zapatero alla chiusura
del Congresso del Partito socialista spagnolo
Traduzione di Guiomar Parada

Repubblica 7.7.08
Tra sostenitori di Vendola e Ferrero accuse roventi. Escluse dalla conta, in quanto nuove iscritte, la moglie di Sansonetti e la compagna dell´ex ministro
Prc, nel congresso-rissa voto vietato alle donne dei big
di Luciano Nigro


ROMA - In una calda serata trasteverina il congresso-faida di Rifondazione finisce per travolgere anche le donne dei capi. Cacciata dalla votazione in sezione perché nuova iscritta Nanni Riccobono, moglie del direttore di Liberazione, Piero Sansonetti, già addetta stampa di Russo Spena. Ammessa alle urne, ma poi costretta a ritirare il voto, la scrittrice Angela Scarparo, compagna di Paolo Ferrero, il rivale di Nichi Vendola nella corsa alla segreteria. Succede anche questo nella grande rissa del Prc dove la rimonta del governatore della Puglia sta provocando una reazione violentissima dei sostenitori dell´ex ministro contro i nuovi tesserati che inquinerebbero il risultato della conta.
Da una settimana Ferrero denuncia «congressi gonfiati» e «tesseramento drogato». I suoi uomini, come ha rivelato "Repubblica" alcune settimane fa, «interrogano» gli ultimi arrivati, denunciano brogli e cancellano congressi. A Bologna 50 neotesserati al circolo migranti esclusi dall´assemblea perché iscritti da pochi mesi, nonostante lo statuto preveda la possibilità di aderire fino a dieci giorni dal voto. A Reggio Calabria, dove il governatore aveva vinto 345 a 39, la votazione è stata cassata dalla commissione elettorale controllata da Ferrero e alleati. «Un fatto senza precedenti», bollato come «una pazzia» in un titolo di prima pagina dal giornale del partito che ha provocato la rivolta dei big dei ferreriani contro Sansonetti. Oggi la commissione decide su Portici dove Vendola ha vinto 215 a 20, ma nel mirino ci sono anche Brescia, Arezzo, Castellammare di Stabia e Mesagne, dove il governatore ha rifilato cappotti ai concorrenti. Dai blog filo-Ferrero fioccano gli insulti: «democristiani», «corrotti», «camorristi», «non sopporto i calabresi». Vendola si infuria: «Prendono di mira il voto meridionale e dei migranti con considerazioni leghiste che lasciano sgomenti. Annullare i congressi è moralmente inaccettabile». Franco Giordano, l´ex segretario, gli dà manforte: «Chi allude a possibili collusioni con camorra e ‘ndrangheta rischia di distruggere gli anticorpi sani della società meridionale. Una vergogna coinvolgere Francesco Forgione, già presidente dell´Antimafia. Illegale annullare in modo autoritario un congresso per difendere una maggioranza abusiva». Ferrero si difende. «Le regole - dice - vanno rispettate, sempre. E la democrazia plebiscitaria e il berlusconismo non devono entrare dentro di noi». L´ex ministro nega che nel mirino siano i neo tesserati, anche se ritiene «politicamente discutibile l´arrivo massiccio di nuovi iscritti».
Ma a Trastevere davanti a una indignata Rina Gagliardi, già senatrice Prc («il colmo, una situazione allucinante: non hanno fatto votare iscritti regolari; con due eccezioni, la compagna di Ferrero il suo ex portavoce Guido Caldiron»), e a un allibito Salvatore Bonadonna, altro ex senatore che non volevano far votare «perché di un altro quartiere», 25 nuovi iscritti vengono respinti al momento di votare. «Ero imbarazzata per loro - racconta Riccobono - parevano leghisti che non vogliono il voto per i nuovi arrivati. Ti guardavano come dire "ma chi ti conosce?". Che sgradevole impressione».
«Pagine oscene per un partito libertario», per il segretario romano Massimiliano Smeriglio che presenterà ricorso. Nella capitale la mozione Vendola, che puntava alla maggioranza assoluta, si ferma al 49%. Anche Ferrero però si arrabbia. I sostenitori di Vendola, dice, «non conoscono limiti morali o di buon gusto. Capisco che attacchino me, ma tirare in ballo le persone più care è una volgarità a cui non voglio abituarmi. E la regolarità delle iscrizioni non la decido io».

Repubblica 7.7.08
Così l'autore di "Montalbano" rilegge i classici dell'isola
L'amore raccontato dai poeti della mia Sicilia
Canti d´amor gioioso. In libreria tre importanti meridiani
I poeti della scuola siciliana
di Andrea Camilleri


Un´opera che raccoglie voci diverse su un unico tema, le accensioni del cuore, declinate in tutte le variazioni
Un viaggio alle origini della cultura italiana da Giacomo da Lentini e la corte di Federico II alla lirica siculo-toscana
"Lo stesso imperatore amava declamare versi per la sua adorata prediletta"
"Se vi piacciono le storie sentimentali leggete a caso questi versi ed emozionatevi"

Ci siamo abituati negli ultimi anni in Italia a sprecare, a scialacquare parole. E più vengono usate a vuoto e più le parole perdono peso e colore, s´assottigliano, si usurano come un tessuto liso. Le recenti letture dantesche hanno avuto uno strepitoso successo in tv forse perché ci riconsegnano l´intatto valore della parola. Ora si presenta una splendida occasione per riassaporare altre e più antiche parole, quelle che sono a un tempo l´origine stessa della nostra lingua e civiltà letteraria.
Sono arrivati in questi giorni in libreria tre Meridiani mondadoriani, di complessive pagine 3044, dedicati a I Poeti della scuola siciliana (euro 55 a volume). Essi rappresentano il frutto della felice unione di un ventennio d´impegno del Centro di studi filologici e linguistici siciliani (attualmente rappresentato da Buttitta, Ruffino, Varvaro) con l´intelligente entusiasmo di Renata Colorni che i Meridiani dirige.
Il primo volume, curato da Roberto Antonelli, è interamente dedicato a Giacomo da Lentini; il secondo, dovuto alle cure di Costanzo Di Girolamo, comprende i poeti della corte di Federico II; il terzo, coordinato da Rosario Coluccia, assemblea i poeti siculo-toscani. Ogni curatore, a sua volta, è assistito da una nutrita schiera di ricercatori che si occupano di un singolo poeta o di gruppi di poesie.
Sono convinto che quest´opera, che non esito a definire grandiosa (e anche gioiosa, dirò poi perché) rappresenterà un punto fermo, e non facilmente superabile, per tutti gli studiosi delle origini della poesia e della cultura italiana.
In questa prospettiva, il primo volume non poteva che essere dedicato a Giacomo da Lentini, il protopoeta, che Antonelli nella sua prefazione definisce tout court il "fondatore" della lirica italiana, acutamente analizzandone le influenze trobadoriche e le sedimentazioni della cultura latina. Tra l´altro a Giacomo da Lentini si deve la strepitosa invenzione di quella forma metrica perfetta che è il sonetto. Ma Antonelli riconosce che il merito dello «stimolo decisivo alla nascita e allo sviluppo» della poesia siciliana va a Federico II, e alla sua politica culturale. La quale spazia dall´urbanistica all´architettura, dai vasti compiti assegnati alla Magna Curia Imperialis ai rapporti tutt´altro che limitativi con musulmani ed ebrei. E non si può omettere la fondazione nel 1224 dello Studium napoletano, la prima università d´Europa, per la preparazione di quella che oggi chiameremmo una nuova classe dirigente.
«Il re e imperatore - scrive ancora Antonelli - è in senso lato, per molteplici evidenze, il grande "committente" della lirica siciliana, i cui poeti sono tutti nobili o funzionari legati alla Magna Curia». E nel secondo volume infatti, accanto a nomi notissimi perché si trovano in tutte le antologie scolastiche, come lo stesso Federico che non si limitava alla committenza ma scendeva in campo nella tenzone poetica come uno qualsiasi degli altri poeti, o Guido e Odo delle Colonne, o Cielo d´Alcamo o Giacomino Pugliese, troveranno posto anche Tommaso Di Sasso o Filippo da Messina e tanti altri meno noti (e ci sono anche moltissime liriche senza nome dell´autore) che servono a completare, arricchendolo, il quadro d´insieme. A proposito di Federico, colgo l´occasione per ricordare che l´anno scorso è stato pubblicato il suo enciclopedico De arte venandi cum avibus a cura di A. L. Trombetti Budriesi e con una introduzione di Ortensio Zecchino che traccia un esauriente quadro culturale della corte federiciana.
Nel terzo volume trovano posto i poeti siculo-toscani, quelli cioè che ripropongono sostanzialmente, in Toscana, il modulo poetico siciliano e non sono da confondersi coi poeti toscano-siculi (come Guittone d´Arezzo) che ricercano e sperimentano modi nuovi e diversi da quelli della scuola siciliana. Una curiosità: in questo terzo volume è presente nientedimeno che Brunetto Latini con una canzone, l´unica pervenutaci, il cui primo verso suona così: «S´eo son distretto inamoratamente». Ebbene, secondo alcuni studiosi, Avalle in testa, è a causa di questa canzone che Dante ha sistemato per l´eternità Brunetto nel settimo cerchio dell´Inferno. E non gli si può dare tanto torto. Infatti, se andate a leggere la canzone, Brunetto canta esplicitamente i suoi tormenti amoroso per un ello e non per un´ella. Ancora troppo lontano il tempo nel quale avremmo letto senza scandalo e con tanta partecipazione i tenerissimi egli di Sandro Penna.
E a proposito di Dante, cade qui a taglio l´omaggio che egli volle rendere ai poeti siciliani nel De vulgari eloquentia: «Imperocchè pare che il volgare siciliano abbia fama sopra gli altri, perché qualunque cosa compongano in verso gl´Italiani si chiama siciliano...», concludendolo con la citazione di un verso dal contrasto di Cielo d´Alcamo.
Una piccola parentesi. È curioso notare come nelle radici culturali dei poeti siciliani non rimanga traccia alcuna della grande fioritura della poesia araba di Sicilia, che pure, meno di ducento anni avanti di Giacomo da Lentini, aveva raggiunto livelli altissimi con Ibn Hamdis («A torto castigasti la tenerezza del cuor mio/ con la durezza del cuor tuo...») e molti altri. Forse perché la scuola siciliana ha quasi esclusivamente come oggetto l´amore, mentre nei poeti arabi le tematiche sono assai diverse? Chiusa la parentesi.
Va soprattutto detto che la straordinaria importanza dei tre volumi mondadoriani non è solo nella grande quantità di testi finalmente raccolti e sistemati, ben 337. Ai poeti siciliani avevano in precedenza dedicato un´antologia Gianfranco Contini nel 1960 e due volumi Bruno Panvini nel triennio ‘62-´64. La prima era dotata di scarni commenti però priva di apparati critici, i due volumi antologici invece erano mancanti di commento. Questa edizione dei Meridiani è, al contrario delle antologie precedenti, una sorta di esaustiva trattazione globale che va dai temi generali ai dettagli filologici. Cito quanto scrivono i tre curatori al termine della loro introduzione: «Ogni autore ha una sua specifica nota biografica; ciascun componimento è preceduto da un´articolata introduzione. L´apparato critico, collocato al piede della pagina, è di tipo negativo, raccoglie cioè le lezioni che, a parte adeguamenti grafici spiegati nella Nota al testo dei singoli volumi, divergono dalla lezione assunta a testo. Segue il commento ad versum. Ogni volume è infine corredato da articolati Indici dei luoghi citati nel commento».
Fino a questo momento ho privilegiato i tre volumi agli occhi di coloro per i quali, professori, studenti, cultori, la scuola poetica siciliana è oggetto di studio o semplicemente d´interesse. Era doveroso per il grande impegno, l´assoluta serietà, l´acuta intelligenza, lo scrupolo estremo dei curatori e dei loro collaboratori.
Ma io personalmente non sono uno studioso della materia, ne sono particolarmente attirato, questo sì, per una specie di orgoglio di campanile, lo confesso, e quindi vorrei ora dedicare qualche rigo alla spiegazione di un aggettivo, gioiosa, che ho usato iniziando a parlare di quest´opera.
Perché gioiosa? Perché i poeti della scuola siciliana non facevano altro che parlare dell´amore, ragionare sull´amore, cantare l´amore. E l´amore, quando porta con sé sofferenza e pena, resta comunque un sentimento vitale e rivitalizzante.
Una leggenda dice che Federico amava riunire i poeti della sua corte a Enna, l´ombelico della Sicilia, dove aveva fatto costruire, oltre a un castello, anche una torre ottagonale nella quale gli scanni in pietra erano tutti uguali. Egli sedeva lì, accanto agli altri, non era nemmeno primus inter pares, si era spogliato di ogni emblema imperiale, e leggeva ai compagni le sue poesie per la donna amata (forse nessuna delle tre che sposò), attendendone con una certa trepidazione il giudizio.
In questi tre volumi tantissime voci diverse si cimentano dunque sopra un unico tema, tentandone tutte le variazioni possibili. Non si ha che l´imbarazzo della scelta.
«Meravigliosamente /un amor mi distringe», attacca Giacomo da Lentini. «Gioiosamente canto /e vivo in allegranza, /ca per la vostr´amanza /madonna, gran gioia sento», gli fa seguito Guido delle Colonne.
«Rosa fresca aulentissima», così Cielo d´Alcamo definisce l´amata. «Allegramente canto», dichiara Iacopo Mostacci. «Ben mi deggio alegrare», concorda Ruggerone da Palermo.
E Rinaldo d´Aquino: «Per in amore vao sì allegramente...».
E Stefano Protonotaro: «Pir meu cori allegrari...».
Mi fermo qui. Concludendo con un suggerimento ai lettori che ai severi cultori della sacralità della poesia potrà apparire addirittura blasfemo. Ma ricordo che un poeta come Paul Eluard usava dire che la poesia non solo non è sacra, ma deve servire agli uomini per uso quotidiano. Il suggerimento nasce da una domanda: vi piacciono le storie d´amore? Se la risposta è sì, allora portatevi i tre Meridiani sotto l´ombrellone, non temete, nemmeno l´Imperatore di sentirà offeso, anzi, lasciate che il vento ne sfogli le pagine, leggete una poesia a caso. E comunicate la vostra inevitabile emozione a chi sta accanto a voi. La poesia è fatta per questo, per essere condivisa.

Repubblica 7.7.08
Due esposizioni a Firenze sul rapporto tra il Rinascimento e gli antichi Paesi Bassi
Affascinati dal virtuosismo mimetico
Il ruolo dei banchieri tra i due mondi
Un grande debito da Botticelli al Ghirlandaio


FIRENZE. A partire dai primi decenni del Quattrocento, la civiltà figurativa europea vide manifestarsi le maggiori spinte innovative attorno a due grandi poli artistici: la Scuola fiorentina, che si sviluppò sulla base della rivoluzione prospettica brunelleschiana e della tensione a far rivivere i modelli dell´arte classica, e la Scuola fiamminga, che ebbe come principale centro di irradiazione le Fiandre e tutta quell´area comprendente l´Artois, la Zelanda, la Gheldria, l´Hainaut e il Brabante, che tra fine Trecento e Quattrocento gravitò nell´orbita del Ducato di Borgogna. Sulla scia delle opere realizzate da artisti sommi come Robert Campin, Jan Van Eyck, Rogier van der Weyden, Hans Memling e Hugo van der Goes, la scuola fiamminga estese le sue propaggini un po´ dappertutto in Europa, dalla penisola iberica al Regno di Napoli, mentre a sua volta quella fiorentina esercitava una crescente egemonia nel resto d´Italia.
Benché entrambe tese a rappresentare la realtà, liquidando ogni residuo irrealismo di ascendenza medievale, ben presto queste due civiltà furono percepite come profondamente diverse se non antitetiche, essendo l´una, quella toscana, volta a privilegiare la sintesi e a determinare la rappresentazione illusiva dello spazio basandosi su rigorose premesse matematico-geometriche, mentre l´altra preferiva procedere per via empirica e pazientemente analitica. Ma a dispetto di tale profonda diversità, che Cesare Brandi condensò nella contrapposizione «Spazio italiano e ambiente fiammingo», con cui intitolò un suo fortunato saggio del 1960, questi due mondi figurativi furono tutt´altro che impermeabili tra loro, anzi provarono una forte e reciproca attrazione che ne attenuò la polarizzazione dialettica, pur senza mai cancellarla del tutto se non in rare eccezioni (ad es., Antonello da Messina, capace di realizzare una sorta di "bilinguismo" perfetto).
Nel corso del Quattrocento e del primissimo Cinquecento, tuttavia, questa forte attrazione si manifestò soprattutto sotto forma di un grande interesse da parte degli artisti (e dei committenti) italiani nei confronti del mondo figurativo fiammingo, mentre nel Cinquecento il flusso direzionale si invertì, dando vita al diffuso fenomeno del "Romanismo fiammingo".
Dalla corte pontificia a quella ferrarese, dalla Urbino dei Montefeltro alla Milano degli Sforza e dei Visconti o alla Napoli degli Aragonesi, tutte le grandi entità politiche in cui era frazionata l´Italia quattrocentesca fecero a gara nell´assicurarsi qualche esemplare di arte fiamminga, sotto forma di dipinto religioso, di ritratto o di libro d´ore miniato, oppure di arazzo o di più economico "panno dipinto alla flandresca". Oltre che dal fasto normativo promanato dall´elegante splendore profano della corte borgognona, il fascino esercitato da quell´arte esotica era principalmente determinato dall´incredibile virtuosismo mimetico conseguito dai pittori fiamminghi in virtù della tecnica ad olio da essi portata al massimo della perfezione. Grazie alle sue proprietà di trasparenza e di lenta asciugatura, la pittura ad olio consentiva infatti di amalgamare meglio i colori, stendendoli per successive velature, fino a ricavarne gradazioni tonali estremamente sfumate e una saturazione di gran lunga più ricca e splendente di quanto non si potesse ottenere con la tradizionale tecnica a tempera. L´impietoso realismo nei ritratti, la varietà e animazione degli scorci paesistici, ma soprattutto la sbalorditiva nitidezza ottica nel definire ogni minimo dettaglio, imitando la differente consistenza di ogni materiale e la diversa risposta di ciascuno di essi ai raggi della luce (l´opacità dei velluti, lo sfavillio delle sete, la trasparenza e i riflessi dei vetri, lo scintillio dei metalli): queste erano, in estrema sintesi, le peculiarità della Scuola fiamminga, che ne determinavano l´immenso successo anche in terra italiana.
L´affascinante mostra che si può visitare in questi giorni nella Sala Bianca di Palazzo Pitti (Firenze e gli antichi Paesi Bassi. 1430-1530. Dialoghi tra artisti: da Jan van Eyck a Ghirlandaio, da Memling a Raffaello, a cura di B. W. Meijer e S. Padovani, aperta fino al 26 ottobre), cui fa eco agli Uffizi una parallela esposizione di disegni (Fiamminghi e Olandesi a Firenze. Disegni dalle collezioni degli Uffizi, fino al 2 settembre) festeggia il cinquantenario dell´Istituto Olandese di Storia dell´arte di Firenze diretto da Bert W. Meijer, proponendosi di testimoniare, con una sfolgorante e quanto mai eloquente selezione di opere, il grande debito che anche il Rinascimento fiorentino, a dispetto della sua profonda alterità, contrasse fin dalle origini con la Scuola fiamminga.
Non fu del resto casuale che i due centri propulsori del rinnovamento artistico quattrocentesco nascessero nelle due regioni europee economicamente più dinamiche e che erano legate tra loro da stretti rapporti commerciali. Il settore principale di tali relazioni era quello dei tessuti: nelle maggiori città delle Fiandre confluiva l´abbondante materia prima prodotta in Inghilterra, per poi essere esportata, grezza o sotto forma di panni semilavorati, in Toscana, dove veniva a sua volta convertita in tessuti, molti dei quali di tale pregio da essere contesi a peso d´oro. Per sostenere questa attività i banchieri fiorentini (ma anche lucchesi e liguri) avevano aperto filiali a Londra e nelle Fiandre, e furono proprio questi operatori economici, molti dei quali pur non tagliando definitivamente i ponti con la madrepatria erano legati a doppio filo alla corte borgognona, a far affluire opere fiamminghe in Toscana, commissionando ritratti, dipinti sacri e opere profane per sé e per i propri referenti economici. Il Banco dei Medici a Bruges fu uno dei principali anelli di congiunzione tra Fiandre e Firenze, grazie anche ad una forte rivalità tra Angelo Tani e Tommaso Portinari, che si succedettero nella direzione del banco mediceo e fecero a gara nel commissionare opere d´arte di eccezionale pregio ai maggiori maestri fiamminghi. Purtroppo il trittico con il Giudizio Universale che Tani aveva commissionato a Memling finì in mano ai pirati e non arrivò mai a destinazione nella Badia fiesolana (è ora a Dansk, in Polonia), ma Tommaso Portinari fece della chiesa fiorentina di S. Egidio nell´Ospedale di S. Maria Nuova, di cui era protettore, una sorta di mostra permanente di capolavori fiamminghi, tra i quali il celebre Trittico Portinari di van der Goes, oggi agli Uffizi.
Bert Meijer e Serena Padovani hanno scelto le opere da esporre, seguendo come criterio fondamentale quello di riportare a Firenze alcuni dei capolavori di Van Eyck, van der Weyden e Memling appartenuti alle famiglie fiorentine, per poterli mettere a confronto con esempi di pittura e miniatura locale, che ne hanno con tutta evidenza tratto autonoma ispirazione. Nasce così, sotto gli occhi del visitatore ammirato, un muto ma serrato dialogo tra "spazio" italiano e "ambiente" fiammingo; un dialogo in cui artisti come l´Angelico, Filippo Lippi, Botticelli, Ghirlandaio, Verrocchio, Perugino, Piero di Cosimo, Andrea del Sarto, Fra Bartolomeo e Raffaello denunciano, spesso senza il minimo imbarazzo, il debito da essi contratto con il mondo figurativo fiammingo. Un debito in termini di splendore cromatico, sottigliezza luministica, nitida evidenza ottica e gusto della veduta paesaggistica e del dettaglio naturalistico, che finì presto per essere pienamente integrato alla parlata figurativa italiana, conquistandole una duratura egemonia in Europa, per il Cinquecento e oltre.

Repubblica Roma 7.7.08
Rom schedati, il giorno del "no"
di Anna Maria Liguori


Tutti in piazza contro la schedatura dei rom. Tante le manifestazioni di oggi contro il particolare censimento che il sindaco Gianni Alemanno ha fissato per il 10 luglio (ma secondo la prefettura potrebbe slittare di qualche giorno per questioni organizzative). A cominciare dall´Arci che ha organizzato un grande raduno all´Esquilino con i radicali e i rappresentanti delle Croce Rossa Italiana.
E poi c´è l´appuntamento in via Luigi Candoni alla 11, al campo nomadi, dove ci sarà una riunione straordinaria con i rappresentanti istituzionali di Regione, Provincia, Comune e Municipi di Roma, uniti «contro il razzismo». I radicali invitano parlamentari e dirigenti del Pd a partecipare alla manifestazione "Prendetevi le nostre impronte. Non toccate i bambini e le bambine rom e sinti", organizzata dall´Arci in programma oggi dalle 17 alle 20, in piazza Esquilino. Tra chi donerà le impronte digitali al ministro Roberto Maroni ci saranno i Moni Ovadia, Andrea Camilleri, Dacia Maraini il sopravvissuto alla Shoah Piero Terracina. «Vogliamo offrire la nostra vicinanza simbolica e fattuale a chi vive una condizione di insicurezza a causa del nuovo razzismo di massa» sottolinea l´assessore regionale al Bilancio Luigi Nieri - E lo facciamo nel giorno in cui a Campidoglio – culla del nuovo securitarismo nazionale – si tiene un consiglio comunale straordinario sulla sicurezza. Sono confortanti le tante adesioni di assessori, consiglieri e presidenti di municipio del Prc, del Pd, di Sd, dei Verdi, del Pdci».

il Riformista 7.7.08
Centoautori. Decisiva ancora una volta la mediazione di Letta
Bondi trova i soldi, il cinema non fa più girotondi
di Michele Anselmi


Resuscita il tax-credit eliminato da Tremonti senza tanti complimenti. Alla fine, come anticipato dal Riformista , s'è trovata la copertura di 160 milioni di euro, 80 per il 2009 e 80 per il 2010. Sicché il cinema non farà barricate e girotondi, i film italiani andranno tranquillamente a Venezia, Roma e Torino, i produttori avranno quanto promesso, sia pure con qualche mese di ritardo (intanto hanno già cominciato a fare i conti sui vantaggi). Del resto, il boicottaggio dei festival difficilmente avrebbe funzionato, se perfino alcuni dei "Centoautori", come Daniele Vicàri e Giuseppe Piccioni, negli ultimi giorni s'erano dichiarati perplessi, sollecitando proteste meno "autolesioniste", cioè più "fantasiose" e "alternative". Lo stesso Nanni Moretti, inaugurando giovedì all'arena Sacher la consueta rassegna estiva, sembrava sdrammatizzare: «Davanti a problemi importanti ci vogliono gesti simbolicamente importanti. Ma sono sicuro che non ce ne sarà bisogno. Si renderanno conto dello sbaglio, dovuto soprattutto a sciatteria».
Che tale sia stata o no, Bondi può tirare un sospiro di sollievo. Soavemente oggi, lunedì, comunicherà lo "scampato pericolo", spiegando che le agevolazioni fiscali promesse con squilli di trombe rientrano in gioco attraverso un emendamento presentato venerdì. Vero è che difficilmente l'avrebbe spuntata, non venendo quei 160 milioni dal ministero ai Beni culturali, se Gianni Letta, assicura una fonte ben informata, «non avesse puntato i piedi e alzato la voce». In effetti, uno smacco su quel versante sarebbe stato disastroso, in termine di immagine, per il governo. Ma come: per anni s'è gridato al cinema assistito e poi si cassa proprio la più liberista delle misure, peraltro rivendicata sia da destra sia da sinistra? Tra l'altro, alla vigilia del suo primo viaggio a Cannes in qualità di ministro, proprio Bondi aveva assicurato che, «proseguendo sulla linea tracciata dai precedenti ministri Urbani, Buttiglione e Rutelli», tax-credit e tax-shelter erano praticamente cosa fatta, mancava solo l'approvazione dell'Unione europea, necessaria «per emanare i relativi decreti di attuazione».
Come sappiamo, non è andata così. A fine maggio il primo stop di Tremonti all'interno cosiddetto decreto taglia Ici, qualche settimana dopo il secondo, attraverso il maxiemendamento passato alla Camera, mal digerito da alcuni parlamentari della maggioranza, tra i quali Gabriella Carlucci e Luca Barbareschi. A quel punto, di fronte all'insorgere dell'industria cinematografica tutta, con dichiarazioni di fuoco e minacce varie (Paolo Virzì, a nome degli autori, arrivò addirittura a chiedere le dimissioni di Bondi), i due capi di gabinetto dei ministeri coinvolti, cioè Salvo Nastasi per i Beni culturali e Vincenzo Fortunato per l'Economia, hanno avviato un complesso lavorio sottotraccia per recuperare nelle pieghe del bilancio i 160 milioni necessari a rilanciare tax-credit e tax-shelter. Più il primo del secondo, in verità, giacché il credito di imposta fa gola a tutti, mentre le imprese con utili da reinvestire si contano sul palmo di una mano: diciamo Raicinema, Filmauro e Medusa. Proprio martedì scorso, presentando il corposo listino 2008-2009, l'amministratore delegato di Medusa, Giampaolo Letta, figlio di Gianni, aveva annunciato che la società continuerà ad investire sul prodotto italiano circa 60 milioni di euro all'anno, più 15-20 legati alla promozione, rivolgendo un pensiero particolare al tax-credit. Questo: «Da alcune simulazioni abbiamo visto che gli incentivi fiscali, se attivati, ci permetterebbero di produrre due film italiani in più all'anno».

domenica 6 luglio 2008

l'Unità Roma 6.7.08
Una valanga di impronte vi sommergerà
Domani a piazza Vittorio la raccolta dei «segni identificativi dattiloscopici»
L’iniziativa dell’Arci e della Associazione deportati ha raccolto migliaia di adesioni
di Luciana Cimino


Camilleri e Celestini, Dacia Maraini e Moni Ovadia, il partito radicale, il partito democratico, la Sinistra Arcobaleno, i sindacati, le associazioni delle popolazioni rom e sinti

Una valanga d’impronte li sommergerà. Non quelle dei bambini rom e sinti che vogliono schedare, ma quelle di tutti i cittadini di Roma indignati per il piano sicurezza del governo e in particolare per questo provvedimento su cui anche il Commissariato Europeo ai diritti umani e quello agli affari sociali avevano espresso forti perplessità. L’idea è di Arci e Aned (Associazione nazionale ex deportati) che chiamano all’appello la società civile organizzando una "schedatura" pubblica e volontaria di tutte le persone che condividono la protesta. Alla manifestazione sarà presente, con una delegazione, il presidente della Federazione Nazionale Rom e Sinti Insieme, Nazareno Guarnieri, e l’artista rom Antun Blasevich terrà una performance. Le impronte digitali raccolte saranno inviate al ministro dell’Interno Roberto Maroni, autore e fervente sostenitore della norma, su una cartolina con il messaggio: «Non toccate i bambini rom e sinti. Prendetevi le nostre impronte». «Chiediamo a tutte le forze politiche di opposizione, a quelle democratiche, alle associazioni, ai media, ai singoli di aiutarci a fermare questo scempio della vita civile e democratica del nostro paese, in cui il razzismo è ormai pratica di governo», ha detto il responsabile di Arci Immigrazione, Filippo Miraglia. E le risposte non si sono fatte attendere. Domani a piazza Vittorio (dalle ore 17.30 alle 20), luogo simbolo della multiculturalità capitolina, a farsi schedare ci saranno anche Moni Ovadia, Andrea Camilleri, Dacia Maraini, Ascanio Celestini. E poi hanno aderito Magistratura Democratica, Ebrei per la pace, Antigone, Legambiente, politici dei verdi, del Partito Radicale, di Sinistra Arcobaleno, come Fabio Mussi e del Pd, come Livia Turco e Pina Picierno. «La proposta di Maroni - ha detto il ministro alle politiche giovanili del governo ombra - riporta il nostro Paese indietro negli anni, a quando vennero introdotte le barbare leggi razziali». Cecilia Taranto, segretaria della Cgil di Roma e Lazio, promette un’adesione massiccia di dirigenti e iscritti al sindacato e annuncia la partenza «di una campagna nei luoghi di lavoro e nei territori della regione».
«Il sindacato andrà nei luoghi di lavoro per spiegare che l'obbligo delle impronte digitali per nomadi e immigrati contenuto nel decreto Maroni è, di fatto, una schedatura etnica». «C'è bisogno di una vera politica d'integrazione – ha detto Taranto - fondata sui diritti e sui bisogni che le popolazioni migranti esprimono. Per questo Cgil Cisl Uil hanno chiesto alla Regione Lazio di convocare un consiglio straordinario e di dare avvio a un piano per le popolazioni nomadi del Lazio». Adesione convinta anche da parte del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, che parla di «schedatura discriminatoria, immorale e illegittima». Il provvedimento è inviso anche a parte importante dell'associazionismo cattolico: già la Comunità di Sant'Egidio si era espressa negativamente mentre Mons. Vittorio Nozza aveva annunciato, pochi giorni fa, che, da parte della Caritas, «non ci sarà alcuna collaborazione con le istituzioni in tal senso». «Associazioni laiche e cattoliche, italiane e internazionali, intellettuali, artisti, giornalisti, politici – è l'appello degli organizzatori - hanno denunciato il razzismo di questa misura giudicata un grave vulnus della democrazia e della Convenzione per la tutela dei diritti del fanciullo».

l'Unità 6.7.08
Un Panorama agghiacciante
di Dijana Pavlovic


«Ho rubato un orologio / e l’ho messo sotto le costole / per far sì che il mio petto non sia vuoto / per far sì che dentro non ci passi il vento. / Lo puoi sentire proprio bene come batte sotto la camicia / se pensi che sia il cuore ti sbagli. / Io il cuore ce l’ho in gola da quando sono nata».
È una poesia di un poeta serbo, Miroslav Antic. Avere il cuore in gola è lo stato d’animo di tutti i bambini Rom che vivono in Italia e che non rubano. Ma ci sono altri bambini che stanno male in questo Paese. Due esempi.
Palermo: mi racconta un’amica che lavora in una Fondazione antimafia che per una recita in una scuola di Palermo hanno proposto un tema sulla mafia, ma è stato rifiutato, allora hanno fatto un sondaggio tra i ragazzi su che cosa volevano rappresentare. Risultato: tutti i ragazzi, nessun escluso, volevano mettere in scena una rapina in banca e uccidere i poliziotti.
Napoli: le maestre delle scuole di Ponticelli hanno proposto ai bambini un tema su quello che è accaduto nei campi Rom. Risultato: nei temi e nei disegni si inneggia al rogo dei campi a cui molti di loro addirittura hanno partecipato.
Di chi sono figli questi bambini? Non solo dei loro genitori naturali, ma anche di Maroni e della “cultura” delle sue camice verdi che percorrono questo Paese in ronde minacciose. E sono anche figli di chi, sull’ultimo numero di Panorama, criminalizza un intero popolo con la foto di un bambino rom e il titolo: «Nati per rubare». Ricorda il passato e riviste come «La difesa della razza».
La politica di Maroni, condannata dalla comunità internazionale, dalla chiesa e dall’associazionismo, ha bisogno dell’appoggio della comunicazione. E allora ecco che scoppia il caso dei bambini “nati per rubare”, proprio nel momento giusto.
Tante volte negli ultimi anni mi sono sentita impotente quando ho incontrato situazioni di abuso nei confronti dei minori rom e le ho denunciate alla polizia e agli assistenti sociali. Ho combattuto per un anno perché un bambino venisse tolto ai genitori e messo in un ambiente protetto perchè subiva violenze in famiglia. Mi è stato sempre risposto che i bambini rom non vengono presi nelle comunità perché tanto scappano sempre, per loro non c’è niente da fare.
E poi ci sono esempi eclatanti che sono sfuggiti a Panorama: per esempio a Rho dei bambini rom hanno telefonato al Telefono Azzurro perché i loro genitori li volevano costringere a elemosinare. Qualcuno si è occupato di questo caso e ha cercato di capire le ragioni di questo gesto? Nessuno, perché pubblicizzare un esempio di consapevolezza frutto di una situazione positiva di un campo regolare, nel quale i bambini vanno a scuola, contrasta con il pregiudizio razzista e con la necessità di sostenere una politica che crea un’emergenza inesistente per nascondere i problemi ben più seri e profondi di un paese in crisi.
Io vengo da un Paese devastato da guerre civili, bombardamenti, dittature e libertà negate - di infamie ne ho viste tante! Ma speculare in questo modo sui bambini è qualcosa di più di un’infamia, è un crimine morale.
Nessun bambino è nato per essere ladro, mafioso o assassino. Bisognerebbe proteggerli tutti, dai loro genitori e da questa politica barbara che non si fa scrupoli di usarli per interessi di bottega e fare in modo che nessuno di loro abbia il cuore in gola: né quelli di Palermo, né quelli di Napoli, né quelli Rom, né nessun altro.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l'Unità 6.7.08
Le impronte di Berlusconi
di Furio Colombo


C’è una frase che viene ripetuta all’infinito fin dal tempo (che ormai abbiamo dimenticato) in cui Silvio Berlusconi ha incominciato a invelenire l’Italia, creando sempre nuovi nemici e invitando sempre più cittadini a combattersi o a cedere, ciascuno nel suo campo e secondo il suo mestiere. I giornalisti o lo servono o gli gettano fango. I magistrati o si piegano o sono eversivi. I politici o accettano di chiamare «dialogo» il suo monologo, o vengono denunciati come sinistra «distruttiva» e «radicale» (con buona pace del partito di Marco Pannella il cui nome viene continuamente usato e abusato).
Ma ecco la frase che viene ripetuta all’infinito: «Non basta essere contro Berlusconi. Bisogna dire per cosa si è e quale progetto di società si indica». Consciamente o no, buona fede o no, la frase finisce per suonare come un invito a posticipare: prima il grande e compiuto disegno della società che vogliamo e poi l’impegno contro Berlusconi. Questa volta colgo la frase da una pubblicazione (la rivista Left) da un articolo (l’attività tuttora in corso dei «mille di Chianciano», riuniti intorno all’invito di Pannella di discutere di una nuova politica) e da una protagonista, Elettra Deiana, già deputata della Sinistra Arcobaleno, che non si prestano all’introduzione negativa che io ne ho fatto. Vedo per forza vera ansia, vera fatica, vera ricerca sul come venirne fuori. Sia nel come partecipare non inutilmente alla vita pubblica di ogni giorno; sia come disegno di quel grande e famoso progetto a cui - ci dicono - è doveroso lavorare. Ma ci sono situazioni e momenti in cui non puoi dedicarti per prima cosa al grande progetto. Per prima cosa i cittadini ti chiedono: e adesso? E oggi? E stamattina?
Mi rendo conto che questa domanda segna una linea di demarcazione fra chi, facendo politica negli anni e nei decenni, ha maturato la persuasione che i tempi lunghi ci sono comunque e che le grandi costruzioni (e le grandi speranze) richiedono tempi lunghi; e chi, entrato passionalmente in politica in un momento di emergenza (o che viene vista e vissuta come emergenza) crede alla risposta impetuosa e immediata.
Pesano su questa demarcazione anche la persuasione, a volte spazientita, del vecchio militante (sapessi quante emergenze abbiamo vissuto!) e l’irritazione dei giovani strateghi che hanno un altro senso del tempo e vogliono essere lasciati lavorare nelle diverse e «articolate» strategie. E percepiscono la tendenza a drammatizzare come il gesto di urtare il gomito di uno che, sapendolo fare, sta disegnando. Qualche lettore potrebbe chiedermi: se vedi con chiarezza le obiezioni che ti riguardano perché continui a urtare il gomito del disegnatore paziente? Non sarà un fatto umorale, che in politica conta poco?
* * *
Umorale la mia reazione al pesante e devastante ritorno di Berlusconi un po’ lo è. È addirittura una questione di età. Avevo la stessa età dei bambini Rom che questo governo italiano vuole obbligare a premere il dito sul tampone d’inchiostro per prelevare le loro impronte digitali, mentre gli altri bambini non Rom stanno a guardare.
Avevo la stessa età dei piccoli e umiliati Rom di oggi quando gli «ispettori della razza», scuola per scuola, classe per classe, hanno cominciato a fare l’appello dei piccoli ebrei per espellerli.
Ho raccontato molte volte il senso di scandalo che ho provato (i bambini possono e sanno indignarsi) di fronte al silenzio degli insegnanti. Nella mia scuola la buona maestra che ci raccontava ogni giorno una puntata di Pinocchio se stavamo bravi, il buon maestro, mutilato di guerra, che narrava episodi di eroismo da lasciarci tesi e ammirati, lo scattante giovanotto della ginnastica e il direttore didattico da cui ti mandavano a discutere (lui discuteva benevolmente con i bambini) di presunte o vere mancanze, tutti sono rimasti impassibili e in silenzio mentre continuava il tremendo appello. E persino se non sapevamo che quello era già l’appello di Auschwitz, il silenzio è stato la prima agghiacciante esperienza di molte piccole vite.
Ora vi pare che prima di impegnarmi con tutta la forza, l’offesa, l’indignazione, l’opposizione di cui sono capace contro le impronte a cui vengono obbligati i bambini Rom (metà dei quali sono italiani), vi pare che possa ammonire me stesso ripetendo la frase: «non basta essere contro Berlusconi, bisogna prima dire per cosa si è e quale progetto di società si indica»?
La mia, intanto, è una società che non perseguita nessuno e tanto meno i bambini e tanto meno i bambini Rom che sono parte di uno dei due popoli per i quali nazisti e fascisti e «difensori della razza» avevano previsto lo sterminio.
Può darsi che non abbia ancora chiare tutte le regole socio-economiche della società umana ed equilibrata che dovrà venire. Come mi insegnano Zapatero e Sarkozy, Angela Merkel e Barack Obama, forse i punti di riferimento di una più vasta azione politica potranno essere un poco più a destra o alquanto più a sinistra. Più fondati sull’impegno individuale oppure sul solidarismo che protegge i più deboli. Ma, per prima cosa, dobbiamo restare dentro il percorso della civiltà. Il decreto Maroni che impone le impronte ai bambini e obbliga ciascun Rom a dichiarare la propria religione (moduli del genere, sull’intimo e delicato territorio della religione non sono mai apparsi nella pur spaventata America dopo l’11 settembre, così come neppure una sola Moschea, in quel Paese, è divenuta territorio di incursioni delle varie polizie anti-terrorismo) il decreto Maroni colpisce la civiltà nei suoi punti vitali e tende a far uscire il Paese Italia da decenti regole civili. Io che ho visto cominciare questo percorso fondato sulla selezione di un nemico da isolare e separare cominciando dai bambini, non ho nessuna intenzione di ritornare sul problema solo dopo avere disegnato un progetto di società. L’offesa avviene adesso e adesso va fermata.
* * *
Accadono in questa Italia che ho appena finito di descrivere con ansia e costernazione, alcuni fatti che voglio elencare qui di seguito perché hanno importanza per tutti.
1. Per la prima volta nella storia italiana un alto funzionario dello Stato incaricato di eseguire, dice no alle impronte digitali dei bambini. È il Prefetto di Roma, Carlo Mosca. Non è la cosa più facile del mondo per un prefetto dire no al ministro dell’Interno. Maroni è ostinato e sordo alle ragioni che gli vengono da tante parti del suo Paese (non parlo di parti politiche, parlo di Chiese e di cultura, della comunità di Sant’Egidio, di Famiglia Cristiana, praticamente di ogni prete o associazione che abbiamo lavorato con e accanto ai Rom, della Comunità Ebraica italiana, delle Comunità Valdesi) perché rappresenta la Padania (cioè uno stato mentale fondato sulla persecuzione degli «altri») in Italia. È ministro della Repubblica italiana con i voti (tanti voti, certo) di alcune tribù del Nord che continuano a minacciare la scissione dall’Italia quando non vengono zittiti in tempo dal Capo Bossi, unico governo da loro riconosciuto.
Uno così che fa il ministro e che deve offrire vittime alle superstizioni delle sue tribù, sarà fatalmente vendicativo.
Ma il Prefetto Mosca non ha cambiato idea. Chiedo che gli italiani ricordino il caso unico del no limpido e chiaro, in nome della civiltà comune, dell’unico alto funzionario del Paese Italia (più noto nel mondo, per il diffuso opportunismo, il «tengo famiglia», una certa viltà, il silenzio dei miei maestri elementari di bambino e dei miei colleghi giornalisti di adesso) che abbia osato pubblicamente dire no al ministro di cui è rappresentante.
2. I «gagè» di tutta Italia hanno scritto, firmato e fatto circolare un appello che dichiara il decreto Maroni una violazione della Carta dei diritti dell’uomo (Nazioni Unite) della Unione Europea e di tutte le Costituzioni nazionali a cominciare da quella italiana.
Chi sono i gagè? Nella lingua rom «gagè» sono le persone non Rom (come i «goyim» nella lingua yiddish, sono i cristiani o comunque i non ebrei). Ecco un brano del loro appello, che ho avuto da Dijana Pavlovic, la giovane attrice e attivista Rom che scrive per questo giornale.
«Noi gagè credevamo che, dopo la fine della seconda guerra mondiale e le scelte della comunità internazionale, non fosse più possibile rivedere nei nostri Paesi i fantasmi di un passato che volevamo bandito per sempre. La carta dei diritti dell’uomo, le costituzioni nazionali, i trattati della comunità europea impediscono ogni forma di razzismo e ogni atto che discrimini e segreghi una minoranza etnica o religiosa (...).
Non è lecito in un Paese civile schedare i bambini. Tanto meno è ammissibile, per l’intera comunità internazionale, che questa schedatura avvenga su base etnica. Ma non è così per il nostro governo. Il suo ministro dell’Interno, uno dei capi supremi delle camicie verdi che inneggiano alla secessione padana, alla cacciata dei Rom ed extracomunitari, che percorrono in ronde minacciose le città, ha dato disposizione che i bambini Rom siano schedati con il rilievo delle impronte digitali.
(...) Questo è il volto avvelenato del nostro Paese. Ma i veri colpevoli siamo noi, i gagè, che credono nella propria superiorità etnica, esportano con la forza le proprie idee,aggrediscono un popolo che non riconosce confini, non ha terre da difendere con guerre, non ha bandiere in nome delle quali massacrare i diversi da sé».
Propongo che tanti aggiungano le loro firme a questo manifesto (tra i primi a sottoscrivere, Moni Ovadia) che si conclude con la dichiarazione «ci rifiutiamo di essere diversi. Pretendiamo che siano prelevate le nostre impronte digitali».
3. Ecco le ragioni per cui alcuni di noi hanno deciso di promuovere e partecipare all’evento dell’8 luglio. Non è un partito preso o un frivolo accanimento in luogo di una normale, serena opposizione. Non c’è niente di normale e niente di sereno in un Parlamento ingorgato di provvedimenti personali salva-Berlusconi, in cui i lavori sono diretti da presidenti che in realtà sono capi-partito e come tali vanno insieme al Quirinale a dire non ciò che provano o sentono tutti i deputati e tutti i senatori, come richiede il loro ufficio. No, vanno al Quirinale - coperti da quelle cariche - per dire ciò che vogliono i loro partiti. Ovviamente ciò richiede più che mai di dare tutto il nostro sostegno, da cittadini, prima ancora che da politici, al Capo dello Stato.
Ecco le ragioni che spingono alcuni di noi, e certo molti cittadini, e certo il popolo Rom, a incontrarsi adesso, subito, mentre il cosiddetto «pacchetto sicurezza» viene imposto al nostro Paese, triste timbro di discriminazione e razzismo. Come le leggi razziali del fascismo, questa irresponsabile serie di decisioni ci umilia in Italia, ci isola in Europa, ci separa dalla nostra Costituzione, interrompe il rapporto con la grande eredità della Resistenza a cui si deve la nostra libertà.
La nostra libertà è unica. O è intatta o non lo è. O ci riguarda tutti o costruisce una odiosa apartheid.
È bene alzarsi e dirlo adesso, con tanti cittadini e tanti Rom che ci hanno detto «veniamo», e con il loro coordinatore, Alexian Santino Spinelli (professore all’Università di Trieste) che parlerà insieme a noi. E poi ci saremo tutti in autunno, nella manifestazione politica già annunciata da Walter Veltroni con il Pd. E ci siamo ogni giorno in Parlamento per dire ben chiaro il nostro no, per tentare di cancellare sul futuro dell’Italia le impronte di Berlusconi.
furiocolombo@unita.it

l'Unità 6.7.08
Foa: legge uguale per tutti
ecco la nostra battaglia
intervista di Bruno Gravagnuolo


«Sono molto preoccupato per la situazione dell’Italia. A 60 anni dalla Costituzione, è indispensabile avviare una battaglia in difesa dello stato di diritto». Vittorio Foa aderisce al documento dei cento costituzionalisti contro gli strappi da parte del governo rispetto ai principi costituzionali. E in una conversazione con l’Unità dice: «Sono sempre rimasto fedele al principio che la legge è uguale per tutti».
«Sono stato deputato alla Costituente. Ho votato la Costituzione repubblicana. Molti anni sono passati da allora, ma sono rimasto incrollabilmente fedele al principio che la legge è eguale per tutti. Aderisco quindi al documento dei costituzionalisti». Comincia così, con queste parole puntigliosamente scelte come appello, l’insolita conversazione «da lontano» con Vittorio Foa. Da lontano, perché il grande leader azionista, lasciata Formia, è a Pescasseroli. E tra noi e lui c’è la moglie Sesa Tatò, che con impagabile premura e pazienza ci fa da «interprete», quando Foa non sente bene al telefono le domande.
Perciò, dopo la dichiarazione di apertura, con la quale Foa si schiera al fianco dei cento costituzionalisti - che hanno denunciato lo strappo ai principi costituzionali del «Lodo Alfano» e della «norma blocca processi» - cerchiamo di decifrare il suo umore. E magari di strappargli una diagnosi sul presente, sul Pd e sulle «carte» dell’opposizione. Dunque, dice Foa: «Sono preoccupato, molto preoccupato in questa fase. Ecco perché è indispensabile avviare una battaglia in difesa dello stato di diritto». Già, ma ne è capace l’opposizione del Pd? È adeguata a riguardo? Risponde secco Foa: «Non intendo replicare su questo, diciamo che spero di sì...». E sulle «due opposizioni», quella «girotondina» e quella di governo e di proposta, aggiunge: «Non voglio prendere posizione in favore dell’una o dell’altra, ma reputo che l’opposizione non debba dividersi...». Lotta di lunga lena, e speranza di creare uniti una nuova onda di opinione nel paese? «L’importante - chiarisce Foa - è tener duro sull’eguaglianza e la parità dei diritti in Italia. Quanto alla speranza, certo che occorre averne! Decisivo è mantenere una certa volontà di lotta sui princìpi, per tenere aperta la situazione e sveglie le coscienze».
Torna il vecchio Foa «movimentista»? «No - ribatte - non è questione di movimentismo o del suo contrario. Certe scelte dipendono dai momenti storici. E quel che conta è battersi in questo momento. Tenendo conto che nel nostro paese c’è una destra profonda, che viene da lontano...». Viene voglia di approfondire, facendo un passo indietro dagli appelli e dalla mischia. Perché questa «destra profonda»? E che intende Foa con questo motivo?
Per capirlo, almeno in parte, cerchiamo di frugare tra i pensieri del Foa di adesso. Sesa Tatò ci spiega che qui a Pescasseroli, Foa passa gran parte del suo tempo a riscrivere la prefazione di una suo libro fortunato: Questo Novecento, uscito per Einaudi una decina di anni fa. Verrà ristampato, e dentro la prefazione ci sono alcuni temi chiave. Un certo pessimismo «sulla guerra e le sue forme mutate». Sul suo inedito significato per gli uomini, dopo il Novecento. Poi l’attenzione alle «nuove povertà, di cui pochi si occupano». Infine una riflessione su ciò che è stata l’Italia, «dall’inizio della prima guerra mondiale ad oggi». E qui c’è l’innesco con l’idea della «destra profonda». Una costante della nostra storia, secondo Foa. Ma perché questa «anomalia italiana» rispetto agli altri paesi avanzati? E la risposta di Foa arriva netta e chiara: «Perchè l’Italia è nata tardi rispetto agli altri stati. E male... e inoltre anche in virtù di un certo ruolo pervasivo della Chiesa, la famosa “Questione Vaticana”....». Da ultimo, proviamo ad allargare un po’il campo: Obama e il suo succeso negli Usa. A Foa piace decisamente, gli fa un’ottima impressione. E dal candidato nero si «aspetta molto». Ecco la speranza di Foa: «Progressista vero. Può contribuire a cambiare lo scenario mondiale, se vince». Insomma, Obama per Foa è in grado di dare un’imagine diversa del suo paese. Quella di una nazione più fraterna e generosa: «Soprattutto lo spero...». Volge al termine « l’intervista impervia» a Vittorio Foa con l’aiuto della moglie. Non senza una battuta dallo sfondo del vecchio leader: «Dì che venga a trovarmi a Formia... che facciamo un’intervista più lunga...». Già, magari per i 98 anni, il 18 settembre. E allora piazziamo l’ultima domanda: che effetto fa avere quasi cento anni? Si sente «leggero», o troppo pieno di ricordi? Risposta diretta dell’interessato, in viva voce: «È bello! Venga, venga pure per il mio centenerio!». Ma non avevamo detto per i 98? «D’accordo, anticipiamo...». Grazie. Fine dell’intervista impervia a Vittorio Foa, «uomo-secolo».

l'Unità 6.7.08
Prc, anche «Liberazione» finisce nel tritacarne della crisi
Il giornale sotto accusa per essersi schierato troppo apertamente a favore di Vendola


Neanche “Liberazione” esce indenne dalle pesanti polemiche che stanno scuotendo Rifondazione comunista. Il giorno dopo che la commissione congressuale ha annullato il congresso di circolo di Reggio Calabria finito 345 a 39 per la mozione Vendola, il giornale del Prc ha pubblicato un editoriale in prima pagina dal titolo: «Annullare i congressi? Una pazzia». L’appello era a smetterla con «i ricorsi e i boicottaggi» argomentati con i «troppi nuovi iscritti» e a evitare che «l’appuntamento di Chianciano» (dove dal 24 al 27 si svolge il congresso nazionale del Prc) si trasformi in «una conta al massacro».
Parole che non sono piaciute ai sostenitori delle altre quattro mozioni che si contrappongono a quella che candida a segretario Vendola, che hanno scritto delle dure lettere di risposta pubblicate su “Liberazione” di ieri. Il primo firmatario della mozione Ferrero-Grassi, Acerbo, ha detto che «non si sentiva davvero il bisogno che anche il giornale (che dovrebbe essere di tutto il partito) scendesse in campo così pesantemente» per di più delegittimando la commissione nazionale per il congresso. E le altre mozioni sono intervenute dicendo che un giornale deve informare, non dettare la linea, e che “Liberazione” «ripete il vecchio vizio terzo-internazionalista che la politica deve avere la supremazia sulle garanzie».
Il direttore Piero Sansonetti, nel mirino dell’area Ferrero-Grassi da settimane, ha risposto definendo «ingenerose» le accuse di essere «berlusconiano, stalinista o terzointernazionalista» e scrivendo che «un giornale deve saper dire la sua anche se è in contrasto con il partito al quale appartiene», criticando l’esclusione dalle scelte congressuali di iscritti sui quali non c’è «straccio di prova» di truffe e ricordando che nel Pci «nessuno si è mai sognato di annullare un congresso». Poi Sansonetti ha raccontato un episodio di quando, da caporedattore all’Unità, fu convocato a Botteghe Oscure e accusato di antitogliattismo per alcuni articoli pubblicati in prima pagina. Venne assolto. C’erano Pajetta, Napolitano, Petruccioli, Natta, Occhetto. «Dissero che avevamo il diritto a criticare Togliatti sull’Unità. Dissero che l’Unità era autonoma. Avevo sempre considerato poco democratico il Pci, ma in confronto a queste cose che avvengono ora mi appare come il regno della liberalità e della democrazia...».

l'Unità 6.7.08
Bettini critica D’Alema, scontro con la Turco
Al convegno della sinistra Pd anche Berlinguer, Maura Cossutta e Folena: messaggio alle forze rimaste fuori dal Parlamento
di Simone Collini


LA SINISTRA DEL PD si organizza e lancia un messaggio alle forze rimaste fuori dal Parlamento. La nascita ufficiale di “A Sinistra” sarà a settembre, ma ieri Vincenzo Vita, Livia Turco, Sergio Gentili, Paolo Nerozzi, Famiano Crucianelli e gli altri promotori dell’iniziativa hanno gettato le basi del progetto: un’associazione (che potrà poi evolversi in fondazione) che dovrà diventare «luogo di incontro» e «laboratorio di dialogo» per tutta la sinistra (come osservatori extra-Pd sono arrivati Giovanni Berlinguer, Maura Cossutta, Piero Folena), che organizzerà seminari e si doterà di un mensile (che nasce dall’esperienza di “Aprile”, dell’ex correntone diessino) e che però non farà tessere.
Caratteristica, quest’ultima, che non è passata inosservata allo sguardo di Goffredo Bettini. Il coordinatore del Pd è intervenuto come ospite all’affollata assemblea fondativa al Centro congressi Frentani giudicando positivamente l’operazione, non ultimo perché «quest’area culturale della sinistra - ha detto prendendo la parola - è quella che meno si identifica con una persona, usando una parola brutta direi con un capobastone». Ribadendo parole usate da Walter Veltroni nella lettera inviata agli organizzatori, Bettini ha lodato il «pluralismo interno» ma ha anche avvertito - con quella che dai presenti è stata letta come una stoccata a D’Alema e al tesseramento avviato dall’associazione “Red” - che «questo deve restare come fatto virtuoso dentro la democrazia del partito e non ci devono essere nuclei organizzativi che si estraneano»: «Qualcuno ha detto “è stato fatto perché non è ancora sufficiente la democrazia nel Pd”, ma allora io dico: d’accordo, però allora diamoci una mano, iniziamo dai circoli e dalla forza che daremo ai nostri iscritti, costruiamo il partito dalla base, io sono contro le dinamiche correntizie, dove c’è un comando burocratico che decide dall’alto e scende giù pe’ li rami fino alla scelta dell’ultimo consigliere comunale». Il discorso non è piaciuto troppo a Livia Turco, che ha replicato con poche, chiare parole: «Io non credo che nel Pd ci siano capibastone, e penso che tutti i luoghi del Pd, tutte le fondazioni, siano luoghi liberi». Ma quelle sul confine tra pluralismo e correntismo non sono state le sole parole che hanno agitato le acque all’interno del partito. Dopo aver replicato alla «violenta polemica» innescata da Parisi per l’intervista a l’Unità sottolineando che «parlare oggi di alleanze con Udc e Prc è immaturo ma bisogna dare una prospettiva al partito ed evitare di scadere nell’autosufficienza, che è perdente, isolata e boriosa», Bettini è passato a un’analisi della sconfitta di Roma, dicendo che il centrodestra dopo 15 anni all’opposizione aveva molta più voglia di vincere e il centrosinistra «si è seduto un po’ troppo sul potere». Ma di fronte al mormorio della platea ha anche aggiunto: «Certo, la sconfitta riguarda anche la scelta del candidato sindaco». Qui è scattato forte un applauso, e il coordinatore del Pd ha cercato di smorzarlo dicendo che si tratta di «un’autocritica in prima persona, non rivolta a nessuno». Ma comunque le parole sono uscite rapidamente fuori dal Centro congressi Frentani e dopo la chiusura dei lavori Bettini è tornato a farsi sentire tramite le agenzie di stampa per precisare il suo pensiero, sottolineando che tra le varie cause della sconfitta c’è stato anche il fatto che «Rutelli nella contesa elettorale non sia riuscito a far emergere il suo profilo civico, facendo prevalere quella di leader politico inevitabilmente più problematico nel rapporto con gli elettori». Per quanto riguarda i fondatori della nuova associazione, quello che meno li ha convinti è stata la parte sulle alleanze. «Non si può mettere sullo stesso piano Udc e Rifondazione», ha sottolineato Vita, eletto membro del coordinamento ristretto che lavorerà per il varo in autunno di “A sinistra” insieme a Gentili, Nerozzi, Crucianelli, la direttrice di “Aprile” Carla Ronga e, come rappresentante dei territori, il consigliere regionale della Toscana Loriano Valentini. E le distanze, oltre che dai centristi, sono state prese anche nei confronti di Di Pietro, accusato da Crucianelli di alimentare il «rischio pollaio» in un centrosinistra frammentato.

l'Unità 6.7.08
Italia 2008. Odissea nella cocaina
di Luigi Cancrini


I numeri
1,3 milioni i consumatori di cocaina in Italia (ma solo 30mila escono allo scoperto)
150 mila tossicodipendenti è senza cure e non si avvicina ai Sert
16,5% dei giovani ha avuto cocaina tra le mani (sondaggio per il ministero della Difesa)
20,1% dei ragazzi tra 16 e 18 anni può facilmente procurarsi coca (dati Labos)
14% dei ragazzi che frequentano corsi per la patente dichiara di aver assunto cocaina negli ultimi 2 mesi (ricerca Milano)

Lo sballo «normale». La coca ha fatto irruzione nel quotidiano di una quantità, fino a ieri impensabile, di persone «ordinarie». Non è più qualcosa di eversivo, ma solo e banalmente un aiuto: come il caffè o le sigarette. Le «regole», i mix, il «mercato» e i tentacoli di Gomorra: viaggio nell’universo della «neve»
A differenza dell’eroina, la cocaina non è un narcotico ma una sostanza stimolante del sistema nervoso centrale. Viene estratta dalle foglie di una pianta, l’Eritroxylon coca, originaria dell’altopiano delle Ande. In campo medico è stata usata, dal 1860 in poi, come anestetico locale della cute e delle mucose; il suo uso è oggi, tuttavia, piuttosto limitato dopo che sostanze ottenute per sintesi e molto più sicure (come la novocaina) hanno preso in gran parte il suo posto. L’Eritroxylon coca è originaria delle regioni andine del Sudamerica dove vive tra i 700 e i 2000 metri di altezza e dove cresce spontaneamente. L’uso è antichissimo. Foglie di Eritroxylon sono state trovate in tombe Incas del XIII secolo.
Dagli Indios alla Coca-Cola
L’uso endemico avviene per via orale: secche e polverizzate, le foglie mescolate con una piccola quantità di materia alcalina sono tenute in bocca e masticate lentamente. Le piccole dosi di cocaina così assunte fanno aumentare la pressione, accelerano la frequenza cardiaca e accrescono la capacità dell’organismo umano di utilizzare l’ossigeno. Masticando coca un indios è capace di camminare per tre giorni trasportando grandi pesi o di lavorare all’aria rarefatta dei 2000 e più metri sul livello del mare e con scarse quantità di cibo. Anche il consumatore occidentale, del resto, ha avuto modo di verificare l’utilità dell’antica sostanza prima che le autorità sanitarie internazionali intervenissero nel 1904 ad impedirglielo perché un’infusione di foglie di coca faceva parte della formula originale della Coca-Cola. La bevanda conteneva abbastanza droga da allarmare le autorità sanitarie statunitensi, ma solo nel 1904 la Coca-Cola Company cambiò il procedimento di preparazione della bevanda, rimuovendone la cocaina prima di usare le foglie di coca. In cambio del servizio reso alle autorità sanitarie la Coca-Cola Company ottenne allora il monopolio della produzione della cocaina per scopi medici negli Usa, con notevole vantaggio economico.
La cocaina raffinata, che costituisce l’1% della foglia, ha effetti abbastanza diversi da quelli della coca. Inalata o «sniffata» essa entra rapidamente in circolo determinando uno stato di euforia ed un discreto aumento della pressione arteriosa. Limitati ad una-due ore di tempo, questi effetti sono seguiti da una fase depressiva in cui lo stimolo ad assumere nuovamente cocaina è particolarmente forte. La tendenza a modulare con l’aiuto dell’alcool gli up e i down di questa esperienza è molto comune fra i consumatori abituali di cocaina che appartenevano, inizialmente, a due grandi categorie di persone: quelle che riuscivano a limitare l’uso della sostanza a situazioni particolari, come le feste o i viaggi e quelle che per curiosità, per moda o altro, avendo fatto esperienza con la cocaina, incominciavano ad assumerne dosi ripetute sviluppando forme diverse di dipendenza.
Nuove tendenze
Quella che si sta verificando oggi nel clima sempre più frenetico della società occidentale è, tuttavia, un fenomeno abbastanza diverso da questi più tradizionali. Schematizzando molto, l’impressione è quella di una irruzione della cocaina nel quotidiano di una quantità fino a ieri impensabile di persone «normali» cui la cocaina viene presentata e che la cocaina utilizzano non più (o non solo) come una sostanza capace di permettere uno «sballo» ma come una specie di aiuto (normale: come il caffè o le sigarette) per la loro possibilità di stare piacevolmente (o un po’ meno sgradevolmente) nel mondo.
Roberto Saviano ha efficacemente illustrato in Gomorra i dati alla base di queste osservazioni e le strategie utilizzate dai clans camorristi per favorire e per sfruttare questa innovazione fondamentale per i marketing di una droga che è particolarmente adatta alle esigenze della modernità: trasformando quella che in passato era una droga d’élite in un prodotto «accessibile al consumo di massa, con diversi gradi di qualità ma capace di soddisfare ogni esigenza». Il 90% dei consumatori di cocaina (lo studio riportato da Saviano è del gruppo Abele) è composto da studenti più o meno svogliati e da lavoratori che sentono di avere il bisogno di rilassarsi o, nel caso di quelli più duramente sfruttati, la voglia di trovare «la forza di fare qualcosa che somigli a un gesto umano e vivo e non solo un surrogato di fatica». La coca viene presa dai camionisti per guidare di notte, dagli imprenditori «iperattivi», dai professionisti che debbono resistere ore davanti al computer, dai parlamentari messi in difficoltà dalla lontananza da casa (come ebbe modo di spiegarci Cesa poco più di un anno fa dopo che le Iene e la polizia lo avevano ben documentato), dagli operai delle fabbriche o dell’edilizia che lavorano in nero e debbono andare avanti senza sosta per settimane senza nessun tipo di pausa. «Un solvente della fatica, scrive Saviano, un anestetico del dolore, una protesi alla felicità» per migliaia e migliaia di uomini che sembrano ripetere, senza rendersene conto, i riti di un consumo che era quello delle povere popolazioni andine. Per soddisfare un mercato che ha necessità di droga come risorsa e non soltanto come stordimento bisognava tuttavia trasformare lo spaccio, renderlo flessibile, slegato dalle rigidità criminali ed è stato proprio questo, sempre secondo Saviano, il salto di qualità compiuto dal clan di Di Lauro: la liberalizzazione dello spaccio e dell’approvvigionamento di droga. Per i cartelli criminali italiani (quelli contro cui si batteva Falcone) la vendita di grosse partite viene tradizionalmente preferita alla vendita di partite medie e piccole. Per Di Lauro invece la vendita di partite medie è stata scelta per far diffondere una piccola imprenditoria dello spaccio capace di creare nuovi clienti. Trasformando in spacciatore, assai difficile da identificare per la polizia, il vacanziere o il diciassettenne di buona famiglia, il commerciante o il professionista.
I danni
I rischi legati all’uso saltuario, soprattutto se la cocaina viene associata all’alcool, sono quelli di cui si è parlato spesso sui giornali a proposito dei vip e, in persone predisposte, i problemi legati al sovraccarico del cuore. Nei casi più gravi, l’assunzione di dosi ripetute e crescenti può determinare però diversi disturbi fisici e mentali fino a configurare il quadro di una sindrome psicotica (con allucinazioni visive e vissuti persecutorii) sufficientemente tipica. I disturbi cardiaci sono frequenti soprattutto se si abusa anche di alcool.
Pasta base di coca (PBC) e crack
La PBC è il primo prodotto di lavorazione della foglia di coca, venduto a basso prezzo nei paesi in cui la coca viene coltivata. Il crack è cocaina lavorata con bicarbonato per ottenere un prodotto che è efficace pur contenendo meno principio attivo e che può essere venduto a basso prezzo. PBC e crack costano poco perché la concentrazione di cocaina è più bassa (uno a tre rispetto alla cocaina) ma, fumati con le sigarette, determinano effetti rapidissimi (dopo 3-5 secondi) e subito molto forti. L’euforia legata al «flash» si accompagna ad una brusca (e spesso pericolosa) salita della pressione e della frequenza cardiaca che possono accompagnarsi a dolori cardiaci. L’effetto (uno stordimento improvviso, una perdita fulminea del rapporto con la realtà nel proprio corpo) è assai breve e l’assunzione (il fumo) viene ripetuta spesso a distanza di pochi minuti determinando in tempi rapidi una dipendenza che ha qualcosa di disperato e che si diffonde facilmente fra gli adolescenti delle periferie urbane più degradate: Lima, Bogotà o Quito per il «bazuco», New York, Los Angeles. Poco adatte al consumo voluttuario, crack e PBC determinano facilmente dipendenza (un bisogno psicologico progressivamente più forte di ripetere l’esperienza) e tossicomania (un coinvolgimento personale totale della persona nelle sue abitudini autodistruttive). Su linee molto simili a quelle seguite dall’eroina.
Cocaina e adolescenti italiani
La facilità con cui la cocaina sta entrando nelle problematiche o nelle abitudini degli adolescenti e dei giovanissimi nel nostro paese è ben documentata ormai da una serie di ricerche i cui risultati sono terribilmente convergenti. Studiando per conto del Ministero della Difesa 5096 volontari aspiranti della ferma breve, 786 allievi aspiranti all’Accademia militare e 309 aspiranti allievi sottufficiali che hanno riempito un questionario prima di sottoporsi ai rispettivi esami di ammissione Sgritta ed altri hanno verificato che il 31,5% degli esaminandi conosce persone che usano cocaina, il 25% se l’è vista offrire, il 16,5 % l’ha avuta in mano, il 21,5% ha desiderato di provarla. Studiando con un analogo questionario 1502 giovani calabresi che frequentavano le scuole medie e superiori, il Labos ha verificato in modo sostanzialmente analogo che il 20,1% di questi ragazzi (età fra i 16 e i 18 anni) avrebbe potuto «facilmente» procurarsi della cocaina e che il 31,3% di loro aveva amici che ne facevano uso mentre Saman, utilizzando lo stesso questionario anonimo con 392 ragazzi delle medie superiori di Apricena (Foggia) ha verificato valori ancora superiori: 27% di ragazzi che potevano procurarsela facilmente e 36% che conoscevano chi ne faceva uso. In un questionario anonimo a Milano, il 14% dei ragazzi che frequentano i corsi per la patente d’auto dichiarò d’altra parte di aver assunto coca almeno una volta negli ultimi due mesi. Si tratta, come si vede, di dati che aprono uno scenario impressionante sui successi ottenuti dalla camorra con le sue nuove strategie di vendita. Proponendo un problema inquietante soprattutto a chi si occupa di prevenzione. Ma proponendo soprattutto un quesito inquietante sulla posizione di chi in questi giorni (Giovanardi) ha riferito in Parlamento sulla situazione della droga nel nostro paese: dichiarandosi allarmato soprattutto dagli spinelli e accuratamente evitando di menzionare le vere grandi urgenze. Ansiosamente e astutamente riportando il problema droga nella dimensione educativa famigliare per nascondere il modo in cui il suo Governo non trova (non vuole trovare) i soldi per un’offensiva vera contro la cocaina?
(1 - continua)

l'Unità 6.7.08
Operai, baristi, «pierre» e care ragazze:
«Noi, il popolo della “bamba” che non ti molla»
di g.v.


«Qui a Torino la coca o te la lavi tu con il bicarbonato o con l’ammoniaca (metodo che personalmente preferisco), oppure si trova ormai da circa 2 anni la coca già lavata in "cubetti"... beh, questa è tutt’altra cosa, molto più potente, credo, anche se non ne sono sicura, che sia il vero e proprio crack. Mi hanno detto che questa è una prerogativa di Torino... Sono stata a Roma e i ragazzi non l’avevano mai vista». L’ultima emergenza si chiama crack, o cocaina basata. I ragazzi di 15 anni hanno imparato a farla da soli: con il bicarbonato, le bottigliette. Crack è il rumore che produce quando brucia. Chi lavora nelle comunità dice che l’Italia sembrava ne fosse immune. Invece no, e l’abuso di cocaina, l’aumento esponenziale dei consumatori, il fatto che chi usa questa droga resta nel sommerso, che è la droga delle persone apparentemente normali, sta creando un problema.
Un milione e trecentomila persone che ne fanno uso, appena trentamila che escono allo scoperto. I nuovi tossici sono baristi, Pr, diciassettenni e ora anche operai che tirano per sostenere meglio i turni. «Insomma - spiega Riccardo De Faccio delle Cnca - , non esistono più le storie di perdizione del tossicodipendente da eroina che si perde, appunto, nella sua roba. Ora il consumo è legato al modo di vivere, è occasione che cementa i rapporti di coppia». E i nuovi tossici hanno messo in crisi il sistema del recupero e della disintossicazione. Come rivela anche la relazione al Parlamento: 150mila tossicodipendenti è senza cure e non si avvicina ai Sert.
Giovanni ha 37 anni e una moglie giovane. Soldi facili, perché gestisce diverse agenzie di viaggio nel milanese. Una vita normale, ma ogni fine settimana Giovanni spariva, in giro per la città a farsi di alcol e cocaina. È finito al pronto soccorso. «È come se avesse la necessità di questo sballo, di questo abuso» racconta chi lo ha avuto in cura. È una dipendenza psicologica. Ecco, a Giovanni ad esempio, era impossibile oltroché inutile dire «Vai in comunità per 18 mesi». Serviva una soluzione diversa che però ancora non c’è.
Maria, 27 anni, di Venezia. «Lavoro in banca e mi sto laureando in lingue. Nella vita, fin da 13 anni, ho provato quasi tutto. A 13 anni, cannone e whisky in disco la domenica pomeriggio... sempre tutto con i dovuti modi perché non potevo farmi vedere sballata. Poi arriva lei: la “coca”, la “bamba”, “snow”! Droga per gente coi soldi, però che sballo. Sono sempre rimasta pacata nel prenderla. La mia testa mi era sempre vicina… e poi? Arriva il lavoro in banca... palla al balzo dice mamma. E il direttore? 10 grammi al giorno sempre ovunque. Comincio piano, ... tanto poi smetto … 1, 2, 4, 5 ... al giorno... gratis... ».
Luigi cocainomane lo è diventato per non pagare le dosi. Pr di una discoteca milanese, un giorno gli hanno proposto, visto che aveva iniziato a consumare cocaina, di smerciarne visto che l’ambiente era giusto. «Alla fine è arrivato da noi - racconta De Faccio - , ha chiesto un percorso con uno psicologo che fa interventi ambulatoriali perché alla fine era diventato un buon spacciatore di cocaina, ma soprattutto ormai un consumatore». Spiega De Faccio: «Questo meccanismo del consumo ha svelato che ora soprattutto nelle grandi città la coca non è più spacciata dalle organizzazioni criminali. A Roma, Milano, Verona i clan arrivano allo spaccio fino a una purezza della cocaina del 50%. In piazza tu la trovi al 10%. Allora loro vendono a spacciatori locali quantità di coca al 50%. Il tam tam ci dice che la cocaina in questo momento si vende da sola. È lo spaccio della normalità: dal barista al pr che arrotondano e si garantiscono il consumo gratis».

l'Unità 6.7.08
Josef Koudelka. Gli occhi della rivolta
Sette giorni in 250 immagini
di Oreste Pivetta


«Ora che vedo il mio libro capisco che è un documento storico, ma prima non lo pensavo». Quarant'anni dopo aver immortalato in immagini memorabili l'invasione sovietica di Praga del 1968, durante sette giorni, dall’arrivo delle prime truppe del Patto di Varsavia, il grande fotoreporter ceco Josef Koudelka è stato a Milano per presentare la mostra delle sue fotografie, «Invasione Praga 68», che rimarrà aperta fino al 7 settembre presso il Centro internazionale di fotografia Forma (in piazza Tito Lucrezio Caro 1). Il catalogo, edito da Contrasto, insieme con le foto di Koudelka, duecentocinquanta in tutto, e con alcuni testi critici, e la mostra presentano una “rassegna stampa” dell’epoca: dal comunicato della Tass che il 21 agosto annunciava l’ingresso delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia a brani di articoli del Rude Pravo, di altri giornali e riviste, a una sorta di antologia di slogan che erano comparsi sui manifesti o, scritti a calce, sui muri della città.

Josef Koudelka tra le sue fotografie, quelle di Praga 1968. Adesso, trent’anni dopo, sono in mostra anche in Italia, a Milano, la storia d’allora alla prova del presente e della distanza. Di mezzo il «muro di Berlino», che è crollato, e il crollo sembra aver
moltiplicato gli anni. Josef Koudelka di anni ne ha settanta, ne aveva diciotto all’epoca di Budapest, trentenne fotografò i carri armati del Patto di Varsavia e del socialismo reale nelle strade di Praga. Koudelka, la camicia verde militare, le maniche rimboccate, i capelli biondi un po’ lunghi un po’ sparsi, sembra molto più giovane, forse per l’allegria e per l’ironia o per le maniere disincantate con le quali parla del suo passato, ad esempio di quella notte d’agosto quando tre volte un’amica lo avvertì che qualcosa di eccezionale stava avvenendo a Praga, che stavano arrivando i russi, e tre volte si girò dall’altra parte e si rimise a dormire. Finalmente si decise a dar retta alla sua informatrice. scese in strada e cominciò a fotografare. Fotografò per giorni e giorni, consumò metri e metri di pellicola, nascose dove poteva il risultato del suo lavoro e alla fine si ritrovò con uno straordinario reportage, come mai si sarebbe sognato: la cronaca in diretta della rivolta di Praga, della passione di un popolo che aveva creduto in Dubcek e nella sua strada.
Parla sorridendo, tra inglese francese spagnolo italiano.
Le sue foto di Praga arrivarono negli Stati Uniti nel 1969. Senza mai citare il nome dell’autore, le distribuì Magnum (che era allora presieduta da Elliott Erwitt). Così “un fotografo ceco anonimo” vinse il premio Robert Capa. Perchè quel reportage ritrovasse il suo autore, sarebbe dovuto passare un quarto di secolo: nel 1984, in una grande mostra organizzata dall’Ars Council of Great Britain all’Hayward Gallery di Londra e in un libro, intitolato semplicemente “Josef Koudelka”, pubblicato dal Centre National de la Photographie di Parigi. Koudelka, dal 1970 ormai esule, diviso tra Londra e Parigi, non aveva mai voluto firmare quelle foto per proteggere i suoi familiari rimasti in Cecoslovacchia. La morte del padre lo liberò dalla paura. Il padre conta molto nella sua vita. Gli chiedo di Budapest e Praga. Come visse il Cinquantasei ungherese e come rivisse il Sessantotto praghese. Cominciano, per me, le sorprese, perchè di Budapest non gli era arrivato nulla e la politica non la sentiva proprio...
«Sono nato in Moravia, sono cresciuto in un paese tra i monti, Valchov, qualche centinaio di abitanti, e non mi importava niente di quello che poteva succedere altrove. Mio padre non era iscritto al partito e mi diceva, indicandomi i compaesani, tutti comunisti con la tessera: non dicono la verità, non hanno voglia di lavorare, vorrebbero poter comandare. Accadeva a Valchov quel che poteva capitare in qualsiasi paese fascista, ad esempio nella Spagna di quei tempi. A quattordici anni partii per Praga e mio padre mi raccomandò di guardare con i miei occhi e di pensare con la mia testa. Fu così che incominciai a capire che la scuola non mi aiutava a crescere libero. Per casa condividevo una stanza con altri tredici ragazzi: dopo una settimana la pensavano tutti come, che a scuola non si poteva dire quanto avevamo in testa e che la scuola era lontana dall’insegnarci la verità. Questa storia si trascinava anche fuori dalla scuola: leggevi un giornale, senza fidarti, e cercavi di farti un’opinione opposta a quanto stava scritto, così alla fine ti convincevi, giusto per pensare il contrario, che gli americani facessero bene a bombardare il Vietnam. Non sono arrivato a tanto, ma il rischio c’era. La politica, come era capitato a mio padre, continuò a essermi estranea. D’altra parte per fare politica mi sarei dovuto iscrivere al partito, all’unico partito...».
La curiosità della fotografia la conquistò da piccolo e dopo gli amici e i familiari cominciò a fotografare gli zingari. A Praga nel ‘68 era appunto appena rientrato dalla Romania, dove si era interessato ai rom. Perchè questa attenzione?
«Ero entrato in un complesso folkloristico e mi appassionava tutta la musica popolare della mia terra e i rom ne sono straordinari interpreti. Devo molto alla musica, anche un viaggio in Italia nel 1961. Feci il giro delle feste dell’Unità e mi accorsi che i comunisti italiani erano diversi dai nostri. A Siena il capo del partito ci accompagnò in una grande gelateria. Era il proprietario. Come era possibile?».
Però Praga viveva una certa vivacità culturale. Si capisce anche dalla sua biografia, ad esempio dalle sue collaborazioni con il teatro (fotografo di scena), con le riviste...
«Mi chiamavano, fotografavo, finiva lì. Non avevo rapporti. Ero un isolato. Ero ormai un ingegnere aereonautico».
Va bene. Torniamo al 1968. Era partito per la Romania con Milena Hubschmannova per conoscere gli zingari. Torna e il giorno dopo, al risveglio, trova i carri armati.
«Quando la mia amica mi telefonò, le dissi che si stava sbagliando. All’ultimo mi convinsi e uscii e cominciai... Perchè lo feci? Perchè ero un cecoslovacco: la passione civile mi spingeva in strada con la macchina fotografica, perchè fotografare era la cosa che sapevo fare meglio. Sono arrivato per primo e ne ho approfittato. Ma non pensavo alla pubblicazione. Ero ceko e lì dovevo stare...».
Nelle sue foto di Praga c’è la gente, ci sono i soldati, ci sono i carri armati. La gente protesta per difendere la propria libertà e la propria dignità. Nei confronti dei soldati non si avverte odio. I manifestanti cercano di parlare e molto spesso parlano con i soldati del Patto di Varsavia. Lei stesso guarda i soldati senza ostilità, quasi con compassione. Poveracci tutti, lontani da casa. Mi vengono i mente i poliziotti proletari di Pasolini. L’odio sembra tutto indirizzato verso gli strumenti della repressione: i carri armati, i tanks. Anche in quella foto del militare sul carro in fiamme che punta il fucile contro un manifestante, che scopre il petto invitandolo a sparare, l’attenzione è per gli occhi spauriti, smarriti, inconsapevoli del soldato...
«Certo. Poveracci. Erano poveracci. C’era gente normale nelle strade e i soldati erano persone normali che non sapevano quasi dove fossero, perchè fossero lì. In comune avevano un sistema politico, che aveva condizionato, ordinato, guidato la loro esistenza. I miei concittadini volevano discutere, neppure loro capivano, s’interrogavano e interrogavano i soldati. Valeva anche per me. Un giorno passò un carro armato e alcuni mani s’agitarono in segno di saluto. Vidi le facce. Giorni prima avevo conosciuto quei ragazzi. Avevo chiacchierato con loro. Ricordo che un settimanale italiano, Epoca, pubblico a più riprese alcune mie foto di Praga: una volta le presentò come lo sguardo di una soldato russo sull’invasione. Da qualunque parte fossi, ero sempre in mezzo».
Per noi i soldati sono i nazisti e i nazisti ci appaiono sempre orrendi. Lei ricorda la guerra mondiale?
«Ricordo la guerra e ricordo la liberazione. I tedeschi li ho visti, quando attraversarono il mio paese per andare in Russia. Una mattina, davanti a casa, vidi i cadaveri dei partigiani».
Ha avuto paura quei giorni a Praga?
«Le pallottole in certi casi non si sa da dove arrivino. Le senti alle spalle, di lato, di fronte. In certe situazioni non si ragiona più. Una volta fotografai un corteo funebre. I soldati volevano prendermi. Mi rifugiai tra i parenti, che mi coprirono, mi nascosero, mi fecero fuggire su un camion, coperto da un telo. Correvo sempre. Anche per nascondere i rullini delle foto».
Dove li nascondeva?
«Anche sopra lo sciacquone di una toilette. Passavo a recuperarli, quando l’aria era calma».
C’è una sua bellissima foto: tante mani che si protendono per raggiungere una copia del Rude Pravo. I giornali e la radio soprattutto segnarono quella “rivoluzione” come poche altre...
«Infatti gli invasori scelsero come bersaglio privilegiato la sede di Radio Praga, che i praghesi difesero strenuamente».
Nel 1970 lei lasciò Praga con un visto di tre mesi. Sarebbe tornato nel 1990. Dopo vent’anni d’esilio.
«L’esilio ti fa due regali. Il primo sta nella possibilità di ricominciare una vita, tutto daccapo, di nuovo, con la mente aperta, senza pregiudizi nei confronti degli altri e, all’inizio, almeno, ti senti libero. Il secondo sta nell’emozione del ritorno. Vidi la mia città come non l’avevo mai conosciuta».
Tornando, ha fotografato i luoghi della rivolta.
«No, proprio no. Me lo hanno chiesto, proprio ora. No, non mi interessa. La ritengo solo una idea giornalistica».
Nel 1990 le sue foto dell’invasione di Praga vennero presentate e pubblicate nel suo paese. Come furono accolte?
«La gente voleva dimenticare. Dal Sessantotto erano passati vent’anni ed erano stati vent’anni disastrosi nella vita della gente, come se la storia di ciascuno si fosse interrotta e qualcosa, tanto, troppo, fosse andato distrutto. Ci sono voluti anni, perchè la gente riaprisse quella parentesi e ricominciasse a riflettere sul suo destino tra il ‘68 e l’89».
Dopo gli zingari e Praga, ha fotografato il paesaggio, ad esempio quello devastato dalle miniere di lignite a cielo aperto della Sassia e prima le cave nei monti metalliferi della Boemia. Perchè quest’altro tema?
«Un critico messicano mi ha definito il fotografo della “fine”: la fine degli zingari, che devono terminare il loro nomadismo; la fine del socialismo; la fine del paesaggio. Potrei aggiungere che la morte è anche l’unica cosa che ti aiuta a capire la vita: lo scriveva quel critico messicano».
L’esilio per lei è stato anche sinonimo di viaggio...
«Sono quarant’anni che viaggio. Fa parte del mio lavoro. Mi fa sempre un grande piacere arrivare. Mi fa ancora più piacere partire».
Non ha mai pensato di partire per l’Irak o per l’Afghanistan per fotografare quelle guerre?
«No. Non mi attrae la violenza. Mi interessa la parte migliore della gente».
Ripete in inglese: the best of the people. Quante fotografie aveva scattato nel Sessantotto di Praga?
«Duecento rullini. Ho scelto le migliori. Ci sono sequenze di sedici o di quattro fotografie che dovrebbero rappresentare una scena che si evolve, da più punti di vista».
E sfoglia il grande volume, pubblicato in Italia da Contrasto di Roberto Koch, “Invasione Praga 68”, e sfogliandolo insieme rapidamente colpiscono i volti e la intensità degli sguardi. Una pagina è la bellissima immagine di Emil Zatopek, il grande maratoneta, olimpionico, la camicia a quadrettoni, la giacca di lana, beve un caffè, la faccia stanca, in pena. Su Rude Pravo, Zatopek invitava il comitato olimpico internazionale a escludere l’Unione sovietica dai Giochi di Città del Messico.
«Ho scelto le foto migliori. Un buona fotografia mi entra in testa e non la posso dimenticare. Questa è una buona fotografia».
Dove andrà adesso?
«Mi hanno invitato in Israele. Ma non sono sicuro...».

l'Unità 6.7.08
Il '68 di Praga
Solo l’ultima illusione di un mondo scomparso?
di Adriano Guerra


MOVIMENTI Il ’68 dei movimenti e quello di Praga. Il primo - si dice - ha attraversato i confini del secolo ed è giunto, nel bene e nel male, sino ai nostri giorni. L’altro apparterrebbe invece soltanto al secolo scorso: un momento di luce subito spento. La primavera
di Praga, dunque. La "rivoluzione dimenticata", come ha scritto Enzo Bettizza presentando i reportages scritti allora. (Primavera indimenticata è invece il titolo di un piccolo volume preparato dall’Unità nel 1988…). Ma siamo davvero di fronte a momenti di una storia interrotta, anzi finita? Momenti di quando c’erano l’Urss, il comunismo, l’Europa divisa a metà, la Cecoslovacchia che teneva insieme cechi e slovacchi. Un mondo scomparso, ora che l’0ccidente, e la Nato, hanno raggiunto Praga, Budapest, Varsavia… .
Con la sconfitta della primavera di Praga - ha scritto Istávn Rév in un libro di dura e inquietante lettura soprattutto, ma non solo, per chi presumeva di conoscere, anche soltanto per averle vissute, quelle vicende - è caduta «l’ultima speranza di poter riformare il socialismo esistente insieme all’utopia di un socialismo dal volto umano». Ma anche Rév ha un dubbio: perché a Praga - ha scritto - con la «rivoluzione di velluto» del 1991 e l’ascesa dell’ex dissidente Waclav Havel alla testa del paese e del leader della primavera di Praga, l’ex comunista Dubcek, alla presidenza del parlamento, ha preso il via, come già era accaduto in Ungheria, un «racconto di redenzione» congiungendo passato e presente. Mettendo allo scoperto un filo, una connessione che unisce comunisti, comunisti riformatori, socialdemocratici e dissidenti: una «traiettoria - ha scritto ancora Rév - che porta dallo stalinismo all’alleanza diretta fra ex comunisti e anticomunisti». E che - si può aggiungere - porta da un secolo all’altro. Ecco dove sta la linea di continuità che in tutti i paesi dell’Europa centrale ed orientale ha visto i partiti ex comunisti diventare forze di governo…
Accidenti della storia, si dirà. Ma perché non vedere in quel che è avvenuto la prova che l’Europa di oggi è anche il risultato delle lotte - da quelle polacche e ungheresi del ’56, al ’68 cecoslovacco, all’ ’80 polacco - condotte per liquidare i caratteri stalinisti dei regimi che hanno caratterizzato i paesi dell’Est, e recuperare, sull’onda del XX Congresso del Pcus, valori di libertà e di democrazia che erano stati banditi ma che erano tuttavia presenti in quelle società?
Certo non bisogna semplificare troppo. Rév per primo. mettendoci di fronte il macabro balletto del Panteon degli eroi del cimitero di Budapest, cosi come di quelli di Praga e delle altre capitali dell’Europa dell’Est, coi resti mortali delle vittime e insieme dei carnefici dello stalinismo che, ora spostati e ora rimessi negli antichi loculi, quasi si confondono, ci aiuta a non cadere in una lettura troppo facile del passato. Quel che ci viene mostrato è che, in ogni caso ,l a storia di quello che è stato chiamato l’«impero esterno» sovietico è stata caratterizzata dalle lotte dirette a liberare quelle società e quei regimi dalla presenza dello stalinismo considerato alla stregua di un corpo estraneo e quindi separabile dal tessuto economico-sociale.
Certo c’era in questa visione delle vicende del «socialismo realizzato» l’illusione che il sistema sovietico fosse riformabile e che la sua storia non fosse che la storia dei tentativi di riformarlo. Si trattava - sappiamo - di una illusione. Ma quante battaglie di libertà e di democrazia - lo ha ricordato di recente sul Corriere Sergio Luzzatto a Piero Melograni presentando il diario della discesa in campo del diciasettenne Bruno Trentin, sono state combattute - felix culpa della Resistenza - pensando ad ideali che si sarebbero poi rivelati illusori e anche fallaci. Un’illusione dunque quella di Dubcek e degli uomini del «socialismo dal volto umano»? Fino ad un certo punto, se è vero, come è vero, che a Praga - l’informazione viene da Luciano Antonetti - si discute oggi sull’attualità di quel che si è detto e fatto nel ’68 non già soltanto per ricordare l’impatto che quei giorni hanno avuto oltreché sulle rive della Moldava anche a Mosca e a Roma, ma per la validità che i progetti di società democratiche ai quali allora si pensava potrebbero avere per i nostri giorni, per la "democrazia malata" dei nostri giorni.
Quanto all’Italia e alla felix culpa del Pci si può aggiungere che i comunisti italiani, seppure, come ha scritto ancora Luzzatto, guardarono con speranza e fiducia - e non furono certo gli unici a farlo nell’Europa occupata dai nazisti - all’«Armata rossa del maresciallo Stalin», seppero respingere però, e per tempo, le tentazioni sia della «via jugoslava» che tendeva a unificare «rivoluzione antifascista» e «rivoluzione sociale», sia quella successiva e, dall’esito catastrofico, greca. Sempre a proposito del ’68 del Pci è opportuno segnalare ancora che interessanti novità vengono dalle carte che Alexander Höbel, da tempo impegnato sui temi della Primavera di Praga, ha utilizzato per una ricostruzione di quei giorni. Quel che viene in particolare alla luce è la consapevolezza con la quale la decisione - che non aveva precedenti nella storia del partito - di esprimere una posizione decisamente critica nei confronti dell’Unione sovietica è stata presa e sostenuta dal gruppo dirigente del Pci in modo unanime. Anche se nei confronti di Mosca ci si avvicinò in quei giorni - la testimonianza è di Cossutta - al «punto della rottura irreversibile». Occorre «preservare questo nostro partito…. . Ci sono dei prezzi che non possiamo pagare... nemmeno se si dovesse rinunciare ad una edizione dell’Unità» (Il quotidiano usciva allora in edizioni separate a Roma e a Milano), ha detto Giancarlo Pajetta nel corso della riunione della Direzione del 23 agosto 1968 ponendo il problema dell’autonomia del Pci anche sul piano finanziario. Poi, nei mesi, e negli anni, successivi, verranno i distinguo e anche i passi indietro. Ma la posizione critica assunta il 21 agosto venne nella sostanza mantenuta sulla base di una linea che tendeva ad un tempo «ad evitare le rotture - come dirà Berlinguer - e ad approfondire le nostre posizioni…qualcosa di irrinunciabile».
La novità presente nell’atteggiamento del Pci - registra ancora Höbel - venne immediatamente colta dagli osservatori americani: «La posizione del partito italiano - si legge in un messaggio inviato a Washington dall’ambasciatore Ackley - è un rifiuto completo della guida sovietica del movimento comunista mondiale, anche se i comunisti italiani continuano a dire cose educate sull’importanza dell’Urss».
I fatti - come si vide alla conferenza di Mosca del 1969 a conclusione della quale il Pci respinse tre dei quattro documenti finali dedicati ai compiti che il movimento comunista mondiale avrebbe dovuto far propri a sostegno della politica sovietica - hanno confermato la previsione di Ackley. Il che non ha certo impedito che anche il comunismo italiano, per quanto diverso, democratico, occidentale, scomparisse dalla scena. E per ragioni - qui vale l’osservazione di Luzzatto sul carattere illusorio degli obbiettivi di trasformazione perseguiti - che non sono semplicemente imputabili a errori degli uomini, a ritardi e a limiti. Ma questa circostanza non è una buona ragione per stendere veli sulle pagine del passato. Tanto più che, come ci ricorda Rév, e con lui coloro che qui da noi continuano a proporre nomi per il Panteon della sinistra, volenti o nolenti il passato è sempre dentro al futuro.
Enzo Bettizza, La Primavera di Praga: La rivoluzione dimenticata, Mondadori, Milano 2008;
István Rèv, Giustizia retroattiva. Feltrinelli, Milano, 2007,
Alexander Höbel, Il contrasto tra Pci e Pcus sull’intervento in Cecoslovacchia. Nuove acquisizioni, in: Studi storici, n.2, 2007, pp. 523-550 (dello stesso autore si veda la relazione al convegno sulla Primavera di Praga che ha avuto luogo a Roma il 7 e 8 maggio 2008 per iniziativa dell’Università di Roma).

l'Unità 6.7.08
Gerusalemme. I terroristi «free lance»
di Umberto De Giovannangeli


PADRI PREMUROSI Studentesse modello. Fino al giorno in cui decidono di trasformarsi in «shahid» (martiri). Sono i terroristi «free lance». Sganciati dai gruppi tradizionali, e per questo più difficili da individuare. Come Hussam Dwayat, che alla guida di un bulldozer ha seminato la morte nel cuore della Città Santa
Agiscono da soli. Mimetizzati da una vita «ufficiale» irrepresensibile. Coltivano nel segreto della loro mente un odio che li accompagna giorno dopo giorno. Fino all’attimo fatale. Quando divengono «shahid». Sono i «free lance» del terrorismo palestinese. Non sono inquadrati nei gruppi radicali dell’Intifada, non godono del loro sostegno militare e logistico. Compaiono dal nulla e lasciano il segno. Di sangue. Colpendo in una via affollata o seminando la morte in un collegio rabbinico. L’intelligence di Tel Aviv ammette la difficoltà di prevenire queste azioni, perché con i «free lance» del terrore non c’è infiltrazione che regga: agiscono da soli, al massimo con coperture familiari. Agiscono da soli. Come ha fatto Hussam Tayassir Dwayat, che a bordo di una gigantesca ruspa in una torrida mattinata di luglio (il 2) ha seminato la morte nella centrale Jaffa Road. (tre le vittime). Dwayat aveva 30 anni e viveva con la moglie e due figli nel sobborgo di Zur Baher, alla periferia di Gerusalemme Est. I vicini di casa lo descrivono come una persona tranquilla, dedito alla famiglia, un padre che dedicava molto del suo tempo ai due figli. Per anni Dwayat ha avuto come fidanzata una ebrea israeliana, ha rivelato la suocera dell'attentatore palestinese, spiegando che la relazione con la donna risaliva a un periodo precedente al suo matrimonio con una connazionale. Hoda Dabash, suocera dell'attentatore poi ucciso dalle truppe israeliane, ha raccontato oggi che l'ex fidanzata israeliana del figlio era stata ospitata per un mese e mezzo dalla famiglia di lui. L'uomo aveva anche fatto da padre a un figlio di lei, che adesso ha nove anni. Negli ultimi mesi, raccontano ancora i vicini, Dawyat si era chiuso in se stesso, e aveva avuto problemi di droga: si era avvicinato all'Islam, anche se non sembrava avere particolari simpatie politiche. Gli 007 dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno israeliano), hanno rovistato nella sua vita, giungendo alla conclusione che Hussam Tayassir Dwayat, non era inquadrato in alcuna delle tante fazioni armate palestinesi.
Come non era inquadrato Ala Hisham Abu Dheim, 25 anni. Di mestiere faceva l’autista. I suoi datori di lavoro raccontano di un giovane riservato, «parlava poco, mai di politica, ed era sempre puntuale...». Puntuale anche nel giorno dell’orrore. Quella notte del 6 marzo, quando «Hisham l’autista» fa irruzione nel Merkaz Harav Yeshiva, il più importante collegio rabbinico di Gerusalemme, nel quartiere di Kyriat Moshe, noto centro di studi ebraici vicino al movimento dei coloni. Hisham, travestito da studente, raggiunge l’ingresso del collegio e si dirige verso la biblioteca, in quel momento affollata di studenti intenti alla lettura. In un attimo si scatena un inferno di piombo. Il bilancio è di nove morti (otto studenti più l’attentatore) e sette feriti. Hisham Abu Dheim aveva passaporto israeliano e abitava a Gerusalemme Est. Aveva lavorato come autista anche nel collegio che quella notte aveva trasformato in un campo di battaglia. Anche lui era un «free lance» del terrore. Hisham veniva da una famiglia benestante, molto conosciuta: Hisham, racconta suo cugino Yad, era una persona semplice, lavorava come autista, era religioso certo, ma non integralista. Doveva sposarsi con Rihad, 17 anni; stava allestendo l’appartamento in cui sarebbe andato a vivere con la moglie, sempre nella grande casa della famiglia. «Nessuno in famiglia si occupa di politica», ripete Yad.
Persone all’apparenza irreprensibili, se non addirittura un modello di generosità. Come Wafa Idris, la prima donna-kamikaze palestinese. Wafa Idris era una volontaria delle squadre di pronto soccorso della Mezzaluna Rossa, una che curava feriti e salvava vite umane. «Voleva essere d’aiuto, ne traeva grande soddisfazione», è il ricordo di Wael Qadan, direttore della Mezzaluna Rossa di Ramallah. Wafa Idris il 28 gennaio 2002 si è fatta saltare in aria in Jaffa Street: oltre se stessa, ha ucciso una guida turistica di 81 anni e ferito alcune dozzine di persone. Wafa aveva 28 anni. Qualche mese prima si era iscritta a un corso di specializzazione che sarebbe dovuto cominciare in marzo e che l’avrebbe qualificata a dedicarsi esclusivamente, a tempo pieno e professionalmente, e dunque non più solo come volontaria, agli interventi di assistenza medica urgenti.
Nelle prigioni israeliane vi sono 75 terroriste palestinesi che hanno tentato un’azione suicida, o l’hanno progettata o hanno fiancheggiato altri attentatori. Tra le 75 c’è Samaa Atta Bader, 23 anni di Nablus, laureanda in legge dell’università Al-Najah: «Io - racconta - ho deciso di sacrificarmi per vendicarci uccidendo più soldati che potevo». Samaa è stata arrestata, in seguito ad una soffiata, il 16 giugno 2004. Ha detto che non ha avuto bisogno di particolare preparazione ideologica, giacché aveva sentito parlar molto a scuola della «shaidada » (il martirio) e poi, ha aggiunto, «il 99% dei miei amici che hanno avuto fratelli o parenti ammazzati è pronto al sacrificio».
Hussam, Hisham, Wafa, Samaa...Sono solo alcuni dei terroristi «free lance». Un frammento di un terrorismo che si proietta su scala mondiale, più pericoloso perché invisibile, anonimo e autonomo da ogni organizzazione e comando superiore, centralizzato. I nuovi terroristi, rimarca Jason Burke, tra i più autorevoli studiosi di Al Qaeda, saranno «operatori free lance» privi di connessioni palesi con i gruppi tradizionali.
Non solo Gerusalemme ma anche altre città israeliane hanno conosciuto la determinazione feroce di questi terroristi dal volto «angelico». Come era quello di Hanadi Taysir Jaradat. Hanadi, 29 anni, aveva studiato in Giordania ed esercitava la professione di avvocato a Jenin, in Cisgiordania, sua città natale. Jenin, tristemente nota come la «capitale» dei kamikaze. È il 4 ottobre 2003, quando una potente esplosione in un ristorante sul lungomare di Haifa, città portuale nel nord d’Israele, provoca 19 morti, tra cui cinque bambini fra i due e i quattro anni, oltre una cinquantina di feriti. A farsi saltare in aria è Hanadi Taysir Jaradat, la kamikaze dalla faccia d’angelo. Si è voluta sacrificare, spiegarono i familiari, per vendicare il fratello e suo cugino, ambedue miliziani della Jihad islamica uccisi dalle truppe israeliane. Sono solo alcune storie esemplari di una lunga gallerie di terroristi «free lance», di uomini e donne della «porta accanto» che un giorno hanno spalancato le porte dell’inferno.

Corriere della Sera 6.7.08
Madrid Offensiva del premier socialista contro la Chiesa anche sull'aborto
Zapatero: via i crocifissi dai luoghi pubblici
Il Psoe: «Un diritto l'interruzione di gravidanza»
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — Per i socialisti del premier Zapatero la Spagna non è ancora abbastanza laica. Ed è anche arrivata ora di rimettere mano alla legge sull'aborto, mentre si comincia a parlare, seppure sommessamente, di eutanasia. Il 37˚ congresso del Psoe, che conclude oggi tre giorni di lavori a Madrid, traccia le linee di un futuro che non concilierà il sonno dei vescovi più conservatori: via i crocifissi da scuole e uffici pubblici; niente più giuramenti ufficiali sulla Bibbia, niente più funerali di Stato secondo il rito cattolico.
Laicità al centro del 37esimo Congresso dei socialisti. Che chiedono anche l'abolizione dei funerali religiosi di Stato

MADRID — Arrivano tutte insieme, anche se non proprio inattese, le cattive notizie per il presidente della Conferenza Episcopale spagnola, cardinale Antonio María Rouco Varela: secondo i socialisti, al governo, la Spagna non è ancora abbastanza laica. Ed è anche arrivata ora di rimettere mano alla legge sull'aborto, ormai più che ventenne; mentre si comincia a parlare, seppure sommessamente, di eutanasia. Il 37esimo congresso del Psoe, che conclude oggi tre giorni di lavori a Madrid, traccia le linee di un futuro che non concilierà il sonno dei vescovi più conservatori della Chiesa iberica: via i crocifissi da scuole e uffici pubblici; niente più giuramenti ufficiali sulla Bibbia, niente più funerali di Stato secondo il rito cattolico. Il partito di maggioranza non prevede una tabella di marcia serrata e, dopo molte discussioni e ripensamenti, ha deciso di aggiungere l'avverbio «progressivamente» nel comunicato (non vincolante per il Governo) in cui riassume i suoi propositi di riforma della Legge organica sulla libertà religiosa. Ma «la Chiesa cattolica deve essere cosciente che la Costituzione non le riconosce privilegi », si legge nella nota.
Pur ammettendo che «democrazia e religione non sono incompatibili », i socialisti spagnoli si impegnano a realizzare «la laicità che la Costituzione conferisce allo Stato». E citano i passi già compiuti in questa direzione, più o meno gli stessi che, sei mesi fa, avevano spinto la Conferenza episcopale spagnola a chiedere agli elettori cattolici di non votarli: l'educazione civica nelle scuole, il riconoscimento dei matrimoni omosessuali, lo snellimento delle pratiche per il divorzio, l'impulso alla ricerca biomedica.
La questione più dibattuta è stata quella dei funerali di Stato: se non saranno celebrati secondo il rito cattolico, quale liturgia alternativa può proporre un sistema perfettamente laico e aconfessionale? Nella versione definitiva del testo, la segreteria del Psoe ha preferito sfumare il tenore iniziale considerando piuttosto «indispensabile una legislazione che stabilisca nuovi criteri di collaborazione tra confessioni religiose e amministrazioni pubbliche e assicuri a tutte le confessioni un trattamento uguale». Pur senza ritoccare gli accordi raggiunti nel 1979 tra Stato e Santa Sede, come reclamava invece l'ala oltranzista, rappresentata da Izquierda Socialista.
Ieri il Segretario organizzativo del Psoe, José Blanco, ha aggiunto altre spine nel fianco dei vescovi annunciando che la legge sull'aborto dovrà essere rivista. Proposito confermato dalla numero due del Governo, Maria Teresa Fernández de la Vega, che ha parlato di una «riforma avanguardista in difesa dei diritti delle donne». Una commissione di esperti studierà la situazione in Europa per ispirarsi alle leggi più avanzate, prima di formulare modifiche alla normativa del 1985. Durante la campagna elettorale il Premier e Segretario del partito (riconfermato ieri col 98,53% dei voti), José Luis Rodríguez Zapatero, interrogato sull'argomento, aveva preferito mantenersi vago, sostenendo che non c'era urgenza né necessità di modificare la legge.
Un'altra donna, infine, entra nella direzione del Psoe: Leire Pajín, basca, 32 anni, attuale Segretaria di Stato per la Cooperazione internazionale, è la nuova numero tre del partito.

Repubblica 6.7.08
La lezione che arriva da Madrid
di Guido Rampoldi


Se crediamo agli scettici, particolarmente numerosi in Vaticano, Zapatero non ha alcuna intenzione di entrare in urto con la Santa Sede, tantomeno con i partitini cattolici che gli prestano i voti necessari a governare.
Dunque non dovremmo prendere sul serio i cambiamenti promessi ieri dalla direzione del partito socialista, dall´introduzione dell´eutanasia ad una riforma dell´aborto.
Progetti del resto vaghi, proiettati in un futuro indefinito (i «prossimi anni») e condizionati ad una «domanda sociale» che al momento pare debole. E per tutto questo staremmo assistendo non ai preparativi per una nuova «offensiva laicista», formula che piace molto all´impressionabile curia spagnola, ma ad una manovra diversiva: Zapatero intenderebbe sia accrescere la confusione nella destra spagnola, dove liberali e clericali sono entrati in frizione, sia accontentare la sinistra del partito socialista, cresciuta con le elezioni di marzo, nelle quali il Psoe ha anticipato il Pd di Veltroni perdendo molti voti dove li cercava, nel centro, e risucchiandone altri dall´area rosso-verde. Eppure la questione che i socialisti ormai da anni reiterano non è affatto strumentale: nell´Europa multietnica quale posto spetta oggi ai cleri delle religioni nazionali? Può la Chiesa cattolica rivendicare una centralità, e i relativi privilegi, in base ad una sorta di diritto storico?
A queste domande finora la curia spagnola ha risposto con una tesi debolissima, i socialisti con una condotta ambivalente. Come la direzione del Psoe ha ribadito ieri, la religione cattolica è la fede più praticata in Spagna ma certo non l´unica. La Costituzione spagnola «non le assegna alcun privilegio», e di questo la Chiesa «deve essere cosciente», ammonisce il vertice socialista. Per questo in futuro i funerali di Stato non saranno celebrati con rito cattolico, e i crocefissi spariranno dagli uffici pubblici, dove peraltro sono da lustri quasi introvabili.
Ma mentre faceva la voce grossa il governo socialista manteneva, e addirittura ampliava, i privilegi economici di cui oggi gode la Chiesa cattolica. Ha influito la folta presenza cattolica nell´elettorato socialista, e forse anche la consapevolezza che quando si tratta di dare concretezza alla parola più utilizzata dalla sinistra, "solidarietà", chi ha una fede autentica è più generoso di noi liberi pensatori.
Ma il trattamento di favore ottenuto non ha placato la curia belligerante. Capeggiati dal primate di Spagna, Canizares, questi prelati sostengono che la Chiesa spagnola (dunque essi stessi) è custode dei valori nazionali. Per così dire li incarna, li rappresenta. Già il fatto che esistano "valori spagnoli", capaci di spandersi come un dna in ciascuno, è tesi spericolata. E anche a prendere sul serio quello spengleriano "carattere dei popoli", bisognerebbe dimostrare che i "valori spagnoli", in teoria costruiti dalle vicissitudini storiche, sono intrinsecamente cattolici. Un profano, per esempio, potrebbe obiettare che in Spagna i costumi sessuali hanno scarse relazioni con la morale predicata per mille anni dai pulpiti, e molte di più con la grande tradizione anarchica e protofemminista, comunque anticlericale, del Novecento. Se ne potrebbe discutere per anni: quel che qui importa è lo slittamento "politico" che comporta l´arroccarsi nel recinto dei "valori nazionali" e delle "radici cristiane".
Se si tribalizza per difendere la propria centralità dagli assalti del "relativismo" e dall´invasione di fedi straniere, le religioni degli immigrati, la Chiesa cambia. Perde non solo lo slancio universalista ma anche la vocazione grossomodo liberale che le aveva instillato il pontificato planetario di Wojtyla. E finisce per consegnarsi a protettori interessati. Come risulta chiaro da quel che sta avvenendo dentro il Partido popular, l´avversario dei socialisti. Con il congresso di giugno il capo del Pp, Mariano Rajoy, ha spostato l´asse del partito verso «il centro», come dice lui, comunque lontano dalle posizioni della curia belligerante.
Quest´ultima appoggia apertamente con la sua radio, la virulenta Cope, quella destra radicale guidata da Aznar che è uscita dal congresso sconfitta ma non debellata. A spaccare il partito adesso sono anche questioni "etiche" che molti prelati giudicano fondamentali, dalla legge sui matrimoni gay (difesa da una parte del Pp) fino all´ideologia delle "radici cristiane", che lascia assai tiepido Rajoy. Ma anche la relazione con il passato divide.
A giudicare dai loro silenzi non pochi prelati rimpiangono i tempi di Franco, quando la Spagna era sempre in processione. E anche in questo hanno trovato una sintonia con la destra della destra, quella che rifiuta di condannare la dittatura e perfino di cancellare i titoli onorifici attribuiti al Caudillo da alcuni municipi.
Quando lo guidava Aznar, il Pp era il partito che in Europa Berlusconi e Fini consideravano a loro più prossimo. Con Rajoy non c´è la stessa simpatia. Ma quanto avverrà a Madrid potrebbe ugualmente essere di ammaestramento in Italia all´attuale maggioranza, come il Pp una sommatoria di culture politiche difficilmente conciliabili. Dopotutto anche nella destra italiana c´è chi ha sufficiente dignità e senso dello Stato per aspirare a rappresentare quel che la Spagna ha e l´Italia non riesce a darsi: una destra laica e liberale, una destra europea.

il Riformista 6.7.08
Pieranunzi, jazz da camera
di Vittorio Castelnuovo


Attivo dagli anni Settanta ed approdato recentemente all'etichetta Cam, con la quale ha inciso dischi di diseguale valore, il musicista Enrico Pieranunzi, che sta al jazz come il suo mentore Giorgio Manganelli stava alla letteratura, ha realizzato un disco («Enrico Pieranunzi plays Domenico Scalatti») che formalmente mette insieme il gusto dell'improvvisazione, matrice afro-americana dalla quale proviene, con la tradizione cameristica, cui appartiene invece il clavicembalista Domenico Scarlatti. Figlio d'arte di Alessandro Scarlatti - proprio come Enrico, ricordando il papà Alvaro, bravissimo chitarrista - Domenico nacque a Napoli nel 1685 e morì a Madrid nel 1757; compiendo un tragitto simile a quello di Luigi Boccherini, l'altro schietto rappresentante del Settecento strumentale italiano, che venne al mondo a Lucca nel 1743 e si spense sempre a Madrid nel 1805. Dietro una logica musicale incalzante ed una serenità quasi pastorale, dove venivano adunate tutte le grazie del secolo di appartenenza, nella sua musica Scarlatti anticipava ed educava il tempo con improvvise forme di malinconia, secondo una dolente ed incessante esplorazione che trova riscontro nella parabola contemporanea del pianista romano.
Sono stati numerosi gli esperimenti effettuati per accostare i due modi, giustapponendoli spesso con effetti suggestivi; pure rammentandone i risultati discontinui, è opportuno citare per esempio il lavoro del brasiliano Uri Caine, multiforme e contraddittoria figura di agitatore musicale perfetta per i palinsesti attuali. Ma nell'album di Pieranunzi, lungo il canale sotterraneo individuato quasi attraverso una fedeltà all'enigma del passato e grazie al quale le due esperienze sono messe sullo stesso piano arrivando a formare un unico racconto melodico, c'è qualcosa di differente. Ripensa il paesaggio mentale, combinando musica e significato, individuando un'espressione ancora innominata, un incanto ancora inedito: l'illusione di aver trovato il segreto, la luce che rispetta la nostalgia dell'ombra, il presentimento di una svolta.
Con l'ausilio del solo pianoforte; chiamando a sé sia le mezze ombre della cultura indio-europea, che il desiderio e gli inganni dell'immaginario occidentale, Enrico Pieranunzi ribadisce come la via diretta gli sia preclusa. Affermando, pur nel bisogno di essere ascoltato, la propria diversità anche rispetto all'arte e celebrando l'avvento della differenza.
«Enrico Pieranunzi plays Domenico Scalatti», Cam