Negato il voto ad una trentina di iscritti, ma “passano” la compagna e l’ex portavoce di Ferrero
Rifondazione, la guerra delle tessere in salsa trasteverina
di s.c.
Sempre peggio, dentro Rifondazione comunista. A incendiare le polveri questa volta (dopo l’annullamento del congresso di Reggio Calabria vinto dalla mozione Vendola) è quanto avvenuto al circolo Trastevere di Roma. Lo racconta l’ex senatrice Prc Rina Gagliardi: «La commissione politica ha contestato il diritto di voto a una trentina di iscritti». Motivo? «La loro iscrizione non sarebbe stata visionata dal direttivo quando invece le iscrizioni, tutte regolari, erano note alla federazione». Un cavillo, lamentano i vendoliani, che ha escluso dal diritto al voto persone tutt’altro che di ignota provenienza, come la capo ufficio stampa del Prc al Senato Nanni Riccobono, lo storico ambientalista Bernardo Rossi Doria, molti che venivano dalla storica sezione romana del “manifesto” di via Pomponazzi. È stata consentita la votazione soltanto “sub judice” all’ex senatore Prc Salvatore Bonadonna, essendosi trasferito da Monteverde, e alla dirigente Cgil Wilma Casavecchia, entrambi iscritti al Prc da 14 anni. «La cosa particolare - osserva Gagliardi - è che non è stato fatto nessun problema a due neo iscritti: la compagna di Paolo Ferrero e l’ex portavoce dello stesso ex ministro».
E la cosa ancora più particolare sono i tempi, viene denunciato sul sito della mozione Vendola: «Il direttivo aveva avuto modo di vistare e convalidare solo alcune iscrizioni, incluse le due di cui sopra, e purtroppo non le altre. Solo che gli esclusi si erano iscritti prima dei due fortunati compagni votanti, non dopo. Com’è che il direttivo per loro non ha trovato tempo? Braccia allargate. Il lavoro, gli impegni...».
Ferrero si dice «disgustato»: «Capisco che io sia oggetto di denigrazione, ma non avrei mai immaginato di veder coinvolta la sfera affettiva. Mi chiedo se sia questa la nonviolenza che chiedeva Vendola nella discussione interna». Quanto alla legittimità dei tesseramenti, l’ex ministro dice che «a pronunciarsi sarà la commissione di garanzia».
Non servono commissioni per capire che per il Prc la parola fine è già stata pronunciata.
l'Unità 7.7.08
Il Psoe incorona Zapatero: più diritti nella mia Spagna laica
di Toni Fontana
Torri panciute a forma di dirigibile, strade larghe, ponti ciclabili, condomini dalle forme avveniristiche abitati da un ceto medio preoccupato per la crisi, ma che prenota ristoranti da 80 euro a coperto con due giorni di anticipo. Ecco la città del terzo millennio, tutta fast food e giochi per i bimbi, che il Psoe di Zapatero ha eletto a tempio della politica. Dal Campo de La Naciones, Madrid Est, è partita la carovana socialista finita trionfalmente il 9 marzo, qui, nel faraonico palazzo dei Congressi, Zapatero ha strappato ai militanti il secondo mandato (2004) con il 95,5% del voti e ieri, ha chiuso il 37° congresso con un discorso dai toni utopici, fortemente realistici, insistentemente orgogliosi.
Ha alzato la voce solo quando ha attaccato la destra che lo accusa di inerzia di fronte ai crescenti affanni dell’economia, per ribadire che la Spagna uscirà dall’empasse senza ridurre salari e pensioni, ma anzi tutelerà «chi è più debole e vulnerabile», ha centrato le conclusioni sui «valori umani che prevalgono sulla logica del denaro», sul «socialismo come progetto di convivenza e di integrazione» sul «diritto degli immigrati di partecipare al benessere del Paese», ha strappato applausi scroscianti rivolgendosi ai 995 delegati di «un parito unito, capace di produrre idee».
Per assurdo, il leader di un paese moderno, laico e dinamico come la Spagna, ha chiuso il Congresso del suo partito con un risultato «bulgaro», è stato acclamato dal 98,5% dei delegati, la linea seguita dal gruppo dirigente ha ottenuto il 100% dei consensi, le conclusioni delle commissioni di lavoro sono state approvate per acclamazione, pressochè all’unanimità. Finito il discorso del leader, i delegati hanno tirato per mani i trolley e sono corsi alle stazioni tra abbracci e qualche lacrima. Non c’è retorica in tutto questo. Il Psoe appare oggi una formazione anomala in Europa, qualcuno scherza e definisce quello di Zapatero «l’ultimo partito leninista», e, quando ieri si stavano spegnendo i riflettori, molti, anche tra i ministri, hanno alzato il pugno e cantato con le lacrime agli occhi l’Internazionale.
La più convinta è apparsa la 31enne Liere Pajin, che teneva un braccio «ad angolo retto» con il pungo chiuso in alto e l’altro attorno al collo di Zapatero che l’ha eletta responsabile dell’organizzazione del Psoe, la numero tre del partito.
Politicamente il Congresso è apparso tuttavia a tratti noioso e scontato.
La temuta ribellione della sinistra socialista non c’è stata, gli uomini di Zapatero hanno assorbito le critiche con una decisa e marcata svolta «izquierdista». Il leader doveva ribaltare tre accuse che, dal 9 marzo (vittoria con il 43,87%, 169 deputati, sette meno della maggioranza assoluta), rimbalzano sulla stampa e fanno presa anche tra i militanti: inattività legislativa, cedimento alla destra sui temi dell’immigrazione, occultamento della verità sulla crisi economica. Zapatero ha risolto la prima questione assicurando che la Spagna «continuerà sulla strada delle riforme per le modernizzazione». E ieri ha elencato le iniziative che sono in cantiere. La revisione della legge sull’aborto (rimasta invariata da 23 anni) appare una priorità. «Nessuna donna che abortisce può essere incriminata» - ha detto ieri Zapatero alludendo a recenti inchieste avviate dalla magistratura. E negli emendamenti approvati all’unanimità si parla di «rispetto della volontà della donna» e di «diritto alla salute e al controllo della maternità».
Si tratta comunque di indicazioni. La vice di Zapatero, Maria Teresa de la Vaga ha annunciato che la revisione della legge «sarà ampia», ma il Congresso non è entrato nei dettagli. Né Zapatero, né i documenti congressuali parlano espressamente di eutanasia, ma il leader ha accennato ieri al diritto «ad una morte degna» e nelle relazioni approvate si accenna ad un «aiuto per porre fine all’accanimento terapeutico». Anche in questo caso il Congresso si limita ad aprire un dibattito.
In quanto al contrastato rapporto con la Chiesa cattolica il leader socialista si è limitato a ribadire «il carattere laico dello Stato», approvando così indirettamente le indicazioni emerse nel dibattito come l’abolizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici (quindi anche i crocifissi nelle scuole) e l’abolizione di funerali di Stato con rito religioso. Al tema dell’immigrazione Zapatero ha dedicato buona parte del suo intervento. Molti militanti, anche pubblicamente, hanno manifestato dissenso per l’appoggio dato dagli europarlamentari del Psoe alla Direttiva del Rientro che apre la strada alla detenzione anche per 18 mesi nei Cpt.
Intervistato da El Pais, Zapatero si è spinto a definire «progressista» la direttiva di Bruxelles e ieri, per sedare i malumori, ha spiegato che la Spagna si oppone all’immigrazione illegale, ma offre la «piena integrazione» agli stranieri regolari che, ben presto, potranno votare alle elezioni amministrative.
Poi ha scatenato l’applauso della platea aggiungendo che «se negli asili non ci sono posti liberi non è colpa degli immigrati e dei loro figli, ma degli amministratori». Non tutti, all’esterno del partito, sono convinti che la svolta laicista sia sufficiente per dissipare i dubbi che circondano i primi 100 giorni del secondo governo Zapatero. El Pais sospetta ad esempio che il leader «eluda le risposte» in special modo sulla crisi.
Qualche dato aiuta a capire ciò che bolle in Spagna. Nel settembre 2007 la crescita del Pil viaggiava sul 3,3%, due mesi dopo sul 3,1%, si attestava al 2,3% nell’aprile 2008 e ora sta sotto al 2%. Secondo analisi diffuse ieri il salario medio spagnolo si è ridotto dello 0,7% (18mila euro contro 19mila dell’Italia). La crisi si fa sentire soprattutto nel settore edilizio e molti immigrati stanno rischiando il posto. Zapatero ha aperto il Congresso assicurando il «governo rilancerà la crescita economica, mantenendo e aumentando, le politiche sociali».
Ieri ha detto che gli investimenti stranieri sono aumentati del 50% (16 milioni di euro nelle ultime settimane) e soprattutto ha orgogliosamente ribadito la sua fiducia sul fatto che la Spagna saprà superare le difficoltà puntando «sull’innovazione ed il rilancio delle infrastrutture». Lotta alla fame e ai mutamenti climatici, energie rinnovabili (obiettivo è di arrivare al 20%), aiuti ai Paesi in via di sviluppo sono stati gli altri temi toccati da Zapatero.
Oltre 200 gli invitati, 50 le delegazioni straniere. Per il Pd c’erano Lapo Pistelli e Luciano Vecchi. «Nelle peculiarità della Spagna - osserva Vecchi, della direzione del partito di Veltroni - è interessante l’approccio del Psoe allo sviluppo dei diritti individuali in un’ottica di responsabilità collettiva. L’affermazione dei diritti non è solo di principio, ma rappresenta una leva per favorire la trasformazione sociale ed economica del Paese».
l'Unità 7.7.08
Un premier senza paura
di Luigi Bonanate
La parabola delle leadership europee è estremamente volubile: Gordon Brown è in caduta libera, Sarkozy si aggrappa alla Betancourt per avere un po’ di successo in Francia, Berlusconi... beh, lasciamo andare. Invece Zapatero (fresco vincitore delle elezioni, per la seconda volta, sei mesi fa) va a gonfie vele.
Non soltanto gli spagnoli hanno scoperto che non porta sfortuna e non più di una settimana fa ha accompagnato alle vittoria europea la squadra di calcio nazionale, ma c’è di più.
Mentre in Italia facevamo i conti per stabilire definitivamente se il prodotto nazionale lordo spagnolo avesse davvero superato quello italiano, Zapatero — e questa è davvero una notizia — faceva politica. La faceva proponendo la ridiscussione della legge sull’aborto, sulle lungaggini delle pratiche per il divorzio, sulla morte assistita, sulla presenza o meno dei crocefissi nelle aule, sui funerali di Stato cattolici: tutti temi di chiara impostazione sociale su cui il premier ha chiamato al dibattito le assise del suo partito, il Psoe. Zapatero ha capito che la politica deve dettare, più che i contenuti, le procedure secondo le quali evolve una società. Proprio questo è la democrazia in azione: dibattiti e discussioni destinati non a stabilire che cosa sia vero o giusto (anche se tutti abbiamo il dovere di ricercarlo) ma cosa appaia più equilibrato a una pubblica opinione. A questo servono le elezioni. Quando la politica svolge la sua funzione di regolatore della vita sociale anche i treni possono arrivare in orario (come effettivamente in modo stupefacente succede in Spagna) senza aver bisogno del fascismo.
Già, il fascismo spagnolo: è caduto da quasi un quarto di secolo, ma in molti di noi è rimasto vivo lo stereotipo di una Spagna «cattolicissima», che non fu invece altro che uno degli artifici mediatici del regime franchista per accreditarsi come un governo tradizionale e storico. La cultura spagnola — dopo il «siglo de oro» e fino al franchismo — non ha mai sofferto di crisi religiose come è successo alla Germania o alla Francia con le guerre di religione. Si può essere cattolici senza esser fascisti e, a dire il vero, la maggior parte dei fascisti non sono veri cattolici. Sembra proprio questa la chiave di volta che consente a Zapatero di vincere le elezioni sia quando sono politiche sia quando si svolgono all’interno del partito: adesso è stato riconfermato (terza volta) alla segreteria del Psoe: senza rivali. Era successo — chi se lo ricorda ancora? — anche a Bettino Craxi, qui da noi, che venne addirittura rieletto, nel 1984, per acclamazione, suscitando il famoso articolo di Bobbio sulla democrazia dell’applauso. La differenza, con Zapatero, è che al posto della demagogia si fa politica: anche in questo il modello-Zapatero appare tanto diverso da quello della maggior parte dei suoi colleghi europei. Il suo è un governo che lavora tutti i giorni, per così dire, e non si intorcina in improbabili riforme della giustizia, non si disperde nei decreti sulle intercettazioni (tutti i Paesi del mondo hanno una chiara e sufficiente legislazione al riguardo: basterebbe rispettarla) ma cerca di costruire un modello di Stato. Non è proprio questo il compito di quello che chiamiamo «statista»?
In questo quadro, la politica religiosa del governo spagnolo merita di essere considerata per quel che propone, e non sulla base di stucchevoli pregiudizi sull’anti-clericalismo o sul laicismo. La riaffermazione della laicità, invece, è uno dei capisaldi proprio di quelle radici cattoliche dell’Europa che — giova non dimenticarlo — si nutrono anche di universalismo, tolleranza, interculturalità e libertà (anche religiosa: e per tutti). Quale credente vorrebbe mai vedere la sua religione imposta ai non credenti con le baionette? E così Zapatero, al potere da cinque anni, ha sempre seguito una linea coerente senza trasformarsi o piegarsi di fronte a difficoltà occasionali. E curiosamente, i risultati non solo sono giunti senza troppe difficoltà ma anche senza grande chiasso: si è discusso di più in Italia, senza concluder nulla, di coppie di fatto o di matrimoni gay che non in Spagna. In Spagna tutto ciò è ormai acquisito e la società spagnola non si è disgregata, mentre in Italia non se ne è fatto nulla — come dire: abbiamo perso tempo e la società non si è migliorata per nulla, non ha saputo dare prova della benché minima capacità di auto-riformarsi.
Il modello-Zapatero — il potere non logora chi sa far politica (chi vuole lo applichi anche a Berlusconi) — potrebbe esserci particolarmente utile nel momento in cui, ai confini dell’Europa, si annuncia un nuovo grande, intricatissimo, conflitto religioso. O politico? La Corte costituzionale turca sta, verosimilmente, per mettere fuori legge il partito politico che ha espresso niente meno che il Primo ministro in carica, Erdogan, con l’accusa di violazione dei princìpi laici e a-confessionali della Costituzione turca, voluta da Atatürk ormai un secolo fa, al termine di una storia, quella dell’un tempo grandissimo, potentissimo e religiosissimo impero turco. Che politica e religione non dovessero mescolarsi e reciprocamente sfruttarsi è una lezione che i turchi sembrano aver dimenticato tanto che corrono verso una crisi istituzionale estrema che rischia, tra l’altro, di escluderli definitivamente dalla rincorsa del treno europeo.Anche per questo diciamoci che, di religione e crocefissi, di veli che coprono la donna sul capo, sul viso o sul corpo, si può discutere senza che nessuno debba gridare allo scandalo: questa sì sarebbe una bella notizia. Rispettare tutti vuol dire rispettare usi e costumi di chiunque, in quanto portatori di storie, saggezza popolare, tradizioni. Invece che scontrarsi a ogni passo, potrebbero meglio convivere le une con le altre se accettassimo di parlarne e discuterne senza arroganza, senza pregiudizi, sena paura di perdere: in democrazia c’è sempre modo di rifarsi. C’è stato un tempo in cui il crocefisso veniva brandito come una clava: se Dio vuole, proprio i cattolici se ne sono liberati, e ora possiamo darci programmi di discussione evoluti e consapevoli. Si può far politica anche senza anatemi. Anzi, è ancora meglio.
l'Unità 7.7.08
Scusi, da che parte si va per il nirvana?
di Ugo Leonzio
TUTTI IN INDIA Lo desideriamo, lo cerchiamo, lo inseguiamo. Ma né la beatitudine di una vacanza perfetta, né qualsiasi altra forma mistica di piacere, assolutamente nessuna, può essere il «nirvana», perché non c’è...
Non si lascia catturare neppure dall’estasi cerebrale, di cui parla per esperienza la neurologa Jill Bolte Taylor
Il suo segreto è racchiuso in questa piccola frase «Io sono ciò che mi assorbe», cioè uno specchio vuoto
Quando l’India era ricca solo di fachiri e sui marciapiedi si respirava ancora quell’odore di merda bollita che alcuni scaltri viaggiatori definirono poi l’odore dell’India, mi capitò di passare a Benares (Varanasi) una notte, insonne per il caldo e le zanzare in un ashram per vedove anziane o morenti che non avevano trovato asilo neppure nella casa della morte, a fianco al Manikarnika Ghat, sulla riva occidentale del Gange, dove si bruciano i cadaveri e ci si libera per sempre. Mi aveva portato lì, un errore della leggendaria guida dell’India, Seeking the Master. La «guide bleu» dei guru e degli ashrams pubblicato a Londra da MacMillan non specificava che l’ashram era per sole donne. Era il periodo dei monsoni e non c’era un buco per dormire neppure negli alberghetti di Godaulia intorno a Vishwanath, il tempio d’oro dedicato a Shiva.
Un’offerta generosa di rupie convinsero la decrepita direttrice dell’ashram a concedermi un angoletto duro e nudo sotto la tettoia. La notte era lunga, a poco a poco si spensero i mantra dei pellegrini, rimasero solo i latrati dei cani.
La città era poco illuminata, solo remoti lumini di lampade a olio sfioravano le ombre che non potevano prendere sonno.
Anche la vecchia non dormiva. Aveva smesso il suo mantra infinito «Ram, Ram, Ram» e osservava i corpi delle sue ospiti avvolti nei sari senza colore, sembrava contarli. Di tanto in tanto i suoi occhi scuri e senza ciglia si posavano sui miei. Provai a chiederle se davvero nella santa città in cui ci trovavamo, la più antica, la più santa dell’India, si poteva raggiungere, morendo, il sospirato nirvana per cui mi ero messo in viaggio su un decrepito magic bus con l’esile conforto di una pipetta afgana.
La sua bocca socchiusa non cercò una risposta, con un movimento impercettibile della mano indicò l’unico angolo illuminato del pavimento dove formiche, mosche e zanzare combattevano una lotta fratricida per la conquista di un escremento di cane. Le mosche ebbero la meglio e si addensarono come una bocca vibrante su quel pasto coprendolo con un ronzio eccitato. Durò qualche minuto poi le inghiottì il silenzio, un silenzio così profondo che sembrava digerire anche la notte. Le mosche erano catturate da un’estasi così profonda da crollare una dopo l’altra sul quel torbido tesoro.
La vecchia indicò l’escremento e a voce così bassa che un dormiente non avrebbe potuto udire, sussurrò: «Nirvana». Lo ripetè più volte, a voce sempre, come se si trattasse di un segreto tra noi, mentre le mosche si erano risvegliate e difendevano forsennate il loro fragrante nirvana, dall’ennesimo attacco delle formiche.
La vecchia era troppo saggia per prendermi in giro e mostrandomi quell’oggetto di desiderio mi faceva capire che nessuna forma di piacere, assolutamente nessuna, può essere il «nirvana».
Il piacere è una metamorfosi del dolore. E l’ego è l’oggetto di questa metamorfosi. Dove c’è un ego non può esserci il nirvana. Ma le mosche non hanno un ego. Il nirvana indicato dalla vecchia era certamente diverso, almeno in parte, da quello sperimentato da Jill Bolte Taylor, neurologa della Harvard University, specializzata in sofisticate ricerche cervello. Certo, non è una cosa cui pensiamo tutti i giorni ma proviamo a immaginare cosa accadrebbe se ci colpisse un ictus, mentre ci svegliamo o camminiamo per strada? Un dolore acuto in fondo al bulbo oculare o in un punto incredibilmente profondo al centro del cervello. Un grosso e grasso vaso sanguigno si rompe e nel giro di qualche minuto il lobo sinistro del cervello, sorgente prediletta del nostro ego, del giudizio, dell’analisi, e del gusto comincia a spegnersi. Buio, confusione, panico? No, al contrario. Ci si libera da una prigione, ci sentiamo leggeri come il genio di Aladino quando esce dalla sua claustrofobica lampada.
Il chiacchiericcio della mente, l’implacabile brusio che produce i pensieri scivola via trasciandosi dietro i problemi, le delusioni, le ansie, le speranze che lo tengono in vita. Le percezioni fisiche cambiano, non si limitano più al ristretto confine su cui la nostra epidermide incontra solitamente l’aria ma possiamo vedere atomi e molecole costruire il nostro corpo mescolando atomi e molecole con lo spazio intorno a noi. Ci è chiaro finalmente, che tutte le creature, gli alberi, i fiori, le scogliere e gli insetti che le abitano, l’intero mondo e il cosmo non fanno solo parte ma creano quel meraviglioso, unico campo di abbagliante, sontuosa energia che ci piacerebbe chiamare nirvana.
Jill Bolte Taylor, nel suo libro My Stroke of Insight, recentemente pubblicato da Viking Press, se ne è fatta un’idea quando un embolo della grandezza di una pallina da golf ha deciso di occupare abusivamente il suo cervello con una forte emorragia, togliendole l’uso dell’emisfero cerebrale sinistro insieme alla capacità di parlare, di riconoscere numeri, lettere, volti, compreso quello di sua madre e più o meno tutte le funzioni analitiche di base che ci permettono di prendere un taxi o di bere un the.
Dopo otto anni Jill Bolte Taylor è rientrata nel suo corpo perfettamente restaurato. L’emisfero sinistro non era completamente distrutto, ma il biglietto fortunato della lotteria che le ha permesso il ritorno nel vecchio mondo rumoroso, confuso e maleodorante, è stata una insopprimibile voglia di raccontare la sua esperienza del nirvana. Un esperienza di neuroni, priva di misticismi e piena di beatitudine. Il nirvana di Jill è una dimensione del cervello che potremmo raggiungere quando vogliamo, approfondendo lo studio dei suoi due emisferi. Se in un futuro non lontano potremo raggiungere il nirvana con una supposta o una meringa alla fragola, sarà un’ottima alternativa alle playstation, ai blackberry, alle foto digitali, agli iPod, ai blog, a You Tube (e ai guru, ai viaggi taroccati, ai vari Orienti autolesionisti, come quelli descritti da Rosa Matteucci in India per signorine appena uscito da Rizzoli). Ma il nirvana non si lascia catturare da un gioco di neuroni e l’esperienza di Jill Bolte Taylor. Va ad aggiungersi ad altri milioni di casi documentati da Elisabeth Kubler Ross, Raymond Moody e da un’infinità di altri ricercatori che inseguono il beato «nirvana» con lo stesso spirito (ma assai meno speranze) degli scopritori di tesori perduti.
Quelli tra voi che stanno per andare in vacanza e già annusano l’ebbrezza dell’atollo perduto, con le famose sabbie immacolate, i capanni ventilati e i cocktail tropicali serviti da chi volete dentro jacuzzi più spumose dell’oceano senza che nulla e nessuno venga a disturbare, stanno già pregustando l’inizio di un nirvana che può essere migliorato con un caicco d’epoca, uno shopping sulla Via della Seta o se siete davvero incontentabili una circoambulazione del Kailash (per saperne di più, molto, molto di più, leggete Il monte sacro di John Snelling appena uscito dal Saggiatore).
Tuttavia, né l’estasi cerebrale di Jill Bolte Taylor né la beatitudine di una perfetta vacanza né qualsiasi altra forma mistica di piacere può essere il nirvana perché il nirvana, ormai lo avrete capito, non è. Quindi? Una pericolosa frase di Meister Eckart dovrebbe mettervi in guardia mentre chiudete la borsa in partenza per Zanzibar o le Andamane con sandali, jellaba e parei d’arcobaleno. «Io sono ciò che mi assorbe». Tutto Meister Eckart è pericoloso per chi non vede il suo insegnamento come una pratica zen ma neanche nello Shobogenzo, il capolavoro dello zen Soto scritto dal grande Dogen Zenji troverete un’affermazione così... Immaginate di essere una mosca o una formica, un affamato cannibale, o prigionieri di un lager in cui si offre e si nega la fatale fragranza di un Big Mac. Ovunque voi siate, dai vostri geni esplode una pulsione primordiale assai più antica dell’ego e della la vostra libido, una pulsione cieca che vuole essere soddisfatta e per esserlo vi assorbe. Se questa pulsione viene bloccata, anche la vostra mente si blocca, anche la vostra vita. Siete prigionieri di questa pulsione che si sbriciola in mille desideri e in diecimila paura. È una pulsione cannibale come la vita quotidiana. Come ci possiamo liberare?
Con il nirvana. Il nirvana? Pensateci. L’aereo ha già sorvolato spiagge, atolli e palmizi e ora atterra finalmente in un paradiso ad aria condizionata.
Io sono ciò che mi assorbe. Il segreto del nirvana è racchiuso in questa piccola frase. Fra poco sarete immerse nelle acque cristalline. Sì, il profumo dell’atollo è magnifico, avete ragione, è assolutamente identico a Eau Sauvage di Dior ma leggete ancora queste ultime righe... Se potete diventare ciò che vi assorbe (e lo state diventando), significa che potete diventare qualsiasi cosa. Quindi, non siete nulla. Siete una potenzialità pronta a svanire. Ecco il nirvana, uno specchio vuoto, uno specchio che riflette qualsiasi cosa, qualsiasi emozione ma non trattiene nulla, non contiene nulla. Nulla, come Dior... (pronti per il cocktail di benvenuto?)
l'Unità 7.7.08
L’Istituto nazionale di neuroscienze si presenta
Tra ricordi e paure. Le novità sul cervello
di Cristiana Pulcinelli
L’Istituto Nazionale di Neuroscienze (INN) ha avuto il suo battesimo ufficiale solo pochi giorni fa, ma la sua gestazione è stata molto lunga. Era il 1989 quando il presidente americano George Bush tradusse in legge il decreto che proponeva di considerare quello che iniziava nel 1990 come il decennio del cervello. «L’Italia fu la prima ad aderire all’iniziativa», racconta Piergiorgio Strata che all’epoca era presidente della società italiana di neuroscienze e oggi è presidente del neonato Istituto.
Fu in quel periodo che si pensò di fondare un istituto nazionale per la ricerca sul cervello. L’Istituto faticò a vedere la luce, ma nel 2004 è nato il consorzio universitario che nel 2007 è stato riconosciuto dal Ministero dell’università e della ricerca. Al momento vi partecipano 8 centri universitari che si trovano a Brescia, Cagliari, Ferrara, Genova, Napoli, Torino, Verona, Milano. Lo scopo dell’istituto è triplice: favorire la collaborazione tra i singoli centri che fanno parte del consorzio; puntare sulla formazione dei ricercatori; promuovere la comunicazione con i cittadini sui temi delle neuroscienze.
I primi risultati scientifici già ci sono. Ad esempio, a gennaio del 2008 un gruppo di ricercatori dell’INN ha individuato un meccanismo fisiologico alla base della formazione dei ricordi spiacevoli, ovvero della memoria della paura. Il meccanismo ha luogo nella corteccia del cervelletto e coinvolge le sinapsi inibitorie che regolano l’attività delle cellule di Purkinje. Tali sinapsi, dice lo studio, si modificano nel tempo affinché solo gli stimoli effettivamente legati tra loro, come per esempio un suono associato a una lieve scossa elettrica, diventino parte di uno stesso, spiacevole, ricordo. La ricerca è stata pubblicata dalla rivista Proceeding of the National Academy of Sciences.
Un’altra ricerca targata INN riguarda la nostra capacità di immaginazione. I risultati dello studio pubblicato a febbraio scorso sulla rivista Cortex dimostrano che possiamo ricostruire mentalmente non solo l’immagine visiva di un paesaggio o il volto di una persona, ma anche lo squillo di un telefono, la fragranza di un profumo, il sapore di un piatto prelibato o la morbidezza del velluto: tutto senza che gli stimoli provenienti da questi elementi raggiungano realmente i nostri sensi. Inoltre, i dati sperimentali dimostrano che i circuiti neuronali coinvolti nella formazione delle immagini visive mentali sono localizzati nel lobo temporale sinistro della corteccia cerebrale.
E ancora, due ricerche pubblicate su Brain Research Reviews e Frontiers in Neuroendocrinology dimostrano come nelle piante, nella plastica dei contenitori alimentari e in molti oggetti di uso comune sono presenti, in piccole quantità, sostanze chimiche capaci di interferire con il nostro sistema endocrino. Molte di queste sostanze sono xenoestrogeni e, come gli estrogeni prodotti dagli organismi viventi, sono in grado di modulare il differenziamento dei neuroni e alterare il comportamento.
l'Unità Lettere 7.7.08
Impronte ai piccoli rom: noi autori di libri per bambini lanciamo un appello
Cara Unità,
come autori di libri per bambini e ragazzi esprimiamo una forte preoccupazione per le iniziative assunte recentemente dal ministero dell’Interno di usare come metodo di identificazione per i minori Rom la schedatura delle impronte digitali.
Troppo spesso, nel documentarci per scrivere le nostre storie, abbiamo incontrato leggi che “per il bene” di bambini emarginati e senza voce in capitolo, hanno di fatto sancito ingiustizie e discriminazioni.
Se vogliamo far sì che i piccoli Rom non vivano fra i topi, cerchiamo di integrarli con le loro famiglie, di mandarli a scuola, di toglierli da situazioni di degrado, invece di fare le barricate quando si tenta di sistemarli in situazioni più dignitose.
Qualora questa misura fosse effettivamente attuata, violando a nostro parere i principi che regolano la convivenza civile come la Costituzione, la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia approvata dalle Nazioni Unite nel 1989 e ratificata dall’Italia nel 1991, non potremmo fare a meno di provare un forte senso di disagio nel proporre ai nostri piccoli lettori testi che parlano di solidarietà, di incontro fra i popoli o narrano di violenze e prevaricazioni subite dai loro coetanei come se fossero accadute nel passato e non potessero ripetersi mai più.
Non vorremmo appartenere a uno Stato che un giorno debba chiedere scusa alle sue minoranze.
Vanna Cercenà, Emanuela Nava, Dino Ticli, Moony Witcher, Alberto Melis, Janna Carioli, Angelo Petrosino, Francesco D'Adamo, Luisa Mattia, Emanuela Bussolati, Arianna Papini, Guido Sgardoli, Roberto Denti, Giusi Quarenghi, Angela Nanetti, Stefano Bordiglioni, Aquilino, Bruno Tognolini
l'Unità 7.7.08
La terribile attualità di Primo Levi
di Luigi Cancrini
Caro Cancrini,
per attenuare lo scoramento da sconfitta elettorale, mi era stata davvero utile la tua severa riflessione su Giacobini e Sanculotti (Unità del 28 aprile 2008) e mi sono anche difeso da incursioni di sdegno o ribrezzo, evitando accuratamente ogni telegiornale. Ma imprudentemente ieri ho ripreso in mano, dopo vent’anni, «I sommersi ed i salvati» di Primo Levi ed alcune considerazioni sulla “zona grigia” mi hanno precipitato di nuovo nell’amarezza. Ciò che infatti allora lessi come una lucidissima narrazione di fatti accaduti, oggi mi appare pieno di forza profetica e di ammonimenti per il futuro! E ne sono angosciato. Vorrei proporre quattro brevi stralci ai lettori dell’Unità: i primi due si attagliano già ora al nostro presente; il terzo ad un futuro, di cui vediamo i prodromi.
« ... era ben visibile in lui (Rumkowsky, capo collaborazionista del ghetto di Lodz) ... la sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione distorta del mondo, l’arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione, l’aggrapparsi convulso alle leve del comando, il disprezzo delle leggi».
«... incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile, ...., seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso...».
«La violenza ... è sotto i nostri occhi.... Attende solo il nuovo istrione... che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali».
Ma perché è così difficile arginare la “libidine di potere” e la pulsione a prevaricare il prossimo, che si ripropone sempre nella storia degli uomini?
Giancarlo Rossi
La prima cosa che mi viene da rispondere è che una responsabilità particolarmente importante è quella di chi, potendolo, non reagisce come dovrebbe. Dei giornali e dei telegiornali che riferiscono le opinioni di Maroni sui bambini rom e quelle di Alfano sulla possibilità di sospendere i processi come se fossero opinioni rispettabili espresse all’interno di un dibattito fra persone civili. È nel momento in cui delle idee eversive o razziste vengono presentate come delle idee normali, infatti, che il razzismo e l’eversione trovano diritto di cittadinanza nel quotidiano di chi le ascolta. Quello che si decide nei talk show televisivi e sulle primi pagine dei giornali è in realtà, oggi, l’insieme delle cose che si possono dire o non dire (e dunque insegnare e dunque praticare). Con conseguenze che a volte sono drammatiche.
Riflettiamo per un attimo ancora sulla schedatura dei bambini rom. Ho già discusso su questo giornale l’assurdità di un ragionamento che ne parla come di una misura utile per tutelarli. Quello che vorrei segnalare qui, tuttavia, è il modo in cui di questo problema si è parlato nei telegiornali: di seguito proponendo, senza che il giornalista prendesse posizione l’opinione di Famiglia Cristiana («il provvedimento è indecente») e quella di Maroni («è un provvedimento di tutela») oppure quella di un Commissario Europeo («il procedimento è inaccettabile») e quella di Maroni («il provvedimento è in linea con la legislazione europea»). Raccontato in questo modo, il fatto di cui si parla si perde nel magma indistinto delle comunicazioni politiche: su cui è normale che si esprimano opinioni diverse di cui il giornalista deve dare conto con uguale rilievo (la par condicio). Liberando se stesso dal dovere di prendere posizione e lasciando il telespettatore solo con i suoi pregiudizi (della serie “Maroni è un leghista” o della serie “i Rom sono cattivi”). Lasciando ai colleghi della carta stampata (la cui posizione è chiara fin dal nome del giornale per cui scrivono) il compito di sottolineare l’importanza di una delle posizioni e l’inciviltà dell’altra. Con il risultato finale, però, di collocare la scelta di Maroni nel novero delle opinioni politiche rispettabili.
Una copertina come quella di Panorama, 4 luglio del 2008, in cui la foto di un ragazzo rom piegato su una panca, il volto nascosto dalle mani campeggia sul titolo «Nati per rubare» meriterebbe un’azione penale e una sospensione della pubblicazione per qualche mese se qualcuno si preoccupasse oggi di tutelare la dignità delle persone che non hanno avvocati o parlamentari alle loro dipendenze (e per la dignità, alla fine, della stampa italiana). Questa copertina vergognosa non dà luogo a reazioni di nessun tipo invece e potentemente veicola, dai parrucchieri e sulle spiagge, l’idea stupida di chi continua a pensare che la moralità dei comportamenti dipende dall’etnia cui si appartiene.
Insisto su questo punto, caro Giancarlo, perché credo che questo sia davvero un elemento cruciale del processo di imbarbarimento per cui quello che conta non è il merito delle opinioni ma il “gradimento” di un pubblico distratto, svogliato e terribilmente poco informato. All’interno di una situazione in cui quello che sembra essere definitivamente venuto meno è la condivisione dei grandi principi cui si ispira la nostra Costituzione.
Nasce proprio da qui, a mio avviso, quella che Primo Levi chiama «la sindrome del potere protetto e incontrastato» perché la «visione distorta» del mondo propria di chi ha responsabilità di governo viene confermata ogni giorno dagli adulatori (che mi danno ragione sempre, qualsiasi cosa io dica) e dai detrattori (che lo sono ugualmente sempre, qualsiasi cosa io dica) e perché questo sentirsi immune dalle critiche di chi crede solo in sé stesso è continuamente rinforzato dalla staticità delle posizioni di chi informa stando “con me o contro di me”. Rinunciando al ruolo di osservatore obiettivo e distaccato, quello che veniva definito un tempo “il quarto potere” rischia di diventare uno strumento in più nelle mani di chi ha il potere vero: politico ed economico. Instaurare una dittatura basata sul consenso passa attraverso alcuni passaggi obbligati. Il primo di essi è quello di far passare l’idea per cui i provvedimenti che portano alla dittatura sono normali (o legali). L’aiuto dei media è fondamentale in questa fase per costruire il mito di un istrione (o di un gruppo di istrioni) capaci di «organizzare e di legalizzare la violenza dichiarandola necessaria e dovuta». Sul modo in cui questa «marea di violenza» sia collegata «all’intolleranza, alla libidine del potere, alle ragioni economiche, al fanatismo religioso o politico e agli attriti razziali» Primo Levi ha semplicemente ragione. Descrive in modo efficace quello che oggi accade sotto i nostri occhi.
Corriere della Sera 7.7.08
Girotondi, duello sulla piazza «Filmate i provocatori»
Con Di Pietro anche il figlio di Bachelet. La Bindi: fa bene
In piazza Navona Flores d'Arcais e Sabina Guzzanti. La manifestazione sarà chiusa da Furio Colombo
di Alessandro Trocino
ROMA — Domani sul palco di piazza Navona saranno in sedici, salvo sorprese. Da Antonio Di Pietro a Paolo Flores d'Arcais, da Ascanio Celestini a Sabina Guzzanti. Tutti insieme appassionatamente contro le «leggi- canaglia» di Silvio Berlusconi e in difesa «della democrazia in pericolo». Una squadra variegata di attori, politici e intellettuali che saranno in scena dalle 18. Anche se gli occhi di molti, e in particolare dello stato maggiore del Pd, saranno puntati più probabilmente sul megaschermo. Qui spunterà, in collegamento video, Beppe Grillo, il comico diventato blogger e fustigatore di costumi. Sullo stesso video potrebbe comparire un'altra barba celebre, quella di Umberto Eco, impossibilitato a partecipare di persona, per il quale si sta verificando la possibilità tecnica di un collegamento.
Walter Veltroni, si sa, non ha dato l'adesione personale e del partito alla manifestazione. E, anzi, sponsorizza una linea di opposizione parlamentare dura ma che non scada in posizioni «estremiste», magari censorie verso il capo dello Stato. Come a qualcuno nel Pd pare possa diventare l'evento. Tanto che Giorgio Merlo lo ha definito un «caravanserraglio forcaiolo, moralista e populista».
Ma c'è chi non condivide, come il prodiano Franco Monaco, che invita «a non esasperare le divisioni». E chi aderisce, come Giovanni Bachelet, figlio del vicepresidente del Csm ucciso dalle Br, nonché membro della direzione nazionale del Pd. Il suo è un «sì meditato», che spera in uno stile «sobrio, civile e unitario». Il professore invita il Pd a guardare con simpatia alla manifestazione: «Non ci saranno estremisti, solo gente affezionata all'idea che la giustizia debba essere uguale per tutti». Rosy Bindi, nelle cui liste si è candidato Bachelet alle primarie, non sarà in piazza, dopo le critiche a Veltroni e al capo dello Stato. Ma apprezza la scelta: «È un girotondino vero, è giusto e sono contenta che aderisca. Noi siamo un gruppo plurale. E poi la piazza va ascoltata».
Bachelet vorrebbe «una manifestazione senza bandiere» e «un palco senza politici professionisti ». Non sarà accontentato: il Prc promette di partecipare con i propri simboli. E sul palco sfileranno Antonio Di Pietro e altri parlamentari. Non avranno diritto di parola, invece, i leader di Prc e Pdci, che lo avrebbero molto desiderato. «Non vogliamo che diventi una passerella politica. Ma sono sicuro che capiranno», assicura Pancho Pardi.
A chiudere l'evento Furio Colombo, giornalista e deputato Pd: «Il mio intervento sarà tutto concentrato contro la vergognosa idea delle impronte digitali. In piazza mi hanno assicurato la loro presenza molti rom con i bambini». Colombo non teme il «grillismo»: «Certamente la nostra non sarà una manifestazione antipolitica. Non siamo né indifferenti né sprezzanti». Quanto al Pd, «ce ne sarà più di quello che si immagina. Io poi sono tra i fondatori: non è chiaro come questa possa essere interpretata come una manifestazione contro il mio partito».
Che un po' di tensione ci sia, lo dimostra la «precauzione» chiesta da Pardi: «Siccome si sentono voci di disordini e di provocazioni, lanciamo un invito a tutti: portate i telefonini e filmate. Sarà una forma spontanea di controllo». Un «piccolo fratello democratico». Che nulla potrà, però, contro la mina vagante Grillo. Qualcuno teme possa scagliare un j'accuse anche al Pd. Quasi una replica del Nanni Moretti di piazza Navona 2002: «Con questi dirigenti non vinceremo mai».
Corriere della Sera 7.7.08
Il procuratore di Torino «Non sono questioni che riguardano la magistratura, ma tutti i cittadini»
Caselli: problemi gravi, il corteo è legittimo
di Mario Porqueddu
Se la giustizia funziona sempre peggio, il risultato è che la sicurezza e i diritti non sono tutelati Che la politica parli così tanto di sicurezza, per poi non realizzare le condizioni necessarie a garantirla, direi che è per lo meno contraddittorio
MILANO — Nel merito dei singoli provvedimenti non vuole entrare. Sull'immunità per le più alte cariche dello Stato preferisce non dire nulla: «Sono temi sui quali si è già espressa l'Associazione nazionale magistrati. Che, per altro, è in stato di agitazione». In compenso, circa l'opportunità di organizzare una manifestazione sulla giustizia non ha dubbi: «A me sembra più che legittimo».
Asciutto, lapidario, il procuratore di Torino Gian Carlo Caselli, uno dei magistrati che hanno impersonato la lotta alla mafia in Italia, parla alla vigilia della protesta dei girotondini contro i provvedimenti del governo in tema di giustizia, etichettati (non da lui, ma da chi animerà il corteo) come «leggi canaglia». L'appuntamento ha diviso il centrosinistra: Di Pietro e l'Italia dei valori saranno in piazza, il Partito democratico no. Sia Veltroni che D'Alema hanno dichiarato di non condividere l'iniziativa.
Caselli la pensa diversamente. «In questo momento — dice — i problemi della giustizia sono tanti e molto gravi». Non solo: «Le soluzioni prospettate, dal cosiddetto "blocca-processi", a certi profili in tema di intercettazioni, fino ai tagli pesantissimi al bilancio della giustizia che si ritrovano nella Finanziaria, invece di risolvere la crisi sono destinate ad aggravarla ». Conclusione: «Di fronte a tutto questo, a me sembra legittimo prendere posizione. A patto che lo si faccia sempre in modo civile e dialettico».
Secondo il procuratore torinese, il fatto che su questi problemi, «che sono gravissimi», l'opinione pubblica faccia sentire la sua voce non è solo legittimo. In qualche modo è naturale che i cittadini si preoccupino di quello che succede alla giustizia. «Perché non si tratta di guai "della magistratura" — spiega Caselli —, ma di problemi del Paese: di tutti gli italiani. Se la giustizia funziona sempre peggio, il risultato è che la sicurezza e i diritti delle persone non sono tutelati a dovere ». Quindi chiude, con parole che illustrano quello che a chi lavora nei palazzi di giustizia appare come un corto circuito: «Che la politica parli così tanto di sicurezza, per poi non realizzare le condizioni necessarie a garantirla, direi che è per lo meno contradditorio».
Corriere della Sera 7.7.08
Scoperta. Studioso israeliano sul «New York Times»: è la prova che mancava da anni
«Un Messia risorto prima di Gesù» La stele divide archeologi e biblisti
Trovata sul Mar Morto. Il testo: «In tre giorni tu vivrai»
Un raro esempio di tavola non incisa ma scritta ad inchiostro. Risalirebbe ad alcuni decenni prima della nascita di Cristo
di Giulia Ziino
MILANO — Una tavola di pietra alta circa un metro con un testo di 87 righe scritto in ebraico potrebbe mettere in discussione le convinzioni sia storiche che religiose sulla figura di Gesù. La stele in questione, infatti, secondo alcuni studiosi risalirebbe a diversi decenni prima della nascita di Cristo e, nel testo, farebbe riferimento ad un Messia destinato a resuscitare dai morti «dopo tre giorni». In pratica, se le analisi chimiche e testuali confermeranno la datazione e la lettera della lapide, ci troveremmo di fronte alla prova tangibile che l'idea di un Messia morto e risorto dopo tre giorni era presente nel mondo ebraico ben prima dell'avvento di Gesù.
La scoperta della stele, che si dice proveniente dal Mar Morto, risale a circa un decennio fa: ne era entrato in possesso un antiquario giordano che l'ha poi rivenduta ad un collezionista svizzero- israeliano, David Jeselsohn, che l'ha tenuta in casa per anni senza sapere cosa avesse per le mani. Quando qualche anno fa Ada Yardeni, esperta di scrittura ebraica, l'ha esaminata, si è affrettata a pubblicare la notizia in uno studio scritto con il collega Binyamin Elitzur. A quell'articolo ne sono seguiti altri di vari studiosi del settore finché la notizia non è uscita dal cerchio ristretto degli addetti ai lavori per finire sul sito del New York Times, da dove sta creando scompiglio tra archeologici e biblisti.
La tavola, non incisa ma scritta a inchiostro (il testo è in due colonne, simili a quelle della Torah), è spezzata e in diversi punti il testo — una visione dell'Apocalisse basata sul Vecchio Testamento — è di difficile lettura. Il punto che scotta, alla riga 80, suona più o meno così: «In tre giorni tu vivrai, io, Gabriel, te lo ordino». Un imperativo che, secondo alcuni, sarebbe rivolto dall'arcangelo Gabriele ad un Messia venuto a riscattare col suo sangue la terra d'Israele dal dominio romano. Per Israel Knohl, professore di Studi biblici all'Università di Gerusalemme e autore di studi sul «Messia prima di Cristo», la stele del Mar Morto (ribattezzata la Rivelazione di Gabriele) è la prova che aspettava, la classica pistola fumante. Ma non tutti sono d'accordo e lo stato frammentario del testo non chiarisce i dubbi. Qualcosa in più si potrà dire dopo che saranno resi noti i risultati delle analisi chimiche fatte sulla tavola: Yuval Goren, l'archeologo dell'Università di Tel Aviv che le ha condotte, non anticipa dettagli ma assicura che non ci sono dubbi sull'autenticità della stele.
Repubblica 7.7.08
Diritti, solidarietà e uguaglianza così la sinistra entra nel futuro
di José Luis Zapatero
La solidarietà che caratterizza la società spagnola si fonda sul rispetto dei diritti. Proprio di questi ci siamo occupati nei giorni passati, quando abbiamo discusso la portata della libertà religiosa; del riconoscimento e della protezione dei milioni di spagnoli cattolici; della tutela degli spagnoli non cattolici; delle conseguenze inderogabili della norma costituzionale sul carattere laico dello Stato.
Fin dall´inizio, il socialismo in Spagna è stato un progetto di convivenza, un progetto per vivere insieme. È un progetto la cui vocazione è quella di includere, la cui volontà è di integrare. È nato per permettere alle classi lavoratrici di usufruire dei frutti dello sviluppo economico, della cultura, della conoscenza, è nato per riconoscere i loro diritti politici, per fornire loro protezione di fronte agli infortuni, per permettere loro di attingere la condizione di piena cittadinanza. È stato così, distribuendo a più persone, a tutte le persone possibili, la titolarità dei diritti, dell´istruzione e del benessere, che le nostre società sono diventate più sicure, più prospere, più degne e più libere.
Per questo, negli ultimi anni in Spagna ci siamo impegnati a prendere le misure necessarie per integrare coloro che ancora vivono senza speranza, abbandonati o senza assistenza. È per questo che ci siamo impegnati a favore dei disabili, riconoscendo loro i diritti che chiedevano da tempo: nel campo del lavoro, contro le barriere architettoniche, nelle nuove tecnologie, nei mezzi di trasporto, nell´esercizio del diritto al voto. Ed è sempre per questo che ci siamo impegnati per le persone in situazione di difficoltà. Affinché recuperino la loro dignità. Affinché non si sentano abbandonate. Affinché sia minore la loro solitudine.
Allo stesso modo, dobbiamo adoperarci per raggiungere la piena integrazione nella nostra società delle persone che vengono a lavorare e a vivere nel nostro Paese. Questa piena integrazione è una garanzia per la nostra prosperità, la nostra dignità e la nostra libertà.
Ho scelto come motto "La forza del cambiamento". Il Cambiamento è la trasformazione della società affinché i valori umani prevalgano sul denaro e sul potere. Noi socialisti, in Spagna, sappiamo da molto tempo, da più di un secolo, che la più grande forza che sostiene il cambiamento, la forza che conduce e trascina il mondo, la forza trasformatrice più potente è la forza delle idee.
Per questo motivo, è evidente che si deve essere capaci di fare due cose allo stesso tempo: trasformare il presente a cominciare dal governo e immaginare il futuro a partire dalle idee.
Per questo, infine, ho scelto un nome per battezzare un osservatorio creato per esplorare il futuro: un laboratorio il cui oggetto di ricerca sarà la società. Il nome dello spazio che accoglierà i dibattiti, il nome di questa piattaforma di pensiero d azione, di teoria e di pratica, sarà Fundación Ideas, la Fondazione delle Idee. Ideas, idee, è una parola bellissima ma è anche un acrostico formato dalle lettere iniziali di cinque concetti che sono la nostra ragione di essere e di esistere:
I, come Igualidad, uguaglianza. Perché i socialisti spagnoli sono una forza impegnata a far sì che nessuna persona sia l´ombra di un´altra persona; persone oneste che non transigono di fronte alla discriminazione; perché sanno che la Spagna e il mondo non possono fare a meno del talento, della sensibilità e della forza delle donne. E i socialisti sono il Partito dell´Uguaglianza.
D, come diritti. Perché i socialisti sono la forza centrale della democrazia spagnola, perché abbiamo partecipato a tutte le lotte nelle quali si è giocato il futuro della libertà. Perché pensiamo che una società è grande quando i suoi cittadini sono liberi; che un Paese è libero quando i suoi cittadini hanno pieni diritti. Siamo il partito di Diritti della Cittadinanza.
E, come ecologia. Perché comprendiamo che non vi è ricchezza maggiore dell´aria che respiriamo, dell´acqua che beviamo; perché sappiamo che non vi è progresso duraturo senza rispetto per l´ambiente; perché comprendiamo che l´essere umano non può continuare a degradare il mondo senza mettere a rischio la propria sopravvivenza. Siamo il partito dell´Ambiente, il partito dell´Ecologia.
A, come azione. Perché siamo una forza di cambiamento, di trasformazione, un partito che pensa e agisce. A cominciare dal governo e dalla strada; dai governi locali e dalle fabbriche, dal mondo produttivo privato e dalle Ong. Una forza che pensa e agisce. Che sogna il futuro e che governa il presente. Siamo un partito di Azione.
S, come solidarietà. Perché nei tempi di abbondanza estendiamo i diritti sociali e il benessere sociale. Perché nei tempi difficili proteggiamo i più deboli. Perché esistiamo affinché la ricchezza e il potere siano meglio distribuiti. Perciò siamo il partito della Solidarietà.
Questo sarà il nome e questi sono i princìpi che guideranno i socialisti spagnoli nell´individuare le strade che ci permetteranno di accedere al futuro: uguaglianza, diritti, ecologia, azione e solidarietà. Sarà uno strumento potente. Ci permetterà di pensare meglio, di rinnovare le nostre proposte, di dare più peso ai nostri messaggi. Sarà uno strumento utile per i cittadini. Permetterà loro di partecipare. Li metterà al corrente di tutti i progressi. Fornirà loro soluzioni e nuove speranze. Ho una grande fiducia nel lavoro che porterà avanti la Fundaciòn Ideas. Rappresentiamo la Spagna che ha fiducia in se stessa. La Spagna che sa di essere protagonista di un successo storico collettivo.
Questi sono alcuni brani del discorso pronunciato ieri dal premier spagnolo José Luis Rodrìguez Zapatero alla chiusura
del Congresso del Partito socialista spagnolo
Traduzione di Guiomar Parada
Repubblica 7.7.08
Tra sostenitori di Vendola e Ferrero accuse roventi. Escluse dalla conta, in quanto nuove iscritte, la moglie di Sansonetti e la compagna dell´ex ministro
Prc, nel congresso-rissa voto vietato alle donne dei big
di Luciano Nigro
ROMA - In una calda serata trasteverina il congresso-faida di Rifondazione finisce per travolgere anche le donne dei capi. Cacciata dalla votazione in sezione perché nuova iscritta Nanni Riccobono, moglie del direttore di Liberazione, Piero Sansonetti, già addetta stampa di Russo Spena. Ammessa alle urne, ma poi costretta a ritirare il voto, la scrittrice Angela Scarparo, compagna di Paolo Ferrero, il rivale di Nichi Vendola nella corsa alla segreteria. Succede anche questo nella grande rissa del Prc dove la rimonta del governatore della Puglia sta provocando una reazione violentissima dei sostenitori dell´ex ministro contro i nuovi tesserati che inquinerebbero il risultato della conta.
Da una settimana Ferrero denuncia «congressi gonfiati» e «tesseramento drogato». I suoi uomini, come ha rivelato "Repubblica" alcune settimane fa, «interrogano» gli ultimi arrivati, denunciano brogli e cancellano congressi. A Bologna 50 neotesserati al circolo migranti esclusi dall´assemblea perché iscritti da pochi mesi, nonostante lo statuto preveda la possibilità di aderire fino a dieci giorni dal voto. A Reggio Calabria, dove il governatore aveva vinto 345 a 39, la votazione è stata cassata dalla commissione elettorale controllata da Ferrero e alleati. «Un fatto senza precedenti», bollato come «una pazzia» in un titolo di prima pagina dal giornale del partito che ha provocato la rivolta dei big dei ferreriani contro Sansonetti. Oggi la commissione decide su Portici dove Vendola ha vinto 215 a 20, ma nel mirino ci sono anche Brescia, Arezzo, Castellammare di Stabia e Mesagne, dove il governatore ha rifilato cappotti ai concorrenti. Dai blog filo-Ferrero fioccano gli insulti: «democristiani», «corrotti», «camorristi», «non sopporto i calabresi». Vendola si infuria: «Prendono di mira il voto meridionale e dei migranti con considerazioni leghiste che lasciano sgomenti. Annullare i congressi è moralmente inaccettabile». Franco Giordano, l´ex segretario, gli dà manforte: «Chi allude a possibili collusioni con camorra e ‘ndrangheta rischia di distruggere gli anticorpi sani della società meridionale. Una vergogna coinvolgere Francesco Forgione, già presidente dell´Antimafia. Illegale annullare in modo autoritario un congresso per difendere una maggioranza abusiva». Ferrero si difende. «Le regole - dice - vanno rispettate, sempre. E la democrazia plebiscitaria e il berlusconismo non devono entrare dentro di noi». L´ex ministro nega che nel mirino siano i neo tesserati, anche se ritiene «politicamente discutibile l´arrivo massiccio di nuovi iscritti».
Ma a Trastevere davanti a una indignata Rina Gagliardi, già senatrice Prc («il colmo, una situazione allucinante: non hanno fatto votare iscritti regolari; con due eccezioni, la compagna di Ferrero il suo ex portavoce Guido Caldiron»), e a un allibito Salvatore Bonadonna, altro ex senatore che non volevano far votare «perché di un altro quartiere», 25 nuovi iscritti vengono respinti al momento di votare. «Ero imbarazzata per loro - racconta Riccobono - parevano leghisti che non vogliono il voto per i nuovi arrivati. Ti guardavano come dire "ma chi ti conosce?". Che sgradevole impressione».
«Pagine oscene per un partito libertario», per il segretario romano Massimiliano Smeriglio che presenterà ricorso. Nella capitale la mozione Vendola, che puntava alla maggioranza assoluta, si ferma al 49%. Anche Ferrero però si arrabbia. I sostenitori di Vendola, dice, «non conoscono limiti morali o di buon gusto. Capisco che attacchino me, ma tirare in ballo le persone più care è una volgarità a cui non voglio abituarmi. E la regolarità delle iscrizioni non la decido io».
Repubblica 7.7.08
Così l'autore di "Montalbano" rilegge i classici dell'isola
L'amore raccontato dai poeti della mia Sicilia
Canti d´amor gioioso. In libreria tre importanti meridiani
I poeti della scuola siciliana
di Andrea Camilleri
Un´opera che raccoglie voci diverse su un unico tema, le accensioni del cuore, declinate in tutte le variazioni
Un viaggio alle origini della cultura italiana da Giacomo da Lentini e la corte di Federico II alla lirica siculo-toscana
"Lo stesso imperatore amava declamare versi per la sua adorata prediletta"
"Se vi piacciono le storie sentimentali leggete a caso questi versi ed emozionatevi"
Ci siamo abituati negli ultimi anni in Italia a sprecare, a scialacquare parole. E più vengono usate a vuoto e più le parole perdono peso e colore, s´assottigliano, si usurano come un tessuto liso. Le recenti letture dantesche hanno avuto uno strepitoso successo in tv forse perché ci riconsegnano l´intatto valore della parola. Ora si presenta una splendida occasione per riassaporare altre e più antiche parole, quelle che sono a un tempo l´origine stessa della nostra lingua e civiltà letteraria.
Sono arrivati in questi giorni in libreria tre Meridiani mondadoriani, di complessive pagine 3044, dedicati a I Poeti della scuola siciliana (euro 55 a volume). Essi rappresentano il frutto della felice unione di un ventennio d´impegno del Centro di studi filologici e linguistici siciliani (attualmente rappresentato da Buttitta, Ruffino, Varvaro) con l´intelligente entusiasmo di Renata Colorni che i Meridiani dirige.
Il primo volume, curato da Roberto Antonelli, è interamente dedicato a Giacomo da Lentini; il secondo, dovuto alle cure di Costanzo Di Girolamo, comprende i poeti della corte di Federico II; il terzo, coordinato da Rosario Coluccia, assemblea i poeti siculo-toscani. Ogni curatore, a sua volta, è assistito da una nutrita schiera di ricercatori che si occupano di un singolo poeta o di gruppi di poesie.
Sono convinto che quest´opera, che non esito a definire grandiosa (e anche gioiosa, dirò poi perché) rappresenterà un punto fermo, e non facilmente superabile, per tutti gli studiosi delle origini della poesia e della cultura italiana.
In questa prospettiva, il primo volume non poteva che essere dedicato a Giacomo da Lentini, il protopoeta, che Antonelli nella sua prefazione definisce tout court il "fondatore" della lirica italiana, acutamente analizzandone le influenze trobadoriche e le sedimentazioni della cultura latina. Tra l´altro a Giacomo da Lentini si deve la strepitosa invenzione di quella forma metrica perfetta che è il sonetto. Ma Antonelli riconosce che il merito dello «stimolo decisivo alla nascita e allo sviluppo» della poesia siciliana va a Federico II, e alla sua politica culturale. La quale spazia dall´urbanistica all´architettura, dai vasti compiti assegnati alla Magna Curia Imperialis ai rapporti tutt´altro che limitativi con musulmani ed ebrei. E non si può omettere la fondazione nel 1224 dello Studium napoletano, la prima università d´Europa, per la preparazione di quella che oggi chiameremmo una nuova classe dirigente.
«Il re e imperatore - scrive ancora Antonelli - è in senso lato, per molteplici evidenze, il grande "committente" della lirica siciliana, i cui poeti sono tutti nobili o funzionari legati alla Magna Curia». E nel secondo volume infatti, accanto a nomi notissimi perché si trovano in tutte le antologie scolastiche, come lo stesso Federico che non si limitava alla committenza ma scendeva in campo nella tenzone poetica come uno qualsiasi degli altri poeti, o Guido e Odo delle Colonne, o Cielo d´Alcamo o Giacomino Pugliese, troveranno posto anche Tommaso Di Sasso o Filippo da Messina e tanti altri meno noti (e ci sono anche moltissime liriche senza nome dell´autore) che servono a completare, arricchendolo, il quadro d´insieme. A proposito di Federico, colgo l´occasione per ricordare che l´anno scorso è stato pubblicato il suo enciclopedico De arte venandi cum avibus a cura di A. L. Trombetti Budriesi e con una introduzione di Ortensio Zecchino che traccia un esauriente quadro culturale della corte federiciana.
Nel terzo volume trovano posto i poeti siculo-toscani, quelli cioè che ripropongono sostanzialmente, in Toscana, il modulo poetico siciliano e non sono da confondersi coi poeti toscano-siculi (come Guittone d´Arezzo) che ricercano e sperimentano modi nuovi e diversi da quelli della scuola siciliana. Una curiosità: in questo terzo volume è presente nientedimeno che Brunetto Latini con una canzone, l´unica pervenutaci, il cui primo verso suona così: «S´eo son distretto inamoratamente». Ebbene, secondo alcuni studiosi, Avalle in testa, è a causa di questa canzone che Dante ha sistemato per l´eternità Brunetto nel settimo cerchio dell´Inferno. E non gli si può dare tanto torto. Infatti, se andate a leggere la canzone, Brunetto canta esplicitamente i suoi tormenti amoroso per un ello e non per un´ella. Ancora troppo lontano il tempo nel quale avremmo letto senza scandalo e con tanta partecipazione i tenerissimi egli di Sandro Penna.
E a proposito di Dante, cade qui a taglio l´omaggio che egli volle rendere ai poeti siciliani nel De vulgari eloquentia: «Imperocchè pare che il volgare siciliano abbia fama sopra gli altri, perché qualunque cosa compongano in verso gl´Italiani si chiama siciliano...», concludendolo con la citazione di un verso dal contrasto di Cielo d´Alcamo.
Una piccola parentesi. È curioso notare come nelle radici culturali dei poeti siciliani non rimanga traccia alcuna della grande fioritura della poesia araba di Sicilia, che pure, meno di ducento anni avanti di Giacomo da Lentini, aveva raggiunto livelli altissimi con Ibn Hamdis («A torto castigasti la tenerezza del cuor mio/ con la durezza del cuor tuo...») e molti altri. Forse perché la scuola siciliana ha quasi esclusivamente come oggetto l´amore, mentre nei poeti arabi le tematiche sono assai diverse? Chiusa la parentesi.
Va soprattutto detto che la straordinaria importanza dei tre volumi mondadoriani non è solo nella grande quantità di testi finalmente raccolti e sistemati, ben 337. Ai poeti siciliani avevano in precedenza dedicato un´antologia Gianfranco Contini nel 1960 e due volumi Bruno Panvini nel triennio ‘62-´64. La prima era dotata di scarni commenti però priva di apparati critici, i due volumi antologici invece erano mancanti di commento. Questa edizione dei Meridiani è, al contrario delle antologie precedenti, una sorta di esaustiva trattazione globale che va dai temi generali ai dettagli filologici. Cito quanto scrivono i tre curatori al termine della loro introduzione: «Ogni autore ha una sua specifica nota biografica; ciascun componimento è preceduto da un´articolata introduzione. L´apparato critico, collocato al piede della pagina, è di tipo negativo, raccoglie cioè le lezioni che, a parte adeguamenti grafici spiegati nella Nota al testo dei singoli volumi, divergono dalla lezione assunta a testo. Segue il commento ad versum. Ogni volume è infine corredato da articolati Indici dei luoghi citati nel commento».
Fino a questo momento ho privilegiato i tre volumi agli occhi di coloro per i quali, professori, studenti, cultori, la scuola poetica siciliana è oggetto di studio o semplicemente d´interesse. Era doveroso per il grande impegno, l´assoluta serietà, l´acuta intelligenza, lo scrupolo estremo dei curatori e dei loro collaboratori.
Ma io personalmente non sono uno studioso della materia, ne sono particolarmente attirato, questo sì, per una specie di orgoglio di campanile, lo confesso, e quindi vorrei ora dedicare qualche rigo alla spiegazione di un aggettivo, gioiosa, che ho usato iniziando a parlare di quest´opera.
Perché gioiosa? Perché i poeti della scuola siciliana non facevano altro che parlare dell´amore, ragionare sull´amore, cantare l´amore. E l´amore, quando porta con sé sofferenza e pena, resta comunque un sentimento vitale e rivitalizzante.
Una leggenda dice che Federico amava riunire i poeti della sua corte a Enna, l´ombelico della Sicilia, dove aveva fatto costruire, oltre a un castello, anche una torre ottagonale nella quale gli scanni in pietra erano tutti uguali. Egli sedeva lì, accanto agli altri, non era nemmeno primus inter pares, si era spogliato di ogni emblema imperiale, e leggeva ai compagni le sue poesie per la donna amata (forse nessuna delle tre che sposò), attendendone con una certa trepidazione il giudizio.
In questi tre volumi tantissime voci diverse si cimentano dunque sopra un unico tema, tentandone tutte le variazioni possibili. Non si ha che l´imbarazzo della scelta.
«Meravigliosamente /un amor mi distringe», attacca Giacomo da Lentini. «Gioiosamente canto /e vivo in allegranza, /ca per la vostr´amanza /madonna, gran gioia sento», gli fa seguito Guido delle Colonne.
«Rosa fresca aulentissima», così Cielo d´Alcamo definisce l´amata. «Allegramente canto», dichiara Iacopo Mostacci. «Ben mi deggio alegrare», concorda Ruggerone da Palermo.
E Rinaldo d´Aquino: «Per in amore vao sì allegramente...».
E Stefano Protonotaro: «Pir meu cori allegrari...».
Mi fermo qui. Concludendo con un suggerimento ai lettori che ai severi cultori della sacralità della poesia potrà apparire addirittura blasfemo. Ma ricordo che un poeta come Paul Eluard usava dire che la poesia non solo non è sacra, ma deve servire agli uomini per uso quotidiano. Il suggerimento nasce da una domanda: vi piacciono le storie d´amore? Se la risposta è sì, allora portatevi i tre Meridiani sotto l´ombrellone, non temete, nemmeno l´Imperatore di sentirà offeso, anzi, lasciate che il vento ne sfogli le pagine, leggete una poesia a caso. E comunicate la vostra inevitabile emozione a chi sta accanto a voi. La poesia è fatta per questo, per essere condivisa.
Repubblica 7.7.08
Due esposizioni a Firenze sul rapporto tra il Rinascimento e gli antichi Paesi Bassi
Affascinati dal virtuosismo mimetico
Il ruolo dei banchieri tra i due mondi
Un grande debito da Botticelli al Ghirlandaio
FIRENZE. A partire dai primi decenni del Quattrocento, la civiltà figurativa europea vide manifestarsi le maggiori spinte innovative attorno a due grandi poli artistici: la Scuola fiorentina, che si sviluppò sulla base della rivoluzione prospettica brunelleschiana e della tensione a far rivivere i modelli dell´arte classica, e la Scuola fiamminga, che ebbe come principale centro di irradiazione le Fiandre e tutta quell´area comprendente l´Artois, la Zelanda, la Gheldria, l´Hainaut e il Brabante, che tra fine Trecento e Quattrocento gravitò nell´orbita del Ducato di Borgogna. Sulla scia delle opere realizzate da artisti sommi come Robert Campin, Jan Van Eyck, Rogier van der Weyden, Hans Memling e Hugo van der Goes, la scuola fiamminga estese le sue propaggini un po´ dappertutto in Europa, dalla penisola iberica al Regno di Napoli, mentre a sua volta quella fiorentina esercitava una crescente egemonia nel resto d´Italia.
Benché entrambe tese a rappresentare la realtà, liquidando ogni residuo irrealismo di ascendenza medievale, ben presto queste due civiltà furono percepite come profondamente diverse se non antitetiche, essendo l´una, quella toscana, volta a privilegiare la sintesi e a determinare la rappresentazione illusiva dello spazio basandosi su rigorose premesse matematico-geometriche, mentre l´altra preferiva procedere per via empirica e pazientemente analitica. Ma a dispetto di tale profonda diversità, che Cesare Brandi condensò nella contrapposizione «Spazio italiano e ambiente fiammingo», con cui intitolò un suo fortunato saggio del 1960, questi due mondi figurativi furono tutt´altro che impermeabili tra loro, anzi provarono una forte e reciproca attrazione che ne attenuò la polarizzazione dialettica, pur senza mai cancellarla del tutto se non in rare eccezioni (ad es., Antonello da Messina, capace di realizzare una sorta di "bilinguismo" perfetto).
Nel corso del Quattrocento e del primissimo Cinquecento, tuttavia, questa forte attrazione si manifestò soprattutto sotto forma di un grande interesse da parte degli artisti (e dei committenti) italiani nei confronti del mondo figurativo fiammingo, mentre nel Cinquecento il flusso direzionale si invertì, dando vita al diffuso fenomeno del "Romanismo fiammingo".
Dalla corte pontificia a quella ferrarese, dalla Urbino dei Montefeltro alla Milano degli Sforza e dei Visconti o alla Napoli degli Aragonesi, tutte le grandi entità politiche in cui era frazionata l´Italia quattrocentesca fecero a gara nell´assicurarsi qualche esemplare di arte fiamminga, sotto forma di dipinto religioso, di ritratto o di libro d´ore miniato, oppure di arazzo o di più economico "panno dipinto alla flandresca". Oltre che dal fasto normativo promanato dall´elegante splendore profano della corte borgognona, il fascino esercitato da quell´arte esotica era principalmente determinato dall´incredibile virtuosismo mimetico conseguito dai pittori fiamminghi in virtù della tecnica ad olio da essi portata al massimo della perfezione. Grazie alle sue proprietà di trasparenza e di lenta asciugatura, la pittura ad olio consentiva infatti di amalgamare meglio i colori, stendendoli per successive velature, fino a ricavarne gradazioni tonali estremamente sfumate e una saturazione di gran lunga più ricca e splendente di quanto non si potesse ottenere con la tradizionale tecnica a tempera. L´impietoso realismo nei ritratti, la varietà e animazione degli scorci paesistici, ma soprattutto la sbalorditiva nitidezza ottica nel definire ogni minimo dettaglio, imitando la differente consistenza di ogni materiale e la diversa risposta di ciascuno di essi ai raggi della luce (l´opacità dei velluti, lo sfavillio delle sete, la trasparenza e i riflessi dei vetri, lo scintillio dei metalli): queste erano, in estrema sintesi, le peculiarità della Scuola fiamminga, che ne determinavano l´immenso successo anche in terra italiana.
L´affascinante mostra che si può visitare in questi giorni nella Sala Bianca di Palazzo Pitti (Firenze e gli antichi Paesi Bassi. 1430-1530. Dialoghi tra artisti: da Jan van Eyck a Ghirlandaio, da Memling a Raffaello, a cura di B. W. Meijer e S. Padovani, aperta fino al 26 ottobre), cui fa eco agli Uffizi una parallela esposizione di disegni (Fiamminghi e Olandesi a Firenze. Disegni dalle collezioni degli Uffizi, fino al 2 settembre) festeggia il cinquantenario dell´Istituto Olandese di Storia dell´arte di Firenze diretto da Bert W. Meijer, proponendosi di testimoniare, con una sfolgorante e quanto mai eloquente selezione di opere, il grande debito che anche il Rinascimento fiorentino, a dispetto della sua profonda alterità, contrasse fin dalle origini con la Scuola fiamminga.
Non fu del resto casuale che i due centri propulsori del rinnovamento artistico quattrocentesco nascessero nelle due regioni europee economicamente più dinamiche e che erano legate tra loro da stretti rapporti commerciali. Il settore principale di tali relazioni era quello dei tessuti: nelle maggiori città delle Fiandre confluiva l´abbondante materia prima prodotta in Inghilterra, per poi essere esportata, grezza o sotto forma di panni semilavorati, in Toscana, dove veniva a sua volta convertita in tessuti, molti dei quali di tale pregio da essere contesi a peso d´oro. Per sostenere questa attività i banchieri fiorentini (ma anche lucchesi e liguri) avevano aperto filiali a Londra e nelle Fiandre, e furono proprio questi operatori economici, molti dei quali pur non tagliando definitivamente i ponti con la madrepatria erano legati a doppio filo alla corte borgognona, a far affluire opere fiamminghe in Toscana, commissionando ritratti, dipinti sacri e opere profane per sé e per i propri referenti economici. Il Banco dei Medici a Bruges fu uno dei principali anelli di congiunzione tra Fiandre e Firenze, grazie anche ad una forte rivalità tra Angelo Tani e Tommaso Portinari, che si succedettero nella direzione del banco mediceo e fecero a gara nel commissionare opere d´arte di eccezionale pregio ai maggiori maestri fiamminghi. Purtroppo il trittico con il Giudizio Universale che Tani aveva commissionato a Memling finì in mano ai pirati e non arrivò mai a destinazione nella Badia fiesolana (è ora a Dansk, in Polonia), ma Tommaso Portinari fece della chiesa fiorentina di S. Egidio nell´Ospedale di S. Maria Nuova, di cui era protettore, una sorta di mostra permanente di capolavori fiamminghi, tra i quali il celebre Trittico Portinari di van der Goes, oggi agli Uffizi.
Bert Meijer e Serena Padovani hanno scelto le opere da esporre, seguendo come criterio fondamentale quello di riportare a Firenze alcuni dei capolavori di Van Eyck, van der Weyden e Memling appartenuti alle famiglie fiorentine, per poterli mettere a confronto con esempi di pittura e miniatura locale, che ne hanno con tutta evidenza tratto autonoma ispirazione. Nasce così, sotto gli occhi del visitatore ammirato, un muto ma serrato dialogo tra "spazio" italiano e "ambiente" fiammingo; un dialogo in cui artisti come l´Angelico, Filippo Lippi, Botticelli, Ghirlandaio, Verrocchio, Perugino, Piero di Cosimo, Andrea del Sarto, Fra Bartolomeo e Raffaello denunciano, spesso senza il minimo imbarazzo, il debito da essi contratto con il mondo figurativo fiammingo. Un debito in termini di splendore cromatico, sottigliezza luministica, nitida evidenza ottica e gusto della veduta paesaggistica e del dettaglio naturalistico, che finì presto per essere pienamente integrato alla parlata figurativa italiana, conquistandole una duratura egemonia in Europa, per il Cinquecento e oltre.
Repubblica Roma 7.7.08
Rom schedati, il giorno del "no"
di Anna Maria Liguori
Tutti in piazza contro la schedatura dei rom. Tante le manifestazioni di oggi contro il particolare censimento che il sindaco Gianni Alemanno ha fissato per il 10 luglio (ma secondo la prefettura potrebbe slittare di qualche giorno per questioni organizzative). A cominciare dall´Arci che ha organizzato un grande raduno all´Esquilino con i radicali e i rappresentanti delle Croce Rossa Italiana.
E poi c´è l´appuntamento in via Luigi Candoni alla 11, al campo nomadi, dove ci sarà una riunione straordinaria con i rappresentanti istituzionali di Regione, Provincia, Comune e Municipi di Roma, uniti «contro il razzismo». I radicali invitano parlamentari e dirigenti del Pd a partecipare alla manifestazione "Prendetevi le nostre impronte. Non toccate i bambini e le bambine rom e sinti", organizzata dall´Arci in programma oggi dalle 17 alle 20, in piazza Esquilino. Tra chi donerà le impronte digitali al ministro Roberto Maroni ci saranno i Moni Ovadia, Andrea Camilleri, Dacia Maraini il sopravvissuto alla Shoah Piero Terracina. «Vogliamo offrire la nostra vicinanza simbolica e fattuale a chi vive una condizione di insicurezza a causa del nuovo razzismo di massa» sottolinea l´assessore regionale al Bilancio Luigi Nieri - E lo facciamo nel giorno in cui a Campidoglio – culla del nuovo securitarismo nazionale – si tiene un consiglio comunale straordinario sulla sicurezza. Sono confortanti le tante adesioni di assessori, consiglieri e presidenti di municipio del Prc, del Pd, di Sd, dei Verdi, del Pdci».
il Riformista 7.7.08
Centoautori. Decisiva ancora una volta la mediazione di Letta
Bondi trova i soldi, il cinema non fa più girotondi
di Michele Anselmi
Resuscita il tax-credit eliminato da Tremonti senza tanti complimenti. Alla fine, come anticipato dal Riformista , s'è trovata la copertura di 160 milioni di euro, 80 per il 2009 e 80 per il 2010. Sicché il cinema non farà barricate e girotondi, i film italiani andranno tranquillamente a Venezia, Roma e Torino, i produttori avranno quanto promesso, sia pure con qualche mese di ritardo (intanto hanno già cominciato a fare i conti sui vantaggi). Del resto, il boicottaggio dei festival difficilmente avrebbe funzionato, se perfino alcuni dei "Centoautori", come Daniele Vicàri e Giuseppe Piccioni, negli ultimi giorni s'erano dichiarati perplessi, sollecitando proteste meno "autolesioniste", cioè più "fantasiose" e "alternative". Lo stesso Nanni Moretti, inaugurando giovedì all'arena Sacher la consueta rassegna estiva, sembrava sdrammatizzare: «Davanti a problemi importanti ci vogliono gesti simbolicamente importanti. Ma sono sicuro che non ce ne sarà bisogno. Si renderanno conto dello sbaglio, dovuto soprattutto a sciatteria».
Che tale sia stata o no, Bondi può tirare un sospiro di sollievo. Soavemente oggi, lunedì, comunicherà lo "scampato pericolo", spiegando che le agevolazioni fiscali promesse con squilli di trombe rientrano in gioco attraverso un emendamento presentato venerdì. Vero è che difficilmente l'avrebbe spuntata, non venendo quei 160 milioni dal ministero ai Beni culturali, se Gianni Letta, assicura una fonte ben informata, «non avesse puntato i piedi e alzato la voce». In effetti, uno smacco su quel versante sarebbe stato disastroso, in termine di immagine, per il governo. Ma come: per anni s'è gridato al cinema assistito e poi si cassa proprio la più liberista delle misure, peraltro rivendicata sia da destra sia da sinistra? Tra l'altro, alla vigilia del suo primo viaggio a Cannes in qualità di ministro, proprio Bondi aveva assicurato che, «proseguendo sulla linea tracciata dai precedenti ministri Urbani, Buttiglione e Rutelli», tax-credit e tax-shelter erano praticamente cosa fatta, mancava solo l'approvazione dell'Unione europea, necessaria «per emanare i relativi decreti di attuazione».
Come sappiamo, non è andata così. A fine maggio il primo stop di Tremonti all'interno cosiddetto decreto taglia Ici, qualche settimana dopo il secondo, attraverso il maxiemendamento passato alla Camera, mal digerito da alcuni parlamentari della maggioranza, tra i quali Gabriella Carlucci e Luca Barbareschi. A quel punto, di fronte all'insorgere dell'industria cinematografica tutta, con dichiarazioni di fuoco e minacce varie (Paolo Virzì, a nome degli autori, arrivò addirittura a chiedere le dimissioni di Bondi), i due capi di gabinetto dei ministeri coinvolti, cioè Salvo Nastasi per i Beni culturali e Vincenzo Fortunato per l'Economia, hanno avviato un complesso lavorio sottotraccia per recuperare nelle pieghe del bilancio i 160 milioni necessari a rilanciare tax-credit e tax-shelter. Più il primo del secondo, in verità, giacché il credito di imposta fa gola a tutti, mentre le imprese con utili da reinvestire si contano sul palmo di una mano: diciamo Raicinema, Filmauro e Medusa. Proprio martedì scorso, presentando il corposo listino 2008-2009, l'amministratore delegato di Medusa, Giampaolo Letta, figlio di Gianni, aveva annunciato che la società continuerà ad investire sul prodotto italiano circa 60 milioni di euro all'anno, più 15-20 legati alla promozione, rivolgendo un pensiero particolare al tax-credit. Questo: «Da alcune simulazioni abbiamo visto che gli incentivi fiscali, se attivati, ci permetterebbero di produrre due film italiani in più all'anno».