mercoledì 9 luglio 2008

l’Unità 9.7.08
Marcello Buiatti. Il professore: siamo in un brutto momento politico e sociale, negli ultimi anni l’astio e l’indifferenza fra le persone è aumentato
«Senza la diversità saremmo finiti, il manifesto antirazzista serve a dire questo»
di Francesco Sangermano


Professor Buiatti, da cosa nasce l’esigenza di un manifesto antirazzista come quello che lei ha redatto e che sarà presentato a San Rossore?
«Dal fatto che siamo in un momento sociale e politico molto brutto da vari punti di vista. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’aumento dell’astio e dell’insofferenza fra le persone. C’è una paura collettiva del futuro, una sensazione di perdita di speranza come se fossimo davanti a una crisi economica drammatica quasi come quella del ‘29. Ma non è così».
Cosa genera questa paura?
«La storia ci insegna che in questa fragilità dell’identità di popolo, succede che si tende a cercare un caprio espiatorio. Settant’anni fa erano gli ebrei come me, ora sono i rom, gli immigrati, i diversi in generale».
Si è arrivati, per i rom, perfino a parlare di schedature. Che effetto le fa?
«Sono provocazioni bestiali che incitano, appunto, a trovare in quei soggetti il caprio espiatorio, il nemico da accusare per le cose che non vanno nella nostra società. Esattamente come è accaduto all’epoca nazista o in tutte le guerre etniche. Ma se allora, nella Germania nella quale nacque e si affermò il Nazismo, si era in condizioni di reali crisi, la nostra situazione attuale non è minimamente paragonabile. E anche se non arriveremo a ripetere quei fenomeni, incitare all’odio è comunque altrettanto colpevole».
Il manifesto smonta punto per punto quello dei suoi colleghi di settant’anni fa.
«Era importante fare una verifica della realtà e spiegare in modo corretto, da scienziati, quello che scienziati scorretti avevano teorizzato in passato. Molte volte azioni politiche negative cercano di giustificarsi con concezioni e dati scientifici e noi abbiamo voluto chiarire che i dati scientifici dicono altro».
Ovvero?
«Che le tesi sulla razza di settant’anni fa non hanno alcun fondamento. Non foss’altro perché allora la genetica era veramente agli albori e non sapevano neppure cosa fosse il Dna dato che la doppia elica è stata scoperta nel 1953. Ma il razzismo è nato ben prima della genetica e allora faceva “comodo” attribuire caratteristiche di ereditarietà ai carattere fisici e alla mentalità. Col risultato che se una persona non si poteva cambiare era da considerare un nemico e andava ucciso».
Crede che certi pregiudizi siano presenti ancora oggi in qualche misura?
«Io penso che se chiediamo agli italiani la differenza fra rom e romeno non lo sanno. Eppure non è affatto la stessa cosa. I rom non sono romeni. I rom sono anche romeni. Ma gli uni sono originari addirittura dell’India mentre i romeni sono un popolo di matrice slava e latina. Invece si procede per omologazione perché sigla e nome del popolo si assomigliano. Sembra di ragionare al livello culturale di allora».
Dal punto di vista scientifico, invece, cosa è oggi la diversità?
«Senza la diversità ci troveremmo di fronte a un grande limite culturale. Perché gli esseri umani hanno in sé molta poca variabilità genetica. Piuttosto quello che ci distingue ad esempio dalle scimmie è che noi ci rapportiamo ai diversi ambienti adattandoli a noi e formando in ogni luogo una sua lingua, una sua cultura. Cambiare per adattarsi alle condizioni del pianeta è la nostra ricchezza. Se perdessimo questa variabilità culturale saremmo finiti».

l’Unità 9.7.08
Governo, tre passi nella xenofobia
di Roberto Zaccaria


In questa settimana e in quella successiva, dopo i pareri delle competenti commissioni parlamentari, diventeranno leggi della Repubblica tre decreti del Governo Berlusconi, legati al pacchetto sicurezza, che contengono un vero e proprio giro di vite in chiave xenofoba, su materie estremamente delicate quali quelle del ricongiungimento famigliare, dell’asilo e del diritto di libera circolazione dei cittadini comunitari.
Questi istituti erano stati regolati con equilibrio in attuazione di altrettante direttive comunitarie dal Governo Prodi. La stessa possibilità di espulsione dei cittadini comunitari per gravi motivi di sicurezza pubblica era stata disciplinata nel rispetto dei dettami comunitari. Il nuovo Governo pretende ora, utilizzando la stessa delega, non di apportare leggeri ritocchi, ma di dettare disposizioni radicalmente diverse, che vanno molto oltre il tema della sicurezza e utilizzando una scorciatoia legislativa che la Costituzione non consente assolutamente.
In materia di asilo si realizza lo strappo più grave. La nostra Costituzione prevede che lo straniero che scappa da un paese nel quale non siano garantite libertà democratiche ha diritto di essere accolto nel nostro paese. Non si tratta di grandi numeri (meno di 10.000 persone all’anno) ma tutti casi estremamente delicati di persone che tra infinite peripezie e rischi personali riescono ad arrivare, spesso solo dal mare, nel nostro paese.
La regola precedente permetteva il controllo giurisdizionale in tempi brevi sul rifiuto amministrativo con conseguente sospensione del primo provvedimento (spesso capita che in quel secondo controllo il 30 per cento dei richiedenti possa ottenere l’asilo). Ora si stabilisce che il soggetto nelle more del ricorso possa essere allontanato e quindi debba ritornare nel paese da dove è scappato e quindi corra concretamente il rischio di carcere e di torture.
L’Onu e la Chiesa hanno vivamente protestato contro questa misura gravemente discriminatoria.
Anche sulla possibilità di circolazione nel nostro Paese dei cittadini comunitari il nuovo decreto del Governo introduce una limitazione in violazione palese della direttiva europea.Il cittadino comunitario che dopo i tre mesi di soggiorno abbia omesso di effettuare la iscrizione anagrafica incorre in una sanzione pesantissima: può essere espulso per motivi imperativi di pubblica sicurezza come un soggetto pericolosissimo.
In questa situazione, per una semplice dimenticanza amministrativa, potrebbe trovarsi un qualsiasi cittadino di uno dei 27 Paesi della Comunità che sia in Italia per le più svariate ragioni di turismo, di studio, di lavoro. La direttiva chiede sanzioni proporzionate e non discriminatorie: questa sanzione è chiaramente eccessiva, tipica di un regime di polizia.
Anche sui ricongiungimenti il giro di vite è fortissimo: vietato ricongiungersi con mogli che non abbiano compiuto i 18anni, vietato ricongiungersi con figli maggiorenni a meno che non siano totalmente invalidi, facoltà-dovere di usare il test del Dna per provare lo stato di parentela. Nessuna cautela tra quelle prescritte dal Garante della privacy per l’utilizzazione ulteriore di questi esami, decisamente più invasivi di altri strumenti di rilevazione.
I rischi di abusi sono fortissimi, mentre il vero parametro dovrebbe restare quello di possedere mezzi sufficienti per accogliere il congiunto e il non gravare in misura sproporzionata sull’assistenza e la previdenza sociale.
Quelli richiamati sono solo alcuni esempi.
Il problema di fondo è un’altro: se un Governo vuole impostare una nuova politica xenofoba è padrone di farlo, ma lo faccia non clandestinamente o alla chetichella, usando e snaturando deleghe legislative, di opposto tenore, del Governo precedente e si assuma invece tutta intera la propria responsabilità politica dopo un pubblico dibattito parlamentare e si prepari così a viso aperto a contrastare l’Europa.

l’Unità 9.7.08
Legalità. È questa comunque la nota forte di piazza Navona. Prevedibili i richiami populisti alla Grillo: il tema sarà riuscire a dar loro un’altra forma
Ma sotto il palco «si ritrova» il popolo dell’opposizione
di Bruno Gravagnuolo


Una manifestazione dai due volti, quella di ieri in Piazza Navona. Inevitabilmente del resto. Da un lato un volto più politico, attento a non dividere l’opposizione o a esasperare lo scontro istituzionale. Addirittura all’esordio, Mattia Stella ha voluto esprimere solidarietà umana e politica a Napolitano, Presidente che incarna la Costituzione, a fronte di un premier come Berlusconi. Poi invece il lato satirico, a sfociare nell’«happening», con il collegamento telefonico con Beppe Grillo, che picchia duro su Napolitano «Morfeo» e «topo gigio» Veltroni. Rimbeccato con energia da Furio Colombo che si dissocia sul finale. E che rivendica l’importanza di aver portato al centro della serata i bambini Rom, di cui si vogliono prendere le impronte: una manifestazione a favore dell’opposizione e non contro, per darle più forza, non certo per dividerla. Ma poi quanto a «oltranze», a parte il Ratzinger spedito da Sabina Guzzanti all’inferno, e incalzato da diavoli gay, poca roba, magari discutibile. Il tutto però davanti a un popolo combattivo e composto. Che abbassa le tante bandiere dell’Idv quando il palco glielo chiede (ce ne erano tante anche di Sd e di Rifondazione). E che si «gasa» quando risuonano gli appelli alla «legge eguale per tutti», e a una più forte opposizione. In fondo non è che un esordio, continuiamo la lotta: questo il senso. Mentre in tante città d’Italia va in scena qualcosa di analogo. Milano, Torino, Genova, Brescia, Siena e tante città dell’Emilia, che rispondono ai richiami dei tanti blog, fra i quali quello di Nando Dalla Chiesa.
Che significa tutto questo? Che il popolo dell’opposizione c’è, e ha voglia di battersi. E che tuttavia forse non ha ancora «carburato», per mancanza di guida politica, e «continuità di gioco». Le cose migliori - a parte il Colombo che si dissocia dagli attacchi a Napolitano e invita dar battaglia capillare sulla legalità - sono in quel che affiora all’inizio. Nella falsariga ideale, che è già un filo conduttore importante per l’opposizione in fieri. E cioè: la legalità non è un «optional moralistico». E le leggi canaglia di Berlusconi, sono esattamente «l’ingombro» che impedisce al Parlamento di affrontare i suoi problemi veri: salari, pensioni, crisi economica, precarietà, emergenze ambientali. Lo ripetono un po’ tutti, da Flores, a Pardi, alla girotondina Laura Belli. E a Di Pietro, nel cui discorso non c’è un filo di polemica né verso Napolitano, né verso il Pd. Solo la rivendicazione di un’opposizione più incisiva e diversa, legittima quindi.
E l’altro tema chiave è questo: la legge eguale per tutti, oltre a fatto di etica civile e dignità, è anche dignità del lavoro. Dignità dei diritti sociali. Democrazia presa sul serio, nelle istituzioni e in economia. Senza arroganze patrimonialistiche, o pervertimenti a misura di «emergenze personali». Per cui, dice Marco Travaglio, per velocizzare la «sicurezza», si tenta di mettere in sicurezza una sola persona: Berlusconi dai suoi processi. Bloccando e vanificando centomila processi! Ecco quindi il circolo virtuoso dell’opposizione civile che si viene facendo e che incalza quella ufficiale: legare la giustizia legale alla giustizia giusta. Al lavoro e all’economia, e alle urgenze del paese. Mortificate dal contenzioso personale del premier, che imprime un marchio privato a tutta la vita del paese. Dalla scelta dei ministri a servizio al sogno di modellare una Costituzione a suo uso e consumo: decisionistica, plebiscitaria. Con Parlamento, e istituti di controllo, svuotati. E qui ha ragione Pancho Pardi: «questa Costituzione va difesa». Perchè la mira e il sogno di Berlusconi sono chiari: «inaugurare un altro settennato al Colle». Magari scalzando proprio l’attuale Presidente. La cui garanzia - aggiungiamo - non deve essere delegittimata. Per evitare di fare il gioco del Cav. Per finire una notazione. Era ovvio che invitando Grillo e la sua «retorica» in piazza - accanto a un pezzo di opposizione - ci si poteva aspettare anche l’happening populista. E però quel suo umore antipolitico e sgradevole, circola anche a sinistra e ormai da tempo. Importante è perciò prosciugarlo, e dare ad esso forma politica. Senza mettere la testa sotto la sabbia, in nome di un galateo di cui l’avversario ha fatto sempre strame e con ben altra virulenza. Sicché al popolo dell’opposizione, che nasce e che si ridesta dalla sue delusioni, occorre dare sponde e risposte. Guida politica insomma, senza oscillazioni e retoriche del dialogo che snervano anche le migliori intenzioni. Sì, qualcosa si muove in questo senso, eppur si muove malgrado la sconfitta. E già in Parlamento se ne vedono i frutti, con un atteggiamento più chiaro e fermo su «lodi» e «blocca processi». In fondo è bastato un preannuncio di girotondi per rimettere di nuovo in moto la situazione. Facciamoli girare quei girotondi, fino a coinvolgere altri mondi e altra gente. Dal basso in alto e viceversa. Girare. bene e magari senza bisogno di Grillo.

l’Unità 9.7.08
Rifondazione, guerra di cifre anche a Roma
Esiti dei congressi contestati, voti annullati alla mozione Vendola
di Luciana Cimino


UNA CRISI intestina di tali proporzioni dentro Rifondazione non se l’aspettavano. Certo le avvisaglie, all’indomani della terribile sconfitta elettorale di aprile, c’erano
state, ma nessuno pensava che la resa dei conti finale arrivasse tanto presto. E come nei peggiori film, è questo il momento dei veleni. Come a Reggio Calabria anche a Roma Prc si avvia al congresso cittadino, nel prossimo fine settimana, con sospetti di brogli e contestazioni sulle modalità di voto. Nella Capitale la mozione numero 2, primo firmatario Nichi Vendola, aveva ottenuto il 48,6% delle preferenze, ovvero la maggioranza relativa sulle 5 presentate. Quella Acerbo, sostenuta dall’ex ministro alle politiche sociali, Paolo Ferrero, si era fermata al 41.7%. Una tendenza, secondo il segretario regionale, Giancarlo Torricelli, che dovrebbe essere la stessa in tutto il Lazio, anche se ancora manca l’esito di 15 congressi territoriali. Nella tarda serata di ieri, però, il colpo di scena: la commissione congressuale cittadina, composta in maggioranza da sostenitori della mozione 1 e 3, ha annullato circa 200 voti, facendo scendere la mozione Vendola al 38% e consegnandola così alla sconfitta. «E’ un fatto di una gravità inaudita – commenta il segretario cittadino uscente, Massimiliano Smeriglio – mai successo nella storia dei partiti di sinistra in Italia». «I voti sono stati contestati per futili motivi: una quota non versata per intero, una firma mancante sulla tessera», ha spiegato Luigi Nieri, assessore della regione Lazio al bilancio, che accusa: «non si è usato lo stesso metro di giudizio, le regole o le osservano tutti o si cancellano». Annullati anche 53 voti nella sezione storica di Garbatella, che aveva massicciamente votato per Vendola. «Che nelle dinamiche congressuali, pur durissime, si arrivi ad aggredire proprio quest’esperienza, da tutti riconosciuta come una delle più interessanti del panorama nazionale di Rifondazione Comunista – ha commentato Andrea Catarci, presidente del Municipio XI - è veramente un atto d’insensatezza e d’irresponsabilità, oltre che di viltà». Il coordinamento capitolino della mozione Vendola parla di «annullamento chirurgico» e di «resa dei conti» e annuncia il ricorso presso la commissione congressuale nazionale, che dovrebbe pronunciarsi già oggi. Ironico Ferrero: «vedo con preoccupazione che una parte della mozione 2 si sta accalorando in maniera fuori luogo, penso che si possa fare un congresso dibattuto purché si faccia nel pieno rispetto delle regole». «Chiediamo – dice Smeriglio – il ripristino di tutti i voti o non parteciperemo a un congresso farsa in cui le preferenze acquisite sul campo vengono immolati sull’altare di metodi stalinisti». La parola che Smeriglio non vuole pronunciare si chiama scissione. Di certo, però «se sarà fatta carta straccia dei risultati congressuali prenderemo la decisione più adeguata, è in ballo la linea politica del partito».

il Riformista 9.7.08
Il dibattito surreale in Rifondazione


A pochi giorni dallo svolgimento del Congresso nazionale si continua a capire poco di quel che accade dentro Rifondazione comunista. Lo scontro è all'arma bianca. Congressi annullati, militanti a cui è impedito di votare, clima esasperato. Si capisce solo che chiunque vincerà, ci sarà una scissione. I seguaci dell'ex ministro Ferrero da una parte, quelli di Vendola dall'altra. Il dibattito è stato surreale. Il paradosso più buffo, insisto nello scriverne, è stato vedere un ex ministro capeggiare la corrente che dice «mai più al governo». Eppure ci deve essere qualcosa di più profondo che spieghi le ragioni di questa avversione reciproca che ormai sconfina nell'odio. Non credo che sia il comunismo a dividerli. Al comunismo non crede più nessuno, per fortuna. Probabilmente la vecchia etichetta politica, Rifondazione comunista, tiene assieme emozioni, pensieri e persone che viaggiano su pianeti diversi. Una intervista al segretario provinciale di Prc di Milano, pubblicata ieri dal "Manifesto", ha rafforzato questa mia convinzione. Antonello Patta denuncia il «razzismo» di Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano che rom e islamici li farebbe a pezzi come Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno e sbirro a tempo perso. E dice: «Veniamo da una batosta elettorale che ci ha annichilito, anche nella società e nei movimenti. Ai circoli arrivano anche nostri iscritti che ce l'hanno con gli zingari…». Fantastico! La vostra gente va a destra e voi litigate su Prodi e Veltroni!

l’Unità 9.7.08
Giornali di partito, il premier taglia i fondi
L’aveva promesso e nella manovra Tremonti ecco la scure
sui contributi diretti statali. Mantenute le agevolazioni per i grandi gruppi
di Roberto Rossi


EDITORIA «Quello che faremo semplicemente sarà togliere il finanziamento pubblico...». Sorridente, affabile, rinvigorito, il 16 aprile scorso, il giorno dopo le elezioni, Silvio Berlusconi aveva sparato così contro l’Unità. Tra intercettazioni e «lodi» quel giorno rivisto oggi, sembra una cartolina ingiallita e quella frase una battuta dettata dall’euforia di una vittoria netta.
Purtroppo non è così. Quelle parole hanno avuto un seguito. Nero su bianco. Riportate in un decreto, quello del 25 giugno 2008 n. 112 (la manovra di Tremonti), approvato in appena nove minuti ma scritto in ben nove giorni. Le si possono leggere nell’articolo 44, «Semplificazione e riordino delle procedure di erogazione ai contributi dell’editoria». Naturalmente cambia la forma, la cosa è un po’ più tecnica e sottile, ma non la finalità: l’abolizione dei contributi all’editoria cooperativa, non profit, di partito.
Andiamo con ordine. In base alla legge 67 del 1987 in Italia l’editoria gode di contributi statali. La Finanziaria 2008, approvata dal governo Prodi, ha stabilito per il comparto una cifra pari a 414 milioni. La somma in realtà è molto al di sotto del fabbisogno dell’intero settore che è stimato in 589 milioni. Ripartito in questo modo: 190 milioni per i contributi diretti, gli altri 399 per agevolazioni postali, elettriche e satellitari.
Per essere chiari il contributo diretto è quello che lo Stato eroga alle società editrici in base a determinati parametri (come la tiratura). Per cooperative, come il Manifesto, o giornali politici, come L’Unità (che fa riferimento al gruppo parlamentari Democratici di Sinistra), che di solito hanno pubblicità scarsa, il contributo diretto rappresenta una bella fetta del bilancio. Le agevolazioni, postali o di altro genere, invece, riguardano i grandi gruppi editoriali, come il Sole 24 Ore o il Corriere della Sera (tra l’altro quotati in Borsa) e rappresentano la più grossa fetta dei contributi.
Fetta che però il governo, nel decreto, non tocca. Quello che si colpisce sono i soli contributi diretti. In maniera sottile, per induzione se si vuole, li si eliminano tutti. Come? L’articolo 44 delega al governo la potestà di decidere non solo le procedure di accesso ma anche i «criteri di erogazione» dei contributi diretti. Inoltre, cosa più importante, i nuovi criteri di erogazione dei contributi diretti andranno stabiliti «tenendo conto delle somme complessivamente stanziate nel bilancio dello Stato per il settore dell’editoria, che costituiscono il massimo di spesa». Ma nel 2008 il limite massimo di spesa è fissato in 414 milioni. Di questi 399 milioni saranno assorbiti dai grandi gruppi editoriali, sulla carta campioni di liberismo, attraverso le agevolazioni postali e di credito. Solo 15 milioni sarebbero destinati ai contributi diretti a fronte di un fabbisogno di 190 milioni. Briciole. Che spariranno nel 2009 e 2010. Il decreto prevede la decurtazione delle somme stanziate dallo Stato. Non più 414 milioni ma rispettivamente 387 e 266 milioni. In questo caso i giornali di partito o le cooperative non potranno ottenere nulla.
L’articolo in questione - che è in discussione alla Camera ed è stato oggetto lo scorso lunedì di un emendamento abrogativo parziale da parte del Pd - è ancora più pericoloso perché andrebbe a incidere su voci di bilancio già certificate. Per l’Unità, ad esempio, vorrebbe dire rinunciare già nel corso del 2008 ai circa sei milioni di euro di rimborso statale.
Naturalmente anche questo giornale si è battuto per un riordino del contributi per l’editoria, attraverso nuovi criteri di selezione, e più in generale anche del mercato pubblicitario. Che è tutto spostato verso le tv. E cioè Rai e Mediaset. Quest’ultima di proprietà, fa sempre bene ricordarlo, di Silvio Berlusconi. Che sul quel decreto ha messo la firma.

l’Unità 9.7.08
Il rapporto di Human Right Watch
Un milione e mezzo di schiave nell’Arabia Saudita tanto amica dell’Occidente
di Umberto De Giovannangeli


UN ESERCITO di schiave. Sfruttate. Picchiate. Violentate. Senza diritti. Senza dignità. Costrette a lavorare per 18 ore, sette giorni su sette. E se qualcuna osa ribellarsi il suo destino è segnato: fustigata a sangue. «Come se non fossi un essere umano». E questo in un Paese che l’Occidente democratico, paladino dei diritti della persona, considera un fedele alleato nel nevralgico scacchiere mediorientale: l’Arabia Saudita. L’organizzazione Human Right Watch (HRW), che difende i diritti umani, denuncia che milioni di donne di origine asiatica sono trattate come delle schiave in Arabia Saudita. Per questo motivo HRW chiede a Riad di prendere misure radicali per tutelarle legalmente.
L’Organizzazione non governativa dopo due anni di ricerche ha pubblicato il rapporto dal titolo «Come se non fossi un essere umano» e stima che un totale di 1.5 milioni di donne tuttofare provenienti dall’Indonesia, dalle Filippine, dallo Sri Lanka e dal Nepal sono sfruttate in Arabia Saudita. «Nel migliore dei casi le donne che emigrano in Arabia Saudita beneficiano di buone condizioni di lavoro e di buoni datori di lavoro. Nel peggiore invece sono trattate quasi come delle schiave. Nella maggior parte dei casi queste donne si trovano in una condizione intermedia», riassume Nisha Varia, co-autrice del rapporto. La legislazione sul lavoro nel regno ultraconservatore, secondo il rapporto, «esclude le domestiche, privandole di diritti garantiti invece agli altri lavoratori, come ad esempio un giorno di riposo settimanale ed il pagamento di ore di straordinario». «Il governo saudita ha fatto delle proposte di riforma ma ha passato anni a contemplarle senza prendere alcuna misura in merito», afferma Varia e continua: «È arrivato il momento di attuare queste riforme».
In Arabia Saudita, ufficialmente, la schiavitù è stata abolita solo nel 1963. Ufficialmente. Perché la realtà racconta un’altra storia. Agghiacciante. Nel lavoro di 133 pagine, corredato da più di 80 interviste a domestiche, emerge un quadro drammatico di sfruttamento e violazione dei diritti umani. «Per un anno e cinque mesi non ho percepito stipendio. Quando chiedevo il denaro il mio datore di lavoro mi colpiva, cercava di ferirmi con un coltello», afferma una donna. «Lavoravo 18 ore al giorno, 7 giorni alla settimana, per anni, senza essere pagata», dichiara una signora di origine indonesiana. La materia di diritto, in tema di tutela delle donne sul lavoro in Arabia Saudita dà un potere molto forte agli uomini, al punto da impedire alla domestica di cambiare luogo dell’occupazione o lasciare il Paese. In questi anni numerose donne filippine, indonesiane, dello Sri Lanka hanno cercato rifugio nelle rispettive ambasciate. «È tempo di fare dei cambiamenti - afferma una donna intervistata - cercando di garantire, anche alle domestiche, il rispetto dei diritti del lavoratore, previsti dalla legge del 2005».
«Le donne continuano a subire discriminazioni di fronte alla legge e nelle consuetudini e non hanno ricevuto adeguate protezioni contro la violenza domestica e familiare», denuncia Amnesty International in un suo recente rapporto sulla condizione della donna in Arabia Saudita. «Ogni giorno - ricorda Amnesty - i diritti fondamentali di chi vive in Arabia Saudita sono prevaricati e in pochi vengono a saperlo: condanne a morte, fustigazioni ed amputazioni sono comminate ed eseguite senza la minima considerazione per i principi di umanità e le regole del diritto internazionale». Un diritto che non trova spazio in Arabia Saudita. Un Paese in cui - concordano le più impegnate associazioni umanitarie internazionali - il Corano e la shari’a (legge islamica) sono utilizzati come strumento per opprimere, spaventare, violare la dignità di donne, bambini, uomini impotenti ed incapaci a difendersi. Donne come Maria, giovane filippina giunta in Arabia Saudita come collaboratrice domestica e colta dal padrone di casa, qualche mese più tardi, mentre dava da mangiare all’autista. Per questo «reato» - aver avvicinato un uomo, seppur per offrirgli del del cibo - la domestica fu condannata a dieci mesi di carcere e a 200 frustate. Al termine della pena, Maria venne deportata nelle Filippine.

l’Unità 9.7.08
Forza Zapatero. Ci iscriviamo?
di Bruno Gravagnuolo


Que viva Zapatero! Splendide le conclusioni di Rodriguez Zapatero al congresso del Psoe. Che abbiamo letto per esteso su Repubblica di lunedì. Al centro, un tema semplice ed efficace: il socialismo di cittadinanza. Che cos’è per Zapatero, che in quel discorso dice per sette volte «noi socialisti»? Letterale: «la «distribuzione della ricchezza e del potere». E attraverso i diritti. Nel quadro di «doveri», però. E cioè la solidarietà verso gli altri. E poi l’efficienza, la produzione di ricchezza. L’amor patrio e civico, aperto al mondo. Il tutto nel rispetto di ambiente, parità delle diferenze anche sessuali. La parità assoluta uomo-donna, e la promozione delle «chances» di queste ultime. Ottimo e abbondante, per uno davvero di sinistra come Rodriguez Zapatero. Che espone nel suo studio la fotografia del nonno antifascista, fucilato dai franchisti. Nonché il suo testamento morale scritto. E ciò con buona pace della superficialità di chi aveva parlato di «olvido» della guerra civile come «patto virtuoso» tra gli spagnoli per fondare la democrazia (da Perez-Diaz a Salvati). Niente affatto: la base simbolica della democrazia spagnola, per Zapatero e il suo Psoe, è proprio la memoria antifascista. E senza dimenticare la coraggioosa battaglia laica, che rompe in Spagna tenaci pregiudizi e privilegi, tipici di una delle Chiese cattoliche più reazionarie e tradizionaliste. C’è da imparare, no? Almeno qualcosa! E non solo dalle politiche zapateriste. Bensì anche da quel definirsi «socialista» di Zapatero. Altro che residuo. Altro che anticaglia. È un fattore propulsivo di orgoglio. Vincente in Spagna. Ci iscriviamo?
Una lode imbarazzante Quella di Galli Della Loggia sul Corsera a Vittorio Cerami, responsabile cultura Pd, che aveva definito gli organizzatori della manifestazione di Piazza Navona dei «bacchettoni di mestiere». Il che dà il destro a Della Loggia per gioire, e demolire la «mitologia girotondina». Giochino futile, per trattare quelli che non la pensano come lui alla stregua di fanatici e populisti moralisti. Prescindendo dal merito («leggi canaglia») e demonizzando il dissenso politico che non accetta di stare in braghe perbeniste moderate. E però Cerami sembra starci bene in quelle braghe «terziste»... o no?

Corriere della Sera 9.7.08
La missione Antichi testi arabi minacciati da sabbia e sole. Per non perderli gli esperti sfidano Al Qaeda
Operazione biblioteche nel deserto Libri in salvo dal Sahara a Udine
Al via i corsi per strappare all'oblio 30 mila manoscritti della Mauritania
di Michele Farina


PASSARIANO (Udine) — Vedendo questi ragazzi chini sui manoscritti, nella cornice meravigliosa di Villa Manin a Passariano, Lalla sarebbe orgogliosa. Lalla Feliciangeli, l'italiana più amata del Sahara occidentale, è morta a gennaio. L'idea di salvare le biblioteche del deserto in uno dei Paesi più sperduti del mondo è venuta a lei, anima della nostra Croce Rossa in Mauritania. La sua prima cura era per i bambini e le donne. Cibo e microcredito. Su sua indicazione un anno fa il Corriere
visitò un villaggio dell'Adrar che la sabbia si sta mangiando. La gente sposta le case più in là, il deserto le insegue. Impressionante. «Allora dovresti vedere Tichitt», disse Lalla. Rideva. «Pensa che voglio mandarci i patologi del libro». Chi? «Quelli della Scuola di Restauro in Friuli». A fare cosa? «A salvare le biblioteche. Stanno andando tutte in malora. Non solo a Tichitt. E' il patrimonio di questa gente. E un po' anche nostro. Manoscritti passati di padre in figlio per secoli, volumi che i pellegrini portavano a casa di ritorno dalla Mecca. Ricchezze di famiglia in mezzo al niente. A Tichitt c'era un vecchio bibliotecario cieco. Non ricordo il nome. Custodiva religiosamente dentro valigie polverose i libri che intanto gli insetti e l'umidità distruggevano. Dobbiamo aiutarlo, mi son detta. È importante quasi come dare cibo ai bambini dell'Adrar».
Lalla sarebbe orgogliosa: domani il progetto salva-biblioteche sarà presentato ufficialmente a Villa Manin. In realtà è già operativo. Il Corriere lo segue da un anno. Bilancio: 900 mila euro. Fondi del ministero degli Esteri (Cooperazione e sviluppo, 600 mila euro), realizzazione a carico della Regione Friuli in collaborazione con due istituti di ricerca mauritani (300 mila euro). Come si salvano 30 mila manoscritti che marciscono in case private di villaggi a centinaia di chilometri l'uno dall'altro, spesso raggiungibili soltanto con i fuoristrada? Ci hanno provato in tanti: americani, francesi, tedeschi. La ricetta friulana: terapia d'urto e piano di cure a lunga scadenza. «Apriremo laboratori in ognuna delle quattro località interessate», dice Alessandro Giacomello, direttore della Scuola Regionale di Restauro e responsabile del progetto Mauritania. Primo obiettivo: passare i manoscritti all'interno di «macchine» speciali che uccidono gli agenti patogeni. L'idea di raccogliere tutti i volumi in un museo, magari nella capitale, è sbagliata. «Queste biblioteche sono la ricchezza del territorio e devono restarci » sostiene Carlo Federici, probabilmente il maggior patologo librario d'Italia. Ha da poco curato il «restyling » della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il medico degli 80 mila manoscritti del Papa, lo scorso dicembre con la benedizione di Lalla, arrancò sulla pista verso Tichitt per il primo sopralluogo alle valigie del vecchio cieco. Certo i manoscritti del Sahara non sono comparabili con i tesori del Vaticano, un esemplare inestimabile dell'Eneide piuttosto che la Bibbia di Federico di Montefeltro. Sono testi religiosi e di giurisprudenza, «ma anche una copia del Corano che ha attraversato il Sahara nel XII secolo a dorso di cammello riveste un valore straordinario». E poi per un patologo ogni paziente è uguale.
Il primo nemico? «La luce — dice Federici —. Infatti i mano-scritti del Vaticano stanno» in un bunker «di cemento armato, senza finestre». Difficile tenere lontana la luce del Sahara... «Faremo il possibile per isolarli. D'altra parte è importante che questi manoscritti siano fruibili. Possiamo allungargli la vita, digitalizzarli, ma anche per i libri non esiste eternità».
Chi allungherà la vita ai manoscritti come quelli della meravigliosa Chinguetti, settima città santa dell'Islam? Sidi e Mohammed sono venuti in Italia per questo. Sono due dei 12 allievi del corso di restauro che si snoda tra Nouakchott e Villa Manin. Da domani al 26 settembre proseguiranno le lezioni cominciate in Mauritania con la supervisione di Irene Zanella, che ha già lavorato tra i tesori del Monastero di Santa Caterina sul Sinai. Mohammed ha 35 anni, è di Chinguetti: «Quest'anno abbiamo perso la Parigi-Dakar ma abbiamo trovato gli italiani che ci aiuteranno a salvare le nostre biblioteche». La corsa con la sua coda di stranieri costituisce una manna per la Mauritania («il costo di una capra passa da 10 a 100 euro»), ma è stata cancellata per le minacce di Al Qaeda. «A noi Al Qaeda ci fa un baffo — dice il direttore Giacomello —. In Friuli siamo sopravvissuti al terremoto». Un'esperienza di ieri che spiega la passione di oggi: «Non dimentichiamo il tempo in cui altri hanno aiutato noi. Aiutare i mauritani è un modo per dire grazie ». Anche di queste parole Lalla sarebbe orgogliosa. Quando un saggio muore, si dice in Africa, è una biblioteca che brucia. Il vecchio bibliotecario cieco di Tichitt è morto, la sua biblioteca risorge.

Corriere della Sera 9.7.08
L'Unesco Nella lista Mantova, Sabbioneta e il trenino rosso del Bernina
Patrimonio dell'umanità L'Italia da record: 43 siti


MILANO — Mantova e Sabbioneta, «eccezionali testimonianze dell'architettura e dell'urbanistica del Rinascimento », e la Ferrovia Retica, che attraversa le Alpi tra Italia e Svizzera, sono da ieri «Patrimonio mondiale dell'umanità ». Con loro entrano a far parte della lista stilata dall'Unesco anche il Monte Titano e il centro storico di San Marino, portando per la prima volta la minuscola Repubblica ad ottenere il prestigioso riconoscimento.
Lo ha deciso il Comitato dell'Unesco che vaglia le candidature, riunito per la trentaduesima volta nella sua storia, in Canada, a Quebec City, in una sessione fiume che terminerà domani. Tra ieri e lunedì, il Comitato ha aggiunto alla lista dei siti bollati «World Heritage » 27 località, diciannove scelte per l'importanza culturale e otto per quella naturale. Una massiccia infornata che si va ad aggiungere agli 851 siti già presenti nelle liste dell'Unesco, aperte nel 1972, e che rende più saldo il primato assoluto italiano. Con l'ingresso di Mantova e Sabbioneta — la «Piccola Atene» voluta dal duca Vespasiano Gonzaga — e della ferrovia dell'Albula e del Bernina (a metà con la Svizzera), l'Italia arriva ora ad avere 43 siti riconosciuti di «eccezionale valore universale» e dotate dei requisiti di «autenticità e integrità». Quest'anno, però, uno dei portabandiera del made in Italy ambientale rischiava di vedersi scippato il bollino Unesco: l'arcipelago delle Eolie. Scongiurata dai commissari di Quebec City l'ipotesi di cancellazione, le isole escono dalla lista dei beni a rischio ma restano comunque delle «sorvegliate speciali» dall'Unesco. Punti caldi, la chiusura delle cave di pomice, i lavori di costruzione del porto e la gestione complessiva del sito da parte di un organismo unico. Una sconfitta sventata accanto alle vittorie della Ferrovia Retica e del duo Mantova/ Sabbioneta, scelto dall'Unesco perché fotografa aspetti diversi dello stesso genio rinascimentale, da una parte impegnato nel «rinnovo e nell'ampliamento di una città già esistente», dal-l'altra nella pianificazione di una italianissima città ideale. Uscendo dall'Italia, tra le new entry assolute di quest'anno, oltre a San Marino, ci sono Papua Nuova Guinea con il sito di agricoltura primitiva di Kuk, l'Arabia Saudita con le archeologie di Al-Hijr e i resti del palazzo e della tomba del re Mata a Vanuatu. Si aggiudicano un posto in lista anche due città della Malaysia — Melaka e George Town —, la pianura di Stari Grad in Croazia, le fortificazioni erette in Francia da monsieur Sébastien de Vauban, ingegnere militare del Re Sole, un complesso di sei edifici costruiti a Berlino tra il 1910 e il 1933, le chiese di legno dei Carpazi, in Slovacchia. E ancora, il tempio cambogiano di Preah Vinear, il sito di Joggins in Nuova Scozia (Canada), il monte Sanqingshan in Cina, il villaggio di Camagüey a Cuba, le lagune della Nuova Caledonia francese, l'isola di Surtsey in Islanda, le steppe di Saryaka in Kazakhistan, la foresta sacra di Mijikenda Kaya in Kenya, l'arcipelago yemenita di Socotra, la regione del Sardona in Svizzera, ben tre siti messicani (San Miguel, il santuario di Jésus di Nazareth e la riserva della farfalla Mariposa Monarca), i monasteri armeni del-l'Iran, i Tulou del Fujian in Cina, la penisola di Le Morne (Mauritius) e i luoghi santi Baha'i in Israele.

Corriere della Sera 9.7.08
Una biografia di Haj Amin al-Husseini riaccende la discussione. Una disputa che divide trasversalmente conservatori e liberal
Islamisti eredi del fascismo. E del comunismo
Dalin e Rothmann: il muftì di Gerusalemme complice di Hitler. Ma Pipes: il vero debito è con il leninismo
di Ennio Caretto


In un libro intitolato Icona del male, sottotitolo «Il muftì di Hitler e la nascita dell'Islam radicale» (Random House), gli storici David Dalin e John Rothmann hanno ricostruito uno dei capitoli più bui della storia musulmana recente, quello di Haj Amin al-Husseini, la massima autorità religiosa e politica della Palestina tra le guerre mondiali. Eletto muftì di Gerusalemme nel 1921 per volontà degli inglesi, Haj Amin si rivelò un despota sanguinario e antisemita. E quando l'Inghilterra aprì la Palestina agli ebrei in fuga dalla Germania nazista, scatenò i moti arabi che culminarono nella rivolta del '36, facendo assassinare indiscriminatamente non solo ebrei, ma anche inglesi e palestinesi dissidenti. Sconfitto, il muftì si rifugiò a Berlino, fornì a Hitler volontari musulmani per le SS e caldeggiò l'Olocausto. In cambio chiese, ma non ottenne, il bombardamento di Gerusalemme e la formazione di un corpo speciale per la «liberazione» della Palestina. Caduto il Terzo Reich, il muftì riuscì misteriosamente a sottrarsi ai processi per crimini di guerra e a riparare in Medio Oriente, dove morì nel '74 «moralmente e politicamente screditato».
Oltre che per la sua minuziosa ricostruzione storica, Icona del male è un libro importante perché ripropone una tesi che riaffiora periodicamente in Occidente a partire dagli anni Sessanta-Settanta, che cioè il nuovo estremismo musulmano affonda le radici nei totalitarismi europei dell'inizio del XX secolo, in particolare nel nazismo e nello stalinismo, entrambi antisemiti, e che quindi l'Europa non è senza responsabilità per la attuale jihad, la guerra santa islamica, e per l'assedio arabo di Israele. Il libro è l'ultimo in ordine di tempo a sostenere questa tesi, lo hanno preceduto numerosi altri tra cui La quarta guerra mondiale (edito in Italia da Lindau) di Norman Podhoretz, il padre dei liberal ultras trasformatisi in neocon dopo il '68. Ma la sua pubblicazione ha riacceso un aspro dibattito: se si possa o meno parlare di islamofascismo, «un termine controverso » nota il New Oxford American Dictionary,
«che paragona alcuni movimenti islamici moderni a quelli fascisti dell'Europa del primo Novecento», o se la jihad e l'antisemitismo non siano sempre stati due connotati fondamentali dell'Islam.
Il termine islamofascismo è stato bandito da George Bush, ma tra quanti sostengono che esso sia un termine «valido», che rispecchia i legami tra due ideologie perverse, vi sono il neocon David Horowitz, il liberal Paul Berman, autore di
Terrore e liberalismo (Einaudi), e Christopher Hitchens, un polemista più difficile da etichettare. I tre ricordano che in Europa l'alleanza tra fascismo e religione fu frequente, tanto che si parlò di «clericofascismo » per la Spagna di Franco, la Croazia degli ustascia, la Romania della Guardia di ferro, detta anche «Legione dell'arcangelo Michele», e altri. Hitchens, che al momento dell'attentato delle Torri gemelle denunciò «il fascismo col volto dell'Islam », riscontra nei due movimenti «lo stesso culto della morte e lo stesso disprezzo della mente, la stessa paranoia antisemita e la stessa adorazione del leader ». Berman commenta che entrambi poggiano sul concetto di una società esclusiva e pura, e sulla sete di vendetta per le umiliazioni loro inflitte dalla storia. Horowitz ha persino condotto una campagna contro l'islamofascismo nelle università per mobilitarle come contro Hitler nel '41.
Questi giudizi erano già stati espressi da vari storici e politologi. Nel '63, Manfred Halperin, un professore di Princeton, ammonì che «il movimento neoislamico emergente è parafascista». Nel '79, il francese Maxime Rodinson definì la rivoluzione di quell'anno in Iran «fascismo arcaico». Nel '90, l'inglese Molise Rutheven usò per primo il termine islamofascismo. E nel '96 Walter Laqueur, nel libro
Fascismi. Passato, presente e futuro (appena uscito in Italia da Marco Tropea), evidenziò «le simpatie fasciste dei Fratelli musulmani e delle forze laiche in Egitto, Iraq e Siria negli anni Venti e Trenta». Secondo alcuni pensatori di oggi, tuttavia, dal liberal Peter Beinart allo storico inglese Tony Judt, al docente di storia delle religioni John Kelsay, all'arabista Daniel Pipes, islamofascismo è un termine improprio. Beinart ribatte che «il fascismo adora lo Stato, che per i musulmani è invece una imposizione pagana che minaccia la loro unità». Judt protesta che «il termine è semplicistico perché la jihad e l'Islam non sono la stessa cosa». Kelsay obietta che «il mainstream musulmano è moderato ma al momento perdente».
A sostenere che, più che al fascismo, l'estremismo islamico vada collegato allo stalinismo è Daniel Pipes, un neocon. A suo parere, esso «ha vincoli storici e filosofici con il marxismo-leninismo». Pipes cita l'interpretazione data da Sayyd Qutb, l'ideologo dei Fratelli musulmani, della dottrina marxista delle fasi della storia: «Prima crollerà il capitalismo, poi il comunismo, infine si creerà un'era eterna dell'Islam». L'arabista fa sua anche l'affermazione dell'iraniana Azar Nafisi che «oggi l'Islam attinge tanto alla religione quanto a Lenin e Stalin». Stando a Pipes, il radicalismo islamico ha una quinta colonna in Occidente: «Gli irriducibili marxisti leninisti che hanno stipulato con esso un patto simile a quello tra Stalin e Hitler nel '39». Ma come quella di Berman, Hitchens e Horowitz, la sua analisi è contestata non solo da Beinart, Judt e Kelsay, bensì anche dagli storici — una minoranza — che riscontrano nell'espansione dell'Islam nei secoli un «imperialismo religioso ». È il caso di Lee Harris, che gli attribuisce l'obiettivo permanente di rendere il mondo «suddito di Allah».
Liceità dei termini islamofascismo e islamomarxismo a parte, su un punto emerge un certo consenso: che gli estremisti musulmani si siano ispirati alla strategia delle dittature europee, se non anche alla loro ideologia. L'inglese Lawrence Freedman lo evidenzia nel libro La scelta dei nemici (PublicAffairs) dove illustra due «onde» nell'attuale guerra dei radicali islamici contro l'Occidente. La prima, spiega, fu quella degli anni Cinquanta e Sessanta, quando i musulmani nazionalisti combatterono il colonialismo e predicarono il secolarismo, una doppia rivoluzione, esterna e interna. La seconda iniziò negli anni Ottanta, in seguito al fallimento della prima, impersonata da Nasser in Egitto e dallo scià in Iran. La loro sconfitta, proclama Freedman, diventò la prova che per sconfiggere il nemico l'Islam doveva recuperare il proprio fondamentalismo religioso. Ma i metodi di lotta non cambiarono nella seconda onda, tuttora in corso. Come in Europa, si tratterebbe comunque di una fase della storia, non del permanente Scontro di civiltà di Samuel Huntington, su cui si polemizza ormai quasi da vent'anni.

Corriere della Sera 9.7.08
L'uscita dei «Diari di guerra» nella Pléiade di Gallimard riaccende antichi rancori
La Francia pubblica Jünger, lite in Germania
di Mara Gergolet


BERLINO — Se c'è un canone della letteratura mondiale, cercatelo nella Bibliothèque de la Pléiade. La pubblicazione dei Diari di guerra di Ernst Jünger nella collana della Gallimard, la più prestigiosa cui un autore possa aspirare in Francia, proprio questo doveva essere (ed è): l'ufficiale consacrazione dello scrittore tedesco a gigante della letteratura mondiale. Non a caso, vi si trovano solo due autori di lingua tedesca del Novecento, Kafka e Brecht. Non Thomas Mann, o Alfred Döblin, o Joseph Roth.
Invece la pubblicazione dei Journaux de guerre I. 1914-1918, II. 1939-1948 (Bibliothèque de la Pléiade. Éditions Gallimard, pp. 2.250, e 115) con i romanzi e scritti politici tra le due guerre (tra gli altri: Nelle tempeste d'acciaio e
Boschetto 125) ha scatenato una forte polemica sui giornali tedeschi. Con aperte accuse alla Francia di volere, con questa pubblicazione, riabilitare il collaborazionismo.
L'attacco più duro è quello dello scrittore George-Arthur Goldschmidt sulle pagine della Frankfurter Rundschau. L'inclusione di questo «mistificatore fascistoide» tra gli spiriti eletti delle lettere francesi — dice Goldschmidt — è un altro segnale dello scarso interesse della Francia per la letteratura tedesca che s'è opposta al nazismo. Peggio ancora, sostiene Goldschmidt. Nella scelta «politica » di includere Jünger s'esprime tutta la maladie française: quel sottile e ostinato rifiuto di elaborare le colpe del collaborazionismo, anzi a tollerarle, che s'è fatto più evidente col nuovo corso di Sarkozy.
Ma quale malattia francese, quale grand Pétainismus che si fa strada nei salotti francesi!, gli risponde la critica Julia Encke.
E sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung non solo respinge le accuse. Le rovescia.
Il vero problema — sostiene — è tedesco: che dopo tutti questi anni non esista una edizione commentata degli scritti tra le due guerre in tedesco, anzi che un'edizione critica di Jünger non esista affatto. Tanto più grave nei confronti di un autore che ha più volte rivisto i suoi testi, e che dopo il 1933, quando rifiutò il seggio offertogli da Hitler al Reichstag, estirpò dai primi romanzi molti dei passaggi che potessero favorire la propaganda hitleriana.
L'edizione commentata della Pléiade, in effetti, colma una lacuna in senso opposto. Perché lo Jünger «politico» è stato semmai sottovalutato in Francia, dove (a partire da Gide) l'autore è stato amato più che in patria. E nell'introduzione all'opera, riaffermando di aver ristabilito anche le versioni più antiche, lo si riconosce: «Quest'edizione vuole offrire al lettore francese la possibilità di crearsi un'opinione precisa su un autore così discusso: il violento nazionalismo e militarismo dei testi del 1924-26 hanno infatti avuto, nella percezione di Jünger in Germania, un peso cruciale ». Esemplare, secondo la Encke, il commento a uno dei passaggi più celebri dei Diari
del 1944: quando Jünger a Parigi, ufficiale del Reich all'Hotel Majestic, guardando il tramonto con un bicchiere di vino in mano, si lascia andare a una cinica (e mistica) esaltazione dello sterminio.
Una polemica che non poteva non chiamare in causa la casa editrice di Jünger, il Klett-Cotta Verlag. «Faremo di tutto per pubblicare un'edizione commentata dei Diari di guerra », dicono. La Germania, intanto, aspetta (o legge in francese).

Corriere della Sera 9.7.08
Seconda generazione Yamina e gli altri: ragazzi islamici a Roma
«Noi, diploma in tasca e rischio di espulsione»
di Maria Egizia Fiaschetti


Dopo la «x», arrivano i «g2». Tradotto: seconde generazioni. Sono i figli degli stranieri, nati in Italia o immigrati in età pre-scolare. A Roma, nel 2006 la fascia 6-17 anni sfiorava quota 22.500. Nel 2020, si stima che gli under 15 aumenteranno tra il 14 e il 18 per cento. «Su questo terreno si misurano le politiche dell'integrazione: serve un provvedimento legislativo, in sinergia con le associazioni», ha ribadito di recente il sottosegretario al Lavoro, Eugenia Roccella, nel suo intervento alla «Giornata del minore » organizzata dal Centro Averroè. «Bisogna cambiare mentalità - sottolinea Karima Moual, presidente dell'associazione "Genemaghrebina" -. Questi ragazzi non vogliono diventare italiani, sono italiani al cento per cento». Cadenza romana, Fatema conferma: «Ci sono nata, il mio futuro è qui». Sembrerebbe scontato, ma a 19 anni non ha ancora il permesso di soggiorno. «Mio padre è scappato in Egitto: senza la sua firma non mi rilasciano il passaporto. Per ora ho il titolo di viaggio, come i rifugiati».
Algerina, Yamina vive a Roma dall'età di due mesi. Anche lei vittima della burocrazia: «Mio padre ci ha abbandonato, sono stata in collegio e nelle case occupate. Tra poco sarò maggiorenne, vorrei diplomarmi, ma senza documenti rischio l'espulsione». Mai un viaggio all'estero, è curiosa di conoscere le sue radici: «Non mi sento italiana né algerina: sono una via di mezzo. Mi hanno sempre rispettato, ma non mi piace quando ci attaccano per il solo fatto di essere stranieri». Contro il pregiudizio, la solidarietà femminile può fare molto: «Difendere i diritti delle donne - ha ricordato la Roccella - è la migliore garanzia d'integrazione». Proprio come insegnano alla scuola Di Donato, rione Esquilino, modello d'intercultura. «Con i corsi d'italiano si rompe il ghiaccio, poi scatta l'invito a pranzo », spiega Francesca, presidente dell'Associazione genitori, che passerà le vacanze con una famiglia siriana. Nell'enclave protetta delle amicizie scolastiche anche loro, i «g2», imparano a conoscersi. «Quando esco, vado a casa delle mie compagne di classe», dice Sara, tredicenne di Damasco. Riccioli biondi e occhi blu, si prepara a indossare l'hijab. Dispiaciuta? «L'ho accettato, penso sia normale». A suo agio persino durante il ramadan, la religione non è un ostacolo: con i coetanei ha altre affinità, dal look d'ordinanza - jeans e sneakers - alla passione per «I Cesaroni». Capelli lunghi e pantaloni oversize, allo studio Sepehr preferisce lo skate-board. Iraniano, è un fan della fiction più amata dagli adolescenti, ma «dopo l'ultima pagella - confessa - niente tv». Seduttore nato, per fare colpo gli basta scrivere: «Vuoi fare txt?» (scambiare messaggi con il cellulare, ndr). «Rispondono tutte », assicura. Disinvolto anche nell'approccio alla religione, si professa «teista». Ovvero: «Credo nel dio amico». Nessuna deroga, invece, per i giovani che la domenica frequentano la moschea di Centocelle: il Corano non si discute. «Oltre a pregare, parliamo di adolescenza e integrazione », spiega Imen, la coordinatrice. Velo e abiti scuri, Takoua li indossa anche al mare: «Ci vado di notte, di giorno è troppo affollato». Feste? «Solo tra ragazze: balliamo il reggaeton e ascoltiamo musica napoletana». Quindici anni, egiziana, Susanna indossa l'hijab da quando ne aveva cinque. Mai provato imbarazzo? «All'inizio i compagni erano curiosi, poi hanno capito che è un pilastro dell'Islam e lo rispettano ». Stesso rigore per i ragazzi: «Frequento le case dei miei amici arabi ed esco solo per giocare a calcio», dice Omar. Il suo rapporto con Allah? «Mi guida verso il bene, al rispetto dell'altro e a impegnarmi nello studio. Teniamo molto agli adolescenti, a differenza di altre religioni: i miei ex compagni delle medie fumano, si drogano ». Delusa dall'Occidente, a ventuno anni Aisha ha riscoperto le sue radici. Padre romano e madre musulmana, dice: «Ero troppo integrata e ho sentito il bisogno di riavvicinarmi alla tradizione. Sto pensando di indossare il velo, ma prima devo rafforzare la mia fede».

La Provincia di Latina 8.7.08
A Roma, in uno spettacolo dedicato alla figura di Giordano Bruno
«Le voci del rifiuto»
Nell’ambito della mostra di Roberta Pugno
di Fabio Pedone


Roberta Pugno è un’artista che sa pensare, il cui gesto insegue immagini in costante dialogo con i filosofi che hanno segnato il passaggio alla modernità, e con uno in particolare: Giordano Bruno. Ispirata, istigata, entusiasmata dalle visioni cosmiche e infinite dell’’academico di nulla academia’, Roberta gli ha dedicato intere serie pittoriche e mostre a tema, una delle quali tenutasi recentemente anche a Sermoneta presso la galleria ‘Il chiodo’. Giordano Bruno si rinnova nell’esperienza di Roberta Pugno con un progetto in preparazione a Roma: ‘Le voci del rifiuto’, che torna nella Capitale dopo essere stato portato in scena a Villa Piccolomini, al teatro La Casetta e al Flaiano negli ultimi 3 anni. L’atto unico ideato, scritto e realizza-to da Roberta Pugno verrà presentato l’11 luglio a Pineta Sacchetti, presso la Casa del Parco, nel quadro della mostra di Roberta Pugno inaugurata invece alcuni giorni fa, sempre nello stesso luogo. L’evento ha il patrocinio del Comune di Roma e delle Biblioteche di Roma, ed è sponsorizzato da Federlazio di Latina e dalla casa editrice Ibiskos.
Lo splendido casale di Pineta Sacchetti, rinnovato da un recente restauro, si muta per l’occasione in teatro notturno destinato ad accogliere uno spettacolo che esplora il dramma della solitudine del pensiero; e alle spalle del pubblico un vasto paesaggio di distese di campi di grano prepara la visione della cupola di San Pietro. “Le voci del rifiuto” racconta uno scontro mortale: quello tra un pensiero che rivoluzionò visione del mondo e concezione dell’uomo nel pieno del Rinascimento, e la realtà violenta dell’intolleranza e della falsità, delle gerarchie ecclesiastiche e dei pedanti intenzionati a imporre l’obbedienza persino con la tortura e la morte. Il Nolano, filosofo superbo, allegro e appassionato, «in tristitia hilaris, in hilaritate tristis», come recita un suo caro motto, passa da un’immagine all’altra, da un concetto all’altro: viaggiando come anima e materia libera per l’universo infinito, la pluralità dei mondi, lo spazio continuo, la sostanza sensibile di cui siamo fatti, la dualità dei contrari, l’incessante trasformazione della materia, l’intelligenza dell’amore.
L’altro è un contraddittore invisibile e nero, che usa il potere per legittimare il sospetto, e con voce immobile decreta la fine del corpo di Giordano Bruno. Una figura femminile viene incontro al pubblico con passi di danza e movimenti curvi: e sembra chiedere «da dove nasce il rifiuto? da dove nasce il coraggio? da dove la certezza? ». La certezza nasce dal coraggio, la profondità del pensiero dall’intelligenza dell’amore e dalla libera volontà di offrire se stessi ora e sempre, interi, per la verità, consumandosi nel mondo. Il suono del sax, che si intreccia alla voce maschile e che accompagna lo stupore della donna, ricorda quanto sia attuale il rifiuto del pensiero religioso e del pensiero razionale. E di quanto oggi più che mai sia indispensabile ricercare bellezza e verità, intrecciate insieme in una testimonianza autentica, liberamente offerta.

martedì 8 luglio 2008

da Sanguerosso, raccolta di racconti, Vallecchi editore, Firenze 1932
Viola
di Ubaldo Fagioli


Più bella di lei in tutta Portosangiorgio non ce n’era una e come fosse figlia di un uomo così brutto nessuno lo sapeva, brutto e cattivo che faceva commercio di pelli di somaro e si diceva che li scorticava vivi. Lo chiamavano Jammaià e tutti lo fuggivano e i ragazzi quando lo vedevano tornare dalla marina dicevano che era stato a sotterrare i somari. Ed era vero, ma prima di sotterrarli il macellaio era avvertito e La Scimmia e Vasco della Rocca erano già pronti per andare a staccar braciole. Ma quando tutti s’accorsero di Viola, che veniva su come un fiore, lo portavano a bere Jammaià nel Grottino e quando non si reggeva in piedi lo accompagnavano a casa: così la vedevano che veniva ad aprir l’uscio in camicia. Bella, bella tanto da far leccare le labbra anche ai forestieri che venivano ai bagni e quando qualcuno si provava a dirle una parola, il meno che gli poteva capitare era un moriammazzato che sembrava un pugno in un occhio. Ma stuzzica qua e stuzzica là, Viola finì per lasciarsi prendere e sotto il muricciolo della ferrovia, fra la siepe d’acacia, ce la lasciò piangendo la sua verginità.
Venne l’estate e con l’estate il mare si ammansì come un gatto soriano e dava bagliori d’argento che illanguidivano, specialmente all’alba, quando pescava la sciabica di Mosè e la rete gocciolava stelle. Era sempre con loro Viola e saliva su la barca e si metteva anche lei il crocco a tracolla e remava e tirava come un uomo affondando i piedi nella sabbia e poi, drizzando quelle due gambette affusolate, si fermava a guardare l’orizzonte.
Vicino ai tamerici il Guercio sonava le reste e man mano che i pescatori arrivavano prendeva la corda e l’attorcigliava a matassa e quelli tornavano giù fra l’acqua per rifare il camino. Ma passavano avanti a Viola e qualche volta era lei che staccava e quelli della sua fila giù, proposte e scherzi!
“Stasera tocca a me!”
“Ieri c’è stato l’americano ma domani vengo io!”
“Un bacio!”
“Impara a nuotare Viola!”
E Viola sorrideva e li accontentava tutti quelli della sciabica di Mosè, a casa, fra i tamerici, su la fortezza, dietro le siepi, prima che il sole sorgesse e brillasse sul paese o si nascondesse dietro al verde del cimitero. Ma che brutta sorpresa per quei poveri sciabicotti quando seppero che il Guercio l’aveva vista per la strada della Pompeiana con un forestiero. Ed era vero, chè quel meccanico di vent’anni se n’era innamorato e più che un bacio su la bocca non aveva potuto ottenere.
Quell’amore così puro l’aveva immalinconita e ci soffriva ad essere la donnaccia di quelle scimmie, lei che sentiva ora tante parole belle, e quanti pianti la sera sul letto di sfogli! E piangi oggi e piangi domani i pescatori finirono per maltrattarla perché di loro non ne voleva più sapere.
“Viola, vengo stasera?”
Non voleva più nessuno Viola! E a lui aveva detto che non la facesse soffrire e che non lo poteva nemmeno guardare in faccia tanto non poteva essere sua!
“Viola, ti sposo !” le rispondeva e a lei sanguinava il cuore.
Ma quelle scimmie ardevano di gelosia e dai e molla e voga e tira Viola non parlava più e voleva scannarla perché ora si che aveva perso il pudore! E che nomi le davano la sera fra i mezzi litri e il fumo delle pipe! Bagascia, strascinata, mentre lei era nella sua cameretta a stringersi forte il petto che voleva scoppiare.
“Viola, domattina alle quattro chè la sciabica del Furbo ha già pescato un’angusciola lunga un braccio!”.
“Alle quattro si, padron Mosè, ma per l’ultima volta che mi sento morire”.
Morire? Padron Mosè si morse un labbro; sapeva lui qual’era il male, le pigliasse uno stravaso!
E corse a dare la notizia agli altri…… e che quella era l’ultima mattina che Viola veniva e che fare ciò che avevano combinato nella cantina della Ciccona

Che alba! Un mare che a darci una manata sopra schizzavano fuori brillanti e ogni tanto taf! Un salto di mugella e a guardare nel fondo i granchi facevano all’amore uno sopra l’altro che sembrava volessero mangiarsi e su la riva fra quella breccia colorata le onde si buttavano sfinite.
Quando venne fuori il sole cominciò a muoversi un po’ di vento e la sciabica era al largo e si tirava dietro il barchetto di Nino della Gorba, quello senza bordo che sembrava una zattera e quando si scoprì il faro di Pedaso padron Mosè dette uno strappone al corsetto di Viola e le disse: “spogliati”. Viola credeva che scherzasse e guardava quei dieci musi di satiri che ridevano di compiacenza.
Fu Nando della Rogna con quella barbaccia di stoppa che le tirò su la gonnella e gliela portò via quasi a pezzi.
“Spogliati!” e lei si dibatteva e urlava, ma alla fine dovette cedere che tremava come un pulcino bagnato e fra gli urli e gli insulti era rimasta come Dio l’aveva fatta.
Si rannicchiò e si contorse e s’era sciolti anche i capelli per coprirsi il seno semiabbronzato ma Padron Mosè la prese su come un fuscello mordendosi le labbra per il piacere e la depose sul barchetto a rimorchio, poi sciolse la corda e urlò a tutti che si mettessero alla voga. “Fra due ore arriverà alla spiaggia e la spiaggia sarà piena di forestieri!” Ci doveva arrivare perché la corrente l’avevano studiata bene e loro giù voga! La lasciarono in mezzo alle acque per andarsi a godere lo spettacolo e salutavano con certi urli da belve che si sentivano a Capodarco.
E lei, su dritta, tutta nuda che urlava e piangeva.
Poi allargò le braccia, disse “Signore perdonami” e si buttò in mare.

Ci andarono tutti a vederla ! coperta con due stracci di quelli che le donne si mettono in testa a ciambella per sostenere il peso delle canestre. Ne aveva uno sul petto e l’altro a metà corpo ma si vedeva il ventre gonfio e le coscie e tutti i capelli sciolti che le venivano giù lisci come se ci avesse dato l’olio di trementina. L’aveva tirata a riva Gabriele il fornaio che passava di là per tirare ai cucàli che quella mattina volavano bassi bassi e venivano da Pedaso.
Il mare brontolava come un calderone e le onde si spaccavano vicino alla riva con certi sbruffi che arrivavano al cielo e quando Gabriele fu nei pressi del casello vide il corpo di Viola che si rivoltava come un sacco di paglia e compariva e scompariva nel risucchio. Si spogliò in un attimo e l’afferrò per un braccio proprio fra la spuma torbida e la tirò su la sabbia umida dalla pioggia. Poi corse a dar la notizia al paese e bastò che lo dicesse a Nina della Strega perché quella si mettesse sul rione a gridare come una matta.
Allora si vide un fuggi fuggi di gente che strepitava ciabattando per i rioni: imò, imò, gridavano, che voleva dire ih Madonna! Qualcuna si affacciava alla finestrella bassa per domandare che cos’era successo: “S’è annegata la jammaiana !”.
E quella della finestra correva nella strada a gridare anche lei, e guardava su, lungo il rione.
Oh donneeeeee!…. erano urli di gioia e gli uomini soltanto rimanevano in silenzio. Rosa la Grillo si fermò avanti al marito che fumava la pipa e scotendo la sottana gli gridò “adesso no t’è rimasta che questa!”. Il cielo scendeva sempre più basso e i villeggianti in pigiama se ne andavano piano piano verso Lete dove c’era l’annegata. Ma Viola l’avevano già coperta con una tenda da capanno, quello del conte Salvadori che era li a due passi. Tutti volevano vederla ma il maresciallo s’era piantato vicino e diceva: “non si può, non si può”
“Se l’è coperto dopo morta il muso la svergognata!”
E giù le prime gocce di pioggia! Allora tutti fuggirono con un chiasso che sembrava la fiera di Santa Maria e dopo un poco sciacquìo di qua e sciacquìo di la, a folate a ventate la pioggia veniva giù che sembrava il diluvio universale. Il maresciallo aveva trascinato Viola sotto il capanno e zuppo come un pesce era rimasto solo a guardarla. Ce l’aveva avanti agli occhi tutta nuda chè la tenda la teneva su un braccio e non pensava a rimettergliela sopra. Pensava al rapporto che doveva fare lui! e aveva steso la mano per allontanarle una ciocca di capelli che le copriva quasi un occhio, ma lo fece come si fa una carezza. La coprì quando cessò la pioggia e vide il barbiere e suo figlio che facevano anche da becchini venir giù con la barella e c’erano il dottore e il giudice venuti da Fermo.
Non la guardarono nemmeno e la fecero portar via direttamente al cimitero, quello nuovo, vicino a Lete, perché il prete aveva detto che in chiesa non ce la voleva. E poi, che funerali andavano dicendo? Nessun uomo ci sarebbe andato e le donne avrebbero sputato in terra quando passava. Gli uomini andarono invece all’osteria della Ciccona e c’erano tutti quelli della sciabica di padron Mosè. Tutti lì intorno al tavolo che era vicino alla porta e si guardavano come condannati.
“Il maresciallo sospetta perché no è riuscito ancora a trovare i vestiti e dice che la mattina avanti era andata a pescare con la sciabica”.
Mosè si morse un labbro e voltandosi verso la Ciccona rispose: “e chi l’ha vista?”
Poi si alzò e chiamato Rigo della Vedova gli disse piano: “fa un fagotto di quegli stracci che sono a bordo e portali sotto ai tamerici, dove di solito si spogliano le donne. Domani o io o il maresciallo li ritroveremo!”

una bibliografia
Fagioli, Ubaldo

[1 = 00001/00012]
In Biblioteca Nazionale centrale Firenze
1 - M 1966 L'*attesa : opera lirica in due atti / parole di Ubaldo Fagioli ; m
2 - M 1949 *Core anconitano : poesie in vernacolo / Piero Pieroni ; con prefaz
3 - M 1943 *E' partita una tradotta... : inno-marcia dei battaglioni volontari
4 - M 1952 *Grammatica della lingua italiana / Ubaldo Fagioli. - Ancona : Drag
5 - M 1942 Il *lume a olio / Ubaldo Fagioli ; illustrazioni di Andreola Vinci.
6 - M 1940 *Nel cielo manca una stella : romanzo / Ubaldo Fagioli. - Osimo : B
7 - M 1958 *Pescara, Chieti e i luoghi dannunziani. - Pescara : Editr. Artigia
8 - M 1929 *Primavera si diverte / Ubaldo Fagioli. - Ancona : Edizioni "Indice
9 - M 1931 Le *ricordanze : Dramma in quattro atti. - Ancona : Soc. Ind. Tipog
10 - M 1932 *Sanguerosso / Ubaldo Fagioli. - Firenze : Vallecchi, stampa 1932.
11 - M 1925 Il *ventaglio / Carlo Goldoni ; introduzione e note di Ubaldo Fagio
12 - M 1938 La *vita in due : Romanzo. - Macerata : M. De Francesco, 1938

Nal catalogo SBN (Sistema bibliotecario nazionale) a Nome Ubaldo Fagioli si trovano 5 titoli in più che sono:

Cantilene a tramonto, del 1951
La madonnina del pescatore
Noterelle dantesche, del 1924
Novelle idiote, del 1927
Il reduce: romanzo, del 1936
D Magazine di Repubblica 4.7.08
Invocazione
Risponde Umberto Galimberti


Scrive Nietzsche ne La gaia scienza: “Noi dobbiamo generare costantemente i nostri pensieri dal nostro dolore e maternamente provvederli di tutto quello che abbiamo noi di sangue, cuore, fuoco, appetiti, passione, tormento, coscienza, destino, fatalità”.

Ce l’ho fatta - pensai. Mia figlia, ventun anni, adulta, universitaria con ottimi voti, sportiva, indipen- dente, socievole, allegra. Viaggiava, nei periodi di vacanza, con le sue amiche, per l’Europa. Poi la notizia, orribile. Roberta, a casa del padre per un breve periodo, si era messa a urlare, era scesa per la strada inveendo contro tutti i passanti. La portammo da uno psichiatra, che le fece un'iniezione. Dopo pochi giorni iniziò la terapia psicanalitica.
Le proposi un viaggio. Andammo a Nizza, Cannes, Saint-Tropez, in tutta la Provenza. Ma non vedeva niente. I medicinali che assumeva la rendevano apparentemente tranquilla, ma indifferente ai rapporti sociali e ai paesaggi. Tornata a casa mia, scrostò la vernice delle pareti, alla ricerca di microspie, telecamere. A quel punto interpellai un noto psichiatra napoletano e studioso del linguaggio schizofrenico, che gestiva una comunità con il suo staff. Mi disse che sarebbe anche migliorata, ma di poco. Ma una delle sue assistenti mi avvicinò e mi disse: «Perché la sconvolge tanto la malattia di sua figlia? Faccia una cosa: giochi con lei». Seguii il suo consiglio: giocavamo a domino, scarabeo, nascondino, shangai, ma si stancò ben presto. Allora uscivamo ogni giorno, per la spesa, per le vie di Napoli, per andare al bar.
Per quindici anni siamo andate avanti così. Avevo lasciato il lavoro di editing, di compilazione di antologie, e di insegnante. La vita continuava così, né troppo sgradevole, ma priva di allegria e con lo stesso ritmo. Questo le dava un po’ di tranquillità e sicurezza. Ma non sopportava più la città, i motorini, i nostri “scugnizzi” che le sembrava inveissero contro di lei. Cercai una casa fuori Napoli, sul mare, e ci andammo con i nostri cani e la gattina, che Roberta ama tanto. Intanto, faticosamente, con voti bassi, ma con una bella tesi di laurea, in cui era stata aiutata da me, si era laureata. Poi il diploma di istruttrice di nuoto. Ogni giorno l'accompagnavo a Napoli, in piscina, per fare pratica di addestramento ai bambini. Non ce la faceva più. Non era in grado di prendere impegni a lunga scadenza. Adesso siamo molto sole, ma Roberta sta meglio. È sempre carina, curata nella persona, intelligente, mantiene pulita e ordinata la sua stanza, legge, vede film al cinema e dvd, esce con me, o anche da sola per un caffè, per comprare un abito o una maglietta. Viene in vacanza con me. Questa è la mia vita, questa è la sua vita.
Oggi, che sono gravemente ammalata, si pone più perentoriamente il problema del suo futuro. Infatti il padre non sopporta di vederla più di tre o quattro volte all’anno; il fratello convive con una giovane donna, che non vuole farsi carico di Roberta. E mia figlia, dolce, carina, il mio angelo spazzacamino avrà da me una casa e il 60 per cento della mia pensione. Ma ha bisogno di affetto. È contenta della sua piccola vita, dei suoi affetti, della sua cameretta. È poco, lo so. Ma l’importante è che non sia infelice. Da sola non saprebbe stare, soprattutto tutta la giornata. Con altre persone, più gravemente disturbate, regredirebbe e starebbe a disagio. Ora non so che fare. I pensionati, tenuti da religiosi, chiedono cifre troppo elevate per ospitarla e sono rari. Le comunità psichiatriche ospitano persone con disagi più evidenti, con cui non saprebbe stare. Cerco su Internet, vado in giro per l’Italia, ma non trovo niente per il mio angelo che vola raso terra, che cura le sue cose, che ascolta musica. Che aiuta anche in casa nei lavori domestici. Non c'è nessuno più dolce e più tenero di lei, se si sente amata. Non so che ne sarà di lei, senza affetti, senza sorrisi, senza alcuno stimolo mentale ed emotivo. Manca di iniziativa. Fa spesso test che misurano il quoziente intellettivo e ottiene sempre il massimo della valutazione. C’è una soluzione per lei, quando non ci sarò più? Basta un po’ d’affetto, un po’ di dolcezza e Roberta fa tutto. Ma c’è posto per questi angeli nel mondo? Un sogno: qualcuno ci verrà a prendere con gioia, con tenerezza, e ci porterà non so dove, ma in un posto dove potrà stare tranquilla. Everywhere, but not in this world.
gloriapoetry@yahoo.it

Non lo faccio mai, ma questa volta ho ritenuto opportuno lasciare a lei tutta la pagina perché il suo racconto di dolore e di amore, che si acuisce quando la vita di chi cura si fa più incerta della vita di chi è curato, penso descriva una situazione molto più diffusa di quanto si supponga. Grazie a Dio i manicomi sono stati chiusi, ma i servizi di salute mentale, così come sono oggi, non sempre garantiscono, per incuria, trascuratezza, indifferenza, per la paura che la società ha della diversità che ospita, un’adeguata assistenza. E allora voglio che questa sua lettera giunga a persone, strutture, servizi che, al di là del denaro e delle procedure burocratiche, sappiano darle un filo di speranza per la sua figliola, e anche per lei per non farle concludere, come conclude la sua lettera, con quell’espressione inglese che ripone la speranza ovunque, ma non in questo mondo.

l’Unità 8.7.08
San Rossore, per cancellare la vergogna delle leggi razziali
di Francesco Sangermano


«Il nostro obiettivo, settant’anni dopo, è “bonificare” quel posto». Il presidente della Regione Toscana, Claudio Martini, usa una battuta efficace per spiegare il senso dell’ottavo meeting di San Rossore in programma giovedì e venerdì nell’ex tenuta presidenziale sul litorale pisano. “Bonificare” perché fu lì, nel 1938, che l’allora re Vittorio Emanuele terzo promulgò le leggi razziali, prendendo spunto (scientifico) dai dieci punti del manifesto degli scienziati razzisti.
Ecco. Settant’anni dopo San Rossore ha in qualche modo l’occasione di riconciliarsi con la storia, promuovendo un “contromanifesto” (redatto dal genetista Marcello Buiatti e che ha tra i primi firmatari anche Rita Levi Montalcini) e dedicando due giorni di dibattiti, incontri, iniziative «contro ogni razzismo» e per «capire le differenze e valorizzare le diversità» come recita lo slogan di questa edizione. Un’edizione ricca di ospiti (Yolanda Pulecio de Betancourt, madre di Ingrid, e Moni Ovadia nella prima giornata, Walter Veltroni e Dario Fo nella seconda solo per fare alcuni nomi) nella quale i temi del dialogo, della convivenza e del rispetto reciproco saranno affrontati con un confronto tra intellettuali, esperti, scienziati e religiosi e cui l’attualità di questi giorni ha, purtroppo, donato un’importanza perfino maggiore delle attese. «Il tema di questa edizione è stato deciso un anno fa - spiega Martini - ma lo riscopriamo adesso di bruciante e cruciale attualità». Perché, ha tenuto a precisare il presidente della Toscana facendo implicito riferimento alle ultime uscite del governo su “schedature” e affini, «l’unica razza che esiste è quella umana», e il Manifesto degli scienziati antirazzisti servirà proprio per «mettere al centro della discussione e delle future politiche regionali, nazionali e internazionali questo concetto».
In questo senso parlare, dibattere, conoscere e confrontarsi «apertamente e serenamente su un tema così scottante» diventerà «l’antidoto alla cultura della paura, perché il razzismo più lo conosci e più lo domini, più lo gestisci, e dalla cultura di ciascuno di noi può nascere un atteggiamento aperto e disponibile alle diversità». Il tutto proprio nel momento il cui il rapporto di Amnesty International parla dell’Italia come di un paese ad alto rischio di xenofobia e intolleranza. «Per questo - prosegue Martini - non vogliamo entrare nel dibattito in modo semplicistico, propagandistico o di mera opposizione. E dal dibattito che scaturirà a San Rossore trarremo ispirazioni per completare la messa a punto di alcuni strumenti legislativi e che riguardano proprio il rapporto tra accoglienza e regolarità, solidarietà e legalità, diritti di cittadinanza». Compreso il diritto al voto amministrativo da parte della popolazione straniera residente in Toscana già da qualche anno. Una proposta che a settembre potrebbe arrivare al vaglio del consiglio regionale per una sua definitiva approvazione.
Martini, infine, ha annunciato che al centro della prossima edizione del meeting ci saranno i temi legati alla scienza. «E non poteva essere diversamente - ha concluso - visto che il prossimo anno sarà dedicato a Galileo Galilei. Agli scienziati chiederemo di sapere fino a che punto la scienza è in grado di dare tutte le risposte che chiede l’uomo di oggi».

l’Unità 8.7.08
Manifesto scientifico. La bufala delle razze umane
di Pietro Greco


Le razze umane non esistono. Sono un mito. Un mito pericoloso. Ogni uomo è geneticamente diverso da ogni altro. Ma l’umanità non è costituita da piccoli e grandi gruppi diversi per struttura genetica. È piuttosto una rete estesa di persone geneticamente e culturalmente collegate in maniera dinamica tra loro. E quell’aggettivo, dinamico, è da sottolineare. Perché di fatto, nessun popolo nel corso dei secoli può essere considerato isolato geneticamente.
E in particolare, è un mito senza fondamento che sessanta milioni di nativi dell’Italia discendano da famiglie che abitano la penisola da almeno mille anni. Il “meticciato” genetico e culturale è una caratteristica dell’Italia come dell’intera umanità. Di più, è un bene. Sia sul piano strettamente biologico, sia sul piano culturale.
È questo, in estrema sintesi, il contenuto del «manifesto antirazzista» che un gruppo di scienziati italiani - tra i primi firmatari Rita levi Montalcini, Enrico Alleva, Guido Barbujani, Laura Dalla Ragione, Elena Gagliasso Luoni, Massimo Livi Bacci, Alberto Piazza, Agostino Pirella, Frencesco Remotti, Filippo Tempia, Flavia Zucco - presenterà il prossimo 10 luglio a San Rossore nell’ambito di una tradizionale manifestazione della Regione Toscana, dedicata quest’anno alla mobilitazione «contro ogni razzismo».
Il «manifesto antirazzista» sarà illustrato dal biologo Marcello Buiatti e introdotto dal Presidente della Regione, Claudio Martini, a sessant’anni dalla pubblicazione, avvenuta il 14 luglio 1938, del «manifesto della razza» a opera di un gruppo di scienziati fascisti. Quello di San Rossore è un vero e proprio “contro-manifesto” in termini letterali. Perché a ciascuna delle dieci tesi del famigerato “manifesto della razza” oppone una tesi diversa, alla luce delle moderne conoscenze scientifiche. Dimostrando che con quel famigerato atto gli scienziati fascisti tradirono insieme la scienza, i valori della comunità scientifica e la loro stessa umanità.
Tradirono la scienza, perché già allora vi erano tutti gli elementi per affermare che il concetto biologico di razza è una pura invenzione. Oggi tutti gli studi genetici lo dimostrano al di là di ogni possibile dubbio.
La genetica, infatti, ha consentito di chiarire almeno cinque punti rispetto alla variabilità tra gli individui e all’esistenza delle razze umane:
1. Ogni uomo è geneticamente diverso da ogni altro. È un organismo biologico unico e irripetibile.
2. Se si considerano i singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. In pratica, la frequenza dei singoli geni di tutte le popolazioni umane è largamente sovrapponibile. E, in particolare, nessun gene specifico può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra. Le popolazioni umane sono geneticamente molto simili le une alle altre.
3. C’è invece una grande variabilità genetica tra gli individui, tra gli uomini. Nessuno di noi porta i medesimi geni di un altro uomo. Tuttavia la gran parte di questa variabilità è anteriore alla formazione delle diverse popolazioni ed è probabilmente persino anteriore alla formazione della specie sapiens. In ogni caso, diversi studi indipendenti hanno dimostrato che almeno l’85% della diversità genetica (ovvero dell’insieme dei geni umani) è presente in ogni popolazione del mondo, il 5% della variabilità genetica è presente tra tutte le popolazioni del medesimo continente, e il residuo 10% si verifica tra popolazioni di diversi continenti.
4. La variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni, per esempio tra gli europei o gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni, tra gli italiani e gli etiopi, per esempio, sono modeste e pressocché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni. In pratica due italiani possono essere geneticamente molto diversi tra loro. Molto più di quanto non siano diversi un italiano medio e un etiope medio.
5. La contaminazione genetica tra le diverse popolazioni umane è costante ed elevatissima. Lo confermano persino gli ultimi sequenziamento dell’intero genoma umano. Nei mesi scorsi il premio Nobel per la biologia James Dewey Watson, scopritore con Francis Crick della struttura a doppia elica del Dna, ha pubblicato i risultati del sequenziamento del suo Dna. E non senza una sua certa costernazione - Watson aveva detto che i neri sono meno intelligenti dei bianchi - ha scoperto che il 9% dei propri geni ha un’origine asiatica e che uno dei suoi bisnonni o, comunque, dei sui antenati recenti era di origine africana.
Ma il “contro-manifesto” di San Rossore dimostra anche - e soprattutto - che gli scienziati fascisti tradirono non solo la scienza (intesa come conoscenza rigorosa), ma anche i valori fondanti della comunità scientifica, mettendo il loro sapere non al servizio dell’intera umanità - come indicava già nel ’600 Francis Bacon - ma al servizio di un’ideologia pericolosa che voleva dividere gli uomini gli uni dagli altri, per discriminarli.
E con ciò, quegli scienziati fascisti, si macchiarono della colpa più grave: tradirono la loro stessa umanità.
Il “contro-manifesto della razza” che gli scienziati italiani presenteranno a San Rossore il prossimo 10 luglio non ha, dunque, solo un valore storico e scientifico (e non sarebbe certo poca cosa). Ma ha un valore politico di stringente attualità. Troppe parole, troppi episodi, persino qualche disposizione di governo nel nostro paese stanno alimentando il fuoco della discriminazione razziale. È ora - ci dicono gli scienziati preoccupati di San Rossore - che questi venti cessino di soffiare e che il fuoco della discriminazione razziale venga definitivamente spento. Prima che scoppi, improvviso, un nuovo incendio.

l’Unità 8.7.08
Il documento: «Le razze non esistono. Ce n’è solamente una: quella umana»
Demografi, genetisti, filosofi, psichiatri e ricercatori: ecco l’appello contro le discriminazioni


«Il razzismo è contemporaneamente omicida e suicida. Gli ebrei italiani sono
ebrei e italiani»

I. Le razze umane non esistono. L’esistenza delle razze umane è un’astrazione derivante da una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone, percepite dai nostri sensi, erroneamente associate a differenze «psicologiche» e interpretate sulla base di pregiudizi secolari. Queste astratte suddivisioni, basate sull’idea che gli umani formino gruppi biologicamente ed ereditariamente ben distinti, sono pure invenzioni da sempre utilizzate per classificare arbitrariamente uomini e donne in «migliori» e «peggiori» e quindi discriminare questi ultimi (sempre i più deboli), dopo averli additati come la chiave di tutti i mali nei momenti di crisi.
II. L’umanità, non é fatta di grandi e piccole razze. È invece, prima di tutto, una rete di persone collegate. È vero che gli esseri umani si aggregano in gruppi d’individui, comunità locali, etnie, nazioni, civiltà; ma questo non avviene in quanto hanno gli stessi geni ma perché condividono storie di vita, ideali e religioni, costumi e comportamenti, arti e stili di vita, ovvero culture. Le aggregazioni non sono mai rese stabili da DNA identici; al contrario, sono soggette a profondi mutamenti storici: si formano, si trasformano, si mescolano, si frammentano e dissolvono con una rapidità incompatibile con i tempi richiesti da processi di selezione genetica.
III. Nella specie umana il concetto di razza non ha significato biologico. L’analisi dei DNA umani ha dimostrato che la variabilità genetica nelle nostra specie, oltre che minore di quella dei nostri «cugini» scimpanzé, gorilla e orangutan, è rappresentata soprattutto da differenze fra persone della stessa popolazione, mentre le differenze fra popolazioni e fra continenti diversi sono piccole. I geni di due individui della stessa popolazione sono in media solo leggermente più simili fra loro di quelli di persone che vivono in continenti diversi. Proprio a causa di queste differenze ridotte fra popolazioni, neanche gli scienziati razzisti sono mai riusciti a definire di quante razze sia costituita la nostra specie, e hanno prodotto stime oscillanti fra le due e le duecento razze.
IV. È ormai più che assodato il carattere falso, costruito e pernicioso del mito nazista della identificazione con la «razza ariana», coincidente con l’immagine di un popolo bellicoso, vincitore, «puro» e «nobile», con buona parte dell’Europa, dell’India e dell’Asia centrale come patria, e una lingua in teoria alla base delle lingue indo-europee. Sotto il profilo storico risulta estremamente difficile identificare gli Arii o Ariani come un popolo, e la nozione di famiglia linguistica indo-europea deriva da una classificazione convenzionale. I dati archeologici moderni indicano, al contrario, che l’Europa è stata popolata nel Paleolitico da una popolazione di origine africana da cui tutti discendiamo, a cui nel Neolitico si sono sovrapposti altri immigranti provenienti dal Vicino Oriente. L’origine degli Italiani attuali risale agli stessi immigrati africani e mediorientali che costituiscono tuttora il tessuto perennemente vivo dell’Europa. Nonostante la drammatica originalità del razzismo fascista, si deve all’alleato nazista l’identificazione anche degli italiani con gli «ariani».
V. È una leggenda che i sessanta milioni di italiani di oggi discendano da famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio. Gli stessi Romani hanno costruito il loro impero inglobando persone di diverse provenienze e dando loro lo status di cives romani. I fenomeni di meticciamento culturale e sociale, che hanno caratterizzato l’intera storia della penisola, e a cui hanno partecipato non solo le popolazioni locali, ma anche greci, fenici, ebrei, africani, ispanici, oltre ai cosiddetti «barbari», hanno prodotto l’ibrido che chiamiamo cultura italiana. Per secoli gli italiani, anche se dispersi nel mondo e divisi in Italia in piccoli Stati, hanno continuato a identificarsi e ad essere identificati con questa cultura complessa e variegata, umanistica e scientifica.
VI. Non esiste una razza italiana ma esiste un popolo italiano. L’Italia come Nazione si é unificata solo nel 1860 e ancora adesso diversi milioni di italiani, in passato emigrati e spesso concentrati in città e quartieri stranieri, si dicono e sono tali. Una delle nostre maggiori ricchezze, é quella di avere mescolato tanti popoli e avere scambiato con loro culture proprio «incrociandoci» fisicamente e culturalmente. Attribuire ad una inesistente «purezza del sangue» la «nobiltà» della «Nazione» significa ridurre alla omogeneità di una supposta componente biologica e agli abitanti dell’attuale territorio italiano, un patrimonio millenario ed esteso di culture.
VII. Il razzismo é contemporaneamente omicida e suicida. Gli Imperi sono diventati tali grazie alla convivenza di popoli e culture diverse, ma sono improvvisamente collassati quando si sono frammentati. Così é avvenuto e avviene nelle Nazioni con le guerre civili e quando, per arginare crisi le minoranze sono state prese come capri espiatori. Il razzismo é suicida perché non colpisce solo gli appartenenti a popoli diversi ma gli stessi che lo praticano. La tendenza all’odio indiscriminato che lo alimenta, si estende per contagio ideale ad ogni alterità esterna o estranea rispetto ad una definizione sempre più ristretta della «normalità». Colpisce quelli che stanno «fuori dalle righe», i «folli», i «poveri di spirito», i gay e le lesbiche, i poeti, gli artisti, gli scrittori alternativi, tutti coloro che non sono omologabili a tipologie umane standard e che in realtà permettono all’umanità di cambiare continuamente e quindi di vivere. Qualsiasi sistema vivente resta tale, infatti, solo se é capace di cambiarsi e noi esseri umani cambiamo sempre meno con i geni e sempre più con le invenzioni dei nostri «benevolmente disordinati» cervelli.
VIII. Il razzismo discrimina, nega i collegamenti, intravede minacce nei pensieri e nei comportamenti diversi. Per i difensori della razza italiana l’Africa appare come una paurosa minaccia e il Mediterraneo è il mare che nello stesso tempo separa e unisce. Per questo i razzisti sostengono che non esiste una «comune razza mediterranea». Per spingere più indietro l’Africa gli scienziati razzisti erigono una barriera contro «semiti» e «camiti», con cui più facilmente si può entrare in contatto. La scienza ha chiarito che non esiste una chiara distinzione genetica fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono state assolutamente dimostrate, dal punto di vista paleontologico e da quello genetico, le teorie che sostengono l’origine africana dei popoli della terra e li comprendono tutti in un’unica razza.
IX. Gli ebrei italiani sono contemporaneamente ebrei ed italiani. Gli ebrei, come tutti i popoli migranti (nessuno é migrante per libera scelta ma molti lo sono per necessità) sono sparsi per il Mondo ed hanno fatto parte di diverse culture pur mantenendo contemporaneamente una loro identità di popolo e di religione. Così é successo ad esempio con gli Armeni, con gli stessi italiani emigranti e così sta succedendo con i migranti di ora: africani, filippini, cinesi, arabi dei diversi Paesi , popoli appartenenti all’Est europeo o al Sud America ecc. Tutti questi popoli hanno avuto la dolorosa necessità di dover migrare ma anche la fortuna, nei casi migliori, di arricchirsi unendo la loro cultura a quella degli ospitanti, arricchendo anche loro, senza annullare, quando é stato possibile, né l’una né l’altra.
X. L’ideologia razzista é basata sul timore della «alterazione» della propria razza eppure essere «bastardi» fa bene. È quindi del tutto cieca rispetto al fatto che molte società riconoscono che sposarsi fuori, perfino con i propri nemici, è bene, perché sanno che le alleanze sono molto più preziose delle barriere. Del resto negli umani i caratteri fisici alterano più per effetto delle condizioni di vita che per selezione e i caratteri psicologici degli individui e dei popoli non stanno scritti nei loro geni. Il «meticciamento» culturale é la base fondante della speranza di progresso che deriva dalla costituzione della Unione Europea. Un’Italia razzista che si frammentasse in «etnie» separate come la ex-Jugoslavia sarebbe devastata e devastante ora e per il futuro. Le conseguenze del razzismo sono infatti epocali: significano perdita di cultura e di plasticità, omicidio e suicidio, frammentazione e implosione non controllabili perché originate dalla ripulsa indiscriminata per chiunque consideriamo «altro da noi».

Enrico Alleva, Docente di Etologia, Istituto Superiore di Sanità, Roma; Guido Barbujani, Docente di Genetica di popolazioni, Università Ferrara; Marcello Buiatti, Docente di Genetica, Università di Firenze; Laura dalla Ragione, Psichiatra e psicoterapeuta, Perugia; Elena Gagliasso, Docente di Filosofia e Scienze del vivente, Università La Sapienza, Roma; Rita Levi Montalcini, Neurobiologa, Premio Nobel per la Medicina; Massimo Livi Bacci, Docente di demografia, Università di Firenze; Alberto Piazza, Docente di Genetica Umana, Università di Torino; Agostino Pirella, Psichiatra, co-fondatore di Psichiatria democratica, Torino; Francesco Remotti, Docente di Antropologia culturale, Università di Torino; Filippo Tempia, Docente di Fisiologia, Università di Torino; Flavia Zucco, Dirigente di Ricerca, Presidente Associazione Donne e Scienza, Istituto di Medicina molecolare, CNR.

Repubblica Firenze 8.7.08
Il meeting. Giovedì iniziano gli incontri. Il presidente Martini lancia il Manifesto degli scienziati
L'appello da San Rossore "No a tutti i razzismi"
Possibile arrivo di Ingrid Betancourt alla rassegna
Tra i firmatari il premio Nobel Levi Montalcini Attesi Veltroni, Dario Fo e Ovadia
di Simona Poli


Difesa delle minoranze, tutela dei diritti umani, possibilità di far votare gli immigrati regolari nelle elezioni amministrative toscane, tolleranza e integrazione, lotta contro ogni forma di razzismo. Il meeting di San Rossore che per l´ottavo anno consecutivo la Regione organizza nella ex tenuta del Quirinale alle porte di Pisa tocca tutti i temi più cari al presidente Claudio Martini e lo riporta indietro nel tempo quando, fresco di nomina, era considerato l´uomo delle istituzioni più vicino alla sensibilità dei militanti dei Social Forum. Il fiore all´occhiello di questa edizione, che si svolge giovedì e venerdì prossimi, è sicuramente la presentazione del "Manifesto degli scienziati antirazzisti" (firmato tra gli altri da Rita Levi Montalcini, Massimo Livi Bacci, Marcello Buiatti, Flavia Zucco) che si propone di capovolgere nella forma come nella sostanza quel "Manifesto degli scienziati razzisti" che nel 1938 costituì la base "scientifica" su cui Mussolini fondò le leggi razziali, firmate da re Vittorio Emanuele III settanta anni fa proprio nel parco di San Rossore, allora residenza estiva dei Savoia. «Se il termine mi è consentito», dice Martini, «vorremmo con questo atto simbolico "bonificare" quei luoghi non solo per investire sulla memoria, come la Toscana fa da tempo, ma anche per voltare pagina e segnare anche simbolicamente l´affermazione di una nuova cultura». Quando nel luglio scorso fu annunciato il tema del meeting 2008 Martini non poteva certo immaginare che l´argomento diritti e immigrazione sarebbe diventato tanto urgente e attuale proprio in questi giorni. «Niente polemiche con il governo, però», mette le mani avanti con cautela. «Il nostro scopo non è quello di usare il meeting come strumento di lotta politica ma solo di suscitare un dibattito che faccia chiarezza ed aiuti a vincere la cultura della paura. E´ giusto mobilitarsi per i diritti ma è doveroso farlo in base ad un ragionamento e non all´emotività». Che nessun esponente di Palazzo Chigi sia presente, sostiene ancora il presidente toscano, non è un fatto strano: «Solo pochissime volte abbiamo derogato dal principio di non invitare a San Rossore rappresentanti dei governi in carica», spiega. «E quando lo abbiamo fatto ce ne siamo amaramente pentiti, come nel caso di Pecoraro Scanio che fece un intervento polemico su gassificatori e termovalorizzatori monopolizzando l´attenzione». Tantissimi gli ospiti attesi, una più di tutti che non è scritta nel programma, Ingrid Betancourt, che si trova ora a Parigi insieme alla madre Yolanda Pulecio de Betancourt, che ha confermato la sua presenza al meeting anche dopo la liberazione della figlia. Sicure invece le presenze di Emma Bonino, Walter Veltroni, Silvano Piovanelli, Dario Fo, Moni Ovadia e del presidente dell´Unione Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna. Nel 2009, anno di Galileo, San Rossore sarà dedicato alla Scienza.

l’Unità 8.7.08
Rom, l’Europa dà l’ultimatum a Maroni
Giovedì a Strasburgo risoluzione di condanna: 48 ore per cambiare la legge. Frattini prova in extremis a mediare
di Paolo Soldini


IL GOVERNO ITALIANO ha due giorni per ritirare le misure sulle impronte digitali dei piccoli rom. Se non lo farà esporrà il nostro Paese a un’umiliazione senza precedenti nella storia delle istituzioni europee, con tutte le conseguenze politiche che ne deriveranno.
Giovedì pomeriggio, infatti, il Parlamento europeo voterà a Strasburgo su una risoluzione che chiede ai governanti di Roma un immediato cambio di rotta e che è stata firmata dai gruppi dall’estrema sinistra ai liberal-democratici, passando per il Pse e i Verdi, che costituiscono già una maggioranza dei 783 deputati europei. Non è affatto escluso, inoltre, che qualche parlamentare del gruppo dei Popolari (particolarmente tra le file olandesi, belghe, austriache e tedesche), preferendo la coerenza con i propri princìpi cristiani e liberali agli ordini di scuderia, voti insieme con sinistra e liberal-democratici. In ogni caso, se Roma non farà marcia indietro, l’esito del voto è praticamente scontato.
La risoluzione è durissima e fa a pezzi le miserevoli scalate di specchi con cui il ministro Maroni ha cercato, per giorni e settimane, di far credere all’opinione pubblica italiana che la schedatura dei bambini rom non solo sarebbe una misura vòlta a «proteggerli», ma non contrasterebbe con alcuna norma europea e internazionale. Puntigliosamente, i presentatori del documento elencano i trattati e le convenzioni europee e internazionali, tutti regolarmente ratificati dall’Italia e quindi con valore giuridico anche sul piano nazionale, che Maroni ha strapazzato. In particolare: gli articoli 2, 6 e 7 del Trattato Ue (Tue) e l’art. 13 del testo del Trattato consolidato (Tec), che proibiscono espressamente agli stati membri di adottare «misure basate sulla discriminazione per razza o origine etnica». Sempre per quanto riguarda il Tec, altri articoli violati sono il 12 (che proibisce adozione di «misure sulla base della nazionalità»), il 18 (che vieta ostacoli alla libertà di movimento nella Ue), il 39 e seguenti (che affermano il principio del libero movimento dei lavoratori).
Le misure italiane, inoltre, disobbediscono alla Direttiva del Consiglio, che in quanto tale in Italia ha valore di legge, 2000/43/EC, alla Direttiva di Parlamento europeo e Consiglio 2004/38/EC sui diritti dei cittadini Ue e dei loro familiari a viaggiare e risiedere liberamente negli Stati dell’Unione, alla Direttiva 95/46/EC del Parlamento europeo sulla tutela dei dati personali. E affinché Maroni non vada a raccontare in giro di essere stato «frainteso» e di essere «incompreso» solo nella Ue, gli europarlamentari gli ricordano che il suo accanimento contro i bimbi rom, oltre a contrastare con la Convenzione europea dei diritti umani (art. 14) e con la giurisprudenza che ne trae fonte nonché con la Carta dei Diritti Fondamentali che sarà parte del prossimo Trattato, smentisce clamorosamente la firma apposta dall’Italia sotto la Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia.
Basta? No, perché i presentatori della risoluzione contestano anche la base giuridica delle cosiddette «ordinanze» con cui sono stati nominati «commissari alle impronte» in Campania, Lazio e Lombardia, e cioè la legge (italiana) 225 del 24 febbraio 1992 che riguarda, in realtà, l’adozione di misure di protezione civile in situazioni di «disastri naturali, catastrofi o altre calamità». Poiché in Europa non è ancora consuetudine lo stiracchiamento à l’italienne di leggi e dottrina giuridica ai propri comodi, il documento rileva che quella base legislativa è «non adeguata, né proporzionale al caso specifico». Inoltre, fanno notare gli autori della risoluzione, il rilevamento delle impronte è già cominciato, il che mette già ora l’Italia in una situazione di illegalità, che va corretta al più presto pena sanzioni molto severe.
Maroni, i suoi colleghi ministri e il capo del governo sbaglierebbero a sottovalutare l’impatto di una stroncatura di tale fermezza. Il voto sarebbe un evento inedito nella storia e - a dispetto di quel che ne può pensare il ministro dell’Interno - tutt’altro che «platonico». Ecco perchè ieri sera si sarebbe messo al lavoro direttamente Frattini che avrebbe telefonato al capogruppo Pse Martin Schulz per cercare di ammorbidire i contrasti.
La prospettiva di condanna - ha detto ieri il capo della delegazione italiana nel Pse Gianni Pittella nel suo intervento in aula - «non ci fa piacere: per noi l’Europa non è il gendarme cui affidare la guardia di Berlusconi e, anche quando siamo all’opposizione, riteniamo giusto difendere le scelte dell’Italia». Ma Maroni - ha esclamato il parlamentare pd - la condanna dell’Europa «se l’è proprio cercata»: la soluzione dei problemi dei rom non può basarsi «su un’odiosa schedatura su base etnica». Di fronte a una pesante «involuzione culturale che mette sulla difensiva anche la sinistra», occorre ritrovare la via d’una politica che tenga insieme i valori di cittadinanza, di civiltà e di sicurezza.

l’Unità 8.7.08
«Impronte-vergogna: non toccate i bimbi»
A Roma in tantissimi all’iniziativa Arci. Tutti a farsi schedare contro Maroni
di Maristella Iervasi


Duccio e Antonia scelgono un colore: il blu. Poi intingono tutta la mano destra nell’inchiostro e lasciano le loro impronte. La bimba, 6 anni, non capisce il perchè di quel «gioco» e sussurra al fratello di 10 anni: «Ma abbiamo già finito...». Poi tocca al loro papà: Stefano S., architetto: «Per lei che è adulto, partendo dal pollice, tutte le dita fino all’indice», spiega una delle ragazze dell’Arci sedute ai banchetti-gazebo della raccolta dell’«impronta del razzismo» in piazza Esquilino a Roma, a due passi da Santa Maria Maggiore. Polpastrelli e manine unte di nero, rosso o blu impresse su un foglio bianco e pronte per essere spedite - con tanto di nome e cognome dei cittadini italiani - a Maroni, il ministro «ideatore» del censimento dei Rom e Sinti, bambini compresi. Che di fatto è una schedatura etnica a tutti gli effetti, come quella in corso a Napoli dove, oltre alle impronte, i Rom vengono schedati anche per appartenenza religiosa ed etnia. Da qui l’iniziativa pubblica e volontaria dell’associazione presieduta da Paolo Beni: «Prendetevi le nostre impronte, non toccate i bambini e le bambine Rom e Sinti». Ed è subito un gran successo.
L’appuntamento per «farsi schedare» è alle 17.30 ma ben prima dell’allestimento dei gazebo la gente è in fila. E nella folla spuntano volti noti come Andrea Camilleri con indosso la maglietta di «Carta» con su scritto: Clan-destino e il «cinque» in vista dipinto di nero. Ma anche vip dello spettacolo come l’attore Ascanio Celestini, la scrittrice Dacia Maraini, Moni Ovadia, politici del Pd come Livia Turco, Rosy Bindi e Furio Colombo, della sinistra democratica Fabio Mussi, Victor Magiar consigliere dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Morena Piccinini segretario conderale Cgil e Piero soldini, responsabile immigrazione del sindacato, Tony Hamydovic della comunità Rom, l’ex ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero. E tanti, tantissimi altri, tra cui anche i direttori dei quotidiani Liberazione, Il Manifesto e l’Unità, Rita San Lorenzo, segretaria nazionale di Magistratura democratica, Patrizio Gonnella di Antigone, Piero Terracina e l’associazione Martin Buber ebrei per la pace. Tutti «schedati» volontari contro Maroni. Tant’è che nel bel mezzo della raccolta delle impronte è emergenza fotocopie: i mille fogli preparati dall’Arci finiscono subito e scatta la «caccia» alla fotocopiatrice per altre duemila.
Impronte «volontarie» per testimoniare indignazione e rabbia, contro il governo della «perfidia» verso i Rom e gli immigrati, come dice la Turco. Non usa mezzi termini Camilleri: «È una legge razzista e fascista». E dedica a Maroni dei versi di Pasolini: «Sei così ipocrita/ che quando l’ipocrisia ti avrà ucciso/ andrai all’Inferno/ ma ti crederai in Paradiso». Mentre Moni Ovadia invoca una mobilitazione: «Non dobbiamo chiederci se questa manifestazione servirà a fermare la discriminazione, dobbiamo agire». Fabio Mussi: «È stato bello un accidente farsi prendere le impronte! Non è particolarmente gradevole ma o a tutti o a nessuno e mai in nessun caso ai bambini. Anche la schedatura degli ebrei in Germania veniva chiamata censimento». Sentenzia Celestini: «In Italia attraverso i poteri forniti dalla democrazia, è in atto un colpo di Stato soft».

Repubblica Roma 8.7.08
Celestini alla manifestazione "Prendete le nostre impronte"
"Si comincia con i nomadi e poi verranno gli altri"
"Si passerà ai gay, alle prostitute. Se cercano chi ruba facciano lo stesso con gli italiani"
di Anna Maria Liguori


È stato uno dei primi lo scrittore, regista e attore Ascanio Celestini ad arrivare in piazza dell´Esquilino ieri per farsi prendere le impronte nella «schedatura pubblica e volontaria», iniziativa simbolica organizzata dall´Arci contro il "censimento-schedatura" dei nomadi. E dice subito quello che pensa: «Sono venuto perché si deve parlarne. Questo è un problema importante che riguarda i rapporti tra gli esseri umani. Si tratta di un sopruso, di una vera porcheria».Qualcuno ha detto che prendere le impronte significa entrare nell´intimità di un essere umano. Lo condivide?
«Certo. Perché dicono "se non hai niente da nascondere che t´importa che prendono le impronte digitali?. Nessuno pensa veramente che questa è una delle cose più discriminatorie che esistono. E poi che vuol dire "se non hai niente da nascondere?". Ricorda un poco il ragazzo che si chiude in camera e la madre gli fa "ma che ti nascondi?" e gli apre la porta per forza: già questo è discriminatorio figurarsi entrare nell´intimità di un essere umano».
Ma che cosa pensa del fatto che le impronte si prendono solo ai rom?
«Già perché solo ai rom? Perché sono una categoria debole. Di questo passo allora perché non prendere le impronte ai bambini, agli anziani, ai gay e alle prostitute? In questa scelta c´è qualcosa che ha a che fare con il conflitto di classe, c´è il bisogno di dividere le persone e si comincia sempre dai rom, si vuol colpire una categoria per poi passare pian piano alle altre appunto ai gay, alle prostitute, ai comunisti, se esistono ancora...».
Quindi si tratta di una scelta politica discriminatoria?
«Certo perché non parte da un dato di realtà ma dal presupposto che la persona che hai davanti a te non è uguale a te e quindi gli si può fare di tutto. Per fare un esempio una volta in fabbrica c´era "l´imparziale", gli operai uscendo spingevano un bottone se diventava rosso, una volta a campione, quella persona veniva perquisita per vedere se aveva rubato. Gli operai hanno combattuto tanto per farla abolire. Era un sopruso appunto, una porcheria».
Secondo Alemanno le impronte servono ad evitare che i rom commettano reati...
«Allora cominciamo a prendere le impronte ai parlamentari e ai capi dei consigli d´amministrazione. Per gli italiani delinquenti non è prevista la schedatura. E poi c´è da dire che i rom non hanno mai fatto reati per cui sono finiti sui libri di storia, se mai sono stati delle vittime. Loro non rivendicano una terra, non rivendicano un potere politico, chiedono solo uno spazio per vivere. Per questo vengono colpiti, perché non chiedono niente».

l’Unità Roma 8.7.08
«Non lasceremo prendere le impronte ai nostri figli»
Nel campo rom di via Candoni un coro di no alla proposta del ministro Maroni


«Ho dieci nipotini, tutti italiani; il giorno in cui verranno a prendergli le impronte io me li porto via, non permetteremo di schedare i bambini, siamo pronti a rivolgerci alla Corte Europea per i diritti dell'uomo». A parlare è Ion, porta voce del campo attrezzato di via Candoni, sulla Magliana. Un insediamento modello dove il 98% dei bambini vanno a scuola e il 70% delle persone ha un lavoro. È questa la sede scelta dagli amministratori locali e esponenti del centro sinistra per una riunione straordinaria contro il razzismo. Una iniziativa curata dall'Arci e dall'Associazione Antigone che fa il paio con quella del pomeriggio a piazza Vittorio. «In questo campo da anni – ha spiegato Gianni Paris, presidente del XV Municipio - si sperimenta un modello di dialogo e solidarietà che nel rispetto delle regole e delle diversità ha cominciato a portare frutti importanti di integrazione». Assessori regionali e provinciali, presidenti di municipio e consiglieri comunali hanno partecipato indossando una maglietta con la scritta "clan-destino", proposta dal settimanale Carta, che sarà poi venduta e il cui ricavato andrà a sostegno di una sartoria rom. «Queste magliette – ha spiegato Anna Pizzo, consigliere regionale - indossate anche da cittadini italiani assumono il significato di autodenuncia e sottolineano quanto gli uomini siano tutti uguali». «Siamo qui oggi per denunciare l'idea scellerata di censire il popolo rom, compresi i bambini, attraverso un provvedimento razziale; se c'è un'emergenza - ha detto l'assessore regionale al bilancio, Luigi Nieri - nel nostro Paese è quella del razzismo, bisogna andare sui libri di storia per ricordare episodi simili». E Sandro Medici, presidente del MunicipioX ha annunciato che al campo La Barbuta, «in accordo con le famiglie faremo dei picchetti per impedire l'ingresso alle forze dell'ordine, alla croce rossa italiana, alla polizia, per il censimento di bambini e rom ». lu.ci.

Repubblica Firenze 8.7.08
Settembre '38: Vittorio Emanuele III, in vacanza proprio nella tenuta toscana, diede avvio alle leggi razziali
E tra un bagno e una passeggiata il re firmò la condanna degli ebrei
di Gaia Rau


San Rossore, settembre 1938. La persecuzione fascista degli ebrei comincia da qui, dalla tenuta reale immersa nel parco di Migliarino dove, dai primi anni del Novecento, i Savoia avevano l´abitudine di trascorrere le vacanze estive. Tra un bagno in mare, una battuta di caccia e una passeggiata all´ombra dei pini marittimi furono decisi i primi provvedimenti che, passo dopo passo, delinearono il calvario al quale, negli anni immediatamente successivi, furono sottoposti oltre 6mila ebrei italiani di tutte le età. A cominciare dai più piccoli.
Primo bersaglio ad essere colpito dalle cosiddette «leggi razziali» fu infatti la scuola. Il 5 settembre Vittorio Emanuele III, raggiunto a San Rossore da Benito Mussolini e dai ministri dell´Educazione Nazionale Giuseppe Bottai e delle Finanze Paolo Thaon di Revel, mise la sua firma sul Regio Decreto n. 1390, intitolato Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista. Un testo in sette punti nel quale si sosteneva «la necessità assoluta e urgente di dettare disposizioni per la difesa della razza nella scuola italiana», e si provvedeva a «liberare» la scuola ariana vietando, a partire dal nuovo anno scolastico, l´accesso alle scuole di ogni ordine e grado e alle università ad alunni e insegnanti di «razza ebraica». Una definizione specificata nel decreto stesso, ai sensi del quale veniva «considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica», e ricalcata da quella contenuta dal Manifesto degli scienziati razzisti italiani, pubblicato nel luglio dello stesso anno dal Giornale d´Italia e sottoscritto da 10 sedicenti «scienziati» del regime.
Ancora San Rossore, due giorni dopo. Un nuovo incontro tra il re e gli esponenti del governo fascista, seguito dalla firma di un altro testo legislativo, il Regio Decreto n. 1381 del 7 settembre 1938, che dava il via ai Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri. Il decreto vietava agli ebrei stranieri di stabilire la propria dimora nel Regno, in Libia e nei possedimenti coloniali nell´Egeo, e stabiliva la revoca della cittadinanza italiana per coloro che l´avessero ottenuta a partire dal 1919. Tutti gli ebrei stranieri residenti in Italia se ne sarebbero dovuti andare entro sei mesi: se non l´avessero fatto «volontariamente», sarebbero stati espulsi.
Incaricato di discutere con Vittorio Emanuele III il nuovo provvedimento fu l´ex sindaco di Pisa Guido Buffarini Guidi, nelle sue vesti di sottosegretario agli Interni, il quale ricevette da Mussolini il compito di rassicurare il re, preoccupato che anche gli ebrei «benemeriti» della patria subissero la stessa sorte degli stranieri. Lo stesso Buffarini Guidi, che era stato uno dei firmatari del Manifesto, si batté successivamente contro le leggi razziali, cercando di mitigarne gli effetti.
Sempre a San Rossore, il 23 settembre, fu firmato un terzo provvedimento, il Regio Decreto n. 1630, che tornava ad affrontare il «problema» degli ebrei nella scuola. Con esso si istituivano, a spese dello Stato, «speciali sezioni di scuola elementare per i fanciulli di razza ebraica». Si dava inoltre alle «comunità israelitiche» la possibilità di aprire, con l´autorizzazione del Ministro per l´Educazione Nazionale, scuole elementari e medie per i bambini ebrei.
La ghettizzazione all´interno della scuola rappresentò l´inizio della discriminazione a tutti i livelli della società. Ai tre provvedimenti varati a San Rossore seguirono, il 6 ottobre, una «Dichiarazione sulla razza» votata dal Gran Consiglio del Fascismo; il 15 novembre un Testo Unico delle norme già emanate a proposito della tutela della razza nella scuola e, il 17 novembre, un Regio Decreto «sulla razza italiana» che raccoglieva tutti i provvedimenti precedenti. Infine, il 29 giugno 1939, fu la volta del «Regio Decreto sulla disciplina dell´esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica», che sanciva il divieto, per gli ebrei, di esercitare professioni fra cui quella di giornalista, medico, avvocato, ragioniere, architetto. In poco tempo, gli ebrei furono completamente esclusi dalla società italiana.
Il 25 luglio 1943, Vittorio Emanuele III e il governo Badoglio lasceranno in vigore le leggi razziali, che saranno abrogate soltanto sei mesi dopo, nel gennaio del 1944, con un decreto la cui attuazione fu tuttavia rinviata alla fine della guerra.

l’Unità 8.7.08
Piazza Navona. Un’altra Italia
di Furio Colombo


Non appena avvertito della «iniziativa girotondina», che sarebbe l’incontro di oggi in Piazza Navona per dirci insieme quel che pensiamo delle leggi di Berlusconi per se stesso, delle imputazioni dei suoi processi, delle sgarberie appena camuffate nei confronti del capo dello Stato e della proposta indecente di prendere le impronte digitali ai bambini rom, il prof. Ernesto Galli della Loggia si è precipitato a offrire una diagnosi crudele, ma ahimé, secondo lui clinicamente impeccabile, del male della sinistra.
Infatti solo se sei in preda a un male puoi cadere nel miserevole stato del “girotondo” e abbandonarti a manifestazioni sguaiate e senza senso. Lo ha fatto con un editoriale-cartella clinica sul Corriere della Sera del 7 luglio. L’illustre terapeuta individua i seguenti incurabili sintomi che lui freudianamente chiama “miti”: il primo «è quello delle due Italie. La sinistra si sente sempre chiamata a impersonare l’Italia dei buoni». Il secondo mito «è quello della “unità”. La sua principale raffigurazione nella fatidica manifestazione unitaria, anche se è sparutissima minoranza». Il terzo mito che domina immaginario e pratica della sinistra «è il moralismo. È l’eticismo condotto ai limiti dell’arroganza di tipo razzista. La convinzione che si è puri solo se si è duri».
Il breve trattato passerà per una buona e interessante diagnosi solo fra quei lettori ed elettori che sono prigionieri della implacabile claustrofobia del talk show e dei telegiornali, secondo cui il mondo a sinistra comincia con i frequentatori più assidui, quelli che non mancano mai; e finisce, a destra, con Gasparri che ha guadagnato nuova fama e nuovi spunti per il bravo attore Marcorè con la frase di autorevole ammonimento a Veltroni: «Taccia e faccia opposizione». Il mondo però è un po’ più largo e la storia è un po’ più profonda e questo guasta il giochino dei tre miti di Ernesto Galli Della Loggia.
Basta voltarsi indietro di pochi decenni e dare uno sguardo a un paesaggio appena un po’ più ampio della “Storia dell’Occidente contemporaneo”, per notare due personaggi della sinistra del mondo che, oltre ad avere dato una mano alla civiltà in cui viviamo, ci servono anche per interpretare i tre miti di Galli della Loggia in modo un po’ meno modesto.
Sto parlando di Martin Luther King e di Robert Kennedy. Proviamo a misurare la loro azione e il loro stile di leader politici con le “prove” che il politologo del Corriere della Sera propone.
1 - Il mito delle due Americhe è nato con loro, sia durante le marce e le lotte per i diritti civili di Martin Luther King che durante la campagna elettorale di Robert Kennedy contro la guerra del Vietnam. È nata allora la celebre espressione «the other America», per dire che ci sono i razzisti ma ci sono anche i giusti, ci sono gli incappucciati ma ci sono anche i coraggiosi. L’altra America rischia insieme la vita affinché l’America razzista - che è armata - e quella che ha scelto la guerra e ha il potere, diventino, da stragrande maggioranza, la parte che cede, che accetta la de-segregazione, che tratta la pace.
2 - Il mito dell’unità è sempre stato l’ossessione di King e di Kennedy. Cominci con cinquanta volontari, arrivi in cinquecento, la volta dopo sono cinquantamila, bianchi e neri. Ragazzi appena richiamati alle armi ed eroi di guerra con le medaglie, e a un certo punto sono cinquecentomila. Certo che erano «sparutissima e dileggiata minoranza» all’inizio. E la loro pretesa («we shall overcome», noi ce la faremo, «we will not be moved», nessuno ci sposterà di qui)) era idealismo campato in aria. Ma la pretesa era proprio quella che Galli Della Loggia descrive come sintomo del male detto “sinistra”: «Un giorno, insieme (il mito dell’unità, ndr) ce la faremo». Ce l’hanno fatta.
3 - Credo di poter dire che Martin Luther King, buon cristiano e persona poco teatrale e poco esibizionista, si sentisse - lui e la sua gente - un po’ al di sopra degli assassini del Ku Klux Klan che gli hanno messo una carica di dinamite nella chiesetta di Montgomery (Alabama) facendo strage di bambini neri all’ora del catechismo. Ma forse ai lettori di Galli Della Loggia farà piacere sapere che quando un certo David Duke, già membro incappucciato del KKK dell’Alabama, molti hanni dopo, si è candidato al Senato con il Partito repubblicano, quel partito (che sarebbe la destra americana) non lo ha voluto. Anche da morto Martin Luther King ha visto prevalere il suo moralismo, ovvero la persuasione che tu ti opponi a certe persone non perché sono antipatiche o inferiori. Ma perché dicono cose che non si possono condividere e fanno cose che non si possono accettare. Come imporre le impronte digitali ai bambini Rom, metà dei quali sono cittadini italiani. E tutti sono protetti dalla nostra Costituzione. Ecco perché, Galli Della Loggia, abbracciamo i miti che lei vede come sintomi di malattia.
Due Italie. Perché la nostra comincia con la Resistenza, la Costituzione, Calamandrei e non con Borghezio, Gentilini, Calderoli, Bossi e Berlusconi.
L’unità, perché vogliamo con noi tutti coloro che non hanno niente a che fare con l’imbarazzante mercato Berlusconi-Saccà. E sappiamo che, anche se adesso sono o sembrano pochi, saranno per forza di più. In molti italiani il senso della dignità continua a prevalere sul modello dell’arricchimento istantaneo (basta piegarsi e non porre un limite a quanto ci si piega).
Il moralismo (uso la parola sprezzante dell’editorialista del Corriere, ma la parola giusta è moralità) continuerà ad essere la ragione per non smettere. Non smetteremo fino a quando finalmente saremo in tanti, tutti coloro che si vergognano della copertina del settimanale italiano Panorama, adesso in edicola, che pubblica le foto di un bambino Rom con il titolo «Nati per rubare», ovvero una pubblica incitazione al delitto di persecuzione.
È contro quel delitto che dedico la mia partecipazione all’evento di oggi in Piazza Navona. I Rom, tanti Rom italiani, con i loro bambini, ci saranno. E noi gli diremo: «Noi siamo l’altra Italia, morale, un po’ al di sopra del razzismo».
furiocolombo@unita.it

l’Unità 8.7.08
In piazza Navona per il «No Cav day»
Oggi alle 18. Gli organizzatori puntano a diecimila persone. Apre Rita Borsellino, chiude Furio Colombo
di Andrea Carugati


GIROTONDI, IL REMAKE Di nuovo a piazza Navona, come in quel famoso febbraio del 2002. Di nuovo contro le leggi vergogna del governo Berlusconi, di nuovo per chiedere una opposizione più intransigente. Appuntamento oggi alle 18, per il «No Cav day»
lanciato da Furio Colombo, Paolo Flores D’Arcais, e Pancho Pardi. Stavolta dal palco non parlerà Nanni Moretti. Al suo posto uno degli interventi più attesi sarà quello di Beppe Grillo, il comico dei “Vaffa day” che potrebbe lanciare in videoconferenza invettive a 360 gradi. E proprio la sua presenza è stato uno degli elementi che più ha diviso, almeno fino a questo momento. Tanto che Pardi auspica che «usi la sua verve polemica in modo positivo, evitando polemiche inutili». Tra gli organizzatori il timore è di nuovi attacchi al Quirinale, e anche di toni che segnino una lacerazione insanabile con Veltroni e il Pd. E tuttavia tra i democratici ci sono state adesioni, a partire da Arturo Parisi, che non parlerà dal palco ma sarà in piazza «tra i cittadini». «Anche Veltroni dice che protestare è giusto. Ma non dice né come né dove. Dice solo quando: a ottobre. Io sarò a fianco dei democratici che cominciano a protestare oggi». Con Parisi in piazza anche Mario Barbi, già coordinatore del Pd nella fase precedente alle primarie, e Giovanni Bachelet, della direzione Pd. Non ci sarà invece la sinistra Pd, guidata da Vincenzo Vita, che pur condividendo molti pilastri della manifestazione ha dato forfait da giorni «dopo gli attacchi a Napolitano di Flores d’Arcais e per i toni contro il Pd». Ci saranno invece numerosi esponenti della Sinistra arcobaleno: Paolo Ferrero del Prc, il verde Bonelli, Mussi e Fava di Sinistra democratica, Diliberto del Pdci. E anche due segretari confederali della Cgil, Paola Agnello Modica e Morena Piccini, che sottolineano il «bisogno di legalità ovunque, compresi i luoghi di lavoro». L’unico leader politico che parlerà dal palco sarà Tonino Di Pietro, uno dei registi della manifestazione (la destra iri ha criticato il Tg1 per un’intervista al leader Idv definita sdraiata). Si punta ad almeno 10mila presenze, attesi pullman da tutta Italia. «Noi abbiamo già toccato quota 60 pullman», dice Ivan Rota dell’Idv. Più prudente Flores D’Arcais: «Vedremo quanta gente noi tre gatti riusciremo a portare in un giorno feriale». Sedici gli interventi dal palco: ad aprire le danze sarà Rita Borsellino, chiuderà Furio Colombo. In videoconferenza, oltre a Grillo, ci sarà Umberto Eco. E poi parleranno Marco Travaglio, Ascanio Celestini, Andrea Camilleri, Moni Ovadia, Lidia Ravera. Ci sarà anche Sabina Guzzanti, che dal sito di Micromega invita alla mobilitazione contro le «leggi ignobili» del governo ma anche per «costruire l’opposizione che non c’è, i leader che non ci sono». Ha aderito anche Barbara Spinelli: «È urgente che un risveglio avvenga, anche se di pochi, perché la narcosi delle menti è vasta e progredisce». In piazza ci sarà una folta delegazione di rom da tutta Italia, guidati da Alexian Santino Spinelli, professore all’università di Trieste. E non mancheranno gazebo in cui i giovani del Pdci raccoglieranno le impronte digitali in segno di solidarietà al popolo rom. Anche il discorso conclusivo di Colombo sarà in larga parte dedicato alla «vergognosa idea delle impronte digitali». Infine, manifesti e striscioni: l’Idv porterà i suoi cartelloni «Fermiamo il Caimano», con tanto di rettile, e poi ci sarà un lunghissimo striscione di 30 metri con l’elenco di tutti i reati “sospesi” dalla norma blocca processi.

il Riformista 8.7.08
8 luglio parla Piero Sansonetti, direttore di Liberazione
«Non vado, questa piazza non è di sinistra»
intervista di Stefano Cappellini


Sansonetti, domani la sinistra radicale torna in piazza dopo la batosta elettorale. Sotto le insegne di Di Pietro, però...
«E infatti io non sarò in piazza. Quella di domani è una manifestazione che rispetto, mi auguro anche che abbia un bel successo, ma non ha proprio nulla di sinistra, quello non è il mio mondo».
E che mondo è?
«Centrista, moderato, il mondo dell'estremismo legalitario, che reputo pericoloso per Silvio Berlusconi sì, ma anche per tanti poveri cristi. Non è un caso che Di Pietro abbia votato contro l'istituzione della commissione di inchiesta sul G8 di Genova. Lui è per la legalità e l'accertamento della verità, ma non se si tratta di accertare le responsabilità della polizia "cilena" e del suo capo. Di Pietro non può essere compagno di strada della sinistra».
Ma che la sinistra radicale non riesca nemmeno a tornare in piazza con le proprie forze e parole d'ordine non è il segno di un coma irreversibile?
«È il sintomo di una malattia gravissima, ma non irreversibile. Comunisti, socialisti e ambientalisti fuori dal Parlamento. Era impossibile che questa situazione non creasse un'anomalia».
Qualche anno fa, quando lo scontro fu tra Bertinotti e Cofferati, la sinistra dei partiti fece un boccone del girotondismo.
«Ma quelli erano i tempi del movimento no global, che aveva una forza mondiale, mentre il girotondismo era un fenomeno tutto italiano. La guerra in Iraq spostò l'attenzione sul pacifismo e i girotondi seguirono. Oggi è la sinistra di Flores ad avere in mano l'iniziativa, ma non è detto che domani sarà ancora così. In questo momento bisogna riconoscere che l'egemonia nel campo dell'opposizione è in mano ad altri: da una parte il filone liberale e moderato, dall'altro le gerarchie ecclesiastiche. Quello che non avrei mai pensato era di trovarmi più vicino alle seconde che alla sinistra liberale. Stanno accadendo cose tremende e solo dal mondo cattolico è arrivata una opposizione forte su provvedimenti che, forzando ma non troppo, ho definito "leggi razziali"».
Ha più fiducia nei vescovi che in Veltroni?
«Che devo dire di Veltroni... lo conosco da una vita... Se alla guida del Pd ci fosse un uomo meno di centro, meno di potere, sarebbe meglio per tutti. Di sinistra-sinistra nel Pd non c'è rimasto più niente, ma un conto sono i moderati alla Veltroni, un altro i riformisti che oggi sono radunati intorno a Massimo D'Alema. E siccome la via per la rinascita della sinistra passa anche da una nuova politica delle alleanze, è con loro che occorre dialogare».
Bertinotti ha dato una bella mano alla nuova stagione veltroniana, quando ha firmato la "separazione consensuale" dal Pd. Poi all'improvviso Veltroni è diventato l'uomo nero e Vendola, nella cui mozione sono riuniti i bertinottiani, si rifiuta persino di incontrarlo...
«Si può anche sbagliare, se poi si riconoscono i propri errori».
Chi conosce la storia della sinistra è convinto che il congresso del Prc si può concludere in un modo solo: scissione.
«Mah, secondo me, se scissioni ci saranno, saranno marginali, non credo che i due tronconi principali si separeranno. Certo, la situazione è drammatica e stanno succedendo cose penose, però ce ne sono altre che mi fanno tornare ottimista, come il fatto che in tanti si sono iscritti al congresso per dire la loro, votare».
Ferrero e i suoi dicono che sono iscritti fasulli.
«C'è una parte del partito che vive il confronto interno all'insegna della cupezza».
Cioè?
«È giusto non perdere la radicalità, la forza della critica al capitalismo, ma senza mai dimenticare che la parola d'ordine del futuro è "libertà", e che non è possibile ricadere negli errori della sinistra novecentesca».
Se siamo a questo, significa che dieci anni di revisioni culturali bertinottiane sono trascorsi invano per la sinistra comunista.
«Forse tra gli errori di Bertinotti, oltre al non aver presagito le proporzioni della sconfitta elettorale, c'è quello di aver dato per scontato che certe revisioni fossero passate anche a livello di massa. E invece c'era una resistenza di fondo che non si è manifestata allora ed è uscita fuori dopo la sconfitta. Ma i meriti di Bertinotti sono giganteschi. Se qualcuno pensa di ripartire azzerando il suo lavoro compie un suicidio. Sono convinto che quando la sinistra riuscirà a uscire da questa crisi dovrà fare un monumento a Bertinotti, perché è lui ad aver indicato la strada giusta».
Visto lo stato in cui versa la sua parte politica, si è pentito di aver lasciato il campo riformista per quello radicale?
«No, non sono pentito. La sinistra vera sta da questa parte. Io, com'è noto, sono per Vendola, ma se devo scegliere tra Veltroni e Ferrero scelgo Ferrero cento volte. Ho cominciato a maturare la mia uscita dai Ds nel 1999, quando da inviato dell'Unità a Sarajevo vedevo piovere le bombe della Nato sulla Serbia e sapevo che a farle cadere erano i miei amichetti della Fgci. Certo, oggi siamo stati pesantemente sconfitti, ma in fondo io ho perso sempre. Se dovessi considerare la sconfitta ogni volta come segno di errore, dovrei dedurne che nella vita ho sbagliato tutto...».

l’Unità 8.7.08
Alessandro Pace. Il professore è il primo firmatario di un appello contro il lodo Alfano
«La legge sull’immunità è palesemente contro la Costituzione»
di Sandra Amurri


Purtroppo, diversamente dalle notizie avute nel pomeriggio, la maggioranza non ha ritirato gli emendamenti “blocca processi”. “Mi dispiace moltissimo perché l’emendamento “ blocca processi” è sicuramente più devastante, da un punto di vista sociale, dello stesso Lodo Alfano, che è pur palesemente incostituzionale”. È la risposta di Alessandro Pace, Professore ordinario di Dirirtto Costituzionale alla facolta di Gurisprudenza Università la Sapienza di Roma e Presidente dell’Associazione Italia dei Costituzionalisti e primo firmatario dell’appello “In difesa della Costituzione,” che vede come sostenitori anche Alessandro Pace, Valerio Onida, Leopoldo Elia, Gustavo Zagrebelsky, Enzo Cheli, Gianni Ferrara, Alessandro Pizzorusso, Sergio Bartole, Michele Scudiero, Federico Sorrentino, Franco Bassanini.
Professore, ci spieghi perché il Lodo Alfano è incostituzionale.
«Va contro la Costituzione secondo due principi. Il Primo è che non si può contraddire la Costituzione con una legge ordinaria. E che sia nella sostanza, una modifica costituzionale, è dato dal fatto che la Costituzione disciplina la responsabilità giuridico- penale dei membri del Governo, ma la disciplina con riferimento ai reati funzionali, cioè quei reati posti in essere dalle cariche di governo nell’esercizio delle proprie funzioni. E la disciplina prevedendo, come nel caso del Presidente della Repubblica o del Premier, un foro speciale, attribuendo la competenza al Tribunale dei Ministri. Processi, questi che possono essere portati avanti anche durante la carica . Se ne trae un’ovvia conclusione: se la nostra Costituzione non dice nulla a proposito di reati comuni, come furto o omicidio colposo, vuol dire che i titolari delle alte cariche dello Stato, sono soggetti alla legge come i comuni cittadini».
È questo il caso Berlusconi?
«Esattamente. Ma se questo è vero, questo significa anche che bisogna porsi il problema dell’art 138 in base al quale nessuna legge ordinaria può contraddire la Costituzione. Ma a prescindere da questo rilievo comunque la legge Afano, così come il Lodo Schifani incorre in numerose altre violazioni costituzionali».
Quali?
«Oltre all’art 3, l’art 112 relativo all’obbligatorietà dell’azione penale e all’art 111 della Costituzione che sancisce la durata ragionevole dei processi . Vuol dire che l’imputato deve poter godere di un giudizio rapido mentre il Pm deve poter avere l’interesse che l’assunzione dei mezzi di prova avvenga a ridosso della pronuncia della sentenza affinchè si abbia presente quello che è stato fatto in sede istruttoria».
Facciamo il caso del processo Mills di Berlusconi. Cosa accadrebbe?
«Credo che i fatti risalgano all’87 o al 90. Sono già trascorsi 17 anni. Se passasse il lodo Alfano il processo si fermerebbe per altri cinque anni, finchè dura il mandato di Premier. Poi magari diventerà Presidente della Repubblica e paasserebbero altri sette anni...».
Dunque il Lodo Alfano è evidentemente incostituzionale così come lo era il lodo Schifani?
«Lo è in modo diverso. E mi spiego. L’incostituzionalità del lodo Schifani è stata dichiarata nella sentenza 24 del 2004 quella CIR contro Berlusconi alla luce degli articoli 3 e 24 della Costituzione , in quanto impediva , bloccava anche il giudizio civile in sede penale. La Cir, danneggiata civilmente non avrebbe potuto proseguire il giudizio civile in sede penale. Mentre il Lodo Alfano consente alla parte civile di continuare in separata sede. Il lodo Alfano è macroscopicamente incostituzionale per tutto quello che ho detto fin qui. E, dunque la modifica non può essere fatta con una legge ordinaria».
Passerà, comunque, vista la maggioranza?
«L’Unità che è un giornale realistico, dovrebbe avere la risposta. Se tutti amassero e rispettassero la Costituzione così come la amo e la rispetto io direi “NO”. Ma le faccio io una domanda: questa è una classe politica, destra e sinistra, attenta ai valori costituzionali? Esiste un baratro tra l’Italia e gli Stati Uniti per quanto riguarda la conoscenza e l’amore per la Costituzione che è la Carta d’identità di un popolo che bisognerebbe insegnare nelle scuole fin dalle elementari. Il principio di eguaglianza davanti alla legge è un principio della rivoluzione liberale non socialista. La dichiarazione dei diritti dell’ uomo e del cittadino risale al 1789. Mi meraviglia che persone che si rifanno al liberalismo calpestino il principio di uguaglianza davanti alla legge che è una delle più importanti proclamazioni di quel documento».

l’Unità 8.7.08
Va in scena la dissoluzione comunista
di Roberto Cotroneo


Più che alla frutta sono ai materassi con una litigiosità che non è più, come si sarebbe detto un tempo, politica. Rifondazione in questi ultimi giorni ricordava un po’ quelle vecchie lotte dentro la Dc

Diciamolo francamente. È vero che tutti sanno quanto la sinistra possa essere litigiosa. È vero che la tradizione della sinistra è una tradizione di scissioni, frammentazioni, distinguo, separazioni, atomizzazioni. È vero che più si va a sinistra più la nebbia diventa fitta, fino a diventare incomprensibile. È vero - ancora - che la dialettica marxista, che poi è la dialettica hegeliana, nel suo essere perversa ma soprattutto mal capita, aiuta moltissimo a spaccare in quattro non tanto il capello ma il nulla. Però una storiaccia del genere non se la poteva aspettare nessuno.
E per storiaccia stiamo parlando delle vicende di Rifondazione Comunista, in vista del congresso del 24-27 luglio, al Pala Montepaschi di Chianciano Terme. Da una parte Paolo Ferrero con una mozione, dall’altra Nichi Vendola, governatore della Puglia, con un’altra mozione.
Più che alla frutta stanno ai materassi, con una litigiosità che non è più, come si sarebbe detto un tempo, politica. Non si tratta di capire come il futuro della sinistra più a sinistra del Pd, sarà rappresentato da uno o dall’altro. Si tratta di capire se le tessere sono regolari, se le iscrizioni sono giuste, e via dicendo. Insomma, a farla breve, Rifondazione in questi ultimi giorni ricordava un po’ quelle vecchie lotte dentro la Dc, dove votavano anche quelli morti, con i tesserati finti, e piacevolezze del genere. Tutto vero? Tutto falso? A Reggio Calabria, hanno annullato un congresso provinciale, una decisione che ricorda un tantino i soviet, come ha fatto notare un Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, decisamente allibito. Sembra che i tesserati fossero tutti troppo nuovi, del 2008, e non potessero votare. Cancellato tutto per decreto. Ma come? Perché?
Il dibattito non è aperto affatto. Le accuse reciproche sono pesanti. Ferrero ritiene che Vendola abbia gonfiato le iscrizioni a Rifondazione nella sua regione e in quelle a lui vicine: Puglia, Calabria e Sicilia. I blog e tazebao del popolo dei rifondaroli vicino alla mozione Ferrero dicono che in certe provincie sono più i tesserati a Rifondazione, dei voti presi dalla sinistra alle ultime elezioni. Non solo: molti tesserati, raggiunti telefonicamente per chiedere conferma dell’iscrizione al partito, risultavano irreperibili, semplicemente perché i numeri di telefono erano falsi.
Bah, si potrebbe dire. Cosa è? Il partito duro e concreto degli operai e degli ultimi comunisti? O una sorta di Democrazia Cristiana dei bei tempi di Antonio Gava o della corrente del Golfo, come veniva chiamata un tempo? E perché un uomo che si era imposto come un politico nuovo, vincendo in una regione difficilissima come la Puglia, contro Raffaele Fitto, uno dei delfini di Silvio Berlusconi, e governatore uscente, dovrebbe andare a gonfiare tessere contro Paolo Ferrero, ministro del Governo Prodi, e da molti considerato uno delle espressioni migliori di quel mondo e di quella sinistra?
Sembra una manovra suicida, ma non c’è da stupirsi, la sindrome autodistruttiva qui si vede tutta. E se nella vecchia Dc le tessere finte servivano a conservare poteri veri, ed erano l’espressione di un cinismo fuori da qualsiasi immaginazione, qui di cosa si tratta? Visto che parliamo di un partito che in paramento non esiste più? Solo di pochezza. Solo di paura. Solo dell’orrore di scomparire per sempre? Andate a leggervi tutte le note informative dei militanti, dei congressi provinciali di Rifondazione in questi giorni e scoprirete delle cose che hanno dell’incredibile. Ad Avellino sono stati chiamati i Carabinieri. Proprio i Carabinieri, perché i litigi erano così forti, che sono dovute intervenire le forze dell’ordine. E Vendola un paio di giorni fa, non si è negato niente. Dichiarando: «Non consentiremo l’annullamento del congresso nazionale e una militarizzazione per cui l’espulsione di una parte va a vantaggio dell’altra parte». Militarizzazione? Carabinieri? Se lo raccontavi prima, nessuno ci avrebbe creduto. Certo che fa tristezza vedere un dibattito su questo piano. Ma il clima politico sta diventando sempre più difficile. E Ferrero risponde a Vendola che «la legalità va tutelata sempre nel Paese come nei partiti. E le decisioni prese dalla commissione congressuale di garanzia vanno rispettate».
Legalità contro militarizzazione. Ma quale legalità, quale militarizzazione? Mica parliamo di Berlusconi e di La Russa? Semmai del candidato Vendola, appoggiato da Bertinotti contro il candidato Ferrero, che di fatto non è molto appoggiato, se non da Russo Spena e da Raul Mantovani. E che cerca non tanto di “non far vincere Vendola”, quanto di farlo vincere con meno del 50 per cento, così il partito si blocca e si paralizza. Un’idea geniale, non c’è che dire. Anche perché stiamo parlando di un partito che non esiste più in parlamento, che ha perso in modo pesante, e che tutto avrebbe dovuto fare tranne che mostrare una litigiosità che sarebbe comica se non fosse grottesca.
Ma funziona così. Vendola accusato di tesseramento tarocco, e Ferrero di tenere sotto controllo il congresso, con il potere di cancellare un congresso provinciale a Reggio Calabria, uno forse a Bologna, a seconda di come funzionano i risultati. E il popolo di quella sinistra? A cosa guarda? Intanto guarda con sospetto ai nuovi iscritti. E già questa è clamorosa. In alcuni casi sono stati interrogati ben bene per capire se la loro fede rifondarola era nei parametri accettabili da Ferrero e dai suoi sostenitori. Poi guarda alle due mozioni, quella di Vendola e quella di Ferrero e non è che si orienta molto bene. Vendola vorrebbe un nuovo soggetto della sinistra, ma dopo l’ultima batosta, non lo può dire così esplicitamente. Ferrero guarda al partito del pomodoro olandese, ovvero il partito di Jan Marijnissen. Ma è quasi impossibile accostare il partito di Marijnissen, con un carattere fortemente nazionalistico, con la storia di Rifondazione Comunista.
Ma anche le mozioni sono confuse, poco moderne, ed esprimono tutto il disagio che c’è dentro il partito. Quello che resta - e va detto - è un solo dato: è più sospetto annullare un congresso che mettere in giro voci che i nuovi iscritti a Rifondazione siano fasulli, chiamati soltanto per rafforzare Nichi Vendola. Perché quest’ultimo dato è davvero tutto da dimostrare, mentre annullare i congressi è decisamente fuori da ogni logica politica. Il rischio dei prossimi giorni sarà la carta bollata e un congresso scisso già prima di iniziare, come nella migliore tradizione della sinistra. O è meglio dire: come nella peggiore tradizione della sinistra.
www.robertocotroneo.net

l’Unità 8.7.08
Rossana Rossanda: «Sgomenta da questa sinistra solo risse, poche idee»
di Simone Collini


L’Arcobaleno? 4 forze senza un programma in comune. L’Urss è implosa, Diliberto ne prenda atto

Senza una sinistra sociale la crisi porta al populismo
Rc nel governo Prodi? Fuori o dentro, la via era comunque difficilissima

«Spero ancora che ci sia un sussulto di saggezza». Lo sguardo dall’«esterno» che Rossana Rossanda dà al congresso di Rifondazione comunista la lascia «sgomenta». «Tra le mozioni Vendola e Ferrero vedo accenti diversi, non linee politiche incompatibili. Ma per come si sta procedendo, questo rischia di essere il tipo di congresso che non vince nessuno. E non è che ogni volta che c’è un accento diverso si va a una rottura. Io l’ho vissuto nel manifesto, nel Pdup. Poi il Pdup è finito. Perché i grandi partiti hanno i loro elementi, come i grandi bastimenti, di stabilità obbligata. Se nei partiti più piccoli ci si spacca, poi ricostruire è molto difficile».
Comunisti e verdi fuori dal Parlamento, Rifondazione alle prese con un congresso in cui volano le accuse di gonfiare i tesseramenti e di usare dei cavilli per annullare i voti: è la fine della sinistra?
«Può anche scomparire dal Parlamento ma il problema sociale, precariato, salari, pensioni, questo rimane. Il liberismo incontra sacche di rifiuto molto profonde, ma senza una sinistra sociale ispirata a un aggiornamento dell’anticapitalismo e del movimento operaio la crisi porta al populismo. Se non c’è una civilizzazione e un acculturamento del conflitto sociale, si va verso conflitti brutti, pericolose forme di rivolta. Le banlieues di Parigi non sono un orizzonte augurabile per coloro che rimangono tagliati fuori da un certo tipo di sviluppo. Per questo io sono convinta che una sinistra ci deve essere».
Non devono averla pensata così gli elettori, visto il risultato del voto di aprile, non crede?
«La sinistra è stata messa fuori dal Parlamento per una sua crisi profonda seguita al governo Prodi, che aveva dei limiti considerati di spesa che non permettevano di rispondere a nessuna delle attese della parte debole della società, ma anche per il tipo di legge elettorale e per la distruzione della sua immagine che ha condotto Veltroni, perché è una sciocchezza dire che non si può manifestare se si sta al governo».
Secondo lei ha fatto bene Rifondazione ad entrare nel governo?
«Se non fosse entrata avrebbe comunque dovuto dare l’appoggio esterno, per formarlo. E quindi si sarebbe trovata costantemente di fronte al problema o votare le leggi del governo o farlo cadere. Il problema è che la sinistra era debole, dentro e fuori il Parlamento».
E ancora più debole è stata come Sinistra arcobaleno, che è apparsa come un mero cartello elettorale: Prc, Pdci, Verdi e Sd hanno pagato il ritardo nell’avviare un processo di unificazione?
«I processi di unificazione vanno fatti su un programma, e io non vedo un programma chiaro e comune tra queste quattro forze. Non lo vedevo allora e non lo vedo neanche oggi».
Che ne pensa del modo in cui si sta svolgendo il congresso del Prc?
«Sono sgomenta della zuffa. Nella situazione in cui ci troviamo, la mozione Vendola e la mozione Ferrero-Grassi dovrebbero trovare il modo di confrontarsi senza sfociare in questo scontro molto violento, che a mio avviso è molto negativo. Io do peso e rispetto la differenza delle idee, ma penso anche che siamo in un momento tale per cui ogni rottura sarebbe una catastrofe».
Lo scontro, più che sulle idee, è su tesseramenti ambigui e l’utilizzo mirato di cavilli statutari.
«Questo è il difetto più grave dei partiti. Io non sono una scatenata sulla crisi dei partiti e della politica, queste cose un po’ grillesche. Però è un fatto che la vita dei partiti degenera facilmente. I partiti poi sono fatti di persone e le divisioni politiche diventano ferite personali».
Così però c’è il rischio di allontanare ancora di più elettori e simpatizzanti, non crede?
«Temo fortemente questo. Nel momento in cui il clima di scontro ha il primato rispetto alle idee che si scontrano, gli elettori, i militanti, la base che si vorrebbe raccogliere finisce col perdere la fiducia, scoraggiarsi».
Entrando nel merito delle proposte: la mozione Vendola propone l’avvio di un processo costituente della sinistra, quella Ferrero-Grassi punta al rilancio del Prc come partito sociale. Che ne pensa?
«Personalmente, guardando dall’esterno, vedo degli accenti molto diversi tra le due linee ma nessuna incompatibilità. Ferrero insiste molto sulle questioni sociali, che sono anche una mia fissazione, e insiste sul fatto che se il Prc si apre queste questioni sparirebbero, cosa che io non credo. Quanto al processo costituente, sarei perplessa di fronte all’idea di unificare le quattro forze che c’erano dentro la Sinistra arcobaleno».
Si discute anche se superare o meno Rifondazione, o no?
«Il dilemma non è tenere o meno la sigla di Rifondazione. O almeno, per chi come me è fuori non è questo il dilemma. Che sta invece nel programma politico».
Che ne pensa di quello di Ferrero?
«Mi sembra abbia una base molto ragionevole, ma è ristretto rispetto le sensibilità sociali e dovrebbe allargarsi».
E della costituente di Vendola, che dice?
«Che non va da sé. Solo una parte dell’ambientalismo si collega all’idea che la distruzione dell’ambiente è collegata a un modo di produzione capitalistico. E questo dovrebbe essere un punto da discutere con gli ambientalisti. Quanto al Pdci, il rimanere attaccati a una continuità con quella che è stata l’Unione sovietica vuol dire evitare lo scoglio di fare i conti con un’esperienza che è fallita. L’Urss è implosa su se stessa, non è mica stata invasa dagli Stati Uniti, mica è stata una congiura di palazzo a farla cadere. È crollata su se stessa, e non capisco come una persona colta come Diliberto non assuma questo problema».

l’Unità 8.7.08
Rifondazione, scontro sulla vittoria a Roma
A Bologna il partito decide di correre con il proprio simbolo contro Cofferati


Ho vinto io. No tu no. «A Roma la mozione di maggioranza è quella rappresentata da Nichi Vendola, che ha ottenuto il 49% delle preferenze, mentre la mozione Ferrero è intorno al 42%». Così il segretario romano uscente del Prc, Massimiliano Smeriglio, sintetizza i risultati dei congressi del Prc della capitale.
Nel conteggio delle preferenze, però, resta l’incognita del circolo Trastevere, «dove ieri a 25 iscritti è stato impedito di votare», ricorda Smeriglio, che presenterà ricorso. Questi intoppi potrebbero anche far slittare il congresso della federazione di Roma, che era stato convocato per questo fine settimana.
Ma più che questo, il punto è che anche sui dati la mozione Vendola e quella Ferrero-Grassi trovano il modo di litigare. All’annuncio della mozione Vendola sul successo nei congressi dei circoli romani, replica a stretto a stretto giro di posta la mozione Ferrero-Grassi. «I congressi di Rifondazione - si legge in una nota del portavoce romano dell’area, Alessandro Cardulli - si vincono se si raggiunge il 51% dei voti validi. Questo dato elementare evidentemente è sconosciuto dai firmatari romani della mozione di Nichi Vendola che nei congressi dei Circoli ha avuto solo il 48%».
Intanto a Bologna il Prc ha già deciso che alle prossime elezioni per il Comune, nel 2009, correrà contro il sindaco uscente Sergio Cofferati, con una propria lista e il proprio simbolo. Dunque torna sulle schede elettorali la falce e martello e sembra svanire definitivamente l'ipotesi di una lista civica nella quale far confluire tutte le forze di sinistra contrarie alla riconferma dell'attuale primo cittadino.

l’Unità Roma 8.7.08
Un’Aida gotica e autarchica
Si apre la stagione estiva dell’Opera di Roma alle Terme di Caracalla
di Luca Del Fra


SARÀ UNA «AIDA» gotica, promette Maurizio Di Mattia -il curatore dello spettacolo- ad aprire giovedì alle Terme di Caracalla la stagione estiva dell’Opera di Roma che quest’anno si profila autarchica, e forse anche un po’ al risparmio, poiché oltre al-
l’opera egizia di Giuseppe Verdi, prosegue con Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti, un nuovo allestimento per la regia di Per Francesco Maestrini e la direzione Antonello Alemandi che andrà in scena dal 18 luglio, e Madama Butterfly di Giacomo Puccini con la ripresa dal 27 luglio dell’allestimento di Renzo Giacchieri con la direzione di Fabrizio Carminati.
Nel ruolo titolare troviamo il soprano Maria Carola cui viene data la possibilità di riscattarsi dopo la modesta prova nei panni di Micaela in Carmen il mese scorso al Costanzi, il mezzosoprano Laura Brioli nei panni di Amneris. Al tenore Franco Farina spetta invece il temibile ruolo di Radames mentre quello di Amonasro è di Giovanni Meoni, e completano il cast Michail Ryssov, Ramfis, e Armando Caforio, il re: tutti diretti da Antonio Pirolli. Di Mattia lavora da oltre vent’anni come interno nell’ufficio regia dell’Opera di Roma, e ha collaborato con tutti i registi che in questi anni hanno creato spettacoli per il teatro, nella sede del Costanzi ha realizzato messe in scene di Gioconda e anche Aida, stavolta debutta a Caracalla: «L’allestimento è nato però a Hong Kong nell’autunno scorso -ci spiega- come spettacolo per celebrare i dieci anni del ricongiungimento della città alla Repubblica Popolare Cinese. E non è un caso sia nato lì, poiché il teatro dove lavoro stabilmente non usa le sue risorse interne e dunque le occasioni per lavorare in prima persona firmando gli spettacoli sono scarsissime, così mi vado a cercare il lavoro fuori». Malgrado il tono battagliero però Di Mattia sembra affezionato al suo teatro: «Per questa messa in scena abbiamo recuperato oltre 200 costumi che altrimenti sarebbero stati buttati via spiega- e l’idea è quella di mettere in scena un Egitto fin de siècle, esotico, ma soprattutto esoterico, una paese pieno di misteri e di cose da scoprire, dove grazie alle mummie aleggi anche una atmosfera gotica di certi racconti di Poe».
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Corriere della Sera Economia 7.7.08
Personaggi. Il figlio di Raul lascia il settimanale «Left» e torna al mestiere di famiglia
E ora Ivan Gardini si tuffa nelle alghe
Sono le fonti rinnovabili da cui ottenere energia pulita
di R. Sc.


Erede. Ivan Gardini, 39 anni, figlio dell'ex numero uno di Montedison, Raul.
Imprenditore, ha finanziato la rivista Left

Meglio il business dell'energia che l'editoria.
Ivan Gardini deve averlo pensato quando ha lasciato il settimanale Left , lanciato proprio da lui e dall'amico e socio Luca Bonaccorsi, due anni fa. E in questi giorni la cronaca pare avergli dato ragione: la testata è stata pignorata a garanzia dei debiti verso il penultimo direttore, Andrea Purgatori, e le acque all'interno della redazione sono agitate. Ma ormai sono affari di suo cognato Luca Bonaccorsi, rimasto solo a reggere le sorti del periodico della sinistra insieme alla sorella Ilaria, moglie di Ivan nonché direttore editoriale.
Il figlio di Raul e Idina Ferruzzi nell'avventura editoriale della cooperativa Altraitalia ha speso più che guadagnato e alla fine, anche se a malincuore, ha deciso di tornare a fare il mestiere di famiglia: l'imprenditore. «Sono un uomo di sinistra — spiegava due anni fa riferendosi alla sua iniziativa — credo che l'informazione possa rappresentare uno degli strumenti più efficaci per la costruzione di una società migliore. Il mio impegno non è e non ha motivazioni esclusivamente economiche ».
Resta il fatto che in due anni Left ha cambiato tre volte direttore (prima Giulietto Chiesa, poi Andrea Purgatori quindi Pino Di Maula) e che la scommessa del rilancio non ha dato i frutti sperati. Nell'iniziativa editoriale il 39enne imprenditore ha impegnato parte dei 3,8 milioni di utile registrati nel 2006 dalla sua finanziaria, la Gardini 2002 srl. E forse non è un caso se lo scorso anno mentre Gardini lasciava la cooperativa editoriale la sua holding riduceva il capitale da 21 a 18 milioni.
«Era un editore silenzioso — spiegano i giornalisti — non si è fatto coinvolgere nelle discussioni sulla linea politica, ma forse si era stancato».
Così il figlio di Idina ha voltato pagina ed è tornato all'antico: l'energia. Non lontano dalle orme di un padre divenuto famoso per la scalata alla Montedison. Ovviamente i tempi sono cambiati e soprattutto i patrimoni non sono più quelli di Serafino Ferruzzi. Ma Ivan, che a soli 21 anni era presidente della Ferfin, ha usato l'esperienza e ha puntato su una nicchia di mercato promettente: l'energia dalle fonti rinnovabili. La sua società, figlia della Srl fondata dal padre dopo il divorzio dal clan Ferruzzi, si è messa in partnership con un gruppo già affermato nel settore: Tozzi Holding.
Ravennati entrambi, Gardini e Tozzi hanno elaborato un piano avveniristico focalizzato sullo sfruttamento della risorsa meno pregiata dell'Adriatico: le alghe. Il progetto di ricerca sostenuto dal comune e dalla provincia di Ravenna non è l'unico messo in cantiere dai due che insieme possiedono la Tecnowatt, una società che gestisce due centrali idroelettriche con ricavi intorno al milione di euro. Ivan da solo invece ha rilevato un partecipazione nella Isoeletric una srl di Cremona attiva sempre nel ramo dell'energia. Il resto dei ricavi della Gardini 2002 deriva dalle operazioni di trading finanziario e immobiliare. Piccoli investimenti realizzati preferibilmente vicino a casa e con persone fidate.
È il caso per esempio della partecipazione acquistata nella Sofibar, braccio operativo della Cassa di risparmio di Ravenna. A presiedere la banca ravennate c'è un vecchio amico della famiglia Gardini, Antonio Patuelli. Il banchiere orchestrò l'ingresso della Sofibar nella Cassa di Firenze per poi uscire con una ricca plusvalenza in occasione dell'opa di IntesaSanpaolo. Spiccioli in confronto alle cifre che giravano intorno alla Gardini srl degli anni '90 la finanziaria con la quale l'ex numero uno di Montedison tentò la via del rilancio in proprio.
Il suo castello di partecipazioni, racchiuso nella holding che, dopo la sua scomparsa, cambiò nome in Gardini F.lli srl, fu venduto a pezzi dai tre figli: Ivan, Eleonora e Maria Speranza. Dopo di che i percorsi si sono separati e il testimone degli affari di famiglia, oltre che la proprietà del 100% delle quote, sono rimaste al solo Ivan.

Repubblica 8.7.08
Zapatero e la democrazia
di Joaquìn Navarro-Valls


Ho letto con molta attenzione su Repubblica di ieri il discorso pronunciato qualche giorno fa da Zapatero a chiusura del Congresso del Partito socialista spagnolo. Devo dire che la cosa non è stata faticosa anche per lo stupore che mi hanno suscitato le sue parole. Probabilmente ciò dipende dalla mia abitudine a seguire ormai da tempo le notizie internazionali – e quindi anche quelle della mia Spagna – dall´Italia, iscrivendole all´interno del dibattito politico che avviene qui. Certamente, nel caso di Zapatero si tratta di un discorso efficace, costruito con cura, e, pertanto, idoneo a sintonizzarsi con la frequenza del corpo elettorale della sinistra spagnola.
È un ragionamento significativo, inoltre, perché all´interno si trova una sintesi chiara dei valori che ispirano da sempre la sua linea politica. Quindi, presumibilmente, anche quella futura.
A dire il vero il primo fatto stupefacente è proprio questo. Zapatero è un leader nazionale, ormai al governo da alcuni anni, che regge il testimone con un´immagine piuttosto moderna e aggressiva, mentre la sua impostazione culturale rimane legata a una serie di contenuti e a un vocabolario tradizionale, da sempre alla base del socialismo antico. In questo senso, Zapatero più che spingersi verso il futuro, sembra indirizzarsi al futuro nel quadro della linea socialista più conformista.
Malgrado tutto, sembra apprezzabile però un fatto fondamentale. Zapatero pone di nuovo al centro della prospettiva politica non gli interessi, ma le idee: impostazione questa che non possiamo non condividere. Addirittura, per spiegare la sua iniziativa, egli utilizza il lemma spagnolo "Ideas", facendolo diventare un acrostico dantesco che raccoglie nelle iniziali i cinque valori centrali del suo socialismo futuro: uguaglianza, diritti, ecologia, azione e solidarietà.
Non è possibile paragonare questi valori positivi di riequilibrio e di miglioramento della società senza soffermarsi su alcuni atteggiamenti piuttosto diversi tenuti dal leader spagnolo, ai quali egli, purtroppo, ci ha abituati da anni. Sto pensando allo scontro frontale che Zapatero ha avuto più volte con il mondo religioso e in specie con quello cattolico. Le immagini dei vescovi spagnoli che protestavano in piazza con qualche milione di persone comuni si sommano allo sconcerto di oggi per la sua iniziativa, ribadita in questi giorni concitati del Congresso, di togliere i crocifissi dagli spazi pubblici, quasi si trattasse di svastiche naziste o di simboli offensivi del sentire popolare. Fa impressione pensare al contrasto evidente che appare tra la modernità della battaglia per affermare in Spagna e nel mondo maggiore uguaglianza, maggiori diritti, crescente tutela ambientale e via discorrendo, e l´intransigenza con cui egli vuole eliminare dallo spazio pubblico anche il simbolo religioso più importante della Spagna: il crocifisso. Questa contraddizione, ovviamente, non toglie nulla alla positività delle sue idee programmatiche, benché ne evidenzi forse una certa vacuità ed incoerenza.
Come si può pensare di far crescere i diritti individuali senza rispettare i sentimenti religiosi della maggioranza? Come si può valutare positivamente l´azione di una politica di riforme senza che essa si accompagni ad un reale rispetto del pluralismo presente nella società?
Queste domande mi fanno tornare alla situazione italiana: qui si discute ormai da alcuni mesi se il neonato Partito democratico debba iscriversi o meno nel Partito socialista europeo. Tali perplessità mi fanno pensare che anche le forze politiche che sono più a sinistra o più a destra del Pd non hanno rinunciato ad esibire e riconoscere come fondamentale l´idea di democrazia.
La contraddizione di Zapatero riguarda, invece, proprio il fatto che nelle sue "Ideas" non appaia per nulla neanche l´enunciazione formale della parola democrazia. Questa mancanza, lungi dall´essere marginale, è invece il fulcro della sua politica e anche il suo cuore fragile. O, infatti, egli è convinto che in Spagna vi sia una democrazia realizzata già completamente e in modo sufficiente. E, allora, la sua proposta finisce per diventare molto simile ad un discorso conservatore. Oppure egli ritiene che l´attuazione dei valori che lo ispirano abbiano talmente valore da mettere la democrazia in secondo piano. E, allora, però egli finisce per essere veramente il sostenitore di una proposta massimalista e totalitaria, degna di altri tempi.
L´assenza dell´idea di democrazia tra le "Ideas", in ogni caso, è particolarmente grave. E lo è soprattutto perché quando si parla di democrazia s´intende veramente il più alto e condiviso valore politico del nostro tempo, un ideale capace di includere tutti gli altri valori, realizzandoli concretamente e a pieno. Democrazia significa pluralismo, rispetto degli altri, tolleranza, valorizzazione delle differenze. Inoltre, la democrazia è un metodo di attuazione politica delle "idee" che passa attraverso la chiusura di una logica di potere egemonico ed esclusivo. Gli ideali politici sono democratici quando contengono al proprio interno una visione moderata ed eterogenea di società, a cui non si propone una scelta di campo radicale che include l´indicazione precisa di un nemico da abbattere o da normalizzare.
In Italia, ad esempio, l´adozione di un metodo democratico, fin dagli anni Sessanta, è stato quanto ha contraddistinto, non solo a sinistra, chi seguiva un modello costituzionale da chi rifiutava di aderirvi. Il socialismo era pensato già non come la costruzione di una società omogenea, ma come l´attuazione reale della democrazia nella società.
La speranza, alla fine, è che tra le molte e buone idee di Zapatero ricompaia e torni a crescere anche quella più importante e più progressista di tutte. L´idea di democrazia.

Repubblica 8.7.08
Viaggio tra le divine fiamme
Il trionfo del fuoco nel mondo avvelenato
di Umberto Eco


È stato soprattutto Gaston Bachelard a riflettere sulla poesia, la mitologia, la psicologia e la psicoanalisi di questo elemento straordinario che fin dall´antichità più remota ha affascinato e atterrito l´uomo
L´ultimo segreto di Fatima accenna ad un mare che brucia le anime
Nel Medio Evo Roberto Grossatesta immagina una sorta di big bang
Nella Bibbia il profeta Elia viene rapito su un carro avvolto da un incendio
Alle origini era associato con la divinità e il suo culto è sempre presente
I secoli passati sono pieni di roghi per le streghe o per i libri proibiti

Negli anni Settanta avevo acquistato una casa di campagna fornita di un bel camino e per i miei figli, allora tra i dodici e i dieci anni, l´esperienza del fuoco, del ciocco che arde, della fiamma, era un fenomeno assolutamente nuovo. E mi sono accorto che quando il camino era acceso essi non accendevano più il televisore. La fiamma era più bella e varia di qualsiasi programma, raccontava storie infinite, si rinnovava a ogni istante, non seguiva schemi fissi come lo show televisivo.
Chi, tra i contemporanei, ha più riflettuto sulla poesia, la mitologia, la psicologia e la psicoanalisi del fuoco è stato Gaston Bachelard (...). Il calore del fuoco richiama il calore del sole, a sua volta visto come palla di fuoco. Il fuoco ipnotizza ed è dunque il primo oggetto e movente al tempo stesso del fantasticare, il fuoco ci ricorda la prima inibizione universale (non bisogna toccarlo), diventando così epifania della legge, il fuoco è la prima creatura che, per nascere e crescere, divora i due pezzi di legno che lo hanno generato – e questa nascita del fuoco ha una forte valenza sessuale perché il seme della fiamma scaturisce da uno sfregamento – e d´altra parte, se si vuole continuare in una lettura psicoanalitica ricorderemo che per Freud la condizione per padroneggiare il fuoco è la rinuncia al piacere di spegnerlo con la minzione, e dunque la rinuncia alla vita pulsionale.
(...) Il fuoco può essere luce abbagliante che non si può fissare come non si può fissare il sole, ma dovutamente ammaestrato, come quando diventa luce di candela, ci consente giochi di chiaroscuro, veglie notturne nel corso delle quali una fiamma solitaria ci costringe a immaginare, coi suoi lucori leggeri che sfumano nell´oscurità, e la candela è al tempo stesso accenno a una sorgente di vita e ad un sole che si estingue.
Il fuoco nasce dalla materia per trasformarsi in sostanza sempre più leggera ed aerea, dalla fiamma rossa o bluastra della radice alla fiamma bianca dell´apice, sino e svanire in fumo. In tal senso la natura del fuoco è ascensionale, ci richiama ad una trascendenza, e tuttavia, forse perché si è appreso che esso vive nel cuore della terra da dove erutta solo durante il risveglio dei vulcani, esso è simbolo di profondità infernali. E´ vita ma è esperienza del suo spegnimento e della sua continua fragilità. (...)
Visto che la prima esperienza del fuoco si ha indirettamente attraverso la luce solare e direttamente attraverso la folgore e l´incendio non padroneggiabile, era evidente che il fuoco dovesse essere associato sin dalle origini con la divinità, e in tutte le religioni primitive troviamo in qualche forma un culto del fuoco. (...) Nella bibbia il fuoco è sempre immagine epifanica del divino, su un carro di fuoco verrà rapito Elia, nel fulgore del fuoco giubileranno i giusti (...) mentre i padri della Chiesa parleranno di Cristo come lampas, lucifer, lumen, lux, oriens, sol justitiae, sol novus, stella.
I primi filosofi hanno riflettuto sul fuoco come principio cosmico. Secondo Aristotele per Eraclito l´archè, l´origine di tutte le cose, era il fuoco, e in alcuni frammenti effettivamente sembra che Eraclito sostenga questa tesi. Egli avrebbe affermato che l´universo ad ogni era si rigenera attraverso il fuoco, che vi è scambio reciproco di tutte le cose col fuoco e del fuoco con tutte le cose, come delle merci con l´oro e dell´oro con le merci. E, secondo Diogene Laerzio, avrebbe sostenuto che tutto si forma dal fuoco e nel fuoco si risolve, che tutte le cose sono, per condensazione o rarefazione, mutazioni del fuoco (...) Ma ahimè, si sa che Eraclito era per definizione oscuro, che il signore che ha l´oracolo in Delfi non dice e non nasconde, ma accenna, e molti ritengono che i riferimenti al fuoco fossero soltanto metafore per esprimere l´estrema mutevolezza del tutto. Ovvero panta rhei, tutto scorre mobile e mutevole e non solo (chioserei) non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume ma non ci si brucia mai due volte alla stessa fiamma.
Forse la più bella identificazione del fuoco con il divino la troviamo nell´opera di Plotino. (...) Se le cose nascono da un irradiamento, nulla può essere più bello in terra di ciò che è figura stessa dell´irradiamento divino, il fuoco. (...) Di stampo neoplatonico sono le pagine dello pseudo Dionigi Aeropagita che influenzeranno tutta l´estetica medievale. Vedi da Gerarchia celeste, XV: «I sacri autori spesso descrivono la sostanza soprasostanziale e che non ha alcuna forma con il simbolo del fuoco, in quanto esso ha molti aspetti del carattere divino, se è lecito dirlo, per quanto lo si può scoprire nelle cose visibili...». (...) Il fuoco anima le visioni dei mistici, in particolare le pagine di Hildegarde di Bingen: «Vidi una grandissima visione rotonda e oscura fatta a somiglianza di un uovo, stretto nella parte superiore, largo nel mezzo e ristretto di nuovo sul fondo; all´esterno di essa, per tutta la sua circonferenza, c´era del fuoco splendente, che aveva sotto di sé qualcosa come una membrana oscura. All´interno di questo fuoco vi era un globo di fuoco scintillante, di tale grandezza che tutta la visione ne veniva illuminata; questo aveva sopra di sé tre piccole faci poste ordinatamente una sopra l´altra, che trattenevano con il loro fuoco il globo, affinché non s´inclinasse...».
Per non dire delle visioni di luce che sfolgorano nel Paradiso dantesco e che curiosamente sono state rese nel loro massimo splendore da un artista ottocentesco come Doré, che ha cercato (come poteva, ma non si poteva) di rendere visibili quelle fulgidezze, quei vortici di fiamme, quelle lampade, quei soli, queste chiarezze che nascono «per guisa d´orizzonte che rischiari», quelle candide rose, quei fiori rubicondi che sfolgorano nella terza cantica, dove anche la visione di dio appare come un´estasi di fuoco («Ne la profonda e chiara sussistenza - de l´alto lume parvermi tre giri - di tre colori e d´una contenenza; - e l´un da l´altro come iri da iri - parea reflesso, e ´l terzo parea foco - che quinci e quindi igualmente si spiri»).
(...) Nel XII secolo la cosmologia della luce proposta da Roberto Grossatesta elabora un´immagine dell´universo formato da un unico flusso di energia luminosa, fonte insieme di bellezza e di essere, facendoci pensare a una sorta di big bang. Dalla luce unica derivano per rarefazioni e condensazioni progressive le sfere astrali e le zone naturali degli elementi, e di conseguenza le sfumature infinite del colore e i volumi delle cose.
Ma poiché, se pure il fuoco si muove nel cielo e si irradia sino a noi, parimenti erutta dalle profondità della terra seminando la morte, ecco che sin dalle origini il fuoco si associa anche ai regni infernali. (...) Curiosamente nell´inferno dantesco c´è meno fuoco di quanto si potrebbe immaginare, perché il poeta s´ingegna di immaginare vari e diversi supplizi, ma possiamo accontentarci degli eretici che giacciono in tombe infuocate, dei violenti tuffati in un fiume di sangue bollente, dei bestemmiatori, sodomiti e usurai colpiti da piogge di fuoco, dei simoniaci conflitti a testa in giù coi piedi in fiamme, dei barattieri sommersi nella pece bollente...
Ma certamente il fuoco infernale sarà più invasivo nei testi barocchi, con una descrizione dei tormenti infernali che supera la violenza dantesca, anche perché non è redenta dal soffio dell´arte. Come in questa pagina di sant´Alfonso de´ Liguori (Apparecchio alla morte, xxvi): «La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l´inferno. (...) Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell´inferno, che dice S. Agostino che ´l nostro sembra dipinto. (...) Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto, un abisso di sopra, e un abisso d´intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell´acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d´intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l´ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco (...)».
Per arrivare alla rivelazione dell´ultimo segreto di Fatima da parte di suor Lucia, ex pastorella: «La Madonna ci mostrò un grande mare di fuoco, che pareva che si trovasse sotto terra. Immersi in questo fuoco, i demoni e le anime come se fossero braci trasparenti e negre o color bronzo, dalla forma umana, che fluttuavano nell´incendio, trasportati dalle fiamme, che uscivano da loro stessi, insieme a nugoli di fumo e cadevano da tutte le parti, simili alle faville che cadono nei grandi incendi, senza peso né equilibrio, tra gridi e gemiti di dolore e di disperazione che facevano raccapricciare e tremare di spavento. I demoni si distinguevano per le forme orribili e schifose di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti e negri». (...)
Con la conquista del fuoco nascono le arti, almeno nel senso greco di tecniche, e dunque il dominio dell´uomo sulla natura. E peccato che Platone non avesse letto Lévi-Strauss e non ci avesse anche detto che, con la produzione del fuoco, inizia la cottura dei cibi: ma in fondo la culinaria altro non è che un´arte e quindi era compresa sotto la nozione platonica di techne. E quanto il fuoco abbia a che vedere con le arti ci racconta assai bene Benvenuto Cellini dicendo del modo in cui aveva fuso il suo Perseo. (...)
Se tuttavia il fuoco è elemento divino, al tempo stesso apprendendo a fare il fuoco l´uomo si impadronisce di un potere che era sino ad allora riservato agli dei, e pertanto persino il fuoco che accende nel tempio è effetto di un atto di superbia. La civiltà greca assegna subito questa connotazione di superbia alla conquista del fuoco ed è curioso come tutte le celebrazioni di Prometeo, non solo nella tragedia classica, ma anche nell´arte posteriore, non insistano tanto sul dono del fuoco quanto sulla punizione che ne consegue.
Quando invece l´artista accetta e riconosce con orgoglio e con ybris di essere simile agli dei, e vede l´opera dell´arte come sostituto della creazione divina, allora si fa strada con la sensibilità decadente l´equiparazione tra esperienza estetica e fuoco e tra fuoco ed epifania. (...)
Forse a legare l´estasi estetica all´idea del fuoco è stato per la prima volta d´Annunzio, che non saremo così banali da collegare soltanto all´idea assai frusta che la fiamma sia bella. L´idea dell´estasi estetica come esperienza del fuoco appare in quel romanzo che al fuoco appunto s´intitola. (...) Ispirato proprio dal Fuoco dannunziano, che aveva letto ed amato, ecco il massimo teorico dell´epifania, James Joyce. (...) Compariamo due brani. D´Annunzio: «Ogni attimo, allora, vibrò nelle cose come un baleno insostenibile. Dalle croci erette in sommo delle cupole gonfie di preghiera ai tenui cristalli salini penduli sotto l´arco dei ponti, tutto brillò in un supremo giubilo di luce. Come la vedetta gitta dai precordi l´acuto grido all´ansia che sotto freme in guisa di procella, così l´angelo d´oro dalla massima torre diede alfine l´annuncio fiammeggiando. Ed Egli apparve. Apparve su una nuvola assiso come su un carro di fuoco, traendo dietro sé i lembi delle sue porpore...». E nel Portrait: «Il suo pensiero era un limbo di dubbio e di sfiducia verso se stesso, acceso a tratti dai lampi dell´intuizione, ma lampi di un fulgore cosi limpido che in quei momenti il mondo gli scompariva ai piedi come divorato dal fuoco e in seguito la lingua gli si appesantiva e i suoi occhi incontravano senza rispondere gli occhi degli altri, perché sentiva che lo spirito della bellezza lo aveva avvolto come in un mantello...».
Avevamo visto che per Eraclito l´universo ad ogni era si rigenera attraverso il fuoco. Col fuoco pare abbia avuto più dimestichezza Empedocle che, forse per divinizzarsi, o per convincere i sui seguaci che si era divinizzato, si era buttato (dicono solo alcuni) nell´Etna. Questa purificazione finale, questa scelta dell´annientamento nel fuoco, ha sedotto i poeti di ogni tempo, e basti ricordare Hölderlin. (...) Comunque tra Eraclito ed Empedocle si disegna un altro aspetto del fuoco, non solo come elemento creatore ma anche come elemento al tempo stesso distruttore e rigeneratore. Gli Stoici ci hanno parlato della ecpirosi come della conflagrazione universale (o incendio e fine del mondo) attraverso la quale ogni cosa, derivando dal fuoco, nel fuoco ritorna alla fine del proprio ciclo evolutivo - e per il fenomeno dell´apocatastàsi dopo, per eterno ritorno, tutto inizierà di nuovo in modo uguale. (...)
Di per sé l´idea dell´ecpirosi non suggerisce affatto che la purificazione attraverso il fuoco possa essere raggiunta per progetto e a opera dell´uomo. Ma certamente sotto a molti sacrifici basati sul fuoco vi è una idea che il fuoco, nel distruggere, purifichi e rigeneri - e che quindi la sua azione distruttiva vada incoraggiata e provocata. Di qui la sacralità del rogo.
I secoli passati sono pieni di roghi, e non solo quelli degli eretici medievali ma anche quelli delle streghe bruciate nel mondo moderno, almeno sino al XVIII secolo. (...) Per gli inquisitori di ogni epoca, razza e religione il fuoco purifica non solo i peccati degli esseri umani, ma anche quelli dei libri. Molte sono le storie di roghi dei libri, alcune avvenute per incuria, altre per ignoranza ma altre ancora, come i roghi dei libri nazisti, per purificare ed eliminare i testimoni di un´arte degenerata.
Il rogo più celebre è certamente quello della biblioteca di Alessandria d´Egitto. (...) La leggenda che circola maggiormente vuole che sia stata bruciata nell´VIII secolo da un generale del califfo Omar I, e con l´argomento che o quello che dicevano quei libri era identico a ciò che diceva il Corano, e allora non valeva la pena di conservarli, o dicevano il contrario e allora era giusto distruggerli. Sfortunatamente questa leggenda non è provata, anche se la biblioteca subì un incendio nel corso dell´occupazione araba dell´Egitto, così come per ragioni accidentali era andata bruciata in parte insieme a 40.000 volumi nel 47 a. C. ai tempi di Giulio Cesare. (...) Ma a distruggere i libri per ragioni ideologiche avevano incominciato purtroppo i cristiani, e si vedano gli Atti degli apostoli. Quando Paolo era in Efeso «Molti di quelli che avevano abbracciato la fede venivano a confessare in pubblico le loro pratiche magiche e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti... Così la parola del Signore cresceva e si rafforzava». (...)
Insomma, bruciare i libri piace a tutti: nel 1682 brucia i libri della nobiltà lo zar Fedor, gli amici solleciti bruciano per ragioni di moralità e sanità mentale la biblioteca romanzesca di Don Chisciotte, brucia la biblioteca di Autodafé di Elias Canetti, in un rogo che ci ricorda il sacrificio di Empedocle, brucia per fatalità, ma a causa di una censura originaria, la biblioteca dell´abbazia del Nome della Rosa (...), bruciano i libri condannati alla disparizione in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.
(...) Il fuoco è distruttore in ogni episodio di guerra, dal favoloso e favoleggiato fuoco greco dei bizantini alla scoperta casuale della polvere da sparo da parte di Bertoldo il Nero, che esplode in una personale e punitiva ecpirosi. Il fuoco è punizione per chi in guerra fa il doppio gioco, e «fuoco» è il comando che ordina ogni fucilazione, ma forse il fuoco di guerra che ha maggiormente atterrito l´umanità è stata l´esplosione della bomba atomica. Uno dei piloti che ha sganciato la bomba su Nagasaki ha scritto: «All´improvviso la luce di mille soli illuminò la cabina». Il Bhagavad-Gita recitava: «Se la luce di mille Soli potesse splendere di colpo nel cielo sarebbe come lo splendore del Grande... Io sono diventato la Morte, la distruttrice dei Mondi» e questi versi erano venuti in mente a Oppenheimer dopo l´esplosione della prima bomba atomica. (...)
Mai come ora tre degli elementi primordiali sono minacciati: l´aria, uccisa da polluzioni e da anidride carbonica, l´acqua, che da un lato s´impesta e dall´altro si avvia a mancare sempre più. Solo sta trionfando il fuoco, sotto forma di un calore che inaridisce la terra sconvolgendo le stagioni, e sciogliendo i ghiacci inviterà i mari a invaderla. Senza rendercene conto marciamo verso la prima e vera ecpirosi. Mentre Bush e la Cina rifiutano il protocollo di Kyoto, marciamo verso la morte per fuoco. (...)
Poi naturalmente, come volevano gli Stoici, il mondo ricomincerà, ripetendo il suo ciclo dall´inizio. Peccato che quel giorno non saremo là, ma in fondo sappiamo già come andrà a finire, e non varrà la pena di stare a vedere due volte lo stesso spettacolo.

Il Mattino 8.7.08
Il marketing dei regimi
Come i grandi dittatori conquistano l’immaginario Arriva oggi in Italia «Iron fists» di Heller
di Giuseppe Montesano


Quale cura ricostituente da fantascienza facevano gli operai, i contadini e tutti i lavoratori dei regimi totalitari? La propaganda gonfiava i bicipiti, creava cosce da body-builder, mani come badili, guance colorite e una salute da scoppiare. E sembrava facile, si fa per dire, per i tedeschi hitleriani, statue tipo il David di Michelangelo in versione gay, o per i rudi cosacchi staliniani in pose da Titani: ma gli italiani fascisti, corti e scavati dalla fame, come potevano reggere il confronto? Niente paura, ci pensavano i grafici di regime: e nei manifesti inneggianti all’agricoltura e all’industria, i contadini bassi e gracili che sudarono a bonificare le ex paludi pontine si trasformarono in supereroi, incredibili Hulk, fantastici quattro dalle cosce mostruose e dalle testoline ricciolute e vezzose. Sono queste le immagini che ci arrivano da un libro strepitoso: lo ha scritto un esperto di design americano che si chiama Steven Heller, è intitolato Iron Fists, e lo pubblica in Italia la Phaidon Press (pagg. 240, 450 illustrazioni, euro 75: da oggi in libreria). Ma il volume di Heller è strepitoso non solo perché fa scoprire l’aria di famiglia che circola tra le immagini di propaganda dei regimi totalitari, da Stalin a Mussolini a Hitler a Mao, ma perché pone l’accento su un concetto di modernità assoluta delle propagande totalitarie che si potrebbe riassumere così: i nazisti e gli altri totalitari non erano affatto solo dei rustici fautori di oscenità come «Suolo e Sangue», di ridicoli furti come «l’oro per la Patria» e di deliranti piani quinquennali, ma erano molto avanti nello sfruttamento delle tecniche pubblicitarie al servizio della politica. I nazisti studiarono un complesso sistema grafico che doveva ricavare dall’immagine di Hitler un logo da applicare dovunque; il fascismo non impedì ai produttori di usare i suoi loghi, fasci e aquile e luttuosità varie, per vendere le loro merci: come fu per le matite Fila strette in un fascio littorio; e i regimi comunisti crearono un culto della personalità adoperando senza risparmio il fotomontaggio o la psicologia dei colori. Cosa sfuggì al kitsch di regime che diventò l’insegna suprema di cartoline, manifesti, poster e libretti rossi e neri? Pochissime immagini dell’era fascista ispirate al futurismo, aguzze e creative; e molte immagini dei primi anni della rivoluzione russa, quando l’influsso di un’avanguardia artistica non ancora imbavagliata nel sangue riuscì a rendere ironica e pre-pop anche la propaganda. Ma la vera intuizione di Iron Fists è quella contenuta nel suo sottotitolo: Iron Fists. Branding the 20th century totalitarian state. I dittatori tendevano a creare già il brand: il marchio di riconoscibilità e di persuasione subliminale a cui è sottoposto il cliente-consumatore nel mondo capitalistico delle merci. In questo senso è un peccato che a Iron Fists manchi una sezione in cui si mostri come molte delle idee di brand politico dei totalitarismi, compreso quello sovietico, fossero ispirate ai modelli e stilemi pubblicitari per la vendita di merci nelle democrazie libere, e in particolare negli Stati Uniti: ed è del resto noto che i nazisti erano attentissimi alle novità americane in materia di cartoon, di fumetti, di film e di pubblicità, novità che trasponevano poi con i loro tecnici, artisti e registi, nella politica. La pubblicità nei regimi non serviva più solo a vendere dentifrici e automobili, ma doveva vendere uno stile di vita: quello totalitario. Che cosa era successo nei venti anni che vanno dalla fine della prima guerra mondiale all’inizio della seconda? Era successo che i tecnici della politica avevano capito che non era più possibile riprodurre forme di dittatura come quelle antiche, basate essenzialmente sulla repressione e sulla violenza, ma che lasciavano in fondo libera la coscienza: l’epoca contemporanea chiedeva che si invadessero le coscienze dei sudditi, e che si ingenerasse in essi una forma di persuasione occulta, di colonizzazione dell’inconscio collettivo. E per far questo cosa poteva essere più efficace delle immagini, che parlano non alla ragione ma ai sentimenti? Il livello di sviluppo dell’Urss negli anni ’30 o dell’Italia fascista non era affatto alto, ma il livello tecnico degli strumenti di propaganda lo era: e l’efficacia di questa pubblicità applicata alla politica fu immensa. Ma alcune parti del libro di Heller contengono materiali che spingono a una ipotesi nuova, e non poco inquietante: i regimi totalitari precorsero addirittura le tendenze pubblicitarie nelle quali siamo immersi oggi. Negli ultimi quindici anni il concetto di vendita di un prodotto è stato rivoluzionato dai pubblicitari. Non si tratta più di vendere il singolo oggetto, ma di vendere un’immagine del mondo, e di fidelizzare il cliente-consumatore a quell’immagine, facendolo sentire a casa sua solo nel brand, nel marchio. Che vuol dire? Che a nessun pubblicitario avanzato interessa più dire che l’automobile X è bella o è utile: l’automobile X è uno stile di vita, la si compra e automaticamente si compra un intero modo di vivere. E non solo. Tutti gli ultimissimi libri di management pubblicitario ruotano su un’idea: il cliente-consumatore non deve solo scegliere una merce, ma deve soprattutto amare il marchio. I tecnici dei regimi totalitari erano già all’avanguardia, essi non vendevano oggetti, ma un’atmosfera e un’idea dell'esistenza: il faccione buono di Stalin, la volitività di Mussolini, la paciosità di Mao, la figura da padre severo ma giusto di Hitler erano icone che chiedevano partecipazione e promettevano benessere: nella realtà la politica imponeva il suo stile di vita con la violenza e la repressione, ma si impadroniva dell’immaginario con la persuasione. Il marchio letterale con cui i nazisti trasformarono sei milioni di ebrei in bestiame da macello fu solo l’ultimo atto della grande campagna pubblicitaria contro di loro: quel marchio che sentiamo ancora come un’infamia immedicabile per l’essere umano, fu possibile anche perché milioni di sudditi volontari restarono passivamente a guardare o collaborarono perché erano stati marchiati dal logo mediatico del potere fin dentro il segreto delle loro coscienze. Cose sepolte nel passato e che non torneranno? Forse scrutare con attenzione i nuovi brand politici, e cercare di capire dov’è l’inganno, è ancora necessario.