giovedì 10 luglio 2008

l’Unità 10.7.08
Impronte, lettera Ue all’Italia: vogliamo impegni scritti
La Commissione: no alla schedatura come a Napoli. Nomadi scarcerati a Verona, Alfano avvia accertamenti


ALLA VIGILIA del voto al Parlamento europeo, la Commissione Ue ha scritto ieri una lettera all’Italia chiedendo di fornire impegni scritti sui metodi di scheda-
tura dei nomadi, che si dovranno aggiungere al rapporto promesso lunedì a Cannes dal ministro dell'Interno Roberto Maroni al commissario Ue alla Giustizia, Libertà e Sicurezza, Jacques Barrot.
La missiva, indirizzata all'ambasciatore italiano presso l'Ue Fernando Nelli Feroci e firmata dal direttore generale di Barrot, Jonathan Faull, elenca quattro punti su cui il governo di Roma deve fornire delucidazioni. Primo, l'utilizzo delle schede con informazioni sulla religione e sull'etnia, come quelle viste nei campi nomadi di Napoli, deve essere «un incidente isolato che non si ripeterà più». Questo, ammonisce Faull, deve essere «reso chiaro ai prefetti o ai commissari straordinari interessati». Secondo, Bruxelles vuole informazioni dettagliate sulla raccolta delle impronte per quanto riguarda lo scopo della procedura, la sua base giuridica, la conservazione dei dati personali e il loro utilizzo per altri fini, e il diritto di accesso ai dati personali da parte degli individui schedati. Terzo, l'esecutivo Ue esige delle garanzie sul fatto che «le impronte dei minori di 14 anni devono essere raccolte solo dietro autorizzazione specifica di un giudice e allo scopo dell'identificazione». Infine, la Commissione vuole vederci chiaro sulla «situazione nelle 17 regioni italiane» escluse dalla cosidetta «emergenza rom» (tutte tranne Lombardia, Lazio e Campania), per capire se anche in esse il governo intende procedere con la raccolta delle impronte. La lettera di Faull reca la data di ieri, e rappresenta quindi una nuova iniziativa della Commissione rispetto alla missiva del 3 luglio, inviata a Roma all'indomani della notifica dell'ordinanza sul censimento della popolazione nomade.
Ieri, intanto, Maroni, ha incontrato al Viminale una rappresentanza delle Comunità Romene di Milano e Roma e della Comunità Rom in Italia, accompagnate dall'on. Souad Sbai. È bufera politica, invece, sul Gip di Verona Giorgio Piziali per l’ordinanza con la quale, lo scorso primo luglio, ha deciso di non convalidare il fermo di quattro degli otto nomadi arrestati dalla Polizia con l'accusa di aver costretto i figli a compiere decine di furti in appartamento. Il Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha disposto accertamenti su quell'ordinanza per cui l'Ispettorato di via Arenula acquisirà una relazione del Procuratore di Verona, Guido Papalia, e le «giustificazioni del gip sul preciso significato» di alcune due espressioni. Poi sarà Alfano a decidere se «adottare le iniziative opportune».

l’Unità 10.7.08
Il ministro ripete che le impronte riguardano in generale i nomadi. E chi sarebbero in Italia?
Rom, Sinti... e le confusioni di Maroni
di Paolo Soldini


Se allargasse la propria cultura storica saprebbe che nel nostro Paese i nomadi
sono solo i sinti e i rom

Tartari, mongoli, cimmeri, sciti, sarmati, unni, alani, protobulgari, selgiukidi, kazaki, oiroti, vichinghi, angli, sassoni, cimbri, teutoni...Poiché il ministro Maroni da qualche giorno va sostenendo di non aver mai specificato che le schedature a mezzo di impronte digitali riguardano i bambini rom e sinti, ma di aver precisato che riguarderebbero, più in generale, i “nomadi”, gli chiediamo di indicarci quali sarebbero, oltre a sinti e rom, i “nomadi” presenti sul territorio italiano che debbono essere così scrupolosamente “censiti”. Si sa, infatti, che perpetuando un malvizio che dura da secoli, anzi da millenni, orde di barbari a cavallo, a dorso di cammello, su carri che trasportano famiglie e masserizie s’intestardiscono a presentarsi ai nostri confini, a varcarli e poi ad accamparsi di qua e di là. E che non li vogliamo contare?
Maroni, d’altra parte, queste cose le sa, come esponente di primissimo piano di un partito che rivendica le proprie radici presso un popolo, quello dei celti, che all’inizio fu nomade anch’esso, poi si stancò, divenne stanziale e in Italia lasciò scarse tracce di sé, la peggiore della quale sono le baggianate odierne della Lega Nord. Se l’attuale ministro dell’Interno allargasse la propria cultura storica al di là di Brenno e della vittoria dei Saxa Rubra con cui la sua orda celtogallica si aprì la strada per Roma (“ladrona” anche allora, va da sé), saprebbe comunque che di “nomadi” in Italia da una decina di secoli ci sono solo i sinti e i rom. Ed eviterebbe di nascondersi dietro il fumo dei dico-non-dico-e-poi-lo-nego, perché quel fumo puzza ancor peggio degli altri.
Stamani alle 9.30 il Parlamento europeo approverà una risoluzione in cui l’ignobile schedatura razzista viene condannata insieme con l’ipocrisia di chi nega che sia una schedatura e, come avvenne con le leggi razziali del ’37, sostiene senza vergognarsi neppure un briciolo che si tratta di misure che “tutelano” i bambini rom. Pardon, “nomadi”. Ururi, giungari, peceneghi, karakhanadi, kirghizi, àvari? O celti?

l’Unità 10.7.08
Pronto il piano per l’identificazione dei Rom
Definiti tra Croce Rossa e Prefettura gli ultimi dettagli della schedatura: il questionario sarà valutato dal Garante della Privacy, per i minori basterà la testimonianza dei genitori se in possesso di documenti
di Massimiliano Di Dio


LA POLIZIA sarà presente in modo discreto pronta ad intervenire solo in caso di problemi di ordine pubblico. Si dovrebbe iniziare il 14 o il 15. Il 18 conferenza stampa sui primi risultati

Messi a punto gli ultimi dettagli. Come la valutazione della scheda informativa sui rom da parte del Garante della privacy e (pare) la possibilità per chi non ha documenti di farsi identificare attraverso due testimoni. Ora tutto è pronto per il censimento dei nomadi capitolini. Ieri l'ultimo incontro in Prefettura con la Croce Rossa Italiana. Ancora top secret il giorno di partenza, "il prefetto Carlo Mosca - si apprende - vuole evitare tensioni e strumentalizzazioni". Ma di certo si inizierà prima del 18 luglio, quando lo stesso commissario straordinario illustrerà, insieme ai presidenti nazionale e provinciale della Cri, Massimo Barra e Fernando Capuano, scheda e dati del primo censimento che avverrà in uno dei campi abusivi. In Prefettura vige ancora il massimo riserbo sull'operazione ma, da indiscrezioni, si apprende anche di due accordi proposti da Mosca. Il primo, all'anagrafe comunale, mira a rendere la tessera sanitaria fornita ai rom un documento valido almeno per i servizi medici o la scolarizzazione. Il secondo, alla Regione, punta invece ad ottenere alcune borse di studio per i minori.
Confermato in buona parte l'impianto delle schede utilizzate dalla Cri, il cui modello dovrà essere vagliato dal Garante della privacy . Dentro nessun riferimento a etnia o religione ma, sembra, solo nome e cognome ed età presunta, interessi lavorativi e desideri. "Non sarà necessario identificare il rom in possesso di documenti - spiega Capuano - A lui verrà dato solo il tesserino sanitario mentre per chi non ha documenti basterà la testimonianza di altri due soggetti, identificati, pronti a fornire le sue generalità". Tipico dunque il caso dei minori, per i quali potrebbero bastare le attestazioni dei genitori (o anche presunti tali?). La polizia invece dovrebbe essere presente in modo discreto. Solo per l'ordine pubblico e le situazioni in cui qualcuno rifiuti di farsi identificare.
Pochi giorni ancora, forse il 14 o il 15 luglio, e il censimento così avrà inizio. In sordina ma non troppo. Tanto che il 18 luglio proprio il prefetto sarà presente a un incontro presso il comitato centrale della Cri per spiegare scheda e dati della prima operazione. Particolare rilievo viene dato al tesserino sanitario che sarà fornito ai rom. Plastificato, con foto e numero progressivo. Il commissario straordinario per i senza fissa dimora ne avrebbe parlato anche con l'anagrafe del Campidoglio. L'idea sarebbe di renderlo un documento valido almeno per l'accesso ai servizi medici e di scolarizzazione. Cosa che di certo avverrà già negli ambulatori della Croce Rossa, come quello del Prenestino dove i nomadi ottengono assistenza gratuita.

l’Unità Firenze 10.7.08
La maschera del razzismo
di Simone Siliani


Purtroppo per noi - e per la Corte di Cassazione - il razzismo contemporaneo non si presenta nelle forme note e stereotipe del razzismo biologico ed è, dunque, più difficile da riconoscere e da combattere. Eppure, esso tende a radicarsi in idee e pratiche comuni, di ogni giorno, che quindi conquistano un consenso a cui il razzismo, esplicito e rivolto ad una supposta diversità razziale, non può più ambire almeno in Occidente. Allo stesso tempo esso si alimenta della crescente paura di perdere le proprie posizioni e tende a legittimarsi con un richiamo al generico principio di legalità, che però dimentica quanto tale principio debba avere valore universale e postulare un altrettanto sacro principio di uguaglianza sostanziale di ogni persona di fronte alla legge.
Insomma, non accadrà più che un qualche ministro si presenti al Capo dello Stato per fargli firmare le “leggi razziali” come avvenne settanta anni fa proprio qui in Toscana, a San Rossore, per le leggi antisemite di Mussolini.
Ci si appellerà oggi, piuttosto, ad un comune sentire che spinge un ministro ad azioni di dubbia legittimità dal chiaro contenuto discriminatorio, ma mascherate da “sicurezza” e “legalità”, come avviene per la schedatura etnica dei rom. Ma non per questo sarà un razzismo meno pericoloso. Esso oggi si caratterizza in tre forme:
- In primo luogo c’è il razzismo culturale o etnocentrismo, cioè l’atteggiamento discriminatorio che nasce dalla difesa della propria cultura e stile di vita e dal rifiuto di quelli altrui. La pretesa di superiorità, purezza e integrità della propria cultura è sempre preceduta da una dichiarazione antirazzista e si appella a valori para-giuridici che vorrebbero far coincidere i diritti di cittadinanza con l’appartenenza “culturale” ad una comunità: «io non sono razzista, ma i rom per loro tradizione rubano e quindi non possono essere parte a pieno titolo della nostra comunità, ergo possono essere discriminati».
- La seconda forma è il cosiddetto razzismo addizionale che fonda lo stigma discriminatorio sulla somma tra identificazione fisica della “diversità” e fattori di allarme sociale. Esso discrimina un gruppo sulla base di una vera o presunta minaccia che esso porta dall’esterno sulla comunità. Sono processi che trasformano il fatto specifico in figura sociale: quel lavavetri che ha aggredito l’automobilista o il rom colto a rubare diventano i campioni dell’intera categoria, tutta pericolosa e ladra.
- In ultima istanza c’è quello che definirei il razzismo concorrenziale, che nasce dal timore di perdere il controllo simbolico o materiale sul territorio e sulle sue risorse. È il caso dei venditori ambulanti abusivi dove, evidentemente, la concorrenza non è fra le merci, ma su beni simbolici (come ad esempio il prestigio o l’immagine).
Questo razzismo moderno è fra noi e sta dilagando nell’opinione pubblica e negli atti - siano essi piccoli o grandi - dell’amministrazione pubblica in un circuito perverso che ci porta in una società che esclude e discrimina senza quasi che ce ne accorgiamo.
Per questo, bene ha fatto la Regione Toscana a dedicare ad un tema così attuale e decisivo l’ottava edizione del Meeting di San Rossore. Siamo di fronte ad un tema “ultimo”, i cui confini sono difficili da percepir. Ma dobbiamo avere il coraggio e l’onestà di guardare anche in noi stessi per capire che il razzismo contemporaneo si annida nelle pieghe dell’ossessione della sicurezza. E che, come tale, incanta anche parti e dirigenti della sinistra.

l’Unità Firenze 10.7.08
Ecco la Toscana che dice no al razzismo
Oggi parte la due giorni presso il parco di San Rossore, da sabato via al meeting di Cecina organizzato dall’Arci che, per la giornata dedicata ai rom, ha invitato anche il ministro Maroni
di Silvia Casagrande e Francesca Padula


Il Meeting di San Rossore, che si tiene oggi e domani, e il Meeting internazionale antirazzista che si svolgerà a Cecina Mare dal 12 al 20 luglio sono le due iniziative organizzate dalla Toscana per dire “No” al razzismo. Nella due giorni di San Rossore si parlerà di razzismo a 360 gradi con tavole rotonde e dibattiti ai quali parteciperanno intellettuali, esperti, scienziati e religiosi. Nel corso della prima giornata, oltre alla presentazione del “Manifesto degli scienziati antirazzisti 2008”, è previsto anche un saluto telefonico di Ingrid Betancourt.
Da Pisa a Cecina il passo è breve. E nella cittadina costiera, sabato prossimo prenderà il via una settimana dedicata all’interculturalità. Il Meeting cecinese sarà anche l’occasione per continuare la raccolta simbolica di impronte digitali, promossa dall’Arci. Raccolta che interesserà anche San Rossore. Le impronte saranno poi inviate al ministro Roberto Maroni che, a sua volta, è stato invitato dagli organizzatori a partecipare alla giornata sui rom. La settimana dell’interculturalità si concluderà con una grande assemblea dei migranti.

l’Unità Firenze 10.7.08
Meeting di San Rossore
Al via l’ottava edizione. Previsto un saluto (telefonico) di Ingrid Betancourt
di Francesca Padula


Parte l’ottava edizione del Meeting di San Rossore dal titolo “Contro ogni razzismo. Capire le differenze, valorizzare le diversità”. L’incontro, organizzato dalla Regione Toscana, si svolge oggi e domani nel Parco di San Rossore, a Pisa, e propone un’approfondita riflessione sul tema del razzismo in ogni sua forma, a 70 anni dalla firma delle leggi razziali, avvenuta proprio nella tenuta di San Rossore, nel settembre 1938.
Il programma della due giorni pisana è ricco di iniziative. Il Meeting si apre questa mattina alle 9.30 con il saluto delle autorità nello spazio della tenda Gandhi. Alle 10.15, sempre nella tenda Gandhi, si tiene l’appuntamento principale della giornata: la presentazione del Meeting e del “Manifesto degli scienziati antirazzisti 2008”, alla quale partecipano Claudio Martini, presidente della Regione Toscana, e Marcello Buiatti, genetista dell’Università di Firenze. Alle 11,30 alla tenda Gandhi, si parla di “Novecento, secolo diviso; le ideologie del razzismo e i fondamenti dei diritti umani”. Al dibattito introdotto da Isaac Newton Farris Jr., presidente della Martin Luther King, Jr Center di Atlanta, e coordinato da Antonio Di Bella, direttore del Tg3, partecipano, tra gli altri, Emma Bonino, vicepresidente del Senato, e Yolanda Pulecio de Betancourt, madre di Ingrid Betancourt che potrebbe portare il suo saluto e il suo ringraziamento intervenendo via telefono. Alle 15 spazio alle tavole rotonde. Tra queste si segnala, nello spazio Anna Frank, la discussione dal titolo “Mentre cambia la scuola. Parole che escludono, parole che includono”. Alle 17,30, poi, alla tenda Gandhi, Claudio Martini e Moni Ovadia, attore e musicista, dialogano sul tema “Capire gli altri: considerazioni sulla prima giornata del Meeting”. A seguire proiezione del video di Barack Obama “Storie vecchie di nuovi razzismi”.

l’Unità Firenze 10.7.08
Arci e Regione contro il razzismo: «Schedateci tutti»
Da sabato una settimana a Cecina dedicata all’interculturalità. Invitato il ministro Maroni
di Silvia Casagrande


AL VIA IL XIV MEETING INTERNAZIONALE antirazzista, a Cecina Mare dal 12 al 20 luglio. «Quest’anno sarà un’occasione particolarmente importante visto il clima di intolleranza che cresce nel paese - ha commentato Vincenzo Striano, presidente di Arci Toscana, che ha organizzato l’evento - sarà una settimana dedicata all’interculturalità. I migranti in Toscana rappresentano il 7% della popolazione, con picchi fino al 14% nella provincia di Prato. L’immigrazione è in continuo aumento e ormai interi settori della nostra economia dipendono dal lavoro dei migranti. I datori di lavoro fanno ore di fila per presentare le domande di permesso di soggiorno dei loro dipendenti: scene come queste fanno parte dei cambiamenti culturali avvenuti nella nostra società, dove l’integrazione, la multi e interculturalità si fanno strada, a dispetto dei toni allarmistici usati dal governo quando parla del “problema” immigrazione». La manifestazione sarà inaugurata a Livorno, in Sala Lem alle 10, alla presenza del presidente della Regione Toscana Claudio Martini, il sindaco di Livorno Alessandro Cosimi e il presidente nazionale Arci Paolo Beni. «Non intendiamo sfuggire dai temi più caldi del dibattito politico - continua Striano - proprio per questo inizieremo il meeting con un convegno sulla paura diffusa tra i cittadini, cercando di analizzarla in maniera obiettiva, senza usare gli immigrati come caprio espiatorio». Il 16 luglio sarà dedicato al confronto tra le istituzioni e la Federazione nazionale Rom e Sinti. Saranno presenti l’assessore regionale alle Riforme Agostino Fragai e sono stati invitati vari rappresentanti politici, tra cui Roberto Maroni e Livia Jaroka, prima parlamentare europea di origine rom. Il Meeting si concluderà con una grande assemblea di migranti della Toscana che vedrà anche la presenza dell’assesore alle politiche sociali della Regione Toscana Gianni Salvadori, che ha commentato: «Questa manifestazione vuole essere prima di tutto un momento propositivo: ci apriamo ai migranti che vivono nel nostro paese con gioia, non paura, li accogliamo e lottiamo perchè siano riconosciuti i loro diritti». Il Meeting sarà anche l’occasione per continuare la raccolta simbolica di impronte digitali da inviare al ministro Maroni. L’iniziativa promossa da Arci, con 3000 adesioni solo nel primo giorno, continua con successo in tutta la Toscana: stamattina a Viareggio, passando da San Rossore per poi arrivare a Cecina. Numerose i sostegni provenienti dal mondo della cultura e della politica, anche toscana. Salvadori ha già dato la sua parola, l'assessore all'accoglienza e integrazione Lucia De Siervo parteciperà alla schedatura volontaria che si terrà venerdì alle 18 in piazza dei Ciompi e anche il presidente della Regione Martini pare voglia sottoscrivere l’iniziativa.

l’Unità 10-7.08
La sentenza Englaro
Il diritto di scegliere
di Maurizio Mori, Presidente della Consulta di Bioetica


Finalmente, dopo più di 16 anni è arrivata la decisione tanto attesa, che rende giustizia alle volontà di Eluana e alla estenuante lotta compiuta dai genitori. La puntualità con cui la Corte d’Appello ha precisato le ragioni sono ammirevoli e infondono fiducia nella Magistratura. L’idea di fondo è l’applicazione dell’eguaglianza di tutti i cittadini sancita nell’art. 3 della Costituzione non solo «nella finalità di assicurare sostegno materiale agli individui più deboli o in difficoltà, come gli incapaci, ma anche in quella di rendere possibile la libera espressione della loro personalità, della loro dignità e dei loro valori».
Poiché come osserva sempre la Corte, «la prosecuzione della vita non può essere imposta a nessun malato, mediante trattamenti artificiali, quando il malato stesso liberamente decida di rifiutarli», questo principio di uguaglianza va esteso anche ad Eluana che ora non può più esprimere la propria volontà.
Rimandando ad altra sede una più dettagliata analisi delle motivazioni della Corte, resta la giustizia sostanziale della sospensione della terapia nutrizionale per garantire ad Eluana di evitare uno stato di vita che mai e poi mai avrebbe voluto. La sentenza è un altro passo significativo compiuto per garantire alle persone la possibilità di autodeterminarsi, prevista dalla nostra Costituzione repubblicana e richiesta con forza dal processo di modernizzazione della società italiana. Nelle società premoderne, i valori e «significati sono presentati all’individuo come fatti scontati, generalmente sacri, sui quali egli può esercitare tanto poca scelta quanto sui fatti naturali: i valori che governano la vita famigliare, per esempio, esistono più o meno come esiste una roccia, un albero, e il colore dei propri capelli», mentre nelle società moderne un numero sempre maggiore di valori e di significati sono scelti dall’individuo, e questo modello si estende anche alla propria vita dal momento che ormai le tecnologie biomediche possono portarci a vivere in condizioni prive di dignità o infernali.
È la situazione di Eluana, che aveva un senso della libertà e dell’autonomia superiore e che la sorte ha voluto finisse in una situazione che per lei sarebbe stata intollerabile. Non vale dire che viene scardinato il «principio di non disponibilità della vita umana o il dovere fondamentale di prendersi cura dei pazienti che non sono in grado di intendere e volere», perché questa è solo una riformulazione del vecchio e obsoleto vitalismo che pone la mera vita biologica come valore supremo. Ciò che vale è la vita biografica, quella che presenta contenuti e scelte. E tra queste c’è anche la scelta delle scelte, ossia quella che riguarda la propria esistenza ove questa avesse cessato di essere significativa.
Per chi crede che i valori preesistano alle scelte personali come le montagne o le case, è impensabile (o abominevole) l’idea stessa che una persona possa decidere che la condizione di stato vegetativo permanente è invivibile e non merita di essere perpetrata. Ma chi ritiene che l’esistenza è fatta di scelte, non trova nulla di strano, anzi vede come un incubo la possibilità di essere privato della facoltà di scelta. Questa è la situazione di Eluana, cui ora la Corte di Milano ha reso giustizia. È superfluo ricordare che le due scelte non sono simmetriche, perché chi volesse permanere in stato vegetativo è libero di farlo, ma non può imporre la propria posizione a chi avesse una diversa concezione della vita. Ed è per questo che quest’ultima è superiore: perché non pretende di imporre i propri valori all’altra, e chiede solo la libertà per tutti.
La strada per giungere a questo risultato è stata tutta in salita ed estenuante. In oltre 16 anni la società italiana è cambiata anche dietro lo stimolo di centinaia di conferenze, svariati interventi televisivi e radiofonici, articoli e quant’altro: c’è stata un’ampia riflessione pubblica che ha sollecitato l’intervento della magistratura, che indirizza la nuova sensibilità civile alla luce delle norme costituzionali e vigenti. L’auspicio è che si continui in questa direzione, perché l’esigenza di modernizzazione è crescente. La gente, in Italia, vive ormai in base ai valori laici e secolari che, purtroppo, non trovano adeguata rappresentanza sul piano pubblico. La sentenza farà discutere e sicuramente ci saranno dure critiche. Speriamo che chi ha responsabilità pubbliche dia voce ai valori secolari e faccia valere i diritti civili di tutti, senza nascondersi dietro le solite frasi fatte a sostegno delle “tradizioni italiche”. È tempo di guardare avanti, non di continuare a elogiare il passato. I giudici di Milano hanno colto quest’aspetto e meritano un plauso: hanno dato un esempio, ed ora tocca a noi seguirli.

Corriere della Sera 10.7.08
Veronesi: «Ha vinto la libertà di decidere sull'esistenza»


La sentenza della Corte di appello su Eluana costituisce una svolta storica.
Non solo per il suo contenuto, ma soprattutto per la sua motivazione: la ricostruzione delle volontà precedentemente manifestate. Vince l'autodeterminazione della persona, espressa nel pieno della consapevolezza e lucidità, vince il principio della libertà di decidere della propria vita, vince la possibilità di scegliere dove porre il limite fra accanimento terapeutico e cure, vince il consenso informato ai trattamenti, vince il principio del Testamento Biologico, che di questo Consenso è l'estensione, da applicare nel caso in cui non ci si si potesse esprimere di persona. L'intera vicenda Englaro è in sé una prova che il movimento a favore del Testamento Biologico in Italia, che in prima persona ho fortemente voluto e promosso, non è nato come disquisizione etica, ma come azione concreta per impedire che si consumino inutilmente drammi come quello di Eluana e di suo padre Beppe, casi che molto spesso rimangono silenti, senza comprensione e tantomeno conforto.
Quindici anni fa in Italia infatti non c'era alcun modello di riferimento per formalizzare le volontà di Eluana rispetto alla vita artificiale.
Chi conosceva il suo pensiero ha vissuto un vero e proprio calvario perché il desiderio di Eluana fosse esaudito. Oggi non sarebbe così: non c'è una legge sul Testamento Biologico come negli Usa e nella maggior parte dei Paesi europei, ma se ne può fare a meno. Esiste la possibilità di compilare una semplice dichiarazione che permette di esprimere la propria volontà circa le cure che si vogliono o non si vogliono ricevere in caso di perdita della capacità di intendere e di volere, e di nominare uno o più fiduciari incaricati di far eseguire le proprie volontà. Se Beppe avesse avuto questo documento tutto sarebbe stato più semplice. Per questo il mio appello è che le persone, anche i più giovani, facciano il loro testamento biologico, esprimendo la loro volontà di accettare o non accettare la vita artificiale e ogni forma di trattamento. Il Testamento Biologico è una conquista di civiltà e uno strumento di responsabilità e libertà individuale a cui nessuno dovrebbe rinunciare.

il Riformista 10.7.08
Vivere non è soltanto continuare a respirare
di Mario Ricciardi


La decisione con cui la Corte d'Appello di Milano ha accolto la richiesta del padre di Eluana Englaro di avere l'autorizzazione a sospendere l'alimentazione e l'idratazione della figlia, in coma vegetativo permanente da sedici anni, dovrebbe por fine a una lunga e tormentata vicenda giudiziaria. Da quando è rimasta vittima di un incidente stradale, gli organi vitali della donna funzionano perché il suo corpo è collegato a macchine che le somministrano ciò di cui ha bisogno. Tale situazione si è protratta oltre il limite che buona parte della comunità scientifica ritiene ragionevole. Infatti, c'è largo consenso tra i medici nel negare la possibilità, sia pure remota, che un essere umano che si trova nella condizione di Eluana si risvegli ritornando alla coscienza.
Ciò nonostante, la domanda di sospensione del trattamento è stata respinta diverse volte in passato. Uno spiraglio si è aperto soltanto con la sentenza della Cassazione del 16 ottobre del 2007, che ha riconosciuto la legittimità della richiesta di sospendere i trattamenti se sono soddisfatte due condizioni: che (1) lo stato vegetativo del paziente sia irreversibile e che (2) si accerti, sulla base di elementi di fatto ritenuti attendibili dai giudici, che il paziente, quando era cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento.
La pronuncia della Corte di Cassazione ha fornito alla Corte d'Appello di Milano una cornice normativa - per quanto formulata in modo inevitabilmente vago - entro la quale dare risposta alla richiesta del padre di Eluana, che ne è anche il tutore legale. La concessione dell'autorizzazione indica che i giudici milanesi hanno ritenuto che le due condizioni sono soddisfatte, e quindi si può procedere con il distacco dalle macchine che alimentano Eluana. Rimane tuttavia un'obiezione morale. Presentata più volte, specialmente da ambienti cattolici. La natura dell'obiezione è la seguente: cessare l'alimentazione e l'idratazione sarebbe inammissibile perché "nutrimento" e "acqua" non sono "terapie", e dunque non sarebbero coperte dal divieto di accanimento terapeutico. In altre parole, continuando a nutrire e a idratare il corpo di Eluana, i medici non la starebbero curando inutilmente, ma invece la terrebbero in vita. La conseguenza che se ne dovrebbe trarre è che cessare di farlo sarebbe equivalente a ucciderla. Si tratta di un'obiezione importante, che bisogna prendere sul serio. Tuttavia, non credo che si possa accoglierla. Se è vero che le sostanze nutritive che vengono somministrate a Eluana non sono in senso stretto "terapie", c'è da chiedersi se questa sia una ragione sufficiente per ritenere che sospenderle equivalga a uccidere un essere umano.
Si ha l'impressione che chi ragiona in questo modo assuma una concezione della vita che finisce per farla coincidere con lo svolgimento di certe funzioni di parti del corpo umano. Posta questa premessa, impedire che tali funzioni proseguano sarebbe indubbiamente un omicidio. Si tratta di una posizione sorprendente, soprattutto quando viene proposta da persone che non dovrebbero essere inclini a ridurre la vita alla materia. Appare inaccettabile l'idea che vivere sia semplicemente continuare a respirare. Oppure a digerire. Sorprende che questo modo di pensare sia difeso dai cattolici, perché la tradizione filosofica cui la chiesa si richiama intende la vita umana in modo più sofisticato, distinguendola dal semplice vegetare.

l’Unità 10.7.08
Vaticano scatenato: è eutanasia. Scontro sulla «fine-vita»
di Maristella Iervasi


La svolta nella battaglia del papà di Eluana fa infuriare il Vaticano. L’emittente pontificia apre subito i microfoni e commenta: «È una «grave sentenza quella dei giudici di Milano. Nessun tribunale dal 1999 aveva mai accolto la richiesta della famiglia di interrompere il trattamento di alimentazione ed idratazione della loro figlia». Poi la parola passa al professor Gianluigi Gigli, del Consiglio esecutivo di «Scienza e Vita», che rimarca: «È una notizia estremamente triste. Eluana Englaro sarà la Terry Schiavo d’Italia». Mentre la stessa associazione in una nota arriva a dire che «si legittima l’uccisione di un essere umano per fame e sete». E scende in pista anche monsignor Renato Fisichella, neo presidente della Pontificia accademia per la vita: «La decisione dei giudici su Eluana giustifica di fatto una azione di eutanasia». Non finisce qui. Parla monsignor Elio Sgreccia: «Anticipare la morte non è mai in potere dell’uomo. Ci sono stati casi di ripresa anche a distanza di anni». E critiche arrivano anche dal centro di bioetica dell’Università Cattolica di Roma, diretto dal professor Adriano Pessina: «È stato attribuito al tutore un vero e proprio potere di vita e di morte sulla persona a lui affidata. Una decisione grave che legittima forme di abbandono terapeutico per i cittadini che non sono in grado di provvedere a se stessi». Per il professor Pessina la cura delle persone in stato vegetativo «è doverosa». Da qui l’appello a Beppino Englaro, il padre-tutore di Eluana, affinchè permetta che la figlia «continui a vivere». Ma il genitore, che ha sempre preferito parlare di «libertà» e non di «morte cerebrale o eutanasia», fa sapere che «ha vinto lo Stato di diritto: ora la libereremo».
E soddisfatti della decisione dei giudici della corte di appello di Milano si dicono Mina Welby - la vedova di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare e aiutato a morire dal medico Mario Riccio il 21 dicembre del 2006: «Finalmente Eluana avrà quello che ha desiderato e il padre ora potrà elaborare il lutto»; e Demetrio Neri membro del Comitato nazionale di Bioetica: «Ho accolto questa sentenza con grande gioia, anche se certamente provo tristezza. Non pratico bioetica ideologica».
Come accadde con Terry Schiavo, la decisione del Tribunale di II grado ha subito sollevato discussioni e polemica politica. C’è chi parla senza mezzi termini di eutanasia e chi invece intravede uno spiraglio per la via al testamento biologico. Il Pdl è unito alla condanna: Renato Farina, deputato e giornalista, chiede l’intervento del Presidente della Repubblica «contro una crudele condanna a morte». Unica voce fuori dal coro Pdl Benedetto Della Vedova, presidente dei Riformatori Liberali: «La decisione dei giudici di Milano è giusta ed umana. Consente di interrompere, come nella volontà più volte espressa in vita dalla ragazza, un accanamento terapeutico divenuto del tutto inutile ed insensato». Di tutt’altro avviso la parlamentare teodem del Pd, Paola Binetti: «Anche quella di Eluana Englaro, in coma dal 1992, è vita. E pertanto deve spegnersi naturalmente. Staccare la spina per interrompere una vita è qualcosa che dovremmo allontanare dall’orizzonte del nostro pensiero». Mentre Anna Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato, commenta: «Sentenza rigorosa e rispettosa dell’art. 32 della Costituzione e della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina. Ma c’è necessità di una legge sul testamento biologico che permetta ad ognuno, se lo vuole, di indicare le proprie volontà riguardo ale terapie che ritiene accettabili se un giorno si troverà nelle condizioni di non potersi più esprimere. Non possono essere i tribunali, come spesso è avvenuto, a prendere decisioni così importanti per la vita dei cittadini».
Non lascia margini Gianfranco Rotondi, ministro per l’Attuazione del Programma: «La vita non è un diritto disponibile nè davanti a Dio nè davanti alla legge. Si comincia con la morte dolce e si finisce al suicidio assistito. Altra cosa - conclude - è il rifiuto dell’accanamento terapeutico». Dissentano anche la senatrice del Pd, Emanuela Baio Dossi: «Quella di Eluana è comunque vita», ed Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare: «Come si può parlare in questo caso di libera scelta? Dov’è il consenso informato di Eluana?». Mentre i Radicali con Marco Cappato e Mario Riccio, il medico anestesista di Welby, dicono: «Ad Eluana è stata resa giustizia dopo 16 anni di violenza. Sentenza storica e di buon senso». E il leader storico Marco Pannella: «Affermata la civiltà giuridica, umana e politica».
Si accoda al coro delle critiche Luca Volontè, deputato dell’Udc, che parla di «pessima ingerenza» di un organo giudiziario e di «omicidio autorizzato». Mentre per Felice Casson e Vittoria Franco, entrambi del Pd, chiedono che il testamento biologico torni all’ordine del giorno del Parlamento.

l’Unità 10.7.08
«G8, irruzioni fuorilegge e prove taroccate»
Diaz, i pm: «Al quartier generale del Social Forum solo la presenza dei giornalisti evitò il massacro»
di Maria Zegarelli


L’ispettore Nucera disse che mentre entrava nella scuola fu aggredito e accoltellato: tutto falso secondo i test sul suo giubbotto
La richiesta di condanna per i 29 agenti slitterà probabilmente a mercoledì prossimo. L’accusa chiederà il massimo della pena

UNA MONTAGNA di bugie, di relazioni false, di false prove, di dichiarazioni prive di riscontro. Una pagina davvero buia, quella della notte del 21 luglio alla scuola Diaz-Pertini di Genova durante il G8 del 2001. Alla fine della terza udienza dedicata alla requisitoria dei pm Francesco Cardona Albini ed Enrico Zucca sembra essere questo il quadro che va delineandosi. La richiesta di condanna per i 29 poliziotti coinvolti slitterà probabilmente a mercoledì prossimo e non a domani, ma sin da ora sembra chiaro che i due magistrati chiederanno il massimo della pena per i reati contestati. Reati che vanno dal falso, alle lesioni gravi (perché non esiste il reato di tortura altrimenti i presupposti ci sarebbero tutti), al peculato, al porto di armi da guerra, alla calunnia, alla perquisizione arbitraria. 50 faldoni per ripercorrere la perquisizione nella Diaz che ospitava i no global, il pestaggio, l’irruzione alla Pascoli, dove era ospitato il quartier generale del Genoa Social Forum.
Tutto nasce da clamorosi falsi,sostengono i due magistrati alternandosi nella requisitoria. Non ci fu la sassaiola contro le volanti della polizia che avrebbe poi scatenato le due irruzioni, non ci fu la resistenza massiccia da parte degli occupanti, che quindi vennero massacrati senza motivo, e non fu un errore l’irruzione e la perquisizione avvenute nella Pascoli. Come non ci fu l’accoltellamento ai danni dell’ispettore Massimo Nucera. Su questi due ultimi episodi si è soffermato a lungo ieri Cardona Albini in oltre sei ore di udienza. In una relazione di servizio del 22 luglio Nucera affermò di essere entrato in un’aula buia al secondo piano della Diaz, di aver aperto la porta e di essere stato aggredito da un giovane alto circa un metro e settanta, che lo colpì con un coltello una prima e una seconda volta (come aggiunse durante un interrogatorio). A quel punto intervenne la sua squadra, prese il ragazzo e lo trascinò in palestra, dove venivano portati tutti gli occupanti (dopo essere stati picchiati). Non fu in grado di descrivere l’aggressore, racconta il pm. Non fu mai identificato. Durante il processo non c’è stato un solo testimone di quell’accoltellamento. Dalle perizie effettuate sul salvaspalla e sul giubbotto indossati da Nucera, gli esperti del Ris hanno stabilito che i tagli sono incompatibili con la ricostruzione fatta, quelli del salvaspalla non coincidono con quelli sul giubbotto. Ancora incongruenze, dunque, tra quanto raccontano gli agenti e quanto dimostrano le prove. Simulazione di aggressione, è la conclusione dell’accusa. Incongruenze anche sui racconti che le forze dell’ordine fecero dell’irruzione nella Pascoli. Fu un errore, dissero tutti, dopo. «Ci accorgemmo, una volta entrati, che avevamo sbagliato perché lì c’erano giornalisti, parlamentari, avvocati. Quindi la nostra presenza fu breve. Non più di dieci minuti». Raccontarono di un clima disteso di spaghetti mangiati tranquillamente mentre loro giravano nella scuola. Erano in 59 quella sera, nel centro stampa. Ma anche in questo caso immagini registrate, testimonianze e prove raccontano un’altra versione. La polizia fece irruzione, gridando «faccia a terra, chiudete i telefoni». Chi fu messo con le spalle al muro, chi steso a terra. Telefoni spaccati, computer rotti, manganellate volate. Materiale perquisito e sequestrato - macchine fotografiche, hard disk, documenti - . Circa 40 minuti di «bonifica». C’erano due europarlamentari, Morgantini e Mascia, che chiesero il mandato di perquisizione. Non c’era. L’autorità giudiziaria non era stata informata. Fu tutto deciso negli uffici della Questura. Ancora oggi non ci sono i verbali con la descrizione del materiale sequestrato. Fu un atto «compiuto al di fuori della legge». E se non finì come nella Diaz fu soltanto perché lì c’erano i giornalisti, c’erano le telecamere del Tg3, e i parlamentari europei. Il pm si chiede chissà quanto del materiale uscito dalla Pascoli - come le maschere antigas e le macchine fotografiche - sia poi finito nel materiale probatorio fornito dagli agenti contro i ragazzi arrestati. Il sospetto è che quell’irruzione fu decisa a tavolino con lo scopo di sequestrare il materiale girato dagli operatori dell’informazione i giorni precedenti durante gli scontri in piazza.

l’Unità 10.7.08
Lella Bertinotti: «Nichi Vendola può farci sognare»


ROMA «Nichi Vendola può farci sognare, e i sogni ci servono». Lo dice Lella Bertinotti, moglie dell’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, in un’intervista esclusiva al settimanale Gioia in edicola oggi.
La moglie dell’ex leader della Sinistra arcobaleno (che invece da settimane mantiene un riserbo politico, anzi addirittura dal giorno dopo la sconfitta elettorale ha parlato veramente con il contagocce) non andrà al congresso di Rifondazione il prossimo 26 luglio: «Sono contenta che lo fanno a Chianciano, l’acqua è buona e depura il fegato. Ma dopo la sconfitta, il gruppo dirigente doveva mettersi a pancia sotto per riallacciare il rapporto con gli elettori», dice, «non misurarsi con le percentuali delle mozioni».
Quanto allo stato d’animo suo e del marito, precisa: «Siamo combattenti, dunque mai affranti. E comunque la nostra vita è ricca anche oltre la politica».

l’Unità 10.7.08
Bondi, Eco e quella gelida manina
di Toni Jop


Eravamo avvertiti: il ragazzo è tenero, ma non avremmo mai immaginato che una persona bene educata come Eco sarebbe riuscita suo malgrado a ferirlo. Invece, il ministro Bondi si sfoga - e per fortuna non si tiene dentro il dispiacere sennò sai che orticarie - per come il noto intellettuale italiano lo avrebbe maltrattato nel corso di una delle recenti iniziative della Milanesiana dove i due si sono sfiorati. Bondi vuota il sacco al Giornale, cioè in casa, ma è così che si fa tutti quando ci pestano per strada.
Allora, rileggiamo con attenzione che: 1) «Il professor Eco non si è neppure alzato», 2) «e restando seduto, ha faticato a darmi la mano», 3) «ritraendola immediatamente, forse per paura che lo infettassi», 4) «un gesto fuori misura», commenta, 5)«da parte di alcuni cosiddetti intellettuali di sinistra c’è un odio quasi antropologico».
Facciamo così: stiamo sempre dalla parte della sofferenza, quindi stavolta siamo con quel panda di Bondi e torniamo ai fatti. Eco doveva scattare in piedi non appena intravvisto il ministro. Come fa un gentiluomo quando nota che una signora gli si sta avvicinando; su da bravo, sorriso e mano tesa: «Madame...». Certo che Bondi non è una signora, si vede bene che è un maschietto ma è tanto sensibile: Eco è un fine intellettuale, lo avrà capito anche lui che il ministro ha solo bisogno di coccole, invece niente. La vecchia brutalità di una sinistra che non sa che farsene neanche della mamma e per questo si trova male nella vita. E va bene, vuoi restare seduto? Almeno fai partire la mano come si deve, vitale, positivo, che ti costa? Macché, Eco ritrae subito la mano dando al nostro protetto la sensazione più che sgradevole di essere in fuga dal contatto con la pelle, peraltro delicata, del ministro. Anche qui: e lascia quella mano dove sta, dimenticala per un po’; l’altra è sudaticcia? La pelle è molle? Stai facendo i conti con l’irresistibile percezione di avere tra le dita un geco gigante però moribondo? Niente che non sia alla portata di un omaccione grande e grosso come Eco che avrà fatto il militare (a Cuneo?), che avrà pure avuto una nonna che gli catturava la mano e intanto gli aggiustava il ciuffo. È chiaro che Bondi non è una nonna ma chi glielo ha detto alla sinistra che un ministro non può meritare la cedevole delicatezza che si riserva a una «nonnetta» (thanks, Albertone)? Cosa dovrebbero dire e fare allora tutti quei bimbi rom ai quali verranno catturate le manine per poi sporcarne i polpastrelli di inchiostro tanto per essere sicuri che crescendo qualcuno di loro non si inventi di dire che non è di razza rom? Eppure stanno buoni, non piangono, non fanno scene isteriche, hanno capito che è per il loro bene; che lezione, caro il nostro Eco. E non lamentiamoci, poi, se passiamo per essere la fabbrica dell’odio. Bondi, io ti voglio bene/ avanti e avanti/ con te o senza di te/ io ti voglio bene/ avanti e avanti/ con te o senza di te. (Testo e musica di Paolo Pietrangeli).

l’Unità 10.7.08
Ercolano, viaggio virtuale nella città sepolta
di Stefano Miliani


ARCHEOLOGIA Settanta installazioni interattive ci raccontano le storie di uomini e donne della civiltà romana di Pompei, Stabia, Capri e dintorni. È il primo Museo archeologico virtuale d’Italia

Il 24 agosto del 79 dopo Cristo, quando il Vesuvio eruttava cenere e lapilli sulle teste dei pompeiani, pioveva a dirotto. La vicina città sul mare di Ercolano venne sepolta da un’enorme ondata di fango, detriti e lava bollente che, una volta raffreddata, s’indurì come la più dura delle pietre. Dopo un rinvenimento casuale nel 1738, i Borboni o chi per loro, spesso per abbellire le proprie case, iniziarono a cercare e restituire alla luce quelle vestigia, i decumani e i cardi che formavano la rete viaria con tanto di fogne, le dimore a due piani. Oggi Ercolano, con la sua pianta greco-romana a scacchiera, con le sue dimore affrescate, con la casa del magnifico mosaico di Nettuno e Anfitrite, ma con la villa dei papiri chiusa (in corso un recupero sponsorizzato dall’impresa tecnologica statunitense Packard, dovrebbe riaprire fra 3 anni) e porzioni delle terme maschili off limits per lavori, è un sito archeologico frequentato oltre 250mila turisti l’anno. Incassato sotto scarpate di 16 metri dal livello stradale, la città fondata da Eracle vive quasi soffocata da quella moderna, dalle abitazioni gialle e altre grigio-fatiscente protese sullo scavo, che sovrasta oltre due terzi della superficie antica, teatro incluso, ma non si può certo buttar giù cacciando gli abitanti. Ora, l’Ercolano moderna tenta la carta tecnologica. Con un occhio rivolto alle nuove generazioni cresciute a pane, tv e computer, attraverso un percorso tra pareti di lava posticcia nel buio, tra suoni e odori, la cittadina apre il Museo archeologico virtuale, o Mav: qui dispiega un viaggio virtuale attraverso oltre 70 installazioni interattive e plurisensoriali sulla civiltà di Pompei, Ercolano, Stabia, Capri... Un viaggio in una società eclettica, pronta ad adorare sia l’egizia Iside sia l’eroe Ercole, propensa ai piaceri della carne senza tanti confini di genere sessuale. Un percorso di immagini fluttuanti per raccontare la vita al primo impero: invece case con il fango di 2mila anni fa, pareti affrescate a color cadmio o nero, nel Mav fluttuano i led di parole che sfiorando si fermano per ricomporre massime filosofiche sul dolore, la giustizia, la felicità e il male; fluttuano immagini, acqua vaporizzata, voci, rumori, per un’esperienza virtuale benché, insegnava il film Matrix, il confine tra materiale e virtuale può svanire e il virtuale può diventare reale quasi quanto gli scheletri dei poveracci che nel 79 d.C. cercarono scampo nel mare, in spiaggia li uccise un gas mortale esalato dalle onde e le cui ossa sono fuori portata dei visitatori.
A poche centinaia di metri dagli scavi, in un edificio che è stato prima casa del fascio, poi scuola, in una via trafficata come sono trafficate le vie nello sconfinato e ininterrotto territorio urbanizzato intorno a Napoli, con 10 milioni di euro di spesa e 3 anni di lavoro, da un’idea di Gaetano Capasso della società Capware, il Comune, la Provincia di Napoli, la Regione (amministrati tutti dal centro sinistra) hanno aperto ieri il, dicono, «primo museo archeologico virtuale al mondo»: «primo» perché qualcosa di simile, non di uguale, esiste solo a Parigi, con il recente museo sulla vita di Charles De Gaulle. Il Mav vuole instaurare rapporti particolari con chi entra. In queste stanze sotterranee sfiorando con un dito uno schermo sulla parete scorrono le riproduzioni degli affreschi erotici di Pompei, quelli del Lupanare con tanto di cunnilingus, rapporti a due, a tre... Al cui proposito c’è una cautela interattiva: un badge (elemento con dati) all’ingresso identifica età, sesso, lingua (per ora italiano e inglese) del visitatore di turno. Perciò le installazioni «parlano» in italiano o inglese a seconda di chi hanno davanti, e con un/a bambino/a sfumano in immagini con bambini le esplicite scene sessuali.
Il decollo della struttura campana segue un accordo da 30 milioni di euro stilato l’altro giorno da Regione e Comune per riqualificare il patrimonio culturale e il paesaggio urbano di Ercolano. Se e come funzionerà il Mav è presto per dirlo. Lo diranno la risposta del pubblico (dovrà puntare molto sulle scuole), se e quale interessamento scientifico smuoverà, il tempo, e purché niente vada a scapito della situazione urbana intorno agli scavi (che sono statali). Corre però l’obbligo di annotare, all’apertura, l’assenza del soprintendente competente di questo e altri luoghi vesuviani come Oplontis o Stabia, l’archeologo Pietro Giovanni Guzzo: avrà avuto altro da fare, preso in questi giorni dalle complicate faccende pompeiane laddove il ministro Bondi sta per fare un sopralluogo il 25 luglio e spedire un commissario per riaggiustare la situazione di degrado intorno al sito.
Mav: orario 9-17, chiuso lunedì, ingresso 7 euro, tel. 081 19806511, www.museomav.com

l’Unità 10.7.08
A passeggio nella memoria nel Parco di Monte Giovi
di Silvia Casagrande


«Qui c’è sempre stata avversione al fascismo. Qui erano tutti comunisti nascostamente o apertamente. Tant’è vero che fin da quei tempi la chiamavano la montagna rossa, quassù». Parla da solo l’orgoglio di don Brogi, parroco di Acone ai tempi della guerra di Liberazione e anche prima, quando il fascismo non riuscì ad attecchire in quella piccola comunità alle pendici del Monte Giovi, in provincia di Firenze. Quando il regime tentò di impossessarsi della cooperativa del paese, gli abitanti avviarono un boicottaggio di massa che lo costrinse a desistere. E quando venne firmato l’armistizio dell’8 settembre, furono i contadini di Acone a nascondere e prendersi cura dei militari alleati, russi e slavi che erano stati rinchiusi nel campo di prigionia del Tamburino. E sempre gli abitanti di quel paesino fornirono un massiccio numero di combattenti alle bande partigiane. Monte Giovi è noto infatti come «la montagna dei ribelli» e nei suoi dintorni è possibile visitare ancora le roccaforti da cui i partigiani partirono per liberare Firenze. Ma ci sono anche i luoghi tristi degli eccidi e delle rappresaglie fasciste, Padulivo e Pievecchia, o il santuario della Madonna del Sasso, da cui partì l’esilio del partigiano Bube, reso famoso dal romanzo di Carlo Cassola. L’eredità di don Brogi e degli altri parroci della zona, che avevano contribuito a creare un patrimonio di ribellione antifascista anche in seno alla Chiesa, verrà raccolta da Don Milani a partire dal 1954, quando a Barbiana diede vita alla famosa scuola per i figli dei montanari e dei contadini dei dintorni, lontani da quella pubblica in ogni senso, ma che percorrevano anche due ore a piedi per andare da Don Lorenzo, dove si insegnava a diventare cittadini consapevoli e padroni del linguaggio, perchè «la parola fa eguali». «Su quelle montagne è nata la nostra Costituzione» racconta Alberto Alidori dell’Anpi, uno degli enti che, insieme alle istituzioni provinciali e comunali della zona, ha contribuito alla realizzazione del Parco della Memoria di Monte Giovi: cinque itinerari naturalistici e storici «per non dimenticare le nostre radici e la nostra identità». Il parco verrà inaugurato domenica 13 luglio alle 10.30, in occasione dell’annuale raduno dei partigiani e dei giovani. Sabato pomeriggio appuntamento a Fonte alla Capra per un’escursione guidata all’interno del parco, a seguire grigliata intorno al fuoco e spettacolo musicale.

Corriere della Sera 10.7.08
Radicali e Comunione e Liberazione
L'apertura su «Tempi»
«Paghino i giudici che sbagliano» E Cl «corteggia» i radicali


ROMA — Un patto inedito tra diavolo e acquasanta, o almeno, se non un patto, uno zampino inzuppato nell'acquasantiera. Il settimanale cattolico di osservanza ciellina Tempi lancia in questo numero un'intervista alla segretaria dei Radicali italiani, Rita Bernardini, contro il «potere assoluto» dei giudici. Significativo il titolo dell'editoriale del direttore Luigi Amicone («Questa battaglia dobbiamo combatterla insieme») contro la vera «casta che non paga mai». La ricetta? Ripartire dalla responsabilità civile dei giudici e dal referendum del 1987. Con il suggerimento allo stesso leader storico Marco Pannella (ma forse, sotto sotto c'è già un annuncio di quella che potrebbe essere la novità dell'estate) di essere presente al Meeting di Rimini a fine agosto.
Bernardini afferma tra l'altro che, paradossalmente, con la legge seguita al referendum è sempre il cittadino a pagare, «visto che a rifondere il torto subito dalla vittima di errore giudiziario non è il giudice che lo ha commesso ma lo Stato».
M.A.C.

Corriere della Sera 10.7.08
L'intervista «La folla gioca brutti scherzi, può far perdere il senso delle proporzioni. L'azione di Grillo è stata negativa»
Camilleri: piazza Navona? Un errore
Lo scrittore: se fossi rimasto lì sarei salito sul palco a chiedere scusa
di Aldo Cazzullo


Andrea Camilleri ha partecipato al «No Cav day»
Qualcosa non ha funzionato. Peccato, è stata un'occasione in parte pregiudicata

«Le sono piaciute le mie "poesie incivili"? Quella degli scheletri»?
Com'è già?
«Ha più scheletri dentro l'armadio lui/ che la cripta dei cappuccini a Palermo/ Ogni tanto di notte, quando passa il tram/ le ossa vibrano leggermente, e a quel suono/ gli si rizzano i capelli sintetici/ Teme che le ante dell'armadio si aprano/ e che torme non di fantasmi ma di giudici in toga/ balzino fuori agitando come nacchere/ tintinnanti manette... ».
Andrea Camilleri, che impressione ha tratto da piazza Navona?
«A dire il vero, ho sentito poco. I vigili mi hanno bloccato al ponte sul Tevere, e me la sono fatta a piedi sotto il sole. Già ero stanco per la giornata dell'altro ieri, passata in coda per farmi prendere le impronte. Sono arrivato provatissimo mentre parlava Di Pietro, ho ascoltato Pancho Pardi, ho letto le mie poesie e me ne sono andato. Però, a giudicare dalle cronache, hanno fatto bene Di Pietro e Furio Colombo a salire sul palco per prendere le distanze e chiedere in qualche modo scusa a Napolitano. Se fossi rimasto, pur senza averne l'autorità politica, sarei salito sul palco con loro».
Perché?
«A scuola si diceva: fuori tema. Se c'è da criticare il capo dello Stato, non lo fai in pubblico, con quattro parole. È un errore sia nel metodo sia nella sostanza».
Secondo Colombo, Travaglio è stato il primo a «deviare» dal politico al comico, evocando Orwell: «I più uguali degli altri erano i maiali, non le alte cariche dello Stato ».
«Non è un modo di chiamarmi fuori, ma non voglio giudicare parole che non ho sentito. In ogni caso, gli oratori erano maggiorenni e vaccinati. Ognuno è responsabile di quel che dice e di come lo dice. Certo, la folla gioca brutti scherzi. Può farti perdere il senso delle proporzioni».
La Guzzanti ha collocato il Papa all'inferno. Libera satira? O un errore?
«Un errore. Ripeto: fuori tema. Ratzinger non c'entrava nulla. Sì è andati al di fuori dello spirito e degli intenti degli stessi organizzatori ».
Lei all'inferno ha messo invece Maroni.
«Era una citazione di Pasolini: "Sei così ipocrita/ che quando l'ipocrisia ti avrà ucciso/ finirai all'inferno/ ma ti dirai in paradiso". Ricordavo i versi, non il loro destinatario, credo un poeta rivale di Pier Paolo. Io li ho adattati a Bobo Maroni».
«Un paio di baffi sul nulla», l'ha definito.
«Un altro furto, ai danni dei miei antichi allievi registi egiziani: così chiamavano Nasser. Sostenere che le impronte si prendono nell'interesse dei poveri bambini rom è un'ipocrisia suprema».
Con la Carfagna si è esagerato?
«Non mi pare di aver mai letto questa famigerata intercettazione. Siamo nel campo delle voci e dei pettegolezzi. Prove non ce ne sono. Quindi, meglio lasciar perdere. Vero è che il criterio con cui si assegnano i seggi in Parlamento è l'amicizia personale, e l'ho scritto su MicroMega: è sempre il solito contribuente a pagare. Lo stesso che a suo tempo foraggiò il cavallo di Caligola».
E Grillo? È possibile una convergenza con il suo movimento?
«Sono sempre stato critico con Grillo, e a maggior ragione lo sono ora. La sua è un'azione negativa. È qualunquismo. Io non sono per l'antipolitica; sono per la buona politica. È opportuno mantenere posizioni distanti da quelle di Grillo».
Veltroni come si sta muovendo?
«Io non faccio parte del Pd, e sono andato tranquillissimamente in piazza Navona. Allo stesso modo, per quel che poco che conta, andrò il 25 ottobre alla manifestazione di Veltroni, con lo stesso spirito. La divisione che si è aperta, in un momento come questo, è devastante. Mi auguro sia ricucita al più presto».
Lei oggi voterebbe Veltroni o Di Pietro?
«Oggi, Di Pietro. Il partito democratico è troppo timido. Inadeguato. Anche se non è detta l'ultima parola».
Come mai? Veltroni è condizionato dai problemi interni, con D'Alema, con gli ex democristiani?
«Il Veltroni di adesso mi ricorda il Prodi di ieri, che spiegava di non essere riuscito a sciogliere il conflitto di interessi per resistenze dall'interno. È una sinistra che si autofrena. E non so fino a che punto si possa procedere in salita autofrenandosi».
Piazza Navona è stata davvero un regalo a Berlusconi?
«Qualcosa non ha funzionato. Lo conferma la lettura dei giornali: pure l'Unità, che è sempre stata al fianco dei girotondi e in fondo aveva sostenuto pure la manifestazione dell'8 luglio, l'indomani era critica. Peccato. E' stata un'occasione in parte pregiudicata. Spero ce ne sia presto un'altra, perché la situazione è grave e seria».

Corriere della Sera 10.7.08
Clima, strappo di Cina e India «I sacrifici spettano ai Grandi»
Non passa la proposta di ridurre del 50% le emissioni entro il 2050
I Paesi emergenti fanno saltare l'intesa sui tagli dei gas serra: «Non pagheremo noi per i danni provocati da altri»
di Danilo Taino


TAYAKO (Giappone) — Il passato piomba, pesante, sugli affari internazionali correnti. No, hanno detto ieri i Paesi emergenti ai membri ricchi del G8: non abbiamo intenzione di pagare per l'anidride carbonica che avete messo nell'atmosfera per almeno un secolo e mezzo. Quindi, se volete salvare il mondo, cominciate: noi seguiremo con i nostri tempi e i nostri modi. Risultato: l'accordo per la riduzione delle emissioni di gas serra che gli Otto avevano annunciato con fanfara martedì è stato ridimensionato a qualcosa di minimo.
Il G8 (Usa, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia, Russia, Canada) incontrava il G5 (Cina, India, Brasile, Messico, Sudafrica) più Australia, Corea del Sud e Indonesia (G3) nell'ultima giornata del vertice degli Otto Grandi. In discussione era il modo di procedere nel taglio delle emissioni che pare stiano provocando l'effetto serra e l'aumento delle temperature sul pianeta. A dicembre 2009, si terrà a Copenaghen la conferenza dell'Onu che dovrebbe decidere come affrontare il problema dopo il 2012, quando gli accordi di Kyoto sul clima saranno scaduti. Quindi, in questo periodo ci si prepara e si punta a un accordo vincolante per tutti.
Gli Otto hanno proposto ieri ai Cinque e ai Tre di unirsi su una «visione condivisa» sulla base della quale ridurre del 50% le emissioni entro il 2050 (non è chiaro misurando da quale livello, se quello del 1990 come vorrebbero gli europei o quello del 2005, meno impegnativo, come vorrebbero Usa e Giappone). I Tre asiatico-pacifici hanno detto di sì. Ma la risposta dei Cinque è stata un netto No. Riconoscono la gravità della situazione. Ma dicono che i tagli devono essere prima di tutto fatti da chi ha provocato i guai odierni: e, da questo punto di vista, ritengono che il G8 sia troppo timido, che dovrebbe porsi l'obiettivo di tagliare le emissioni del-l' 80-95% entro il 2050 e del 40% già entro il 2020. Se ci fosse un impegno chiaro in questo senso, Pechino, Delhi e gli altri emergenti sarebbero disposti a considerare il loro ruolo e a dare un contributo. Fatto salvo che gli Otto dovranno finanziare in buona parte la loro riconversione tecnologica a sistemi di produzione a basse emissioni.
Il pasticcio è che, dall'altra parte, Bush dice che senza Cina e India — nuove «potenze carboniche» — non si fa niente perché sarebbe inutile. Stallo. E proposta del G8 finita nella sabbia. Si riprenderà a discutere in vista del G8 del 2009 in Italia e di Copenaghen. Il primo ministro britannico Gordon Brown ha però detto che il G8 mette a disposizione 120 miliardi di dollari (denaro futuro) per compensare e aiutare i Paesi emergenti.
Una cosa curiosa di questo G8 è stato il fatto che sul «suo» tema del clima la cancelliera tedesca Angela Merkel è rimasta in secondo piano, come se nutrisse dubbi sulle modalità di procedere. Alla fine dei lavori, non è sembrata del tutto soddisfatta. Anzi. Sul clima non si è pronunciata: ogni appunto sarebbe stato una critica al padrone di casa, il premier giapponese Yasuo Fukuda. Ha però detto che su un altro tema trattato dal G8, i rapporti tra le valute, avrebbe voluto che il comunicato finale contenesse un accenno ai cambi, che «dovrebbero esprimere meglio i fondamentali delle loro economie », frase che è stata interpretata come un richiamo a favore di un apprezzamento del dollaro.
Non solo: ha anche dato un calcio negli stinchi al presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. Questi aveva detto che la Ue darà un miliardo di euro di denaro europeo per migliorare la produzione agricola nel mondo. La cancelliera gli ha risposto che quelli non sono soldi suoi, su queste cose decidono i Paesi Ue, non la Commissione: la questione andrà riconsiderata e non è affatto scontata. Vertice nervoso e incerto, di fronte alle tante crisi globali.

Corriere della Sera 10.7.08
Da Gramsci a Robin Hood
Quell'«Opa» di Tremonti sui miti della sinistra
di Sergio Rizzo


ROMA — Un giorno d'autunno del 2001, era ministro dell'Economia da pochi mesi, Giulio Tremonti prese letteralmente in contropiede il suo ospite: «Vuole la verità? Il nostro è un vero governo di sinistra. Guardi i primi provvedimenti che sono stati presi. L'aumento delle pensioni a un milione al mese non è forse di sinistra?» L'interlocutore di quel giorno ricorda ancora oggi molto bene il colloquio e la sorpresa che provò. La stessa che oggi non avrebbe dopo che il ministro dell'Economia ha preso sempre più gusto a spiazzare gli orfani della falce e martello. Come quella volta, poche settimane prima delle ultime elezioni politiche, che su You Tube definì «un genio» nientemeno che Karl Marx. Concetto ribadito una domenica del maggio seguente quando, nuovamente ministro dell'Economia da un paio di giorni appena, suggerì in diretta televisiva di «rileggere insieme sia Marx, rivalutato anche da Benedetto XVI, sia i Quaderni di Antonio Gramsci, che per l'epoca sono stati un'opera di assoluta modernità». Suggerimento ovviamente diretto a quelli della «sinistra» che «si vestono come manager, fumano sigari, hanno gli yacht».
Roba da far venire uno stranguglione perfino ai rifondaroli. Un giorno il subcomandante Fausto Bertinotti si è sentito scavalcato a sinistra al punto da dover rivendicare pubblicamente la primogenitura nella critica alla globalizzazione («I rischi degli eccessi della tecnofinanza denunciati da Tremonti noi li avevamo visti per tempo »). E un altro giorno il governatore della Sardegna Renato Soru, di centrosinistra, ha confessato di essere scandalizzato «perché se una tassa la mette Tremonti si chiama Robin Hood tax, se la mette la mia Regione sui megayacht diventa una schifezza».
Ma Tremonti, imperterrito, continua a entrare a gamba tesa sulla «sinistra», come aveva sempre fatto. Per esempio quando, descritto come un moderno Jean-Baptiste Colbert, non aveva mostrato particolari allergie verso possibili interventi dello Stato nel salvataggio della Fiat in crisi. O quando aveva dichiarato guerra alle banche, ritenute colpevoli di aver inondato i risparmiatori di bond spazzatura, e all'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio, gettando nell'imbarazzo anche pezzi non trascurabili del centrosinistra. Ma contrariamente al passato la sua battaglia «di sinistra » contiene riferimenti che qualche ideologo non esiterebbe a definire ancora oggi classisti. Contro la speculazione («la peste del ventunesimo secolo», o meglio ancora «una bottiglia di champagne magnum sopra il barile di petrolio»). Contro chi critica la Robin Hood tax («Dicono che pesa sui clienti? Prima tassavano gli operai»), e senza risparmiare ai petrolieri battute ustionanti come quella indirizzata al proprietario del-l'Inter Massimo Moratti: «Vorrà dire che ridurranno l'ingaggio a Mourinho...». Contro la globalizzazione «forzata». E contro la «cultura dei mutui subprime»: dichiarazione che avrà fatto fare un salto sulla sedia a chi ha sempre criticato il Tremonti gran praticone della finanza creativa e delle cartolarizzazioni.
Ma tant'è. Il Giulio Tremonti di oggi, che si conferma «contro le culture globaliste, mercatiste e monetariste», e annuncia la creazione di «un fondo di sostegno per deboli e anziani» può permettersi di citare il Mahatma Gandhi, icona della sinistra pacifista, come «l'esempio più affascinante di protesta fiscale». E di rilanciare «l'economia sociale di mercato», modello tedesco che affascina tanto parte della sinistra quanto la destra sociale. Perché «il problema non è dividere quello che non c'è ma creare un maggiore prodotto da dividere secondo logica di giustizia». Resta da capire come la prenderanno i liberisti del suo schieramento. Che però, a dire la verità, sembrano un po' in disarmo.

<span style="font-weight: bold; color: rgb(204, 0, 0);">Corriere della Sera 10.7.08
La storia di Atene e gli errori di chi interpreta il famoso «Epitafio» riportato da Tucidide come un manifesto del governo popolare
Pericle, la democrazia imperialista
Potere del clan, demagogia e guerre di conquista: un'opera rilegge le vicende del V secolo
di Luciano Canfora


Mettere in discussione i fondamenti della democrazia parlando davanti al popolo sembra inverosimile. Ancora di più in una comunità come quella ateniese dove l'«attentato alla democrazia» era il reato più grave, al punto che — secondo un sarcastico cenno di Demostene — anche il furto di qualche remo dagli arsenali veniva bollato come «attentato alla democrazia» (13,14).
Eppure ad Atene poteva succedere: non certo davanti all'assemblea popolare o davanti ad un tribunale (il quale forse sarebbe stato persino più severo), ma dalla scena, nell'ambito di una azione scenica, dunque dinanzi ad una folla ben più numerosa di quella più o meno politicizzata che frequentava l'assemblea. È quel che accade nelle Supplici di Euripide, la tragedia portata sulla scena non molto dopo il 424 a.C., nel bel mezzo della quale si svolge uno scontro dialettico pro e contro la democrazia. L'audacia di una tale iniziativa passa spesso inosservata. Eppure è una vera enormità che sia potuto accadere. Euripide, che non era molto amato dal pubblico e che aveva anche amicizie politiche sospette, aveva preso le sue cautele. Così, ad esempio, gli argomenti contrari alla democrazia (l'incompetenza del «cittadino comune» al quale non possono affidarsi decisioni delicate e cruciali, la immancabile deriva demagogica etc.) li fa esprimere da un personaggio odioso. Però resta il fatto che i suoi argomenti rimangono senza risposta. L'antagonista, che è addirittura Teseo, il sovrano ateniese cui una leggenda patriottica attribuiva una mitica fondazione della democrazia, esprime bensì un sonante elogio della democrazia, ma quelle due critiche capitali non le affronta nemmeno. Quale effetto poteva avere tutto ciò sul pubblico? Difficile per noi valutarlo, ma qualche seme di dubbio di sicuro rimaneva. Riserve di tale portata erano di solito appannaggio di ambienti ristretti, che discutevano al chiuso: era audacia portarle davanti alle decine di migliaia di persone che affollavano il teatro.
A ben vedere, le parole di Teseo, così formulate e politicamente corrette, sono inficiate dal fatto stesso che chi le pronunzia è un re, il quale però afferma che «in questa contrada il governo non è di un solo uomo, ma del popolo, il quale comanda attraverso il sistema dell'alternanza annuale delle cariche»!
Ma c'è di più. La tirata del monarca antimonarchico Teseo è quasi un collage di formule che si ritrovano anche nell'opera di Tucidide, o dette da Pericle o dette a proposito di Pericle. E la parte del leone la fa — com'è ovvio— l'Epitafio pericleo, il discorso più sfruttato dai cultori dell'inesauribile genere letterario di «inventare Atene» (per parafrasare un bel titolo di Nicole Loraux). In Tucidide la situazione è tutto sommato molto chiara. A distanza di poche pagine si trovano per un verso il profilo di Pericle, il cui regime Tucidide definisce «una democrazia solo a parole, di fatto il governo del principe», e per l'altro l'elogio, pronunciato dallo stesso Pericle, del sistema politico ateniese in quanto democrazia con molti se e molti ma. Sull'insufficienza della parola «democrazia » per definire il sistema politico ateniese il Pericle tucidideo è chiaro: «La parola — egli dice — è democrazia, in quanto il sistema non opera in funzione dei pochi ma dei più, però, nelle controversie private (cioè: in tribunale), spetta a tutti la stessa parte (cioè: non si commettono soprusi)». Questa frase, di solito fraintesa dagli interpreti, diventa chiara non solo se la si pone in relazione con il realistico giudizio di Tucidide stesso («una democrazia solo a parole») ma soprattutto se si coglie il nesso oppositivo tra la prima e la seconda parte della frase: «Non ci sono soprusi in tribunale» vuol dire infatti (ma la cosa è alquanto lontana dalla realtà) che in tribunale non si esercita quella oppressione nei confronti dei ricchi che sarebbe, secondo la visione di tutti i pensatori ateniesi del V e del IV secolo, la caratteristica essenziale della democrazia.
E poiché il Pericle tucidideo sta parlando in una situazione ufficiale e celebrativa — una sorta di grandiosa pubblica lezione di educazione civica — è certo abile, da parte sua, mettere in parallelo l'equità dei tribunali (sottinteso: nel non perseguitare i ricchi) col fatto che però in pubbliche discussioni anche al povero viene lasciato spazio («non viene impedito in ragione della povertà»). Analogamente, il re propagandista Teseo, nelle Supplici, dopo aver detto «qui non siamo governati da un uomo solo», subito soggiunge che «qui comanda il popolo», e che «non si dà un posto prevalente alla ricchezza, anche il povero ha la sua parte uguale».
Cercar di capire cosa effettivamente fu il lungo predominio di Pericle, quale compromesso tra potere personale, e di clan, e «demagogia» stesse alla base di tale regime, che già Tucidide e nella sua scia Cicerone chiamano «principato», è uno dei punti cardine per la comprensione della storia ateniese del V secolo. Essa è oggetto del volume Grecia e Mediterraneo dall'età delle guerre persiane all'Ellenismo, curato da Maurizio Giangiulio per la Salerno Editrice, che completa la parte greca della Storia d'Europa e del Mediterraneo: una delle «Grandi opere » di quella aristocratica casa editrice romana.
Naturalmente non è facile addentrarsi in un terreno così delicato. La discussione divampò già al tempo di Pericle e nel secolo seguente. Basti pensare alla critica anti-periclea del maggiore pensatore ateniese, Platone, nato l'anno dopo la morte dell'abile e spregiudicato alcmeonide. E non è affatto detto che la critica platonica sia spietata, con buona pace della apologetica confutazione che ne tentò, secoli più tardi, il retore Elio Aristide.
Opere complessive e composite sono di necessità diseguali. In questo volume si apprezzano soprattutto gli interventi di Giorgio Camassa sulla formazione della comunità politica ateniese e di Giorgio Ieranò sul teatro nella polis, di Ugo Fantasia sulla guerra peloponnesiaca (che del sistema pericleo fu la tomba), di Marco Bettalli e soprattutto del coordinatore Giangiulio. È molto importante quanto scrive Bettalli sulla «aggressività della democrazia ateniese» ed in particolare sulla folle spedizione voluta da Pericle in Egitto (460-457) che costò la distruzione di almeno 250 triremi e pesantissime perdite umane. L'episodio ci è noto grazie ad un sommario cenno di Tucidide nel primo libro della sua opera. Senza di esso la vicenda sarebbe stata «inghiottita». Essa ci appare come il pendant, per avventatezza e disastroso epilogo, dell'avventura occidentale, contro Siracusa, voluta quarant'anni dopo da Alcibiade, nel 415. Ma Alcibiade è entrato nella storia come avventuriero, mentre Pericle, grazie alla prosa, fraintesa ancorché idolatrata, dell'Epitafio, si trova stabilmente collocato nell'empireo dei grandi e saggi statisti. Il che tanto più colpisce se si considera che la catastrofica scelta di andare allo scontro con Sparta fu dovuta, come rilevò Gaetano De Sanctis nel suo misconosciuto Pericle (1944), proprio a lui. Naturalmente, a sua difesa, c'è la lunga apologia della sua politica scritta da Tucidide — nella pagina più controversa (2,65) — il quale nella stessa pagina fa di tutto per «salvare» anche Alcibiade, pur senza nominarlo. Agli storici moderni non dovrebbe però sfuggire che la faziosità di Tucidide verso i due Alcmeonidi stravolge in modo sostanziale la prospettiva con cui guardiamo a quei fatti e a quei personaggi. E quanto all'Epitafio, testo cruciale in quanto prodotto ideologico, fa impressione come si preferisca fraintenderne il senso pur di tenere in piedi il mito del «manifesto della democrazia» (formula depistante che ogni tanto riaffiora: si veda, anche in questo volume, p. 302).
Eppure proprio l'Epitafio contiene quella rivendicazione, che solo Friedrich Nietzsche intese nella sua pienezza e crudeltà, del «male», non solo del bene, che Atene ha fatto «per ogni dove» (2,41).
Rivendicazione, questa, su cui gli interpreti «politicamente corretti» preferiscono chiudere gli occhi, per non guastare il quadro consolante ed edificante di una Atene in cui «si filosofeggia senza mollezza» e «si ama il bello con sobrietà». Il che detto da Pericle, bersagliato dal demo oscurantista in quanto protettore di Anassagora e di Aspasia, fa davvero sorridere.

Repubblica 10.7.08
Parola. Se 500mila anni di chiacchiere possono bastare
di Luigi Bignami


L´Heidelbergensis era già in grado di sentire i segnali acustici emessi dai suoi simili "Se ascoltava, allora parlava"

Gli scienziati pensavano che la facoltà di comunicare risalisse a 60 mila anni fa. Una ricerca spagnola va oltre E l´Homo sapiens, finora considerato l´inventore del linguaggio, cede così il primato al suo progenitore

ROMA. La parola non fu prerogativa dell´Homo sapiens, la specie a cui tutti noi apparteniamo, ma potrebbe già essere nata nel periodo del Neanderthal. O addirittura ancor prima, quando sulla Terra viveva una specie di ominide noto come Homo heidelbergensis, da cui il Neanderthal è disceso. Se così fosse, i primi colloqui scambiati tra ominidi risalirebbero a 530mila anni fa e non a 50 o 60 mila anni or sono, come si è sempre creduto. La ricerca è stata condotta da Ignacio Martinez dell´Università di Alcala in Spagna e pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences e divulgata al recente convegno "Acustic 08".
Lo studio ha seguito una strada diversa da molte altre che hanno cercato di capire se i nostri predecessori fossero in grado di parlare o meno. Di solito, infatti, le altre ricerche puntavano sulla scoperta diretta o indiretta della presenza di corde vocali, ma poiché sono tessuti assai delicati scompaiono quasi subito alla morte di un individuo e quindi è quasi impossibile che lascino tracce in un reperto fossilizzato di decine di migliaia di anni.
Martinez e colleghi, invece, sono andati a verificare se l´orecchio dei nostri progenitori fosse in grado di udire suoni emessi dalla bocca. Hanno ricostruito in dettaglio l´intera parte interna dell´orecchio di un Homo heidelbergensis scoperto in una località nota come Sima de Huesos, che si trova vicino ad Atapuerca, in Spagna. «Ricostruendo il canale auditivo e gran parte dell´orecchio attraverso tecniche di tomografia computerizzata, abbiamo messo in luce che già l´Homo heidelbergensis poteva udire frequenze molto simili a quelle che percepisce il nostro orecchio e che è ovviamente in grado di ascoltare le parole che emettiamo. Perché l´orecchio di tali ominidi avrebbe dovuto specializzarsi alla captazione di tali frequenze se non per ascoltare i suoni emessi dalla loro bocca?", afferma Rolf Quam, coautore della ricerca e paleoantropologo all´American History Museum di New York. In realtà se si esegue lo stesso lavoro sulla struttura interna dell´orecchio di uno scimpanzè, l´essere vivente geneticamente più vicino all´uomo, ci si accorge che la capacità di percepire le frequenze tra i 2.500 e i 4.000 hertz (tipiche della parola dell´uomo) è assai inferiore a quella dell´Homo sapiens, del Neanderthal e dell´Homo heidelbergensis.
Significa, allora, che gli ominidi di 500 mila anni fa si parlavano tra loro? Spiega Quam: «La scoperta non conferma in modo assoluto che quegli esseri erano in grado di parlare e di produrre discorsi, ma ciò che abbiamo trovato può avere solo due significati: la modifica dell´orecchio ha facilitato lo sviluppo del linguaggio che, almeno negli ultimi Neanderthal, si deve essere in qualche modo sviluppato oppure che la capacità di linguaggio ha fatto modificare l´orecchio per ascoltare meglio quanto emesso dalla bocca. Ora, poiché un tale sistema sensoriale è assai dispendioso dal punto di vista neurologico, non avrebbe senso che questa capacità si fosse evoluta senza un motivo specifico, che è proprio quello di ascoltare al meglio le parole».
A dar manforte a questa scoperta vi è un altro lavoro apparso su Molecular Biology and Evolution, secondo il quale due geni trovati del genoma di un Neanderthal sono del tutto simili a quelli implicati nel linguaggio dell´uomo e sono molto diversi da quelli dello scimpanzè.

Repubblica 10.7.08
Giorgio Manzi, paleoantropologo universitario
"I suoni erano come i nostri i contenuti molto più poveri"


ROM. Sono molti gli animali in grado di "parlare" tra loro. Il linguaggio dell´Homo heidelbergensis quanto diverso poteva essere da quello di un delfino o di uno scimpanzè?
«Direi che quello degli animali andrebbe definito come un sistema di comunicazione più che un vero e proprio linguaggio. E ciò vale non solo per gli animali più evoluti, ma anche per quelli più semplici, come molti insetti che, ad esempio, comunicano attraverso sostanze chimiche».
E le comunicazioni tra Neanderthal come le definisce?
«Parlerei di un primo "linguaggio verbale", ossia di una vocalizzazione che veniva articolata in una serie di significati. Quanto fosse complessa questa articolazione non è dato sapere. Vi sono correnti di pensiero che ipotizzano che una vera capacità di linguaggio l´abbiano avuto solo i Sapiens, perché ci hanno lasciato anche tracce di pensieri simbolici. I Neanderthal, invece, ci hanno lasciato poco o nulla a tal proposito. È possibile, comunque, che essi non abbiano avuto il tempo di raggiungere un vero e proprio linguaggio solo perché si sono estinti prima».
Ma è ipotizzabile che il loro linguaggio potesse trasmettere anche parole di sentimento?
«È difficile. È assai probabile, invece, che in realtà il loro fosse un linguaggio simile al nostro dal punto di vista dell´emissione dei suoni, ma molto povero per quanto riguarda i contenuti».
(l. b.)

mercoledì 9 luglio 2008

l’Unità 9.7.08
Marcello Buiatti. Il professore: siamo in un brutto momento politico e sociale, negli ultimi anni l’astio e l’indifferenza fra le persone è aumentato
«Senza la diversità saremmo finiti, il manifesto antirazzista serve a dire questo»
di Francesco Sangermano


Professor Buiatti, da cosa nasce l’esigenza di un manifesto antirazzista come quello che lei ha redatto e che sarà presentato a San Rossore?
«Dal fatto che siamo in un momento sociale e politico molto brutto da vari punti di vista. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’aumento dell’astio e dell’insofferenza fra le persone. C’è una paura collettiva del futuro, una sensazione di perdita di speranza come se fossimo davanti a una crisi economica drammatica quasi come quella del ‘29. Ma non è così».
Cosa genera questa paura?
«La storia ci insegna che in questa fragilità dell’identità di popolo, succede che si tende a cercare un caprio espiatorio. Settant’anni fa erano gli ebrei come me, ora sono i rom, gli immigrati, i diversi in generale».
Si è arrivati, per i rom, perfino a parlare di schedature. Che effetto le fa?
«Sono provocazioni bestiali che incitano, appunto, a trovare in quei soggetti il caprio espiatorio, il nemico da accusare per le cose che non vanno nella nostra società. Esattamente come è accaduto all’epoca nazista o in tutte le guerre etniche. Ma se allora, nella Germania nella quale nacque e si affermò il Nazismo, si era in condizioni di reali crisi, la nostra situazione attuale non è minimamente paragonabile. E anche se non arriveremo a ripetere quei fenomeni, incitare all’odio è comunque altrettanto colpevole».
Il manifesto smonta punto per punto quello dei suoi colleghi di settant’anni fa.
«Era importante fare una verifica della realtà e spiegare in modo corretto, da scienziati, quello che scienziati scorretti avevano teorizzato in passato. Molte volte azioni politiche negative cercano di giustificarsi con concezioni e dati scientifici e noi abbiamo voluto chiarire che i dati scientifici dicono altro».
Ovvero?
«Che le tesi sulla razza di settant’anni fa non hanno alcun fondamento. Non foss’altro perché allora la genetica era veramente agli albori e non sapevano neppure cosa fosse il Dna dato che la doppia elica è stata scoperta nel 1953. Ma il razzismo è nato ben prima della genetica e allora faceva “comodo” attribuire caratteristiche di ereditarietà ai carattere fisici e alla mentalità. Col risultato che se una persona non si poteva cambiare era da considerare un nemico e andava ucciso».
Crede che certi pregiudizi siano presenti ancora oggi in qualche misura?
«Io penso che se chiediamo agli italiani la differenza fra rom e romeno non lo sanno. Eppure non è affatto la stessa cosa. I rom non sono romeni. I rom sono anche romeni. Ma gli uni sono originari addirittura dell’India mentre i romeni sono un popolo di matrice slava e latina. Invece si procede per omologazione perché sigla e nome del popolo si assomigliano. Sembra di ragionare al livello culturale di allora».
Dal punto di vista scientifico, invece, cosa è oggi la diversità?
«Senza la diversità ci troveremmo di fronte a un grande limite culturale. Perché gli esseri umani hanno in sé molta poca variabilità genetica. Piuttosto quello che ci distingue ad esempio dalle scimmie è che noi ci rapportiamo ai diversi ambienti adattandoli a noi e formando in ogni luogo una sua lingua, una sua cultura. Cambiare per adattarsi alle condizioni del pianeta è la nostra ricchezza. Se perdessimo questa variabilità culturale saremmo finiti».

l’Unità 9.7.08
Governo, tre passi nella xenofobia
di Roberto Zaccaria


In questa settimana e in quella successiva, dopo i pareri delle competenti commissioni parlamentari, diventeranno leggi della Repubblica tre decreti del Governo Berlusconi, legati al pacchetto sicurezza, che contengono un vero e proprio giro di vite in chiave xenofoba, su materie estremamente delicate quali quelle del ricongiungimento famigliare, dell’asilo e del diritto di libera circolazione dei cittadini comunitari.
Questi istituti erano stati regolati con equilibrio in attuazione di altrettante direttive comunitarie dal Governo Prodi. La stessa possibilità di espulsione dei cittadini comunitari per gravi motivi di sicurezza pubblica era stata disciplinata nel rispetto dei dettami comunitari. Il nuovo Governo pretende ora, utilizzando la stessa delega, non di apportare leggeri ritocchi, ma di dettare disposizioni radicalmente diverse, che vanno molto oltre il tema della sicurezza e utilizzando una scorciatoia legislativa che la Costituzione non consente assolutamente.
In materia di asilo si realizza lo strappo più grave. La nostra Costituzione prevede che lo straniero che scappa da un paese nel quale non siano garantite libertà democratiche ha diritto di essere accolto nel nostro paese. Non si tratta di grandi numeri (meno di 10.000 persone all’anno) ma tutti casi estremamente delicati di persone che tra infinite peripezie e rischi personali riescono ad arrivare, spesso solo dal mare, nel nostro paese.
La regola precedente permetteva il controllo giurisdizionale in tempi brevi sul rifiuto amministrativo con conseguente sospensione del primo provvedimento (spesso capita che in quel secondo controllo il 30 per cento dei richiedenti possa ottenere l’asilo). Ora si stabilisce che il soggetto nelle more del ricorso possa essere allontanato e quindi debba ritornare nel paese da dove è scappato e quindi corra concretamente il rischio di carcere e di torture.
L’Onu e la Chiesa hanno vivamente protestato contro questa misura gravemente discriminatoria.
Anche sulla possibilità di circolazione nel nostro Paese dei cittadini comunitari il nuovo decreto del Governo introduce una limitazione in violazione palese della direttiva europea.Il cittadino comunitario che dopo i tre mesi di soggiorno abbia omesso di effettuare la iscrizione anagrafica incorre in una sanzione pesantissima: può essere espulso per motivi imperativi di pubblica sicurezza come un soggetto pericolosissimo.
In questa situazione, per una semplice dimenticanza amministrativa, potrebbe trovarsi un qualsiasi cittadino di uno dei 27 Paesi della Comunità che sia in Italia per le più svariate ragioni di turismo, di studio, di lavoro. La direttiva chiede sanzioni proporzionate e non discriminatorie: questa sanzione è chiaramente eccessiva, tipica di un regime di polizia.
Anche sui ricongiungimenti il giro di vite è fortissimo: vietato ricongiungersi con mogli che non abbiano compiuto i 18anni, vietato ricongiungersi con figli maggiorenni a meno che non siano totalmente invalidi, facoltà-dovere di usare il test del Dna per provare lo stato di parentela. Nessuna cautela tra quelle prescritte dal Garante della privacy per l’utilizzazione ulteriore di questi esami, decisamente più invasivi di altri strumenti di rilevazione.
I rischi di abusi sono fortissimi, mentre il vero parametro dovrebbe restare quello di possedere mezzi sufficienti per accogliere il congiunto e il non gravare in misura sproporzionata sull’assistenza e la previdenza sociale.
Quelli richiamati sono solo alcuni esempi.
Il problema di fondo è un’altro: se un Governo vuole impostare una nuova politica xenofoba è padrone di farlo, ma lo faccia non clandestinamente o alla chetichella, usando e snaturando deleghe legislative, di opposto tenore, del Governo precedente e si assuma invece tutta intera la propria responsabilità politica dopo un pubblico dibattito parlamentare e si prepari così a viso aperto a contrastare l’Europa.

l’Unità 9.7.08
Legalità. È questa comunque la nota forte di piazza Navona. Prevedibili i richiami populisti alla Grillo: il tema sarà riuscire a dar loro un’altra forma
Ma sotto il palco «si ritrova» il popolo dell’opposizione
di Bruno Gravagnuolo


Una manifestazione dai due volti, quella di ieri in Piazza Navona. Inevitabilmente del resto. Da un lato un volto più politico, attento a non dividere l’opposizione o a esasperare lo scontro istituzionale. Addirittura all’esordio, Mattia Stella ha voluto esprimere solidarietà umana e politica a Napolitano, Presidente che incarna la Costituzione, a fronte di un premier come Berlusconi. Poi invece il lato satirico, a sfociare nell’«happening», con il collegamento telefonico con Beppe Grillo, che picchia duro su Napolitano «Morfeo» e «topo gigio» Veltroni. Rimbeccato con energia da Furio Colombo che si dissocia sul finale. E che rivendica l’importanza di aver portato al centro della serata i bambini Rom, di cui si vogliono prendere le impronte: una manifestazione a favore dell’opposizione e non contro, per darle più forza, non certo per dividerla. Ma poi quanto a «oltranze», a parte il Ratzinger spedito da Sabina Guzzanti all’inferno, e incalzato da diavoli gay, poca roba, magari discutibile. Il tutto però davanti a un popolo combattivo e composto. Che abbassa le tante bandiere dell’Idv quando il palco glielo chiede (ce ne erano tante anche di Sd e di Rifondazione). E che si «gasa» quando risuonano gli appelli alla «legge eguale per tutti», e a una più forte opposizione. In fondo non è che un esordio, continuiamo la lotta: questo il senso. Mentre in tante città d’Italia va in scena qualcosa di analogo. Milano, Torino, Genova, Brescia, Siena e tante città dell’Emilia, che rispondono ai richiami dei tanti blog, fra i quali quello di Nando Dalla Chiesa.
Che significa tutto questo? Che il popolo dell’opposizione c’è, e ha voglia di battersi. E che tuttavia forse non ha ancora «carburato», per mancanza di guida politica, e «continuità di gioco». Le cose migliori - a parte il Colombo che si dissocia dagli attacchi a Napolitano e invita dar battaglia capillare sulla legalità - sono in quel che affiora all’inizio. Nella falsariga ideale, che è già un filo conduttore importante per l’opposizione in fieri. E cioè: la legalità non è un «optional moralistico». E le leggi canaglia di Berlusconi, sono esattamente «l’ingombro» che impedisce al Parlamento di affrontare i suoi problemi veri: salari, pensioni, crisi economica, precarietà, emergenze ambientali. Lo ripetono un po’ tutti, da Flores, a Pardi, alla girotondina Laura Belli. E a Di Pietro, nel cui discorso non c’è un filo di polemica né verso Napolitano, né verso il Pd. Solo la rivendicazione di un’opposizione più incisiva e diversa, legittima quindi.
E l’altro tema chiave è questo: la legge eguale per tutti, oltre a fatto di etica civile e dignità, è anche dignità del lavoro. Dignità dei diritti sociali. Democrazia presa sul serio, nelle istituzioni e in economia. Senza arroganze patrimonialistiche, o pervertimenti a misura di «emergenze personali». Per cui, dice Marco Travaglio, per velocizzare la «sicurezza», si tenta di mettere in sicurezza una sola persona: Berlusconi dai suoi processi. Bloccando e vanificando centomila processi! Ecco quindi il circolo virtuoso dell’opposizione civile che si viene facendo e che incalza quella ufficiale: legare la giustizia legale alla giustizia giusta. Al lavoro e all’economia, e alle urgenze del paese. Mortificate dal contenzioso personale del premier, che imprime un marchio privato a tutta la vita del paese. Dalla scelta dei ministri a servizio al sogno di modellare una Costituzione a suo uso e consumo: decisionistica, plebiscitaria. Con Parlamento, e istituti di controllo, svuotati. E qui ha ragione Pancho Pardi: «questa Costituzione va difesa». Perchè la mira e il sogno di Berlusconi sono chiari: «inaugurare un altro settennato al Colle». Magari scalzando proprio l’attuale Presidente. La cui garanzia - aggiungiamo - non deve essere delegittimata. Per evitare di fare il gioco del Cav. Per finire una notazione. Era ovvio che invitando Grillo e la sua «retorica» in piazza - accanto a un pezzo di opposizione - ci si poteva aspettare anche l’happening populista. E però quel suo umore antipolitico e sgradevole, circola anche a sinistra e ormai da tempo. Importante è perciò prosciugarlo, e dare ad esso forma politica. Senza mettere la testa sotto la sabbia, in nome di un galateo di cui l’avversario ha fatto sempre strame e con ben altra virulenza. Sicché al popolo dell’opposizione, che nasce e che si ridesta dalla sue delusioni, occorre dare sponde e risposte. Guida politica insomma, senza oscillazioni e retoriche del dialogo che snervano anche le migliori intenzioni. Sì, qualcosa si muove in questo senso, eppur si muove malgrado la sconfitta. E già in Parlamento se ne vedono i frutti, con un atteggiamento più chiaro e fermo su «lodi» e «blocca processi». In fondo è bastato un preannuncio di girotondi per rimettere di nuovo in moto la situazione. Facciamoli girare quei girotondi, fino a coinvolgere altri mondi e altra gente. Dal basso in alto e viceversa. Girare. bene e magari senza bisogno di Grillo.

l’Unità 9.7.08
Rifondazione, guerra di cifre anche a Roma
Esiti dei congressi contestati, voti annullati alla mozione Vendola
di Luciana Cimino


UNA CRISI intestina di tali proporzioni dentro Rifondazione non se l’aspettavano. Certo le avvisaglie, all’indomani della terribile sconfitta elettorale di aprile, c’erano
state, ma nessuno pensava che la resa dei conti finale arrivasse tanto presto. E come nei peggiori film, è questo il momento dei veleni. Come a Reggio Calabria anche a Roma Prc si avvia al congresso cittadino, nel prossimo fine settimana, con sospetti di brogli e contestazioni sulle modalità di voto. Nella Capitale la mozione numero 2, primo firmatario Nichi Vendola, aveva ottenuto il 48,6% delle preferenze, ovvero la maggioranza relativa sulle 5 presentate. Quella Acerbo, sostenuta dall’ex ministro alle politiche sociali, Paolo Ferrero, si era fermata al 41.7%. Una tendenza, secondo il segretario regionale, Giancarlo Torricelli, che dovrebbe essere la stessa in tutto il Lazio, anche se ancora manca l’esito di 15 congressi territoriali. Nella tarda serata di ieri, però, il colpo di scena: la commissione congressuale cittadina, composta in maggioranza da sostenitori della mozione 1 e 3, ha annullato circa 200 voti, facendo scendere la mozione Vendola al 38% e consegnandola così alla sconfitta. «E’ un fatto di una gravità inaudita – commenta il segretario cittadino uscente, Massimiliano Smeriglio – mai successo nella storia dei partiti di sinistra in Italia». «I voti sono stati contestati per futili motivi: una quota non versata per intero, una firma mancante sulla tessera», ha spiegato Luigi Nieri, assessore della regione Lazio al bilancio, che accusa: «non si è usato lo stesso metro di giudizio, le regole o le osservano tutti o si cancellano». Annullati anche 53 voti nella sezione storica di Garbatella, che aveva massicciamente votato per Vendola. «Che nelle dinamiche congressuali, pur durissime, si arrivi ad aggredire proprio quest’esperienza, da tutti riconosciuta come una delle più interessanti del panorama nazionale di Rifondazione Comunista – ha commentato Andrea Catarci, presidente del Municipio XI - è veramente un atto d’insensatezza e d’irresponsabilità, oltre che di viltà». Il coordinamento capitolino della mozione Vendola parla di «annullamento chirurgico» e di «resa dei conti» e annuncia il ricorso presso la commissione congressuale nazionale, che dovrebbe pronunciarsi già oggi. Ironico Ferrero: «vedo con preoccupazione che una parte della mozione 2 si sta accalorando in maniera fuori luogo, penso che si possa fare un congresso dibattuto purché si faccia nel pieno rispetto delle regole». «Chiediamo – dice Smeriglio – il ripristino di tutti i voti o non parteciperemo a un congresso farsa in cui le preferenze acquisite sul campo vengono immolati sull’altare di metodi stalinisti». La parola che Smeriglio non vuole pronunciare si chiama scissione. Di certo, però «se sarà fatta carta straccia dei risultati congressuali prenderemo la decisione più adeguata, è in ballo la linea politica del partito».

il Riformista 9.7.08
Il dibattito surreale in Rifondazione


A pochi giorni dallo svolgimento del Congresso nazionale si continua a capire poco di quel che accade dentro Rifondazione comunista. Lo scontro è all'arma bianca. Congressi annullati, militanti a cui è impedito di votare, clima esasperato. Si capisce solo che chiunque vincerà, ci sarà una scissione. I seguaci dell'ex ministro Ferrero da una parte, quelli di Vendola dall'altra. Il dibattito è stato surreale. Il paradosso più buffo, insisto nello scriverne, è stato vedere un ex ministro capeggiare la corrente che dice «mai più al governo». Eppure ci deve essere qualcosa di più profondo che spieghi le ragioni di questa avversione reciproca che ormai sconfina nell'odio. Non credo che sia il comunismo a dividerli. Al comunismo non crede più nessuno, per fortuna. Probabilmente la vecchia etichetta politica, Rifondazione comunista, tiene assieme emozioni, pensieri e persone che viaggiano su pianeti diversi. Una intervista al segretario provinciale di Prc di Milano, pubblicata ieri dal "Manifesto", ha rafforzato questa mia convinzione. Antonello Patta denuncia il «razzismo» di Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano che rom e islamici li farebbe a pezzi come Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno e sbirro a tempo perso. E dice: «Veniamo da una batosta elettorale che ci ha annichilito, anche nella società e nei movimenti. Ai circoli arrivano anche nostri iscritti che ce l'hanno con gli zingari…». Fantastico! La vostra gente va a destra e voi litigate su Prodi e Veltroni!

l’Unità 9.7.08
Giornali di partito, il premier taglia i fondi
L’aveva promesso e nella manovra Tremonti ecco la scure
sui contributi diretti statali. Mantenute le agevolazioni per i grandi gruppi
di Roberto Rossi


EDITORIA «Quello che faremo semplicemente sarà togliere il finanziamento pubblico...». Sorridente, affabile, rinvigorito, il 16 aprile scorso, il giorno dopo le elezioni, Silvio Berlusconi aveva sparato così contro l’Unità. Tra intercettazioni e «lodi» quel giorno rivisto oggi, sembra una cartolina ingiallita e quella frase una battuta dettata dall’euforia di una vittoria netta.
Purtroppo non è così. Quelle parole hanno avuto un seguito. Nero su bianco. Riportate in un decreto, quello del 25 giugno 2008 n. 112 (la manovra di Tremonti), approvato in appena nove minuti ma scritto in ben nove giorni. Le si possono leggere nell’articolo 44, «Semplificazione e riordino delle procedure di erogazione ai contributi dell’editoria». Naturalmente cambia la forma, la cosa è un po’ più tecnica e sottile, ma non la finalità: l’abolizione dei contributi all’editoria cooperativa, non profit, di partito.
Andiamo con ordine. In base alla legge 67 del 1987 in Italia l’editoria gode di contributi statali. La Finanziaria 2008, approvata dal governo Prodi, ha stabilito per il comparto una cifra pari a 414 milioni. La somma in realtà è molto al di sotto del fabbisogno dell’intero settore che è stimato in 589 milioni. Ripartito in questo modo: 190 milioni per i contributi diretti, gli altri 399 per agevolazioni postali, elettriche e satellitari.
Per essere chiari il contributo diretto è quello che lo Stato eroga alle società editrici in base a determinati parametri (come la tiratura). Per cooperative, come il Manifesto, o giornali politici, come L’Unità (che fa riferimento al gruppo parlamentari Democratici di Sinistra), che di solito hanno pubblicità scarsa, il contributo diretto rappresenta una bella fetta del bilancio. Le agevolazioni, postali o di altro genere, invece, riguardano i grandi gruppi editoriali, come il Sole 24 Ore o il Corriere della Sera (tra l’altro quotati in Borsa) e rappresentano la più grossa fetta dei contributi.
Fetta che però il governo, nel decreto, non tocca. Quello che si colpisce sono i soli contributi diretti. In maniera sottile, per induzione se si vuole, li si eliminano tutti. Come? L’articolo 44 delega al governo la potestà di decidere non solo le procedure di accesso ma anche i «criteri di erogazione» dei contributi diretti. Inoltre, cosa più importante, i nuovi criteri di erogazione dei contributi diretti andranno stabiliti «tenendo conto delle somme complessivamente stanziate nel bilancio dello Stato per il settore dell’editoria, che costituiscono il massimo di spesa». Ma nel 2008 il limite massimo di spesa è fissato in 414 milioni. Di questi 399 milioni saranno assorbiti dai grandi gruppi editoriali, sulla carta campioni di liberismo, attraverso le agevolazioni postali e di credito. Solo 15 milioni sarebbero destinati ai contributi diretti a fronte di un fabbisogno di 190 milioni. Briciole. Che spariranno nel 2009 e 2010. Il decreto prevede la decurtazione delle somme stanziate dallo Stato. Non più 414 milioni ma rispettivamente 387 e 266 milioni. In questo caso i giornali di partito o le cooperative non potranno ottenere nulla.
L’articolo in questione - che è in discussione alla Camera ed è stato oggetto lo scorso lunedì di un emendamento abrogativo parziale da parte del Pd - è ancora più pericoloso perché andrebbe a incidere su voci di bilancio già certificate. Per l’Unità, ad esempio, vorrebbe dire rinunciare già nel corso del 2008 ai circa sei milioni di euro di rimborso statale.
Naturalmente anche questo giornale si è battuto per un riordino del contributi per l’editoria, attraverso nuovi criteri di selezione, e più in generale anche del mercato pubblicitario. Che è tutto spostato verso le tv. E cioè Rai e Mediaset. Quest’ultima di proprietà, fa sempre bene ricordarlo, di Silvio Berlusconi. Che sul quel decreto ha messo la firma.

l’Unità 9.7.08
Il rapporto di Human Right Watch
Un milione e mezzo di schiave nell’Arabia Saudita tanto amica dell’Occidente
di Umberto De Giovannangeli


UN ESERCITO di schiave. Sfruttate. Picchiate. Violentate. Senza diritti. Senza dignità. Costrette a lavorare per 18 ore, sette giorni su sette. E se qualcuna osa ribellarsi il suo destino è segnato: fustigata a sangue. «Come se non fossi un essere umano». E questo in un Paese che l’Occidente democratico, paladino dei diritti della persona, considera un fedele alleato nel nevralgico scacchiere mediorientale: l’Arabia Saudita. L’organizzazione Human Right Watch (HRW), che difende i diritti umani, denuncia che milioni di donne di origine asiatica sono trattate come delle schiave in Arabia Saudita. Per questo motivo HRW chiede a Riad di prendere misure radicali per tutelarle legalmente.
L’Organizzazione non governativa dopo due anni di ricerche ha pubblicato il rapporto dal titolo «Come se non fossi un essere umano» e stima che un totale di 1.5 milioni di donne tuttofare provenienti dall’Indonesia, dalle Filippine, dallo Sri Lanka e dal Nepal sono sfruttate in Arabia Saudita. «Nel migliore dei casi le donne che emigrano in Arabia Saudita beneficiano di buone condizioni di lavoro e di buoni datori di lavoro. Nel peggiore invece sono trattate quasi come delle schiave. Nella maggior parte dei casi queste donne si trovano in una condizione intermedia», riassume Nisha Varia, co-autrice del rapporto. La legislazione sul lavoro nel regno ultraconservatore, secondo il rapporto, «esclude le domestiche, privandole di diritti garantiti invece agli altri lavoratori, come ad esempio un giorno di riposo settimanale ed il pagamento di ore di straordinario». «Il governo saudita ha fatto delle proposte di riforma ma ha passato anni a contemplarle senza prendere alcuna misura in merito», afferma Varia e continua: «È arrivato il momento di attuare queste riforme».
In Arabia Saudita, ufficialmente, la schiavitù è stata abolita solo nel 1963. Ufficialmente. Perché la realtà racconta un’altra storia. Agghiacciante. Nel lavoro di 133 pagine, corredato da più di 80 interviste a domestiche, emerge un quadro drammatico di sfruttamento e violazione dei diritti umani. «Per un anno e cinque mesi non ho percepito stipendio. Quando chiedevo il denaro il mio datore di lavoro mi colpiva, cercava di ferirmi con un coltello», afferma una donna. «Lavoravo 18 ore al giorno, 7 giorni alla settimana, per anni, senza essere pagata», dichiara una signora di origine indonesiana. La materia di diritto, in tema di tutela delle donne sul lavoro in Arabia Saudita dà un potere molto forte agli uomini, al punto da impedire alla domestica di cambiare luogo dell’occupazione o lasciare il Paese. In questi anni numerose donne filippine, indonesiane, dello Sri Lanka hanno cercato rifugio nelle rispettive ambasciate. «È tempo di fare dei cambiamenti - afferma una donna intervistata - cercando di garantire, anche alle domestiche, il rispetto dei diritti del lavoratore, previsti dalla legge del 2005».
«Le donne continuano a subire discriminazioni di fronte alla legge e nelle consuetudini e non hanno ricevuto adeguate protezioni contro la violenza domestica e familiare», denuncia Amnesty International in un suo recente rapporto sulla condizione della donna in Arabia Saudita. «Ogni giorno - ricorda Amnesty - i diritti fondamentali di chi vive in Arabia Saudita sono prevaricati e in pochi vengono a saperlo: condanne a morte, fustigazioni ed amputazioni sono comminate ed eseguite senza la minima considerazione per i principi di umanità e le regole del diritto internazionale». Un diritto che non trova spazio in Arabia Saudita. Un Paese in cui - concordano le più impegnate associazioni umanitarie internazionali - il Corano e la shari’a (legge islamica) sono utilizzati come strumento per opprimere, spaventare, violare la dignità di donne, bambini, uomini impotenti ed incapaci a difendersi. Donne come Maria, giovane filippina giunta in Arabia Saudita come collaboratrice domestica e colta dal padrone di casa, qualche mese più tardi, mentre dava da mangiare all’autista. Per questo «reato» - aver avvicinato un uomo, seppur per offrirgli del del cibo - la domestica fu condannata a dieci mesi di carcere e a 200 frustate. Al termine della pena, Maria venne deportata nelle Filippine.

l’Unità 9.7.08
Forza Zapatero. Ci iscriviamo?
di Bruno Gravagnuolo


Que viva Zapatero! Splendide le conclusioni di Rodriguez Zapatero al congresso del Psoe. Che abbiamo letto per esteso su Repubblica di lunedì. Al centro, un tema semplice ed efficace: il socialismo di cittadinanza. Che cos’è per Zapatero, che in quel discorso dice per sette volte «noi socialisti»? Letterale: «la «distribuzione della ricchezza e del potere». E attraverso i diritti. Nel quadro di «doveri», però. E cioè la solidarietà verso gli altri. E poi l’efficienza, la produzione di ricchezza. L’amor patrio e civico, aperto al mondo. Il tutto nel rispetto di ambiente, parità delle diferenze anche sessuali. La parità assoluta uomo-donna, e la promozione delle «chances» di queste ultime. Ottimo e abbondante, per uno davvero di sinistra come Rodriguez Zapatero. Che espone nel suo studio la fotografia del nonno antifascista, fucilato dai franchisti. Nonché il suo testamento morale scritto. E ciò con buona pace della superficialità di chi aveva parlato di «olvido» della guerra civile come «patto virtuoso» tra gli spagnoli per fondare la democrazia (da Perez-Diaz a Salvati). Niente affatto: la base simbolica della democrazia spagnola, per Zapatero e il suo Psoe, è proprio la memoria antifascista. E senza dimenticare la coraggioosa battaglia laica, che rompe in Spagna tenaci pregiudizi e privilegi, tipici di una delle Chiese cattoliche più reazionarie e tradizionaliste. C’è da imparare, no? Almeno qualcosa! E non solo dalle politiche zapateriste. Bensì anche da quel definirsi «socialista» di Zapatero. Altro che residuo. Altro che anticaglia. È un fattore propulsivo di orgoglio. Vincente in Spagna. Ci iscriviamo?
Una lode imbarazzante Quella di Galli Della Loggia sul Corsera a Vittorio Cerami, responsabile cultura Pd, che aveva definito gli organizzatori della manifestazione di Piazza Navona dei «bacchettoni di mestiere». Il che dà il destro a Della Loggia per gioire, e demolire la «mitologia girotondina». Giochino futile, per trattare quelli che non la pensano come lui alla stregua di fanatici e populisti moralisti. Prescindendo dal merito («leggi canaglia») e demonizzando il dissenso politico che non accetta di stare in braghe perbeniste moderate. E però Cerami sembra starci bene in quelle braghe «terziste»... o no?

Corriere della Sera 9.7.08
La missione Antichi testi arabi minacciati da sabbia e sole. Per non perderli gli esperti sfidano Al Qaeda
Operazione biblioteche nel deserto Libri in salvo dal Sahara a Udine
Al via i corsi per strappare all'oblio 30 mila manoscritti della Mauritania
di Michele Farina


PASSARIANO (Udine) — Vedendo questi ragazzi chini sui manoscritti, nella cornice meravigliosa di Villa Manin a Passariano, Lalla sarebbe orgogliosa. Lalla Feliciangeli, l'italiana più amata del Sahara occidentale, è morta a gennaio. L'idea di salvare le biblioteche del deserto in uno dei Paesi più sperduti del mondo è venuta a lei, anima della nostra Croce Rossa in Mauritania. La sua prima cura era per i bambini e le donne. Cibo e microcredito. Su sua indicazione un anno fa il Corriere
visitò un villaggio dell'Adrar che la sabbia si sta mangiando. La gente sposta le case più in là, il deserto le insegue. Impressionante. «Allora dovresti vedere Tichitt», disse Lalla. Rideva. «Pensa che voglio mandarci i patologi del libro». Chi? «Quelli della Scuola di Restauro in Friuli». A fare cosa? «A salvare le biblioteche. Stanno andando tutte in malora. Non solo a Tichitt. E' il patrimonio di questa gente. E un po' anche nostro. Manoscritti passati di padre in figlio per secoli, volumi che i pellegrini portavano a casa di ritorno dalla Mecca. Ricchezze di famiglia in mezzo al niente. A Tichitt c'era un vecchio bibliotecario cieco. Non ricordo il nome. Custodiva religiosamente dentro valigie polverose i libri che intanto gli insetti e l'umidità distruggevano. Dobbiamo aiutarlo, mi son detta. È importante quasi come dare cibo ai bambini dell'Adrar».
Lalla sarebbe orgogliosa: domani il progetto salva-biblioteche sarà presentato ufficialmente a Villa Manin. In realtà è già operativo. Il Corriere lo segue da un anno. Bilancio: 900 mila euro. Fondi del ministero degli Esteri (Cooperazione e sviluppo, 600 mila euro), realizzazione a carico della Regione Friuli in collaborazione con due istituti di ricerca mauritani (300 mila euro). Come si salvano 30 mila manoscritti che marciscono in case private di villaggi a centinaia di chilometri l'uno dall'altro, spesso raggiungibili soltanto con i fuoristrada? Ci hanno provato in tanti: americani, francesi, tedeschi. La ricetta friulana: terapia d'urto e piano di cure a lunga scadenza. «Apriremo laboratori in ognuna delle quattro località interessate», dice Alessandro Giacomello, direttore della Scuola Regionale di Restauro e responsabile del progetto Mauritania. Primo obiettivo: passare i manoscritti all'interno di «macchine» speciali che uccidono gli agenti patogeni. L'idea di raccogliere tutti i volumi in un museo, magari nella capitale, è sbagliata. «Queste biblioteche sono la ricchezza del territorio e devono restarci » sostiene Carlo Federici, probabilmente il maggior patologo librario d'Italia. Ha da poco curato il «restyling » della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il medico degli 80 mila manoscritti del Papa, lo scorso dicembre con la benedizione di Lalla, arrancò sulla pista verso Tichitt per il primo sopralluogo alle valigie del vecchio cieco. Certo i manoscritti del Sahara non sono comparabili con i tesori del Vaticano, un esemplare inestimabile dell'Eneide piuttosto che la Bibbia di Federico di Montefeltro. Sono testi religiosi e di giurisprudenza, «ma anche una copia del Corano che ha attraversato il Sahara nel XII secolo a dorso di cammello riveste un valore straordinario». E poi per un patologo ogni paziente è uguale.
Il primo nemico? «La luce — dice Federici —. Infatti i mano-scritti del Vaticano stanno» in un bunker «di cemento armato, senza finestre». Difficile tenere lontana la luce del Sahara... «Faremo il possibile per isolarli. D'altra parte è importante che questi manoscritti siano fruibili. Possiamo allungargli la vita, digitalizzarli, ma anche per i libri non esiste eternità».
Chi allungherà la vita ai manoscritti come quelli della meravigliosa Chinguetti, settima città santa dell'Islam? Sidi e Mohammed sono venuti in Italia per questo. Sono due dei 12 allievi del corso di restauro che si snoda tra Nouakchott e Villa Manin. Da domani al 26 settembre proseguiranno le lezioni cominciate in Mauritania con la supervisione di Irene Zanella, che ha già lavorato tra i tesori del Monastero di Santa Caterina sul Sinai. Mohammed ha 35 anni, è di Chinguetti: «Quest'anno abbiamo perso la Parigi-Dakar ma abbiamo trovato gli italiani che ci aiuteranno a salvare le nostre biblioteche». La corsa con la sua coda di stranieri costituisce una manna per la Mauritania («il costo di una capra passa da 10 a 100 euro»), ma è stata cancellata per le minacce di Al Qaeda. «A noi Al Qaeda ci fa un baffo — dice il direttore Giacomello —. In Friuli siamo sopravvissuti al terremoto». Un'esperienza di ieri che spiega la passione di oggi: «Non dimentichiamo il tempo in cui altri hanno aiutato noi. Aiutare i mauritani è un modo per dire grazie ». Anche di queste parole Lalla sarebbe orgogliosa. Quando un saggio muore, si dice in Africa, è una biblioteca che brucia. Il vecchio bibliotecario cieco di Tichitt è morto, la sua biblioteca risorge.

Corriere della Sera 9.7.08
L'Unesco Nella lista Mantova, Sabbioneta e il trenino rosso del Bernina
Patrimonio dell'umanità L'Italia da record: 43 siti


MILANO — Mantova e Sabbioneta, «eccezionali testimonianze dell'architettura e dell'urbanistica del Rinascimento », e la Ferrovia Retica, che attraversa le Alpi tra Italia e Svizzera, sono da ieri «Patrimonio mondiale dell'umanità ». Con loro entrano a far parte della lista stilata dall'Unesco anche il Monte Titano e il centro storico di San Marino, portando per la prima volta la minuscola Repubblica ad ottenere il prestigioso riconoscimento.
Lo ha deciso il Comitato dell'Unesco che vaglia le candidature, riunito per la trentaduesima volta nella sua storia, in Canada, a Quebec City, in una sessione fiume che terminerà domani. Tra ieri e lunedì, il Comitato ha aggiunto alla lista dei siti bollati «World Heritage » 27 località, diciannove scelte per l'importanza culturale e otto per quella naturale. Una massiccia infornata che si va ad aggiungere agli 851 siti già presenti nelle liste dell'Unesco, aperte nel 1972, e che rende più saldo il primato assoluto italiano. Con l'ingresso di Mantova e Sabbioneta — la «Piccola Atene» voluta dal duca Vespasiano Gonzaga — e della ferrovia dell'Albula e del Bernina (a metà con la Svizzera), l'Italia arriva ora ad avere 43 siti riconosciuti di «eccezionale valore universale» e dotate dei requisiti di «autenticità e integrità». Quest'anno, però, uno dei portabandiera del made in Italy ambientale rischiava di vedersi scippato il bollino Unesco: l'arcipelago delle Eolie. Scongiurata dai commissari di Quebec City l'ipotesi di cancellazione, le isole escono dalla lista dei beni a rischio ma restano comunque delle «sorvegliate speciali» dall'Unesco. Punti caldi, la chiusura delle cave di pomice, i lavori di costruzione del porto e la gestione complessiva del sito da parte di un organismo unico. Una sconfitta sventata accanto alle vittorie della Ferrovia Retica e del duo Mantova/ Sabbioneta, scelto dall'Unesco perché fotografa aspetti diversi dello stesso genio rinascimentale, da una parte impegnato nel «rinnovo e nell'ampliamento di una città già esistente», dal-l'altra nella pianificazione di una italianissima città ideale. Uscendo dall'Italia, tra le new entry assolute di quest'anno, oltre a San Marino, ci sono Papua Nuova Guinea con il sito di agricoltura primitiva di Kuk, l'Arabia Saudita con le archeologie di Al-Hijr e i resti del palazzo e della tomba del re Mata a Vanuatu. Si aggiudicano un posto in lista anche due città della Malaysia — Melaka e George Town —, la pianura di Stari Grad in Croazia, le fortificazioni erette in Francia da monsieur Sébastien de Vauban, ingegnere militare del Re Sole, un complesso di sei edifici costruiti a Berlino tra il 1910 e il 1933, le chiese di legno dei Carpazi, in Slovacchia. E ancora, il tempio cambogiano di Preah Vinear, il sito di Joggins in Nuova Scozia (Canada), il monte Sanqingshan in Cina, il villaggio di Camagüey a Cuba, le lagune della Nuova Caledonia francese, l'isola di Surtsey in Islanda, le steppe di Saryaka in Kazakhistan, la foresta sacra di Mijikenda Kaya in Kenya, l'arcipelago yemenita di Socotra, la regione del Sardona in Svizzera, ben tre siti messicani (San Miguel, il santuario di Jésus di Nazareth e la riserva della farfalla Mariposa Monarca), i monasteri armeni del-l'Iran, i Tulou del Fujian in Cina, la penisola di Le Morne (Mauritius) e i luoghi santi Baha'i in Israele.

Corriere della Sera 9.7.08
Una biografia di Haj Amin al-Husseini riaccende la discussione. Una disputa che divide trasversalmente conservatori e liberal
Islamisti eredi del fascismo. E del comunismo
Dalin e Rothmann: il muftì di Gerusalemme complice di Hitler. Ma Pipes: il vero debito è con il leninismo
di Ennio Caretto


In un libro intitolato Icona del male, sottotitolo «Il muftì di Hitler e la nascita dell'Islam radicale» (Random House), gli storici David Dalin e John Rothmann hanno ricostruito uno dei capitoli più bui della storia musulmana recente, quello di Haj Amin al-Husseini, la massima autorità religiosa e politica della Palestina tra le guerre mondiali. Eletto muftì di Gerusalemme nel 1921 per volontà degli inglesi, Haj Amin si rivelò un despota sanguinario e antisemita. E quando l'Inghilterra aprì la Palestina agli ebrei in fuga dalla Germania nazista, scatenò i moti arabi che culminarono nella rivolta del '36, facendo assassinare indiscriminatamente non solo ebrei, ma anche inglesi e palestinesi dissidenti. Sconfitto, il muftì si rifugiò a Berlino, fornì a Hitler volontari musulmani per le SS e caldeggiò l'Olocausto. In cambio chiese, ma non ottenne, il bombardamento di Gerusalemme e la formazione di un corpo speciale per la «liberazione» della Palestina. Caduto il Terzo Reich, il muftì riuscì misteriosamente a sottrarsi ai processi per crimini di guerra e a riparare in Medio Oriente, dove morì nel '74 «moralmente e politicamente screditato».
Oltre che per la sua minuziosa ricostruzione storica, Icona del male è un libro importante perché ripropone una tesi che riaffiora periodicamente in Occidente a partire dagli anni Sessanta-Settanta, che cioè il nuovo estremismo musulmano affonda le radici nei totalitarismi europei dell'inizio del XX secolo, in particolare nel nazismo e nello stalinismo, entrambi antisemiti, e che quindi l'Europa non è senza responsabilità per la attuale jihad, la guerra santa islamica, e per l'assedio arabo di Israele. Il libro è l'ultimo in ordine di tempo a sostenere questa tesi, lo hanno preceduto numerosi altri tra cui La quarta guerra mondiale (edito in Italia da Lindau) di Norman Podhoretz, il padre dei liberal ultras trasformatisi in neocon dopo il '68. Ma la sua pubblicazione ha riacceso un aspro dibattito: se si possa o meno parlare di islamofascismo, «un termine controverso » nota il New Oxford American Dictionary,
«che paragona alcuni movimenti islamici moderni a quelli fascisti dell'Europa del primo Novecento», o se la jihad e l'antisemitismo non siano sempre stati due connotati fondamentali dell'Islam.
Il termine islamofascismo è stato bandito da George Bush, ma tra quanti sostengono che esso sia un termine «valido», che rispecchia i legami tra due ideologie perverse, vi sono il neocon David Horowitz, il liberal Paul Berman, autore di
Terrore e liberalismo (Einaudi), e Christopher Hitchens, un polemista più difficile da etichettare. I tre ricordano che in Europa l'alleanza tra fascismo e religione fu frequente, tanto che si parlò di «clericofascismo » per la Spagna di Franco, la Croazia degli ustascia, la Romania della Guardia di ferro, detta anche «Legione dell'arcangelo Michele», e altri. Hitchens, che al momento dell'attentato delle Torri gemelle denunciò «il fascismo col volto dell'Islam », riscontra nei due movimenti «lo stesso culto della morte e lo stesso disprezzo della mente, la stessa paranoia antisemita e la stessa adorazione del leader ». Berman commenta che entrambi poggiano sul concetto di una società esclusiva e pura, e sulla sete di vendetta per le umiliazioni loro inflitte dalla storia. Horowitz ha persino condotto una campagna contro l'islamofascismo nelle università per mobilitarle come contro Hitler nel '41.
Questi giudizi erano già stati espressi da vari storici e politologi. Nel '63, Manfred Halperin, un professore di Princeton, ammonì che «il movimento neoislamico emergente è parafascista». Nel '79, il francese Maxime Rodinson definì la rivoluzione di quell'anno in Iran «fascismo arcaico». Nel '90, l'inglese Molise Rutheven usò per primo il termine islamofascismo. E nel '96 Walter Laqueur, nel libro
Fascismi. Passato, presente e futuro (appena uscito in Italia da Marco Tropea), evidenziò «le simpatie fasciste dei Fratelli musulmani e delle forze laiche in Egitto, Iraq e Siria negli anni Venti e Trenta». Secondo alcuni pensatori di oggi, tuttavia, dal liberal Peter Beinart allo storico inglese Tony Judt, al docente di storia delle religioni John Kelsay, all'arabista Daniel Pipes, islamofascismo è un termine improprio. Beinart ribatte che «il fascismo adora lo Stato, che per i musulmani è invece una imposizione pagana che minaccia la loro unità». Judt protesta che «il termine è semplicistico perché la jihad e l'Islam non sono la stessa cosa». Kelsay obietta che «il mainstream musulmano è moderato ma al momento perdente».
A sostenere che, più che al fascismo, l'estremismo islamico vada collegato allo stalinismo è Daniel Pipes, un neocon. A suo parere, esso «ha vincoli storici e filosofici con il marxismo-leninismo». Pipes cita l'interpretazione data da Sayyd Qutb, l'ideologo dei Fratelli musulmani, della dottrina marxista delle fasi della storia: «Prima crollerà il capitalismo, poi il comunismo, infine si creerà un'era eterna dell'Islam». L'arabista fa sua anche l'affermazione dell'iraniana Azar Nafisi che «oggi l'Islam attinge tanto alla religione quanto a Lenin e Stalin». Stando a Pipes, il radicalismo islamico ha una quinta colonna in Occidente: «Gli irriducibili marxisti leninisti che hanno stipulato con esso un patto simile a quello tra Stalin e Hitler nel '39». Ma come quella di Berman, Hitchens e Horowitz, la sua analisi è contestata non solo da Beinart, Judt e Kelsay, bensì anche dagli storici — una minoranza — che riscontrano nell'espansione dell'Islam nei secoli un «imperialismo religioso ». È il caso di Lee Harris, che gli attribuisce l'obiettivo permanente di rendere il mondo «suddito di Allah».
Liceità dei termini islamofascismo e islamomarxismo a parte, su un punto emerge un certo consenso: che gli estremisti musulmani si siano ispirati alla strategia delle dittature europee, se non anche alla loro ideologia. L'inglese Lawrence Freedman lo evidenzia nel libro La scelta dei nemici (PublicAffairs) dove illustra due «onde» nell'attuale guerra dei radicali islamici contro l'Occidente. La prima, spiega, fu quella degli anni Cinquanta e Sessanta, quando i musulmani nazionalisti combatterono il colonialismo e predicarono il secolarismo, una doppia rivoluzione, esterna e interna. La seconda iniziò negli anni Ottanta, in seguito al fallimento della prima, impersonata da Nasser in Egitto e dallo scià in Iran. La loro sconfitta, proclama Freedman, diventò la prova che per sconfiggere il nemico l'Islam doveva recuperare il proprio fondamentalismo religioso. Ma i metodi di lotta non cambiarono nella seconda onda, tuttora in corso. Come in Europa, si tratterebbe comunque di una fase della storia, non del permanente Scontro di civiltà di Samuel Huntington, su cui si polemizza ormai quasi da vent'anni.

Corriere della Sera 9.7.08
L'uscita dei «Diari di guerra» nella Pléiade di Gallimard riaccende antichi rancori
La Francia pubblica Jünger, lite in Germania
di Mara Gergolet


BERLINO — Se c'è un canone della letteratura mondiale, cercatelo nella Bibliothèque de la Pléiade. La pubblicazione dei Diari di guerra di Ernst Jünger nella collana della Gallimard, la più prestigiosa cui un autore possa aspirare in Francia, proprio questo doveva essere (ed è): l'ufficiale consacrazione dello scrittore tedesco a gigante della letteratura mondiale. Non a caso, vi si trovano solo due autori di lingua tedesca del Novecento, Kafka e Brecht. Non Thomas Mann, o Alfred Döblin, o Joseph Roth.
Invece la pubblicazione dei Journaux de guerre I. 1914-1918, II. 1939-1948 (Bibliothèque de la Pléiade. Éditions Gallimard, pp. 2.250, e 115) con i romanzi e scritti politici tra le due guerre (tra gli altri: Nelle tempeste d'acciaio e
Boschetto 125) ha scatenato una forte polemica sui giornali tedeschi. Con aperte accuse alla Francia di volere, con questa pubblicazione, riabilitare il collaborazionismo.
L'attacco più duro è quello dello scrittore George-Arthur Goldschmidt sulle pagine della Frankfurter Rundschau. L'inclusione di questo «mistificatore fascistoide» tra gli spiriti eletti delle lettere francesi — dice Goldschmidt — è un altro segnale dello scarso interesse della Francia per la letteratura tedesca che s'è opposta al nazismo. Peggio ancora, sostiene Goldschmidt. Nella scelta «politica » di includere Jünger s'esprime tutta la maladie française: quel sottile e ostinato rifiuto di elaborare le colpe del collaborazionismo, anzi a tollerarle, che s'è fatto più evidente col nuovo corso di Sarkozy.
Ma quale malattia francese, quale grand Pétainismus che si fa strada nei salotti francesi!, gli risponde la critica Julia Encke.
E sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung non solo respinge le accuse. Le rovescia.
Il vero problema — sostiene — è tedesco: che dopo tutti questi anni non esista una edizione commentata degli scritti tra le due guerre in tedesco, anzi che un'edizione critica di Jünger non esista affatto. Tanto più grave nei confronti di un autore che ha più volte rivisto i suoi testi, e che dopo il 1933, quando rifiutò il seggio offertogli da Hitler al Reichstag, estirpò dai primi romanzi molti dei passaggi che potessero favorire la propaganda hitleriana.
L'edizione commentata della Pléiade, in effetti, colma una lacuna in senso opposto. Perché lo Jünger «politico» è stato semmai sottovalutato in Francia, dove (a partire da Gide) l'autore è stato amato più che in patria. E nell'introduzione all'opera, riaffermando di aver ristabilito anche le versioni più antiche, lo si riconosce: «Quest'edizione vuole offrire al lettore francese la possibilità di crearsi un'opinione precisa su un autore così discusso: il violento nazionalismo e militarismo dei testi del 1924-26 hanno infatti avuto, nella percezione di Jünger in Germania, un peso cruciale ». Esemplare, secondo la Encke, il commento a uno dei passaggi più celebri dei Diari
del 1944: quando Jünger a Parigi, ufficiale del Reich all'Hotel Majestic, guardando il tramonto con un bicchiere di vino in mano, si lascia andare a una cinica (e mistica) esaltazione dello sterminio.
Una polemica che non poteva non chiamare in causa la casa editrice di Jünger, il Klett-Cotta Verlag. «Faremo di tutto per pubblicare un'edizione commentata dei Diari di guerra », dicono. La Germania, intanto, aspetta (o legge in francese).

Corriere della Sera 9.7.08
Seconda generazione Yamina e gli altri: ragazzi islamici a Roma
«Noi, diploma in tasca e rischio di espulsione»
di Maria Egizia Fiaschetti


Dopo la «x», arrivano i «g2». Tradotto: seconde generazioni. Sono i figli degli stranieri, nati in Italia o immigrati in età pre-scolare. A Roma, nel 2006 la fascia 6-17 anni sfiorava quota 22.500. Nel 2020, si stima che gli under 15 aumenteranno tra il 14 e il 18 per cento. «Su questo terreno si misurano le politiche dell'integrazione: serve un provvedimento legislativo, in sinergia con le associazioni», ha ribadito di recente il sottosegretario al Lavoro, Eugenia Roccella, nel suo intervento alla «Giornata del minore » organizzata dal Centro Averroè. «Bisogna cambiare mentalità - sottolinea Karima Moual, presidente dell'associazione "Genemaghrebina" -. Questi ragazzi non vogliono diventare italiani, sono italiani al cento per cento». Cadenza romana, Fatema conferma: «Ci sono nata, il mio futuro è qui». Sembrerebbe scontato, ma a 19 anni non ha ancora il permesso di soggiorno. «Mio padre è scappato in Egitto: senza la sua firma non mi rilasciano il passaporto. Per ora ho il titolo di viaggio, come i rifugiati».
Algerina, Yamina vive a Roma dall'età di due mesi. Anche lei vittima della burocrazia: «Mio padre ci ha abbandonato, sono stata in collegio e nelle case occupate. Tra poco sarò maggiorenne, vorrei diplomarmi, ma senza documenti rischio l'espulsione». Mai un viaggio all'estero, è curiosa di conoscere le sue radici: «Non mi sento italiana né algerina: sono una via di mezzo. Mi hanno sempre rispettato, ma non mi piace quando ci attaccano per il solo fatto di essere stranieri». Contro il pregiudizio, la solidarietà femminile può fare molto: «Difendere i diritti delle donne - ha ricordato la Roccella - è la migliore garanzia d'integrazione». Proprio come insegnano alla scuola Di Donato, rione Esquilino, modello d'intercultura. «Con i corsi d'italiano si rompe il ghiaccio, poi scatta l'invito a pranzo », spiega Francesca, presidente dell'Associazione genitori, che passerà le vacanze con una famiglia siriana. Nell'enclave protetta delle amicizie scolastiche anche loro, i «g2», imparano a conoscersi. «Quando esco, vado a casa delle mie compagne di classe», dice Sara, tredicenne di Damasco. Riccioli biondi e occhi blu, si prepara a indossare l'hijab. Dispiaciuta? «L'ho accettato, penso sia normale». A suo agio persino durante il ramadan, la religione non è un ostacolo: con i coetanei ha altre affinità, dal look d'ordinanza - jeans e sneakers - alla passione per «I Cesaroni». Capelli lunghi e pantaloni oversize, allo studio Sepehr preferisce lo skate-board. Iraniano, è un fan della fiction più amata dagli adolescenti, ma «dopo l'ultima pagella - confessa - niente tv». Seduttore nato, per fare colpo gli basta scrivere: «Vuoi fare txt?» (scambiare messaggi con il cellulare, ndr). «Rispondono tutte », assicura. Disinvolto anche nell'approccio alla religione, si professa «teista». Ovvero: «Credo nel dio amico». Nessuna deroga, invece, per i giovani che la domenica frequentano la moschea di Centocelle: il Corano non si discute. «Oltre a pregare, parliamo di adolescenza e integrazione », spiega Imen, la coordinatrice. Velo e abiti scuri, Takoua li indossa anche al mare: «Ci vado di notte, di giorno è troppo affollato». Feste? «Solo tra ragazze: balliamo il reggaeton e ascoltiamo musica napoletana». Quindici anni, egiziana, Susanna indossa l'hijab da quando ne aveva cinque. Mai provato imbarazzo? «All'inizio i compagni erano curiosi, poi hanno capito che è un pilastro dell'Islam e lo rispettano ». Stesso rigore per i ragazzi: «Frequento le case dei miei amici arabi ed esco solo per giocare a calcio», dice Omar. Il suo rapporto con Allah? «Mi guida verso il bene, al rispetto dell'altro e a impegnarmi nello studio. Teniamo molto agli adolescenti, a differenza di altre religioni: i miei ex compagni delle medie fumano, si drogano ». Delusa dall'Occidente, a ventuno anni Aisha ha riscoperto le sue radici. Padre romano e madre musulmana, dice: «Ero troppo integrata e ho sentito il bisogno di riavvicinarmi alla tradizione. Sto pensando di indossare il velo, ma prima devo rafforzare la mia fede».

La Provincia di Latina 8.7.08
A Roma, in uno spettacolo dedicato alla figura di Giordano Bruno
«Le voci del rifiuto»
Nell’ambito della mostra di Roberta Pugno
di Fabio Pedone


Roberta Pugno è un’artista che sa pensare, il cui gesto insegue immagini in costante dialogo con i filosofi che hanno segnato il passaggio alla modernità, e con uno in particolare: Giordano Bruno. Ispirata, istigata, entusiasmata dalle visioni cosmiche e infinite dell’’academico di nulla academia’, Roberta gli ha dedicato intere serie pittoriche e mostre a tema, una delle quali tenutasi recentemente anche a Sermoneta presso la galleria ‘Il chiodo’. Giordano Bruno si rinnova nell’esperienza di Roberta Pugno con un progetto in preparazione a Roma: ‘Le voci del rifiuto’, che torna nella Capitale dopo essere stato portato in scena a Villa Piccolomini, al teatro La Casetta e al Flaiano negli ultimi 3 anni. L’atto unico ideato, scritto e realizza-to da Roberta Pugno verrà presentato l’11 luglio a Pineta Sacchetti, presso la Casa del Parco, nel quadro della mostra di Roberta Pugno inaugurata invece alcuni giorni fa, sempre nello stesso luogo. L’evento ha il patrocinio del Comune di Roma e delle Biblioteche di Roma, ed è sponsorizzato da Federlazio di Latina e dalla casa editrice Ibiskos.
Lo splendido casale di Pineta Sacchetti, rinnovato da un recente restauro, si muta per l’occasione in teatro notturno destinato ad accogliere uno spettacolo che esplora il dramma della solitudine del pensiero; e alle spalle del pubblico un vasto paesaggio di distese di campi di grano prepara la visione della cupola di San Pietro. “Le voci del rifiuto” racconta uno scontro mortale: quello tra un pensiero che rivoluzionò visione del mondo e concezione dell’uomo nel pieno del Rinascimento, e la realtà violenta dell’intolleranza e della falsità, delle gerarchie ecclesiastiche e dei pedanti intenzionati a imporre l’obbedienza persino con la tortura e la morte. Il Nolano, filosofo superbo, allegro e appassionato, «in tristitia hilaris, in hilaritate tristis», come recita un suo caro motto, passa da un’immagine all’altra, da un concetto all’altro: viaggiando come anima e materia libera per l’universo infinito, la pluralità dei mondi, lo spazio continuo, la sostanza sensibile di cui siamo fatti, la dualità dei contrari, l’incessante trasformazione della materia, l’intelligenza dell’amore.
L’altro è un contraddittore invisibile e nero, che usa il potere per legittimare il sospetto, e con voce immobile decreta la fine del corpo di Giordano Bruno. Una figura femminile viene incontro al pubblico con passi di danza e movimenti curvi: e sembra chiedere «da dove nasce il rifiuto? da dove nasce il coraggio? da dove la certezza? ». La certezza nasce dal coraggio, la profondità del pensiero dall’intelligenza dell’amore e dalla libera volontà di offrire se stessi ora e sempre, interi, per la verità, consumandosi nel mondo. Il suono del sax, che si intreccia alla voce maschile e che accompagna lo stupore della donna, ricorda quanto sia attuale il rifiuto del pensiero religioso e del pensiero razionale. E di quanto oggi più che mai sia indispensabile ricercare bellezza e verità, intrecciate insieme in una testimonianza autentica, liberamente offerta.