venerdì 11 luglio 2008

l’Unità 11.7.08
Impronte, l’Europa accusa il governo italiano: razzisti
di Paolo Soldini


L’Europarlamento mette in mora il governo italiano. Un vero e proprio schiaffone: con 336 voti a favore, ha approvato la della risoluzione che condanna la schedatura dei piccoli rom, 220 i no, 77 gli astenuti. A favore votano le sinistre, l’estrema del Gue, il gruppo socialista e i verdi, ma anche i liberal-democratici, nonché 21 eurodeputati popolari, tra i quali molti rumeni, molti tedeschi, i francesi (tra cui l’ex presidente del Parlamento europeo Nicole Fontaine), i belgi (l’ex primo ministro Jean Luc Dehaene), gli olandesi. Il testo approvato afferma esplicitamente che la raccolta delle impronte ai rom «costituirebbe chiaramente un atto di discriminazione diretta fondata sulla razza e l'origine etnica».

Dura reazione dei ministro dell'Interno Maroni e degli Esteri Frattini: «Siamo indignati».

LO SCHIAFFONE AL GOVERNO ITALIANO arriva poco prima delle dieci del mattino. E fa male: 336 voti a favore della risoluzione che condanna la schedatura dei piccoli rom, 220 no, 77 astenuti. A favore di quella che Maroni, Ronchi e (vergognandosi un po’)
Frattini chiameranno la «mozione strumentale della sinistra» votano, certo, le sinistre, l’estrema del Gue, il gruppo socialista e i verdi, ma anche i liberal-democratici che di sinistra certo non sono. E, sollevando un caso politico che avrà certamente qualche seguito, anche 21 eurodeputati popolari, tra i quali molti rumeni (e si spiega), ma anche nomi che contano tra i tedeschi (come l’ex presidente della commissione Affari Esteri Elmar Brok, due personalità della cultura politica cristiana come il cattolico renano Karl Heinz Florenz e Christian Ehrler, Hans Peter Mayer), i francesi (tra cui l’ex presidente del Parlamento europeo Nicole Fontaine e Patrick Gaubert), i belgi (l’ex primo ministro Jean Luc Dehaene), gli olandesi, con Lambert van Nostelroij.
Non è solo una smentita preventiva alle chiacchiere con cui i tre ministri italiani si presenteranno il pomeriggio alla conferenza stampa, convocata per le 15 di ieri quando ancora si pensava che il voto a Strasburgo sarebbe stato la sera, ma anche il segnale di un onesto dissenso di principio, esercitato in nome della coerenza con i propri valori religiosi.
All’apertura del dibattito aveva parlato il commissario Jacques Barrot, che quando Frattini è stato chiamato a Roma a fare il ministro degli Esteri ne ha preso il posto alla Giustizia. Barrot ha in mano la «insufficiente» risposta del governo italiano alle due lettere (la sua e, prima, quella del commissario agli Affari Sociali Vladimir Špidla) con le richieste di «chiarimenti». Il commissario, contrariamente a quanto affermerà più tardi Maroni, non chiede affatto «il rinvio del dibattito», in primo luogo perché non ne avrebbe l’autorità, in secondo luogo perché non ha alcuna intenzione di farlo. Dà però due notizie che i ministri del nostro governo si erano ben guardati dal comunicare all’opinione pubblica italiana: la prima è che per il rilevamento delle impronte di minori inferiori ai 14 anni (ora) è prevista l’autorizzazione di un giudice; la seconda è che il caso di Napoli, dove le schedature erano partite alla grande nelle settimane scorse, viene definito «isolato» e «da rettificare» dal ministro dell’Interno. Il quale, tomo tomo cacchio cacchio, sta evidentemente già preparando la ritirata.
Se ritirata sarà, come certe insistenze di Frattini sul fatto che le identificazioni possono avvenire anche senza impronte farebbe pensare, arriverà comunque troppo tardi. «La Commissione - dice Barrot - è molto vigile e svolgerà pienamente il proprio ruolo di guardiana dei Trattati» e i rom - aggiunge Špidla - «debbono essere aiutati, non stigmatizzati». È lo stesso principio affermato da un emendamento alla risoluzione elaborato e votato unanimemente da tutti gli esponenti del Pd nel parlamento europeo: gli Stati membri debbono «intervenire con decisione a tutela dei minori...di qualunque etnia e nazionalità siano». Laddove la loro identificazione «sia utile a tal fine», le autorità nazionali debbono «effettuarla caso per caso attraverso procedure ordinarie e non discriminatorie, nel pieno rispetto di ogni garanzia e tutela giuridica». Appunto.
Garanzia. Tutela: «La risoluzione di censura contro l’ordinanza del ministro Maroni, approvata a Strasburgo con un consenso largo e trasversale , denuncia l’irrimediabile anomalia del governo italiano», dichiara l’eurodeputato del Pse Claudio Fava, coordinatore nazionale di Sinistra democratica. «Per fortuna esiste un parlamento, in Europa, in cui il concetto di razza è ancora considerato una vergogna giuridica e civile». E Gianni Pittella (Pd), presidente della delegazione italiana nel gruppo Pse, chiede che «ora il governo si fermi», rispetti «la forte preoccupazione e sulla sua azione e ne valuti la compatibilità con la normativa europea e i princìpi fondamentali dell’Unione». Rinsavite, poi ne riparleremo.

l’Unità 11.7.08
Sorvegliati speciali


Nel codice civile c’è l’istituto dei danni morali. Chi è leso nella dignità, nell’immagine pubblica, nell’onore ha diritto di chiedere un congruo risarcimento ai responsabili del danno. Ecco: come cittadini italiani chiediamo i danni morali a Roberto Maroni, ad Andrea Ronchi, a Franco Frattini e a tutto il governo Berlusconi. Non li denunceremo davanti a un tribunale perché non è questione di magistrati. È questione di coscienza, di morale (sì: morale), di sensibilità, di fedeltà ai valori liberali e democratici, e anche di buon senso, di pura e semplice intelligenza.

Ma anche di conoscenza del mondo in cui viviamo e della storia dalla quale veniamo, persino di banale capacità di amministrare la cosa pubblica. L’ordinanza razzista con cui il ministro dell’Interno ha ordinato a tre commissari arbitrariamente nominati di organizzare il prelievo delle impronte digitali ai bambini rom e sinti (o “nomadi”, come a un certo punto ha cominciato a dire Maroni incurante o inconsapevole del fatto che di nomadi in Italia ci sono solo rom e sinti) è stata bollata da una maggioranza di oltre cento voti al parlamento europeo. Per la risoluzione che condanna le ordinanze del governo italiano, che era stata presentata dai socialisti, dalle sinistre radicali, dai verdi e dai liberali, hanno votato anche 21 eurodeputati popolari, che non se la sono sentita di venir meno ai propri princìpi ideali e religiosi dopo che era fallito il debole tentativo dei dirigenti del gruppo Ppe di rinviare il voto a settembre. Sperando intanto che Maroni e compagni si ravvedessero o trovassero qualche dignitosa via d’uscita dall’impasse.
Neppure i più anziani frequentatori delle istituzioni europee ricordano il precedente di un Paese dell’Unione (uno dei Paesi fondatori della Comunità europea) che sia stato condannato dal voto parlamentare su una questione che riguarda i diritti civili fondamentali, le regole più elementari del principio dell’eguaglianza e del rispetto della democrazia. Neanche contro l’Austria quando al governo fu associato il razzista e xenofobo Jörg Haider conobbe quest’onta. Anche perché il cancelliere Wolfgang Schüssel fu meno incapace e supponente dei nostri ministri e trovò la strada per evitare il redde rationem. Abbiamo stabilito un record, che pagheremo tutti. E lo abbiamo stabilito in un tripudio di ipocrisia che rende la vicenda, se possibile, ancora più rivoltante. Alle lettere con richieste urgenti di spiegazioni inviate dai commissari Vladimir Špidla /Affari sociali) e Barrot il governo di Roma aveva risposto l’altra sera a tardissima ora e ad uffici chiusi, nella sciocca speranza che l’arrivo di una “spiegazione”, quale che fosse, valesse a far rinviare il voto di ieri mattina. I commissari invece la lettera l’hanno letta e l’hanno trovata, come ha detto ieri Barrot, “insufficiente” perché risponde su un punto solo dei tanti sollevati dalla Commissione e ribaditi dalla risoluzione. Ancora ieri, poi, lo stesso Maroni, l’inutilissimo ministro Ronchi ha riraccontato la stolta favola secondo cui il rilevamento delle impronte digitali servirebbe a “tutelare” i piccoli rom e non a schedarli. Senza rendersi conto, come non se ne era reso conto il tutolare dell’Interno nei giorni scorsi, che si tratta esattamente della stessa scusa con cui vennero presentate le schedature degli ebrei dopo l’introduzione in Italia delle leggi razziali nel 1938. Suvvia, signori: se non qualche libro di storia, almeno i giornali potreste fare lo sforzo di leggerli.
L’Unione europea, è scritto nella risoluzione ed è stato affermato in aula dal commissario alla Giustizia Jacques Barrot, chiede che le autorità italiane non utilizzino le impronte già prese ai bambini, rinuncino a prenderne di nuove e modifichino le ordinanze in ogni punto in cui viene violata la normativa europea. Una volta, dalle parti nostre, si parlava di “vincoli esterni” per dire che l’Italia, incapace di mettere ordine nei propri conti di bilancio e nelle sue pratiche economiche, trovava per fortuna nell’Europa comunitaria e poi nell’Unione gli obblighi che non riusciva a imporre a se stessa. Ecco: ora abbiamo un vincolo esterno che riguarda non l’economia ma la democrazia, il diritto, le leggi della morale (sì: la morale). Se quella d’un tempo non ci faceva piacere, questa limitazione dall’esterno ci pare, ora, motivo di una profonda vergogna.
Siamo sorvegliati speciali. Grazie tante, ministro Maroni.

l’Unità 11.7.08
Il paradiso padano
di Maria Novella Oppo


LORO tireranno diritto, secondo la peggior tradizione nazionale. Sebbene a dichiararlo in tv sia stato il padano Cota, che di nazionale non ha proprio niente, essendo, a rigore, un extracomunitario, cioè uno che non appartiene all’Italia e tanto meno all’Europa. Dove, è chiaro, la maggioranza è composta da comunisti, come comunisti sono tutti quelli che giudicano Berlusconi un impunito. Mentre quelli che gli regalano (anzi: gli vendono) l’impunità contro ogni principio liberale, sono dei veri liberali. E liberale è pure Roberto Maroni, che vuole «soltanto» fare una schedatura etnica, nella quale i rom (anche i bambini) saranno obbligati a dichiarare non solo a che razza appartengono, ma anche a che religione. Quasi che, dopo aver discriminato le loro persone, il governo volesse discriminare anche le loro anime (alle quali purtroppo non si possono prendere le impronte). Infatti, i bravi leghisti sono convinti che Dio abbia creato un paradiso esclusivamente padano, dove saranno padroni a casa propria di essere razzisti anche da morti.

l’Unità 11.7.08
Renzo Gattegna. Il presidente delle Comunità ebraiche italiane: superare le diffidenze scatenate dalle differenze
«No a intimidazioni a gruppi etnici»
di Francesco Sangermano


Presidente Gattegna, il Parlamento europeo ha deciso di «bocciare» l’ipotesi italiana di prendere le impronte digitali ai bambini rom. Cosa ne pensa?
«Non ho ancora letto la risoluzione, ma posso dire che per le comunità ebraiche qualsiasi tipo di discriminazione è inaccettabile. Le stesse leggi devono essere applicate a tutti. E siccome le leggi italiane consentono alle forze dell’ordine di garantire la sicurezza e l’ordine pubblico credo sia giusto applicare quelle senza far ricorso a leggi speciali. In questo modo i problemi possono essere affrontati in maniera conforme ai principi sanciti dalla Costituzione italiana».
Come giudica la proposta avanzata dal ministro Maroni?
«Credo che dobbiamo vigilare perché le giuste e necessarie azioni repressive verso coloro che violano le leggi non si trasformino in azioni di intimidazione o di discriminazione verso gli interi gruppi di appartenenza. Oggi che la Costituzione garantisce le libertà e i diritti di tutti ripensiamo spesso alla nostra esperienza, soprattutto quando le notizie della cronaca e della politica ci ripropongono temi come il razzismo, la diversità, gli stranieri immigrati».
Ma è davvero questo l’aspetto prioritario su cui intervenire per risolvere la questione sicurezza?
«Io penso che il nodo principale restino i grandi gruppi di delinquenza organizzata presenti in Italia. È lì che lo Stato italiano deve concentrare i suoi sforzi. Perché quelle realtà possono attirare anche parte di quegli immigrati che vivono situazioni di abbandono, disagio, povertà e mancanza di lavoro. Combattendo gli uni si combattono anche gli altri».
Settant’anni fa nel mirino finirono gli ebrei, oggi ci sono i rom. Vede qualche analogia?
«Parlare di analogie sarebbe esagerato. E forse anche dannoso. Perché significherebbe accostare la dittatura di ieri alla democrazia di oggi col rischio di provocare esasperazioni del fenomeno. Direi piuttosto che la realtà attuale ci propone il senso di impotenza e di esasperazione delle persone. Sono sentimenti preoccupanti che possono trasformarsi in sfiducia nello Stato e nelle sue istituzioni. Per questo motivo è necessario dare una risposta alle istanze di sicurezza della collettività, facendo però grande attenzione a un particolare».
Quale?
«Che tutti hanno il dovere di osservare le leggi. E tutti hanno il diritto di essere giudicati solo sulla base dei propri comportamenti. Le leggi esistono e devono essere rispettate o, se necessario, modificate. Ma non si deve assolutamente permettere che cada il principio della presunzione di innocenza e venga sostituito dall’esatto contrario, la presunzione di colpevolezza nei confronti di un gruppo etnico. Questo sarebbe razzismo. La soluzione migliore è cercare piuttosto di conoscere e valorizzare tutte le diversità. Le diffidenze si vincono con la conoscenza».
Eppure si è diffusa una cultura della paura. Dopo gli anni terribili della persecuzione e dell’Olocausto, come giudica oggi il rapporto della comunità ebraica con l’Italia?
«La discriminazione negli anni del nazi-fascismo ha segnato la vita dei nostri genitori. Allora pochi si opposero e la stragrande maggioranza degli italiani appoggiò o subì i provvedimenti. In quel mondo, tra l’altro, l’Italia perse il contributo di civiltà che le comunità ebraiche le avevano sempre assicurato. Oggi, con la nostra esperienza di venti secoli di presenza in Italia, possiamo invece assicurare che superare le diffidenze scatenate dalle differenze non è facile, ma è possibile. E si può davvero vivere integrati mantenendo ognuno la propria identità».

l’Unità 11.7.08
San Rossore: no a xenofobia in nome della sicurezza
f.san.


La colonna sonora è Fabrizio De André. La sua Khorakhanè (canzone dedicata alla tribù rom di provenienza serbo-montenegrina) fa da sottofondo a questa prima giornata del meeting di San Rossore organizzato dalla Regione Toscana «contro ogni razzismo». Una giornata che si apre con le parole del presidente della Regione Toscana Claudio Martini («Non si possono fare concessioni alla cultura xenofoba per cercare di dare una risposta alla domanda di sicurezza») e si chiude con la provocazione di Moni Ovadia che propone «un Nobel per la Pace per il popolo Rom e Sinti». Sugli schermi al plasma che conducono al tendone principale dedicato a Gandhi, scorrono immagini provenienti da YouTube. Poi, improvviso, un lungo applauso accoglie la notizia della bocciatura da parte del Parlamento europeo della «schedatura» proposta da Maroni. «Lui difende le sue posizioni ma su questa linea il governo si scontra contro l’Europa» commenta Martini. È l’unica concessione alla polemica politica di una giornata che si lascia guidare dal filo delle emozioni. Quelle che rievocano nella lettura teatrale Pogrom 1934, storia degli italiani emigranti, marchiati e discriminati tra la Camargue di fine ’800 e l’America e l’Australia di inizio secolo fino alla persecuzione nazi-fascista. Eppoi nel manifesto degli scienziati antirazzisti, 10 punti che ribaltano specularmente il documento che, 70 anni fa proprio qui, portò il re Vittorio Emanuele III a promulgare le leggi razziali. Infine nella telefonata di Ingrid Betancourt, a ringraziare la Toscana per l’impegno profuso prima e dopo la sua liberazione e nelle parole di Pietro Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz, che ha raccontato la «vita» dei rom nei lager. Una vita senza dignità. Fino alla morte.

l’Unità Firenze 11.7.08
Terracina: «Il crimine peggiore?
Un popolo che chiude le finestre»
di v.b.


Suo padre gli fece fare una promessa. «Giurami - disse uscendo dalla caserma di Roma dove a tutta la sua famiglia, bambini compresi, erano state prese le impronte digitali - che non perderai mai la dignità». Mentre ricorda la sua deportazione ad Auschwitz, Pietro Terracina si commuove: «Non sono sicuro di aver mantenuto quella promessa, non si poteva sopravvivere senza perdere la dignità». Aveva 15 anni, ma dovette salire lo stesso sul carro merci che lo scaricò, da solo, a Birkenau. «Ero nel settore D, al di là del filo spinato vedevamo, nel settore E, intere famiglie Rom. Li invidiavo perché a loro avevano lasciato i vestiti e i capelli, ma soprattutto perché avevano con sé i loro bambini». Nell’agosto del ’44, un gran rumore nella notte. «Sentimmo spari, urla disperate. Poi il silenzio». La mattina dopo il settore E era pieno di ebrei ungheresi: tutte quelle famiglie Rom erano state sterminate in 2 ore. «Per commettere i peggiori crimini non servono grandi personalità criminali, basta un popolo che chiude le finestre per questo ho paura quando sento dire che ai bimbi Rom si vogliono prendere le impronte. Io so cosa vuol dire essere schedato, mi chiedo se lo sappia chi propone tali soluzioni».

l’Unità 11.7.08
«Diaz, sui verbali degli arresti firme fantasma»
G8, il pm al processo ai 29 poliziotti: le dichiarazioni degli imputati? Acque paludose
di Maria Zegarelli


L’ex capo Digos: «Io accanto al corpo del reporter pestato? Nemmeno l’ho visto» La videocamera sì

«PASSIAMO dal fiume di testimonianze degli occupanti della scuola Diaz alle acque paludose delle dichiarazioni degli imputati». Acque paludose nelle quali
si perdono i ricordi di chi la notte del 21 luglio decise,ordinò e prese parte all’irruzione nella scuola Diaz-Pertini durante il G8, a Genova. Chi picchiò, chi perquisì, chi entrò prima e chi dopo. Vuoti e lacune. E una «macchia indelebile» che resta agli atti: quella firma illeggibile di chi firmò gli arresti dei 93 occupanti. Ancora oggi non si sa chi fu l’ignoto sottoscrittore. Si sa per certo che non figurano le firme di Giovanni Luperi e Francesco Gratteri, alti funzionari di polizia. Non firmarono un atto. Penultima udienza prima della richiesta delle pene per i 29 tra alti funzionari e agenti di polizia sotto processo.
Focus del pm Enrico Zucca sul «dopo-pestaggio». Tesi dell’accusa: nulla quella notte fu conseguenza di improvvisazione o confusione. «L’intera catena di comando era presente sui luoghi», dunque tutti sono responsabili. Dice Zucca: «Dopo l’irruzione nella Diaz, assistiamo ad atti di polizia giudiziaria che non furono eseguiti secondo la prassi e il codice di procedura penale. Fu inquinata l’area bonificata. Ci fu corruzione e pervertimento della funzione che la polizia avrebbe dovuto svolgere». E da qui parte la minuziosa descrizione di quel «dopo» che non è meno inquietante del «prima» - la «macelleria messicana» -. Per giustificare l’arresto di massa dei 93 occupanti la Diaz furono raccolte «prove false» della permanenza in quella sede dei pericolosi black block. Un ammasso di oggetti sistemati in un angolo della palestra, senza sapere a chi siano stati sequestrati, sommariamente descritti in un verbale - quello a cui tutti i dirigenti sfilati in tribunale fanno riferimento perché colti da amnesia su tutto il resto - e suddivisi per categorie omogenee: coltelli, capi d’abbigliamento neri - definiti tute - attrezzi di lavoro, assorbenti, zaini. Solo un coltello, «di fattura militare» viene attribuito ad un manifestante. «Alcuni testimoni - ricorda il pm - raccontano di un agente che tagliava i capelli ai manifestanti picchiati con un coltello. Il fatto strano è che il coltello non era in dotazione ai reparti mobili». Il pm parla di «anomalie coperte da falsità» e di una «artificiosa creazione degli elementi di prova», per dimostrare che quella scuola «era il covo». Siamo di fronte, aggiunge, «a deviazioni da regole processuali ordinarie». Sono tre i funzionari che si occupano delle perquisizioni e del sequestro: il dirigente della Digos Pifferi; la dottoressa Mengoni e il dottor Filocamo. Nessuno di loro ricorda con esattezza come venne raccolto quel materiale. L’allora dirigente della mobile di La Spezia Filippo Ferri, pur «essendo a capo della squadra che conta i maggiori sottoscrittori di verbali di arresto e sequestro - sottolinea il pm - dice di non essere a diretta conoscenza dei fatti». Poi, ci sono i falsi di Spartaco Mortola, allora capo della Digos di Genova: disse di non aver visto il corpo esanime del reporter inglese Mark Covell massacrato dalla celere ed ecco un video che lo smentisce: c’è lui e la vittima a terra. Mortola parla del lancio di un maglio spaccapietre solo dopo la relazione di alcuni agenti. Ma l’unico che riportò il fatto in un verbale, in aula si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ed ecco Mortola che cambia versione e dice di aver visto egli stesso quegli oggetti cadere dalle finestre. Mortola, «ha fatto credere di essere stato raggirato dai suoi colleghi - dice Zucca - ma è un ingannato senza ingannatori». Idem per il suo vice, il dottor Di Sarro. Canterini, capo del VII reparto della mobile di Roma racconta di aver appreso con disappunto che due dei suoi uomini vennero convocati in questura da Mortola e altri alti funzionari per sottoscrivere i verbali di arresto.Uno dei due, Massimo Nucera, - l’agente che simulò l’aggressione con il coltello da parte di un manifestante - si rifiutò perché non era a conoscenza dei fatti descritti nel verbale. Ma gli fu ordinato di firmare.
Nei verbali tutto è fumoso, sommario. Tutto, tranne un particolare: le molotov - uno dei due pilastri, insieme alle tute, su cui si poggiarono gli arresti - che all’improvviso compaiono. Solo più tardi, nel corso del processo, si scoprirà che a portarle furono proprio gli agenti.

l’Unità 11.7.08
Eluana, tra diritto e medicina
di Carlo Alberto Defanti


È stata resa pubblica mercoledì l’attesissima sentenza della Corte di Appello di Milano sul caso di Eluana Englaro. La sentenza è stata all’altezza della sfida che il caso pone da anni al diritto del nostro Paese. Infatti la Corte di Appello ha accolto le due raccomandazioni formulate dalla Corte di Cassazione nell’ottobre 2007 e ha concluso da un lato che, sulla scorta degli atti, è possibile affermare che lo stato vegetativo in cui versa Eluana è irreversibile (in parole povere, che ella è e resterà in futuro completamente priva di coscienza), e dall’altro che la volontà presumibile di Eluana è conforme alla ricostruzione che il padre e tutore Beppino ne ha fatto sin dalla sua prima istanza di sospensione delle cure. In particolare è stato dato grande rilievo alle testimonianze concordi rese alla Corte dalle amiche di Eluana.
Le due sentenze hanno un carattere profondamente innovativo perché affermano due principii fondamentali: il primo è che nessun trattamento medico è giustificato in assenza del consenso informato del paziente, consenso che può essere reso direttamente o - in caso di impossibilità - ricostruito a posteriori attraverso le testimonianze delle persone a lui vicine, dall’altro che il diritto all’autodeterminazione prevale sul diritto alla vita quando essi si trovino in conflitto tra loro.
Questo per l’aspetto giuridico, ma che dire sotto il profilo medico?
In parole semplici, Eluana ha subito, nel lontano gennaio 1992, un gravissimo trauma che ha comportato la distruzione di gran parte del suo cervello e in particolare delle aree corticali che sostengono la coscienza. In altri tempi il processo del morire, iniziato dal trauma, si sarebbe concluso in poche ore, ma non fu così perché, trasportata in ospedale in stato di coma, ella fu sottoposta alle misure di rianimazione nella speranza che un recupero almeno parziale fosse possibile. Ovviamente ella non poté acconsentire a queste manovre, che furono intraprese certamente in buona fede e nel suo supposto interesse. Va detto che fin da allora il padre fece presente che ella non le avrebbe volute nelle condizioni in cui si trovava, ma non trovò ascolto.
Che cosa accadde? Il processo del morire fu arrestato, ma purtroppo non si manifestò alcun recupero e da allora la giovane visse, sino ad oggi, completamente priva di coscienza, grazie all’alimentazione artificiale. Ora finalmente, grazie alla sentenza, la volontà di Eluana sarà rispettata e il processo del morire, congelato per così dire sedici anni fa, si concluderà. In quanto tempo?
L’esperienza internazionale dice che sono necessarie pressappoco due settimane, durante le quali Eluana non sarà abbandonata, ma anzi accudita con cure ancor più attente, volte a salvaguardare la sua dignità negli ultimi giorni di vita. La Corte si spinge fino a raccomandare che Eluana sia accolta in una struttura per malati terminali, cioè in un hospice, e anche a me questa raccomandazione sembra opportuna. Così avrà fine questa vicenda, che ha segnato in maniera indelebile il dibattito bioetica italiano.
Primario neurologo emerito
Ospedale Niguarda, Milano

l’Unità Roma 11.7.08
Egitto, un fascino bimillenario
La passione dell’Occidente per i faraoni dalla Grecia antica all’età dei Lumi
di Flavia Matitti


«PRIMI TRA GLI UOMINI, dicesi che gli Egizi ebbero conoscenza degli Iddii, rizzarono templi e sacri edifici». Queste parole di Luciano di Samosata, del II secolo d.C., mostrano come fin dall’antichità l’Egitto venisse il luogo d’origine di ogni sapienza e reli-
gione. Attraverso la mediazione della cultura greca la passione per il mondo egizio passò a Roma per irradiarsi in tutto l’Occidente dando vita all’egittomania, dal Rinascimento all’Età dei Lumi.
Alcuni episodi salienti di questa fascinazione bimillenaria – basti pensare agli obelischi che ornano le principali piazze di Roma, alla presenza sul Campidoglio delle statue del Tevere e del Nilo, o alla Fontana dei Fiumi in piazza Navona – vengono ora narrati nella mostra intitolata “La Lupa e la Sfinge. Roma e l’Egitto dalla storia al mito”, ideata da Eugenio Lo Sardo e curata da Elisabetta Interdonato per la sezione archeologica, Manuela Gianandrea per il Medioevo e Rinascimento e Federica Papi per il Sei-Settecento (catalogo Electa). Sede della mostra è Castel Sant’Angelo e certo non si sarebbe potuta immaginare cornice migliore, visto che il castello sorge sui resti del Mausoleo di Adriano: il percorso espositivo si apre con alcune statue di Antinoo, il giovane amato da Adriano e morto tragicamente nelle acque del Nilo. Nella Villa di Tivoli l’imperatore fece ricostruire un braccio del delta del Nilo, il famoso Canopo, ornato di sculture di divinità egizie. Comunque la diffusione del culto di Iside è attestata a Ostia già nel II secolo a.C. e il mosaico di Palestrina, i cui soggetti nilotici ispireranno schiere d’artisti dal Rinascimento in poi, prova la precoce presenza di artigiani alessandrini a Roma.
Nel corso del Medioevo e del Rinascimento, come appare da alcuni splendidi volumi in mostra, l’interesse per l’Egitto si mantiene vivo soprattutto nei confronti della scrittura geroglifica. Papa Alessandro VI però si spinse al punto di sostenere la discendenza della sua famiglia, i Borgia, il cui animale araldico era un toro, dal mitico bue egizio Api, figura di Osiride, le cui storie, con quelle di Iside, fece affrescare da Pinturicchio negli appartamenti Vaticani. Il reperto forse più interessante sul culto di Iside e Osiride è però la Mensa Isiaca, anche nota come Tabula Bembina, una tavola d’altare in bronzo con agemine in argento e rame del I secolo d.C., ritrovata a Roma nel 1525 e appartenuta al cardinale Pietro Bembo (Torino, Museo Egizio). Nel Seicento è fondamentale a Roma la presenza del gesuita tedesco Athanasius Kircher, che dedicò molti volumi alla civiltà egizia, apprezzati dagli artisti del suo tempo. Tra questi Poussin, il cui quadro col “Riposo dalla fuga in Egitto”, proveniente dall’Ermitage di San Pietroburgo sarà in mostra dal 16 luglio.
Concludono idealmente l’itinerario espositivo le incisioni di Piranesi e il bando del 1791 che condanna Cagliostro, colpevole di aver fondato la massoneria di rito egizio.
Fino al 9/11, Castel Sant’Angelo. Info: 199.757511.
Dal martedì alla domenica: 9.00-19.00 (lunedì chiuso).

Corriere della Sera Roma 11.7.08
La Lupa e la Sfinge
Una mostra a Castel Sant'Angelo racconta il rapporto tra l'antica Roma e l'Egitto
di Lauretta Colonnelli


Tra le opere esposte a Castel Sant'Angelo, in questa mostra che vuole celebrare l'intenso rapporto tra Roma e l'Egitto sviluppato nell'ampio arco che va dal I secolo a.C. fino all'Età dei Lumi, almeno un paio rappresentano una occasione straordinaria per una visita. La prima è la Tabula Bembina o Mensa Isiaca, uno dei pezzi più famosi del Museo Egizio di Torino, che ora torna per la prima volta nel luogo collegato direttamente alla sua storia. Le prime informazioni sulla tavola in bronzo, riccamente decorata a colori con figure che narrano la storia di Iside e Osiride, risalgono infatti alla prima metà del XVI secolo, quando fu donata al cardinale Pietro Bembo (da cui il nome Bembina) dal pontefice Paolo III, committente dei famosi appartamenti farnesiani all'interno del Castello. Le notizie sul periodo precedente restano oscure, ma gli studiosi fanno risalire la sua esecuzione al I secolo d.C.
Arriva da Torino anche un'altra opera dalla storia misteriosa, la «Statua magica». Anzi, ne arriva soltanto una metà, perché l'altra metà proviene da Firenze. Le due parti del monumento sono infatti conservate separatamenete nelle due città, ma in origine appartenevano entrambe alla collezione di quello che è considerato il primo grande egittologo: padre Athanasius Kircher, gesuita tedesco giunto nel 1634 al Collegio Romano, ufficialmente come professore di scienze matematiche, ma in realtà per studiare i geroglifici nella città europea che conservava il maggior numero di reperti egizi. La mostra offre dunque l'occasione di rivedere dopo tanti anni i due frammenti riuniti. Purtroppo la loro storia resta un mistero, dato che i curatori (Eugenio Lo Sardo, Manuela Gianandrea, Elisabetta Interdonato, Federica Papi) le dedicano, anche nel catalogo, non più di una didascalia di poche righe, dalle quali si viene a sapere che l'opera è in granito nero, alta 17 cemtimetri e risale al IV secolo a.C. Chi visita la mostra scopre anche che la scultura, di forma strana, presenta alcune figure ed è interamente ricoperta da incisioni con geroglifici.
Sia la Mensa Isiaca che la Statua magica si trovano a metà del percorso, che segue un criterio cronologico. I visitatori vengono accolti all'ingresso dai busti e dalle statue di Nerone e di Domiziano, che si fecero rappresentare, imitando Alessandro Magno, con la doppia immagine, egizia e classica. E, trovandosi nel mausoleo di Adriano, non poteva mancare il ricordo del ragazzo amato dall'imperatore e annegato nelle acque del Nilo. Il bellissimo Antinoo si incarna a grandezza naturale nella statua della collezione Farnese del Museo archeologico di Napoli, svetta nelle vesti di Osiride nella famosa scultura conservata ai Musei Vaticani (ma qui presente solo in un calco appositamente realizzato) e appare infine, divinizzato, nel busto di quarzite rosa proveniente da Dresda. Si prosegue con la storia d'amore tra Antonio e Cleopatra, rappresentati da due teste marmoree, e con le statue del Nilo (impersonato dalla Sfinge) e del Tevere (raffigurato dalla Lupa con Romolo e Remo) provenienti da Villa Adriana. Si passa alla fascinazione del mondo egizio a Roma durante il Medioevo e il Rinascimento, documentata da vari testi e disegni, compresi quelli che raccontano l'innalzamento, ad opera di Sisto V, dei numerosi obelischi che diverranno, insieme a sfingi e piramidi, un elemento caratterizzante del paesaggio urbano. Si chiude con il Settecento, illustrato dalle note incisioni di Piranesi con i suoi capricci egittizzanti per decorare i camini e con la ricostruzione della Sala egizia della Galleria Borghese, la più nota tra le molte realizzate all'epoca.

La Lupa e la Sfinge. Castel S.Angelo, tel. 199757511. Fino al 9 novembre, dal martedì alla domenica, ore 9-19, chiuso il lunedì In alto, «Ila rapito dalle ninfe» (IV sec. d. C.) e la statua che raffigura il Tevere. Sopra, «Riposo dalla fuga in Egitto» di Nicolas Poussin

Corriere della Sera 11.7.08
Nagy tra fango e verità
di Luciano Canfora


Il 27 febbraio del 1993 fu pubblicato un documento dal quale risultava che Imre Nagy, il coraggioso ma sventurato primo ministro ungherese travolto il 4 novembre 1956 dall'invasione sovietica, era stato, vent'anni prima, affiliato all'NKVD, la polizia politica sovietica. Il documento fu screditato come «fango».
Dava noia che il profilo del leader, strumentalmente esaltato in Occidente, venisse sciupato da un tale dettaglio.
Chi confonde la ricerca storica con la propaganda non ama le sfumature. Nel cinquantenario dell'uccisione di Nagy, avvenuta nel giugno 1958 a seguito di un processo la cui sentenza era scritta a priori, la Repubblica ha edito (17 giugno) la traduzione quasi integrale del discorso in propria difesa che Nagy pronunciò tenendo testa ai maldisposti giudici. Ad un certo punto, per ribadire la propria fedeltà al socialismo, egli dice: «Lavorai come propagandista per l'NKVD». Ecco il tassello mancante. La storia, quella vera, è complicata, non obbedisce alle esigenze dei retori.

Repubblica 11.7.08
Tutti pazzi per il David
"Mi sono innamorato di una statua" Uno studio di Graziella Magherini
Gli shock da capolavoro
di Luciana Sica


Nel nuovo volume i commenti al "nudo più bello del mondo"
Vent´anni fa il libro dell´autrice su "La Sindrome di Stendhal"

Se è vero - come pensa, ad esempio, Jean-Luc Nancy - che la grande arte rimette in gioco il senso del mondo, è ancora più probabile - come sostiene la psicoanalisi - che la bellezza metta in crisi l´identità di chi la "fruisce": difficilmente si osserva un capolavoro rimanendo distaccati, passivi, freddi, imperturbabili, uguali a sé stessi. L´arte incanta ma spiazza, tende a destrutturare la personalità, è estraniante e a volte pericolosa: il potere evocativo delle immagini sempre rivela, anzi svela qualcosa - rompe equilibri, scardina certezze, apre squarci sulle dimenticanze, dando scacco ai trucchi della mente.
L´esperienza estetica può fare "ammalare", di una malattia tra le più nobili, ci ha detto ormai vent´anni fa Graziella Magherini - psichiatra e psicoanalista fiorentina - in un libro che è stato un gran successo: La sindrome di Stendhal è uscito nel 1989, ha avuto tre diverse edizioni, molte ristampe, più traduzioni, ispirando anche il film omonimo di Dario Argento. Senz´altro un caso editoriale, almeno per la saggistica in genere inchiodata ai piccoli numeri, destinata a un pubblico inevitabilmente ristretto.
Da allora non ha smesso le sue ricerche la Magherini, oggi una libera professionista sui settantacinque anni, analista "didatta" e presidente dell´International Association for Art and Psychology (con un gruppo di studio anche a New York). Da tempo ha lasciato la direzione del reparto psichiatrico dell´ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze e il lavoro ambulatoriale nel centro della città, luoghi privilegiati di osservazione in cui per anni ha visto arrivare turisti stranieri in preda a scompensi psichici anche molto acuti, episodi clamorosi che colpivano i viaggiatori in una delle città d´arte per eccellenza, costringendoli spesso al ricovero - tra crisi depressive e terrore di morire, nostalgie violente ed euforie immotivate, pensieri onnipotenti e sentimenti di estraniazione, percezioni confuse di realtà minacciose, a tratti persecutorie: "casi" stupefacenti che la Magherini ha poi racchiuso - con vena elegantemente narrativa - nella Sindrome di Stendhal.
Ma perché il nome di Stendhal? Perché fu lo stesso autore francese a scrivere - in un diario di viaggio in Italia - di un improvviso e misterioso malessere che lo colse proprio nel capoluogo toscano, durante una visita nella basilica di Santa Croce. Troppe emozioni dentro quella chiesa, con tutto il carico di quella storia e quelle tombe di personaggi smisurati... Stendhal fu preso da qualcosa di simile a un attacco di panico, una specie di vertigine che lo costrinse a uscire nella piazza («la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere»). Si mise allora seduto su una panchina, tirò fuori dal portafoglio i versi dei Sepolcri di Foscolo che da uomo colto aveva provvidenzialmente portato con sé e quella lettura risultò terapeutica, ebbe il potere di riportarlo alla calma («avevo bisogno della voce di un amico che condividesse la mia emozione»).
Nel corso del tempo, la Magherini ha via via allargato il campo dei suoi interessi: non si è occupata più soltanto di quel che succede nella testa dei turisti particolarmente fragili, inclini all´esperienza di una "pazzia" fortunatamente provvisoria di fronte all´eccesso del Bello, ma dei turbamenti più comuni che in vario modo colpiscono i viaggiatori attratti dalle opere d´arte. E cioè, di quale sia il funzionamento normale della mente nella circostanza particolare della fruizione artistica, aldilà dei casi-limite, di quella che l´autrice definisce "la punta dell´iceberg". Da qui è nato il suo nuovo libro che curiosamente si chiama Mi sono innamorato di una statua ed è scritto in italiano e in inglese, sin dall´inizio pensato e pubblicato per un pubblico internazionale (sottotitolo "Oltre la Sindrome di Stendhal", foto di Luciana Majoni, Nicomp L. E., pagg. 360, euro 24).
"Mi sono innamorato di una statua": intanto è un uomo che parla, non proprio un dettaglio. Più precisamente è il commento di un ragazzo dall´incerta identità psicosessuale che ha appena visto il David di Michelangelo, "il nudo più bello del mondo", alla Galleria dell´Accademia di Firenze. La Magherini e la sua équipe hanno svolto un´indagine per analizzare le reazioni dei visitatori nel corso di un anno (autunno 2004 - autunno 2005) raccogliendo diciassette registri e tredicimila impressioni e commenti ora sintetizzati nell´ultimo capitolo del volume.
Fra le decine di frasi che si leggono, alcune si riferiscono alla corporeità della scultura, nel segno del desiderio ma anche della competizione: «Il David è grandioso... mi attira il fondo schiena», «E´ caricato di una tensione quasi insopportabile», «Pene troppo piccolo», «Sono più bello io». A tratti si riconoscono turbamenti espliciti («È un´opera che ti sopraffa», «Lo struggimento ti rende pazzo»), plateali dichiarazioni d´amore («Mi ha aperto il cuore e tolto il fiato»), riferimenti sessuali («Sono allibito dal corpo fallico»). Neppure mancano le identificazioni («Io sono il David) come le manifestazioni di ostilità («Se ti tiro un pugno ti smonto»).
Dice la Magherini: «Abbiamo assistito a un concerto di voci con segnali diversi: attrazione, sorpresa, sconcerto, abbandono, esaudimento del proprio ideale dell´Io. A volte gli stati d´animo si fanno più intensi: dall´incantamento al fastidio, dal rapimento all´impulso vandalico: un laboratorio di emozioni fortemente esercitate che indica come ognuno viva le opere d´arte secondo gli stimoli provenienti dalle profondità della realtà psichica».
Scorrendo le pagine del volume, è intanto chiarissimo che siamo nella celebre dimensione freudiana dell´unheimlich, termine tedesco tradotto in italiano con perturbante: il contrario di quel che è confortevole, familiare, abituale, tranquillo. Nel contatto con l´arte, può tornare nel teatro della mente un elemento rimosso ma che ci era da sempre familiare, un déjà-vu con un che di angoscioso: è comunque un "qualcosa" che doveva rimanere nascosto e che invece all´improvviso si ripresenta alla coscienza.
Non solo, però. Può esserci anche il riaffiorare di elementi più grezzi e arcaici dell´inconscio, o per dirla meglio con la Magherini: «L´incontro con un´opera d´arte può "mettere in forma" un´esperienza emozionale che non aveva ancora conseguito un´immagine nella vita mentale, non tradotta in simboli, non rappresentata, non pensabile, non dicibile e tuttavia fortemente attiva, significativa e disturbante: è quello che si può definire il perturbante psicotico».
Come a dire: in certi casi la bellezza non solo entra in risonanza con aspetti conflittuali del nostro mondo interno, ma può renderli riconoscibili e tollerabili, come se il linguaggio dell´arte fosse capace di contenere gli aspetti più estremi di noi, forse proprio quei "nuclei psicotici" (non solo nevrotici) che affondano nell´inconscio ma a tratti possono riemergere - così la pensa, ad esempio, anche Salomon Resnik.
Ma c´è anche un altro elemento su cui la Magherini insiste non poco, citando peraltro diversi autori, dalla Klein a Bion, da Gaddini a Meltzer: l´esperienza estetica riattualizza la dimensione estatica tra madre e neonato, «nell´incontro con la bellezza, l´oggetto estetico richiama l´oggetto primario perduto, viene liberata un´energia fino a quel momento incapsulata, una fonte di piacere, con un´immissione di parti di sé nell´operazione visiva, che non è affatto solo contemplativa, ma radicalmente partecipativa».
Senz´altro, quando ci si trova davanti a un capolavoro assoluto come il David di Michelangelo, al "troppo bello per essere vero", la reazione più comune è un sentimento d´insolita vivificazione del mondo interno, accompagnato da una leggera dispercezione della realtà che può avere forme molto diverse ma trae la sua origine da un passato remoto mai del tutto cancellato: con tutta probabilità è la nostalgia di un tempo pervaso dal principio del piacere, quando c´era "tutto" e il desiderio non dipendeva ancora dalla mancanza.

Repubblica 11.7.08
A Trento filosofi a convegno


TRENTO - "Quel che la Filosofia non dice... Parole dal Limite": è il titolo di un convegno - all´interno della prima Biennale di filosofia - in programma nel week-end a Ronzone, in Val di Non (Trento), per riflettere su ciò che resta nascosto, taciuto, nel pensiero occidentale. I lavori, organizzati dai Musei di Ronzone, saranno aperti domani da Vincenzo Vitiello con un intervento sull´"Elogio del mentitore".
All´incontro, che si concluderà domenica, interverranno Giulio Giorello ("Continuo e discreto. L´indicibile in matematica"), Massimo Donà ("Il limite, nelle figure di un´aporia"), Antonio Gnoli ("La povertà della filosofia") ed Andrea Tagliapietra ("La pazienza del corpo"). Tra gli altri relatori: Gianfranco Ferrari, Claudio Tugnoli e Silvano Zucal.

Corriere Fiorentino 11.7.08
Siena A Palazzo Squarcialupi apre «Archeologie interiori» grande mostra di J-Paul Philippe
Le parole sono pietre
Sculture oniriche accompagnate da inediti di grandi poeti
di Donatella Coccoli


Il 20, il «Site transitoire», la sua installazione di Asciano, ospita «Notte trasfigurata», con il Teatro della Valdoca
La «marella» si trasforma in opera d'arte che prende la forma di stele scolpite e dei versi di Tabucchi, Bompiani e Noël

Le Crete senesi sono come uno stato d'animo fluttuante. Con il loro mutare di colori e linee a ogni stagione, possono recare tristezza o felicità, confortare i pensieri, acuire i drammi interiori. Tra queste colline d'argilla fatte di aspri calanchi e di dolci biancane, celebrate da poeti come Mario Luzi, c'è un luogo in cui la mano dell'uomo ha segnato il tempo. E qui il pensiero, per forza, corre più veloce, come stimolato dalla creazione che ha trasformato la natura.
È il «Site Transitoire» presso Leonina (Asciano), l'opera di Jean-Paul Philippe, lo scultore francese che vive e lavora tra la Toscana e la Francia. A lui, Siena dedica la mostra «Archeologie interiori» a Palazzo Squarcialupi fino al 14 settembre mentre l'Apt ha preparato per l'occasione un opuscolo con itinerari alla scoperta delle Crete. Il 20 luglio presso il Site Transitoire si terrà il grande evento «Notte Trasfigurata » con il Teatro della Valdoca e Danio Manfredini.
«È colpa dell'Italia se sono diventato scultore». Un volto mite, occhi chiari e timidi, nascosti da una selva di capelli, Jean Paul Philippe, parla del suo percorso. «Sono venuto per un mese e mi sono fermato per trent'anni - dice - A Firenze sono arrivato a 16 anni, con mio fratello, in autostop, era il '60. Dopo, sono tornato a Parigi e ho fatto tutti i mestieri, anche i disegni per strada, pur di tornare in Italia ». Jean-Paul arriva di nuovo a Firenze, grazie ad amici (anche Lucia Poli), riesce a conoscere la conservatrice degli Uffizi e passa giornate intere al Gabinetto dei Disegni tra Leonardo, Paolo Uccello.
«Non potevo più lasciare l'Italia continua - E forse da lì mi viene questo lavorare sulle superfici come un pittore». E così la formazione, anno dopo anno, le cave di marmo, i riconoscimenti internazionali, le grandi opere pubbliche in cui Jean-Paul Philippe, non solo fonde il suo interesse per la linea, per la parola, ma anche alimenta la sua attenzione per lo spazio, con quel legame forte con l'architettura che si nota nell'opera «De l'Eau à l'Air» realizzata per l'impianto di depurazione della Senna a Parigi. Le sculture presenti nella mostra curata da Alessandra Rey, che si avvale di un volume edito dal belga Fonds Mercator con scritti di Bernard Noel e Antonio Prete, sono rappresentative degli ultimi trent'anni e vanno dalle opere più intime, con i temi cari all'artista (la sedia, la stele, le «giacenti») a quelle in cui il rapporto con lo spazio pubblico si fa più stretto, così come il richiamo incessante alla parola. Come nel caso delle «Marelles» ovvero le sculture in cui Jean-Paul Philippe ha voluto rappresentare un gioco, quello della «campana» o «del mondo», che è simile in molti paesi del Mediterraneo. Qui l'artista francese ospita i versi inediti di autori come Antonio Tabucchi, Ginevra Bompiani e Bernard Noel. Tra queste opere, notevole è «Marelle Mnémosis», un tappeto cupo e profondo attraversato dalle parole di Tabucchi come fossero un ricamo.
La pietra, sempre lasciata in parte «naturale», è l'oggetto su cui l'artista realizza «una prova di vita». E lo stesso Site Transitoire con le sue sculture in piedi, sedute e sdraiate «è un omaggio al tempo». Sembra che ci sia il tentativo di contrapporsi alla morte, «con la voglia di renderla più tranquilla».
Donatella Coccoli

giovedì 10 luglio 2008

l’Unità 10.7.08
Impronte, lettera Ue all’Italia: vogliamo impegni scritti
La Commissione: no alla schedatura come a Napoli. Nomadi scarcerati a Verona, Alfano avvia accertamenti


ALLA VIGILIA del voto al Parlamento europeo, la Commissione Ue ha scritto ieri una lettera all’Italia chiedendo di fornire impegni scritti sui metodi di scheda-
tura dei nomadi, che si dovranno aggiungere al rapporto promesso lunedì a Cannes dal ministro dell'Interno Roberto Maroni al commissario Ue alla Giustizia, Libertà e Sicurezza, Jacques Barrot.
La missiva, indirizzata all'ambasciatore italiano presso l'Ue Fernando Nelli Feroci e firmata dal direttore generale di Barrot, Jonathan Faull, elenca quattro punti su cui il governo di Roma deve fornire delucidazioni. Primo, l'utilizzo delle schede con informazioni sulla religione e sull'etnia, come quelle viste nei campi nomadi di Napoli, deve essere «un incidente isolato che non si ripeterà più». Questo, ammonisce Faull, deve essere «reso chiaro ai prefetti o ai commissari straordinari interessati». Secondo, Bruxelles vuole informazioni dettagliate sulla raccolta delle impronte per quanto riguarda lo scopo della procedura, la sua base giuridica, la conservazione dei dati personali e il loro utilizzo per altri fini, e il diritto di accesso ai dati personali da parte degli individui schedati. Terzo, l'esecutivo Ue esige delle garanzie sul fatto che «le impronte dei minori di 14 anni devono essere raccolte solo dietro autorizzazione specifica di un giudice e allo scopo dell'identificazione». Infine, la Commissione vuole vederci chiaro sulla «situazione nelle 17 regioni italiane» escluse dalla cosidetta «emergenza rom» (tutte tranne Lombardia, Lazio e Campania), per capire se anche in esse il governo intende procedere con la raccolta delle impronte. La lettera di Faull reca la data di ieri, e rappresenta quindi una nuova iniziativa della Commissione rispetto alla missiva del 3 luglio, inviata a Roma all'indomani della notifica dell'ordinanza sul censimento della popolazione nomade.
Ieri, intanto, Maroni, ha incontrato al Viminale una rappresentanza delle Comunità Romene di Milano e Roma e della Comunità Rom in Italia, accompagnate dall'on. Souad Sbai. È bufera politica, invece, sul Gip di Verona Giorgio Piziali per l’ordinanza con la quale, lo scorso primo luglio, ha deciso di non convalidare il fermo di quattro degli otto nomadi arrestati dalla Polizia con l'accusa di aver costretto i figli a compiere decine di furti in appartamento. Il Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha disposto accertamenti su quell'ordinanza per cui l'Ispettorato di via Arenula acquisirà una relazione del Procuratore di Verona, Guido Papalia, e le «giustificazioni del gip sul preciso significato» di alcune due espressioni. Poi sarà Alfano a decidere se «adottare le iniziative opportune».

l’Unità 10.7.08
Il ministro ripete che le impronte riguardano in generale i nomadi. E chi sarebbero in Italia?
Rom, Sinti... e le confusioni di Maroni
di Paolo Soldini


Se allargasse la propria cultura storica saprebbe che nel nostro Paese i nomadi
sono solo i sinti e i rom

Tartari, mongoli, cimmeri, sciti, sarmati, unni, alani, protobulgari, selgiukidi, kazaki, oiroti, vichinghi, angli, sassoni, cimbri, teutoni...Poiché il ministro Maroni da qualche giorno va sostenendo di non aver mai specificato che le schedature a mezzo di impronte digitali riguardano i bambini rom e sinti, ma di aver precisato che riguarderebbero, più in generale, i “nomadi”, gli chiediamo di indicarci quali sarebbero, oltre a sinti e rom, i “nomadi” presenti sul territorio italiano che debbono essere così scrupolosamente “censiti”. Si sa, infatti, che perpetuando un malvizio che dura da secoli, anzi da millenni, orde di barbari a cavallo, a dorso di cammello, su carri che trasportano famiglie e masserizie s’intestardiscono a presentarsi ai nostri confini, a varcarli e poi ad accamparsi di qua e di là. E che non li vogliamo contare?
Maroni, d’altra parte, queste cose le sa, come esponente di primissimo piano di un partito che rivendica le proprie radici presso un popolo, quello dei celti, che all’inizio fu nomade anch’esso, poi si stancò, divenne stanziale e in Italia lasciò scarse tracce di sé, la peggiore della quale sono le baggianate odierne della Lega Nord. Se l’attuale ministro dell’Interno allargasse la propria cultura storica al di là di Brenno e della vittoria dei Saxa Rubra con cui la sua orda celtogallica si aprì la strada per Roma (“ladrona” anche allora, va da sé), saprebbe comunque che di “nomadi” in Italia da una decina di secoli ci sono solo i sinti e i rom. Ed eviterebbe di nascondersi dietro il fumo dei dico-non-dico-e-poi-lo-nego, perché quel fumo puzza ancor peggio degli altri.
Stamani alle 9.30 il Parlamento europeo approverà una risoluzione in cui l’ignobile schedatura razzista viene condannata insieme con l’ipocrisia di chi nega che sia una schedatura e, come avvenne con le leggi razziali del ’37, sostiene senza vergognarsi neppure un briciolo che si tratta di misure che “tutelano” i bambini rom. Pardon, “nomadi”. Ururi, giungari, peceneghi, karakhanadi, kirghizi, àvari? O celti?

l’Unità 10.7.08
Pronto il piano per l’identificazione dei Rom
Definiti tra Croce Rossa e Prefettura gli ultimi dettagli della schedatura: il questionario sarà valutato dal Garante della Privacy, per i minori basterà la testimonianza dei genitori se in possesso di documenti
di Massimiliano Di Dio


LA POLIZIA sarà presente in modo discreto pronta ad intervenire solo in caso di problemi di ordine pubblico. Si dovrebbe iniziare il 14 o il 15. Il 18 conferenza stampa sui primi risultati

Messi a punto gli ultimi dettagli. Come la valutazione della scheda informativa sui rom da parte del Garante della privacy e (pare) la possibilità per chi non ha documenti di farsi identificare attraverso due testimoni. Ora tutto è pronto per il censimento dei nomadi capitolini. Ieri l'ultimo incontro in Prefettura con la Croce Rossa Italiana. Ancora top secret il giorno di partenza, "il prefetto Carlo Mosca - si apprende - vuole evitare tensioni e strumentalizzazioni". Ma di certo si inizierà prima del 18 luglio, quando lo stesso commissario straordinario illustrerà, insieme ai presidenti nazionale e provinciale della Cri, Massimo Barra e Fernando Capuano, scheda e dati del primo censimento che avverrà in uno dei campi abusivi. In Prefettura vige ancora il massimo riserbo sull'operazione ma, da indiscrezioni, si apprende anche di due accordi proposti da Mosca. Il primo, all'anagrafe comunale, mira a rendere la tessera sanitaria fornita ai rom un documento valido almeno per i servizi medici o la scolarizzazione. Il secondo, alla Regione, punta invece ad ottenere alcune borse di studio per i minori.
Confermato in buona parte l'impianto delle schede utilizzate dalla Cri, il cui modello dovrà essere vagliato dal Garante della privacy . Dentro nessun riferimento a etnia o religione ma, sembra, solo nome e cognome ed età presunta, interessi lavorativi e desideri. "Non sarà necessario identificare il rom in possesso di documenti - spiega Capuano - A lui verrà dato solo il tesserino sanitario mentre per chi non ha documenti basterà la testimonianza di altri due soggetti, identificati, pronti a fornire le sue generalità". Tipico dunque il caso dei minori, per i quali potrebbero bastare le attestazioni dei genitori (o anche presunti tali?). La polizia invece dovrebbe essere presente in modo discreto. Solo per l'ordine pubblico e le situazioni in cui qualcuno rifiuti di farsi identificare.
Pochi giorni ancora, forse il 14 o il 15 luglio, e il censimento così avrà inizio. In sordina ma non troppo. Tanto che il 18 luglio proprio il prefetto sarà presente a un incontro presso il comitato centrale della Cri per spiegare scheda e dati della prima operazione. Particolare rilievo viene dato al tesserino sanitario che sarà fornito ai rom. Plastificato, con foto e numero progressivo. Il commissario straordinario per i senza fissa dimora ne avrebbe parlato anche con l'anagrafe del Campidoglio. L'idea sarebbe di renderlo un documento valido almeno per l'accesso ai servizi medici e di scolarizzazione. Cosa che di certo avverrà già negli ambulatori della Croce Rossa, come quello del Prenestino dove i nomadi ottengono assistenza gratuita.

l’Unità Firenze 10.7.08
La maschera del razzismo
di Simone Siliani


Purtroppo per noi - e per la Corte di Cassazione - il razzismo contemporaneo non si presenta nelle forme note e stereotipe del razzismo biologico ed è, dunque, più difficile da riconoscere e da combattere. Eppure, esso tende a radicarsi in idee e pratiche comuni, di ogni giorno, che quindi conquistano un consenso a cui il razzismo, esplicito e rivolto ad una supposta diversità razziale, non può più ambire almeno in Occidente. Allo stesso tempo esso si alimenta della crescente paura di perdere le proprie posizioni e tende a legittimarsi con un richiamo al generico principio di legalità, che però dimentica quanto tale principio debba avere valore universale e postulare un altrettanto sacro principio di uguaglianza sostanziale di ogni persona di fronte alla legge.
Insomma, non accadrà più che un qualche ministro si presenti al Capo dello Stato per fargli firmare le “leggi razziali” come avvenne settanta anni fa proprio qui in Toscana, a San Rossore, per le leggi antisemite di Mussolini.
Ci si appellerà oggi, piuttosto, ad un comune sentire che spinge un ministro ad azioni di dubbia legittimità dal chiaro contenuto discriminatorio, ma mascherate da “sicurezza” e “legalità”, come avviene per la schedatura etnica dei rom. Ma non per questo sarà un razzismo meno pericoloso. Esso oggi si caratterizza in tre forme:
- In primo luogo c’è il razzismo culturale o etnocentrismo, cioè l’atteggiamento discriminatorio che nasce dalla difesa della propria cultura e stile di vita e dal rifiuto di quelli altrui. La pretesa di superiorità, purezza e integrità della propria cultura è sempre preceduta da una dichiarazione antirazzista e si appella a valori para-giuridici che vorrebbero far coincidere i diritti di cittadinanza con l’appartenenza “culturale” ad una comunità: «io non sono razzista, ma i rom per loro tradizione rubano e quindi non possono essere parte a pieno titolo della nostra comunità, ergo possono essere discriminati».
- La seconda forma è il cosiddetto razzismo addizionale che fonda lo stigma discriminatorio sulla somma tra identificazione fisica della “diversità” e fattori di allarme sociale. Esso discrimina un gruppo sulla base di una vera o presunta minaccia che esso porta dall’esterno sulla comunità. Sono processi che trasformano il fatto specifico in figura sociale: quel lavavetri che ha aggredito l’automobilista o il rom colto a rubare diventano i campioni dell’intera categoria, tutta pericolosa e ladra.
- In ultima istanza c’è quello che definirei il razzismo concorrenziale, che nasce dal timore di perdere il controllo simbolico o materiale sul territorio e sulle sue risorse. È il caso dei venditori ambulanti abusivi dove, evidentemente, la concorrenza non è fra le merci, ma su beni simbolici (come ad esempio il prestigio o l’immagine).
Questo razzismo moderno è fra noi e sta dilagando nell’opinione pubblica e negli atti - siano essi piccoli o grandi - dell’amministrazione pubblica in un circuito perverso che ci porta in una società che esclude e discrimina senza quasi che ce ne accorgiamo.
Per questo, bene ha fatto la Regione Toscana a dedicare ad un tema così attuale e decisivo l’ottava edizione del Meeting di San Rossore. Siamo di fronte ad un tema “ultimo”, i cui confini sono difficili da percepir. Ma dobbiamo avere il coraggio e l’onestà di guardare anche in noi stessi per capire che il razzismo contemporaneo si annida nelle pieghe dell’ossessione della sicurezza. E che, come tale, incanta anche parti e dirigenti della sinistra.

l’Unità Firenze 10.7.08
Ecco la Toscana che dice no al razzismo
Oggi parte la due giorni presso il parco di San Rossore, da sabato via al meeting di Cecina organizzato dall’Arci che, per la giornata dedicata ai rom, ha invitato anche il ministro Maroni
di Silvia Casagrande e Francesca Padula


Il Meeting di San Rossore, che si tiene oggi e domani, e il Meeting internazionale antirazzista che si svolgerà a Cecina Mare dal 12 al 20 luglio sono le due iniziative organizzate dalla Toscana per dire “No” al razzismo. Nella due giorni di San Rossore si parlerà di razzismo a 360 gradi con tavole rotonde e dibattiti ai quali parteciperanno intellettuali, esperti, scienziati e religiosi. Nel corso della prima giornata, oltre alla presentazione del “Manifesto degli scienziati antirazzisti 2008”, è previsto anche un saluto telefonico di Ingrid Betancourt.
Da Pisa a Cecina il passo è breve. E nella cittadina costiera, sabato prossimo prenderà il via una settimana dedicata all’interculturalità. Il Meeting cecinese sarà anche l’occasione per continuare la raccolta simbolica di impronte digitali, promossa dall’Arci. Raccolta che interesserà anche San Rossore. Le impronte saranno poi inviate al ministro Roberto Maroni che, a sua volta, è stato invitato dagli organizzatori a partecipare alla giornata sui rom. La settimana dell’interculturalità si concluderà con una grande assemblea dei migranti.

l’Unità Firenze 10.7.08
Meeting di San Rossore
Al via l’ottava edizione. Previsto un saluto (telefonico) di Ingrid Betancourt
di Francesca Padula


Parte l’ottava edizione del Meeting di San Rossore dal titolo “Contro ogni razzismo. Capire le differenze, valorizzare le diversità”. L’incontro, organizzato dalla Regione Toscana, si svolge oggi e domani nel Parco di San Rossore, a Pisa, e propone un’approfondita riflessione sul tema del razzismo in ogni sua forma, a 70 anni dalla firma delle leggi razziali, avvenuta proprio nella tenuta di San Rossore, nel settembre 1938.
Il programma della due giorni pisana è ricco di iniziative. Il Meeting si apre questa mattina alle 9.30 con il saluto delle autorità nello spazio della tenda Gandhi. Alle 10.15, sempre nella tenda Gandhi, si tiene l’appuntamento principale della giornata: la presentazione del Meeting e del “Manifesto degli scienziati antirazzisti 2008”, alla quale partecipano Claudio Martini, presidente della Regione Toscana, e Marcello Buiatti, genetista dell’Università di Firenze. Alle 11,30 alla tenda Gandhi, si parla di “Novecento, secolo diviso; le ideologie del razzismo e i fondamenti dei diritti umani”. Al dibattito introdotto da Isaac Newton Farris Jr., presidente della Martin Luther King, Jr Center di Atlanta, e coordinato da Antonio Di Bella, direttore del Tg3, partecipano, tra gli altri, Emma Bonino, vicepresidente del Senato, e Yolanda Pulecio de Betancourt, madre di Ingrid Betancourt che potrebbe portare il suo saluto e il suo ringraziamento intervenendo via telefono. Alle 15 spazio alle tavole rotonde. Tra queste si segnala, nello spazio Anna Frank, la discussione dal titolo “Mentre cambia la scuola. Parole che escludono, parole che includono”. Alle 17,30, poi, alla tenda Gandhi, Claudio Martini e Moni Ovadia, attore e musicista, dialogano sul tema “Capire gli altri: considerazioni sulla prima giornata del Meeting”. A seguire proiezione del video di Barack Obama “Storie vecchie di nuovi razzismi”.

l’Unità Firenze 10.7.08
Arci e Regione contro il razzismo: «Schedateci tutti»
Da sabato una settimana a Cecina dedicata all’interculturalità. Invitato il ministro Maroni
di Silvia Casagrande


AL VIA IL XIV MEETING INTERNAZIONALE antirazzista, a Cecina Mare dal 12 al 20 luglio. «Quest’anno sarà un’occasione particolarmente importante visto il clima di intolleranza che cresce nel paese - ha commentato Vincenzo Striano, presidente di Arci Toscana, che ha organizzato l’evento - sarà una settimana dedicata all’interculturalità. I migranti in Toscana rappresentano il 7% della popolazione, con picchi fino al 14% nella provincia di Prato. L’immigrazione è in continuo aumento e ormai interi settori della nostra economia dipendono dal lavoro dei migranti. I datori di lavoro fanno ore di fila per presentare le domande di permesso di soggiorno dei loro dipendenti: scene come queste fanno parte dei cambiamenti culturali avvenuti nella nostra società, dove l’integrazione, la multi e interculturalità si fanno strada, a dispetto dei toni allarmistici usati dal governo quando parla del “problema” immigrazione». La manifestazione sarà inaugurata a Livorno, in Sala Lem alle 10, alla presenza del presidente della Regione Toscana Claudio Martini, il sindaco di Livorno Alessandro Cosimi e il presidente nazionale Arci Paolo Beni. «Non intendiamo sfuggire dai temi più caldi del dibattito politico - continua Striano - proprio per questo inizieremo il meeting con un convegno sulla paura diffusa tra i cittadini, cercando di analizzarla in maniera obiettiva, senza usare gli immigrati come caprio espiatorio». Il 16 luglio sarà dedicato al confronto tra le istituzioni e la Federazione nazionale Rom e Sinti. Saranno presenti l’assessore regionale alle Riforme Agostino Fragai e sono stati invitati vari rappresentanti politici, tra cui Roberto Maroni e Livia Jaroka, prima parlamentare europea di origine rom. Il Meeting si concluderà con una grande assemblea di migranti della Toscana che vedrà anche la presenza dell’assesore alle politiche sociali della Regione Toscana Gianni Salvadori, che ha commentato: «Questa manifestazione vuole essere prima di tutto un momento propositivo: ci apriamo ai migranti che vivono nel nostro paese con gioia, non paura, li accogliamo e lottiamo perchè siano riconosciuti i loro diritti». Il Meeting sarà anche l’occasione per continuare la raccolta simbolica di impronte digitali da inviare al ministro Maroni. L’iniziativa promossa da Arci, con 3000 adesioni solo nel primo giorno, continua con successo in tutta la Toscana: stamattina a Viareggio, passando da San Rossore per poi arrivare a Cecina. Numerose i sostegni provenienti dal mondo della cultura e della politica, anche toscana. Salvadori ha già dato la sua parola, l'assessore all'accoglienza e integrazione Lucia De Siervo parteciperà alla schedatura volontaria che si terrà venerdì alle 18 in piazza dei Ciompi e anche il presidente della Regione Martini pare voglia sottoscrivere l’iniziativa.

l’Unità 10-7.08
La sentenza Englaro
Il diritto di scegliere
di Maurizio Mori, Presidente della Consulta di Bioetica


Finalmente, dopo più di 16 anni è arrivata la decisione tanto attesa, che rende giustizia alle volontà di Eluana e alla estenuante lotta compiuta dai genitori. La puntualità con cui la Corte d’Appello ha precisato le ragioni sono ammirevoli e infondono fiducia nella Magistratura. L’idea di fondo è l’applicazione dell’eguaglianza di tutti i cittadini sancita nell’art. 3 della Costituzione non solo «nella finalità di assicurare sostegno materiale agli individui più deboli o in difficoltà, come gli incapaci, ma anche in quella di rendere possibile la libera espressione della loro personalità, della loro dignità e dei loro valori».
Poiché come osserva sempre la Corte, «la prosecuzione della vita non può essere imposta a nessun malato, mediante trattamenti artificiali, quando il malato stesso liberamente decida di rifiutarli», questo principio di uguaglianza va esteso anche ad Eluana che ora non può più esprimere la propria volontà.
Rimandando ad altra sede una più dettagliata analisi delle motivazioni della Corte, resta la giustizia sostanziale della sospensione della terapia nutrizionale per garantire ad Eluana di evitare uno stato di vita che mai e poi mai avrebbe voluto. La sentenza è un altro passo significativo compiuto per garantire alle persone la possibilità di autodeterminarsi, prevista dalla nostra Costituzione repubblicana e richiesta con forza dal processo di modernizzazione della società italiana. Nelle società premoderne, i valori e «significati sono presentati all’individuo come fatti scontati, generalmente sacri, sui quali egli può esercitare tanto poca scelta quanto sui fatti naturali: i valori che governano la vita famigliare, per esempio, esistono più o meno come esiste una roccia, un albero, e il colore dei propri capelli», mentre nelle società moderne un numero sempre maggiore di valori e di significati sono scelti dall’individuo, e questo modello si estende anche alla propria vita dal momento che ormai le tecnologie biomediche possono portarci a vivere in condizioni prive di dignità o infernali.
È la situazione di Eluana, che aveva un senso della libertà e dell’autonomia superiore e che la sorte ha voluto finisse in una situazione che per lei sarebbe stata intollerabile. Non vale dire che viene scardinato il «principio di non disponibilità della vita umana o il dovere fondamentale di prendersi cura dei pazienti che non sono in grado di intendere e volere», perché questa è solo una riformulazione del vecchio e obsoleto vitalismo che pone la mera vita biologica come valore supremo. Ciò che vale è la vita biografica, quella che presenta contenuti e scelte. E tra queste c’è anche la scelta delle scelte, ossia quella che riguarda la propria esistenza ove questa avesse cessato di essere significativa.
Per chi crede che i valori preesistano alle scelte personali come le montagne o le case, è impensabile (o abominevole) l’idea stessa che una persona possa decidere che la condizione di stato vegetativo permanente è invivibile e non merita di essere perpetrata. Ma chi ritiene che l’esistenza è fatta di scelte, non trova nulla di strano, anzi vede come un incubo la possibilità di essere privato della facoltà di scelta. Questa è la situazione di Eluana, cui ora la Corte di Milano ha reso giustizia. È superfluo ricordare che le due scelte non sono simmetriche, perché chi volesse permanere in stato vegetativo è libero di farlo, ma non può imporre la propria posizione a chi avesse una diversa concezione della vita. Ed è per questo che quest’ultima è superiore: perché non pretende di imporre i propri valori all’altra, e chiede solo la libertà per tutti.
La strada per giungere a questo risultato è stata tutta in salita ed estenuante. In oltre 16 anni la società italiana è cambiata anche dietro lo stimolo di centinaia di conferenze, svariati interventi televisivi e radiofonici, articoli e quant’altro: c’è stata un’ampia riflessione pubblica che ha sollecitato l’intervento della magistratura, che indirizza la nuova sensibilità civile alla luce delle norme costituzionali e vigenti. L’auspicio è che si continui in questa direzione, perché l’esigenza di modernizzazione è crescente. La gente, in Italia, vive ormai in base ai valori laici e secolari che, purtroppo, non trovano adeguata rappresentanza sul piano pubblico. La sentenza farà discutere e sicuramente ci saranno dure critiche. Speriamo che chi ha responsabilità pubbliche dia voce ai valori secolari e faccia valere i diritti civili di tutti, senza nascondersi dietro le solite frasi fatte a sostegno delle “tradizioni italiche”. È tempo di guardare avanti, non di continuare a elogiare il passato. I giudici di Milano hanno colto quest’aspetto e meritano un plauso: hanno dato un esempio, ed ora tocca a noi seguirli.

Corriere della Sera 10.7.08
Veronesi: «Ha vinto la libertà di decidere sull'esistenza»


La sentenza della Corte di appello su Eluana costituisce una svolta storica.
Non solo per il suo contenuto, ma soprattutto per la sua motivazione: la ricostruzione delle volontà precedentemente manifestate. Vince l'autodeterminazione della persona, espressa nel pieno della consapevolezza e lucidità, vince il principio della libertà di decidere della propria vita, vince la possibilità di scegliere dove porre il limite fra accanimento terapeutico e cure, vince il consenso informato ai trattamenti, vince il principio del Testamento Biologico, che di questo Consenso è l'estensione, da applicare nel caso in cui non ci si si potesse esprimere di persona. L'intera vicenda Englaro è in sé una prova che il movimento a favore del Testamento Biologico in Italia, che in prima persona ho fortemente voluto e promosso, non è nato come disquisizione etica, ma come azione concreta per impedire che si consumino inutilmente drammi come quello di Eluana e di suo padre Beppe, casi che molto spesso rimangono silenti, senza comprensione e tantomeno conforto.
Quindici anni fa in Italia infatti non c'era alcun modello di riferimento per formalizzare le volontà di Eluana rispetto alla vita artificiale.
Chi conosceva il suo pensiero ha vissuto un vero e proprio calvario perché il desiderio di Eluana fosse esaudito. Oggi non sarebbe così: non c'è una legge sul Testamento Biologico come negli Usa e nella maggior parte dei Paesi europei, ma se ne può fare a meno. Esiste la possibilità di compilare una semplice dichiarazione che permette di esprimere la propria volontà circa le cure che si vogliono o non si vogliono ricevere in caso di perdita della capacità di intendere e di volere, e di nominare uno o più fiduciari incaricati di far eseguire le proprie volontà. Se Beppe avesse avuto questo documento tutto sarebbe stato più semplice. Per questo il mio appello è che le persone, anche i più giovani, facciano il loro testamento biologico, esprimendo la loro volontà di accettare o non accettare la vita artificiale e ogni forma di trattamento. Il Testamento Biologico è una conquista di civiltà e uno strumento di responsabilità e libertà individuale a cui nessuno dovrebbe rinunciare.

il Riformista 10.7.08
Vivere non è soltanto continuare a respirare
di Mario Ricciardi


La decisione con cui la Corte d'Appello di Milano ha accolto la richiesta del padre di Eluana Englaro di avere l'autorizzazione a sospendere l'alimentazione e l'idratazione della figlia, in coma vegetativo permanente da sedici anni, dovrebbe por fine a una lunga e tormentata vicenda giudiziaria. Da quando è rimasta vittima di un incidente stradale, gli organi vitali della donna funzionano perché il suo corpo è collegato a macchine che le somministrano ciò di cui ha bisogno. Tale situazione si è protratta oltre il limite che buona parte della comunità scientifica ritiene ragionevole. Infatti, c'è largo consenso tra i medici nel negare la possibilità, sia pure remota, che un essere umano che si trova nella condizione di Eluana si risvegli ritornando alla coscienza.
Ciò nonostante, la domanda di sospensione del trattamento è stata respinta diverse volte in passato. Uno spiraglio si è aperto soltanto con la sentenza della Cassazione del 16 ottobre del 2007, che ha riconosciuto la legittimità della richiesta di sospendere i trattamenti se sono soddisfatte due condizioni: che (1) lo stato vegetativo del paziente sia irreversibile e che (2) si accerti, sulla base di elementi di fatto ritenuti attendibili dai giudici, che il paziente, quando era cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento.
La pronuncia della Corte di Cassazione ha fornito alla Corte d'Appello di Milano una cornice normativa - per quanto formulata in modo inevitabilmente vago - entro la quale dare risposta alla richiesta del padre di Eluana, che ne è anche il tutore legale. La concessione dell'autorizzazione indica che i giudici milanesi hanno ritenuto che le due condizioni sono soddisfatte, e quindi si può procedere con il distacco dalle macchine che alimentano Eluana. Rimane tuttavia un'obiezione morale. Presentata più volte, specialmente da ambienti cattolici. La natura dell'obiezione è la seguente: cessare l'alimentazione e l'idratazione sarebbe inammissibile perché "nutrimento" e "acqua" non sono "terapie", e dunque non sarebbero coperte dal divieto di accanimento terapeutico. In altre parole, continuando a nutrire e a idratare il corpo di Eluana, i medici non la starebbero curando inutilmente, ma invece la terrebbero in vita. La conseguenza che se ne dovrebbe trarre è che cessare di farlo sarebbe equivalente a ucciderla. Si tratta di un'obiezione importante, che bisogna prendere sul serio. Tuttavia, non credo che si possa accoglierla. Se è vero che le sostanze nutritive che vengono somministrate a Eluana non sono in senso stretto "terapie", c'è da chiedersi se questa sia una ragione sufficiente per ritenere che sospenderle equivalga a uccidere un essere umano.
Si ha l'impressione che chi ragiona in questo modo assuma una concezione della vita che finisce per farla coincidere con lo svolgimento di certe funzioni di parti del corpo umano. Posta questa premessa, impedire che tali funzioni proseguano sarebbe indubbiamente un omicidio. Si tratta di una posizione sorprendente, soprattutto quando viene proposta da persone che non dovrebbero essere inclini a ridurre la vita alla materia. Appare inaccettabile l'idea che vivere sia semplicemente continuare a respirare. Oppure a digerire. Sorprende che questo modo di pensare sia difeso dai cattolici, perché la tradizione filosofica cui la chiesa si richiama intende la vita umana in modo più sofisticato, distinguendola dal semplice vegetare.

l’Unità 10.7.08
Vaticano scatenato: è eutanasia. Scontro sulla «fine-vita»
di Maristella Iervasi


La svolta nella battaglia del papà di Eluana fa infuriare il Vaticano. L’emittente pontificia apre subito i microfoni e commenta: «È una «grave sentenza quella dei giudici di Milano. Nessun tribunale dal 1999 aveva mai accolto la richiesta della famiglia di interrompere il trattamento di alimentazione ed idratazione della loro figlia». Poi la parola passa al professor Gianluigi Gigli, del Consiglio esecutivo di «Scienza e Vita», che rimarca: «È una notizia estremamente triste. Eluana Englaro sarà la Terry Schiavo d’Italia». Mentre la stessa associazione in una nota arriva a dire che «si legittima l’uccisione di un essere umano per fame e sete». E scende in pista anche monsignor Renato Fisichella, neo presidente della Pontificia accademia per la vita: «La decisione dei giudici su Eluana giustifica di fatto una azione di eutanasia». Non finisce qui. Parla monsignor Elio Sgreccia: «Anticipare la morte non è mai in potere dell’uomo. Ci sono stati casi di ripresa anche a distanza di anni». E critiche arrivano anche dal centro di bioetica dell’Università Cattolica di Roma, diretto dal professor Adriano Pessina: «È stato attribuito al tutore un vero e proprio potere di vita e di morte sulla persona a lui affidata. Una decisione grave che legittima forme di abbandono terapeutico per i cittadini che non sono in grado di provvedere a se stessi». Per il professor Pessina la cura delle persone in stato vegetativo «è doverosa». Da qui l’appello a Beppino Englaro, il padre-tutore di Eluana, affinchè permetta che la figlia «continui a vivere». Ma il genitore, che ha sempre preferito parlare di «libertà» e non di «morte cerebrale o eutanasia», fa sapere che «ha vinto lo Stato di diritto: ora la libereremo».
E soddisfatti della decisione dei giudici della corte di appello di Milano si dicono Mina Welby - la vedova di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare e aiutato a morire dal medico Mario Riccio il 21 dicembre del 2006: «Finalmente Eluana avrà quello che ha desiderato e il padre ora potrà elaborare il lutto»; e Demetrio Neri membro del Comitato nazionale di Bioetica: «Ho accolto questa sentenza con grande gioia, anche se certamente provo tristezza. Non pratico bioetica ideologica».
Come accadde con Terry Schiavo, la decisione del Tribunale di II grado ha subito sollevato discussioni e polemica politica. C’è chi parla senza mezzi termini di eutanasia e chi invece intravede uno spiraglio per la via al testamento biologico. Il Pdl è unito alla condanna: Renato Farina, deputato e giornalista, chiede l’intervento del Presidente della Repubblica «contro una crudele condanna a morte». Unica voce fuori dal coro Pdl Benedetto Della Vedova, presidente dei Riformatori Liberali: «La decisione dei giudici di Milano è giusta ed umana. Consente di interrompere, come nella volontà più volte espressa in vita dalla ragazza, un accanamento terapeutico divenuto del tutto inutile ed insensato». Di tutt’altro avviso la parlamentare teodem del Pd, Paola Binetti: «Anche quella di Eluana Englaro, in coma dal 1992, è vita. E pertanto deve spegnersi naturalmente. Staccare la spina per interrompere una vita è qualcosa che dovremmo allontanare dall’orizzonte del nostro pensiero». Mentre Anna Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato, commenta: «Sentenza rigorosa e rispettosa dell’art. 32 della Costituzione e della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina. Ma c’è necessità di una legge sul testamento biologico che permetta ad ognuno, se lo vuole, di indicare le proprie volontà riguardo ale terapie che ritiene accettabili se un giorno si troverà nelle condizioni di non potersi più esprimere. Non possono essere i tribunali, come spesso è avvenuto, a prendere decisioni così importanti per la vita dei cittadini».
Non lascia margini Gianfranco Rotondi, ministro per l’Attuazione del Programma: «La vita non è un diritto disponibile nè davanti a Dio nè davanti alla legge. Si comincia con la morte dolce e si finisce al suicidio assistito. Altra cosa - conclude - è il rifiuto dell’accanamento terapeutico». Dissentano anche la senatrice del Pd, Emanuela Baio Dossi: «Quella di Eluana è comunque vita», ed Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare: «Come si può parlare in questo caso di libera scelta? Dov’è il consenso informato di Eluana?». Mentre i Radicali con Marco Cappato e Mario Riccio, il medico anestesista di Welby, dicono: «Ad Eluana è stata resa giustizia dopo 16 anni di violenza. Sentenza storica e di buon senso». E il leader storico Marco Pannella: «Affermata la civiltà giuridica, umana e politica».
Si accoda al coro delle critiche Luca Volontè, deputato dell’Udc, che parla di «pessima ingerenza» di un organo giudiziario e di «omicidio autorizzato». Mentre per Felice Casson e Vittoria Franco, entrambi del Pd, chiedono che il testamento biologico torni all’ordine del giorno del Parlamento.

l’Unità 10.7.08
«G8, irruzioni fuorilegge e prove taroccate»
Diaz, i pm: «Al quartier generale del Social Forum solo la presenza dei giornalisti evitò il massacro»
di Maria Zegarelli


L’ispettore Nucera disse che mentre entrava nella scuola fu aggredito e accoltellato: tutto falso secondo i test sul suo giubbotto
La richiesta di condanna per i 29 agenti slitterà probabilmente a mercoledì prossimo. L’accusa chiederà il massimo della pena

UNA MONTAGNA di bugie, di relazioni false, di false prove, di dichiarazioni prive di riscontro. Una pagina davvero buia, quella della notte del 21 luglio alla scuola Diaz-Pertini di Genova durante il G8 del 2001. Alla fine della terza udienza dedicata alla requisitoria dei pm Francesco Cardona Albini ed Enrico Zucca sembra essere questo il quadro che va delineandosi. La richiesta di condanna per i 29 poliziotti coinvolti slitterà probabilmente a mercoledì prossimo e non a domani, ma sin da ora sembra chiaro che i due magistrati chiederanno il massimo della pena per i reati contestati. Reati che vanno dal falso, alle lesioni gravi (perché non esiste il reato di tortura altrimenti i presupposti ci sarebbero tutti), al peculato, al porto di armi da guerra, alla calunnia, alla perquisizione arbitraria. 50 faldoni per ripercorrere la perquisizione nella Diaz che ospitava i no global, il pestaggio, l’irruzione alla Pascoli, dove era ospitato il quartier generale del Genoa Social Forum.
Tutto nasce da clamorosi falsi,sostengono i due magistrati alternandosi nella requisitoria. Non ci fu la sassaiola contro le volanti della polizia che avrebbe poi scatenato le due irruzioni, non ci fu la resistenza massiccia da parte degli occupanti, che quindi vennero massacrati senza motivo, e non fu un errore l’irruzione e la perquisizione avvenute nella Pascoli. Come non ci fu l’accoltellamento ai danni dell’ispettore Massimo Nucera. Su questi due ultimi episodi si è soffermato a lungo ieri Cardona Albini in oltre sei ore di udienza. In una relazione di servizio del 22 luglio Nucera affermò di essere entrato in un’aula buia al secondo piano della Diaz, di aver aperto la porta e di essere stato aggredito da un giovane alto circa un metro e settanta, che lo colpì con un coltello una prima e una seconda volta (come aggiunse durante un interrogatorio). A quel punto intervenne la sua squadra, prese il ragazzo e lo trascinò in palestra, dove venivano portati tutti gli occupanti (dopo essere stati picchiati). Non fu in grado di descrivere l’aggressore, racconta il pm. Non fu mai identificato. Durante il processo non c’è stato un solo testimone di quell’accoltellamento. Dalle perizie effettuate sul salvaspalla e sul giubbotto indossati da Nucera, gli esperti del Ris hanno stabilito che i tagli sono incompatibili con la ricostruzione fatta, quelli del salvaspalla non coincidono con quelli sul giubbotto. Ancora incongruenze, dunque, tra quanto raccontano gli agenti e quanto dimostrano le prove. Simulazione di aggressione, è la conclusione dell’accusa. Incongruenze anche sui racconti che le forze dell’ordine fecero dell’irruzione nella Pascoli. Fu un errore, dissero tutti, dopo. «Ci accorgemmo, una volta entrati, che avevamo sbagliato perché lì c’erano giornalisti, parlamentari, avvocati. Quindi la nostra presenza fu breve. Non più di dieci minuti». Raccontarono di un clima disteso di spaghetti mangiati tranquillamente mentre loro giravano nella scuola. Erano in 59 quella sera, nel centro stampa. Ma anche in questo caso immagini registrate, testimonianze e prove raccontano un’altra versione. La polizia fece irruzione, gridando «faccia a terra, chiudete i telefoni». Chi fu messo con le spalle al muro, chi steso a terra. Telefoni spaccati, computer rotti, manganellate volate. Materiale perquisito e sequestrato - macchine fotografiche, hard disk, documenti - . Circa 40 minuti di «bonifica». C’erano due europarlamentari, Morgantini e Mascia, che chiesero il mandato di perquisizione. Non c’era. L’autorità giudiziaria non era stata informata. Fu tutto deciso negli uffici della Questura. Ancora oggi non ci sono i verbali con la descrizione del materiale sequestrato. Fu un atto «compiuto al di fuori della legge». E se non finì come nella Diaz fu soltanto perché lì c’erano i giornalisti, c’erano le telecamere del Tg3, e i parlamentari europei. Il pm si chiede chissà quanto del materiale uscito dalla Pascoli - come le maschere antigas e le macchine fotografiche - sia poi finito nel materiale probatorio fornito dagli agenti contro i ragazzi arrestati. Il sospetto è che quell’irruzione fu decisa a tavolino con lo scopo di sequestrare il materiale girato dagli operatori dell’informazione i giorni precedenti durante gli scontri in piazza.

l’Unità 10.7.08
Lella Bertinotti: «Nichi Vendola può farci sognare»


ROMA «Nichi Vendola può farci sognare, e i sogni ci servono». Lo dice Lella Bertinotti, moglie dell’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, in un’intervista esclusiva al settimanale Gioia in edicola oggi.
La moglie dell’ex leader della Sinistra arcobaleno (che invece da settimane mantiene un riserbo politico, anzi addirittura dal giorno dopo la sconfitta elettorale ha parlato veramente con il contagocce) non andrà al congresso di Rifondazione il prossimo 26 luglio: «Sono contenta che lo fanno a Chianciano, l’acqua è buona e depura il fegato. Ma dopo la sconfitta, il gruppo dirigente doveva mettersi a pancia sotto per riallacciare il rapporto con gli elettori», dice, «non misurarsi con le percentuali delle mozioni».
Quanto allo stato d’animo suo e del marito, precisa: «Siamo combattenti, dunque mai affranti. E comunque la nostra vita è ricca anche oltre la politica».

l’Unità 10.7.08
Bondi, Eco e quella gelida manina
di Toni Jop


Eravamo avvertiti: il ragazzo è tenero, ma non avremmo mai immaginato che una persona bene educata come Eco sarebbe riuscita suo malgrado a ferirlo. Invece, il ministro Bondi si sfoga - e per fortuna non si tiene dentro il dispiacere sennò sai che orticarie - per come il noto intellettuale italiano lo avrebbe maltrattato nel corso di una delle recenti iniziative della Milanesiana dove i due si sono sfiorati. Bondi vuota il sacco al Giornale, cioè in casa, ma è così che si fa tutti quando ci pestano per strada.
Allora, rileggiamo con attenzione che: 1) «Il professor Eco non si è neppure alzato», 2) «e restando seduto, ha faticato a darmi la mano», 3) «ritraendola immediatamente, forse per paura che lo infettassi», 4) «un gesto fuori misura», commenta, 5)«da parte di alcuni cosiddetti intellettuali di sinistra c’è un odio quasi antropologico».
Facciamo così: stiamo sempre dalla parte della sofferenza, quindi stavolta siamo con quel panda di Bondi e torniamo ai fatti. Eco doveva scattare in piedi non appena intravvisto il ministro. Come fa un gentiluomo quando nota che una signora gli si sta avvicinando; su da bravo, sorriso e mano tesa: «Madame...». Certo che Bondi non è una signora, si vede bene che è un maschietto ma è tanto sensibile: Eco è un fine intellettuale, lo avrà capito anche lui che il ministro ha solo bisogno di coccole, invece niente. La vecchia brutalità di una sinistra che non sa che farsene neanche della mamma e per questo si trova male nella vita. E va bene, vuoi restare seduto? Almeno fai partire la mano come si deve, vitale, positivo, che ti costa? Macché, Eco ritrae subito la mano dando al nostro protetto la sensazione più che sgradevole di essere in fuga dal contatto con la pelle, peraltro delicata, del ministro. Anche qui: e lascia quella mano dove sta, dimenticala per un po’; l’altra è sudaticcia? La pelle è molle? Stai facendo i conti con l’irresistibile percezione di avere tra le dita un geco gigante però moribondo? Niente che non sia alla portata di un omaccione grande e grosso come Eco che avrà fatto il militare (a Cuneo?), che avrà pure avuto una nonna che gli catturava la mano e intanto gli aggiustava il ciuffo. È chiaro che Bondi non è una nonna ma chi glielo ha detto alla sinistra che un ministro non può meritare la cedevole delicatezza che si riserva a una «nonnetta» (thanks, Albertone)? Cosa dovrebbero dire e fare allora tutti quei bimbi rom ai quali verranno catturate le manine per poi sporcarne i polpastrelli di inchiostro tanto per essere sicuri che crescendo qualcuno di loro non si inventi di dire che non è di razza rom? Eppure stanno buoni, non piangono, non fanno scene isteriche, hanno capito che è per il loro bene; che lezione, caro il nostro Eco. E non lamentiamoci, poi, se passiamo per essere la fabbrica dell’odio. Bondi, io ti voglio bene/ avanti e avanti/ con te o senza di te/ io ti voglio bene/ avanti e avanti/ con te o senza di te. (Testo e musica di Paolo Pietrangeli).

l’Unità 10.7.08
Ercolano, viaggio virtuale nella città sepolta
di Stefano Miliani


ARCHEOLOGIA Settanta installazioni interattive ci raccontano le storie di uomini e donne della civiltà romana di Pompei, Stabia, Capri e dintorni. È il primo Museo archeologico virtuale d’Italia

Il 24 agosto del 79 dopo Cristo, quando il Vesuvio eruttava cenere e lapilli sulle teste dei pompeiani, pioveva a dirotto. La vicina città sul mare di Ercolano venne sepolta da un’enorme ondata di fango, detriti e lava bollente che, una volta raffreddata, s’indurì come la più dura delle pietre. Dopo un rinvenimento casuale nel 1738, i Borboni o chi per loro, spesso per abbellire le proprie case, iniziarono a cercare e restituire alla luce quelle vestigia, i decumani e i cardi che formavano la rete viaria con tanto di fogne, le dimore a due piani. Oggi Ercolano, con la sua pianta greco-romana a scacchiera, con le sue dimore affrescate, con la casa del magnifico mosaico di Nettuno e Anfitrite, ma con la villa dei papiri chiusa (in corso un recupero sponsorizzato dall’impresa tecnologica statunitense Packard, dovrebbe riaprire fra 3 anni) e porzioni delle terme maschili off limits per lavori, è un sito archeologico frequentato oltre 250mila turisti l’anno. Incassato sotto scarpate di 16 metri dal livello stradale, la città fondata da Eracle vive quasi soffocata da quella moderna, dalle abitazioni gialle e altre grigio-fatiscente protese sullo scavo, che sovrasta oltre due terzi della superficie antica, teatro incluso, ma non si può certo buttar giù cacciando gli abitanti. Ora, l’Ercolano moderna tenta la carta tecnologica. Con un occhio rivolto alle nuove generazioni cresciute a pane, tv e computer, attraverso un percorso tra pareti di lava posticcia nel buio, tra suoni e odori, la cittadina apre il Museo archeologico virtuale, o Mav: qui dispiega un viaggio virtuale attraverso oltre 70 installazioni interattive e plurisensoriali sulla civiltà di Pompei, Ercolano, Stabia, Capri... Un viaggio in una società eclettica, pronta ad adorare sia l’egizia Iside sia l’eroe Ercole, propensa ai piaceri della carne senza tanti confini di genere sessuale. Un percorso di immagini fluttuanti per raccontare la vita al primo impero: invece case con il fango di 2mila anni fa, pareti affrescate a color cadmio o nero, nel Mav fluttuano i led di parole che sfiorando si fermano per ricomporre massime filosofiche sul dolore, la giustizia, la felicità e il male; fluttuano immagini, acqua vaporizzata, voci, rumori, per un’esperienza virtuale benché, insegnava il film Matrix, il confine tra materiale e virtuale può svanire e il virtuale può diventare reale quasi quanto gli scheletri dei poveracci che nel 79 d.C. cercarono scampo nel mare, in spiaggia li uccise un gas mortale esalato dalle onde e le cui ossa sono fuori portata dei visitatori.
A poche centinaia di metri dagli scavi, in un edificio che è stato prima casa del fascio, poi scuola, in una via trafficata come sono trafficate le vie nello sconfinato e ininterrotto territorio urbanizzato intorno a Napoli, con 10 milioni di euro di spesa e 3 anni di lavoro, da un’idea di Gaetano Capasso della società Capware, il Comune, la Provincia di Napoli, la Regione (amministrati tutti dal centro sinistra) hanno aperto ieri il, dicono, «primo museo archeologico virtuale al mondo»: «primo» perché qualcosa di simile, non di uguale, esiste solo a Parigi, con il recente museo sulla vita di Charles De Gaulle. Il Mav vuole instaurare rapporti particolari con chi entra. In queste stanze sotterranee sfiorando con un dito uno schermo sulla parete scorrono le riproduzioni degli affreschi erotici di Pompei, quelli del Lupanare con tanto di cunnilingus, rapporti a due, a tre... Al cui proposito c’è una cautela interattiva: un badge (elemento con dati) all’ingresso identifica età, sesso, lingua (per ora italiano e inglese) del visitatore di turno. Perciò le installazioni «parlano» in italiano o inglese a seconda di chi hanno davanti, e con un/a bambino/a sfumano in immagini con bambini le esplicite scene sessuali.
Il decollo della struttura campana segue un accordo da 30 milioni di euro stilato l’altro giorno da Regione e Comune per riqualificare il patrimonio culturale e il paesaggio urbano di Ercolano. Se e come funzionerà il Mav è presto per dirlo. Lo diranno la risposta del pubblico (dovrà puntare molto sulle scuole), se e quale interessamento scientifico smuoverà, il tempo, e purché niente vada a scapito della situazione urbana intorno agli scavi (che sono statali). Corre però l’obbligo di annotare, all’apertura, l’assenza del soprintendente competente di questo e altri luoghi vesuviani come Oplontis o Stabia, l’archeologo Pietro Giovanni Guzzo: avrà avuto altro da fare, preso in questi giorni dalle complicate faccende pompeiane laddove il ministro Bondi sta per fare un sopralluogo il 25 luglio e spedire un commissario per riaggiustare la situazione di degrado intorno al sito.
Mav: orario 9-17, chiuso lunedì, ingresso 7 euro, tel. 081 19806511, www.museomav.com

l’Unità 10.7.08
A passeggio nella memoria nel Parco di Monte Giovi
di Silvia Casagrande


«Qui c’è sempre stata avversione al fascismo. Qui erano tutti comunisti nascostamente o apertamente. Tant’è vero che fin da quei tempi la chiamavano la montagna rossa, quassù». Parla da solo l’orgoglio di don Brogi, parroco di Acone ai tempi della guerra di Liberazione e anche prima, quando il fascismo non riuscì ad attecchire in quella piccola comunità alle pendici del Monte Giovi, in provincia di Firenze. Quando il regime tentò di impossessarsi della cooperativa del paese, gli abitanti avviarono un boicottaggio di massa che lo costrinse a desistere. E quando venne firmato l’armistizio dell’8 settembre, furono i contadini di Acone a nascondere e prendersi cura dei militari alleati, russi e slavi che erano stati rinchiusi nel campo di prigionia del Tamburino. E sempre gli abitanti di quel paesino fornirono un massiccio numero di combattenti alle bande partigiane. Monte Giovi è noto infatti come «la montagna dei ribelli» e nei suoi dintorni è possibile visitare ancora le roccaforti da cui i partigiani partirono per liberare Firenze. Ma ci sono anche i luoghi tristi degli eccidi e delle rappresaglie fasciste, Padulivo e Pievecchia, o il santuario della Madonna del Sasso, da cui partì l’esilio del partigiano Bube, reso famoso dal romanzo di Carlo Cassola. L’eredità di don Brogi e degli altri parroci della zona, che avevano contribuito a creare un patrimonio di ribellione antifascista anche in seno alla Chiesa, verrà raccolta da Don Milani a partire dal 1954, quando a Barbiana diede vita alla famosa scuola per i figli dei montanari e dei contadini dei dintorni, lontani da quella pubblica in ogni senso, ma che percorrevano anche due ore a piedi per andare da Don Lorenzo, dove si insegnava a diventare cittadini consapevoli e padroni del linguaggio, perchè «la parola fa eguali». «Su quelle montagne è nata la nostra Costituzione» racconta Alberto Alidori dell’Anpi, uno degli enti che, insieme alle istituzioni provinciali e comunali della zona, ha contribuito alla realizzazione del Parco della Memoria di Monte Giovi: cinque itinerari naturalistici e storici «per non dimenticare le nostre radici e la nostra identità». Il parco verrà inaugurato domenica 13 luglio alle 10.30, in occasione dell’annuale raduno dei partigiani e dei giovani. Sabato pomeriggio appuntamento a Fonte alla Capra per un’escursione guidata all’interno del parco, a seguire grigliata intorno al fuoco e spettacolo musicale.

Corriere della Sera 10.7.08
Radicali e Comunione e Liberazione
L'apertura su «Tempi»
«Paghino i giudici che sbagliano» E Cl «corteggia» i radicali


ROMA — Un patto inedito tra diavolo e acquasanta, o almeno, se non un patto, uno zampino inzuppato nell'acquasantiera. Il settimanale cattolico di osservanza ciellina Tempi lancia in questo numero un'intervista alla segretaria dei Radicali italiani, Rita Bernardini, contro il «potere assoluto» dei giudici. Significativo il titolo dell'editoriale del direttore Luigi Amicone («Questa battaglia dobbiamo combatterla insieme») contro la vera «casta che non paga mai». La ricetta? Ripartire dalla responsabilità civile dei giudici e dal referendum del 1987. Con il suggerimento allo stesso leader storico Marco Pannella (ma forse, sotto sotto c'è già un annuncio di quella che potrebbe essere la novità dell'estate) di essere presente al Meeting di Rimini a fine agosto.
Bernardini afferma tra l'altro che, paradossalmente, con la legge seguita al referendum è sempre il cittadino a pagare, «visto che a rifondere il torto subito dalla vittima di errore giudiziario non è il giudice che lo ha commesso ma lo Stato».
M.A.C.

Corriere della Sera 10.7.08
L'intervista «La folla gioca brutti scherzi, può far perdere il senso delle proporzioni. L'azione di Grillo è stata negativa»
Camilleri: piazza Navona? Un errore
Lo scrittore: se fossi rimasto lì sarei salito sul palco a chiedere scusa
di Aldo Cazzullo


Andrea Camilleri ha partecipato al «No Cav day»
Qualcosa non ha funzionato. Peccato, è stata un'occasione in parte pregiudicata

«Le sono piaciute le mie "poesie incivili"? Quella degli scheletri»?
Com'è già?
«Ha più scheletri dentro l'armadio lui/ che la cripta dei cappuccini a Palermo/ Ogni tanto di notte, quando passa il tram/ le ossa vibrano leggermente, e a quel suono/ gli si rizzano i capelli sintetici/ Teme che le ante dell'armadio si aprano/ e che torme non di fantasmi ma di giudici in toga/ balzino fuori agitando come nacchere/ tintinnanti manette... ».
Andrea Camilleri, che impressione ha tratto da piazza Navona?
«A dire il vero, ho sentito poco. I vigili mi hanno bloccato al ponte sul Tevere, e me la sono fatta a piedi sotto il sole. Già ero stanco per la giornata dell'altro ieri, passata in coda per farmi prendere le impronte. Sono arrivato provatissimo mentre parlava Di Pietro, ho ascoltato Pancho Pardi, ho letto le mie poesie e me ne sono andato. Però, a giudicare dalle cronache, hanno fatto bene Di Pietro e Furio Colombo a salire sul palco per prendere le distanze e chiedere in qualche modo scusa a Napolitano. Se fossi rimasto, pur senza averne l'autorità politica, sarei salito sul palco con loro».
Perché?
«A scuola si diceva: fuori tema. Se c'è da criticare il capo dello Stato, non lo fai in pubblico, con quattro parole. È un errore sia nel metodo sia nella sostanza».
Secondo Colombo, Travaglio è stato il primo a «deviare» dal politico al comico, evocando Orwell: «I più uguali degli altri erano i maiali, non le alte cariche dello Stato ».
«Non è un modo di chiamarmi fuori, ma non voglio giudicare parole che non ho sentito. In ogni caso, gli oratori erano maggiorenni e vaccinati. Ognuno è responsabile di quel che dice e di come lo dice. Certo, la folla gioca brutti scherzi. Può farti perdere il senso delle proporzioni».
La Guzzanti ha collocato il Papa all'inferno. Libera satira? O un errore?
«Un errore. Ripeto: fuori tema. Ratzinger non c'entrava nulla. Sì è andati al di fuori dello spirito e degli intenti degli stessi organizzatori ».
Lei all'inferno ha messo invece Maroni.
«Era una citazione di Pasolini: "Sei così ipocrita/ che quando l'ipocrisia ti avrà ucciso/ finirai all'inferno/ ma ti dirai in paradiso". Ricordavo i versi, non il loro destinatario, credo un poeta rivale di Pier Paolo. Io li ho adattati a Bobo Maroni».
«Un paio di baffi sul nulla», l'ha definito.
«Un altro furto, ai danni dei miei antichi allievi registi egiziani: così chiamavano Nasser. Sostenere che le impronte si prendono nell'interesse dei poveri bambini rom è un'ipocrisia suprema».
Con la Carfagna si è esagerato?
«Non mi pare di aver mai letto questa famigerata intercettazione. Siamo nel campo delle voci e dei pettegolezzi. Prove non ce ne sono. Quindi, meglio lasciar perdere. Vero è che il criterio con cui si assegnano i seggi in Parlamento è l'amicizia personale, e l'ho scritto su MicroMega: è sempre il solito contribuente a pagare. Lo stesso che a suo tempo foraggiò il cavallo di Caligola».
E Grillo? È possibile una convergenza con il suo movimento?
«Sono sempre stato critico con Grillo, e a maggior ragione lo sono ora. La sua è un'azione negativa. È qualunquismo. Io non sono per l'antipolitica; sono per la buona politica. È opportuno mantenere posizioni distanti da quelle di Grillo».
Veltroni come si sta muovendo?
«Io non faccio parte del Pd, e sono andato tranquillissimamente in piazza Navona. Allo stesso modo, per quel che poco che conta, andrò il 25 ottobre alla manifestazione di Veltroni, con lo stesso spirito. La divisione che si è aperta, in un momento come questo, è devastante. Mi auguro sia ricucita al più presto».
Lei oggi voterebbe Veltroni o Di Pietro?
«Oggi, Di Pietro. Il partito democratico è troppo timido. Inadeguato. Anche se non è detta l'ultima parola».
Come mai? Veltroni è condizionato dai problemi interni, con D'Alema, con gli ex democristiani?
«Il Veltroni di adesso mi ricorda il Prodi di ieri, che spiegava di non essere riuscito a sciogliere il conflitto di interessi per resistenze dall'interno. È una sinistra che si autofrena. E non so fino a che punto si possa procedere in salita autofrenandosi».
Piazza Navona è stata davvero un regalo a Berlusconi?
«Qualcosa non ha funzionato. Lo conferma la lettura dei giornali: pure l'Unità, che è sempre stata al fianco dei girotondi e in fondo aveva sostenuto pure la manifestazione dell'8 luglio, l'indomani era critica. Peccato. E' stata un'occasione in parte pregiudicata. Spero ce ne sia presto un'altra, perché la situazione è grave e seria».

Corriere della Sera 10.7.08
Clima, strappo di Cina e India «I sacrifici spettano ai Grandi»
Non passa la proposta di ridurre del 50% le emissioni entro il 2050
I Paesi emergenti fanno saltare l'intesa sui tagli dei gas serra: «Non pagheremo noi per i danni provocati da altri»
di Danilo Taino


TAYAKO (Giappone) — Il passato piomba, pesante, sugli affari internazionali correnti. No, hanno detto ieri i Paesi emergenti ai membri ricchi del G8: non abbiamo intenzione di pagare per l'anidride carbonica che avete messo nell'atmosfera per almeno un secolo e mezzo. Quindi, se volete salvare il mondo, cominciate: noi seguiremo con i nostri tempi e i nostri modi. Risultato: l'accordo per la riduzione delle emissioni di gas serra che gli Otto avevano annunciato con fanfara martedì è stato ridimensionato a qualcosa di minimo.
Il G8 (Usa, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia, Russia, Canada) incontrava il G5 (Cina, India, Brasile, Messico, Sudafrica) più Australia, Corea del Sud e Indonesia (G3) nell'ultima giornata del vertice degli Otto Grandi. In discussione era il modo di procedere nel taglio delle emissioni che pare stiano provocando l'effetto serra e l'aumento delle temperature sul pianeta. A dicembre 2009, si terrà a Copenaghen la conferenza dell'Onu che dovrebbe decidere come affrontare il problema dopo il 2012, quando gli accordi di Kyoto sul clima saranno scaduti. Quindi, in questo periodo ci si prepara e si punta a un accordo vincolante per tutti.
Gli Otto hanno proposto ieri ai Cinque e ai Tre di unirsi su una «visione condivisa» sulla base della quale ridurre del 50% le emissioni entro il 2050 (non è chiaro misurando da quale livello, se quello del 1990 come vorrebbero gli europei o quello del 2005, meno impegnativo, come vorrebbero Usa e Giappone). I Tre asiatico-pacifici hanno detto di sì. Ma la risposta dei Cinque è stata un netto No. Riconoscono la gravità della situazione. Ma dicono che i tagli devono essere prima di tutto fatti da chi ha provocato i guai odierni: e, da questo punto di vista, ritengono che il G8 sia troppo timido, che dovrebbe porsi l'obiettivo di tagliare le emissioni del-l' 80-95% entro il 2050 e del 40% già entro il 2020. Se ci fosse un impegno chiaro in questo senso, Pechino, Delhi e gli altri emergenti sarebbero disposti a considerare il loro ruolo e a dare un contributo. Fatto salvo che gli Otto dovranno finanziare in buona parte la loro riconversione tecnologica a sistemi di produzione a basse emissioni.
Il pasticcio è che, dall'altra parte, Bush dice che senza Cina e India — nuove «potenze carboniche» — non si fa niente perché sarebbe inutile. Stallo. E proposta del G8 finita nella sabbia. Si riprenderà a discutere in vista del G8 del 2009 in Italia e di Copenaghen. Il primo ministro britannico Gordon Brown ha però detto che il G8 mette a disposizione 120 miliardi di dollari (denaro futuro) per compensare e aiutare i Paesi emergenti.
Una cosa curiosa di questo G8 è stato il fatto che sul «suo» tema del clima la cancelliera tedesca Angela Merkel è rimasta in secondo piano, come se nutrisse dubbi sulle modalità di procedere. Alla fine dei lavori, non è sembrata del tutto soddisfatta. Anzi. Sul clima non si è pronunciata: ogni appunto sarebbe stato una critica al padrone di casa, il premier giapponese Yasuo Fukuda. Ha però detto che su un altro tema trattato dal G8, i rapporti tra le valute, avrebbe voluto che il comunicato finale contenesse un accenno ai cambi, che «dovrebbero esprimere meglio i fondamentali delle loro economie », frase che è stata interpretata come un richiamo a favore di un apprezzamento del dollaro.
Non solo: ha anche dato un calcio negli stinchi al presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. Questi aveva detto che la Ue darà un miliardo di euro di denaro europeo per migliorare la produzione agricola nel mondo. La cancelliera gli ha risposto che quelli non sono soldi suoi, su queste cose decidono i Paesi Ue, non la Commissione: la questione andrà riconsiderata e non è affatto scontata. Vertice nervoso e incerto, di fronte alle tante crisi globali.

Corriere della Sera 10.7.08
Da Gramsci a Robin Hood
Quell'«Opa» di Tremonti sui miti della sinistra
di Sergio Rizzo


ROMA — Un giorno d'autunno del 2001, era ministro dell'Economia da pochi mesi, Giulio Tremonti prese letteralmente in contropiede il suo ospite: «Vuole la verità? Il nostro è un vero governo di sinistra. Guardi i primi provvedimenti che sono stati presi. L'aumento delle pensioni a un milione al mese non è forse di sinistra?» L'interlocutore di quel giorno ricorda ancora oggi molto bene il colloquio e la sorpresa che provò. La stessa che oggi non avrebbe dopo che il ministro dell'Economia ha preso sempre più gusto a spiazzare gli orfani della falce e martello. Come quella volta, poche settimane prima delle ultime elezioni politiche, che su You Tube definì «un genio» nientemeno che Karl Marx. Concetto ribadito una domenica del maggio seguente quando, nuovamente ministro dell'Economia da un paio di giorni appena, suggerì in diretta televisiva di «rileggere insieme sia Marx, rivalutato anche da Benedetto XVI, sia i Quaderni di Antonio Gramsci, che per l'epoca sono stati un'opera di assoluta modernità». Suggerimento ovviamente diretto a quelli della «sinistra» che «si vestono come manager, fumano sigari, hanno gli yacht».
Roba da far venire uno stranguglione perfino ai rifondaroli. Un giorno il subcomandante Fausto Bertinotti si è sentito scavalcato a sinistra al punto da dover rivendicare pubblicamente la primogenitura nella critica alla globalizzazione («I rischi degli eccessi della tecnofinanza denunciati da Tremonti noi li avevamo visti per tempo »). E un altro giorno il governatore della Sardegna Renato Soru, di centrosinistra, ha confessato di essere scandalizzato «perché se una tassa la mette Tremonti si chiama Robin Hood tax, se la mette la mia Regione sui megayacht diventa una schifezza».
Ma Tremonti, imperterrito, continua a entrare a gamba tesa sulla «sinistra», come aveva sempre fatto. Per esempio quando, descritto come un moderno Jean-Baptiste Colbert, non aveva mostrato particolari allergie verso possibili interventi dello Stato nel salvataggio della Fiat in crisi. O quando aveva dichiarato guerra alle banche, ritenute colpevoli di aver inondato i risparmiatori di bond spazzatura, e all'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio, gettando nell'imbarazzo anche pezzi non trascurabili del centrosinistra. Ma contrariamente al passato la sua battaglia «di sinistra » contiene riferimenti che qualche ideologo non esiterebbe a definire ancora oggi classisti. Contro la speculazione («la peste del ventunesimo secolo», o meglio ancora «una bottiglia di champagne magnum sopra il barile di petrolio»). Contro chi critica la Robin Hood tax («Dicono che pesa sui clienti? Prima tassavano gli operai»), e senza risparmiare ai petrolieri battute ustionanti come quella indirizzata al proprietario del-l'Inter Massimo Moratti: «Vorrà dire che ridurranno l'ingaggio a Mourinho...». Contro la globalizzazione «forzata». E contro la «cultura dei mutui subprime»: dichiarazione che avrà fatto fare un salto sulla sedia a chi ha sempre criticato il Tremonti gran praticone della finanza creativa e delle cartolarizzazioni.
Ma tant'è. Il Giulio Tremonti di oggi, che si conferma «contro le culture globaliste, mercatiste e monetariste», e annuncia la creazione di «un fondo di sostegno per deboli e anziani» può permettersi di citare il Mahatma Gandhi, icona della sinistra pacifista, come «l'esempio più affascinante di protesta fiscale». E di rilanciare «l'economia sociale di mercato», modello tedesco che affascina tanto parte della sinistra quanto la destra sociale. Perché «il problema non è dividere quello che non c'è ma creare un maggiore prodotto da dividere secondo logica di giustizia». Resta da capire come la prenderanno i liberisti del suo schieramento. Che però, a dire la verità, sembrano un po' in disarmo.

<span style="font-weight: bold; color: rgb(204, 0, 0);">Corriere della Sera 10.7.08
La storia di Atene e gli errori di chi interpreta il famoso «Epitafio» riportato da Tucidide come un manifesto del governo popolare
Pericle, la democrazia imperialista
Potere del clan, demagogia e guerre di conquista: un'opera rilegge le vicende del V secolo
di Luciano Canfora


Mettere in discussione i fondamenti della democrazia parlando davanti al popolo sembra inverosimile. Ancora di più in una comunità come quella ateniese dove l'«attentato alla democrazia» era il reato più grave, al punto che — secondo un sarcastico cenno di Demostene — anche il furto di qualche remo dagli arsenali veniva bollato come «attentato alla democrazia» (13,14).
Eppure ad Atene poteva succedere: non certo davanti all'assemblea popolare o davanti ad un tribunale (il quale forse sarebbe stato persino più severo), ma dalla scena, nell'ambito di una azione scenica, dunque dinanzi ad una folla ben più numerosa di quella più o meno politicizzata che frequentava l'assemblea. È quel che accade nelle Supplici di Euripide, la tragedia portata sulla scena non molto dopo il 424 a.C., nel bel mezzo della quale si svolge uno scontro dialettico pro e contro la democrazia. L'audacia di una tale iniziativa passa spesso inosservata. Eppure è una vera enormità che sia potuto accadere. Euripide, che non era molto amato dal pubblico e che aveva anche amicizie politiche sospette, aveva preso le sue cautele. Così, ad esempio, gli argomenti contrari alla democrazia (l'incompetenza del «cittadino comune» al quale non possono affidarsi decisioni delicate e cruciali, la immancabile deriva demagogica etc.) li fa esprimere da un personaggio odioso. Però resta il fatto che i suoi argomenti rimangono senza risposta. L'antagonista, che è addirittura Teseo, il sovrano ateniese cui una leggenda patriottica attribuiva una mitica fondazione della democrazia, esprime bensì un sonante elogio della democrazia, ma quelle due critiche capitali non le affronta nemmeno. Quale effetto poteva avere tutto ciò sul pubblico? Difficile per noi valutarlo, ma qualche seme di dubbio di sicuro rimaneva. Riserve di tale portata erano di solito appannaggio di ambienti ristretti, che discutevano al chiuso: era audacia portarle davanti alle decine di migliaia di persone che affollavano il teatro.
A ben vedere, le parole di Teseo, così formulate e politicamente corrette, sono inficiate dal fatto stesso che chi le pronunzia è un re, il quale però afferma che «in questa contrada il governo non è di un solo uomo, ma del popolo, il quale comanda attraverso il sistema dell'alternanza annuale delle cariche»!
Ma c'è di più. La tirata del monarca antimonarchico Teseo è quasi un collage di formule che si ritrovano anche nell'opera di Tucidide, o dette da Pericle o dette a proposito di Pericle. E la parte del leone la fa — com'è ovvio— l'Epitafio pericleo, il discorso più sfruttato dai cultori dell'inesauribile genere letterario di «inventare Atene» (per parafrasare un bel titolo di Nicole Loraux). In Tucidide la situazione è tutto sommato molto chiara. A distanza di poche pagine si trovano per un verso il profilo di Pericle, il cui regime Tucidide definisce «una democrazia solo a parole, di fatto il governo del principe», e per l'altro l'elogio, pronunciato dallo stesso Pericle, del sistema politico ateniese in quanto democrazia con molti se e molti ma. Sull'insufficienza della parola «democrazia » per definire il sistema politico ateniese il Pericle tucidideo è chiaro: «La parola — egli dice — è democrazia, in quanto il sistema non opera in funzione dei pochi ma dei più, però, nelle controversie private (cioè: in tribunale), spetta a tutti la stessa parte (cioè: non si commettono soprusi)». Questa frase, di solito fraintesa dagli interpreti, diventa chiara non solo se la si pone in relazione con il realistico giudizio di Tucidide stesso («una democrazia solo a parole») ma soprattutto se si coglie il nesso oppositivo tra la prima e la seconda parte della frase: «Non ci sono soprusi in tribunale» vuol dire infatti (ma la cosa è alquanto lontana dalla realtà) che in tribunale non si esercita quella oppressione nei confronti dei ricchi che sarebbe, secondo la visione di tutti i pensatori ateniesi del V e del IV secolo, la caratteristica essenziale della democrazia.
E poiché il Pericle tucidideo sta parlando in una situazione ufficiale e celebrativa — una sorta di grandiosa pubblica lezione di educazione civica — è certo abile, da parte sua, mettere in parallelo l'equità dei tribunali (sottinteso: nel non perseguitare i ricchi) col fatto che però in pubbliche discussioni anche al povero viene lasciato spazio («non viene impedito in ragione della povertà»). Analogamente, il re propagandista Teseo, nelle Supplici, dopo aver detto «qui non siamo governati da un uomo solo», subito soggiunge che «qui comanda il popolo», e che «non si dà un posto prevalente alla ricchezza, anche il povero ha la sua parte uguale».
Cercar di capire cosa effettivamente fu il lungo predominio di Pericle, quale compromesso tra potere personale, e di clan, e «demagogia» stesse alla base di tale regime, che già Tucidide e nella sua scia Cicerone chiamano «principato», è uno dei punti cardine per la comprensione della storia ateniese del V secolo. Essa è oggetto del volume Grecia e Mediterraneo dall'età delle guerre persiane all'Ellenismo, curato da Maurizio Giangiulio per la Salerno Editrice, che completa la parte greca della Storia d'Europa e del Mediterraneo: una delle «Grandi opere » di quella aristocratica casa editrice romana.
Naturalmente non è facile addentrarsi in un terreno così delicato. La discussione divampò già al tempo di Pericle e nel secolo seguente. Basti pensare alla critica anti-periclea del maggiore pensatore ateniese, Platone, nato l'anno dopo la morte dell'abile e spregiudicato alcmeonide. E non è affatto detto che la critica platonica sia spietata, con buona pace della apologetica confutazione che ne tentò, secoli più tardi, il retore Elio Aristide.
Opere complessive e composite sono di necessità diseguali. In questo volume si apprezzano soprattutto gli interventi di Giorgio Camassa sulla formazione della comunità politica ateniese e di Giorgio Ieranò sul teatro nella polis, di Ugo Fantasia sulla guerra peloponnesiaca (che del sistema pericleo fu la tomba), di Marco Bettalli e soprattutto del coordinatore Giangiulio. È molto importante quanto scrive Bettalli sulla «aggressività della democrazia ateniese» ed in particolare sulla folle spedizione voluta da Pericle in Egitto (460-457) che costò la distruzione di almeno 250 triremi e pesantissime perdite umane. L'episodio ci è noto grazie ad un sommario cenno di Tucidide nel primo libro della sua opera. Senza di esso la vicenda sarebbe stata «inghiottita». Essa ci appare come il pendant, per avventatezza e disastroso epilogo, dell'avventura occidentale, contro Siracusa, voluta quarant'anni dopo da Alcibiade, nel 415. Ma Alcibiade è entrato nella storia come avventuriero, mentre Pericle, grazie alla prosa, fraintesa ancorché idolatrata, dell'Epitafio, si trova stabilmente collocato nell'empireo dei grandi e saggi statisti. Il che tanto più colpisce se si considera che la catastrofica scelta di andare allo scontro con Sparta fu dovuta, come rilevò Gaetano De Sanctis nel suo misconosciuto Pericle (1944), proprio a lui. Naturalmente, a sua difesa, c'è la lunga apologia della sua politica scritta da Tucidide — nella pagina più controversa (2,65) — il quale nella stessa pagina fa di tutto per «salvare» anche Alcibiade, pur senza nominarlo. Agli storici moderni non dovrebbe però sfuggire che la faziosità di Tucidide verso i due Alcmeonidi stravolge in modo sostanziale la prospettiva con cui guardiamo a quei fatti e a quei personaggi. E quanto all'Epitafio, testo cruciale in quanto prodotto ideologico, fa impressione come si preferisca fraintenderne il senso pur di tenere in piedi il mito del «manifesto della democrazia» (formula depistante che ogni tanto riaffiora: si veda, anche in questo volume, p. 302).
Eppure proprio l'Epitafio contiene quella rivendicazione, che solo Friedrich Nietzsche intese nella sua pienezza e crudeltà, del «male», non solo del bene, che Atene ha fatto «per ogni dove» (2,41).
Rivendicazione, questa, su cui gli interpreti «politicamente corretti» preferiscono chiudere gli occhi, per non guastare il quadro consolante ed edificante di una Atene in cui «si filosofeggia senza mollezza» e «si ama il bello con sobrietà». Il che detto da Pericle, bersagliato dal demo oscurantista in quanto protettore di Anassagora e di Aspasia, fa davvero sorridere.

Repubblica 10.7.08
Parola. Se 500mila anni di chiacchiere possono bastare
di Luigi Bignami


L´Heidelbergensis era già in grado di sentire i segnali acustici emessi dai suoi simili "Se ascoltava, allora parlava"

Gli scienziati pensavano che la facoltà di comunicare risalisse a 60 mila anni fa. Una ricerca spagnola va oltre E l´Homo sapiens, finora considerato l´inventore del linguaggio, cede così il primato al suo progenitore

ROMA. La parola non fu prerogativa dell´Homo sapiens, la specie a cui tutti noi apparteniamo, ma potrebbe già essere nata nel periodo del Neanderthal. O addirittura ancor prima, quando sulla Terra viveva una specie di ominide noto come Homo heidelbergensis, da cui il Neanderthal è disceso. Se così fosse, i primi colloqui scambiati tra ominidi risalirebbero a 530mila anni fa e non a 50 o 60 mila anni or sono, come si è sempre creduto. La ricerca è stata condotta da Ignacio Martinez dell´Università di Alcala in Spagna e pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences e divulgata al recente convegno "Acustic 08".
Lo studio ha seguito una strada diversa da molte altre che hanno cercato di capire se i nostri predecessori fossero in grado di parlare o meno. Di solito, infatti, le altre ricerche puntavano sulla scoperta diretta o indiretta della presenza di corde vocali, ma poiché sono tessuti assai delicati scompaiono quasi subito alla morte di un individuo e quindi è quasi impossibile che lascino tracce in un reperto fossilizzato di decine di migliaia di anni.
Martinez e colleghi, invece, sono andati a verificare se l´orecchio dei nostri progenitori fosse in grado di udire suoni emessi dalla bocca. Hanno ricostruito in dettaglio l´intera parte interna dell´orecchio di un Homo heidelbergensis scoperto in una località nota come Sima de Huesos, che si trova vicino ad Atapuerca, in Spagna. «Ricostruendo il canale auditivo e gran parte dell´orecchio attraverso tecniche di tomografia computerizzata, abbiamo messo in luce che già l´Homo heidelbergensis poteva udire frequenze molto simili a quelle che percepisce il nostro orecchio e che è ovviamente in grado di ascoltare le parole che emettiamo. Perché l´orecchio di tali ominidi avrebbe dovuto specializzarsi alla captazione di tali frequenze se non per ascoltare i suoni emessi dalla loro bocca?", afferma Rolf Quam, coautore della ricerca e paleoantropologo all´American History Museum di New York. In realtà se si esegue lo stesso lavoro sulla struttura interna dell´orecchio di uno scimpanzè, l´essere vivente geneticamente più vicino all´uomo, ci si accorge che la capacità di percepire le frequenze tra i 2.500 e i 4.000 hertz (tipiche della parola dell´uomo) è assai inferiore a quella dell´Homo sapiens, del Neanderthal e dell´Homo heidelbergensis.
Significa, allora, che gli ominidi di 500 mila anni fa si parlavano tra loro? Spiega Quam: «La scoperta non conferma in modo assoluto che quegli esseri erano in grado di parlare e di produrre discorsi, ma ciò che abbiamo trovato può avere solo due significati: la modifica dell´orecchio ha facilitato lo sviluppo del linguaggio che, almeno negli ultimi Neanderthal, si deve essere in qualche modo sviluppato oppure che la capacità di linguaggio ha fatto modificare l´orecchio per ascoltare meglio quanto emesso dalla bocca. Ora, poiché un tale sistema sensoriale è assai dispendioso dal punto di vista neurologico, non avrebbe senso che questa capacità si fosse evoluta senza un motivo specifico, che è proprio quello di ascoltare al meglio le parole».
A dar manforte a questa scoperta vi è un altro lavoro apparso su Molecular Biology and Evolution, secondo il quale due geni trovati del genoma di un Neanderthal sono del tutto simili a quelli implicati nel linguaggio dell´uomo e sono molto diversi da quelli dello scimpanzè.

Repubblica 10.7.08
Giorgio Manzi, paleoantropologo universitario
"I suoni erano come i nostri i contenuti molto più poveri"


ROM. Sono molti gli animali in grado di "parlare" tra loro. Il linguaggio dell´Homo heidelbergensis quanto diverso poteva essere da quello di un delfino o di uno scimpanzè?
«Direi che quello degli animali andrebbe definito come un sistema di comunicazione più che un vero e proprio linguaggio. E ciò vale non solo per gli animali più evoluti, ma anche per quelli più semplici, come molti insetti che, ad esempio, comunicano attraverso sostanze chimiche».
E le comunicazioni tra Neanderthal come le definisce?
«Parlerei di un primo "linguaggio verbale", ossia di una vocalizzazione che veniva articolata in una serie di significati. Quanto fosse complessa questa articolazione non è dato sapere. Vi sono correnti di pensiero che ipotizzano che una vera capacità di linguaggio l´abbiano avuto solo i Sapiens, perché ci hanno lasciato anche tracce di pensieri simbolici. I Neanderthal, invece, ci hanno lasciato poco o nulla a tal proposito. È possibile, comunque, che essi non abbiano avuto il tempo di raggiungere un vero e proprio linguaggio solo perché si sono estinti prima».
Ma è ipotizzabile che il loro linguaggio potesse trasmettere anche parole di sentimento?
«È difficile. È assai probabile, invece, che in realtà il loro fosse un linguaggio simile al nostro dal punto di vista dell´emissione dei suoni, ma molto povero per quanto riguarda i contenuti».
(l. b.)