domenica 13 luglio 2008

Corriere della Sera 13.7.08
La difesa della razza
di Sergio Luzzatto


La scorsa settimana, chiunque abbia frequentato le edicole si è trovato sotto gli occhi la copertina di Panorama: un bambino rom sulla panca di una questura, vestito di un'evocativa maglietta a strisce, che si copre vergognoso la sua faccia di baby-ladro. E un titolo inequivocabile: «Nati per rubare». Così, domani 14 luglio 2008 noi tutti potremo festeggiare degnamente il settantesimo anniversario del 14 luglio 1938, quando il Giornale d'Italia pubblicò il «Manifesto della razza» voluto da Benito Mussolini. Dopo un'attesa tanto lunga da sembrare interminabile, i giornalisti di Silvio Berlusconi hanno finalmente sbattuto in prima pagina i mostri del nostro tempo. Strilli pure l'Europarlamento, bocciando come razzista la raccolta delle impronte digitali dei rom. Strilli pure la Chiesa cattolica, che denuncia come scandalose le misure anti-zingari. Niente da fare, da qui non si passa. Noi italiani abbiamo infine trovato i celoduristi che ci garantiscono la difesa della razza

l’Unità 13.7.08
L’interesse del conflitto
di Furio Colombo


La notizia è giunta tardi e mi induce a dirvela prima di ciò che sto per scrivere perché dubito che la troverete su molti altri giornali. Venerdì al Senato americano, i democratici hanno tentato di abbattere la privatizzazione delle cure mediche per gli anziani e di tornare all’estremismo di Kennedy, Johnson, Carter e Clinton: le cure mediche sono un diritto dei cittadini. La proposta repubblicana era: abbandonare i vecchi al buon cuore delle compagnie di assicurazione.
Ha scritto l’economista di Princeton Paul Krugman (New York Times 12 luglio): «Sembrava un film. Ai democratici mancava un voto per vincere. All’improvviso si è presentato in aula il settantasettenne Senatore Kennedy, appena operato di tumore alla testa. Kennedy ha portato il voto risolutivo. Bush e il dominio delle assicurazioni private sono stati sconfitti».
È una storia che dice molto della testarda ossessione di un vecchio, grande politico americano di stare ogni momento, e fino alla fine, dalla parte dei cittadini. Per noi è solo un simbolo, ma perché non dichiarare subito che solo così, qualunque sia il suo stato anagrafico, un leader politico può definirsi «coraggioso»?
Ma ora riprendo il mio percorso fra le tristi notizie italiane.
***
Mi era venuto in mente, pensate, di dire in questo articolo, che il conflitto di interessi paga, che alla fine di qualunque storia che non sia una fiaba vince il più forte, non il migliore (persino se la forza è rubata attraverso l’abuso sia del potere privato che di quello pubblico), che non c’è niente di male nel sentirsi migliore di chi attacca o minaccia o ricatta tutti i poteri dello Stato e scardina, piega o abolisce con le sue leggi tutte le regole.
Mi era venuto in mente di dire che, per forza, molti perdono la testa, il filo e il sentiero della ragione dopo quindici anni di realtà berlusconiana raccontata a rovescio, deformata, amputata, pur di isolare, più o meno intatta, l’immagine di una sola persona - Berlusconi l’immune - costringendo tutti gli altri protagonisti presenti in scena a una forma di sottomissione, a un continuo addossarsi di colpe, o ad essere confinati dal consenso comune (dei buoni e dei cattivi commentatori) nell’isola degli estremisti, dove persino ciò che rimane di Rifondazione (Sansonetti, Liberazione, 10 luglio) ti ingiunge di chiedere scusa, e si unisce agli scandalizzati non dello scandalo, ma di chi lo denuncia, visto come un guastafeste, ovviamente estraneo alla sinistra, sia quando usa i toni sbagliati, sia quando usa quelli giusti.
Avrei voluto scrivere che non ci sono toni giusti perché, alla fine, come puoi presumere di essere un giudice, nel mondo in cui tutti ormai accettiamo di dire o lasciar dire che i giudici sono comunque manovrati da una forza politica, nel mondo in cui tutti, tutti più o meno, diciamo: «Basta con l’uso politico della giustizia» (alcuni usano l’assurda parola “giustizialismo”, dicono: «occorre far finire questa anomalia»; e precisano che l’anomalia sono i giudici che indagano, non coloro che - avendo grandi responsabilità politiche - ne approfittano e commettono reati).
Non dirò che sono stato dissuaso dalla enormità dei fatti, che sono questi: sono stati resi immuni da ogni azione giudiziaria le quattro più alte cariche dello Stato. Ma una, il presidente della Repubblica, è già difeso dalla Costituzione. Due, se malauguratamente inquisiste, non danno luogo ad alcuna impossibilità di governare perché sono cariche elettive interne al Parlamento e in caso di necessità si possono rieleggere o alternare senza coinvolgere o negare il consenso dei cittadini. Rimane la quarta, ma la quarta è il plurimputato Silvio Berlusconi. Dunque tutto è avvenuto per una sola persona anomala. E una immensa barricata, che coinvolge persone estranee a ogni imputazione, è stata eretta, per quella sola persona deformando lo Stato, creando per la Repubblica un danno senza ritorno, una ferita sul volto dell’Italia che ci renderà unici e riconoscibili anche in futuro.
Potrei continuare raccontando il modo un po’ mussoliniano con cui stata strangolata, in questi giorni, la Camera dei Deputati, soffocandone il dibattito fino al ridicolo per una grande istituzione democratica, forzando ognuno di noi, in quel quasi silenzio, ad apparire complici del progetto in cui il presidente-imputato esige la sua legge liberatoria, e la vuole sùbito, impone tempi ridicolamente stretti al presidente della Camera e il presidente della Camera si presta, obbedisce, esegue: «Volete un solo giorno di finto dibattito (finto perché la disciplina della maggioranza era toccante; finto per l’eroismo dell’Udc di Casini, che ha scelto l’astensionismo per non ipotecare il futuro; finto per il numero di minuti dedicati al dissenso). Come no? Agli ordini». Lo sanno tutti che un Parlamento (potere democratico dello Stato) è agli ordini dell’esecutivo e dunque si impegnerà nella missione di mettere a tacere l’altro potere democratico, quello giudiziario.
Potrei raccontare i veri e propri momenti di urla e rivolta fisica della maggioranza ad ogni tentativo di Pd e Italia dei Valori di porre almeno un argine alla prepotente imposizione di discussione strangolata. Pensate, persino la sinistra sembra provar piacere a condannare "l’opposizione urlata"; ma in Parlamento le sole urla che si sentono, alte e selvagge, sono quelle della maggioranza che si getta con furore su ogni spiraglio di resistenza, per quanto mite.
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Invece mi fermo qui, per dire: questo è il mio millesimo editoriale, uguale agli altri. È una rappresentazione fedele di ciò che accade. Ma ciò che accade ripete un gioco di potere che in fondo non si è interrotto mai, neppure nei pochi giorni di Prodi. Perché anche in quei giorni sono rimasti intatti tutti i centri di controllo di ciò che sappiamo ogni giorno del Paese. Infatti Prodi è apparso un grave e fastidioso pericolo mentre governava, veniva additato all’Italia come un incapace ed esoso esattore di tasse e come la rovina della nostra economia, che adesso è totalmente paralizzata e in stato di abbandono. E intanto i costi e le tasse salgono ma il nuovo Parlamento italiano è impegnato a fermare i giudici.
Mi fermo anche per il modo efficace con cui il notista della Stampa Ugo Magri racconta un momento della non esemplare giornata alla Camera che abbiamo appena vissuto. Cito: «Perfino Furio Colombo viene snobbato dai colleghi Pd, i quali si vede che ne hanno le tasche piene, nel momento in cui invoca “solidarietà per i magistrati che Berlusconi considera un cancro”».
Mi resta da dire che ho pronunciato questa frase in modo deliberatamente formale e non stentoreo sapendo - come è accaduto - che sarei stato subito coperto da urla. Strana cosa le urla di una larga maggioranza di potere che non rischierebbe nulla perfino ostentando una flemma tipo Anthony Eden o Lord Sandwich. Ma quelle urla ci dicono come è, come sarà l’epoca di potere che comincia adesso. Che nessuno pensi impunemente di sgarrare. Dalla gabbia mediatica non si sfugge. Provvede la gabbia mediatica, con la partecipazione straordinaria e volontaria di tanti di noi, a dire, proprio mentre urla fino al parossismo l’intero Popolo delle libertà, che l’opposizione “urlata” ed “estremista” è proprio insopportabile.
Dirò che mi fermo, in attesa di nuovi eventi che saranno, tra poco, così clamorosi, inauditi e - ripeteremo noi, pedanti - estranei alla democrazia, da prendere di sorpresa persino chi ha sempre dichiarato piena sfiducia in questo governo e nella sua maggioranza. Azzardo una previsione, e la proporrò. Sarà la descrizione di un paesaggio grave e tragico. Anche se vorranno costringerci alla percezione prevista dal copione. Ci diranno che è il “ritorno al Paese normale”.
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E’ il momento in cui si scopre che il conflitto di interessi ha un suo modo pernicioso di spandersi, anno dopo anno, in Italia. È l’interesse del conflitto, nei due sensi letterali: perché l’interesse è un continuo dividendo che il Paese deve pagare al titolare del conflitto, concedendogli ogni volta di più, visto che controlla così tanto.
Ma è anche l’interesse a mantenere vivo il conflitto perché i nemici, bene in vista e tenuti alla gogna, sono indispensabili per un governare montato come una campagna elettorale che non finisce mai. Nonostante l’effetto illusorio di una pace sempre possibile e sempre vicina, ogni accostamento viene impedito alzando bruscamente il prezzo, in modo che sia impossibile. Ma sempre per colpa dell’altro e a meno di un di un cedimento che ne cancella l’identità e lo esibisce come preda.
Dunque l’interesse remunera due volte il conflitto. C’è - s’intende - la condizione del rigoroso rovesciamento mediatico. Esempio: se gli aggrediti da questo potere commettono l’errore di rispondere con un insulto a un insulto, solo l’ insulto degli aggrediti sarà ricordato, ripetuto, inchiodato nella memoria collettiva. Avverrà a cura dei media, in modo che l’autore potente del primo insulto appaia sempre il mite protagonista vilmente insultato. Un esempio: Berlusconi definisce “cancro” e “metastasi” i giudici senza altra ragione che i temuti processi contro di lui. I media registrano e dimenticano all’istante. Fanno in modo che non se ne parli mai più, fino allo sbadiglio di Ugo Magri sulla Stampa per la mia frase. Ma se dite “magnaccia” (parola forse un po’ esagerata) al primo ministro sorpreso a sistemare le sue giovani amiche nella Tv di Stato, state tranquilli: se ne parlerà per sempre.
Temo invece, dati i tempi e dati i media, che non si parlerà per sempre della odiosa intenzione, inclusa nel “pacchetto sicurezza” del ministro dell’interno italiano Maroni, di obbligare all’umiliazione delle impronte digitali i bambini Rom, sia quelli italiani sia quelli ospiti del Paese Italia, che sta rapidamente diventando il più barbaro d’Europa. Giovedì 10 aprile il Parlamento europeo ha condannato a larga maggioranza l’Italia per l’incivile progetto. Il ministro degli Esteri Frattini e il ministro per gli Affari europei dell’attuale governo italiano Rochi, hanno subito indossato la faccia dell’«ora fatale del destino che batte nel cielo della nostra patria» (le prime parole del discorso di Mussolini, 10 giugno 1940) per ribattere a muso duro al Parlamento europeo che le nostre impronte digitali ai bambini non sono affari loro. Ronchi ha detto giustamente: «E’ il momento peggiore del nostro rapporto con l’Europa».
Vero, ma suona ridicola una frase così solenne se detta dal colpevole colto sul fatto. Il fatto triste è che Frattini e Ronchi intendevano proprio dire: «Se noi abbiamo deciso di svergognare l’Italia e affiancarla, quanto a diritti civili, allo Zimbabwe, sono affari nostri. E nessuno ci deve impedire di infangare come vogliamo la nostra immagine».
I due ministri, nel loro impegno a puntare sul peggio, sono apparsi così decisi, così sicuri che si possa buttare all’aria ogni decente e rispettoso rapporto con l’Europa, e così irrilevante essere considerati da Paesi civili come un Paese incivile, da rendere un po’ meno cupa l’immagine del ministro Maroni. Il ministro, in nome delle superstizioni della sottocultura leghista, priva di ogni soccorso, anche modesto, della cultura comune, ha dichiarato diverse guerre, tutte ai poveri e ai deboli inventati come nemici.
Pensate alla sua guerra ai Rom, che sono 150mila, metà italiani, metà donne, metà bambini. Il loro coordinatore, Xavian Santino Spinelli, ha parlato in Piazza Navona a nome dei molti Rom presenti (è la prima volta nella storia politica del nostro Paese) e a nome di tutti i Rom italiani.
Forse dispiacerà alla sottocultura leghista che il Rom Spinelli oltre a essere musicista (troppo facile, diranno) sia anche docente di Antropologia all’Università di Trieste. Il fatto è che il peggio di Maroni ha fatto nascere un meglio senza precedenti nelle vita italiana: un legame con il popolo Rom. Giovedì 8 luglio, per fare un altro esempio senza precedenti, la sala conferenze della Fondazione Basso era affollata di di Rom e di intellettuali della Fondazione per discutere il che fare insieme. Il lunedì precedente l’Arci ha organizzato in Piazza Esquilino una raccolta di impronte digitali di adulti e bambini italiani, evento affollato e filmato da una decina di televisioni europee e americane.
Ma proviamo a confrontare l’indefesso lavoro del ministro Maroni contro i piccoli, i deboli, gli scampati alla traversata del mare e alle guerre e persecuzioni nei loro Paesi, con ciò che pensa (del pensiero padano, del ministro Maroni e, ovviamente dell’illustre governo di Frattini e Ronchi) il Cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi. Cito da pag. 13 de Il Giornale, 8 luglio: «Asili per gli immigrati: le materne comunali dovrebbero essere aperte anche ai figli degli immigrati clandestini. Lo sgombero dei Rom: l’impressione è che nello sgombero si sia scesi sotto la soglia di tutela dei fondamentali diritti umani. L’esercito nelle città: I soldati servono ad aumentare la paura. La sicurezza non passa per decreto legge. La moschea di Viale Jenner: Maroni sposta la moschea? Solo un regime fascista e populista usa tali metodi dittatoriali».
Lo stesso giorno il ministro della Difesa La Russa aveva detto, con la sua famosa mancanza totale di humour: «Per il momento sembra chiaro che ai militari, a Milano, sarà affidata la sorveglianza del Duomo e delle chiese più importanti». Il Cardinale, che celebra ogni giorno la messa in Duomo, ha visto sùbito immagini che a uomini intelligenti e sensibili evocano Pinochet.
Come si è visto, l’interesse del conflitto è grande e sfacciato abbastanza da indurre l’editore del governo (che è anche il governo dell’editore) a pubblicare la più squallida e violenta copertina che mai settimanale politico europeo abbia pensato di pubblicare. Panorama, 10 luglio: la fotografia è quella di un bambino che i lettori sono chiamati a identificare come zingaro. Il titolo è “Nati per rubare”. Segue questo testo: «Appena vengono al mondo li addestrano ai furti, agli scippi, all’accattonaggio. E se non ubbidiscono sono botte e violenze. Ecco la vita di strada dei piccoli Rom che il ministro Maroni vuole censire, anche con le impronte digitali».
So di averne già parlato, ma ripeto le citazioni e l’immagine per due ragioni. Una è l’ offesa per una pubblicazione che esalta, secondo i canoni di Goebbels, l’indegnità genetica dei bambini di un popolo. L’altra è la solidarietà ai colleghi di Panorama, molti dei quali conosco e stimo personalmente, per l’umiliazione imposta loro da un proprietario che, dovendosi salvare dai suoi processi, ha bisogno dei voti leghisti e dunque deve pagare (e far pagare) pesanti tributi alla sottocultura leghista così risolutamente respinta dal Vescovo di Milano, in piena solitudine.
L’interesse del conflitto è una infezione che continua ad estendersi. Ma siamo appena all’inizio delle sue conseguenze peggiori. Purtroppo, a fra poco.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 13.7.08
Gli under 40 del Pd: più laicità e diritti civili
La riunione dei «Mille»: «Spesso le nostre idee non trovano spazio nel progetto del partito»
di Andrea Carugati


IL «PADRE» non l’hanno ucciso, nonostante questa fosse la «necessità» che dava il titolo al dibattito introduttivo della loro tre giorni di assemblea, che si chiude
oggi a Roma. Eppure i Mille, rete di democratici under 40, cervelli in fuga e aspiranti leader di domani, qualche schema l’hanno rotto. Ieri mattina, per la precisione. Quando nella grande sala della sede Pd del Nazareno, quella che ospitava, fino a non molto tempo fa, il gotha della Margherita, si sono riuniti numerosi dirigenti del movimento gay e lesbico per discutere, proprio là dove ancora si incontrano Rutelli, Marini, Bindi e Castagnetti, di matrimoni gay, e pure di adozioni. In sala due bimbi piccoli, accompagnati dalle mamme: due mamme per ogni bambino, si chiamano famiglie «arcobaleno», o meglio «omogenitoriali». E Ivan Scalfarotto, uno dei fondatori dei Mille, ha sfidato i dirigenti del movimento gay presenti, da Aurelio Mancuso a Imma Battaglia, sostenendo, da militante del Pd assolutamente non pentito, che «la linea del nostro partito sui diritti civili è molto deludente, a destra di molti partiti di destra europei. Altro che Dico o Pacs, noi dobbiamo chiedere il matrimonio per i gay, gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini anche in caso di adozioni. Altrimenti si chiama apartheid».
È proprio dentro il partito che i Mille vogliono battersi su questi temi: «Lo so», dice Scalfarotto, «quando parlano la Binetti o la Baio i media danno loro molto più spazio di quando parliamo noi: è per questo che dobbiamo farci sentire, anche alzando il livello dello scontro». Paola Concia, unica deputata gay dichiarata del Pd, è più prudente: lei una proposta per i diritti delle famiglie omogenitoriali l’ha già presentata in Parlamento e dice: «Non ero sola, l’hanno firmata altri 30 deputati del Pd».
Marco Simoni, portavoce dei Mille che oggi sarà rieletto, 34enne professore di capitalismo comparato alla London School of Economics, ha invece un altro tema in testa: quello generazionale. «Quando sento dire che sono giovane mi prudono le mani: ma come, ho un figlio, faccio il professore all’Università e sono un eterno giovane? La verità è che solo in Italia alla nostra età ci trattano da ragazzini. E questo è uno dei modi per giustificare una precarietà che non c’è nemmeno negli Usa a questi livelli».
Ma chi sono questi Mille e cosa vogliono? Invece di discussioni fanno «brainstorming», molti vivono all’estero, vestono stile campus americano, adorano internet e i blog. «Ma non siamo i cervelloni contrapposti ai volontari delle feste dell’Unità», dice Cristiana Alicata. «Io a fare la volontaria alle feste ci vado, così molti di noi. Però non ci vergogniamo di essere ingegneri o professori. Anzi, il fatto che viviamo del nostro stipendio, senza pensare alla politica come carriera ci rende più liberi...». Il professore italiano arrivato a Roma ieri dalla sua università nel Michigan, un po’ sopra i 40 anni ma accolto ugualmente a braccia aperte, dice: «Noi nel blog dei Mille ci mettiamo idee e progetti, ma purtroppo non diventano idee e programmi del Pd, nemmeno riusciamo ad aprire dei dibattiti dentro il partito. E invece dobbiamo fare come ha fatto la Lega: portare avanti progetti e parole d’ordine e farli diventare senso comune. Sarà perché sto in America, ma quello che vuole fare il Pd ancora non l’ho capito...». Punzecchiature, ma i Mille, che a gran voce dicono «non siamo una corrente», non hanno nel mirino la leadership di Veltroni. Anzi, sono nati nel giugno 2007, proprio per sostenere la corsa alle primarie di Veltroni. E tuttavia delle polemiche interne, congresso, alleanze, si tengono alla larga. «Non ci interessano queste cose», spiega Simoni. «E il problema non è lamentarsi perché mancano idee e luoghi dove discutere. Nel Pd la possibilità di dire la propria c’è, e noi siamo nati proprio per dare voce a tutti quelli che hanno qualcosa da dire». Chiude Scalfarotto: «Noi siamo nati per mettere insieme quelli che non ne possono più delle divisioni tra i vecchi leader, i tanti Romei e Giuliette che si amano nonostante vengano da famiglie diverse, tipo i veltroniani o i dalemiani».

l’Unità 13.7.08
Conflitti e tensioni in Cina, l’armonia è solo propaganda
di Gabriel Bertinetto


CONFLITTI ETNICI, religiosi, sociali, economici. In Cina non regna l’armonia indicata dai dirigenti come primario obiettivo dell’azione di governo. In Tibet e in Xingiang Pechino è alle prese con movimenti autonomistici, genericamente bollati come eversivi. Altrove la gente protesta contro la corruzione

Si chiamavano Mukhtar Setiwaldi e Abduweli Imin, cinesi dal nome assai poco «han». Membri della minoranza ujgura dello Xinjiang, sono stati fucilati mercoledì scorso a Kashgar poche ore dopo la sentenza a carico di 17 presunti separatisti del Movimento islamico del Turkestan orientale. Per gli altri pene da 10 anni all’ergastolo. Il giorno stesso la polizia ha annunciato l’uccisione di 5 ribelli «jihadisti», e, negli ultimi sei mesi, l’arresto di 66 e la distruzione di 41 campi di addestramento. Per Pechino il problema nello Xinjiang sta tutto lì: una piccola ma agguerrita minoranza eversiva armata. I dissidenti ujguri sostengono che le autorità centrali sarebbero in realtà interessate a soffocare ogni vagito autonomistico, nelle Xingjiang come in Tibet. L’avvicinarsi delle Olimpiadi diventa l’occasione propizia per denunciare piani terroristici di grande portata e scatenare una repressione indiscriminata. E a lanciare una martellante campagna sulle minacce incombenti di «gruppi illegali», che progetterebbero tra l’altro assassini di stranieri e cinesi impegnati nell’organizzazione dei Giochi. Quanto ci sia di vero o di esagerato o di pretestuoso in quelle quasi quotidiane denunce, è difficile dire. Ma certo questo clima di tensione non contribuisce ad avvalorare l’immagine di una società «armoniosa», che da qualche anno è il leit-motiv della propaganda ufficiale, e viene costantemente sbandierato come principale obiettivo dell’azione di governo.
L’armonia arriverà forse un giorno in Cina. Nel presente quell’ideale è contraddetto da conflitti di vario tipo, che sembrano preoccupare i dirigenti più ancora delle critiche che arrivano dall’estero per le violazioni dei diritti umani e democratici. «La Cina tiene all’applauso della comunità internazionale, ma questo viene solo dopo la stabilità interna, e se deve scegliere opta per la seconda», afferma Jiang Qisheng, cinese membro di Pen (associazione internazionale per la difesa della libertà d’espressione).
Il fermento che, quasi sempre celato all’opinione pubblica mondiale, scuote lo Xingjiang, ha radici in parte simili a quelle della protesta che a Lhasa si ispira alla guida spirituale del Dalai Lama. Se si eccettuano le eventuali connessioni di alcune frange ujgure con l’eversione qaedista, il malessere sociale in entrambe le province ha una doppia natura, culturale ed economica. Sono infatti due delle aree meno sviluppate nel Paese, dove l’etnia indigena, ujgura o tibetana, musulmana o buddista, lamenta di essere emarginata a vantaggio dei cittadini “han” di antica o nuova immigrazione. L’accusa di perseguire l’indipendenza con metodi violenti non risparmia il Dalai Lama, benché quest’ultimo abbia sempre chiaramente detto di aspirare per la sua terra all’autonomia e abbia sempre condannato l’uso delle armi. Le proteste soffocate con la forza a Lhasa in marzo, hanno dimostrato quanto fossero diffusi i risentimenti anti-cinesi fra i locali, benché da anni il governo sostenesse che i progressi economici in Tibet avevano creato un vasto consenso e l’ostilità verso il potere centrale riguardava solo minoranze sovversive. Secondo notizie diffuse dall’agenzia Xinhua, negli incidenti di marzo morirono 19 persone, 42 sono state condannate a pene che variano dai 3 anni all’ergastolo, e 116 sono in attesa di processo. La resistenza fornisce cifre molto più elevate. Le vittime sarebbero state più di cento.
La rivendicazione di libertà religiosa, che è solo una componente nella mobilitazione ujgura e tibetana, è l’elemento chiave nell’attività della setta Falun, diffusa in tutto il territorio nazionale. Gli aderenti erano forse 80 milioni quando scattò l’ondata repressiva lanciata dall’ex-presidente Jiang Zemin nel 1999 contro «un culto che instilla superstizioni fra la gente». In realtà i leader cinesi erano spaventati dalla rapida diffusione di un movimento fondato solo nel 1992, ma ispirato ad antiche tradizioni di esercizio fisico e spirituale per il miglioramento individuale, i cui adepti non avevano peli sulla lingua nel criticare gli errori e gli abusi del potere. Difficile dire quanto sia forte oggi in Cina la Falun. Certo è ancora temuta se Pechino la menziona specificamente tra le organizzazioni sospettate per «attacchi terroristici e atti di sabotaggio» e promette ricompense a chi ne denuncerà le attività.
Ha favorito il formidabile proselitismo della Falun il coraggio nel denunciare le malefatte della burocrazia. Tema a cui sono molto sensibili i cinesi, quello delle prevaricazioni di un potere spesso impermeabile alla giustizia comune. Ne derivano frequenti scoppi di rabbia popolare che qualche volta assumono l’aspetto di rivolta. Alla fine di giugno ha avuto larga eco internazionale l’assalto di diecimila persone infuriate ai commissariati di Wengan, nella provincia dello Guizhou. La gente era esasperata perché la polizia aveva archiviato come suicidio la morte di una ragazza stuprata e uccisa dal figlio di un notabile locale. Talvolta la verità si impone attraverso la mastodontica evidenza delle catastrofi. Com’è accaduto in Sichuan con il terremoto di maggio e le sue oltre 70mila vittime. Delle quali 9mila sono alunni e docenti sepolti sotto le macerie di scuole costruite con materiali di scarto perché i funzionari locali si erano intascati l’85% dei fondi. Le famiglie hanno manifestato pubblicamente chiedendo provvedimenti contro i responsabili. E come spesso accade, chi si è esposto maggiormente, l’attivista per i diritti umani Huang Qi, è finito in manette.
Lo strapotere dei dirigenti e la corruzione sono spesso all’origine di quelle che vengono rubricate in Cina come «proteste di massa». Il loro numero, secondo Pechino, è diminuito rispetto al picco toccato nel 2005 con 87mila episodi di maggiore o minore rilevanza, ma sono comunque ancora numerosi. Il problema è che nonostante l’intrepido dinamismo di singoli attivisti, la maggior parte delle iniziative hanno carattere locale. Manca un coordinamento, anche perché la crescita della libertà economica nella Repubblica popolare non ha portato con sé alcun pluralismo politico. Dorothy Solinger, sinologa americana, rileva che «frammenti insoddisfatti della popolazione, dalle ong ai frequentatori di internet, dagli intellettuali ai contadini che si ribellano all’inquinamento (provocato dall’industrializzazione selvaggia) e agli espropri di terre, sono troppo dispersi geograficamente per costituire dei movimenti ampi e influenti».
Proprio per questo, un canale spesso seguito per sollevare un problema di qualunque genere, dalle fabbriche in cui si lavora il doppio delle ore previste dalla legge senza garanzie sindacali e di sicurezza, alla censura, alla corruzione, all’arbitrio della casta, è l’inoltro di una petizione. Ufficialmente incoraggiata dal governo, la denuncia scritta e sottoscritta rischia però di ritorcersi verso il promotore. Ne sa qualcosa Liu Jie, che sei mesi fa è finita in un campo di rieducazione subito dopo avere presentato alle autorità la proposta di abolire proprio quel tipo di detenzione che Mao riservò agli avversari politici.

l’Unità 13.7.08
Il Papa verso Sydney: pedofilia incompatibile con il sacerdozio
In Australia lo scandalo è stato molto esteso, già in corso proteste
Benedetto XVI parteciperà alla Giornata mondiale della Gioventù
di Roberto Monteforte


IL FUTURO DEL PIANETA e l’ambiente. La speranza e i giovani, ma come negli Stati Uniti, soprattutto lo scandalo degli abusi sessuali che ha coinvolto la Chiesa cattolica anche in Australia. Sono queste le sfide con le quali si misurerà Benedetto XVI da ieri in volo intercontinentale per Sydney, dove, dopo tre giorni di riposo, giovedì 17 luglio presenzierà la 23/ma edizione della Giornata Mondiale della Gioventù (Gmg). Come nella sua visita apostolica negli Usa dello scorso aprile, il Papa non eluderà il problema degli abusi sessuali, ferita ancora aperta per la Chiesa. Anzi. «Essere prete è incompatibile con gli abusi sessuali, con questo comportamento che contraddice la santità» ha scandito ieri mattina, rispondendo alle domande dei giornalisti a bordo dell’aereo papale, il Boeing 777 dell’Alitalia che da Fiumicino lo sta conducendo in Australia per il volo più lungo del suo pontificato. Benedetto XVI, come a Washington e a New York, chiederà perdono a nome della Chiesa alle vittime degli abusi sessuali commessi dai preti del «nuovo continente». Lo ha assicurato lui stesso. Negli Usa è stato «portato a parlare degli abusi per la centralità del tema in America». «In Australia sarà lo stesso». «È essenziale per la Chiesa - ha aggiunto - rappacificare, prevenire, aiutare e vedere la colpa insita in questo problema». La linea è quella della tolleranza zero. «Deve essere chiaro che il vero sacerdozio non è compatibile» con gli abusi sessuali «perché i preti sono al servizio di nostro Signore». Papa Ratzinger punta a sanare le ferite che hanno scosso la credibilità della Chiesa e che pesano ancora. Stando almeno alle iniziative di protesta preannunciate dalle associazioni delle famiglie e delle vittime degli abusi, come la «Broken Rites Australia» i cui aderenti hanno assicurato che accoglieranno il pontefice con una t-shirt con sopra stampati i 107 nomi dei preti condannati dal 1993 per aver commesso crimini sessuali.
Quella degli scandali sessuali non è la sola preoccupazione di Benedetto XVI. Anche se saranno la gioia e la speranza a contrassegnare l’appuntamento con i giovani che da tutto il mondo si sono dati appuntamento a Sydney per la Gmg, gli organizzatori prevedono 250mila presenze, il Papa ha anticipato ai giornalisti uno dei temi presenti in questa Gmg: la preoccupazione per il futuro del pianeta. «Parlare dello Spirito Santo - ha spiegato - è parlare della creazione e della nostra responsabilità nei suoi confronti». L’obiettivo della Chiesa è di «risvegliare le coscienze per rispondere a questa grande sfida e ritrovare la capacità etica di cambiare in bene la situazione dell’ambiente». Non compete alla Chiesa trovare soluzioni. Così Ratzinger chiama in causa la responsabilità della «politica e degli specialisti». Quello che, però, rilancia è l’invito a «cambiare stili di vita». Sono i temi affrontati nel suo recente messaggio ai grandi del G8 e in quello diffuso ieri per la 82a Giornata Missionaria Mondiale. «Il progresso tecnologico, quando non è finalizzato alla dignità e al bene dell’uomo, né ordinato ad uno sviluppo solidale - afferma-, perde la sua potenzialità di fattore di speranza e rischia anzi di acuire squilibri e ingiustizie già esistenti».
Tra i temi affrontati durante la conversazione con i giornalisti del volo papale vi è stato pure quello dell’ecumenismo e della difficile situazione che attraversa la Chiesa Anglicana, con minacce di scisma per la recente apertura all’ordinazione episcopale alle donne». «Il mio desiderio - ha risposto il pontefice - è che gli anglicani evitino lo scisma e trovino il cammino dell’unione. Innanzitutto pregherò. Non dobbiamo intervenire in questo momento della discussione».
L’aereo papale dopo uno scalo tecnico atterrerà a Richmond (Sydney) alle 15 ore locali. Con ben 21 ore di viaggio e 8 fusi orari da smaltire, il Papa si riposerà per tre giorni a Kenthurst, nei dintorni di Sydney. Solo giovedì, a bordo di un battello, raggiungerà Barangaroo East Darling Harbour, la grande baia di per il primo incontro con i giovani.

l’Unità 13.7.08
Della Volpe, con Marx dalla parte di Galilei
di Michele Prospero


ANNIVERSARI Quarant’anni fa moriva il più grande pensatore marxista del secondo ’900. La sua battaglia fu contro un’idea «mistica» della Ragione. Fedelissimo al Pci, da esso fu guardato con diffidenza. Oggi ne apprezziamo la straordinaria ricchezza

Quando, nei primi anni Quaranta, Galvano Della Volpe si accostò al marxismo, aveva già alle sue spalle una assai intensa e molto marcata produzione teorica. Poco italiana si potrebbe anche dire, per via della sua impronta quasi neopositivista. Non si può però in alcun modo parlare di «due» Della Volpe. Il filosofo che, dopo aver varcato i 40 anni, scoprì Marx non compì affatto una rottura con la sua ventennale riflessione. Collocò piuttosto il nucleo del suo precedente lavoro filologico-critico, mirante a rivendicare la positività dell’esperienza sensibile, nelle nuove categorie analitiche che esploravano il mondo dell’empirico sociale. Non è un caso che il suo Marx sia proprio il giovane autore della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, opera che Della Volpe lesse come depositaria più d’ogni altra del paradigma scientifico di Marx. Non è per caso che questo sia avvenuto. In fondo le istanze critiche ospitate nel manoscritto del 1843, che della Volpe tradusse e impose a lungo nel dibattito teorico, ricalcavano lo stesso tragitto intrapreso dal filosofo imolese scomparso il 13 luglio del 1968. A ispirare la radicale critica di Marx alla dialettica hegeliana comparivano infatti l’Aristotele del libro quarto della Metafisica, un certo Kant ostile al razionalismo astratto leibniziano in nome della positività del sensibile, il Feuerbach scopritore dell’oscuro sottofondo teologico della filosofia moderna dopo Cartesio. Insomma, proprio gli stessi riferimenti gnoseologici di Della Volpe (Hume e Galilei a parte). La figura di Marx non poteva che affacciarsi in lui come il compimento di una linea critica e rigorosamente laico-scientifica di interpretazione del reale.
Anche quando Della Volpe si muoveva ancora ben dentro le coordinate dell’idealismo filosofico (più di Gentile che di Croce) non mancavano affatto nelle sue pagine le sollecitazioni feconde di questa sua autentica ossessione per un uso non teologico della ragione. La sua rimostranza verso l’attualismo gentiliano concerneva proprio l’uso della nozione ambigua, e in fondo mistica, della ragione come unità o sintesi originaria degli opposti. Il programma teorico dellavolpiano di una logica come scienza positiva, annunciato negli anni cinquanta, era già impostato nei suoi pilastri essenziali in un testo fondamentale del 1941 dal titolo Critica dei principi logici. Fra l’altro qui Della Volpe faceva i conti con «il conservatore d’oggi Gentile» e la sua «laica religiosità dello spirito» che ingoiava la formula misticheggiante della verità come precostituita o pretesa unità intemporale. La logica attualistica del concreto falliva in pieno nel render conto dell’empiria o contingenza e annullava l’effettività reale nel puro pensiero pensante o uno. Il rilievo di Della Volpe era al riguardo molto radicale: «Del mero uno non ci può essere logica, ma soltanto una mistica». Dal misticismo logico, che destituiva il particolare sensibile di ogni positività, si usciva solo recuperando quella che Della Volpe chiamava «la pura, schietta singolarità e conseguente adialetticità del senso», ossia tenendo fermo il tratto, irriducibile al pensiero, del particolare molteplice assunto quale fondamento del giudizio e della storicità del reale.
Per un filosofo antidialettico come Della Volpe il neoidealismo di Croce e Gentile, proprio come quello classico di Hegel, si muoveva in un «soliloquio dell’idea» che tramutava la ragione, da forma o espressività, in autocoscienza o unità immediata di finito e infinito. Il «trascendentale» veniva cioè trasformato da momento formale in trascendenza dello spirito assoluto che annullava repentinamente il particolare, e lo degradava a mero non essere. La realtà cessava così di essere un dato in sé positivo e veniva a dissolversi supinamente nell’unità dell’autocoscienza. La diversità o reale contrarietà tra particolare e forma era poi dissolta e spacciata per contraddizione di un’idea capace di autoscindersi, esprimendo il molteplice come il mero negativo da superare. Tutta una tradizione teorica, che dall’ontologia mistica di Meister Eckhart (studiata a fondo in un testo apparso nel 1930) passando per l’Hegel romantico e mistico (così si intitola un celebre volume del 1929) perveniva fino a Croce e Gentile, si muoveva entro una dialettica senza discorso o categorialità che dissolveva il sentimento o particolare nell’Idea. E non lo assumeva nella sua irriducibile alterità. Esisteva per Della Volpe una autentica malattia platonica e romantica, che contagiava gran parte della filosofia moderna, incapace di risolvere il problema dell’esperienza o della storicità. Perché l’essere diventava pura idea o unità intemporale sovraordinata al molteplice discreto.
A questa linea platonica, contaminata dalle palesi ascendenze mistiche, Della Volpe contrapponeva un diverso tragitto. La strada che da Hume conduceva a Marx. Con la sua indagine genetica «delle idee dalle impressioni», Hume (così scriveva Della Volpe nel suo libro La filosofia dell'esperienza di Hume licenziato nel 1933) impostava uno «studio fenomenologico della mente» che accantonava l’ontologia metafisica in direzione di una «psicologia della conoscenza». Hume cioè definiva «una specie di meccanica della sfera emotiva» e proprio esplorando le emozioni, i desideri, i meccanismi naturali della psiche, egli spezzava ogni concetto ontologico di unità o sostanza. Questo lavoro demolitorio dell’antica ontologia metafisica sul piano etico mostrava ricadute enormi. E demolendo l’idea di soggetto portava Hume a definire «il primo sistema di ethica mundana-immanentistica» che poggiava sul fondamento passionale-economico dell’azione. Con la sua «filosofia sperimentale del diritto» inoltre Hume, secondo Della Volpe, ha avuto il merito di abbandonare il problema metafisico dell’inizio per esplorare le reali dinamiche della società. Spiegava Della Volpe che «con questo concetto concreto del fondamento economico della società è fugato, per la prima volta, il mitico homo oeconomicus di marca hobbesiana, l’egoista assoluto, sui cui calcoli sapienti lo stesso suo inventore non riuscì il cimentarsi della società politica, onde dovette ricorrere all’espediente estrinseco empirico di un potere assoluto». Ed è proprio su questo piano dell’indagine sociale che Della Volpe incontrava Marx che, con il suo nesso tra idee e istituzioni sociali, rigettava ogni idea metafisica di Inizio e orientava i riflettori sulla temporalità dell’esperienza intersoggettiva.
Il merito di Marx, secondo Della Volpe, era anzitutto quello di interpretare la società «come termine mediatore degli elementi», ovvero come il medium del generale (etica, cultura) e del particolare (economia, interessi). Con il suo fecondo concetto di astrazione determinata, anche Marx veniva da Della Volpe coinvolto nel grande lavoro critico ingaggiato per «sostituire una logica della ragione-intelletto, o critica, alla logica della pura ragione, o dogmatica». Ai concetti indeterminati e generici, privi di dimensioni temporali precise, Marx opponeva dei calibrati concetti funzionali, che risultavano cioè ritagliati su specifici assetti sociali. Solo modulando i concetti come funzioni era possibile schivare il rischio nefasto di quella che Della Volpe chiamava «la restaurazione acritica dell’empiria». Un greve empirismo infatti contraddistingueva per lui, in maniera puntuale, tutti i concetti pretesi «puri», intemporali. Che finivano per riempire le astrazioni, in apparenza vuote, di materiali spiccioli grezzi, non filtrati e quindi irrelati, scollegati. Perciò quello di Della Volpe rimane, a quarant’anni dalla scomparsa, il più grande e affascinante tentativo di cogliere la pregnanza del programma scientifico di Marx, assunto come passaggio essenziale del lavoro moderno di una risoluta critica della metafisica. Nessuno più di Della Volpe ha decifrato i segreti epistemologici della logica specifica dell’oggetto specifico impiantata dal pensatore di Treviri. E solo la volgarità di questi anni un po’ meschini ha potuto inserire il nome di Della Volpe tra i «redenti», che con disinvoltura passarono dal fascismo al comunismo. Il suo approdo al marxismo avvenne in realtà su un rigoroso e trasparente profilo di scientificità. E solo di questo si deve parlare.

Corriere della Sera 13.7.08
Veltroni ha invitato me e Tremonti a un incontro
Bossi: la sinistra mi cerca e io sono disponibile. Sì al dialogo sulle riforme
intervista di Gianni Santucci


D'Alema vuole recuperare lo spirito costituente: bene, si vuol portare acqua allo stesso mulino

L'intervista «Dopo le liti sulla giustizia è necessario riallacciare il dialogo sul federalismo»
Bossi: la sinistra mi cerca? Io ci sto Sulle riforme avanti senza paura
Il leader della Lega: lo scambio tra lodo e blocca-processi c'è stato, la politica è così

GALLIVARE (Svezia) — «Bisogna riallacciare il dialogo sulle riforme per il federalismo. Non è facile, visto il livello a cui sono arrivate le liti sulla giustizia. Ma è necessario. Per quest'obiettivo mi metterò al lavoro già la prossima settimana». Di segnali ne sono arrivati più di uno. Da Massimo D'Alema. Da Walter Veltroni. Messaggio chiave: ritornare al clima di inizio legislatura. Umberto Bossi raccoglie e rilancia.
L'apertura arriva da Gallivare, estremo Nord della Svezia. La Padania sta dominando il campionato di calcio per nazioni non riconosciute. Ieri quarta vittoria consecutiva. Oggi la finale. Il ministro per le Riforme alloggia nel castello- resort di Fjallnas. Segue le partite. Per pranzo una spaghettata in campeggio, tra i tifosi arrivati in camper dalla Lombardia. Di politica parla a tarda notte. Qui, vicino al Circolo polare artico, in estate non viene mai buio. Il Senatùr contempla il paesaggio e sorride: «Dal sole delle Alpi al sole di mezzanotte».
D'Alema dice che bisogna recuperare lo spirito «costituente » di inizio legislatura.
«Condivido».
Sarà possibile?
«La sinistra ha invitato me e Tremonti a uno dei suoi prossimi appuntamenti. È già un fatto positivo».
Da dove si riparte?
«Dopo il voto avevamo costruito buone relazioni. Poi il dibattito si è spostato sulla magistratura ed è saltato tutto ».
Berlusconi sarà disponibile?
«Anche lui era partito col piede giusto, con i processi si sono chiusi tutti i canali. Ma bisogna assolutamente ricominciare a parlarsi».
Quali sono le difficoltà?
«Quando si arriva a un livello di scontro come quello degli ultimi tempi è arduo trovare la chiave per riallacciare il discorso».
È fiducioso?
«Il fatto che ci abbiano invitati è già qualcosa, significa che c'è una qualche volontà di portare acqua allo stesso mulino».
Chi cercherà come interlocutore?
«Non mi tiro indietro di fronte a nessuno. Non ho alcuna paura di chi lavora per il federalismo, da qualunque parte venga».
Su che base dovrebbe riaprirsi il dialogo?
«L'importante è condividere l'obiettivo, poi si va a trattare ».
Lei però dovrà presentare il progetto di legge sul federalismo.
«Si parte dal progetto Lombardia. L'80 per cento dell'Iva e il 15 per cento dell'Irpef devono rimanere alle Regioni».
E i meccanismi di solidarietà? Qualcuno ha già bollato come impraticabile quella strada.
«In base a quelle quote bisogna sviluppare un'analisi economica e prevedere aiuti per le Regioni più deboli. Ma quando la Lombardia parla deve essere ascoltata».
Un passo indietro. Il dialogo si è rotto sulla giustizia, cosa cambia con il lodo Alfano?
«Mi sembra che ora la legge blocca-processi non si voglia più fare. La sinistra dice che è la dimostrazione che serviva solo a Berlusconi. Rispondo che le cause le affronterà comunque, più tardi. Su questo punto il Cavaliere ha ragione. È il principio che conta. Se chi governa viene coinvolto di continuo in polemiche, in parte anche giuste, diventa difficile guidare il Paese ».
Ma allora si dà ragione alla tesi dello «scambio» tra blocca-processi e lodo Alfano?
«In politica qualche scambio c'è per forza, altrimenti siamo alla guerra».
Altro elemento di polemica: le donne e il Cavaliere, dal ministro Carfagna all'annunciatrice Rai Sanjust.
«Se sei simpatico alle donne prendi più voti. La Lega riceve consensi grazie al rapporto con la sua gente. Berlusconi invece lavora di più sull'immagine, viene dalla televisione e fatalmente fa gioco su quegli ambienti e su quelle qualità».
Cosa pensa degli insulti al ministro Carfagna?
«Con lei condivido alcuni uffici del mio ministero, lo faccio volentieri. Soprattutto perché il Paese è in un momento di estremo pericolo per i conti e per l'economia. Bisogna risparmiare».
In che ambiti?
«Oggi tutti, legittimamente, hanno qualcosa da chiedere al governo. Ma non possiamo permetterci di sbracare con la spesa. Per governare in questa fase serve il pugno di ferro, e Tremonti ce l'ha».

Corriere della Sera 13.7.08
Monaco: 247 reperti delle dinastie dei faraoni, da ieri allo Spazio Ravel del Grimaldi Forum
Cimarosa: «ouverture» per Cleopatra
che, nella mostra sulle regine d'Egitto, fa la parte del leone
di Sebastiano Grazzo


Benché di origine greca, la regina d'Egitto più popolare è senz'altro Cleopatra, sia per i suoi amori (amante di Cesare e di Antonio) che per la sua fine drammatica (suicida, col morso di un'aspide, per la vittoria di Ottaviano).
La leggenda ha, poi, fatto il resto. Plutarco, Jordelle, Shakespeare, Alfieri, Shaw in letteratura; Cimarosa, Berlioz, Massenet in musica, solo per citarne qualcuno. Una notte di Cleopatra di Téophile Gautier inaugurò, addirittura, una nuova maniera di narrare (il cosiddetto «racconto archeologico»), molto seguita da altri scrittori.
Proprio con la scenografia La stanza di Cleopatra inizia il viaggio fra le regine d'Egitto, un'interessante rassegna di 247 reperti — fra statue, bassorilievi, paramenti, gioielli, tavolette d'argilla incise con caratteri cuneiformi, papiri, maschere provenienti per lo più dai musei del Cairo, Torino, Parigi, Berlino, Monaco, Londra, New York e Mosca —, aperta ieri, curata da Cristiane Ziegler, che dal 1993 al 2007 ha diretto il dipartimento di antichità egizie del Louvre.
La scenografia di Francois Payet — che, in undici ambienti, vuole sintetizzare tremila anni di storia — diventa un elemento indispensabile della mostra perché la trasforma in un set cinematografico straordinario.
Con la differenza che nella Hollywood monegasca i «pezzi» sono autentici. Solo l'atmosfera, la sua evocazione sono costruite. Quadri originali per cornici finte. Ma le cornici aiutano a capire le opere, a scandagliare storia, usi, costumi e ruolo politico delle regine, il cui titolo era loro dato dal faraone regnante:
Madre del re, Figlia del re. o Sposa del re. «L'associazione madre-figlia-sposa è stata concepita come simbolo di creazione perpetua», scrive la Ziegler.
Accanto a visi e corpi scolpiti, racchiusi nelle teche, sono stati ricostruiti luoghi rituali, in modo che il racconto del regno delle piramidi possa avere un fascino particolare, addirittura, ridare vita al lusso e alla raffinatezza in cui, nella Valle del Nilo, vivevano i faraoni e le loro famiglie.
Si spazia dalla prima dinastia (2920 a. C.), alla trentunesima (332 a. C.) per arrivare sino all'epoca tolemaica ed alla conquista romana, vale a dire al 30 a. C. In che modo sono stati ricostruiti gli ambienti? Aiutandosi con la storia, con le scoperte archeologiche e persino prendendo in prestito l'ambientazione creata per il film Cleopatra (1963) di Joseph Mankiewicz, con Elisabeth Taylor e Richard Burton.
La mostra, quindi, ha anche un aspetto, diciamo così, romanzato. Certo, fra le regine, ci sono quelle note al gran pubblico, ma ce ne sono anche di sconosciute o note solo agli addetti ai lavori, ma non per questo meno interessanti. Per esempio, l'ultima regina d'Egitto, Taousert.
Bene, ad essa si è ispirato Gautier per
Il romanzo di una mummia. Lo scenografo ha ricostruito la sala della tomba di Taousert (che si trova nella Valle dei re). Pitture alle pareti, torce che danno una luce tremula.
C'è la morte, è vero, e l'atmosfera pesante dei luoghi di culto o dove si esercitava l'autorità, ma ci sono anche i paesaggi del Nilo, le bellezze femminili, le barche di Nefertiti, Nefertari, Tiy o Hatschepsout, figure emblematiche di grande fascino.
Su tutte, comunque, domina Cleopatra — protagonista di romanzi, opere teatrali, melodrammi, spartiti musicali, dipinti, balletti persino —-, vista come donna perversa e capricciosa, ambiziosa e raffinata, enigmatica e dissoluta, seducente e esperta di ogni arte amorosa, che i romantici muteranno in una sorta di idolo, in un mito.
Sullo sfondo, i profumi orientali, simbolo e termometro di un ellenismo sempre più sfatto e decadente.
REGINE D'EGITTO Monaco, Spazio Ravel, Grimaldi Forum, sino al 10 settembre. Tel. +377/99993000.

Corriere della Sera Roma 13.7.08
Caracalla. Piace a tutti Aida giovane
di Luigi Bellingardi


Dopo la dedica ad Altiero Spinelli nel centenario della nascita, l'evocazione del manifesto europeista di Ventotene nelle parole di Renato Guarini rettore alla Sapienza e la lettura del plauso del presidente Giorgio Napolitano, si è inaugurata a Caracalla la stagione estiva del Teatro dell'Opera con la première di «Aida». Il capolavoro verdiano, allestito volutamente «senza grandi firme» e con giovani interpreti ha attirato una folla enorme e riscosso insistiti applausi anche a scena aperta. Nell'arco dell' intera serata si è sostanzialmente apprezzato l'equilibrio della direzione musicale di Antonio Pirolli, capace di far risaltare anche «en plein air» e con l'amplificazione elettronica qualche finezza degli impasti strumentali nei quadri notturni. Assieme alla buona prova dell'orchestra senza mai soverchiare gli interventi dei protagonisti di canto, si è fatto onore l'impegno del coro, ben addestrato da Andrea Giorgi. Nel bilancio artistico di questa «Aida» sono da ricordare principalmente le voci dei personaggi femminili, voci nuove e ben calate nelle loro parti, oltre all'incisivo accento verdiano di Giovanni Meoni come Amonasro. Maria Carola ha esibito una vocalità assai bella e promettente come Aida e un coerente fraseggio, specialmente vibrante nel terzo e nel quarto atto.
Nell'aderire alla controversa psicologìa di Amneris, Laura Brioli ha reso con drammatica intensità la passione che la divora. Dopo l'infausto avvio con qualche problema di intonazione, Franco Farina si è progressivamente riscattato, delineando però un Radamès più a suo agio nell'effusione sentimentale e patetica che negli atteggiamenti eroici. Decorose infine le prove di Michail Ryssov (Ramfis) e di Armando Caforio (il Re). Non poche e indovinate le originalità nell'impostazione rappresentativa grazie alla varietà di idee sciorinate da Maurizio Di Mattia che ha firmato la regìa con la funzionalità delle scene di Andrea Miglio accanto a certi innovativi spunti della coreografìa di Amedeo Amodìo, d'intesa con l'efficace gioco luci di Patrizio Maggi. Teatro esaurito, ovazioni per tutti al termine a notte fonda. Repliche con modifiche nel cast sino al 24 luglio.

Repubblica 13.3.08
Un disegno perverso autoritario e populista
di Eugenio Scalfari


È NECESSARIO parlare di giustizia, della legge Ghedini-Alfano in via di velocissima approvazione, dell´emendamento blocca-processi e del suo auspicato smantellamento, del divieto ai giornali di riferire notizie sulla fase inquirente delle inchieste giudiziarie. È necessario ribadire con forza, come ha fatto Ezio Mauro nel suo articolo di venerdì, la vergogna d´una strategia dominata dall´ossessione del "premier" di evitare a tutti i costi e con tutti i mezzi la celebrazione di un processo a suo carico per un reato assai grave (corruzione di magistrati) che non rientra nelle sue funzioni ministeriali; un reato infamante di diritto comune sottratto all´accertamento giurisdizionale con un grave "vulnus" dell´eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Tutto ciò è necessario e bene ha fatto il Partito Democratico ad opporsi con fermezza al complesso di questi atti legislativi, inaccettabili sia nel merito sia nelle procedure e nella tempistica che li hanno caratterizzati. Ma c´è un aspetto della situazione ancora più grave perché va al di là del caso specifico della denegata giustizia riguardante Silvio Berlusconi. E riguarda il mutamento in corso della Costituzione materiale.
Si sta infatti verificando dopo appena due mesi dall´insediamento del governo un massiccio spostamento di potere verso la figura del "premier" e del governo da lui guidato, un´intimidazione crescente nei confronti della magistratura inquirente e giudicante, una vera e propria confisca del controllo parlamentare di cui gli attori principali sono gli stessi presidenti delle due assemblee e la maggioranza parlamentare nel suo complesso. Non si era mai visto nei sessant´anni di storia repubblicana un Parlamento così prono di fronte al potere esecutivo che dovrebbe essere sottoposto al suo controllo.
Le Camere si sono di fatto trasformate in anticamere del governo, i loro presidenti hanno accettato senza fiatare che decreti firmati dal capo dello Stato per ragioni di urgenza fossero manomessi da emendamenti indecenti e non pertinenti, disegni di legge dei quali il capo dello Stato aveva rifiutato la decretazione per evidente mancanza dei presupposti di urgenza sono stati votati in quarantott´ore invertendo l´ordine dei lavori e l´intera agenda parlamentare.
Lo ripeto: qui non emerge soltanto l´ossessione dell´imputato Berlusconi, emerge un mutamento profondo ed estremamente pericoloso della Costituzione materiale della Repubblica, che avvia la democrazia italiana verso forme autoritarie, affievolisce l´indipendenza e lo spazio operativo dei contropoteri, mette in gioco gli istituti di garanzia a cominciare da quello essenziale della Presidenza della Repubblica.
Siamo entrati in una fase politica dominata dall´urgenza, qualche volta reale ma assai più spesso inventata e suscitata artificialmente. L´urgenza diventa emergenza, l´emergenza diventa eccezionalità. Il governo opera come se ci trovassimo in condizioni di stato d´assedio o in presenza di enormi calamità naturali; i decreti si susseguono; i testi dei provvedimenti finanziari sono approvati in nove minuti senza che nessuno dei componenti del governo ne abbia preso visione; la velocità diventa un valore in sé indipendentemente dal merito; la schedatura dei "rom" e dei loro bambini deve essere eseguita a passo di carica; tremila militari debbono affiancare trecentomila poliziotti e carabinieri per dare ai cittadini la sensazione di una minaccia incombente ed enorme e al tempo stesso la rassicurazione dell´intervento dell´Esercito per dominarla.
Questo sta avvenendo sotto gli occhi d´una pubblica opinione sbalordita, ricattata da paure inconcrete e invelenita dall´antipolitica dilagante che provvede ad infiacchirne la responsabilità sociale e il sentimento morale.
* * *
È pur vero che nell´era globale gli enti depositari a vari livelli di poteri sovrani debbono poter decidere con appropriata rapidità. La rapidità è diventata addirittura uno dei requisiti di merito delle decisioni poiché la lentocrazia non si addice alla dimensione globale dei problemi. A livello locale, nazionale, continentale, imperiale, la rapidità rappresenta un valore in sé che comporta un´autorità centralizzata ed efficiente. Il paradigma più calzante di questa forma post-moderna di democrazia presidenziale è fornito dagli Stati Uniti, dove il Presidente, direttamente eletto, fruisce di strumenti di alta sovranità e d´un apparato amministrativo che a lui direttamente si rapporta. La democrazia presidenziale cesserebbe tuttavia di esser tale se non fosse collocata in uno stato di diritto fondato sull´esistenza di poteri plurimi reciprocamente bilanciati. Il primo di tali poteri bilanciati è l´autonomia degli Stati dell´Unione, che delimita territorialmente la competenza federale.
Il secondo è il Congresso e in particolare il Senato dove il legame elettorale dei senatori con i cittadini dello Stato in cui sono stati eletti è nettamente superiore al legame verso il partito di appartenenza: partiti liquidi che hanno piuttosto le sembianze di comitati elettorali finalizzati alla selezione dei candidati piuttosto che alla custodia di ideologie e discipline partitocratiche. In queste condizioni i membri del Congresso e le sue potenti commissioni rappresentano un "countervailing power" di particolare efficacia sia nell´ambito finanziario sia nella nomina di tutti i dirigenti dell´amministrazione federale sia nei poteri d´inchiesta e di controllo che non sono affievoliti dalla labile appartenenza ai partiti.
Il terzo potere risiede nella Suprema Corte che agisce sulla base dei ricorsi intervenendo sulla giurisdizione e sulla costituzionalità.
Il quarto potere è quello della libera stampa, nella quale nessun altro potere ha mai chiesto restrizioni e vincoli speciali a tutela di istituzioni e di pubbliche personalità. Giornali e giornalisti incorrono, come tutti, nei reati contemplati dalle leggi ma non esiste alcun limite alla stampa di pubblicare notizie su qualunque argomento e qualunque persona, tanto più se si tratti di personaggi pubblici, della loro attività pubblica e dei loro comportamenti privati e privatissimi.
Questo è nelle sue grandi linee il quadro complesso della democrazia presidenziale, ulteriormente arricchito dalla pluralità delle Chiese e dalla libertà religiosa che ne consegue. Non si tratta certo d´un modello statico né di un modello privo di storture, di vizi, di grandi e grandissime magagne; tanto meno di una società ideale da imitare in tutto e per tutto. Ma configura un punto di riferimento importante nell´evoluzione di un centralismo democratico nell´ambito dello Stato di diritto e della separazione bilanciata dei poteri e dei contropoteri. Nulla di simile alla nuova Costituzione materiale verso la quale si sta involvendo la situazione italiana.
* * *
Sbaglierebbe di grosso chi ritenesse che l´involuzione del nostro sistema verso istituzioni di democrazia deformata risparmi l´economia. In realtà essa è la più esposta alle intemperie dell´interventismo pubblico e delle cosiddette politiche creative e immaginose delle quali abbiamo già fatto tristissima esperienza nel quinquennio tremontiano 2001-2006. Quelle politiche sono ritornate all´opera in un quadro internazionale ancor più complesso e preoccupante.
L´esempio che desta maggior allarme è fornito dal caso Alitalia del quale abbiamo più volte parlato e che ora sembra delinearsi in tutta la sua gravità. A quanto risulta dalle più attendibili indiscrezioni fatte filtrare direttamente dall´"advisor" Banca Intesa, si procede verso la formazione di una "nuova Alitalia" che potrebbe utilizzare l´80 per cento delle rotte di volo sul territorio nazionale e del personale di volo e di terra necessario all´esercizio di questa attività. La proprietà della nuova compagnia sarebbe interamente privata e nazionale. Essa non avrebbe più alcun debito poiché debiti, perdite, esuberi di personale sarebbero interamente trasferiti ad una "bad company" o "vecchia Alitalia" che dir si voglia, di proprietà pubblica, avviata alla liquidazione con tutti gli oneri conseguenti.
In uno schema di questo genere il maggior beneficiario è rappresentato dai proprietari di Air One, società sostanzialmente fallita che scaricherebbe i suoi debiti e le sue perdite nella "bad company" e percepirebbe quote azionarie della "new company": un salvataggio in piena regola a carico del danaro pubblico. Molti altri aspetti assai dubitabili si intravedono in questo progetto, lo sbocco del quale sarebbe una compagnia regionale del tipo della Sabena o della Swiss Air, risorte sulle ceneri di un fallimento per servire un mercato poco più che regionale. Se questo accadrà, l´opinione pubblica e i dipendenti di Alitalia avranno modo di misurare il danno che la sconsiderata condotta di Berlusconi-Tremonti ha procurato al Paese affondando la trattativa con Air France senza alcun piano alternativo e agitando lo specchietto per allodole della Compagnia di bandiera.
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Tiene ancora banco la disputa tra Tremonti e Draghi sulla "Robin Hood Tax". Nella recente riunione dell´Abi (Associazione bancaria italiana) il ministro e il governatore erano entrambi presenti e parlanti. I giornali hanno riferito in dettaglio lo scontro - peraltro assai sorvegliato nelle forme - che si è verificato tra i due, col governatore che ha battuto sulla necessità di evitare che la "Robin Tax" si traduca in un aggravio dei costi dell´energia e dell´attività bancaria e il ministro che difendeva la sua figura di difensore dei ceti deboli e di severo tassatore dei profitti speculativi. «Prima si tassavano gli operai che non potevano certo trasferire su altri le loro imposte» ha detto ad un certo punto il ministro dell´Economia guardandosi fieramente intorno come gli capita di fare quando pensa d´aver inferto un colpo dritto al petto dell´avversario.
Prima si tassavano gli operai. I lavoratori dipendenti. Certo, è così. È stato sempre così perché i lavoratori dipendenti sono stati la sola categoria sociale che ha pagato le tasse per intero, salvo dover accettare d´immergersi nel precariato del lavoro nero con tutto ciò che ne consegue sia sul piano salariale sia sulle protezioni antinfortunistiche e le provvidenze sociali. Prima si tassavano gli operai. Perché il ministro usa l´imperfetto storico? Ora non si tassano più? Al contrario: ora si tassano ancora più di prima. Basta scorrere le cifre uscite dall´Istat appena due giorni fa. Il peso dell´Irpef è in aumento e, all´interno del gettito dell´imposta personale, è in aumento l´onere dei lavoratori in genere e di quelli dipendenti in particolare. Prima si tassavano? Mai come adesso sono tassati, onorevole Tremonti ed è proprio lei a farlo. Perciò non usi l´imperfetto storico perché il tema è terribilmente presente (e futuro).
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Lo stesso Tremonti ha presentato nei giorni scorsi a Bruxelles il suo documento sull´importanza della speculazione nell´aumento dei prezzi dell´energia e delle "commodities". Avrebbe dovuto essere, nelle aspettative del ministro e dei tanti giornali che gli fanno coro, una sorta di marcia trionfale. Invece è stato un flop né poteva essere altrimenti per le tante ragioni che abbiamo elencato domenica scorsa. Le autorità europee hanno cortesemente messo in dubbio che l´aumento dei prezzi derivi dalla speculazione (la stessa osservazione ha fatto Draghi nella riunione dell´Abi sopra ricordata), hanno messo in dubbio che si possa dimostrare una collusione tra operatori e infine hanno messo in dubbio che l´Europa abbia strumenti adeguati per intervenire sul mercato delle "commodities" e del petrolio che si svolge per la maggior parte su piazze extraeuropee.
Questa storia della speculazione peste del secolo è un modo come un altro di suscitare un nemico esterno immaginario e distrarre l´attenzione da realtà assai più rilevanti e preoccupanti. Così il governo affronterà un durissimo autunno. Ora anche la Marcegaglia è "estremamente preoccupata" dal calo di produzione industriale dello scorso maggio e di quanto ancora si prevede per giugno e per i mesi successivi. Ma non lo sapeva, non lo prevedeva, non era nei segnali delle sue antenne, gentile presidente di Confindustria? Il clima era buono fino a un paio di settimane fa, diceva lei. Dunque una brutta sorpresa, un fulmine a ciel sereno? Stia più attenta, signora Marcegaglia: questa è roba seria e non ci si può impunemente distrarre.

Repubblica Roma 13.3.08
Itinerario romano sulle tracce delle opere del pittore. Un'antologia della sua pittura in mostra a Perugia E un libro lo racconta nella Città Eterna
Pinturicchio. Tour fra i capolavori di un maestro del Rinascimento
di Carlo Alberto Bucci


I suoi interventi dalla Cappella Sistina a Santa Maria del Popolo e all´Aracoeli

Infilarsi tra le colonne di turisti che, seguendo la bandierina sventolata dalla guida microfonata, attraversano in fila per uno la Città Eterna inanellando luoghi sacri e monumenti famosi. E riannodare il filo rosso - tra ori d´Oriente e prospettive classiciste - che ricuce l´arte di un piccolo gigante della pittura del Rinascimento: Bernardino di Betto, detto Pinturicchio o, come vuole l´antica-nuova dizione rilanciata dalla mostra di Perugia, prorogata fino al 31 agosto, Pintoricchio. Un pittore che va liberato dal giudizio poco lusinghiero del Vasari (lo definì «fortunato» piuttosto che «talentuoso»). E dalla coabitazione con Alex De Piero, Pintoricchio per volere dell´avvocato Agnelli che sposò così la potenza e l´eleganza del calciatore juventino.
Il tour artistico - proposto lungo le poco battute strade dell´arte del Quattrocento romano, poi asfaltate dalla quantità delle voluminose volute del Barocco ma rilanciate fino al 7 settembre dalla mostra al Museo del Corso sul XV secolo a Roma - è proposto dal nuovo libro di Claudia La Malfa. Pintoricchio. Itinerario romano, è stato pubblicato dalla Silvana Editoriale in occasione dei 550 anni dalla nascita del pittore di Perugia, spentosi a Siena nel 1513 dove era giunto a lavorare dopo i grandi successi nella città dei papi.
A voler seguire alla lettera, o alla data, le tappe indicate dalla studiosa del Warburg Istitute, si dovrà partire da Santa Maria del Popolo. Per concludere il percorso nella stessa chiesa degli agostiniani dove, intorno ai corpi di Pietro e Paolo, brilla la luce di Caravaggio. La Malfa ha ipotizzato nuove date per le opere del Pintoricchio. Liberando così la cultura antiquariale, sciorinata da Bernardino, dal magistero di Andrea Mantegna con il quale nel 1487-89 l´umbro lavorò nel Casino del Belvedere.
L´antico, secondo la La Malfa, Pintoricchio lo conosce già dal 1477 - e non nel 1490, sostiene la studiosa - quando realizza la cappella di San Girolamo in Santa Maria del Popolo, una delle rare - anche iconograficamente - Natività della pittura a Roma. E poi si passa quindi alla Galleria Borghese per l´epilogo di quella nascita, la Crocefissione del 1477 circa. Quindi, di corsa al palazzo dei Penitenzieri a Borgo, con la magnifica decorazione della Sala dei Semidei, del 1481-83 (e non 1490). Marci indietro fino al capolavoro prospettico sul Campidoglio, con gli affreschi nella cappella Bufalini. Per andare successivamente in Vaticano ad ammirare gli interventi nella Sistina (tra i familiares del Perugino, partecipò alla Circoncisione) e contemplare il ciclo degli anni Novanta, lo sfavillante appartamento di Alessandro VI Borgia, ma anche l´Incoronazione della Vergine in Pinacoteca.
Riattraversato il Tevere (magari proprio al ponte di Castel Sant´Angelo, dove dipinse perduti affreschi nella loggia della Torre), rieccoci a Santa Maria del Popolo: Bernardino organizzò, ma fece realizzare ai suoi, la decorazione, anche con grottesche mutuate dalla Domus Aurea, della cappella Basso della Rovere (circa 1484); dipinse affreschi, distrutti, nel chiostro; e nel 1510 salì sulla volta del coro per lasciare lassù l´Incoronazione della Vergine.

Repubblica 13.7.08
"Compagni, non siamo tutti uguali"
Cuba, Raul Castro archivia il mito della parità salariale
"I cittadini esigono servizi gratuiti ma concederli genera lassismo"
"Socialismo non è lo sfruttamento di chi lavora bene da parte di chi lavora male"
di Omero Ciai


Che l´eguaglianza (verso il basso) delle condizioni di vita fosse il suo vero nemico, Raul Castro l´aveva lasciato capire fin da quando, quasi due anni fa, alla fine di luglio del 2006, fu costretto dalle circostanze ad assumere la guida del socialismo cubano al posto del fratello. Ora, nel suo discorso al Parlamento dopo i primi quattro mesi da presidente legittimo, lo ha detto con assoluta chiarezza: «Non siamo tutti uguali e il sistema cubano deve cambiare». «Socialismo - ha detto Raul - significa giustizia sociale e eguaglianza, ma eguaglianza dei diritti non dei salari. La nostra eguaglianza è diventata una forma di sfruttamento: quella del bravo lavoratore da parte di quello che non lo è. «Nel mirino di Raul ci sono la grande quantità di servizi gratuiti o fortemente sussidiati (casa, telefono, luce, trasporti) che, a suo giudizio, frenano lo sviluppo e la produttività. «I cittadini esigono servizi gratuiti ma concederli ha generato lassismo e una scarsissima voglia di lavorare nella nostra società».
A Cuba, secondo Raul, «si lavora poco, si lavora sempre di meno» e per aumentare la produttività «c´è bisogno di un adeguato sistema di tasse e contributi» per sostenere i servizi gratuiti che, in parte, vanno anche eliminati o comunque ridotti. L´angoscia di Raul è la disastrosa situazione economica dell´isola che da molto tempo è costretta ad importare anche la maggioranza delle derrate alimentari che consuma. Così, la seconda parte del suo discorso ha toccato la questione del lavoro agricolo e delle campagne.
«Dobbiamo ritornare ai campi - ha detto - , bisogna lavorare la terra». Il 75% della popolazione cubana, ha osservato Raul, vive nelle aree urbane. Ma questo non vuole dire che l´altro 25% lavori la terra visto che il volume delle aree coltivate negli ultimi dieci anni s´è ridotto del 33 %. «Chi seminerà i fagioli? Chi produrrà il necessario per garantire le spese in sicurezza sociale, educazione e salute? Non dobbiamo lasciare neppure un ettaro di terra incolto se vogliamo sopravvivere».
Dopo aver concesso alcune liberalizzazioni ed eliminato numerosi divieti, dall´acquisto dei telefoni cellulari all´uso (regolato) dei computer, Raul è costretto a concentrarsi su lavoro e salari per contenere la corruzione e riattivare, fin dove può, le forze produttive. Un compito titanico per chi conosce il modus vivendi delle imprese cubane.
Insieme alla nuova battaglia contro l´egualitarismo di massa, Raul ha preso di recente altre due decisioni. La prima dovrebbe avere qualche effetto sulla penuria dei trasporti interni, la seconda ridurrà il peso del debito statale. Tornano i taxi privati che erano stati eliminati una decina di anni fa a favore di cooperative statali da cui dipendevano tutti gli autisti di Cuba. E verrà innalzata di cinque anni l´età per avere diritto alla pensione. Per gli uomini si passa da 60 ai 65 anni, per le donne dai 55 ai 60 anni.
Nonostante tutto però, la nuova leadership cubana (ma Raul insiste sul fatto che Fidel condivide tutte le nuove misure da lui prese) ha evitato finora di toccare le basi repressive del regime. Dalla libertà di stampa a quella di associazione politica, dalla possibilità di viaggiare liberamente dentro e fuori del paese all´accesso non regolato ad Internet. E qui risiede secondo l´opposizione il vero pericolo: è abbastanza inevitabile, per Raul o per chi lo seguirà, che il governo cubano cerchi un accordo, anche segreto, con la nuova amministrazione americana. Con chi sostituirà Bush alla Casa Bianca. E il timore è che un giorno non lontano gli Stati Uniti, per effetto di una realpolitik caraibica, possano approvare e sostenere questa via cinese disegnata da Raul: un capitalismo senza diritti umani né politici.

l'Unità 12.7.80
La rivisitazione
Fu il maestro invisibile del Sessantotto
di Bruno Gravagnuolo


Se ne andò quasi non visto Galvano Della Volpe. In quel luglio del 1968, nel cuore dell’anno famoso e nel vivo delle minacce sovietiche alla Primavera di Praga, la cui «legittimità socialista» il filosofo aveva difeso. Inosservato insomma, malgrado i coccodrilli di Rinascita e de l’Unità. Eppure Della Volpe era stato senz’altro il massimo pensatore marxista del dopoguerra. E uno dei massimi in Italia di quella barricata teorica nel ‘900, assieme a Labriola, a Mondolfo, di cui fu allievo, e a Gramsci, che in fondo egli non amava troppo («l’eroico Gramsci» lo chiamava però). Inoltre il paradosso era questo. Dietro le élites intellettuali del 1968 il peso di Della Volpe era evidente. Molti tra i leader giovanili di quella stagione si erano formati proprio sui suoi testi. Rompendo da sinistra col Pci, o incalzandolo, con la lezione marxiana ripristinata da Della Volpe. Dalla riscoperta dell’antagonismo reale e «non dialettico» tra capitale e lavoro, alle impostazioni democratiche e radicali del suo Rousseau e Marx. In una con la riscoperta del suo giovane Marx antihegeliano.
Dunque c’era un che di malinconico e ingiusto in quella scomparsa inosservata. Come un silenzioso passaggio di testimone senza riconoscenza. Verso un pensatore guardato con diffidenza dalla stesso Pci «storicista», al quale peraltro Galvano Della Volpe fu sempre fedelissimo. Convinto come era, specie da metà anni Sessanta in poi, che quel partito incarnasse una «socialdemocrazia dinamica». Che si muoveva nel solco di una Costituzione repubblicana «post-borghese». Basata cioè su una «emancipazione della persona» post-liberale, sorretta da eguaglianza, diritti e lavoro.
Poi per fortuna, fu la scuola dellavolpiana a riabilitarlo: Lucio Colletti, Mario Rossi, Umberto Cerroni, Nicolao Merker. E a farlo conoscere meglio ai più giovani. Che avevano cominciato a sentirne parlare nel corso di una celebre disputa del 1962 su Rinascita, dove si confrontarono la scuola «dialettica» marxista e quella «adialettica» dellavolpiana. E tuttavia in fondo, sia quel dibattito, sia la posteriore esegesi post-mortem, non potevano dar conto della straordinaria ricchezza che si celava nei pensieri di quel teorico aristocratico nato a Imola nel 1895, raffinato e persino spiritosissimo, pur nelle sue spigolosità linguistiche.
Infatti Della Volpe era tutto fuor che un algido «scientista» monotematico. Era apertissimo alle scienze umane. All’estetica. E alla sensibilità artistica. Di cui dette un magistrale canone, razionalista ma flessibile. Ovvero, l’Arte come fatto intellettuale, intessuto di «polisemia», ambiguità, storicità ed emozioni. Per questa via i contrasti storici ridiventavano «dialettici». Sotto forma di metafore, stilemi, retorica. Il che dava al fruitore il piacere della verosimiglianza fantastica (come nel famoso «verosimile filmico»). Quanto invece ai contrasti storici e alle opposizioni sociali, per Della Volpe non erano certo rigidi o immobili. E però la ragione doveva fissarli dinamicamente, senza annegarli in sintesi illusorie (da demistificare con la «critica dell’ideologia»). E lasciando alla fine campo libero alla politica, favorita dal distinto campo di scavo aperto dalla teoria. In conclusione fu un grande pensiero liberatorio quello di Della Volpe. Coerente, anche nel passaggio dal gentilianesimo al marxismo. E da un certo volontarismo materialistico e scientista - di sapore rivoluzionario conservatore - al comunismo.
In Marx Della Volpe scoprì infatti negli anni Quaranta la vera liberazione sociale e multilaterale delle facoltà umane. E delle «forze produttive». Per poi più tardi revisionare lo stesso Marx con l’idea della legalità e della libertà della persona. Dentro un socialismo democratico che purtroppo non ebbe il tempo di teorizzare per intero.

sabato 12 luglio 2008

l’Unità 12.7.08
Meeting antirazzista, la strada dei diritti
di Paolo Beni* e Vincenzo Striano**


Dal 12 al 19 luglio, fra Cecina e Livorno, si svolge il quattordicesimo Meeting internazionale antirazzista, organizzato come anno dall’Arci insieme alla Regione Toscana. Un appuntamento ormai tradizionale di approfondimento e riflessione pubblica sui temi legati al dialogo fra i popoli, all’intercultura, ai diritti delle minoranze, alla lotta contro le discriminazioni e il razzismo. Temi particolarmente sensibili in questo momento nel nostro Paese, per il clima di tensione che caratterizza il dibattito politico intorno alle questioni legate all’immigrazione.
La destra tornata al governo vuole una svolta autoritaria e indica negli stranieri il capro espiatorio su cui scaricare il malessere e l’insicurezza della società italiana. Del resto ha vinto le elezioni proprio enfatizzando il tema dell’insicurezza associata al fenomeno dell’immigrazione. La sinistra non è stata capace di rispondere adeguatamente, sul piano culturale prima ancora che politico; timorosa di perdere il consenso di un’opinione pubblica spaventata e confusa, si è spesso divisa al suo interno finendo non di rado per inseguire gli argomenti e le stesse proposte della destra.
Il risultato è il dilagare del pregiudizio, un preoccupante ritorno del razzismo e della xenofobia che diventano terreno fertile per proposte come quella del ministro Maroni di schedare le bambine e i bambini rom con le impronte digitali. Un provvedimento aberrante che ha suscitato giustamente lo sdegno di tanta parte della società civile e dello stesso Parlamento Europeo. Bisogna battersi con determinazione contro misure che negano i principi fondamentali della dignità e dei diritti umani e sono destinate a produrre veleni sociali incontrollabili. Ma non è solo la politica ad avere un approccio sbagliato nei confronti dell’immigrazione. Una grande responsabilità la porta anche il sistema dei media, che enfatizzando singoli fatti di cronaca che hanno come protagonisti cittadini stranieri, alimenta in modo ingiustificato l’allarme sociale.
Eppure l’immigrazione è ormai un fenomeno strutturale del nostro tempo, destinato ad incidere nei mutamenti della società italiana ed europea. In Italia i cittadini provenienti da altri paesi sono ormai quasi quattro milioni ed aumenteranno nei prossimi anni, in virtù dei flussi migratori che spingono verso l’Europa fasce sempre più consistenti di popolazione dei paesi poveri che si affacciano sul Mediterraneo, ma anche per il bisogno di mano d’opera del nostro mercato del lavoro. Bisogna partire dalla realtà, e cioè dalla consapevolezza che l’immigrazione può produrre benefici tanto per i paesi di provenienza che per quelli ospitanti. In Italia settori come l’edilizia e l’agricoltura crollerebbero senza i lavoratori stranieri; così come sono migranti l’80% degli addetti nel settore dei servizi alla persona, le cosiddette badanti che coprono una parte rilevante di un sistema di welfare chiamato a rispondere ad una domanda crescente con sempre meno risorse.
Un fenomeno di grandi dimensioni, destinato a generare problematicità se si pensa di rimuoverlo o esorcizzarlo anziché proporsi di governarlo positivamente. Le politiche di accoglienza e i percorsi di inclusione sono l’unico strumento capace di prevenire i conflitti e costruire le condizioni di una buona convivenza nelle nuove comunità plurali. Ma il presupposto è superare il diritto speciale e lo status di cittadini di serie b a cui ancora sono sottoposti gli stranieri, riconoscere pari dignità e pienezza dei diritti a chiunque vive e lavora nel nostro Paese. E questo significa rimuovere le mille cause di sofferenza che segnano la condizione dei migranti: l’angoscia per i permessi di soggiorno, la difficoltà dei ricongiungimenti familiari, la preoccupazione per il futuro di figli non più stranieri ma non ancora cittadini italiani, i ricatti nel lavoro, le difficoltà ad accedere alla casa, alla sanità, alla scuola. Non è di politiche speciali per gli stranieri che c’è bisogno, ma di rafforzare il sistema di welfare per allargare i diritti di tutti. E soprattutto servono opportunità di incontro, conoscenza, dialogo per costruire, nel riconoscimento reciproco e nella contaminazione delle diverse identità e culture, le condizioni di una nuova convivenza. Favorire la partecipazione attiva e la responsabilità dei migranti, dar loro una voce e un volto, sono passaggi decisivi in questo senso. Non a caso al Meeting parteciperanno centinaia di rom e si terrà la più grande assemblea di migranti che ci sia mai stata in Toscana.
Integrazione, diritti, conoscenza, relazioni sociali: con questi strumenti si smontano le paure, e non con misure securitarie che anziché risolvere i problemi li aggravano. «Città da paura» è appunto il tema del convegno che aprirà il Meeting, per interrogarci sul malessere delle nostre comunità, provare a capire e cercare risposte positive al bisogno di sicurezza dei cittadini. Senza rinunciare al clima festoso che caratterizzerà questo grande momento di incontro.
* presidente nazionale Arci
** presidente Arci Toscana

l’Unità Firenze 12.7.08
Mille impronte in due ore contro il decreto Maroni
Fiorentini in coda in Piazza dei Ciompi per il lancio dell’iniziativa di protesta organizzata dall’Arci regionale
Giovani, anziani e anche bambini assediano il banchetto per lasciare il segno: «Non possiamo far finta di niente»
di Silvia Casagrande


«Prendetevi le nostre impronte», la protesta simbolica organizzata dall’Arci contro la misura voluta dal ministro Maroni di schedare rom e sinti, minori compresi, è arrivata anche a Firenze ed ha avuto un grande successo. In due ore sono state raccolte quasi mille impronte, che vanno aggiunte alle 3000 del 7 luglio a Roma e alle oltre 350 raccolte giovedì sera a Pisa durante il concerto di Moni Ovadia. Un totale di circa 4350 adesioni, fra le quali ci sono molti nomi della politica locale: Daniela Lastri, Eros Cruccolini, Andrea Manciulli, Mario Fuso, Cecilia Pezza, Anna Nocentini e Lucia De Servio - presenti ieri in piazza dei Ciompi - ma anche Vittoria Franco, Guido Sacconi, Beppe Carovani, Alessio Gramolati, la Comunità ebraica di Firenze, Cgi, Azione gay e lesbiche, Piero Pelù, Sergio Staino e molti altri ancora. I consiglieri Filippo Fossati, Erasmo D’Angelis e Alessia Petraglia hanno proposto di organizzare una raccolta di impronte anche mercoledì in Consiglio regionale e Eros Cruccolini la vuole portare a Palazzo Vecchio.
«La decisione del Ministro Maroni è un grave attacco alla democrazia - ha detto il segretario regionale del Pd Andrea Manciulli -.. Siamo diventati un caso di vergognosa cronaca internazionale: è necessario prendere chiaramente le distanze da questa azione e per questo aderisco convintamente all’iniziativa lanciata dall’Arci». La presidente di Arci Firenze Francesca Chiavacci racconta: «Alle cinque e mezzo c’era già gente che aspettava: volevano essere i primi. Ho notato con soddisfazione che non c’erano solo le solite facce, significa che anche le persone non impegnate normalmente in politica hanno provato una forte indignazione quando sono venuti a sapere della proposta del ministro Maroni».
Sotto la Loggia del Pesce c’è gente di tutti i tipi e le età. Franco, 39 anni, è uno dei primi ad arrivare: «L’idea di schedare qualcuno solo in base all’etnia è l’abc del razzismo. Tutte le giustificazioni che può inventarsi il governo non toglieranno mai la concezione razzista che sta alla base di questa proposta». Poi parliamo con Tommaso e Matteo, di 11 e 10 anni: ci dicono che nella loro scuola ci sono tanti bambini di tutti i paesi del mondo, ma fanno fatica a fare distinzioni: loro, fortunatamente, non fanno caso alle razze. Una signora sorridente, Vera, ci dice: «Sono nata nel 1923, c’era il fascismo e ho paura che anche quando morirò ci sarà. Quando ero al liceo un giorno sparì un professore, allora non si capiva perchè e non feci nulla, ma oggi che sappiamo quello che succede non possiamo fare finta di niente».

l’Unità Firenze 12.7.08
A Cecina parte oggi il Meeting antirazzista dell’Arci


Cecina (Li) PASSAGGIO del testimone tra un meeting e l’altro. Chiusi ieri i lavori per l’incontro internazionale di San Rossore dedicato alle discriminazioni e al razzismo, si aprono oggi quelli del XIV Meeting Internazionale Antirazzista di Cecina che dureranno fino al 20 luglio. Organizzato dall’Arci, l’incontro di Cecina è divenuto negli anni uno degli appuntamenti più importanti di confronto pubblico sui temi del dialogo tra popoli, delle battaglie per i diritti delle minoranze e contro ogni forma di discriminazione e di razzismo. Per questa edizione gli organizzatori hanno scelto come titolo e filo conduttore il tema delle «Culture». Centinaia di persone che operano nel sociale, nelle istituzioni, nel sindacato, nel mondo della ricerca e della scuola e migranti si confronteranno in seminari, laboratori, convegni, rassegne cinematografiche, mostre, concerti e spettacoli teatrali. Cento gli appuntamenti in programma. Si inizia stamani a Livorno (Sala Lem, piazza del Pamiglione) con il convegno «Città da paura» realizzato in collaborazione con la Fondazione Michelucci. Sarà il presidente della Regione Toscana Claudio Martini, reduce dall’intensa due giorni di San Rossore, a tirare le conclusioni della giornata di confronto, Al dibattito partecipano tra gli altri Alessandro Margara, presidente della Fondazione Michelucci; Vincenzo Striano, presidente di Arci Toscana; Ezedin l-Zerf, imam di Firenze e portavoce dell'Ucoi; Francesco Marsico, vice-direttore della Caritas; Libero Mancuso, assessore alla sicurezza del Comune di Bologna; Luciana Castellina, Marcello Maneri dell’Università di Milano, Omeyya Seddik di Ftcr FRancia e Pablo Cabrera dell’Università di Madrid. Nel pomeriggio a Cecina incontro insieme a Magistratura democratica su «Immigrazione e criminalità» e alle 21 proiezione di un film sulla Palestina: «Stolen youth - Gioventù rubata».

l’Unità Firenze 12.7.08
La Regione investe 5 milioni per diffondere l’antirazzismo
Il prossimo anno scolastico in Toscana sarà dedicato al dialogo interculturale
di f.san.


IL SEGRETARIO Pd Manciulli: «La decisione di Maroni è un attacco alla democrazia»

DIFFONDERE la cultura antirazzista all’interno delle scuole toscane di ogni ordine e grado. È con una delibera in tal senso, approvata dalla giunta re-
gionale riunitasi in seduta straordinaria, che si è chiuso ieri sera l’ottavo meeting di San Rossore.
«L’anno scolastico 2008-2009 - ha annunciato il presidente della Regione Claudio Martini - sarà per le scuole toscane l’anno del dialogo interculturale e dell’inclusione contro razzismo, intolleranza e antisemitismo». Un obiettivo da perseguire «nel pieno rispetto dell’autonomia scolastica», consentendo ai ragazzi di seguire lezioni di «tolleranza e pluralismo». Accanto a queste la Regione proporrà poi anche altri tre percorsi formativi: l’educazione sanitaria, la difesa ambientale e la tutela del paesaggio e l’educazione al consumo.
È la prima volta, dall’introduzione nel 2005, che la Toscana ha deciso di sfruttare la possibilità offerta dalla norma nazionale che consente alle Regioni di dettare indirizzi per il 20% del monte orario obbligatorio delle scuole, dalle elementari alle superiori. «Altre regioni - ha proseguito Martini - hanno usato questa possibilità per lezioni di lingua veneta o cultura lombarda. Noi no. Noi vogliamo usarla per chiudere questo meeting con un provvedimento che ha un valore non soltanto simbolico». Per il presidente toscano, infatti, «questa delibera è il modo concreto per ‘bonificare’ questi luoghi dove 70 anni fa vennero promulgate le leggi razziali». La delibera è accompagnata da uno stanziamento di 5 milioni di euro e secondo quanto annunciato «particolare attenzione» verrà posta alle differenze linguistiche che «non dovranno essere un ostacolo all’informazione e orientamento dei ragazzi».
Ma se questo è stato l’ultimo atto della rassegna, la giornata ha visto due presenze di spicco nel cardinale emerito di Firenze, Silvano Piovanelli, e nel fotografo Oliviero Toscani. Piovanelli, in particolare, è stato “intervistato” dal presidente Martini (il confronto in programma con Walter Veltroni e Dario Fo è saltato per l’assenza all’ultimo momento dei due) ed ha ribadito la sua assoluta contrarietà alla “schedatura” dei rom invitando piuttosto all’apertura verso il diverso. Prendere le impronte digitali ai rom «è una strada sbagliata perché la religione chiede un incontro con l’altro» ha detto il cardinale emerito. «Non so - ha quindi aggiunto Piovanelli - se nasce da una voglia di discriminazione ma di fatto è così che viene intesa e vissuta e, quindi diventa un atto non educativo per la nostra società. Invece di avvicinare questo mondo, anche così difficile, rischia di allontanarlo e di creare tensioni ancora più grandi». Piovanelli è inoltre intervenuto sulla questione moschee. Chiara la posizione del cardinale: «Ciascuno ha diritto al proprio culto. Inutile chiedere una chiesa per ogni moschea».

l’Unità 12.7.08
Impronte ai rom, maremoto nel Ppe: An rischia di restarne fuori
Gli eurodeputati contrari alla schedatura: preme per entrare, ma non può costringerci a sostenerla su posizioni contrarie ai nostri principi
di Paolo Soldini


Ora si scopre che la frittata è doppia. L’atteggiamento di sfida assunto dal governo italiano contro il parlamento di Strasburgo e contro la Commissione Ue che chiede «spiegazioni» sull’ordinanza delle impronte digitali, ha innescato il più duro scontro mai registrato tra Roma e Bruxelles e ha scatenato dentro il Ppe un maremoto che rischia, ora, di affogare le ambizioni di An di entrare a far parte della grande famiglia popolare continentale. Tra i deputati del gruppone della balena bianca europea, infatti, è palpabile l’irritazione per essersi trovati a dover votare su un documento, la risoluzione contro l’ordinanza maronesca approvata l’altra mattina, che ha finito per dividere profondamente il gruppo stesso. «Questi signori della destra italiana -diceva ieri un parlamentare tedesco- non possono da un lato esercitare un pressing asfissiante per entrare nelle nostre file e poi costringerci a sostenerli su posizioni che non corrispondono ai nostri princìpi etici e religiosi». Tanto non possono che l’ordine di scuderia diramato dalla dirigenza del gruppo perché tutti votassero contro la risoluzione è stato, forse, il più disatteso nella storia recente del Ppe al parlamento europeo.
Vediamo come nei dettagli, perché certi sono di notevolissimo significato politico. Dei 244 popolari che hanno votato (su 288), si sono espressi contro la risoluzione 152 eurodeputati: poco più della metà del gruppo. Contro hanno votato in 21, in 71 si sono astenuti. Ora, se si guarda un po’ più da vicino chi ha votato che cosa, si vedrà che intere componenti nazionali hanno rifiutato il loro voto pro-Maroni e soci. I francesi, per esempio: dei 18 deputati disponibili sulla carta, 4 erano assenti, 2 hanno votato contro e 14 si sono astenuti. Non un solo sì a Berlusconi. Dei 6 belgi, 1 ha votato contro e 3 si sono astenuti. Hanno negato il loro consenso al governo di Roma 8 greci su 11; 3 finlandesi su 4; 3 bulgari su 5; 5 svedesi su 6; 4 olandesi su 7. Fra i 49 tedeschi c’erano molti assenti, ma i contrari sono stati 5 e gli astenuti 4. I romeni, si capisce, si sono dissociati in massa dalle indicazioni della presidenza del gruppo (16 su 18), ma dissidenti non sono mancati neppure tra gli ungheresi (9 su 13), gli spagnoli, gli austriaci, gli sloveni, gli irlandesi, gli slovacchi, i polacchi, i lussemburghesi, i portoghesi e i ciprioti. Una simile diaspora non s’era mai vista e va da sé che il dato più significativo è quello dei francesi. Il che spiega, almeno in parte, le difficoltà che la presidenza di turno del Consiglio, ora esercitata da Parigi, comincia ad avere nei rapporti con Roma. E, se come temevano i tedeschi, si stava profilando l’ombra di un asse Berlusconi-Sarkozy, gli avvenimenti delle ultime ore hanno ricambiato le carte in tavola. L’Italia, grazie a Maroni, finisce tra i sorvegliati speciali cui è meglio non dare troppa familiarità. Proprio come Sarkozy ha fatto in Giappone con l’italiano incontinente che lo tirava per la giacca perché si unisse a lui nel corteggiamento a distanza di un gruppetto di adolescenti che facevano ciao ciao.
Ma i problemi più grossi si profilano per l’incauto Maroni. Il ministro leghista rischia di scoperchiare un pentolone in cui bolle l’ira dei suoi alleati di An. I distinguo di Alemanno sono, forse, già un segnale. È assai probabile, che dentro An si stia valutando con grande fastidio il peso del macigno che il conflitto aperto con le istituzioni Ue ha fatto precipitare sulla strada, che finalmente pareva in discesa, verso l’ammissione nel Ppe. Il che potrebbe anche spiegare i primi cenni di resipiscenza che si cominciano a cogliere nella Pdl, e non solo nella componente aennina. Se è così bisognerà spiegare il cambiamento di linea al superfluo ministro degli Affari comunitari, molto abile a chiosare con vigorosi movimenti delle braccia e dell’espressione del volto le affermazione dei colleghi «veri» ma non altrettanto nel fare quello che dovrebbe fare: ovvero rappresentare a Roma le istanze dell’Unione e non viceversa.
Per tornare allo scontro Roma-Bruxelles, invece, la cronaca di ieri registra una secca smentita del portavoce del commissario Barrot a alla bugìa propinata alla stampa estera l’altro giorno da Maroni in conferenza stampa. Il commissario -aveva sostenuto il ministro dell’Interno- aveva cercato di «far rinviare» il voto del parlamento. Purtroppo, questa «informazione» era stata «passata» così confezionata al Tg1 Rai e in altri tg. Il portavoce di Barrot ha sottolineato che il commissario non ha chiesto il rinvio di un bel nulla, giacché il parlamento Ue è sovrano e decide a prescindere dalle opinioni dell’esecutivo. La stessa obiezione era stata fatta a Maroni in conferenza stampa, ma la troupe del Tg1 doveva essere, in quel momento, distratta. Peccato che così a milioni di italiani sia arrivata, su una questione tanto delicata, un’informazione falsa.

l’Unità 12.7.08
La fine dello stupore e la fine dell’Università
di Michele Ciliberto


Se un filosofo dovesse dire quale è uno dei segni più tipici della crisi che sta attraversando il nostro paese potrebbe dire, a mio giudizio, che è la fine dello stupore, della capacità di sorprendersi, che come è noto è la prima sorgente della filosofia. In Italia, oggi tutto è ricondotto nei parametri dell’ordinario, del quotidiano, del feriale: anche le cose più inconcepibili, fino a poco tempo fa, sono digerite, assorbite, metabolizzate senza alcuna difficoltà. Si è persa l’abitudine a dire di no, ad alzarsi in piedi: e di questo è una paradossale conferma il fatto che quando si protesta si usano toni esagitati, addirittura volgari, proprio perché protestare - dire no - è diventata un’eccezione, non più la norma di un comune vivere civile. Questo accade anche quando si tratta delle regole che devono strutturare la vita istituzionale politica e sociale del paese. È un altro segno della crisi profonda che attraversa l’Italia: le regole appaiono una sorta di optional che il potere può trasformare come meglio gli conviene, a seconda della situazione e perfino dei propri interessi privati. Si tratta di un tratto tipico del dispotismo, quale è già delineato in pagine straordinarie di Tocqueville nella Democrazia in America: il dispotismo si esprime attraverso una prevaricazione dell’esecutivo sugli altri poteri e con un ruolo sempre più ampio assunto dall’amministrazione, che diventa il principale motore dell’intera vita di un popolo. Le strutture dispotiche, infatti sono incontrollabili: una volta messe in movimento invadono progressivamente tutte le sfere della vita sociale ed intellettuale, compresa ovviamente l’alta cultura e le istituzioni attraverso cui essa si organizza.
È precisamente quello che è accaduto in queste ultime settimane con il decreto del 25 giugno del 2008: «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria». In esso è compresa una serie di disposizioni che muta profondamente l’assetto della Università pubblica italiana accelerandone la crisi e la definitiva decadenza. Si tratta, dunque, di disposizioni che avrebbero dovuto sollevare, se non uno scandalo, una discussione assai vivace; mentre invece, a conferma di quanto sopra dicevo, con poche eccezioni, il mondo dell’Università è rimasto silenzioso e seduto. Solo in questi ultimi giorni stanno cominciando ad affiorare prese di posizione più nette come quella del rettore dell’Università di Ferrara o del Preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Pisa, il quale ha rotto il muro del silenzio scrivendo una lettera aperta dal titolo: «L’università non è in svendita». Qualche protesta, in verità c’era stata già prima, ma aveva riguardato il fatto che il decreto interviene sugli scatti di carriera di tutti i docenti trasformandoli da biennali in triennali. Il problema è però ben più vasto e riguarda direttamente la costituzione interiore della Università italiana ponendo anche delicati problemi di ordine costituzionale. Mi limito a segnalare quelli che a mio giudizio sono i punti più importanti.
Le Università possono costituirsi, su base volontaria, come fondazioni di diritto privato, si dice nel Decreto, venendo incontro sul piano legislativo a un’istanza proveniente già da molto tempo soprattutto da settori industriali. Su Il Sole 24 Ore il provvedimento è stato infatti presentato da Giovanni Toniolo come «un’ottima notizia, la migliore che abbia sentito in quarant’anni di vita accademica». Personalmente, non ho dubbi che sul tema delle fondazioni si debba discutere ed aprire un forte dibattito, ma sapendo che - se non ben governata - questa è la via dell’integrale privatizzazione dell’Università italiana, con il rischio effettivo sia di ledere il principio della libertà dell’insegnamento sia di ritrovarsi in una situazione come quella americana nella quale accanto alle top ten esistono migliaia di università di livello inferiore ai nostri licei.
Ma che l’Università pubblica sia al centro di un vero e proprio attacco in queste disposizioni è dimostrato anche da altri elementi. È bloccato il turn over: si prevedono infatti assunzioni nei limiti del 20% per il triennio 2009-2011 e del 50% a partire dal 2012. Né è difficile anche in questo caso immaginare gli effetti di questa disposizione sull’Università in generale, specie su quelle medio - piccole e anche su quelle scuole di eccellenza che si giovano di un corpo di docenti limitato. Privatizzazione, da un lato; ricostituzione di una forte dimensione centralistica ,dall’altro: all’Università infatti resterà in cassa soltanto il 20% delle «quote» dei docenti andati in pensione, tutto il resto andrà all’amministrazione centrale la quale ha già tagliato il finanziamento di Euro 500.000.000 in tre anni.
Privatizzazione, centralizzazione (nonostante tutta la retorica sul federalismo) e, infine, colpi durissimi al personale docente per il quale si prevede una sorta di vera e propria rottamazione. La questione dello stato giuridico dei professori universitari è annosa; il Ministro Mussi era intervenuto su questa delicata questione riducendo, e di fatto avviando alla fine, il fuori ruolo, - decisione che si può anche comprendere se si tiene conto che si tratta di una vecchia disposizione, risalente a tutt’altra situazione, la quale consentiva ai professori di continuare a godere del proprio stipendio, pure essendo fuori dai ruoli dell’insegnamento.
Ma queste disposizioni si muovono su ben altro piano colpendo sia la possibilità che i professori universitari, come ogni altro dipendente dello Stato, hanno di poter continuare a lavorare- cioè insegnare - due anni dopo l’età pensionabile (a insegnare, sottolineo); sia la stessa possibilità che possano continuare a restare nei ruoli qualora abbiano compiuto quaranta anni di insegnamento, qualunque sia la loro età (compresi dunque quelli che sono andati presto in cattedra). Ad essere sintetici: prima il biennio era una scelta del docente; ora diventa una concessione dell’amministrazione da cui dipende. Allo stesso modo è l’amministrazione che decide se rottamare un professore, oppure tenerlo in servizio fino al raggiungimento dell’età della pensione stabilita della legge, che il decreto tende invece ,surrettiziamente,ad anticipare anche di parecchi anni con una chiara lesione dei diritti costituzionali dei docenti. In entrambi i casi c’è una totale prevaricazione sulla figura dei professori da parte dell’amministrazione locale e soprattutto di quella centrale che diventa il vero arbitro della situazione. Infatti, se anche l’amministrazione universitaria locale fosse orientata a concedere il biennio o a rinviare la rottamazione, l’amministrazione centrale potrebbe costringerla a procedere in questa direzione con ulteriori, drastiche riduzioni del fondo di finanziamento ordinario.
Non si tratta di questioni sindacali, o di interesse puramente corporativo: in ballo c’è ben altro. Se queste disposizioni vanno avanti ne discenderà un controllo dispotico, e col tempo totale, dell’amministrazione centrale sulle carriere dei professori universitari e di conseguenza sull’Università italiana. Quella che dovrebbe essere il centro della libertà intellettuale e di ricerca del paese, costituzionalmente garantita, corre dunque il rischio di essere controllata e irreggimentata a tutto vantaggio delle università private che potranno darsi gli statuti più adeguati al loro sviluppo, attraendo tutti i professori che non vogliono essere sottoposti a forme di controllo centralistico destinate ad assumere - non è difficile prevederlo - connotati ideologici e politici assai precisi. Mentre nelle Università pubbliche diventerà fortissima, temo, una spinta in direzione del conformismo, della passività, dell’autocensura dei professori universitari con un colpo assai grave per quella autonomia e libertà dell’insegnamento che è esplicitamente prevista dall’art. 33 della Costituzione.
In ultima istanza,questo - la libertà di insegnamento e le forme in cui essa può e deve esplicarsi - è dunque il vero problema che il Decreto del 25 giugno 2008 pone all’Università italiana: che di fronte a tutto questo -e alla stessa forma del decreto,così impropria per decisioni di tale rilievo-non si sia ancora accesa una discussione critica e che siano pochissimi quelli che hanno deciso di alzarsi in piedi può certamente sorprendere; ma sorprende meno se si tiene conto di quello che dicevo all’inizio: il nostro paese è pronto a tutto, anche ad inghiottire in silenzio la fine dell’Università pubblica e della libertà di insegnamento.

l’Unità 12.7.08
Veronesi: massacro di scuola e ricerca
L’accusa: «In queste condizioni il paese non può ripartire»


Ricerca e Scuola sono state «massacrate» da questa manovra finanziaria, «ma senza l’una e senza l’altra il Paese non può ripartire». Lo ha detto Umberto Veronesi rispondendo alle domande dei giornalisti a margine della presentazione del programma del convegno internazionale “Il futuro della scienza”, che si svolgerà a Venezia dal 24 al 27 settembre.
«La ricerca scientifica - ha detto l’oncologo, oggi senatore della Repubblica - ha bisogno di essere rilanciata se vogliamo rilanciare il Paese. Senza ricerca e senza scienza il Paese non cresce. Ma anche la scuola deve essere sostenuta». Per Veronesi, la scuola «deve essere prima di tutto riformata» per affrancarla dal nozionismo di oggi, per avere «una scuola che si preoccupi di formare la personalità di un ragazzo che cresce e che lo motivi alla vita e alla creatività in modo da renderlo più resistente alle devianze». Ma per far questo «occorre un grande impegno, anche economico».
«Il ragazzo - ha continuato Veronesi - deve andare a scuola con piacere, deve essere affascinato dalla scuola. Deve sentire il bisogno di andarci, perchè a scuola deve imparare, conoscere, ma deve anche divertirsi, vedere film, le opere teatrali, deve fare lui l’attore, deve scrivere articoli, commentare gli articoli del giorno, deve leggere i giornali... Insomma deve diventare un uomo consapevole del suo ruolo nella società. Se no, alimentiamo questa tendenza al rifiuto della società di oggi, che poi si manifesta nelle devianze, nella depressione o, peggio, nel suicidio». Per l’oncologo, quindi, «la scuola va rifatta. La ricerca è fondamentale. La cultura e la musica sono fondamentali per un Paese che deve crescere. Bene, tutte queste aree - ha concluso - sono state massacrate da questa manovra finanziaria».

l’Unità 12.7.08
Dietro gli occhi di Federica prima della morte
di Adele Cambria


LA FOTO RACCONTA Sparita la solidarietà femminile. Federica lasciata sola con il suo killer

Riflettevo l’altro ieri sulla risposta che Lucia Annunziata dava, nello spazio della sua rubrica di posta su La Stampa, alla lettera di un lettore, a proposito della tragica morte di Federica, e già il titolo, «Niente moralismi sui ragazzi della movida», anticipava la risposta. «Si può immaginare - esordiva dunque Annunziata - di essere giovani senza anche essere scapestrati, distratti, incuranti dei pericoli, abbagliati solo dal futuro… e dalla propria potenza?». Non devo certo ricordare a Lucia quale importanza - quasi di sfida mortale agli Dei - si dava nell’antica Grecia alla yubris.
Sì, la yubris, quel sentimento d’onnipotenza giovanile per esempio di Icaro (sostenuto dalla sapienza diremmo oggi tecnologica del padre, Dedalo): uno slancio verso l’alto che portò il giovinetto a perire, con le sue ali incollate alle spalle da una labile cera, nella luce e nel calore, quelli sì abbaglianti, dell’immenso sole.
Ed ora, davanti alla fotografia di Federica, abbracciata ad uno sconosciuto (fino a qualche ora prima), che di lì a poco l’avrebbe soffocata ed uccisa, -ma era abbracciata a El Gordo o ne era piuttosto «invasa»?- non mi sento proprio di condividere il commento di Daniele Mastrogiacomo a questa foto: «Lei, il viso felice, forse un po’ contratta ma serena, alza il pollice come a dire ok, tutto bene…». Ed anche Annunziata scrive che il sorriso di Federica, «l’ultima vittima»,(per ora?), è quello di «chi si sente al top del mondo». Nessun moralismo, per carità, ma non ci sentiamo un po’ tutti, e tutte - noi adulti, e specialmente noi donne, e tanto più se madri- responsabili per le conseguenze di quella «felicità» così, lasciatemelo dire, raso terra?
Dicono che Federica si sia difesa, più tardi, dall’invasione di quel corpo maschile aggressivo (nemmeno bello) e sragionante. La droga, l’alcool, le pasticche, la vacanza, la movida low cost, non sono attenuanti. Sono soltanto i sintomi, brutali e spesso, mortali, d’un consumismo sentimentale/sessuale egualmente low cost. In fondo, riflettiamoci, Federica s’è difesa per un riflesso ancestrale di remota e, senza dubbio, «repressiva» virtù, come quello che mosse, secoli fa,(diremmo oggi), Maria Goretti. Soltanto che le donne di oggi, quelle almeno che hanno animato negli ultimi trenta-quarant’anni, la «nuova»(ancora nuova, nonostante tutto) cultura del femminismo, hanno parlato- e scritto- di dignità e autostima femminile; rivendicando persino-cosa che ci è stata rimproverata come un intollerabile, isterico eccesso- il diritto di cambiare idea anche «all’ultimo momento».
Allora, chiediamocelo, che cosa non funziona, non ha funzionato (o non ha funzionato abbastanza)nella trasmissione generazionale tra noi madri e le nostre figlie? (Ed anche, ovviamente, i nostri figli?). Non lo so. So che a Campo de’ Fiori, o a Trastevere, nelle notti delle nostrane movide, vedo spesso un ragazzo o un branco, tutti amici, per carità, tutti immersi nel divertimentificio comune, schiaffeggiare o spintonare una ragazza: che è spesso la propria ragazza, oppure una delle ragazze della comitiva. E la malcapitata non reagisce- anzi spesso ride,magari «contratta», come Federica- né reagiscono le sue amiche: mancanza di solidarietà femminile? L’espressione vi sembra troppo pomposa, vetero femminista? Allora diciamo: semplice distrazione.
Anche Stefania, l’amica del cuore di Federica, deve essersi distratta: e l’ha lasciata andare con El Gordo. Dopo averli fotografati.

l’Unità 12.7.08
L’indagine. Paralizzate e in coma vegetativo in Italia più di 2000 come lei


SONO circa 2.000-2.500 i pazienti che in Italia, come nel caso di Eluana Englaro, si trovano in una condizione di coma vegetativo. È uno dei risultati di una indagine svolta nel 2005 da una commissione ad hoc istituita dal ministero della Salute. La cifra è contenuta nel documento elaborato dalla commissione, che afferma che «nel nostro paese un censimento sugli Stati vegetativi è molto difficile», ed è ricavata da una proiezione su una serie di regioni campione. La stima della commissione è che il numero di pazienti di questo tipo sia tra 3,5 e 5 ogni 100mila abitanti, e che sono necessari 3-4 posti letto in strutture specializzate ogni 100mila abitanti. Secondo il rapporto il 40% dei casi deriva da malattie vascolari, il 21,7% da traumi e il resto da altre patologie. 2-300mila, sono le persone che entrano ogni anno in coma per incidenti stradali o sul lavoro, per malattie o intossicazioni. Più di un terzo ne esce indenne, altri riportano danni più o meno gravi e per circa 500 di loro il coma evolve in stato vegetativo, che diventa permanente quando dura oltre 3 mesi.
In Italia, una persona su tre colpite dal coma ha un’età compresa fra 0 e 15 anni. Il 3% dei bambini rimane in coma oltre un mese. La maggior parte di questi piccoli pazienti riprende attività di coscienza, ma molti di loro manterranno gravi disabilità. Attualmente, nel nostro Paese sono circa 700 i bambini in stato di coma vegetativo. Situazioni “al limite” e molto difficili da gestire, anche perché, sottolineano vari esperti, in Italia esistono poche strutture specializzate e gli stessi medici sono spesso impreparati, dovendo trattare casi con patologie molto complesse. Molte volte, dunque, l’assistenza non è di tipo specialistico e le statistiche rilevano che sono proprio i giovani coloro che occupano le poche stanze a disposizione negli ospedali per i pazienti in coma.

l’Unità Roma 12.7.08
Smeriglio: a Roma ha vinto Vendola
L’annuncio del segretario romano mentre non è ancora ufficiale la convalida dei voti esclusi in un primo momento
di Luciana Cimino


«A Roma ha vinto la mozione Vendola», così ha esordito Massimiliano Smeriglio nella sua ultima relazione da segretario cittadino, all’VIII Congresso della federazione romana del Prc. Non un discorso distensivo dunque ma un intervento che non nasconde la crisi intestina delle ultime settimane. E la reazione della platea dell’auditorium Santa Lucia alle sue parole parrebbe indicare che non è ancora giunto per Rifondazione il momento della pacificazione. Una parte della platea dei delegati ha infatti contestato l’annuncio del segretario, che ha però insistito: «La linea Vendola offre una prospettiva politica chiara: salvare Rifondazione e salvaguardare le relazioni culturali che permetteranno la costruzione del campo largo della sinistra. Dobbiamo pensare alle elezioni europee e al rilancio dei nostri simboli e la nostra storia politica». Nonostante l’appello al confronto civile lanciato da Nichi Vendola, governatore della Puglia e candidato dalla mozione 2 alla successione di Giordano, sulle pagine di Liberazione, ieri mattina, lo scontro tra le mozioni è ancora vivo e il nodo centrale riguarda proprio Roma. «Abbiamo assistito – è l’accusa di Smeriglio - ad un congresso da resa dei conti vissuto all’insegna di un clima che speravamo di aver seppellito per sempre, c’è gente che ha lavorato alacremente per la distruzione del Prc romano».
Ancora non si placano le polemiche per i ricorsi presentati alla commissione congressuale nazionale, dopo che quella cittadina, presieduta da Adriana Spera, aveva annullato decine di voti facendo crollare la mozione 2 di quasi 10 punti percentuale, relegandola così al secondo posto. La commissione comunicherà oggi, nella seconda giornata di congresso, le sue conclusioni, ma dal contenuto della relazione di Smeriglio è facile intuire che l’organo di controllo del Prc abbia convalidato molte delle preferenze giudicate precedentemente nulle e quindi che il documento di sostegno a Nichi Vendola abbia in città la maggioranza relativa. «Non mi piace usare il termine vittoria – ha detto Patrizia Sentinelli, garante della direzione nazionale al congresso romano – ma si può dire che la mozione 2 si è affermata come prima, ora però è tempo di discutere tra esseri umani di modo che si possa tornare a ragionare di politica». Domani la platea voterà i delegati che andranno al congresso nazionale previsto per fine mese a Chianciano. Per l’elezione del nuovo segretario cittadino, invece, i tempi si allungano e la sua nomina non dovrebbe arrivare prima di settembre.

Corriere della Sera 12.7.08
Panslavismo Autori legati a Putin esaltano le glorie imperiali e si scagliano contro l'Occidente
Così il Cremlino riscrive la storia
La Russia più antica di Babele, Mosca madre degli etruschi
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — Da lungo tempo popoli e imperatori cercano di trovare una legittimazione nobilitando le proprie origini. I romani lo fecero con il troiano Enea; i russi hanno sempre puntato le loro carte su una presunta continuità con Bisanzio e con l'Impero Romano d'Oriente, grazie al matrimonio avvenuto nel 1472 tra Sofia, una nipote dell'ultimo imperatore Costantino XI Paleologo, e il principe Ivan III. Ma ora che grazie al petrolio Mosca sta ritrovando il suo ruolo di superpotenza, la ricerca di una ideologia che sostituisca il tramontato comunismo e di una giustificazione per azioni che tutti condannano come imperialiste sembra diventare impellente.
Professori universitari, preti altolocati e produttori delle tv controllate dal Cremlino sono all'opera per creare una serie di miti grandiosi e per indirizzare la politica della Russia facendo tesoro degli errori del passato. È da Mosca che viene la civiltà del mondo e probabilmente è proprio il russo quella lingua originale che tutti parlavano prima della torre di Babele; i russi diedero le conoscenze agli etruschi che poi fondarono Roma; e se Bisanzio cadde perché si «contaminò» con l'Occidente, la Russia di oggi deve imparare la lezione e isolarsi nel suo splendore. Teorie e affermazioni per lo meno bizzarre, che si potrebbero trascurare se non venissero diffuse da libri, programmi televisivi e personaggi legati a doppio filo ai vertici del potere. Ma iniziamo con ordine.
Il primo richiamo alla Seconda Roma, della quale Mosca sarebbe l'erede, è venuto da padre Tikhon Shevkunov, confessore di Vladimir Putin, con un programma televisivo dal titolo eloquente, La distruzione dell'Impero, una lezione bizantina, trasmesso e replicato dalla principale rete statale (Rossiya). Il messaggio era semplice e diretto: Costantinopoli con il suo splendore faceva invidia ai barbari occidentali, che la saccheggiarono con la «crociata» del 1204. Il moderno capitalismo occidentale è costruito sul bottino di Bisanzio e «sull'usura ebraica». Una fusione tra vecchi e nuovi stereotipi dei cosiddetti slavofili. Per rafforzare il parallelo tra la Russia di oggi e Costantinopoli, il sacerdote sostiene che anche l'imperatore di allora creò, come Putin, un fondo di stabilizzazione del Paese. Poi tutto si perse quando Bisanzio tentò di riformarsi e modernizzarsi come voleva l'Occidente. La conclusione è ovvia: la Russia di oggi deve rimanere aggrappata ai suoi «grandi valori», l'ortodossia e l'autocrazia, senza ascoltare chi parla di democrazia e riforme. Ma padre Tikhon è un moderato. Dietro di lui avanzano gli estremisti della russità. Come il matematico Anatolij Fomenko dell'Università di Mosca, autore di Antichità nel Medioevo e di Impero, anche lui ampiamente pubblicizzato da giornali e tv.
Fomenko afferma di aver studiato la posizione delle stelle nei secoli e di averla confrontata con i documenti antichi. Ebbene, tutta la storia va riscritta, perché quello che credevamo fosse accaduto nell'Antichità va invece spostato nel Medioevo. Cristo, dunque, nacque nel 1053 e fu crocifisso nel 1086. La prima Roma in realtà era Alessandria d'Egitto, che nell'XI secolo si trasferì sul Bosforo e divenne Bisanzio (il nome, naturalmente, viene dal russo:
Bis Antik, Seconda Antica). Il matematico sostiene poi che questa città era nota anche con altri nomi, Gerusalemme e Troia. Con raro equilibrismo temporale, sostiene così che la guerra raccontata da Omero non è altro che il sacco di Costantinopoli da parte dei crociati. Ma andiamo avanti. Quando Bisanzio si indebolì, nacquero Mosca, sua erede diretta, e quella che noi conosciamo come Roma, sulle coste del Lazio. È ovvio che questa teoria rafforza le tesi degli slavofili. L'impero russo, addirittura, non nasce come erede di Roma (e quindi dell'Occidente), ma parallelamente a Roma e perciò non ha nulla a che spartire con la nostra civiltà. E chi fondò la Roma che noi conosciamo?
Qui interviene un altro personaggio reso celebre dai programmi televisivi, lo stimato fisico (membro dell'Accademia delle Scienze) Valerij Chudinov, riciclatosi come linguista. I suoi ponderosi studi (120 pubblicazioni) gli hanno consentito di sfornare un film, La lingua dei Titani. Le sue teorie sono state rilanciate dai canali televisivi Kultura e Tvz. La «lingua dei Titani», naturalmente, è il russo, che, in base a ricerche archeologiche del fisico-glottologo, esiste da trentamila anni. I russi scrivevano e dominavano il mondo quando greci, egiziani e assiri balbettavano. «Tutta l'Europa e l'Asia, fino all'Alaska, erano russe», dice sicuro. Gli etruschi, su ordine di Mosca, fondarono una città sul Tevere e la chiamarono Mir, cioè «mondo» in russo. Leggendo il nome da destra a sinistra come facevano gli etruschi, ecco Rim, cioè Roma in russo. Naturalmente anche Mosè e poi tutti gli apostoli parlavano il russo che a quell'epoca non era più lingua universale (dopo Babele), ma pur sempre il principale idioma di comunicazione internazionale. Furono gli europei portati a corte da Caterina II nel Settecento a inventarsi la storia che conosciamo noi. Che i russi vivevano nei boschi e nelle paludi e furono civilizzati da un re scandinavo; che i santi Cirillo e Metodio diedero loro la scrittura; che l'apertura all'Occidente di Pietro il Grande modernizzò il Paese.
Facile trarre conclusioni politiche da tutto ciò: non protestate se la Russa mostra i muscoli e fa la prepotente. Potrebbe anche decidere di riprendersi quello che una volta era suo.
ILLUSTRAZIONE CORBIS

Corriere della Sera Roma 12.7.08
Schiamazzi e abusivi ordinanza «antibivacco»
Alemanno presenta nuove regole per la vita nel centro storico Ztl notturna dalle 23, maggiori controlli e più mezzi pubblici
di Lilli Garrone


Nuove regole per il centro: niente bivacchi e niente borsoni con merci. Più controlli. La Ztl notturna scatta alle 23
Centro storico, si cambia. Dall'orario della zona a traffico limitato notturna, che dal 18 luglio ritorna alle 23 nei fine settimana (come nel 2007), e fino alle 3 di notte, al divieto dei «borsoni», per contrastare i venditori ambulanti abusivi, fino a una nuova ordinanza, definita «anti-bivacco», che vieta di consumare cibi e bevande, o dormire, in strada. La giunta di Gianni Alemanno ha ieri deciso le nuove regole, promettendo maggiori controlli: vi saranno 600 mila euro per gli straordinari dei vigili urbani (oltre le 400 assunzioni già in programma). «Non sono provvedimenti ideologici - dice il sindaco - Il problema è la grande difficoltà in cui si trovano gli esercizi commerciali. Pur cercando di ridurre al minimo i disagi per i residenti, avevamo di fronte a noi il rischio di morte degli esercizi del centro storico».
Vi saranno più mezzi pubblici di notte, ma la vera rivoluzione d'orario per la ztl notturna sarà per Trastevere, dove è sempre scattata alle 21. L'assessore alla Mobilità Sergio Marchi è fiducioso: «È un provvedimento sperimentale - precisa - in vigore fino al 31 dicembre. La nostra volontà è quella di rendere Roma una città il più possibile aperta, vivibile e controllata». Si torna dunque alla chiusura alle 23 nel centro storico, a Testaccio (dove scade il 19 luglio e riprenderà dopo la pausa estiva il 5 settembre) a Monti, ma non a San Lorenzo, dove resta alle 21 e con il programma attuale dal mercoledì al sabato; si apre un po' prima quello che è definito il «piccolo Tridente », supervigilato finora dalle 10 alle 20: sarà alle 18, così come avviene in tutta la ztl diurna.
E da subito (sperimentale fino al 31 ottobre) niente «borsoni » per contrastare il commercio abusivo, «qualora il trasporto si configuri come strumentale alla vendita», spiega l'assessore al Commercio Davide Bordoni. Un'ordinanza modello Venezia, che varrà soprattutto in centro con la quale «è vietato trasportare merci per mezzo di contenitori spiega Davide Bordoni Dobbiamo intervenire perché i commercianti lamentano un calo di affari del 30 e 40 per cento». Stessa durata, 31 ottobre, per l'ordinanza antibivacco: «Sarà perseguito chiunque insudici le strade, getti o abbandoni carte, imbratti i muri, affigga manifesti, emetta schiamazzi, consumi cibi o bevande o, utilizzi i luoghi pubblici come sisti di deiezioni». Ordinanze un po' modello Firenze e Venezia, città governate dal centrosinistra e promosse nel loro lavoro da Gianni Alemanno.
Plaudono i commercianti: «Finalmente cominciano a cadere le mura della "città proibita" - affermano il presidente della Confcommercio Cesare Pambianchi e della Confesercenti Valter Giammaria - Si vive un periodo di grande crisi anche per il turismo, con una media del 20 per cento in meno. Se si spengono le luci delle vetrine il degrado avanza».

Repubblica 12.7.08
L´abisso di Nietzsche
La stagione della follia
Nelle "Lettere da Torino" il suo ultimo tragico autunno
di Pietro Citati


Proclamava di essere il pagliaccio della nuova eternità, si sedeva al pianoforte e cantava a gola spiegata in preda ad una irrefrenabile euforia
Il suo amico Franz Overbeck era corso da Basilea per rintracciarlo e riportarlo a casa
Sembrava un istrione impazzito e inviava proclami firmati Dioniso oppure Crocifisso

Il 21 settembre 1888 Friedrich Nietzsche arrivò a Torino, fuggendo l´Engadina in preda all´alluvione. Era la seconda volta che giungeva nell´antica capitale sabauda: ma questa volta essa lo affascinò completamente. L´aria fresca, tersa, limpida, le foglie dorate e brune degli alberi, il fondale già bianco delle montagne: gli pareva di vivere in mezzo ai colori di un Claude Lorrain infinitamente prolungato. C´era nell´aria un benessere quieto ed etereo. Il pomeriggio passeggiava lungo i viali alberati sul Po, che l´autunno aveva appena sfiorato. Amava le strade dritte e larghe, la bellezza delle grandi piazze, gli edifici regolari, la profondità quieta del silenzio. Gli pareva che Torino fosse costruita apposta per lui. Era la città dell´autunno: Dioniso, il suo dio, era il dio dell´autunno; e qui le venditrici gli offrivano meravigliosa uva di tutti i colori. Non sapeva ancora che sarebbe stato il suo ultimo, tragico autunno (Lettere da Torino, a cura di Giuliano Campioni, traduzione di Vivetta Vivarelli, Adelphi, pagg. 272, euro l5).
Tutto, a Torino, gli sembrava frutto di uno straordinario momento di grazia. Un edicolante, David Fino, che abitava a via Carlo Alberto l3, gli aveva affittato a basso prezzo una vasta stanza con un "grandioso letto piemontese", dove dormiva con una profondità e una quiete che non aveva mai conosciuto. La trattoria era buonissima: teneri maccaroni, saporite minestre, ossibuchi accompagnati da "broccoli cotti in maniera incredibile", carne finissima, squisiti grissini. Un sarto gli aveva preparato un elegante soprabito azzurro autunnale, che gli toglieva dieci anni di vita e lo faceva procedere pieno di contegno e di orgoglio. Tutti sembravano, od erano, persone raffinatissime; e lo trattavano come un gentiluomo estremamente distinto o un principe. Quando entrava in un grande magazzino, i volti si addolcivano e si rasserenavano: le porte si aprivano dolcemente davanti a lui; e le vecchie fruttivendole non avevano pace finché non riuscivano a scegliere i grappoli più dolci della loro uva. Così la sua salute (nella realtà o nell´immaginazione) migliorò rapidamente: non aveva più bisogno di caffè, cloralio e nicotina: dopo anni di angosce conosceva il benessere; e scrisse in pochi mesi, con velocità ed impeto vertiginosi, i suoi ultimi libri.
In realtà, quello di Nietzsche non era benessere, ma un eccesso di euforia, che cresceva su sé stessa e divorava spaventosamente sé stessa. Le lettere degli ultimi mesi si riempiono presto di affermazioni di una inquietante e sinistra mitomania. «Io ho dato agli uomini il libro più profondo che posseggano, il mio Zarathustra». «Zarathustra, il primo libro di tutti i millenni, la Bibbia del futuro, la più grande esplosione del genio umano in cui è racchiuso il genio dell´umanità». «Mi sono posto talmente al di là, non sopra ciò che conta ed è in auge oggigiorno, bensì al di sopra dell´umanità». Ma anche il successo del Zarathustra era ormai dietro le sue spalle. Nessuno poteva fermarlo. Le potenze europee, riunite a convegno attorno a lui, avrebbero ubbidito ai suoi ordini di Messia: fucilare Bismarck e l´imperatore Guglielmo, distruggere il Terzo Reich, chiudere il Papa nel carcere del Vaticano.
Chi poteva chiamare semplici libri L´anticristo o Ecce homo, che scriveva febbrilmente a Torino? Erano dinamite, terremoto, convulsione, apocalisse. Ecco, davanti ai suoi occhi, la storia della terra spezzata e spaccata in due. Il vecchio mondo, che era cominciato con l´anno uno, ai tempi della nascita di Cristo, era già morto: mentre il nuovo stava cominciando proprio in quel momento, tra i limpidi veli autunnali di Torino. Tutto era l´albore di un nuovo inizio e di un nuovo cominciamento. Il Crocefisso aveva finito di vivere, e con lui il Padre, al quale l´umanità aveva tanto tempo sacrificato. L´altro Redentore, l´altro Padre era già qui, davanti agli occhi presaghi di tutti. Non era una persona sconosciuta: ma lui, Friedrich Nietzsche, il professore di Basilea, il fuggiasco che in pochi anni aveva percorso tutta l´Italia. «Tra un paio d´anni - proclamò - governerò il mondo, perché ho deposto il vecchio Dio».
Poi, in alcune lettere dei primi di gennaio del 1889, tutto esplose alla luce. «Il mondo è trasfigurato, poiché Dio è sulla terra. Non vede come i cieli gioiscono? Ho appena preso possesso del mio regno». Scrivendo ai nuovi e vecchi amici, tra i quali l´amatissima Cosima Wagner, firmò i suoi brevi proclami di rivelazione e di trionfo ora col nome del Crocifisso ora con quello di Dioniso. Egli era Dioniso vittorioso, il dio supremo antichissimo e recentissimo, che avrebbe reso la terra un giorno di festa. Sebbene fosse Dio, egli conosceva tutte le esperienze che gli uomini possono conoscere, dalle più basse alle più alte. Così, nella gioia universale, egli annunciava il suo "eterno ritorno": come Buddha, Gesù Cristo, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Shakespeare, Voltaire e Napoleone; e persino il suo immaginario figlio Umberto I, giovane re d´Italia con "la graziosa Margherita", avrebbero partecipato alla grande festa.
Davanti a questo scoppio orgiastico di euforia, gli amici che ricevettero i biglietti di Dioniso-Crocifisso pensarono di leggere le parole di un istrione impazzito. Non avevano torto. Ma anche Nietzsche sapeva di esserlo: anche lui era cosciente che la sua "catastrofe tragica" poteva esprimersi soltanto con ghigni, caricature, spiritosaggini, buffonate, disumana e sovrumana allegria. Credo che per qualche giorno rimanesse lucido: convinto di essere contemporaneamente il "redentore del mondo " e "il pagliaccio della nuova eternità ". Si era identificato con Dioniso: il Dioniso della fine dei tempi. E il suo Dio doveva esprimersi quale era stato nel corso della sua lunga storia: con i balzi del satiro, le smorfie dell´istrione aristofanesco, le danze del ballerino d´operetta. Non c´erano più alternative o rivali nel tempo. Non c´era più storia. C´era soltanto quella tremenda risata orgiastica, che distruggeva il mondo e lo ricreava secondo un nuovo principio.
La voce si diffuse rapidamente tra gli amici e i conoscenti. Franz Overbeck - uno degli amici più antichi e affezionati di Nietzsche - lasciò la stazione di Basilea la sera del 7 gennaio. E il giorno seguente, dopo l8 ore di viaggio, era a Torino, cercando l´abitazione di Nietzsche nella città sconosciuta. Voleva riportarlo tra i suoi. Il padrone di casa, David Fino, era andato a cercare aiuto al consolato tedesco e alla polizia italiana. La moglie non era a casa. Ma, finalmente, Overbeck riuscì ad entrare nella stanza, dove Nietzsche aveva pensato, scritto, riso e delirato per più di tre mesi. Stava rannicchiato nell´angolo di un sofà, col volto terribilmente emaciato. Leggeva le bozze di Nietzsche contra Wagner. «Nessuno è pari a Wagner nei colori del tardo autunno, nella felicità indescrivibilmente commovente di un godimento estremo, estremo più di ogni altro, breve più di ogni altro… Più felicemente di qualsiasi altro egli attinge all´ultimo fondo di ogni gioia umana, per così dire al suo calice interamente vuotato…». Forse Nietzsche stava parlando di sé senza saperlo.
I due amici si abbracciarono lacrimando: poi Nietzsche si lasciò cadere nuovamente sul sofà, sconvolto da sussulti di pianto. «Forse proprio in quell´attimo - scrisse Overbeck - gli si spalancò davanti l´abisso sul cui ciglio ora si trova, o dove piuttosto è già precipitato». Poi Nietzsche si sedette al pianoforte, dove cantava a gola spiegata in preda alla frenesia ed esaltandosi sempre di più, lasciando «intendere nel contempo con brevi frasi pronunciate in tono smorzato cose sublimi, di abile chiaroveggenza e di indicibile orrore, su sé stesso come successore del dio morto». Proclamava di essere "il pagliaccio della nuova eternità", rendendo l´estasi della sua gaiezza con le espressioni più triviali, o con balzi e danze scurrili. Overbeck ebbe una impressione atroce: quello spettacolo incarnava con terribile efficacia l´idea orgiastica della follia sacra, sulla quale era fondato il teatro antico. Adesso, tutto era finito: tutto quel possente mondo tragico-comico Eschilo, Aristofane, Le Eumenidi, Le Rane, Le Nuvole, poteva venire contemplato soltanto attraverso la sua scurrile degradazione. Nel mondo moderno, Dioniso, l´antichissimo dio dell´estasi e della lacerazione, era soltanto un pazzo, sottoposto come Nietzsche a un processo di paralisi progressiva.

il Riformista 12.7.08
Pd c'è chi vuole un partito più piccolo
Siamo un paese geneticamente di destra o i nostri errori l'hanno spinto a destra?
La scelta della legge elettorale dipende da questo dilemma
di Stefano Ceccanti


Caro direttore, per capire il percorso del Pd in quello della democrazia italiana bisogna anzitutto rilevare che soprattutto dagli anni '80 una progressiva degenerazione oligarchica dalla politica si è estesa a tutti i vari sottosistemi determinando un complessivo declino del paese. Contro questa degenerazione è emersa una domanda composita, in grado di tener conto degli esclusi, a tratti declinata a sinistra (movimento referendario, primi sindaci eletti) a tratti a destra (la Lega, la prima Forza Italia). Le regole precedenti, formali e informali (proporzionale pura, primato dei partiti extraparlamentari rispondenti agli iscritti, balcanizzazione del partito di maggioranza con scissione del mandato a dirigere il partito da quello a governare, centralizzazione delle istituzioni e dei partiti), anomale rispetto alle grandi democrazie europee, che erano state utili in una fase di gravi fratture ideologiche, si sono poi rivelate frenanti rispetto allo sviluppo. In maniera più ravvicinata la grande svolta geopolitica del 1989, che è venuta a cumularsi con la crisi finanziaria, ha permesso di liquidare le vecchie fratture, anzitutto quella comunismo-anticomunismo e l'unità politica dei cattolici che si reggevano a vicenda.
Ciò ha consentito di aprire, in modo pur confuso, a due mutamenti prima impossibili, necessariamente intrecciati: iniziare un processo di tipo federalistico in termini di poteri e trarne le necessarie conseguenze istituzionali, cioè che per Comuni, Province e Regioni fossero adottate regole tese a realizzare una moderna "democrazia immediata" (con la scelta diretta di programmi, governi e leaders), anche se la micro-frammentazione non è stata adeguatamente scoraggiata, e tentare un'analoga dinamica anche sul livello nazionale. Essendo cambiata la natura delle fratture era giusto modificare le regole nel senso del passaggio da una "democrazia mediata" a una "immediata": le fratture ideologiche sono per loro natura di importanza transeunte, al contrario di quelle linguistiche, religiose, etniche e bisognava quindi trarre le conseguenze istituzionali di tale discontinuità.
Nella logica esposta nel 1975 da Mortati nel Commentario all'art. 1 della Costituzione, per l'attuazione dei fini esigenti della prima parte della Costituzione, che richiedono governi autorevoli e legittimati in modo sostanzialmente diretto dal corpo elettorale. Gli Stati liberali tradizionali, che assegnavano allo Stato finalità ben più ridotte, potevano accontentarsi di istituzioni debolmente decidenti, mentre lo Stato sociale odierno, secondo le riflessioni di Duverger, ha bisogno di un surplus di capacità decisionali coerenti, dettagliate e tempestive.
Le modifiche relative alle regole formali sono state per alcuni aspetti strabiche rispetto all'evoluzione dei partiti politici, che ha avuto un effettivo salto di qualità con la nascita del Pd e con le modalità con cui esso, presentandosi alle urne, ha determinato un riassetto complessivo del sistema, da una "democrazia immediata" frammentata a una non frammentata, fondata sul ruolo principale, anche se non esclusivo, dei partiti a vocazione maggioritaria. Senza questi ultimi, che garantiscono un raccordo permanente con l'elettorato (si veda la distinzione di Duverger tra la leadership di Palme, unita a un partito di tale spessore, e quella di Von Hindemburg che ne era invece privo), è difficile che possa essere davvero assicurata l'attuazione coerente di un programma e vi è il rischio di sperimentare l'alternanza solo per smobilitazione dell'elettorato del partito e della coalizione vincente al turno precedente. Le caratteristiche del partito "a vocazione maggioritaria", coerente con una moderna democrazia immediata, sono state elaborate da vari anni e si riflettono nello Statuto del Pd: un partito "estroverso", capace di far fronte alle permanenti spinte oligarchiche col ricorso al raccordo agli elettori e non solo agli iscritti, cosa che rende la contendibilità delle cariche effettiva in alternativa alla cooptazione, che pratica finalmente la corrispondenza tra leadership interna e di governo rimediando all'anomalia post-degasperiana segnalata da Elia (cosicché quando vince non c'è un Governo cattivo rispetto a un partito buono che non si assume la responsabilità delle scelte), un partito federale che lascia ampi spazi di decisione ai livelli regionali e locali, a cominciare dalle primarie per le cariche monocratiche.
Rispetto a questa impostazione e alla sconfitta elettorale, la domanda da cui ripartire è forse la seguente: siamo in un paese costitutivamente e stabilmente di destra, per cui il nostro approccio sarebbe stato sbagliato, sia rispetto alle regole elettorali sia rispetto alla genesi del Pd? Chi volesse rispondere sì, immaginando quindi che le fratture siano permanenti, non potrebbe che invocare il ritorno a regole da "democrazia mediata" e un Pd più piccolo, in grado di fare alleanze, anche post-elettorali, con partiti monoculturali che tendessero a riflettere tali fratture. Chi risponde di no, come secondo me è doveroso fare, segnala invece che è siamo stati noi, con vari errori prolungati, ultima la coalizione dell'Unione, ad avere spinto il paese a destra, non fornendo risposte adeguate o fornendole in ritardo. Per cui dobbiamo anzitutto ripartire da noi stessi, mentre le alleanze vengono dopo con chi dà risposte analoghe alle nostre. Rispondere di no alla domanda sulla presunta impossibilità di scongelare l'elettorato andato allo schieramento avversario non significa però difendere tutto ciò che abbiamo fatto, giacché abbiamo cumulato molte contraddizioni nella genesi rapidissima del Pd, a cominciare dalla non corrispondenza tra schieramenti congressuali e vere linee di frattura. Se siamo divisi su quella domanda, ne dovrebbe discendere rigorosamente un congresso perché sarebbero a confronto visioni diverse del partito e del sistema dei partiti in cui esso si dovrebbe collocare. Se invece siamo solo divisi sulla coerenza di applicazione della linea allora, invece, la Conferenza programmatica e l'itinerario per praticarla sono la strada più giusta e che va confermata. I prossimi giorni dovrebbero chiarircelo.

il Riformista 12.7.08
I dolori del giovane Nichi


Scrive Nichi Vendola in una lettera aperta su Liberazione che la qualità del dibattito congressuale del Prc è cattiva e che nella degenerazione del confronto interno sono riscontrabili tutti i sintomi della crisi più generale della società, del costume, della cultura: «Una crisi - sostiene il candidato alla segreteria del partito - di cui noi siamo parte, anche se ci riteniamo immuni e brandiamo i termometri con cui misuriamo la febbre agli altri». Secondo Vendola il congresso di Rifondazione, con la sua rissosità, dimostra che sono «implosi gli alfabeti della vita pubblica», che è in atto una «dinamica fatale» e il dibattito è ostaggio di una «virulenza marziale e persino belluina». Eppure, continua, ce ne sarebbero di questioni su cui concentrare le attenzioni dei comunisti, anziché chiudersi a congresso, ora che la destra prende le impronte ai rom e «si rinserra il cerchio della maledizione sulla sofferta libertà delle donne». Continua Vendola: «I nostri compagni si chiedono e ci chiedono se arriveremo a Chianciano». Ci andremo, risponde il governatore della Puglia, per provare a rispondere con la «buona politica» al «cattivo congresso». Congresso che, ricorda Vendola, è stato vinto dalla sua mozione, sebbene senza raggiungere la maggioranza assoluta, il 50 per cento più uno dei consensi interni. Ma, prosegue l'ex ragazzo della Fgci, «si può immaginare che su quello zero virgola qualcosa che fa la differenza tra una maggioranza relativa e una assoluta si celebri un'ordalia?». No, si risponde Vendola, «io penso a tutto il partito e a tutto ciò che, fuori da noi, attende un esito che non sia la stupida dissipazione di un patrimonio».

L'intervento di Vendola in tre righe: «Caro Ferrero, non so se te ne sei accorto, ma hai perso il congresso. Fammi sapere quando tu e i tuoi fate fagotto. E guarda che si ti vuoi attaccare alle virgole, ho già pronta la lettera dell'avvocato».

il Riformista 12.7.08
Il Papa indeciso sul mea culpa per gli abusi sessuali in Australia
di P. Rodari


Recentemente era stato il cardinale George Pell, arcivescovo di Sydney, ad auspicare che il Papa ripetesse in Australia (Benedetto XVI parte oggi per la giornata mondiale della gioventù in programma dal 15 al 20 luglio nella città australiana) le scuse che ha pronunciato negli Stati Uniti a riguardo degli abusi sessuali che, nel continente oceanico come negli Usa, hanno visto essere protagonisti alcuni sacerdoti. Era stato il cardinale Pell a tirare fuori la richiesta al Pontefice, forse anche perché aveva avuto sentore dell'attacco che, con precisa tempestività, i media gli avrebbero scaraventato addosso proprio nell'imminenza dell'arrivo del Papa: l'accusa, ripresa ieri con grande enfasi dai principali quotidiani australiani, è quella di sempre: Pell, in sostanza, come è stato imputato a diversi suoi "colleghi" negli Stati Uniti, avrebbe coperto le denunce relative a episodi di abusi sessuali perpetrati da preti della sua diocesi.
I fatti risalgono al 1982 e, vista l'attenzione che i media hanno riservato alla vicenda, non è escluso che davvero, il Papa, sia "costretto" nei prossimi giorni a dire la sua in una sorta di mea culpa pronunciato in scia a quanto fece in aprile negli Usa. Benedetto XVI è ben consapevole della necessità che le diocesi colpite dallo scandalo degli abusi sessuali perpetrati da sacerdoti riparino al grave delitto e, soprattutto, si adoperino in un più rigoroso discernimento di coloro che intendono essere ordinati, ma nello stesso tempo è improbabile che nella minuziosa preparazione avvenuta in questi giorni a Castelgandolfo dei discorsi da pronunciare in Australia avesse contemplato dei passaggi dedicati al tema. Quindi, se mea culpa saranno pronunciati, la motivazione è da ricercarsi nelle notizie provenienti in questi giorni da Sydney dove, appunto, il cardinale Pell si trova sotto il fuoco mediatico.
Tutto è iniziato grazie a un reportage televisivo della tv nazionale Abc , andato in onda una settimana fa. Secondo il programma "Lateline", il porporato avrebbe nascosto i precedenti di abusi sessuali di padre Terrence Goodall a una sua vittima, Anthony Jones, che chiedeva giustizia. Jones ha accusato padre Goodall di aver abusato di lui nel 1982 quando aveva 28 anni ed era coordinatore dell'istruzione religiosa a Sydney.
Le indagini condotte dalla Chiesa australiana nel 2003 hanno dimostrato «comportamenti omosessuali» tra padre Goodall e Jones. In quel frangente, Pell scrisse alla vittima dichiarando che le sue accuse non potevano essere accettate perché la Chiesa non era a conoscenza di altre accuse, e così c'era solo «la sua parola contro quella di un altro».
Nel corso della trasmissione, tuttavia, è stato ricordato come il cardinale, lo stesso giorno in cui scrisse a Jones, scrisse anche a una seconda vittima, un chierichetto che aveva nove anni quando padre Goodall aveva abusato di lui, accettando la verità delle sue accuse. In un comunicato diffuso poco dopo la trasmissione, il cardinale ha negato di aver voluto ingannare Jones, ma ha ammesso che la lettera era «scritta male ed errata», e che l'errore di espressione era suo. Ma «non vi è stato alcun insabbiamento - ha detto -. Volevo dire che non vi era stata alcuna altra accusa di stupro». E ancora: «Le accuse contro padre Goodall sono state verificate dalla Chiesa e dalla polizia, ed egli è stato sospeso dall'attività sacerdotale. Le autorità della Chiesa hanno cooperato in ogni fase».
Comunque sia, anche alla luce della nuova attenzione mediatica riservata alla vicenda, Pell si è visto costretto nelle scorse ore a diffondere una dichiarazione in cui afferma di aver «formalmente riferito le questioni sollevate questa settimana a una commissione consultiva indipendente» guidata dall'ex Giudice della Corte Suprema del Nuovo Galles del Sud Bill Preistley, il quale avviserà il cardinale delle opzioni possibili. La commissione è costituita da un sacerdote e da laici esperti di legge, economia e psichiatria.
Intanto, in risposta a quanto sta avvenendo, i giovani cattolici australiani hanno predisposto una serie di blog e forum per sostenere, anche con le preghiere, l'arcivescovo di Sydney che appena una settimana fa ha parlato loro dell'importanza di una leadership onesta. Blog e forum che in qualche modo vogliono mostrare la vicinanza dei giovani al cardinale il quale, probabilmente, tutto avrebbe voluto tranne che un polverone simile si scatenasse proprio ora, in occasione della prima volta di Benedetto XVI sul suolo australiano.


6media.info 11.7.08
ASSEMBLEA MILLE: DEL BUE, RISPOSTE EMERGENZA DEMOCRATICA

Il nostro obiettivo e' dare risposte a una seria e grave emergenza democratica. Lo dice Mauro Del Bue che, con Marco Pannella e Pasqualina Napoletano, forma la triade dei convocatori dell'Assemblea dei Mille, il 'dopo-Chianciano' che per il terzo summit di domani e domenica all'Ergife registra nuove adesioni: il Ministro per l'Attuazione del Programma, Gianfranco Rotondi; Claudio Fava e Giovanni Berlinguer di Sd; Gianni Cuperlo e Ignazio Marino del Pd; i socialisti Rino Formica e Pia Locatelli; il Sindaco di Genova, Marta Vincenzi; lo storico del Pdci, Nicola Tranfaglia, il Direttore di "Left" Pino Di Maula. Al centro della discussione, le elaborazioni del 'comitato per le proposte politiche' fatto da cinque politici di diversa collocazione: Elettra Deiana (Prc), Cesare Salvi (Sa), Marco Boato (Verdi), Marco Cappato (RI), Luigi Manconi (Pd). "Non vogliamo e non possiamo rassegnarci o assuefarci allo staus quo, al teatrino della Politica - aggiunge Del Bue - e il grave errore di Veltroni non e' stato tanto di essere andato da solo ma di essersi apparentato con Di Pietro, il vampiro che gli sta prosciugando ogni giorno gocce di sangue". Se oggi Di Pietro "dispone di una quarantina tra deputati e senatori, lo deve a Veltroni: senza l'apparentamento non avrebbe superato la soglia di sbarramento al Senato e alla Camera", osserva Del Bue per il quale "l'emergenza democratica e' il deficit di partecipazione e coinvolgimento della gente, la perdita dei partiti del ruolo e funzione sanciti dall'art.49 della Costituzione, da quel clima dominante che vuole uccisi i piccoli partiti e vuole uccisa la capacita' decisionale della gente".

l’Unità Firenze 12.7.08
Siena. Giochiamo alla campana con lo scultore della pietra
di g.cav.


Non c’era nulla prima, o meglio c’erano solo, si fa per dire, le Crete senesi. Dal 1993 c’è, vicino ad Asciano, il Site transitoire, l’installazione in pietra basaltina etrusca composta di una sedia monumentale, una finestra orientata verso il tramonto del solstizio d’estate e un labirinto. «Una presenza caratterizzante» l’ha definita Mauro Civai, direttore del Museo Civico di Siena, durante la presentazione di Archeologie interiori, la mostra che, da domani e fino al 14 settembre, Santa Maria della Scala dedica a Jean-Paul Philippe. Il primo viaggio in Italia lo fece col fratello, quando ci tornò nel 1971 andò a lavorare per un po’ al Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi. «Da allora non potevo più lasciare a lungo l’Italia - racconta - e quando andai a Carrara attirato dalle cave capii che potevo fare solo lo scultore». La mostra che si articola in sette sale comincia con i suoi lavori più intimi, quelli nei quali mette a fuoco i suoi temi precipui, la sedia, la stele, il carro e le statue giacenti. Ma ben presto affiora la sua vocazione per le grandi opere pubbliche e monumentali e la mostra raccoglie i bozzetti, i disegni e la documentazione di queste opere disseminate per l’Europa e non solo. Nella produzione di Philippe un ruolo importante ha la “marelle”, il gioco che noi chiamiamo “campana”, di cui scolpisce le basi. Realizzate in pietre e materiali diversi fra Parigi e il Cairo, alle pietre della “campana” è dedicata una sala nella quale si trovano anche i manoscritti originali che al gioco - diffuso in tutto il Mediterraneo - hanno dedicato importanti poeti. Domenica 20 al Site transitoire è in programma alle 20, come succede ormai da 9 anni, un evento teatrale; stavolta è di scena Notte trasfigurata di Cesare Ronconi con Danio Manfredini.
Siena, 10.30/19.30, 4 euro.

il Giornale 12.7.07
Così il Pd è andato in fumo
di Peppino Caldarola


Se vi piacciono i giochi di guerra, dal Risiko al Game-Boy dei ragazzini, venite con me e vi farò vedere gli eserciti in battaglia della sinistra. Se non vi piacciono, seguitemi nella Torre di Babele della sinistra, vi tradurrò i linguaggi e i gesti. Vi girerà la testa, ma tenetevi forte, vi porterò al centro del sisma in pochi minuti.
A sinistra nulla è come lo abbiamo conosciuto, nulla è rimasto integro, nella sinistra più radicale fino a quella più moderata. La nuova vittoria di Berlusconi ha fatto deflagrare un mondo che si era unito solo perché c’era lui. Il Vaffa di Grillo a piazza Navona, con il coro di Guzzanti, Travaglio e Di Pietro, ha dato il segnale del redde rationem. Come ogni mappa che si rispetti partiremo dal bordo più lontano per raggiungere il centro della pergamena.
L’area più di sinistra della sinistra si è divisa quando c’era Prodi. Lo scontro fra Francesco Caruso e Casarini, con tanto di torta in faccia, e le liti fra i No-Tav, dicono quanto lo spirito di scissione sia penetrato anche là dove non è mai arrivato il pensiero. Poco più in là, la Sinistra Arcobaleno è tutto un fumare di macerie. C’è Oliviero Diliberto che vuole ricostruire il comunismo e ha sentito l’impellente bisogno di farlo partecipando alla manifestazione di Di Pietro. Il radicalismo di Oliviero non è bastato a Marco Rizzo, il pelato onnipresente in tv, che vorrebbe un partito più comunista di quanto si sia mai dato vedere. Ma Grillo è intervenuto anche su questa molecola separando la senatrice Palermi da Oliviero e da Marco. Così da un partito mignon, che intanto piange la fuga dello storico Tranfaglia, nasceranno una serie di sette clandestinissime.
Rifondazione ha preso dal voto il colpo storico. Fuori dal Parlamento i rifondaroli scoprono che non possono più stare assieme. L’ex ministro Ferrero, rigido valdese, non vuole avere nulla a che fare con Bertinotti che intanto incorona Nichi Vendola per salvare se stesso e l’ex segretario Franco Giordano. I congressi di Rifondazione si svolgono fra risse, contumelie e annullamenti. Forse si finirà in tribunale, sicuramente da una Rifondazione sola, fra qualche giorno, ne avremo almeno due. La débâcle del micro-partito di Mussi ha partorito una nuova leadership, Claudio Fava, deputato europeo, sulla carta più vicino a Veltroni, ma l’impatto con la piazza di Beppe Grillo sospinge anche questo raggruppamento verso l’annichilimento totale. I Verdi si sforzano di far dimenticare Pecoraro Scanio e la «monnezza» napoletana. Anche qui ci si spacca come una mela con un gruppo più disinvolto capeggiato da Paolo Cento e i verdi-verdi di Grazia Francescato.
Un po’ più a destra troviamo i socialisti del nuovo Ps, che dimenticato nell’anticamera di una palestra Enrico Boselli, cercano la strada più facile per entrare in quel Pd veltroniano da cui molti scappano. Sul fronte opposto c’è la galassia dipietrista, l’unica destra che è riuscita a sequestrare la sinistra dopo il fascismo. Di Pietro è un mondo a sé. Attorno a lui si sono aggregati quello che restava dei vecchi girotondi, i ds dissidenti, i giornali che vivono e prosperano sulla guerra civile italiana, da Repubblica all’Unità. Berlusconi ha dato da vivere anche a loro, ai loro libri e dvd. Sembrava un mondo compatto in grado di partire all’assalto della sinistra riformista, invece il Risiko nostrano ha sfrantumato anche questa fragile aggregazione. Da un lato Travaglio, Di Pietro, la Guzzanti, dall’altra il fondatore Nanni Moretti, in compagnia di due girotondini pentiti, Furio Colombo ed Ezio Mauro.
Quest’ultimo nome segnala, nella guerra civile generalizzata, una specifica battaglia che si combatte nel giornalismo di sinistra. La rutelliana Europa, diretta da Stefano Menichini, si contrappone all’Unità di Antonio Padellaro in procinto di lasciare la direzione all’ex inviata di Repubblica Concita De Gregorio. Europa attacca l’Unità che risponde invelenita, mentre Ezio Mauro chiede a Gad Lerner e Edmondo Berselli di staccare il giornale del principe Caracciolo e di De Benedetti da un mondo girotondino che il direttore di Repubblica aveva convocato in piazza irritando i lettori riformisti.
Al centro della mappa c’è l’isola del Tesoro, cioè il Pd, con il suo 32% di voti che i duellanti che combattono in periferia vorrebbero conquistare e che gli indigeni si preparano a devastare con la più cruenta guerra civile. Nel Pd ho contato, come ha riferito Paola Setti in un divertente articolo pubblicato dal Giornale, almeno 17 correnti. La fusione fredda fra due partiti, Ds e Margherita, ha prodotto quasi venti partitini l’uno all’assalto dell’altro. Non è necessario elencare tutti gli eserciti in lotta né i nomi dei signori della guerra. Al centro della disputa c’è la leadership di Veltroni. Il segretario del Pd è forse il primo leader italiano che, nel giro di dieci mesi, ha rovesciato completamente la propria linea politica. Era per la fine dell’antiberlusconismo e ha ripreso la lotta senza quartiere al Cavaliere, era per l’alleanza con Di Pietro e ora la revoca, era contro l’assemblaggio con i partiti minori e fa accattonaggio con Vendola, Nencini e Claudio Fava, per tacere di Casini. Era per il sistema elettorale spagnolo e accetterà quello tedesco. Questo tipo di guerra esalta la figura di Massimo D’Alema che con la sua ReD (Riformisti e Democratici) ha creato un partito nel partito esattamente come ha fatto Rutelli con la sua associazione Glocus. La posta in gioco è la guida del Pd. La domanda vera è se il Pd esisterà dopo le elezioni europee.
Le Grandi Guerre finiscono dopo decenni con accordi di ferro. Accadrà lo stesso alla guerra civile nella sinistra? Può darsi che Veltroni ce la faccia, può darsi che D’Alema riprenda il potere, può accadere che Rutelli se ne vada con Casini, ci sarà un leader che darà una patria comune a tutti i cespugli della sinistra radicale. Sembra di essere di fronte alla sinistra francese prima di Mitterrand, tutti contro tutti. Ma c’è un Mitterrand italiano? Se vi viene un nome fatemelo sapere. Al momento, dopo la guerra c’è solo la guerra. La vostra guida si arrende di fronte al campo di battaglia devastato.

l’inserto trentino del Corriere della Sera
Corriere dell’Alto Adige 9.7.08
«Vincere», si gira
Bellocchio tra i palazzi di Lasino e piazza Duomo
di Claudia Gelmi


Arriva dopodomani in Trentino, dopo sei settimane di riprese a Torino, la troupe di Marco Bellocchio per girare l'ultima parte del nuovo film Vincere.
Il regista di Buongiorno notte sta di fatto lavorando a un film sul figlio segreto che Benito Mussolini ebbe dall'estetista Ida Dalser di Sopramonte, in periferia di Trento. Lei lo chiamò Benito Albino, ma il Duce ne nascose sempre l'esistenza. Per questo Ida fu internata in manicomio nel 1926 e ivi morì nel 1937. Benito Albino, invece, fu adottato a Trento e gli venne attribuito il cognome Bernardi: nel 1935, mentre il giovane era nella Marina militare, fu preso e internato anch'egli in manicomio, a Monbello in Piemonte, dove morì nel 1942.
Sarà l'intensa Giovanna Mezzogiorno a ridare vita alla memoria di Ida Dalser, mentre Benito Mussolini sarà interpretato dal bravissimo attore Filippo Timi. Vincere, che sarà distribuito da 01 Distribution, è una produzione italo-francese, Rai Cinema e Celluloid Dreams, con il contributo del Ministero per i beni e le attività culturali, della Provincia autonoma di Trento e Trentino Spa, della Film Commission Torino Piemonte, della Regione Piemonte e dell'Istituto Luce.
Quindi, a partire da sabato prossimo, Marco Bellocchio e troupe al completo (una cinquantina di persone) abiteranno per una quindicina di giorni i luoghi del Trentino, aiutati nella ricerca delle location dalla Filmwork, la casa di produzione indipendente di Trento.
Gli interni saranno girati per lo più a Lasino, nella Villa- Ciani Bassetti, che in questi giorni si sta trasformando in location ad hoc per il film, grazie all'intervento della pittrice di scena, Ola Sforzini, coadiuvata dall'arredatrice Laura Casalini e dall'artista locale Marco Adami, i quali stanno ricostruendo alla perfezione gli spazi per adattarli all'ambientazione dell'epoca, ricavando dunque finti caminetti, palladiane, dipingendo carte da parati e pareti.
Per quanto riguarda gli esterni, invece, la troupe si trasferirà nell'ultima settimana di luglio nel capoluogo, dove girerà le scene all'aperto nelle centralissime Piazza Duomo e via Belenzani.
Ma non solo il pittore Marco Adami si è potuto ritagliare un'opportunità di lavoro all'interno dell'organizzazione del film: la manodopera si presenta in larga parte costituita da personale locale, così come le numerose comparse. I sempre più consistenti investimenti delle nostre amministrazioni pubbliche nell'accogliere le produzioni cinematografiche in loco (ricordiamo i precedenti nei film di Pippo Delbono, Liliana Cavani, Luciano Emmer e Alessandro Baricco) dimostrano a questo punto l'improcrastinabilità della costituzione di una film commission, ovvero quell'organizzazione (in Italia già quasi tutte le regioni l'hanno istituita) volta ad attrarre produzioni cinematografiche ad operare nel proprio territorio fornendo loro aiuto e assistenza, in provincia o in regione.
Ieri e oggi A sinistra, IIda Dalser con Benito Albino. Sopra, Giovanna Mezzogiorno