lunedì 14 luglio 2008

l’Unità 14.7.08
1938, fuga dei cervelli, dono del Duce agli Usa
di Pietro Greco


Dalle leggi razziali al Cern. Due anniversari ci ricordano la dissoluzione della comunità scientifica europea e la fine della sua egemonia. Ma un terzo ne rievoca la rinascita nel dopoguerra, grazie all’impegno di Edoardo Amaldi

Il 14 luglio 1938, settant’anni fa, il Ministro degli Esteri del governo Mussolini, Galeazzo Ciano, annota sul suo diario: «Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui».
L’indomani il Giornale d’Italia sotto il titolo «Il Fascismo e i problemi della razza», pubblica la prima versione del «Manifesto della Razza» firmato da dieci scienziati italiani - tra cui primeggiano l’onorevole Sabato Visco, fisiologo, e il senatore Nicola Pende, endocrinologo - il cui incipit è destinato a diventare tristemente famoso: «Le razze umane esistono». Il manifesto sostiene - senza alcuna base scientifica - che l’umanità, appunto, si divide in razze; che queste razze sono diverse per capacità intellettuali dei propri membri; che esiste anche una «razza italiana» che, naturalmente, è più capace di altre e che bisogna tutelarla da pericolose contaminazioni genetiche. In particolare va tutelata dalle contaminazioni di sangue con una razza palesemente inferiore, quella degli ebrei.
L’ignominia intellettuale del manifesto - che il Duce si vanta di aver contribuito a redigere in prima persona - si traduce ben presto in pratica discriminazione. Già nel mese di settembre il governo di Benito Mussolini vara una serie di leggi che portano all’espulsione degli ebrei dalle scuole e dagli incarichi pubblici. Fu una scelta sciagurata, che ebbe conseguenze tragiche per gli ebrei (e i rom), per l’intero paese e, anche, per la scienza italiana. In poche settimane, per esempio, viene dissolta la fisica di punta. Lasciano l’Italia, infatti, Bruno Rossi ed Enrico Fermi: due giovani che hanno portata rispettivamente la fisica dei raggi cosmici e la fisica nucleare a punte di assoluto valore mondiale. Le loro brillanti scuole, a Padova e a Roma, si dissolvono.
Non è difficile calcolare gli effetti negativi sulla scienza e sulla società italiane di quella successione di eventi. Ci aiutano, fra l’altro, altri due anniversari che ricordiamo questo medesimo anno. Il settantacinquesimo anniversario delle leggi razziali di Hitler, che avevano già prodotto conseguenze nefaste in Germania, e il centesimo anniversario della nascita di Edoardo Amaldi, che si assumerà gran parte dell’onere di ricostruire la scienza italiana ed europea dopo la guerra che devasterà l’Europa di lì a pochi mesi.
Cosa era successo, dunque, in Germania esattamente cinque anni prima? La successione è nota. Il 30 gennaio Hitler viene nominato cancelliere del Reich. Il 27 febbraio fa incendiare il Parlamento (Reichstag). Il 28 gennaio vara il «decreto dell’incendio del Reichstag» e, in nome della sicurezza nazionale, abolisce molti diritti civili. Il 7 aprile con il «paragrafo ariano» della «legge sul ripristino dell’impiego nel pubblico servizio» obbliga tutti coloro che non sono di razza ariana a lasciare ogni incarico pubblico. In breve l’obbligo viene esteso anche agli avvocati e ai medici «non ariani», che non possono più lavorare nei tribunali e negli ospedali.
L’idea nazista è che la società tedesca deve essere divisa in due categorie: quella dei Volksgenossen (camerati della nazione), che appartengono alla comunità popolare, e quella dei Gemeinschaftsfremde (stranieri della comunità) che, invece, non appartengono alla storia e alla cultura della Germania. Agli stranieri della comunità appartengono: ebrei, zingari, portatori di handicap, asociali.
Il 14 luglio 1933, 75 anni fa, Hitler vara due nuove norme: una riguarda la revoca della naturalizzazione degli ebrei dell’Europa orientale che hanno avuto la cittadinanza tedesca dopo il 9 novembre 1918. L’altra è la sterilizzazione - «anche contro la volontà del soggetto» - dei portatori di presunte malattie ereditarie.
Negli anni successivi, fino al 1938, c’è uno stillicidio di leggi che accentuano sempre più le discriminazioni razziali. Ma già nel 1933 gli effetti di queste leggi sono evidenti. In primo luogo per la cultura tedesca, fino ad allora leader in Europa. Nei giorni successivi al provvedimento di aprile, infatti, ben 1.200 professori universitari (il 14% dell'intero corpo docente) deve lasciare l’insegnamento. La gran parte emigra all’estero, riparando soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
A soffrirne è in primo luogo la scienza. Da Einstein (già andato via) a Max Born, da James Franck a Fritz Haber lascia infatti la Germania, perché di origine ebrea, una moltitudine di cervelli, quantificata nel 20% degli scienziati e nel 25% dei Nobel scientifici. Non è solo una diaspora, è un vero e proprio ribaltamento polare. L’asse della scienza mondiale - da tre secoli saldamente centrato sull’Europa - si sposta per la prima volta nel Nord America. Giustamente gli storici americani Jean Medawar e David Pyke hanno parlato di «Hitler’s gift», del regalo di Hitler agli Stati Uniti.
Nel 1938, quando l’Italia di Mussolini si accinge a copiare la Germania di Hitler, tutto questo è già sostanzialmente evidente. La cultura di una parte decisiva dell’Europa è già stata distrutta. Mussolini vuole dare il suo ulteriore contributo a quel disastro. E, infatti, in poche settimane - come abbiamo detto - dissolve le due scuole scientifiche più brillanti del paese, quella di Enrico Fermi a Roma e quella di Bruno Rossi a Padova.
Ma dicevamo di un terzo anniversario che ricorre quest’anno. Che è legato ai primi due e che è di segno opposto. Di segno positivo. Nel 2008 ricorre infatti la nascita di Edoardo Amaldi, uno dei «ragazzi di via Panisperna», che ha lavorato con Fermi. L’unico che resta in Italia. E che, sopravvissuto alla guerra, inizierà - a partire già dal 1943 - l’opera della ricostruzione. In Italia e in Europa.
Dalle macerie, che non sono solo metaforiche, Amaldi si muoverà con lucido impegno lungo una serie di linee molto articolate, riconducibili a due grandi obiettivi: fare di necessità virtù e con poche risorse finanziare riportare l’Italia all'avanguardia della fisica mondiale; fare della scienza una leva per la pace in Europa e per la riconquista della leadership scientifica al nostro continente, nell’ambito di una sana competizione solidale col resto del mondo. Due obiettivi che, pur nel mutare delle situazioni, restano più che mai attuali.
Amaldi adotta una lucida strategia per il rilancio italiano. Il paese deve puntare tutte le sue risorse (che sono soprattutto umane) su pochi obiettivi di assoluto prestigio. Ma in cui acquisire una forte indipendenza. Gli obiettivi che Amaldi fissa sono: la fisica dei raggi cosmici nel campo della fisica di base; l’acquisizione di un know how di tutta la filiera del nucleare civile - dalla scienza di base alle applicazioni tecnologiche più spinte - nel campo della fisica applicata per conferire al paese una totale indipendenza in uno dei settori strategici dell’energia; fare più in generale della scienza la leva per portare l’Italia nel novero delle economie più sviluppate. A oltre sessant’anni dall’elaborazione di questa strategia, possiamo dire che Amaldi raggiunge solo il primo degli obiettivi che si prefigge: la fisica italiana ritorna presto tra le migliori al mondo. Gli altri due obiettivi: l’indipendenza energetica fondata su un know how autonomo e un’economia fondata sulla conoscenza, non verranno centrati. E non certo per colpa di Amaldi.
Il quale, invece, ha grande successo lungo l’altro percorso individuato: il ruolo della scienza in Europa. Egli infatti si fa promotore di un grande centro europeo di ricerca, che da un lato possa competere alla pari con Stati Uniti e Unione Sovietica. E dall’altro favorisca finalmente la pace tra i popoli di un continente devastato dai conflitti. In questo riesce, vincendo le resistenze di suoi illustri colleghi, del calibro per intenderci dell’americano Isidor Rabi e del danese Niels Bohr.
Quando, negli anni ‘50 dello scorso secolo, nasce a Ginevra, il Cern, il Centro di ricerca in fisica nucleare voluto da Amaldi, è la prima istituzione comune realizzata dai paesi europei usciti dalla guerra - il primo nucleo di condensazione dell’Unione europea - e il fisico italiano è il suo primo direttore generale.
Oggi il Cern di Ginevra è il più grande laboratorio di fisica al mondo e svolge le ricerche più avanzate nel suo settore. Un piccolo, grande monumento alla nuova Europa che ha saputo superare con progetti di pace e di integrazione culturale la sua pagina più buia: quella della discriminazione razziale.

Repubblica 14.7.08
Intellettuali antisemiti. Settant'anni fa i provvedimenti del fascismo contro gli ebrei
Ecco chi sostenne le leggi razziali
di Nello Ajello


Il manifesto sulla razza fu pubblicato il 14 luglio del 1938 sul "Giornale d´Italia"
Papa Pio XI pensava a una serie di misure contro la campagna anti-israelitica
Le misure razziste furono sostenute dai medici Pende e Visco, ma anche da giornalisti e uomini di cultura come Volpe, Fanfani, Monelli, Ansaldo e Malaparte

A emettere il primo acuto è Il Giornale d´Italia. Lì, il 14 luglio 1938 (sotto la data del 15 trattandosi di un quotidiano della sera) appare un manifesto intitolato «Il fascismo e i problemi della razza», attribuito a «un gruppo di studiosi fascisti», di cui non si fanno i nomi. Il testo, diviso in dieci punti, culmina in una rivendicazione della purezza razziale degli italiani e denuncia il rischio che il loro sangue venga contaminato dall´incrocio con ceppi extra-europei, portatori di varietà biologiche diverse da quella ariana. Il punto 9 del manifesto porta un titolo rivelatore: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana».
Solo il 26 luglio, il Partito nazionale fascista rivela le generalità degli autori del manifesto. Tra i quali i più celebri sono il patologo Nicola Pende, il biologo Sabato Visco e lo psichiatra Arturo Donaggio. Si informa che gli estensori del documento, redatto sotto l´egida del Ministero della Cultura Popolare, sono stati ricevuti dal segretario del Partito, Achille Starace. Poco più tardi Pende e Visco protestano, sostenendo che il testo originario è stato "rimaneggiato". Ma ben presto tacciono.
Chi non tacque affatto, fin da principio, furono gli intellettuali "militanti" - letterati, storici, giornalisti - quasi che l´avvio ufficiale della campagna antisemita rientrasse nei loro più fervidi voti. L´acuto risuonato sulle colonne del Giornale d´Italia diventò così un coro. Non soltanto gli organi di stampa del razzismo ufficiale, come La vita italiana di Giovanni Preziosi, Il Quadrivio o Il Tevere di Telesio Interlandi, Il Regime fascista di Farinacci, ma anche i quotidiani meno etichettati aderirono alla nuova missione. E per un certo numero di scrittori l´antisemitismo rappresentò una palestra per esercitare virtù retoriche e talenti pedagogici.
Fu proprio Interlandi a proclamare sulla Difesa della razza, fin dai primi giorni dell´agosto 1938, che la campagna antisemita mirava alla «liberazione dell´Italia dai caratteri remissivi» che le erano «stati imposti dalle precedenti classi politiche». Quale occasione migliore, dunque, per mostrarsi aggiornati e «rivoluzionari»? In un saggio pubblicato in quattro puntate nella rivista Il Ponte fra il 1952 e il 1953, Antonio Spinosa avrebbe poi offerto una nutrita antologia di scritti di chiara obbedienza razzistica. Altrettanto ricca in questo senso è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice. Si tratta di una documentazione inquietante.
Per questo genere di letteratura, il 1938 è un anno privilegiato. Esce un trattato di Gabriele De Rosa, intitolato La rivincita di Ario. Vi si sostiene «l´identità ebraismo=comunismo», binomio al quale si oppone con i fatti «l´asse Roma-Berlino»: l´Italia, specifica l´autore, sta combattendo «in terra di Spagna non l´iberico nemico, ma la terza internazionale ebraica, quella creata dall´ingegno giudaico-massonico del Komintern». Gli fanno eco, tra gli altri, giornalisti come Felice Chilanti e Ugo D´Andrea.
Critici delle più varie discipline denunziano, intanto, i danni che l´ebraismo infligge alla creazione artistica. In agosto un noto musicologo, Francesco Santoliquido, definisce la musica moderna «un vero e proprio monopolio della razza ebraica». Il critico letterario Francesco Biondolillo cerca di dimostrare che «il pericolo maggiore è nella narrativa». Qui, «da Svevo, ebreo di tre cotte, a Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo tutta una miserabile rete per pescare dal fondo limaccioso della società figure ripugnanti».
Moravia non era nuovo a simili attacchi. Già nel 1931, in visita a Giovanni Papini, era stato da lui accolto con le parole: «Lei collabora alla rivista Solaria. I solariani sono o zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte e tre le cose». Era una frase almeno in parte inesatta, avrebbe poi commentato il romanziere. Essa rientrava comunque nello stile dello scrittore fiorentino il cui romanzo Gog, edito proprio nel ´31, si ispirava al più schietto antisemitismo.
Ora, nei tardi anni Trenta, quei precedenti si amalgamavano al seguito di una parola d´ordine unitaria. Gli intellettuali razzisti di sentimenti razzisti si moltiplicavano. Fra quelli destinati a diventare proverbiali figura Guido Piovene. È lui a firmare, sul Corriere della sera del 15 dicembre 1939, una recensione entusiastica al libello di Interlandi Contra judaeos. Gli attribuisce il merito di «aver ridotto all´osso la questione ebraica». Salvarsi dagli influssi semitici, suggerisce, non è difficile: «si deve sentire d´istinto, e quasi per l´odore, quello che v´è di giudaico nella cultura». Nella Coda di paglia (1962), lo scrittore formulerà una drammatica abiura, confessando di aver «obbedito da schiavo», senza sentirsene mai «partecipe», alle direttive del regime.
In altri casi, come quello di Amintore Fanfani - il quale sostenne nel ´39 che «per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri» - un´abiura altrettanto recisa non ci sarà. E neppure qualcosa di simile verrà espressa dallo storico Gioacchino Volpe (1876-1971), al quale la politica della razza pura parve una tappa verso la costruzione di un´Europa «veramente unita e solidale».
Ma torniamo a letterati e giornalisti. Con lo scoppio della guerra l´antisemitismo assurge a epidemia. Dal ghetto di Varsavia, nel ´39, Paolo Monelli scrive per il Corriere della sera: «Nulla ci pare di avere in comune con questa schiatta ebraica, con la sua strana lingua, le sue insegne illeggibili, gli esotici costumi, i gesti paurosi, l´andare sbilenchi il più rasente al muro possibile». Dalla Cecoslovacchia Curzio Malaparte denunzia sullo stesso giornale «il pericolo sociale che rappresenta», per le città boeme, «l´enorme massa del proletariato giudaico»; mentre Giovanni Ansaldo scopre sulla Gazzetta del Popolo che sono stati gli ebrei ad aggravare il conflitto mondiale: «i "rabbi" di Nuova York, spingendo l´America alla guerra, hanno seguito l´istinto e la tradizione della razza».
Ci sono poi gli ossessi, come Mario Appelius e Marco Ramperti. Il primo definisce «Israele traditore del mondo». Per il secondo «più che dalla stella gialla gli ebrei si riconoscono dalla ferocia dello sguardo». Fra questi mostri, egli ne privilegia uno: «il più sozzo, il più ripugnante, il più disumano e nemico è Charlot».
Furono tutti così, gli "osservatori" italiani degli anni Trenta? Perfino nelle file fasciste si riscontrano casi di adesione al razzismo solo parziale, o perfino di ripudio. Pur ufficialmente antisemita, Giuseppe Bottai, a detta di un suo biografo, Alexander J. De Grand, «fu in grado di limitare l´applicazione alla cultura» delle teorie discriminatorie. Martinetti espresse la sua disapprovazione fin dal novembre 1938. A contrasti significativi si assiste anche nel dibattito sul tema «arte e razza». Ugo Ojetti si riconosce nel "pollice verso". Di parere opposto è Carlo Carrà: «Chiamare ebraizzante l´arte moderna», dichiara, «è tutto sommato molto puerile». Non per motivi di estetica, ma di fede, si oppone al razzismo Giorgio La Pira.
In campo cattolico le posizioni in materia sono variegate. Papa Pio XI, Achille Ratti, non smetterà di deprecare le «ideologie totalitarie», di cui sono frutto il «nazionalismo estremo» e il «razzismo esagerato», mentre meno reciso risulta l´atteggiamento di buona parte della gerarchia. Un simile quadro, già noto, s´arricchisce in questi giorni di nuovi particolari. Nel prossimo numero della Civiltà cattolica padre Giovanni Sale, storico della Compagnia di Gesù, ripercorre la vicenda, pubblicando una lettera inedita di Bonifacio Pignatti, ambasciatore d´Italia in Vaticano. In questa lettera, datata 20 luglio 1938 (cinque giorni dopo la pubblicazione del manifesto antisemita), il conte Pignatti scrive che «il Papa medita le contromisure da adottare dinnanzi alla campagna anti-israelitica progettata dall´Italia, e che verrà condotta in base ai principi di purezza di razza, redatti dai professori universitari italiani».
L´articolista ricorda che una settimana più tardi lo stesso Pio XI - in un discorso agli studenti di Propaganda Fide attaccò con forza l´indirizzo filo-tedesco adottato dal regime in campo razziale. La stessa severità il pontefice avrebbe mostrato il 6 settembre del ´38 - quasi in extremis: sarebbe morto il 10 febbraio successivo - sostenendo di fronte a un gruppo di pellegrini belgi «che l´antisemitismo è inammissibile e che spiritualmente siamo tutti semiti perché discendenti da Abramo, nostro padre nella fede». Era, osserva padre Sale, «la prima volta che un pontefice in modo chiaro ed esplicito condannava l´antisemitismo». Ci si può chiedere se ci sarebbero state altre volte.

Corriere della Sera 14.7.08
La primavera di Praga e l’alibi dell’intervento
di Sergio Romano


Ho partecipato, in qualità di giornalista interessato a varie tematiche, alla presentazione del libro di Enzo Bettiza «La Primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata».
Erano presenti, tra gli altri, il presidente Cossiga e il senatore Andreotti. Nel corso degli interventi sono stati ricordati anche i fatti di Budapest e a proposito dei due interventi sovietici in Ungheria e in Cecoslovacchia, Cossiga, allora sottosegretario agli Esteri, ha precisato che, in entrambe le circostanze, i sovietici avevano ammonito la Nato a non intervenire, ricordando il Patto di Yalta con le divisioni in Europa delle rispettive zone di influenza.
Cosa che ha portato alla famosa teoria della «sovranità limitata». E Cossiga ha ribadito: «Il Patto di Yalta era una realtà insormontabile».
Ora io ricordo che le prime consultazioni elettorali avvenute in Italia il 2 giugno del 1946 (e altre successive), vedevano un Partito comunista molto forte che, insieme ai socialisti di Nenni, poteva anche vincere le elezioni. Ora mi domando e le domando: che cosa sarebbe successo se quella volta o successivamente i comunisti avessero vinto, distaccando l'Italia dall'Occidente e uscendo da quella Nato che hanno sempre ferocemente combattuto? Il Patto di Yalta valeva solo per i Paesi europei dell'Est o anche per quelli dell'Ovest?
Sergio Favìa del Core

Caro Favìa del Core,
Non ero presente alla discussione romana sul libro di Bettiza, ma stento a credere che il senatore Cossiga (allora sottosegretario alla Difesa, non agli Esteri) si sia espresso nei termini da lei citati. L'Unione Sovietica non invocò gli accordi di Yalta, ma giustificò l'intervento in Cecoslovacchia con argomenti che vennero più tardi definiti «la dottrina Breznev» e sono contenuti in un discorso del leader sovietico ai lavoratori polacchi del novembre 1968. Accusato di avere tradito i principi marxisti e leninisti sulla sovranità e sui diritti dei popoli all'autodeterminazione, Breznev sostenne che quelle critiche erano infondate e aggiunse: «I popoli dei Paesi socialisti e i partiti comunisti sono certamente liberi di decidere le modalità del progresso nei loro rispettivi Paesi. Ma nessuna delle loro decisioni deve danneggiare il socialismo nel loro Paese o i fondamentali interessi di altri Paesi socialisti e l'intero movimento della classe operaia che lavora per il socialismo. Questo significa che ogni partito comunista deve rispondere dei suoi atti non soltanto al proprio popolo, ma a tutti i Paesi socialisti e all'intero movimento comunista. Chiunque lo dimentichi e sottolinei esclusivamente l'indipendenza del (singolo) partito comunista, diventa unilaterale. E trasgredisce il proprio dovere internazionale».
Vi sono altre due ragioni, del resto, per cui i sovietici non avrebbero mai invocato gli «accordi » della conferenza di Yalta. In primo luogo non avrebbero mai ammesso l'esistenza di un'intesa per la spartizione dell'Europa con le potenze capitaliste. In secondo luogo, a Yalta non vi furono accordi per il futuro dell'Europa e del mondo. La conferenza si tenne nel febbraio del 1945, quando la guerra non era ancora terminata. Si parlò molto dell'intervento dell'Urss contro il Giappone, delle condizioni della Polonia (che aveva allora un governo in esilio a Londra e un altro di obbedienza sovietica in patria) e infine del grande organismo internazionale che avrebbe dovuto succedere alla Società delle Nazioni. I temi che maggiormente interessavano Roosevelt, in quel momento, erano l'Onu e le regole istituzionali che ne avrebbero permesso il buon funzionamento. Si trattò di una speranza ingenua, come sostennero più tardi i suoi critici? Forse. Ma non dimentichi, caro Favìa del Core, che la guerra fredda sarebbe scoppiata nel 1947. Il senno di poi, nell'analisi degli avvenimenti internazionali, è un pessimo consigliere. La leggenda di Yalta come grande mercato per la spartizione dell'Europa fu in buona parte opera del generale de Gaulle, assente perché non invitato, e profondamente infastidito da questo gesto di scortesia degli alleati maggiori.
Alla domanda concernente l'Italia rispondo che gli Stati Uniti furono effettivamente molto preoccupati dalla possibile vittoria dei social-comunisti alle elezioni del 18 aprile 1948 e dedicarono una intera seduta del Consiglio per la sicurezza nazionale alle contromisure americane, anche militari, nell'eventualità dell'ipotesi peggiore. Ma l'Alleanza Atlantica non esisteva ancora. Fu creata a Washington nell'aprile del 1949 e il suo sessantesimo anniversario verrà celebrato agli inizi dell'anno prossimo.

Corriere della Sera 14.7.08
Archivi La rivista «La Nuova Europa» pubblica una lettera inedita in Italia in cui l'autore russo prefigurava l'equivalenza dei regimi
Pasternak: nazismo e comunismo sono gemelli
Lo scrittore nel '33 definiva i due totalitarismi «figli della stessa notte materialistica»
di Boris Pasternak


5 marzo 1933, Mosca
Miei cari mamma e papà, scusate se per tanto tempo non vi ho scritto, proprio non mi riusciva.
Non so come rispondere alla tua domanda a proposito di Anatolij Vasil'evic'; è questione terribilmente difficile e non ne ho il cuore. Un uomo che ha sofferto un colpo, la cui vita è appesa ad un filo, invecchiato, irriconoscibile, pronuncia davanti agli scrittori un discorso pubblico sulla drammaturgia, pieno di odio e di minacce, assetato di sangue e rivoluzionario: e questo quando ha già un piede nella fossa. Io ascoltavo con orrore e indicibile pietà. Mi sarà difficile trattare con lui, tanto più che si dice sia ancora malato. Forse è meglio che tu chieda a Šura.
Avete gioito troppo presto per la mia raccolta: l'hanno vietata. E inoltre in questi giorni hanno vietato anche la seconda edizione de Il salvacondotto, dedicata alla memoria di Rilke. Nonostante tutti questi dispiaceri siano insignificanti rispetto a come vive qui la gente, scriverò comunque a Gor'kij, per quanto ciò mi pesi. Le parole sul mio conto in cp. pal. hanno colto nel segno. Amara verità.
Come spesso ti ho scritto, a volte mi sembra di essere impazzito o di vivere in un incubo. La passaportizzazione riguarderà anche me: colpisce le due donne che fino ad oggi erano insieme a mio carico e che io ugualmente mantengo. Inoltre, Zina ha ancora una zia che probabilmente sarà sfrattata e non sa dove sbattere la testa. Garrik è già in confusione. Sono nel panico anche i vicini, i Frišman e Praskov'ja Petrovna. Con le tessere del pane ci sono state molte dolorose disavventure. Eppure gli scrittori sono portati in palmo di mano. Ma come fa la gente comune?
D'ora in avanti, forse, diventerà impossibile scriversi: è probabile che cresca la diffidenza da entrambe le parti. Ecco perché scrivo più apertamente che mai e proprio sul tema centrale, affinché in futuro possiamo limitarci esclusivamente a scambi di battute sulla salute, sempre che questa lettera vi arrivi e che a me non succeda nulla.
Auguro di tutto cuore, come pochi altri fanno, che sia coronato da successo qualsiasi tentativo di costruire un'umanità finalmente umana; e lo auguro soprattutto al nostro, visto che è proprio questo lo scopo per cui sono state sopportate così tante prove nel nostro Paese. Mi tormenta la stessa cosa nel nostro sistema qui e nel vostro, per quanto possa sembrarti strano: cioè il fatto che si tratta di movimenti nazionalistici e non cristiani, che corrono l'uguale rischio di scivolare nel bestialismo del fatto e che comportano un'identica rottura con la tradizione secolare misericordiosa, che si nutriva di trasformazioni e di prefigurazioni e non delle mere constatazioni della cieca inclinazione. Sono due movimenti gemelli, di pari livello, dove uno emula l'altro, il che è sempre più triste. Sono le due ali, destra e sinistra, della stessa notte materialistica.
Rispondimi comunicandomi di aver ricevuto questa mia lettera e dandomi notizie sulla vostra salute, e fammi anche sapere se devo continuare a scrivervi in russo o se è meglio in tedesco. Nel caso la corrispondenza alla nostra vecchia maniera crei difficoltà, per comodità comincerei a scrivervi nel mio pessimo francese storpiato. Avete letto la biografia di Wagner di Guy de Pourtalès? Leggetela. Ho molti progetti, ho una voglia matta di lavorare, ma tutto ciò è ancora là da venire: è idealismo.
Vi bacio forte Vostro Borja Lo scrittore Boris Pasternak (1890-1960) ritratto nel 1924 con la prima moglie Evgenija Lourie e il figlio Evgenij

Corriere della Sera 14.7.08
La capacità rabdomantica di anticipare gli eventi
di Dario Fertilio


Un Boris Pasternak talmente ispirato da sembrare il dottor Zivago, da identificarsi completamente con il suo personaggio letterario più famoso. È questo il profilo dell'autore di questa lettera, inedita fuori dalla Russia. Testimonianza doppiamente forte e inquietante, se si considera la data che porta, cioè il 5 marzo 1933. Hitler era cancelliere in Germania da due mesi, mentre il regno staliniano teneva ancora in serbo i suoi orrori peggiori. Eppure Pasternak già sapeva quel che sarebbe accaduto. Come spiegarlo? La risposta è nel passo in cui si parla di prefigurazione, cioè della capacità di vivere gli eventi in anticipo, immaginandoli: questa è considerata caratteristica distintiva dello scrittore ma, più in generale, tessuto connettivo di qualsiasi esperienza realmente umana. È invece il materialismo, secondo Pasternak, ovvero il «bestialismo del fatto», a distruggere l'uomo e la sua anima. Ma là dove il profetismo dello scrittore si rivela inquietante è nel paragone fra «i due regimi gemelli di pari livello, dove uno emula l'altro», comunismo e nazionalsocialismo. Chi, oltre a Pasternak, poteva aver già colto nel 1933 quella affinità tra i due sistemi che qui lo spinge a scrivere: «Sono le due ali, destra e sinistra, della stessa notte materialistica»? Certo, un altro grande della letteratura russa, Vasilij Grossman, avrebbe descritto in Vita e destino l'equivalenza delle due bandiere rosse — una con la falce e martello e l'altra con la svastica — ma sarebbe arrivato a una simile, amara conclusione solo nel 1960.
L'unica spiegazione possibile è questa: la particolare filosofia di Boris Pasternak, la sua teoria riguardo alla necessità di lasciarsi invadere dalla vita senza remore, pronunciando un sì a ogni suo aspetto, comprese le illuminazioni e le contraddizioni, lo rese straordinariamente ricettivo, acuto, rabdomantico nell'indagare la marea montante dei totalitarismi. Il merito della scoperta va a Serena Vianello, che si è imbattuta nel documento (il cui originale appartiene al fondo Pasternak di Oxford) consultando a Mosca l'Opera Omnia dello scrittore, da poco pubblicata. I riferimenti cui si allude nel documento sono stati decifrati da Simona Vianello: Anatolij Vasilevic, ad esempio, è Lunacharskij, primo commissario del popolo per l'Istruzione, cui il padre di Boris sperava di strappare l'autorizzazione a pubblicare un suo libro. Šura è il nomignolo di Aleksandr, fratello minore dello scrittore; la «passaportizzazione» allude al nuovo obbligo di passaporto interno con indicazione del domicilio; Garrik era un grande pianista, marito della sua futura seconda moglie; Guy de Pourtalès un biografo svizzero famoso all'epoca. Soltanto della misteriosa sigla «cp. pal.» sembra non sia ancora stata trovata la chiave.

Corriere della Sera 14.7.08
Manuali di storia e Primavera di Praga


Questa lettera di Boris Pasternak alla famiglia, inedita fuori dalla Russia, verrà pubblicata nel nuovo numero della rivista di cultura internazionale «La Nuova Europa», edita dal Centro studi «Russia Cristiana» (in uscita oggi). È stata trovata nell'Opera omnia dello scrittore (appena pubblicata in Russia) da una giovane ricercatrice, Serena Vianello, che ha decifrato quasi tutti i riferimenti del testo. Tra gli altri temi trattati in questo numero della rivista: un dossier sulla Primavera di Praga e sull'invasione sovietica del 21 agosto 1968 (con interventi di Jan Carnogursky, Sante Maletta, Fabrizio Rossi), una ricerca sui manuali russi di storia, con un intervento dello storico Nikita Sokolov e un'intervista a Irina Scerbakova della associazione «Memorial» di Mosca.

l’Unità 14.7.08
I rettori denunciano. Tagli ai fondi e un tentativo di privatizzazione
Tremonti e il decreto «affossa università»
di Pietro Greco


Tagli al Fondo di finanziamento ordinario delle università di 1 miliardo e 443 milioni da qui al 2013. Sostanziale blocco del turn-over: per ogni 10 docenti in uscita solo 2 potranno essere sostituiti. Possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato. Per la CRUI, la Conferenza dei rettori delle università italiane, non c’è dubbio: «La prospettiva che emerge chiaramente dalla manovra è quella di un sostanziale, progressivo e irreversibile disimpegno dello Stato dalle sue storiche responsabilità di finanziatore del sistema universitario nazionale».
La manovra che si accinge a realizzare la più radicale riforma dell’università mai effettuata nel nostro Paese e a rivoltare come un calzino il sistema italiano dell’alta educazione è il decreto-legge n. 112 elaborato dal Ministro dell’economia Giulio Tremonti e approvato il 25 giugno 2008 nel famoso Consiglio dei Ministri durato 9 minuti.
Il decreto di Tremonti potrebbe essere ribattezzato «affossa università pubblica» per almeno tre diverse considerazioni. La prima riguarda, appunto, il taglio al Fondo di finanziamento ordinario con cui lo Stato trasferisce i soldi alle università. Questo Fondo ammonta a circa 7 miliardi di euro. Esso serve, per oltre l’88%, a coprire le spese di personale. Il decreto prevede tagli progressivi a questo Fondo di: 63,582 milioni nel 2009; 190,727 nel 2010; 316,622 nel 2011; 417,077 nel 2012; 455,240 nel 2013. Per un totale di 1,443 miliardi in cinque anni.
Il combinato disposto dei tagli e degli aumenti automatici delle spese per gli stipendi del personale (scatti di anzianità previsti dalla legge) farà sì che già nel 2009 oltre il 90% del Fondo di finanziamento ordinario sarà assorbito dalle spese per il personale e che, nel 2013, si andrà oltre il 100%. In altri termini le università non avranno garantiti i soldi per pagare la bolletta della luce e del riscaldamento o per comprare la carta delle fotocopie. Sarà il collasso. Evitabile in un’unica maniera: acquisire fondi privati. O, in maniera improbabile, dalle imprese: che come si sa non hanno in Italia alcuna vocazione alla ricerca e alla formazione. O, come è più probabile, aumentando la retta di iscrizione degli studenti e accelerando l’espulsione dalle università dei giovani appartenenti a famiglie più povere.
Il secondo elemento è il sostanziale blocco del turn-over. Per ogni 10 docenti che andranno in pensione da qui al 2011 (e saranno tanti, vista la loro età media molto elevata), solo 2 potranno essere sostituiti. A partire dal 2012, le sostituzioni possibili saliranno al 50%: uno su due. La piccola università di Udine ha fatto una simulazione. Da qui al 2013, andranno in pensione in quell’ateneo 57 unità di personale. Potranno essere sostituite solo da 13 persone.
Meno docenti con minori dotazioni: la qualità dell’offerta didattica nelle università pubbliche italiane è destinata, dunque, a peggiorare. Non è una bella notizia. Anche perché gli investimenti che il nostro paese riserva all’alta educazione già oggi non superano lo 0,88% del Pil: e sono, dunque, un terzo in meno rispetto alla media europea, due terzi in meno rispetto al sistema universitario americano. In questo momento anche la Germania e la Francia stanno rivedendo la loro politica universitaria. Le riforme sono diverse. Ma entrambi aumentano i fondi.
Ma il decreto di Tremonti contiene un ulteriore passaggio. Si dice che le università italiane - se vogliono - potranno trasformarsi in fondazioni di diritto privato. L’idea è chiara. Lo Stato si ritira progressivamente dal settore dell’alta educazione e lascia le università italiane libere di attingere sul mercato i fondi di cui hanno bisogno. Insomma, come rileva il rettore di Udine, il decreto-legge è un frettoloso tentativo di privatizzare il sistema universitario italiano. Il completo ribaltamento di un modello - quello dell’università pubblica - che da almeno un paio di secoli caratterizza l’alta educazione in Italia e in Europa. Sorprendono tre cose, in questa frettolosa operazione.
Primo: che la riforma universitaria avvenga per volontà del Ministro dell’Economia e senza una parola da parte del Ministro dell’Istruzione.
Secondo: che avvenga in maniera nascosta, senza un’ampia e approfondita discussione in Parlamento.
Terzo: che l’opinione pubblica non se ne curi affatto. Solo i rettori si sono mobilitati. E solo il Presidente Giorgio Napolitano nei giorni scorsi ha espresso il suo «vivo interesse per le questioni e per le idee» che gli sono state illustrate da una delegazione di scienziati dell’Osservatorio della Ricerca. Il resto d’Italia è ignaro o si comporta come se lo fosse. Segno che il nostro paese non ha ancora acquisito piena consapevolezza né del proprio declino né, tanto meno, della cause che lo hanno scatenato.

l’Unità 14.7.08
Genetica. Uno studio italiano individua i motivi per cui il nostro Dna è lungo poco più di quello di un invertebrato
Quello che differenzia un uomo da un verme
di Nicoletta Manuzzato


Fino a una decina d’anni fa si riteneva che il nostro Dna contenesse all’incirca 100.000 geni. Con la completa mappatura del genoma umano, gli studiosi hanno dovuto ricredersi: i nostri geni sono solo 25.000, un quarto di quanto ipotizzato in precedenza. Il dato appare ancora più sconcertante se si considera che la Drosophila, il moscerino della frutta tanto spesso utilizzato nei laboratori di genetica, ne possiede 15.000 e i vermi ne hanno in media 20.000. Insomma il nostro corredo di geni non è molto più ricco di quello di un invertebrato. A parte l’indiscutibile colpo alla nostra immagine di specie dominante, resta da capire come non più di 5.000 geni facciano la differenza tra un verme e l’Homo sapiens. Da dove trae origine allora l’estrema complessità degli esseri umani, e dei mammiferi in generale?
Un’indicazione ci viene ora da una ricerca condotta da Gianfranco Di Segni, Serena Gastaldi e Glauco Tocchini-Valentini, dell’Istituto di Biologia Cellulare del Cnr di Monterotondo (Roma). I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences, aprono un nuovo spiraglio su quella straordinaria fabbrica delle più svariate proteine contenuta nelle nostre cellule.
I ricercatori del Cnr sono partiti dal meccanismo che, attraverso vere e proprie macchine enzimatiche, copia i geni presenti nel Dna generando corrispondenti molecole di Rna. Queste molecole costituiranno le istruzioni per la produzione delle sequenze di amminoacidi che compongono le proteine. Prima di essere utilizzate a tale scopo dovranno però subire alcune modifiche, la più importante delle quali è una sorta di montaggio, simile a quello che si effettua sulle pellicole cinematografiche. Alcuni tratti interni, gli «introni», vengono rimossi e i monconi rimasti, gli «esoni», vengono saldati tra loro: proprio come in un film, dal quale si tolgono le riprese inutili o le scene ridondanti.
Questo processo di splicing, di «taglia e cuci» all’interno di una stessa molecola di Rna, era già noto da tempo. La novità che emerge dal lavoro italiano è la possibilità per le cellule di collegare esoni distanti tra loro o addirittura posti su altre molecole di Rna. Tornando all’analogia con il cinema, il montaggio unisce questa volta spezzoni di pellicole differenti, ad esempio un horror e una commedia sentimentale: ne risulterà un film completamente nuovo. In ambito cellulare potranno formarsi proteine inedite, prodotte dalla fusione di domini di proteine diverse.
«Il funzionamento di questo meccanismo, ribattezzato long distance splicing, è paragonabile alla decompressione di un file archiviato in un computer - spiega il professor Tocchini-Valentini, che ha coordinato la ricerca - Una subroutine, cioè un’unità logica di un programma, contenente una piccola ma fondamentale molecola chiamata Rna transfer, possiede le istruzioni necessarie ad assemblare parti di due catene di Rna distinte tra loro, ottenendo così nuove sequenze in grado di sintetizzare particolari tipi di proteine, non ricavabili dalle istruzioni iniziali».
Un tempo si faceva semplicisticamente corrispondere a ogni gene una singola proteina. Con lo sviluppo della biologia molecolare, l’attività che ha luogo all’interno delle cellule si è rivelata molto più complessa. L’ulteriore passo avanti compiuto nei laboratori di Monterotondo mostra l’espansione dell’informazione che avviene durante i processi di espressione genetica.
Questo può forse aiutarci a spiegare la differenza fondamentale che, nonostante tutto, risiede tra un essere umano e un verme.

Corriere della Sera 14.7.08
Debutti «Animanera» è il titolo dell'opera prima di Verzillo
Si ispira al caso Chiatti il thriller psicologico sulla pedofilia in Italia
Il regista: nessuno voleva realizzare il film
di Giuseppina Manin


Prodotta anche grazie all'appoggio di diverse Onlus per la difesa dei bambini, la pellicola sarà nei cinema dal 29 agosto
Protagonista Luigi Santoro è il piccolo protagonista del film: «Non ha mai saputo di che storia si trattasse»
La piaga resta un tabù, qualcosa di cui non si deve parlare mai, solo qualche cenno nei casi estremi

MILANO — Un mucchietto di foto di bambini. Sorridenti, imbronciati, in bicicletta, davanti alla torta di compleanno, in canottiera... Tutti legati da un unico, atroce, destino. Tutti vittime di abusi sessuali. Alcuni non sono più tornati, uccisi dai loro torturatori. Il commissario le sfoglia senza parlare, lo sguardo cupo di chi, pur avendone viste tante, non sa rassegnarsi. Nessun perché basta a spiegare l'orrore. «La chiave sta proprio dentro gli aguzzini, li fermeremo solo quando avremo la risposta », suggerisce la psicologa che lo affianca nelle indagini. «Non mi interessa capire, sono solo bestie», taglia corto il poliziotto. Ma rabbia e vendetta non bastano a debellare chi ha l'Animanera, come dice il titolo del film di Raffaele Verzillo, opera prima coraggiosa, prodotta in toto dalla Scripta con l'appoggio di diverse Onlus per la difesa dei bambini, e dal 29 agosto nei cinema. «Un film nato per attirare l'attenzione su una delle piaghe più oscure della nostra realtà — spiega il regista, 39 anni —. Un film difficile, che nessuno voleva realizzare perché in Italia la pedofilia resta un tabù, qualcosa di cui non si deve parlare mai. Solo qualche cenno nei casi estremi, da cronaca nera. L'autocensura che copre tante violenze, anche sui più piccoli, nell'ambito familiare, unita alla presenza influente della Chiesa, spesso coinvolta in queste storie, fa voltare il capo da quello che è un problema sociale. Gli abusi sui bambini sono un male endemico, come la droga e l'Aids. Un male in costante ascesa, un 30% in più ogni anno. Fortunatamente anche in costante ascesa le denuncie. Ma se i potenziali pedofili nel nostro Paese si calcolano intorno ai 100mila, solo duemila sono stati gli arresti negli ultimi tre anni». Troppo pochi davvero. «Individuarli non è facile e ancor meno coglierli in flagrante.
Condizione necessaria per fermarli», spiega Verzillo. Nel suo thriller psicologico, costruito su caratteri reali e sulle tracce del caso Chiatti, il mostro di Foligno, il protagonista (Antonio Friello) nasconde la sua turpe attività di stupratore serial killer dietro l'apparenza rispettabile, i modi distinti, i capelli brizzolati. Il vicino di casa che saluti ogni mattina, gentile, premuroso, sempre con un pensierino in tasca per la moglie. Che sembra felice, ma forse dubita, forse intuisce, forse sa. Di certo tace.
«Questi individui sono spesso sposati, anche se con matrimoni quasi sempre "bianchi", di copertura — avverte Verzillo —. Per vergogna, per paura di perdere la posizione sociale, la moglie diventa una compagna omertosa. Se si sapesse, anche lei sarebbe infatti condannata a una ghettizzazione infamante».
Ma se la famiglia può nascondere le peggiori nefandezze, la famiglia può anche far molto per sventarle. «La prevenzione è l'arma migliore — assicura il regista —. Andrea, il bimbo che nel film viene avvicinato dal "mostro" è una preda facile. I suoi, sempre così occupati, distratti da mille impegni, non prestano attenzione ai segnali che manda: modi di parlare insoliti, disegni strani. Il pedofilo invece è attentissimo. Punta i bambini un po' solitari, con genitori assenti, si propone come l'amico o il padre che vorrebbero, li lusinga con complimenti e piccoli doni. Insomma, ne conquista la fiducia». Ma una volta catturati...
Come racconta nel film un altro di quei personaggi, un professore in pensione, si tengono in casa cuccioli come esca. Il bimbo gioca con loro, si sente rassicurato, poi di colpo spezzi il collo alla bestiolina avvisando il piccolo: se non sarai buono con me, se dirai qualcosa, tua mamma e tuo papà faranno la stessa fine. Tecniche spaventose. Verzillo non teme di denunciarle («Anche se in Italia il giro dei pedofili è potente, danaroso, e nasconde tanti intoccabili»). Con delicatezza estrema ha condotto il piccolo Luigi Santoro nelle riprese. «Non ha mai saputo di che storia si trattasse, sul set erano sempre presenti i suoi genitori e uno psicologo. Ha vissuto tutto come un gioco al lupo cattivo, tra lui e Friello si è creata una vera simpatia». Per fortuna senza nessun altro risvolto.

Corriere Economia 14.7.08
Il governatore protagonista del film «Focaccia Blues»
Vendola fa l'attore A spese della Regione
In cantiere due cinecittà: a Bari e Lecce
di Antonio Calitri


A Nichi Vendola non basta una piccola Cinecittà. Il governatore della Puglia ne sta progettando addirittura due. Una a Bari, l'altra a Lecce. Forse per non scontentare nessuno nelle due città tradizionali rivali nella Regione. Entro la fine dell'anno saranno realizzati due cineporti e dei business center per la produzione cinematografica. In pratica il lato b degli studios. Con la prospettiva, se tutto andrà bene, di aprire anche i primi teatri di posa, proprio come Cinecittà.
In un solo anno la Puglia ha raddoppiato il budget destinato al cinema passando da 700 mila euro a 1,5 milioni ed ha quasi raggiunto la storica «Film Commission Torino- Piemonte» che ha un budget di circa 2 milioni di euro ed è considerata la più importante d'Italia. Alla dote della commissione poi, quest'anno vanno aggiunti 500 mila euro extra budget che la Regione ha girato alla Rai per un film tv sul sindacalista Giuseppe Di Vittorio e altri 900 mila euro che saranno investiti per due nuove strutture di produzione.
Tutto però, con una originale contaminazione politica che, alla vigilia delle prossime elezioni comunali (2009) e regionali (2010) serberà molte sorprese. Una tra tutte riguarda proprio il presidente della regione Nichi Vendola che recita nel film «Focaccia Blues», la storia in chiave no global di un piccolo panificio di Altamura che ha respinto l'attacco di un McDonald's costringendolo a chiudere. Ebbene, il film prodotto da Alessandro Contessa e Gianluca Arcopinto (già produttori del film «Nichi» sulla inaspettata affermazione elettorale del presidente pugliese), è finanziato da Regione Puglia e Apulia Film Commission e andrà in sala la prossima stagione, proprio quando inizierà la nuova campagna elettorale per le regionali. Un altro film fortemente voluto da Vendola e finanziato dal suo ente è «Pane e Libertà», sulla storia del primo segretario della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, che verrà trasmesso in tv il prossimo autunno.
Infine il sindaco di Bari Michele Emiliano impegnato nella difesa della sua poltrona avrà nelle sale e in dvd «Punta Perotti Point», il documentario che celebra la sua prima promessa mantenuta, l'abbattimento degli ecomostri costruiti sul lungomare cittadino quando era magistrato.
I progetti cinematografici della Puglia però, non si limitano a quelli politici, anzi. La Film Commission ha già contribuito alla produzione di importanti film nazionali e internazionali, da «Non ti voltare » con Monica Bellucci e Sophie Marceau a «I galantuomini » di Edoardo Winspeare con un effetto moltiplicatore calcolato in sei volte l'investimento. «Quest'anno poi — spiega Silvio Maselli, direttore dell'Apulia Film Commission — con il budget raddoppiato, arriveranno le produzioni internazionali e poi i prossimi film di Michele Placido e di Lina Wertmüller».
Intanto, al fianco alle produzioni cinematografiche arrivano i cineporti. Si tratta di due complessi di 1.200 e 4.000 metri quadrati con uffici, camerini, sale per riunioni, trucco, casting, montaggio a disposizione delle nuove produzioni. In pratica il retro degli studios, che costeranno rispettivamente 500 e 400 mila euro e sono finanziati con i fondi per le aree sottosviluppate del Cipe. «Quanto ai veri e propri teatri di posa — continua Maselli — ci stiamo pensando ma è importante prima arrivare a uno standard di almeno dieci importanti produzioni all'anno perché siano economicamente sostenibili. Intanto con i fondi Por avvieremo presto corsi di formazione per creare le figure professionali dell'intera filiera».

Repubblica 14.7.08
Religione, Obama si confessa "Prego Dio tutte le sere"


NEW YORK - In che cosa crede Barack Obama? Cristiano convinto, ma spesso additato come musulmano dai suoi detrattori, il candidato democratico alla Casa Bianca racconta il suo rapporto con la fede nell´intervista al settimanale americano Newsweek. Lo fa partendo dall´inizio, dalla sua scoperta di Gesù: «Non un´epifania, ma un processo graduale», seguito alla scoperta del senso della vita nella storia cristiana. Un percorso che condivide con la moglie Michelle: «Parliamo di Dio con le bambine, recitiamo la preghiera di ringraziamento prima dei pasti. Credo fermamente che la fede non sia fatta solo di parole, ma di fatti e lavoro». Quasi un´ispirazione di vita, che il senatore trova anche nei testi sacri: «Leggo la Bibbia, mi consente di lasciarmi per qualche momento alle spalle la vita di tutti i giorni e di riflettere.» E prega tutte le sere, Obama, per chiedere «perdono e protezione». Forse anche per questa sua ultima avventura.

il Riformista 14.7.08
Bipolarismo etico Perché è meglio lasciare le cose come stanno
Nessuna legge umana può regolare la morte
di Antonio Polito


V orrei spiegare perché il nostro giornale non ha pubblicato la lettera uscita sabato sulla prima pagina di Repubblica, in cui una donna racconta la decisione della madre, malata di sclerosi laterale amiotrofica (Sla), di darsi la morte col sonnifero, da sola e di sua volontà. Quella lettera ci era stata offerta come un contributo al dibattito sull'eutanasia, riaperto dalla vicenda di Eluana. Ma non ci era sembrata pertinente. Vi si racconta infatti di un suicidio. Di una persona che, come scrive la figlia, «coraggiosamente è riuscita a liberarsi da quella terribile malattia», in realtà liberandosi della vita. In casi come questo, quando il malato è ancora in grado di fare da sé la sua volontà, non c'è materia che possa riguardare il dibattito pubblico. È una scelta individuale e tragicamente libera. Commuove il nostro sentimento, interpella la nostra etica, ci fa magari chiedere «che cosa farei io al suo posto»; ma non pretende alcuna risposta dalla comunità. Inserirla nel dibattito su Eluana rischia solo di accrescere la confusione tra suicidio, suicidio assistito, eutanasia, interruzione dell'accanimento terapeutico: soluzioni molto diverse tra loro e di radicale diversità di fronte alla legge e alla morale.
Quando il pubblico entra nelle scelte privatissime di un essere umano, allora è inevitabile contrapporre privato a privato. E infatti nello stesso giorno, sulla prima pagina del Foglio, un altro malato di Sla, Mario Melazzini, raccontava la sua decisione opposta: continuare a vivere nutrito dal sondino, scoprendo anzi la speciale qualità di quella vita: «Da uomo sano non ipotizzavo che la totale dipendenza dagli altri potesse essere conciliabile con la dignità della vita. Invece è così».
Il bipolarismo etico - il partito del meglio morire e il partito del meglio vivere - è una regressione del dibattito pubblico. Al limite, sarebbe stato più interessante se Repubblica avesse pubblicato la lettera di vita, e il Foglio quella di morte. Domandiamoci perché non è accaduto, e già avremo compreso il rischio di questo tipo di «guerre culturali».
Voglio dire che in materia di vita e di morte non si può pretendere ogni risposta dalla legge, e dunque dalla politica. La polis, in una data epoca storica e col grado di conoscenze scientifiche del momento, può al massimo cercare un limite. Ma fissare quella soglia nel modo burocratico e generale cui ogni legge si deve attenere non risolverà mai l'incertezza del caso per caso, non calzerà mai l'eccezionalità di ogni singola storia personale. A quelli che ritengono necessaria una legge per l'eutanasia, infatti, si potrebbe obiettare che la norma già consente la sentenza con cui la Cassazione ha autorizzato il padre di Eluana a sospenderle idratazione e alimentazione. A che servirebbe una nuova legge: a prescrivere, oltre che a consentire? A chi invece ritiene che sarebbe necessaria una legge per prevenire la volontà di eutanasia, verrebbe da chiedere: una legge che impedisca alla malata della lettera di Repubblica di togliersi la vita?
La yubris della modernità ci fa credere che l'uomo, attraverso la legge, possa ormai regolare ogni aspetto della vita: proteggerla dal rischio, difenderla dalla persona stessa in cui si incarna, o metterle fine quando un freddo criterio giuridico decide che non merita più di essere chiamata tale. Ma chi siamo noi, per dirlo? Ho seguito il dibattito sul testamento biologico che si è svolto per due anni al Senato, e vi assicuro che non saprei ancora dire se per me l'idratazione sia un accanimento terapeutico che si può interrompere, o l'irrinunciabile precetto evangelico di dar da bere agli assetati. La volontà del malato, che può essere chiara in una fase della malattia, come nel caso della lettera di Repubblica, può essere solo ipotizzata, come è nel caso di Eluana. Un genitore ne sa più di un parlamentare. Un medico più di un editorialista. Un giudice più di un lettore di quotidiani. Ogni uomo è un'isola, ed è per questo che lo stato etico, che decide una volta e per sempre e per tutti, è un pericoloso arbitrio.
Perciò non concordo con Pierluigi Battista, che sul Corriere si è lamentato del progressivo affievolirsi della battaglia politica sui valori. Al contrario: lo trovo un segno di maturità. Quasi una salutare confessione di impotenza, un soprassalto di pudore. Io lascerei le cose come stanno. Lascerei ai malati, ai loro familiari, ai medici, ai giudici quando sono chiamati a esprimersi, l'onere di decidere con prudenza e conoscenza, caso per caso. Loro non devono cercare voti, né vendere giornali. Sono più liberi. Nel mio universo morale, la vita è sempre più bella della morte. Ma non pretendo che il mio universo morale sia legge, perché la legge non può mai essere uguale per tutti. L'Italia non è pronta per una norma che imponga ad Eluana di continuare a vivere, o ai medici del signor Melazzini di consigliargli la morte. C'è un limite ai poteri di una maggioranza parlamentare, qualsiasi essa sia.

domenica 13 luglio 2008

Corriere della Sera 13.7.08
La difesa della razza
di Sergio Luzzatto


La scorsa settimana, chiunque abbia frequentato le edicole si è trovato sotto gli occhi la copertina di Panorama: un bambino rom sulla panca di una questura, vestito di un'evocativa maglietta a strisce, che si copre vergognoso la sua faccia di baby-ladro. E un titolo inequivocabile: «Nati per rubare». Così, domani 14 luglio 2008 noi tutti potremo festeggiare degnamente il settantesimo anniversario del 14 luglio 1938, quando il Giornale d'Italia pubblicò il «Manifesto della razza» voluto da Benito Mussolini. Dopo un'attesa tanto lunga da sembrare interminabile, i giornalisti di Silvio Berlusconi hanno finalmente sbattuto in prima pagina i mostri del nostro tempo. Strilli pure l'Europarlamento, bocciando come razzista la raccolta delle impronte digitali dei rom. Strilli pure la Chiesa cattolica, che denuncia come scandalose le misure anti-zingari. Niente da fare, da qui non si passa. Noi italiani abbiamo infine trovato i celoduristi che ci garantiscono la difesa della razza

l’Unità 13.7.08
L’interesse del conflitto
di Furio Colombo


La notizia è giunta tardi e mi induce a dirvela prima di ciò che sto per scrivere perché dubito che la troverete su molti altri giornali. Venerdì al Senato americano, i democratici hanno tentato di abbattere la privatizzazione delle cure mediche per gli anziani e di tornare all’estremismo di Kennedy, Johnson, Carter e Clinton: le cure mediche sono un diritto dei cittadini. La proposta repubblicana era: abbandonare i vecchi al buon cuore delle compagnie di assicurazione.
Ha scritto l’economista di Princeton Paul Krugman (New York Times 12 luglio): «Sembrava un film. Ai democratici mancava un voto per vincere. All’improvviso si è presentato in aula il settantasettenne Senatore Kennedy, appena operato di tumore alla testa. Kennedy ha portato il voto risolutivo. Bush e il dominio delle assicurazioni private sono stati sconfitti».
È una storia che dice molto della testarda ossessione di un vecchio, grande politico americano di stare ogni momento, e fino alla fine, dalla parte dei cittadini. Per noi è solo un simbolo, ma perché non dichiarare subito che solo così, qualunque sia il suo stato anagrafico, un leader politico può definirsi «coraggioso»?
Ma ora riprendo il mio percorso fra le tristi notizie italiane.
***
Mi era venuto in mente, pensate, di dire in questo articolo, che il conflitto di interessi paga, che alla fine di qualunque storia che non sia una fiaba vince il più forte, non il migliore (persino se la forza è rubata attraverso l’abuso sia del potere privato che di quello pubblico), che non c’è niente di male nel sentirsi migliore di chi attacca o minaccia o ricatta tutti i poteri dello Stato e scardina, piega o abolisce con le sue leggi tutte le regole.
Mi era venuto in mente di dire che, per forza, molti perdono la testa, il filo e il sentiero della ragione dopo quindici anni di realtà berlusconiana raccontata a rovescio, deformata, amputata, pur di isolare, più o meno intatta, l’immagine di una sola persona - Berlusconi l’immune - costringendo tutti gli altri protagonisti presenti in scena a una forma di sottomissione, a un continuo addossarsi di colpe, o ad essere confinati dal consenso comune (dei buoni e dei cattivi commentatori) nell’isola degli estremisti, dove persino ciò che rimane di Rifondazione (Sansonetti, Liberazione, 10 luglio) ti ingiunge di chiedere scusa, e si unisce agli scandalizzati non dello scandalo, ma di chi lo denuncia, visto come un guastafeste, ovviamente estraneo alla sinistra, sia quando usa i toni sbagliati, sia quando usa quelli giusti.
Avrei voluto scrivere che non ci sono toni giusti perché, alla fine, come puoi presumere di essere un giudice, nel mondo in cui tutti ormai accettiamo di dire o lasciar dire che i giudici sono comunque manovrati da una forza politica, nel mondo in cui tutti, tutti più o meno, diciamo: «Basta con l’uso politico della giustizia» (alcuni usano l’assurda parola “giustizialismo”, dicono: «occorre far finire questa anomalia»; e precisano che l’anomalia sono i giudici che indagano, non coloro che - avendo grandi responsabilità politiche - ne approfittano e commettono reati).
Non dirò che sono stato dissuaso dalla enormità dei fatti, che sono questi: sono stati resi immuni da ogni azione giudiziaria le quattro più alte cariche dello Stato. Ma una, il presidente della Repubblica, è già difeso dalla Costituzione. Due, se malauguratamente inquisiste, non danno luogo ad alcuna impossibilità di governare perché sono cariche elettive interne al Parlamento e in caso di necessità si possono rieleggere o alternare senza coinvolgere o negare il consenso dei cittadini. Rimane la quarta, ma la quarta è il plurimputato Silvio Berlusconi. Dunque tutto è avvenuto per una sola persona anomala. E una immensa barricata, che coinvolge persone estranee a ogni imputazione, è stata eretta, per quella sola persona deformando lo Stato, creando per la Repubblica un danno senza ritorno, una ferita sul volto dell’Italia che ci renderà unici e riconoscibili anche in futuro.
Potrei continuare raccontando il modo un po’ mussoliniano con cui stata strangolata, in questi giorni, la Camera dei Deputati, soffocandone il dibattito fino al ridicolo per una grande istituzione democratica, forzando ognuno di noi, in quel quasi silenzio, ad apparire complici del progetto in cui il presidente-imputato esige la sua legge liberatoria, e la vuole sùbito, impone tempi ridicolamente stretti al presidente della Camera e il presidente della Camera si presta, obbedisce, esegue: «Volete un solo giorno di finto dibattito (finto perché la disciplina della maggioranza era toccante; finto per l’eroismo dell’Udc di Casini, che ha scelto l’astensionismo per non ipotecare il futuro; finto per il numero di minuti dedicati al dissenso). Come no? Agli ordini». Lo sanno tutti che un Parlamento (potere democratico dello Stato) è agli ordini dell’esecutivo e dunque si impegnerà nella missione di mettere a tacere l’altro potere democratico, quello giudiziario.
Potrei raccontare i veri e propri momenti di urla e rivolta fisica della maggioranza ad ogni tentativo di Pd e Italia dei Valori di porre almeno un argine alla prepotente imposizione di discussione strangolata. Pensate, persino la sinistra sembra provar piacere a condannare "l’opposizione urlata"; ma in Parlamento le sole urla che si sentono, alte e selvagge, sono quelle della maggioranza che si getta con furore su ogni spiraglio di resistenza, per quanto mite.
***
Invece mi fermo qui, per dire: questo è il mio millesimo editoriale, uguale agli altri. È una rappresentazione fedele di ciò che accade. Ma ciò che accade ripete un gioco di potere che in fondo non si è interrotto mai, neppure nei pochi giorni di Prodi. Perché anche in quei giorni sono rimasti intatti tutti i centri di controllo di ciò che sappiamo ogni giorno del Paese. Infatti Prodi è apparso un grave e fastidioso pericolo mentre governava, veniva additato all’Italia come un incapace ed esoso esattore di tasse e come la rovina della nostra economia, che adesso è totalmente paralizzata e in stato di abbandono. E intanto i costi e le tasse salgono ma il nuovo Parlamento italiano è impegnato a fermare i giudici.
Mi fermo anche per il modo efficace con cui il notista della Stampa Ugo Magri racconta un momento della non esemplare giornata alla Camera che abbiamo appena vissuto. Cito: «Perfino Furio Colombo viene snobbato dai colleghi Pd, i quali si vede che ne hanno le tasche piene, nel momento in cui invoca “solidarietà per i magistrati che Berlusconi considera un cancro”».
Mi resta da dire che ho pronunciato questa frase in modo deliberatamente formale e non stentoreo sapendo - come è accaduto - che sarei stato subito coperto da urla. Strana cosa le urla di una larga maggioranza di potere che non rischierebbe nulla perfino ostentando una flemma tipo Anthony Eden o Lord Sandwich. Ma quelle urla ci dicono come è, come sarà l’epoca di potere che comincia adesso. Che nessuno pensi impunemente di sgarrare. Dalla gabbia mediatica non si sfugge. Provvede la gabbia mediatica, con la partecipazione straordinaria e volontaria di tanti di noi, a dire, proprio mentre urla fino al parossismo l’intero Popolo delle libertà, che l’opposizione “urlata” ed “estremista” è proprio insopportabile.
Dirò che mi fermo, in attesa di nuovi eventi che saranno, tra poco, così clamorosi, inauditi e - ripeteremo noi, pedanti - estranei alla democrazia, da prendere di sorpresa persino chi ha sempre dichiarato piena sfiducia in questo governo e nella sua maggioranza. Azzardo una previsione, e la proporrò. Sarà la descrizione di un paesaggio grave e tragico. Anche se vorranno costringerci alla percezione prevista dal copione. Ci diranno che è il “ritorno al Paese normale”.
***
E’ il momento in cui si scopre che il conflitto di interessi ha un suo modo pernicioso di spandersi, anno dopo anno, in Italia. È l’interesse del conflitto, nei due sensi letterali: perché l’interesse è un continuo dividendo che il Paese deve pagare al titolare del conflitto, concedendogli ogni volta di più, visto che controlla così tanto.
Ma è anche l’interesse a mantenere vivo il conflitto perché i nemici, bene in vista e tenuti alla gogna, sono indispensabili per un governare montato come una campagna elettorale che non finisce mai. Nonostante l’effetto illusorio di una pace sempre possibile e sempre vicina, ogni accostamento viene impedito alzando bruscamente il prezzo, in modo che sia impossibile. Ma sempre per colpa dell’altro e a meno di un di un cedimento che ne cancella l’identità e lo esibisce come preda.
Dunque l’interesse remunera due volte il conflitto. C’è - s’intende - la condizione del rigoroso rovesciamento mediatico. Esempio: se gli aggrediti da questo potere commettono l’errore di rispondere con un insulto a un insulto, solo l’ insulto degli aggrediti sarà ricordato, ripetuto, inchiodato nella memoria collettiva. Avverrà a cura dei media, in modo che l’autore potente del primo insulto appaia sempre il mite protagonista vilmente insultato. Un esempio: Berlusconi definisce “cancro” e “metastasi” i giudici senza altra ragione che i temuti processi contro di lui. I media registrano e dimenticano all’istante. Fanno in modo che non se ne parli mai più, fino allo sbadiglio di Ugo Magri sulla Stampa per la mia frase. Ma se dite “magnaccia” (parola forse un po’ esagerata) al primo ministro sorpreso a sistemare le sue giovani amiche nella Tv di Stato, state tranquilli: se ne parlerà per sempre.
Temo invece, dati i tempi e dati i media, che non si parlerà per sempre della odiosa intenzione, inclusa nel “pacchetto sicurezza” del ministro dell’interno italiano Maroni, di obbligare all’umiliazione delle impronte digitali i bambini Rom, sia quelli italiani sia quelli ospiti del Paese Italia, che sta rapidamente diventando il più barbaro d’Europa. Giovedì 10 aprile il Parlamento europeo ha condannato a larga maggioranza l’Italia per l’incivile progetto. Il ministro degli Esteri Frattini e il ministro per gli Affari europei dell’attuale governo italiano Rochi, hanno subito indossato la faccia dell’«ora fatale del destino che batte nel cielo della nostra patria» (le prime parole del discorso di Mussolini, 10 giugno 1940) per ribattere a muso duro al Parlamento europeo che le nostre impronte digitali ai bambini non sono affari loro. Ronchi ha detto giustamente: «E’ il momento peggiore del nostro rapporto con l’Europa».
Vero, ma suona ridicola una frase così solenne se detta dal colpevole colto sul fatto. Il fatto triste è che Frattini e Ronchi intendevano proprio dire: «Se noi abbiamo deciso di svergognare l’Italia e affiancarla, quanto a diritti civili, allo Zimbabwe, sono affari nostri. E nessuno ci deve impedire di infangare come vogliamo la nostra immagine».
I due ministri, nel loro impegno a puntare sul peggio, sono apparsi così decisi, così sicuri che si possa buttare all’aria ogni decente e rispettoso rapporto con l’Europa, e così irrilevante essere considerati da Paesi civili come un Paese incivile, da rendere un po’ meno cupa l’immagine del ministro Maroni. Il ministro, in nome delle superstizioni della sottocultura leghista, priva di ogni soccorso, anche modesto, della cultura comune, ha dichiarato diverse guerre, tutte ai poveri e ai deboli inventati come nemici.
Pensate alla sua guerra ai Rom, che sono 150mila, metà italiani, metà donne, metà bambini. Il loro coordinatore, Xavian Santino Spinelli, ha parlato in Piazza Navona a nome dei molti Rom presenti (è la prima volta nella storia politica del nostro Paese) e a nome di tutti i Rom italiani.
Forse dispiacerà alla sottocultura leghista che il Rom Spinelli oltre a essere musicista (troppo facile, diranno) sia anche docente di Antropologia all’Università di Trieste. Il fatto è che il peggio di Maroni ha fatto nascere un meglio senza precedenti nelle vita italiana: un legame con il popolo Rom. Giovedì 8 luglio, per fare un altro esempio senza precedenti, la sala conferenze della Fondazione Basso era affollata di di Rom e di intellettuali della Fondazione per discutere il che fare insieme. Il lunedì precedente l’Arci ha organizzato in Piazza Esquilino una raccolta di impronte digitali di adulti e bambini italiani, evento affollato e filmato da una decina di televisioni europee e americane.
Ma proviamo a confrontare l’indefesso lavoro del ministro Maroni contro i piccoli, i deboli, gli scampati alla traversata del mare e alle guerre e persecuzioni nei loro Paesi, con ciò che pensa (del pensiero padano, del ministro Maroni e, ovviamente dell’illustre governo di Frattini e Ronchi) il Cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi. Cito da pag. 13 de Il Giornale, 8 luglio: «Asili per gli immigrati: le materne comunali dovrebbero essere aperte anche ai figli degli immigrati clandestini. Lo sgombero dei Rom: l’impressione è che nello sgombero si sia scesi sotto la soglia di tutela dei fondamentali diritti umani. L’esercito nelle città: I soldati servono ad aumentare la paura. La sicurezza non passa per decreto legge. La moschea di Viale Jenner: Maroni sposta la moschea? Solo un regime fascista e populista usa tali metodi dittatoriali».
Lo stesso giorno il ministro della Difesa La Russa aveva detto, con la sua famosa mancanza totale di humour: «Per il momento sembra chiaro che ai militari, a Milano, sarà affidata la sorveglianza del Duomo e delle chiese più importanti». Il Cardinale, che celebra ogni giorno la messa in Duomo, ha visto sùbito immagini che a uomini intelligenti e sensibili evocano Pinochet.
Come si è visto, l’interesse del conflitto è grande e sfacciato abbastanza da indurre l’editore del governo (che è anche il governo dell’editore) a pubblicare la più squallida e violenta copertina che mai settimanale politico europeo abbia pensato di pubblicare. Panorama, 10 luglio: la fotografia è quella di un bambino che i lettori sono chiamati a identificare come zingaro. Il titolo è “Nati per rubare”. Segue questo testo: «Appena vengono al mondo li addestrano ai furti, agli scippi, all’accattonaggio. E se non ubbidiscono sono botte e violenze. Ecco la vita di strada dei piccoli Rom che il ministro Maroni vuole censire, anche con le impronte digitali».
So di averne già parlato, ma ripeto le citazioni e l’immagine per due ragioni. Una è l’ offesa per una pubblicazione che esalta, secondo i canoni di Goebbels, l’indegnità genetica dei bambini di un popolo. L’altra è la solidarietà ai colleghi di Panorama, molti dei quali conosco e stimo personalmente, per l’umiliazione imposta loro da un proprietario che, dovendosi salvare dai suoi processi, ha bisogno dei voti leghisti e dunque deve pagare (e far pagare) pesanti tributi alla sottocultura leghista così risolutamente respinta dal Vescovo di Milano, in piena solitudine.
L’interesse del conflitto è una infezione che continua ad estendersi. Ma siamo appena all’inizio delle sue conseguenze peggiori. Purtroppo, a fra poco.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 13.7.08
Gli under 40 del Pd: più laicità e diritti civili
La riunione dei «Mille»: «Spesso le nostre idee non trovano spazio nel progetto del partito»
di Andrea Carugati


IL «PADRE» non l’hanno ucciso, nonostante questa fosse la «necessità» che dava il titolo al dibattito introduttivo della loro tre giorni di assemblea, che si chiude
oggi a Roma. Eppure i Mille, rete di democratici under 40, cervelli in fuga e aspiranti leader di domani, qualche schema l’hanno rotto. Ieri mattina, per la precisione. Quando nella grande sala della sede Pd del Nazareno, quella che ospitava, fino a non molto tempo fa, il gotha della Margherita, si sono riuniti numerosi dirigenti del movimento gay e lesbico per discutere, proprio là dove ancora si incontrano Rutelli, Marini, Bindi e Castagnetti, di matrimoni gay, e pure di adozioni. In sala due bimbi piccoli, accompagnati dalle mamme: due mamme per ogni bambino, si chiamano famiglie «arcobaleno», o meglio «omogenitoriali». E Ivan Scalfarotto, uno dei fondatori dei Mille, ha sfidato i dirigenti del movimento gay presenti, da Aurelio Mancuso a Imma Battaglia, sostenendo, da militante del Pd assolutamente non pentito, che «la linea del nostro partito sui diritti civili è molto deludente, a destra di molti partiti di destra europei. Altro che Dico o Pacs, noi dobbiamo chiedere il matrimonio per i gay, gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini anche in caso di adozioni. Altrimenti si chiama apartheid».
È proprio dentro il partito che i Mille vogliono battersi su questi temi: «Lo so», dice Scalfarotto, «quando parlano la Binetti o la Baio i media danno loro molto più spazio di quando parliamo noi: è per questo che dobbiamo farci sentire, anche alzando il livello dello scontro». Paola Concia, unica deputata gay dichiarata del Pd, è più prudente: lei una proposta per i diritti delle famiglie omogenitoriali l’ha già presentata in Parlamento e dice: «Non ero sola, l’hanno firmata altri 30 deputati del Pd».
Marco Simoni, portavoce dei Mille che oggi sarà rieletto, 34enne professore di capitalismo comparato alla London School of Economics, ha invece un altro tema in testa: quello generazionale. «Quando sento dire che sono giovane mi prudono le mani: ma come, ho un figlio, faccio il professore all’Università e sono un eterno giovane? La verità è che solo in Italia alla nostra età ci trattano da ragazzini. E questo è uno dei modi per giustificare una precarietà che non c’è nemmeno negli Usa a questi livelli».
Ma chi sono questi Mille e cosa vogliono? Invece di discussioni fanno «brainstorming», molti vivono all’estero, vestono stile campus americano, adorano internet e i blog. «Ma non siamo i cervelloni contrapposti ai volontari delle feste dell’Unità», dice Cristiana Alicata. «Io a fare la volontaria alle feste ci vado, così molti di noi. Però non ci vergogniamo di essere ingegneri o professori. Anzi, il fatto che viviamo del nostro stipendio, senza pensare alla politica come carriera ci rende più liberi...». Il professore italiano arrivato a Roma ieri dalla sua università nel Michigan, un po’ sopra i 40 anni ma accolto ugualmente a braccia aperte, dice: «Noi nel blog dei Mille ci mettiamo idee e progetti, ma purtroppo non diventano idee e programmi del Pd, nemmeno riusciamo ad aprire dei dibattiti dentro il partito. E invece dobbiamo fare come ha fatto la Lega: portare avanti progetti e parole d’ordine e farli diventare senso comune. Sarà perché sto in America, ma quello che vuole fare il Pd ancora non l’ho capito...». Punzecchiature, ma i Mille, che a gran voce dicono «non siamo una corrente», non hanno nel mirino la leadership di Veltroni. Anzi, sono nati nel giugno 2007, proprio per sostenere la corsa alle primarie di Veltroni. E tuttavia delle polemiche interne, congresso, alleanze, si tengono alla larga. «Non ci interessano queste cose», spiega Simoni. «E il problema non è lamentarsi perché mancano idee e luoghi dove discutere. Nel Pd la possibilità di dire la propria c’è, e noi siamo nati proprio per dare voce a tutti quelli che hanno qualcosa da dire». Chiude Scalfarotto: «Noi siamo nati per mettere insieme quelli che non ne possono più delle divisioni tra i vecchi leader, i tanti Romei e Giuliette che si amano nonostante vengano da famiglie diverse, tipo i veltroniani o i dalemiani».

l’Unità 13.7.08
Conflitti e tensioni in Cina, l’armonia è solo propaganda
di Gabriel Bertinetto


CONFLITTI ETNICI, religiosi, sociali, economici. In Cina non regna l’armonia indicata dai dirigenti come primario obiettivo dell’azione di governo. In Tibet e in Xingiang Pechino è alle prese con movimenti autonomistici, genericamente bollati come eversivi. Altrove la gente protesta contro la corruzione

Si chiamavano Mukhtar Setiwaldi e Abduweli Imin, cinesi dal nome assai poco «han». Membri della minoranza ujgura dello Xinjiang, sono stati fucilati mercoledì scorso a Kashgar poche ore dopo la sentenza a carico di 17 presunti separatisti del Movimento islamico del Turkestan orientale. Per gli altri pene da 10 anni all’ergastolo. Il giorno stesso la polizia ha annunciato l’uccisione di 5 ribelli «jihadisti», e, negli ultimi sei mesi, l’arresto di 66 e la distruzione di 41 campi di addestramento. Per Pechino il problema nello Xinjiang sta tutto lì: una piccola ma agguerrita minoranza eversiva armata. I dissidenti ujguri sostengono che le autorità centrali sarebbero in realtà interessate a soffocare ogni vagito autonomistico, nelle Xingjiang come in Tibet. L’avvicinarsi delle Olimpiadi diventa l’occasione propizia per denunciare piani terroristici di grande portata e scatenare una repressione indiscriminata. E a lanciare una martellante campagna sulle minacce incombenti di «gruppi illegali», che progetterebbero tra l’altro assassini di stranieri e cinesi impegnati nell’organizzazione dei Giochi. Quanto ci sia di vero o di esagerato o di pretestuoso in quelle quasi quotidiane denunce, è difficile dire. Ma certo questo clima di tensione non contribuisce ad avvalorare l’immagine di una società «armoniosa», che da qualche anno è il leit-motiv della propaganda ufficiale, e viene costantemente sbandierato come principale obiettivo dell’azione di governo.
L’armonia arriverà forse un giorno in Cina. Nel presente quell’ideale è contraddetto da conflitti di vario tipo, che sembrano preoccupare i dirigenti più ancora delle critiche che arrivano dall’estero per le violazioni dei diritti umani e democratici. «La Cina tiene all’applauso della comunità internazionale, ma questo viene solo dopo la stabilità interna, e se deve scegliere opta per la seconda», afferma Jiang Qisheng, cinese membro di Pen (associazione internazionale per la difesa della libertà d’espressione).
Il fermento che, quasi sempre celato all’opinione pubblica mondiale, scuote lo Xingjiang, ha radici in parte simili a quelle della protesta che a Lhasa si ispira alla guida spirituale del Dalai Lama. Se si eccettuano le eventuali connessioni di alcune frange ujgure con l’eversione qaedista, il malessere sociale in entrambe le province ha una doppia natura, culturale ed economica. Sono infatti due delle aree meno sviluppate nel Paese, dove l’etnia indigena, ujgura o tibetana, musulmana o buddista, lamenta di essere emarginata a vantaggio dei cittadini “han” di antica o nuova immigrazione. L’accusa di perseguire l’indipendenza con metodi violenti non risparmia il Dalai Lama, benché quest’ultimo abbia sempre chiaramente detto di aspirare per la sua terra all’autonomia e abbia sempre condannato l’uso delle armi. Le proteste soffocate con la forza a Lhasa in marzo, hanno dimostrato quanto fossero diffusi i risentimenti anti-cinesi fra i locali, benché da anni il governo sostenesse che i progressi economici in Tibet avevano creato un vasto consenso e l’ostilità verso il potere centrale riguardava solo minoranze sovversive. Secondo notizie diffuse dall’agenzia Xinhua, negli incidenti di marzo morirono 19 persone, 42 sono state condannate a pene che variano dai 3 anni all’ergastolo, e 116 sono in attesa di processo. La resistenza fornisce cifre molto più elevate. Le vittime sarebbero state più di cento.
La rivendicazione di libertà religiosa, che è solo una componente nella mobilitazione ujgura e tibetana, è l’elemento chiave nell’attività della setta Falun, diffusa in tutto il territorio nazionale. Gli aderenti erano forse 80 milioni quando scattò l’ondata repressiva lanciata dall’ex-presidente Jiang Zemin nel 1999 contro «un culto che instilla superstizioni fra la gente». In realtà i leader cinesi erano spaventati dalla rapida diffusione di un movimento fondato solo nel 1992, ma ispirato ad antiche tradizioni di esercizio fisico e spirituale per il miglioramento individuale, i cui adepti non avevano peli sulla lingua nel criticare gli errori e gli abusi del potere. Difficile dire quanto sia forte oggi in Cina la Falun. Certo è ancora temuta se Pechino la menziona specificamente tra le organizzazioni sospettate per «attacchi terroristici e atti di sabotaggio» e promette ricompense a chi ne denuncerà le attività.
Ha favorito il formidabile proselitismo della Falun il coraggio nel denunciare le malefatte della burocrazia. Tema a cui sono molto sensibili i cinesi, quello delle prevaricazioni di un potere spesso impermeabile alla giustizia comune. Ne derivano frequenti scoppi di rabbia popolare che qualche volta assumono l’aspetto di rivolta. Alla fine di giugno ha avuto larga eco internazionale l’assalto di diecimila persone infuriate ai commissariati di Wengan, nella provincia dello Guizhou. La gente era esasperata perché la polizia aveva archiviato come suicidio la morte di una ragazza stuprata e uccisa dal figlio di un notabile locale. Talvolta la verità si impone attraverso la mastodontica evidenza delle catastrofi. Com’è accaduto in Sichuan con il terremoto di maggio e le sue oltre 70mila vittime. Delle quali 9mila sono alunni e docenti sepolti sotto le macerie di scuole costruite con materiali di scarto perché i funzionari locali si erano intascati l’85% dei fondi. Le famiglie hanno manifestato pubblicamente chiedendo provvedimenti contro i responsabili. E come spesso accade, chi si è esposto maggiormente, l’attivista per i diritti umani Huang Qi, è finito in manette.
Lo strapotere dei dirigenti e la corruzione sono spesso all’origine di quelle che vengono rubricate in Cina come «proteste di massa». Il loro numero, secondo Pechino, è diminuito rispetto al picco toccato nel 2005 con 87mila episodi di maggiore o minore rilevanza, ma sono comunque ancora numerosi. Il problema è che nonostante l’intrepido dinamismo di singoli attivisti, la maggior parte delle iniziative hanno carattere locale. Manca un coordinamento, anche perché la crescita della libertà economica nella Repubblica popolare non ha portato con sé alcun pluralismo politico. Dorothy Solinger, sinologa americana, rileva che «frammenti insoddisfatti della popolazione, dalle ong ai frequentatori di internet, dagli intellettuali ai contadini che si ribellano all’inquinamento (provocato dall’industrializzazione selvaggia) e agli espropri di terre, sono troppo dispersi geograficamente per costituire dei movimenti ampi e influenti».
Proprio per questo, un canale spesso seguito per sollevare un problema di qualunque genere, dalle fabbriche in cui si lavora il doppio delle ore previste dalla legge senza garanzie sindacali e di sicurezza, alla censura, alla corruzione, all’arbitrio della casta, è l’inoltro di una petizione. Ufficialmente incoraggiata dal governo, la denuncia scritta e sottoscritta rischia però di ritorcersi verso il promotore. Ne sa qualcosa Liu Jie, che sei mesi fa è finita in un campo di rieducazione subito dopo avere presentato alle autorità la proposta di abolire proprio quel tipo di detenzione che Mao riservò agli avversari politici.

l’Unità 13.7.08
Il Papa verso Sydney: pedofilia incompatibile con il sacerdozio
In Australia lo scandalo è stato molto esteso, già in corso proteste
Benedetto XVI parteciperà alla Giornata mondiale della Gioventù
di Roberto Monteforte


IL FUTURO DEL PIANETA e l’ambiente. La speranza e i giovani, ma come negli Stati Uniti, soprattutto lo scandalo degli abusi sessuali che ha coinvolto la Chiesa cattolica anche in Australia. Sono queste le sfide con le quali si misurerà Benedetto XVI da ieri in volo intercontinentale per Sydney, dove, dopo tre giorni di riposo, giovedì 17 luglio presenzierà la 23/ma edizione della Giornata Mondiale della Gioventù (Gmg). Come nella sua visita apostolica negli Usa dello scorso aprile, il Papa non eluderà il problema degli abusi sessuali, ferita ancora aperta per la Chiesa. Anzi. «Essere prete è incompatibile con gli abusi sessuali, con questo comportamento che contraddice la santità» ha scandito ieri mattina, rispondendo alle domande dei giornalisti a bordo dell’aereo papale, il Boeing 777 dell’Alitalia che da Fiumicino lo sta conducendo in Australia per il volo più lungo del suo pontificato. Benedetto XVI, come a Washington e a New York, chiederà perdono a nome della Chiesa alle vittime degli abusi sessuali commessi dai preti del «nuovo continente». Lo ha assicurato lui stesso. Negli Usa è stato «portato a parlare degli abusi per la centralità del tema in America». «In Australia sarà lo stesso». «È essenziale per la Chiesa - ha aggiunto - rappacificare, prevenire, aiutare e vedere la colpa insita in questo problema». La linea è quella della tolleranza zero. «Deve essere chiaro che il vero sacerdozio non è compatibile» con gli abusi sessuali «perché i preti sono al servizio di nostro Signore». Papa Ratzinger punta a sanare le ferite che hanno scosso la credibilità della Chiesa e che pesano ancora. Stando almeno alle iniziative di protesta preannunciate dalle associazioni delle famiglie e delle vittime degli abusi, come la «Broken Rites Australia» i cui aderenti hanno assicurato che accoglieranno il pontefice con una t-shirt con sopra stampati i 107 nomi dei preti condannati dal 1993 per aver commesso crimini sessuali.
Quella degli scandali sessuali non è la sola preoccupazione di Benedetto XVI. Anche se saranno la gioia e la speranza a contrassegnare l’appuntamento con i giovani che da tutto il mondo si sono dati appuntamento a Sydney per la Gmg, gli organizzatori prevedono 250mila presenze, il Papa ha anticipato ai giornalisti uno dei temi presenti in questa Gmg: la preoccupazione per il futuro del pianeta. «Parlare dello Spirito Santo - ha spiegato - è parlare della creazione e della nostra responsabilità nei suoi confronti». L’obiettivo della Chiesa è di «risvegliare le coscienze per rispondere a questa grande sfida e ritrovare la capacità etica di cambiare in bene la situazione dell’ambiente». Non compete alla Chiesa trovare soluzioni. Così Ratzinger chiama in causa la responsabilità della «politica e degli specialisti». Quello che, però, rilancia è l’invito a «cambiare stili di vita». Sono i temi affrontati nel suo recente messaggio ai grandi del G8 e in quello diffuso ieri per la 82a Giornata Missionaria Mondiale. «Il progresso tecnologico, quando non è finalizzato alla dignità e al bene dell’uomo, né ordinato ad uno sviluppo solidale - afferma-, perde la sua potenzialità di fattore di speranza e rischia anzi di acuire squilibri e ingiustizie già esistenti».
Tra i temi affrontati durante la conversazione con i giornalisti del volo papale vi è stato pure quello dell’ecumenismo e della difficile situazione che attraversa la Chiesa Anglicana, con minacce di scisma per la recente apertura all’ordinazione episcopale alle donne». «Il mio desiderio - ha risposto il pontefice - è che gli anglicani evitino lo scisma e trovino il cammino dell’unione. Innanzitutto pregherò. Non dobbiamo intervenire in questo momento della discussione».
L’aereo papale dopo uno scalo tecnico atterrerà a Richmond (Sydney) alle 15 ore locali. Con ben 21 ore di viaggio e 8 fusi orari da smaltire, il Papa si riposerà per tre giorni a Kenthurst, nei dintorni di Sydney. Solo giovedì, a bordo di un battello, raggiungerà Barangaroo East Darling Harbour, la grande baia di per il primo incontro con i giovani.

l’Unità 13.7.08
Della Volpe, con Marx dalla parte di Galilei
di Michele Prospero


ANNIVERSARI Quarant’anni fa moriva il più grande pensatore marxista del secondo ’900. La sua battaglia fu contro un’idea «mistica» della Ragione. Fedelissimo al Pci, da esso fu guardato con diffidenza. Oggi ne apprezziamo la straordinaria ricchezza

Quando, nei primi anni Quaranta, Galvano Della Volpe si accostò al marxismo, aveva già alle sue spalle una assai intensa e molto marcata produzione teorica. Poco italiana si potrebbe anche dire, per via della sua impronta quasi neopositivista. Non si può però in alcun modo parlare di «due» Della Volpe. Il filosofo che, dopo aver varcato i 40 anni, scoprì Marx non compì affatto una rottura con la sua ventennale riflessione. Collocò piuttosto il nucleo del suo precedente lavoro filologico-critico, mirante a rivendicare la positività dell’esperienza sensibile, nelle nuove categorie analitiche che esploravano il mondo dell’empirico sociale. Non è un caso che il suo Marx sia proprio il giovane autore della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, opera che Della Volpe lesse come depositaria più d’ogni altra del paradigma scientifico di Marx. Non è per caso che questo sia avvenuto. In fondo le istanze critiche ospitate nel manoscritto del 1843, che della Volpe tradusse e impose a lungo nel dibattito teorico, ricalcavano lo stesso tragitto intrapreso dal filosofo imolese scomparso il 13 luglio del 1968. A ispirare la radicale critica di Marx alla dialettica hegeliana comparivano infatti l’Aristotele del libro quarto della Metafisica, un certo Kant ostile al razionalismo astratto leibniziano in nome della positività del sensibile, il Feuerbach scopritore dell’oscuro sottofondo teologico della filosofia moderna dopo Cartesio. Insomma, proprio gli stessi riferimenti gnoseologici di Della Volpe (Hume e Galilei a parte). La figura di Marx non poteva che affacciarsi in lui come il compimento di una linea critica e rigorosamente laico-scientifica di interpretazione del reale.
Anche quando Della Volpe si muoveva ancora ben dentro le coordinate dell’idealismo filosofico (più di Gentile che di Croce) non mancavano affatto nelle sue pagine le sollecitazioni feconde di questa sua autentica ossessione per un uso non teologico della ragione. La sua rimostranza verso l’attualismo gentiliano concerneva proprio l’uso della nozione ambigua, e in fondo mistica, della ragione come unità o sintesi originaria degli opposti. Il programma teorico dellavolpiano di una logica come scienza positiva, annunciato negli anni cinquanta, era già impostato nei suoi pilastri essenziali in un testo fondamentale del 1941 dal titolo Critica dei principi logici. Fra l’altro qui Della Volpe faceva i conti con «il conservatore d’oggi Gentile» e la sua «laica religiosità dello spirito» che ingoiava la formula misticheggiante della verità come precostituita o pretesa unità intemporale. La logica attualistica del concreto falliva in pieno nel render conto dell’empiria o contingenza e annullava l’effettività reale nel puro pensiero pensante o uno. Il rilievo di Della Volpe era al riguardo molto radicale: «Del mero uno non ci può essere logica, ma soltanto una mistica». Dal misticismo logico, che destituiva il particolare sensibile di ogni positività, si usciva solo recuperando quella che Della Volpe chiamava «la pura, schietta singolarità e conseguente adialetticità del senso», ossia tenendo fermo il tratto, irriducibile al pensiero, del particolare molteplice assunto quale fondamento del giudizio e della storicità del reale.
Per un filosofo antidialettico come Della Volpe il neoidealismo di Croce e Gentile, proprio come quello classico di Hegel, si muoveva in un «soliloquio dell’idea» che tramutava la ragione, da forma o espressività, in autocoscienza o unità immediata di finito e infinito. Il «trascendentale» veniva cioè trasformato da momento formale in trascendenza dello spirito assoluto che annullava repentinamente il particolare, e lo degradava a mero non essere. La realtà cessava così di essere un dato in sé positivo e veniva a dissolversi supinamente nell’unità dell’autocoscienza. La diversità o reale contrarietà tra particolare e forma era poi dissolta e spacciata per contraddizione di un’idea capace di autoscindersi, esprimendo il molteplice come il mero negativo da superare. Tutta una tradizione teorica, che dall’ontologia mistica di Meister Eckhart (studiata a fondo in un testo apparso nel 1930) passando per l’Hegel romantico e mistico (così si intitola un celebre volume del 1929) perveniva fino a Croce e Gentile, si muoveva entro una dialettica senza discorso o categorialità che dissolveva il sentimento o particolare nell’Idea. E non lo assumeva nella sua irriducibile alterità. Esisteva per Della Volpe una autentica malattia platonica e romantica, che contagiava gran parte della filosofia moderna, incapace di risolvere il problema dell’esperienza o della storicità. Perché l’essere diventava pura idea o unità intemporale sovraordinata al molteplice discreto.
A questa linea platonica, contaminata dalle palesi ascendenze mistiche, Della Volpe contrapponeva un diverso tragitto. La strada che da Hume conduceva a Marx. Con la sua indagine genetica «delle idee dalle impressioni», Hume (così scriveva Della Volpe nel suo libro La filosofia dell'esperienza di Hume licenziato nel 1933) impostava uno «studio fenomenologico della mente» che accantonava l’ontologia metafisica in direzione di una «psicologia della conoscenza». Hume cioè definiva «una specie di meccanica della sfera emotiva» e proprio esplorando le emozioni, i desideri, i meccanismi naturali della psiche, egli spezzava ogni concetto ontologico di unità o sostanza. Questo lavoro demolitorio dell’antica ontologia metafisica sul piano etico mostrava ricadute enormi. E demolendo l’idea di soggetto portava Hume a definire «il primo sistema di ethica mundana-immanentistica» che poggiava sul fondamento passionale-economico dell’azione. Con la sua «filosofia sperimentale del diritto» inoltre Hume, secondo Della Volpe, ha avuto il merito di abbandonare il problema metafisico dell’inizio per esplorare le reali dinamiche della società. Spiegava Della Volpe che «con questo concetto concreto del fondamento economico della società è fugato, per la prima volta, il mitico homo oeconomicus di marca hobbesiana, l’egoista assoluto, sui cui calcoli sapienti lo stesso suo inventore non riuscì il cimentarsi della società politica, onde dovette ricorrere all’espediente estrinseco empirico di un potere assoluto». Ed è proprio su questo piano dell’indagine sociale che Della Volpe incontrava Marx che, con il suo nesso tra idee e istituzioni sociali, rigettava ogni idea metafisica di Inizio e orientava i riflettori sulla temporalità dell’esperienza intersoggettiva.
Il merito di Marx, secondo Della Volpe, era anzitutto quello di interpretare la società «come termine mediatore degli elementi», ovvero come il medium del generale (etica, cultura) e del particolare (economia, interessi). Con il suo fecondo concetto di astrazione determinata, anche Marx veniva da Della Volpe coinvolto nel grande lavoro critico ingaggiato per «sostituire una logica della ragione-intelletto, o critica, alla logica della pura ragione, o dogmatica». Ai concetti indeterminati e generici, privi di dimensioni temporali precise, Marx opponeva dei calibrati concetti funzionali, che risultavano cioè ritagliati su specifici assetti sociali. Solo modulando i concetti come funzioni era possibile schivare il rischio nefasto di quella che Della Volpe chiamava «la restaurazione acritica dell’empiria». Un greve empirismo infatti contraddistingueva per lui, in maniera puntuale, tutti i concetti pretesi «puri», intemporali. Che finivano per riempire le astrazioni, in apparenza vuote, di materiali spiccioli grezzi, non filtrati e quindi irrelati, scollegati. Perciò quello di Della Volpe rimane, a quarant’anni dalla scomparsa, il più grande e affascinante tentativo di cogliere la pregnanza del programma scientifico di Marx, assunto come passaggio essenziale del lavoro moderno di una risoluta critica della metafisica. Nessuno più di Della Volpe ha decifrato i segreti epistemologici della logica specifica dell’oggetto specifico impiantata dal pensatore di Treviri. E solo la volgarità di questi anni un po’ meschini ha potuto inserire il nome di Della Volpe tra i «redenti», che con disinvoltura passarono dal fascismo al comunismo. Il suo approdo al marxismo avvenne in realtà su un rigoroso e trasparente profilo di scientificità. E solo di questo si deve parlare.

Corriere della Sera 13.7.08
Veltroni ha invitato me e Tremonti a un incontro
Bossi: la sinistra mi cerca e io sono disponibile. Sì al dialogo sulle riforme
intervista di Gianni Santucci


D'Alema vuole recuperare lo spirito costituente: bene, si vuol portare acqua allo stesso mulino

L'intervista «Dopo le liti sulla giustizia è necessario riallacciare il dialogo sul federalismo»
Bossi: la sinistra mi cerca? Io ci sto Sulle riforme avanti senza paura
Il leader della Lega: lo scambio tra lodo e blocca-processi c'è stato, la politica è così

GALLIVARE (Svezia) — «Bisogna riallacciare il dialogo sulle riforme per il federalismo. Non è facile, visto il livello a cui sono arrivate le liti sulla giustizia. Ma è necessario. Per quest'obiettivo mi metterò al lavoro già la prossima settimana». Di segnali ne sono arrivati più di uno. Da Massimo D'Alema. Da Walter Veltroni. Messaggio chiave: ritornare al clima di inizio legislatura. Umberto Bossi raccoglie e rilancia.
L'apertura arriva da Gallivare, estremo Nord della Svezia. La Padania sta dominando il campionato di calcio per nazioni non riconosciute. Ieri quarta vittoria consecutiva. Oggi la finale. Il ministro per le Riforme alloggia nel castello- resort di Fjallnas. Segue le partite. Per pranzo una spaghettata in campeggio, tra i tifosi arrivati in camper dalla Lombardia. Di politica parla a tarda notte. Qui, vicino al Circolo polare artico, in estate non viene mai buio. Il Senatùr contempla il paesaggio e sorride: «Dal sole delle Alpi al sole di mezzanotte».
D'Alema dice che bisogna recuperare lo spirito «costituente » di inizio legislatura.
«Condivido».
Sarà possibile?
«La sinistra ha invitato me e Tremonti a uno dei suoi prossimi appuntamenti. È già un fatto positivo».
Da dove si riparte?
«Dopo il voto avevamo costruito buone relazioni. Poi il dibattito si è spostato sulla magistratura ed è saltato tutto ».
Berlusconi sarà disponibile?
«Anche lui era partito col piede giusto, con i processi si sono chiusi tutti i canali. Ma bisogna assolutamente ricominciare a parlarsi».
Quali sono le difficoltà?
«Quando si arriva a un livello di scontro come quello degli ultimi tempi è arduo trovare la chiave per riallacciare il discorso».
È fiducioso?
«Il fatto che ci abbiano invitati è già qualcosa, significa che c'è una qualche volontà di portare acqua allo stesso mulino».
Chi cercherà come interlocutore?
«Non mi tiro indietro di fronte a nessuno. Non ho alcuna paura di chi lavora per il federalismo, da qualunque parte venga».
Su che base dovrebbe riaprirsi il dialogo?
«L'importante è condividere l'obiettivo, poi si va a trattare ».
Lei però dovrà presentare il progetto di legge sul federalismo.
«Si parte dal progetto Lombardia. L'80 per cento dell'Iva e il 15 per cento dell'Irpef devono rimanere alle Regioni».
E i meccanismi di solidarietà? Qualcuno ha già bollato come impraticabile quella strada.
«In base a quelle quote bisogna sviluppare un'analisi economica e prevedere aiuti per le Regioni più deboli. Ma quando la Lombardia parla deve essere ascoltata».
Un passo indietro. Il dialogo si è rotto sulla giustizia, cosa cambia con il lodo Alfano?
«Mi sembra che ora la legge blocca-processi non si voglia più fare. La sinistra dice che è la dimostrazione che serviva solo a Berlusconi. Rispondo che le cause le affronterà comunque, più tardi. Su questo punto il Cavaliere ha ragione. È il principio che conta. Se chi governa viene coinvolto di continuo in polemiche, in parte anche giuste, diventa difficile guidare il Paese ».
Ma allora si dà ragione alla tesi dello «scambio» tra blocca-processi e lodo Alfano?
«In politica qualche scambio c'è per forza, altrimenti siamo alla guerra».
Altro elemento di polemica: le donne e il Cavaliere, dal ministro Carfagna all'annunciatrice Rai Sanjust.
«Se sei simpatico alle donne prendi più voti. La Lega riceve consensi grazie al rapporto con la sua gente. Berlusconi invece lavora di più sull'immagine, viene dalla televisione e fatalmente fa gioco su quegli ambienti e su quelle qualità».
Cosa pensa degli insulti al ministro Carfagna?
«Con lei condivido alcuni uffici del mio ministero, lo faccio volentieri. Soprattutto perché il Paese è in un momento di estremo pericolo per i conti e per l'economia. Bisogna risparmiare».
In che ambiti?
«Oggi tutti, legittimamente, hanno qualcosa da chiedere al governo. Ma non possiamo permetterci di sbracare con la spesa. Per governare in questa fase serve il pugno di ferro, e Tremonti ce l'ha».

Corriere della Sera 13.7.08
Monaco: 247 reperti delle dinastie dei faraoni, da ieri allo Spazio Ravel del Grimaldi Forum
Cimarosa: «ouverture» per Cleopatra
che, nella mostra sulle regine d'Egitto, fa la parte del leone
di Sebastiano Grazzo


Benché di origine greca, la regina d'Egitto più popolare è senz'altro Cleopatra, sia per i suoi amori (amante di Cesare e di Antonio) che per la sua fine drammatica (suicida, col morso di un'aspide, per la vittoria di Ottaviano).
La leggenda ha, poi, fatto il resto. Plutarco, Jordelle, Shakespeare, Alfieri, Shaw in letteratura; Cimarosa, Berlioz, Massenet in musica, solo per citarne qualcuno. Una notte di Cleopatra di Téophile Gautier inaugurò, addirittura, una nuova maniera di narrare (il cosiddetto «racconto archeologico»), molto seguita da altri scrittori.
Proprio con la scenografia La stanza di Cleopatra inizia il viaggio fra le regine d'Egitto, un'interessante rassegna di 247 reperti — fra statue, bassorilievi, paramenti, gioielli, tavolette d'argilla incise con caratteri cuneiformi, papiri, maschere provenienti per lo più dai musei del Cairo, Torino, Parigi, Berlino, Monaco, Londra, New York e Mosca —, aperta ieri, curata da Cristiane Ziegler, che dal 1993 al 2007 ha diretto il dipartimento di antichità egizie del Louvre.
La scenografia di Francois Payet — che, in undici ambienti, vuole sintetizzare tremila anni di storia — diventa un elemento indispensabile della mostra perché la trasforma in un set cinematografico straordinario.
Con la differenza che nella Hollywood monegasca i «pezzi» sono autentici. Solo l'atmosfera, la sua evocazione sono costruite. Quadri originali per cornici finte. Ma le cornici aiutano a capire le opere, a scandagliare storia, usi, costumi e ruolo politico delle regine, il cui titolo era loro dato dal faraone regnante:
Madre del re, Figlia del re. o Sposa del re. «L'associazione madre-figlia-sposa è stata concepita come simbolo di creazione perpetua», scrive la Ziegler.
Accanto a visi e corpi scolpiti, racchiusi nelle teche, sono stati ricostruiti luoghi rituali, in modo che il racconto del regno delle piramidi possa avere un fascino particolare, addirittura, ridare vita al lusso e alla raffinatezza in cui, nella Valle del Nilo, vivevano i faraoni e le loro famiglie.
Si spazia dalla prima dinastia (2920 a. C.), alla trentunesima (332 a. C.) per arrivare sino all'epoca tolemaica ed alla conquista romana, vale a dire al 30 a. C. In che modo sono stati ricostruiti gli ambienti? Aiutandosi con la storia, con le scoperte archeologiche e persino prendendo in prestito l'ambientazione creata per il film Cleopatra (1963) di Joseph Mankiewicz, con Elisabeth Taylor e Richard Burton.
La mostra, quindi, ha anche un aspetto, diciamo così, romanzato. Certo, fra le regine, ci sono quelle note al gran pubblico, ma ce ne sono anche di sconosciute o note solo agli addetti ai lavori, ma non per questo meno interessanti. Per esempio, l'ultima regina d'Egitto, Taousert.
Bene, ad essa si è ispirato Gautier per
Il romanzo di una mummia. Lo scenografo ha ricostruito la sala della tomba di Taousert (che si trova nella Valle dei re). Pitture alle pareti, torce che danno una luce tremula.
C'è la morte, è vero, e l'atmosfera pesante dei luoghi di culto o dove si esercitava l'autorità, ma ci sono anche i paesaggi del Nilo, le bellezze femminili, le barche di Nefertiti, Nefertari, Tiy o Hatschepsout, figure emblematiche di grande fascino.
Su tutte, comunque, domina Cleopatra — protagonista di romanzi, opere teatrali, melodrammi, spartiti musicali, dipinti, balletti persino —-, vista come donna perversa e capricciosa, ambiziosa e raffinata, enigmatica e dissoluta, seducente e esperta di ogni arte amorosa, che i romantici muteranno in una sorta di idolo, in un mito.
Sullo sfondo, i profumi orientali, simbolo e termometro di un ellenismo sempre più sfatto e decadente.
REGINE D'EGITTO Monaco, Spazio Ravel, Grimaldi Forum, sino al 10 settembre. Tel. +377/99993000.

Corriere della Sera Roma 13.7.08
Caracalla. Piace a tutti Aida giovane
di Luigi Bellingardi


Dopo la dedica ad Altiero Spinelli nel centenario della nascita, l'evocazione del manifesto europeista di Ventotene nelle parole di Renato Guarini rettore alla Sapienza e la lettura del plauso del presidente Giorgio Napolitano, si è inaugurata a Caracalla la stagione estiva del Teatro dell'Opera con la première di «Aida». Il capolavoro verdiano, allestito volutamente «senza grandi firme» e con giovani interpreti ha attirato una folla enorme e riscosso insistiti applausi anche a scena aperta. Nell'arco dell' intera serata si è sostanzialmente apprezzato l'equilibrio della direzione musicale di Antonio Pirolli, capace di far risaltare anche «en plein air» e con l'amplificazione elettronica qualche finezza degli impasti strumentali nei quadri notturni. Assieme alla buona prova dell'orchestra senza mai soverchiare gli interventi dei protagonisti di canto, si è fatto onore l'impegno del coro, ben addestrato da Andrea Giorgi. Nel bilancio artistico di questa «Aida» sono da ricordare principalmente le voci dei personaggi femminili, voci nuove e ben calate nelle loro parti, oltre all'incisivo accento verdiano di Giovanni Meoni come Amonasro. Maria Carola ha esibito una vocalità assai bella e promettente come Aida e un coerente fraseggio, specialmente vibrante nel terzo e nel quarto atto.
Nell'aderire alla controversa psicologìa di Amneris, Laura Brioli ha reso con drammatica intensità la passione che la divora. Dopo l'infausto avvio con qualche problema di intonazione, Franco Farina si è progressivamente riscattato, delineando però un Radamès più a suo agio nell'effusione sentimentale e patetica che negli atteggiamenti eroici. Decorose infine le prove di Michail Ryssov (Ramfis) e di Armando Caforio (il Re). Non poche e indovinate le originalità nell'impostazione rappresentativa grazie alla varietà di idee sciorinate da Maurizio Di Mattia che ha firmato la regìa con la funzionalità delle scene di Andrea Miglio accanto a certi innovativi spunti della coreografìa di Amedeo Amodìo, d'intesa con l'efficace gioco luci di Patrizio Maggi. Teatro esaurito, ovazioni per tutti al termine a notte fonda. Repliche con modifiche nel cast sino al 24 luglio.

Repubblica 13.3.08
Un disegno perverso autoritario e populista
di Eugenio Scalfari


È NECESSARIO parlare di giustizia, della legge Ghedini-Alfano in via di velocissima approvazione, dell´emendamento blocca-processi e del suo auspicato smantellamento, del divieto ai giornali di riferire notizie sulla fase inquirente delle inchieste giudiziarie. È necessario ribadire con forza, come ha fatto Ezio Mauro nel suo articolo di venerdì, la vergogna d´una strategia dominata dall´ossessione del "premier" di evitare a tutti i costi e con tutti i mezzi la celebrazione di un processo a suo carico per un reato assai grave (corruzione di magistrati) che non rientra nelle sue funzioni ministeriali; un reato infamante di diritto comune sottratto all´accertamento giurisdizionale con un grave "vulnus" dell´eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Tutto ciò è necessario e bene ha fatto il Partito Democratico ad opporsi con fermezza al complesso di questi atti legislativi, inaccettabili sia nel merito sia nelle procedure e nella tempistica che li hanno caratterizzati. Ma c´è un aspetto della situazione ancora più grave perché va al di là del caso specifico della denegata giustizia riguardante Silvio Berlusconi. E riguarda il mutamento in corso della Costituzione materiale.
Si sta infatti verificando dopo appena due mesi dall´insediamento del governo un massiccio spostamento di potere verso la figura del "premier" e del governo da lui guidato, un´intimidazione crescente nei confronti della magistratura inquirente e giudicante, una vera e propria confisca del controllo parlamentare di cui gli attori principali sono gli stessi presidenti delle due assemblee e la maggioranza parlamentare nel suo complesso. Non si era mai visto nei sessant´anni di storia repubblicana un Parlamento così prono di fronte al potere esecutivo che dovrebbe essere sottoposto al suo controllo.
Le Camere si sono di fatto trasformate in anticamere del governo, i loro presidenti hanno accettato senza fiatare che decreti firmati dal capo dello Stato per ragioni di urgenza fossero manomessi da emendamenti indecenti e non pertinenti, disegni di legge dei quali il capo dello Stato aveva rifiutato la decretazione per evidente mancanza dei presupposti di urgenza sono stati votati in quarantott´ore invertendo l´ordine dei lavori e l´intera agenda parlamentare.
Lo ripeto: qui non emerge soltanto l´ossessione dell´imputato Berlusconi, emerge un mutamento profondo ed estremamente pericoloso della Costituzione materiale della Repubblica, che avvia la democrazia italiana verso forme autoritarie, affievolisce l´indipendenza e lo spazio operativo dei contropoteri, mette in gioco gli istituti di garanzia a cominciare da quello essenziale della Presidenza della Repubblica.
Siamo entrati in una fase politica dominata dall´urgenza, qualche volta reale ma assai più spesso inventata e suscitata artificialmente. L´urgenza diventa emergenza, l´emergenza diventa eccezionalità. Il governo opera come se ci trovassimo in condizioni di stato d´assedio o in presenza di enormi calamità naturali; i decreti si susseguono; i testi dei provvedimenti finanziari sono approvati in nove minuti senza che nessuno dei componenti del governo ne abbia preso visione; la velocità diventa un valore in sé indipendentemente dal merito; la schedatura dei "rom" e dei loro bambini deve essere eseguita a passo di carica; tremila militari debbono affiancare trecentomila poliziotti e carabinieri per dare ai cittadini la sensazione di una minaccia incombente ed enorme e al tempo stesso la rassicurazione dell´intervento dell´Esercito per dominarla.
Questo sta avvenendo sotto gli occhi d´una pubblica opinione sbalordita, ricattata da paure inconcrete e invelenita dall´antipolitica dilagante che provvede ad infiacchirne la responsabilità sociale e il sentimento morale.
* * *
È pur vero che nell´era globale gli enti depositari a vari livelli di poteri sovrani debbono poter decidere con appropriata rapidità. La rapidità è diventata addirittura uno dei requisiti di merito delle decisioni poiché la lentocrazia non si addice alla dimensione globale dei problemi. A livello locale, nazionale, continentale, imperiale, la rapidità rappresenta un valore in sé che comporta un´autorità centralizzata ed efficiente. Il paradigma più calzante di questa forma post-moderna di democrazia presidenziale è fornito dagli Stati Uniti, dove il Presidente, direttamente eletto, fruisce di strumenti di alta sovranità e d´un apparato amministrativo che a lui direttamente si rapporta. La democrazia presidenziale cesserebbe tuttavia di esser tale se non fosse collocata in uno stato di diritto fondato sull´esistenza di poteri plurimi reciprocamente bilanciati. Il primo di tali poteri bilanciati è l´autonomia degli Stati dell´Unione, che delimita territorialmente la competenza federale.
Il secondo è il Congresso e in particolare il Senato dove il legame elettorale dei senatori con i cittadini dello Stato in cui sono stati eletti è nettamente superiore al legame verso il partito di appartenenza: partiti liquidi che hanno piuttosto le sembianze di comitati elettorali finalizzati alla selezione dei candidati piuttosto che alla custodia di ideologie e discipline partitocratiche. In queste condizioni i membri del Congresso e le sue potenti commissioni rappresentano un "countervailing power" di particolare efficacia sia nell´ambito finanziario sia nella nomina di tutti i dirigenti dell´amministrazione federale sia nei poteri d´inchiesta e di controllo che non sono affievoliti dalla labile appartenenza ai partiti.
Il terzo potere risiede nella Suprema Corte che agisce sulla base dei ricorsi intervenendo sulla giurisdizione e sulla costituzionalità.
Il quarto potere è quello della libera stampa, nella quale nessun altro potere ha mai chiesto restrizioni e vincoli speciali a tutela di istituzioni e di pubbliche personalità. Giornali e giornalisti incorrono, come tutti, nei reati contemplati dalle leggi ma non esiste alcun limite alla stampa di pubblicare notizie su qualunque argomento e qualunque persona, tanto più se si tratti di personaggi pubblici, della loro attività pubblica e dei loro comportamenti privati e privatissimi.
Questo è nelle sue grandi linee il quadro complesso della democrazia presidenziale, ulteriormente arricchito dalla pluralità delle Chiese e dalla libertà religiosa che ne consegue. Non si tratta certo d´un modello statico né di un modello privo di storture, di vizi, di grandi e grandissime magagne; tanto meno di una società ideale da imitare in tutto e per tutto. Ma configura un punto di riferimento importante nell´evoluzione di un centralismo democratico nell´ambito dello Stato di diritto e della separazione bilanciata dei poteri e dei contropoteri. Nulla di simile alla nuova Costituzione materiale verso la quale si sta involvendo la situazione italiana.
* * *
Sbaglierebbe di grosso chi ritenesse che l´involuzione del nostro sistema verso istituzioni di democrazia deformata risparmi l´economia. In realtà essa è la più esposta alle intemperie dell´interventismo pubblico e delle cosiddette politiche creative e immaginose delle quali abbiamo già fatto tristissima esperienza nel quinquennio tremontiano 2001-2006. Quelle politiche sono ritornate all´opera in un quadro internazionale ancor più complesso e preoccupante.
L´esempio che desta maggior allarme è fornito dal caso Alitalia del quale abbiamo più volte parlato e che ora sembra delinearsi in tutta la sua gravità. A quanto risulta dalle più attendibili indiscrezioni fatte filtrare direttamente dall´"advisor" Banca Intesa, si procede verso la formazione di una "nuova Alitalia" che potrebbe utilizzare l´80 per cento delle rotte di volo sul territorio nazionale e del personale di volo e di terra necessario all´esercizio di questa attività. La proprietà della nuova compagnia sarebbe interamente privata e nazionale. Essa non avrebbe più alcun debito poiché debiti, perdite, esuberi di personale sarebbero interamente trasferiti ad una "bad company" o "vecchia Alitalia" che dir si voglia, di proprietà pubblica, avviata alla liquidazione con tutti gli oneri conseguenti.
In uno schema di questo genere il maggior beneficiario è rappresentato dai proprietari di Air One, società sostanzialmente fallita che scaricherebbe i suoi debiti e le sue perdite nella "bad company" e percepirebbe quote azionarie della "new company": un salvataggio in piena regola a carico del danaro pubblico. Molti altri aspetti assai dubitabili si intravedono in questo progetto, lo sbocco del quale sarebbe una compagnia regionale del tipo della Sabena o della Swiss Air, risorte sulle ceneri di un fallimento per servire un mercato poco più che regionale. Se questo accadrà, l´opinione pubblica e i dipendenti di Alitalia avranno modo di misurare il danno che la sconsiderata condotta di Berlusconi-Tremonti ha procurato al Paese affondando la trattativa con Air France senza alcun piano alternativo e agitando lo specchietto per allodole della Compagnia di bandiera.
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Tiene ancora banco la disputa tra Tremonti e Draghi sulla "Robin Hood Tax". Nella recente riunione dell´Abi (Associazione bancaria italiana) il ministro e il governatore erano entrambi presenti e parlanti. I giornali hanno riferito in dettaglio lo scontro - peraltro assai sorvegliato nelle forme - che si è verificato tra i due, col governatore che ha battuto sulla necessità di evitare che la "Robin Tax" si traduca in un aggravio dei costi dell´energia e dell´attività bancaria e il ministro che difendeva la sua figura di difensore dei ceti deboli e di severo tassatore dei profitti speculativi. «Prima si tassavano gli operai che non potevano certo trasferire su altri le loro imposte» ha detto ad un certo punto il ministro dell´Economia guardandosi fieramente intorno come gli capita di fare quando pensa d´aver inferto un colpo dritto al petto dell´avversario.
Prima si tassavano gli operai. I lavoratori dipendenti. Certo, è così. È stato sempre così perché i lavoratori dipendenti sono stati la sola categoria sociale che ha pagato le tasse per intero, salvo dover accettare d´immergersi nel precariato del lavoro nero con tutto ciò che ne consegue sia sul piano salariale sia sulle protezioni antinfortunistiche e le provvidenze sociali. Prima si tassavano gli operai. Perché il ministro usa l´imperfetto storico? Ora non si tassano più? Al contrario: ora si tassano ancora più di prima. Basta scorrere le cifre uscite dall´Istat appena due giorni fa. Il peso dell´Irpef è in aumento e, all´interno del gettito dell´imposta personale, è in aumento l´onere dei lavoratori in genere e di quelli dipendenti in particolare. Prima si tassavano? Mai come adesso sono tassati, onorevole Tremonti ed è proprio lei a farlo. Perciò non usi l´imperfetto storico perché il tema è terribilmente presente (e futuro).
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Lo stesso Tremonti ha presentato nei giorni scorsi a Bruxelles il suo documento sull´importanza della speculazione nell´aumento dei prezzi dell´energia e delle "commodities". Avrebbe dovuto essere, nelle aspettative del ministro e dei tanti giornali che gli fanno coro, una sorta di marcia trionfale. Invece è stato un flop né poteva essere altrimenti per le tante ragioni che abbiamo elencato domenica scorsa. Le autorità europee hanno cortesemente messo in dubbio che l´aumento dei prezzi derivi dalla speculazione (la stessa osservazione ha fatto Draghi nella riunione dell´Abi sopra ricordata), hanno messo in dubbio che si possa dimostrare una collusione tra operatori e infine hanno messo in dubbio che l´Europa abbia strumenti adeguati per intervenire sul mercato delle "commodities" e del petrolio che si svolge per la maggior parte su piazze extraeuropee.
Questa storia della speculazione peste del secolo è un modo come un altro di suscitare un nemico esterno immaginario e distrarre l´attenzione da realtà assai più rilevanti e preoccupanti. Così il governo affronterà un durissimo autunno. Ora anche la Marcegaglia è "estremamente preoccupata" dal calo di produzione industriale dello scorso maggio e di quanto ancora si prevede per giugno e per i mesi successivi. Ma non lo sapeva, non lo prevedeva, non era nei segnali delle sue antenne, gentile presidente di Confindustria? Il clima era buono fino a un paio di settimane fa, diceva lei. Dunque una brutta sorpresa, un fulmine a ciel sereno? Stia più attenta, signora Marcegaglia: questa è roba seria e non ci si può impunemente distrarre.

Repubblica Roma 13.3.08
Itinerario romano sulle tracce delle opere del pittore. Un'antologia della sua pittura in mostra a Perugia E un libro lo racconta nella Città Eterna
Pinturicchio. Tour fra i capolavori di un maestro del Rinascimento
di Carlo Alberto Bucci


I suoi interventi dalla Cappella Sistina a Santa Maria del Popolo e all´Aracoeli

Infilarsi tra le colonne di turisti che, seguendo la bandierina sventolata dalla guida microfonata, attraversano in fila per uno la Città Eterna inanellando luoghi sacri e monumenti famosi. E riannodare il filo rosso - tra ori d´Oriente e prospettive classiciste - che ricuce l´arte di un piccolo gigante della pittura del Rinascimento: Bernardino di Betto, detto Pinturicchio o, come vuole l´antica-nuova dizione rilanciata dalla mostra di Perugia, prorogata fino al 31 agosto, Pintoricchio. Un pittore che va liberato dal giudizio poco lusinghiero del Vasari (lo definì «fortunato» piuttosto che «talentuoso»). E dalla coabitazione con Alex De Piero, Pintoricchio per volere dell´avvocato Agnelli che sposò così la potenza e l´eleganza del calciatore juventino.
Il tour artistico - proposto lungo le poco battute strade dell´arte del Quattrocento romano, poi asfaltate dalla quantità delle voluminose volute del Barocco ma rilanciate fino al 7 settembre dalla mostra al Museo del Corso sul XV secolo a Roma - è proposto dal nuovo libro di Claudia La Malfa. Pintoricchio. Itinerario romano, è stato pubblicato dalla Silvana Editoriale in occasione dei 550 anni dalla nascita del pittore di Perugia, spentosi a Siena nel 1513 dove era giunto a lavorare dopo i grandi successi nella città dei papi.
A voler seguire alla lettera, o alla data, le tappe indicate dalla studiosa del Warburg Istitute, si dovrà partire da Santa Maria del Popolo. Per concludere il percorso nella stessa chiesa degli agostiniani dove, intorno ai corpi di Pietro e Paolo, brilla la luce di Caravaggio. La Malfa ha ipotizzato nuove date per le opere del Pintoricchio. Liberando così la cultura antiquariale, sciorinata da Bernardino, dal magistero di Andrea Mantegna con il quale nel 1487-89 l´umbro lavorò nel Casino del Belvedere.
L´antico, secondo la La Malfa, Pintoricchio lo conosce già dal 1477 - e non nel 1490, sostiene la studiosa - quando realizza la cappella di San Girolamo in Santa Maria del Popolo, una delle rare - anche iconograficamente - Natività della pittura a Roma. E poi si passa quindi alla Galleria Borghese per l´epilogo di quella nascita, la Crocefissione del 1477 circa. Quindi, di corsa al palazzo dei Penitenzieri a Borgo, con la magnifica decorazione della Sala dei Semidei, del 1481-83 (e non 1490). Marci indietro fino al capolavoro prospettico sul Campidoglio, con gli affreschi nella cappella Bufalini. Per andare successivamente in Vaticano ad ammirare gli interventi nella Sistina (tra i familiares del Perugino, partecipò alla Circoncisione) e contemplare il ciclo degli anni Novanta, lo sfavillante appartamento di Alessandro VI Borgia, ma anche l´Incoronazione della Vergine in Pinacoteca.
Riattraversato il Tevere (magari proprio al ponte di Castel Sant´Angelo, dove dipinse perduti affreschi nella loggia della Torre), rieccoci a Santa Maria del Popolo: Bernardino organizzò, ma fece realizzare ai suoi, la decorazione, anche con grottesche mutuate dalla Domus Aurea, della cappella Basso della Rovere (circa 1484); dipinse affreschi, distrutti, nel chiostro; e nel 1510 salì sulla volta del coro per lasciare lassù l´Incoronazione della Vergine.

Repubblica 13.7.08
"Compagni, non siamo tutti uguali"
Cuba, Raul Castro archivia il mito della parità salariale
"I cittadini esigono servizi gratuiti ma concederli genera lassismo"
"Socialismo non è lo sfruttamento di chi lavora bene da parte di chi lavora male"
di Omero Ciai


Che l´eguaglianza (verso il basso) delle condizioni di vita fosse il suo vero nemico, Raul Castro l´aveva lasciato capire fin da quando, quasi due anni fa, alla fine di luglio del 2006, fu costretto dalle circostanze ad assumere la guida del socialismo cubano al posto del fratello. Ora, nel suo discorso al Parlamento dopo i primi quattro mesi da presidente legittimo, lo ha detto con assoluta chiarezza: «Non siamo tutti uguali e il sistema cubano deve cambiare». «Socialismo - ha detto Raul - significa giustizia sociale e eguaglianza, ma eguaglianza dei diritti non dei salari. La nostra eguaglianza è diventata una forma di sfruttamento: quella del bravo lavoratore da parte di quello che non lo è. «Nel mirino di Raul ci sono la grande quantità di servizi gratuiti o fortemente sussidiati (casa, telefono, luce, trasporti) che, a suo giudizio, frenano lo sviluppo e la produttività. «I cittadini esigono servizi gratuiti ma concederli ha generato lassismo e una scarsissima voglia di lavorare nella nostra società».
A Cuba, secondo Raul, «si lavora poco, si lavora sempre di meno» e per aumentare la produttività «c´è bisogno di un adeguato sistema di tasse e contributi» per sostenere i servizi gratuiti che, in parte, vanno anche eliminati o comunque ridotti. L´angoscia di Raul è la disastrosa situazione economica dell´isola che da molto tempo è costretta ad importare anche la maggioranza delle derrate alimentari che consuma. Così, la seconda parte del suo discorso ha toccato la questione del lavoro agricolo e delle campagne.
«Dobbiamo ritornare ai campi - ha detto - , bisogna lavorare la terra». Il 75% della popolazione cubana, ha osservato Raul, vive nelle aree urbane. Ma questo non vuole dire che l´altro 25% lavori la terra visto che il volume delle aree coltivate negli ultimi dieci anni s´è ridotto del 33 %. «Chi seminerà i fagioli? Chi produrrà il necessario per garantire le spese in sicurezza sociale, educazione e salute? Non dobbiamo lasciare neppure un ettaro di terra incolto se vogliamo sopravvivere».
Dopo aver concesso alcune liberalizzazioni ed eliminato numerosi divieti, dall´acquisto dei telefoni cellulari all´uso (regolato) dei computer, Raul è costretto a concentrarsi su lavoro e salari per contenere la corruzione e riattivare, fin dove può, le forze produttive. Un compito titanico per chi conosce il modus vivendi delle imprese cubane.
Insieme alla nuova battaglia contro l´egualitarismo di massa, Raul ha preso di recente altre due decisioni. La prima dovrebbe avere qualche effetto sulla penuria dei trasporti interni, la seconda ridurrà il peso del debito statale. Tornano i taxi privati che erano stati eliminati una decina di anni fa a favore di cooperative statali da cui dipendevano tutti gli autisti di Cuba. E verrà innalzata di cinque anni l´età per avere diritto alla pensione. Per gli uomini si passa da 60 ai 65 anni, per le donne dai 55 ai 60 anni.
Nonostante tutto però, la nuova leadership cubana (ma Raul insiste sul fatto che Fidel condivide tutte le nuove misure da lui prese) ha evitato finora di toccare le basi repressive del regime. Dalla libertà di stampa a quella di associazione politica, dalla possibilità di viaggiare liberamente dentro e fuori del paese all´accesso non regolato ad Internet. E qui risiede secondo l´opposizione il vero pericolo: è abbastanza inevitabile, per Raul o per chi lo seguirà, che il governo cubano cerchi un accordo, anche segreto, con la nuova amministrazione americana. Con chi sostituirà Bush alla Casa Bianca. E il timore è che un giorno non lontano gli Stati Uniti, per effetto di una realpolitik caraibica, possano approvare e sostenere questa via cinese disegnata da Raul: un capitalismo senza diritti umani né politici.

l'Unità 12.7.80
La rivisitazione
Fu il maestro invisibile del Sessantotto
di Bruno Gravagnuolo


Se ne andò quasi non visto Galvano Della Volpe. In quel luglio del 1968, nel cuore dell’anno famoso e nel vivo delle minacce sovietiche alla Primavera di Praga, la cui «legittimità socialista» il filosofo aveva difeso. Inosservato insomma, malgrado i coccodrilli di Rinascita e de l’Unità. Eppure Della Volpe era stato senz’altro il massimo pensatore marxista del dopoguerra. E uno dei massimi in Italia di quella barricata teorica nel ‘900, assieme a Labriola, a Mondolfo, di cui fu allievo, e a Gramsci, che in fondo egli non amava troppo («l’eroico Gramsci» lo chiamava però). Inoltre il paradosso era questo. Dietro le élites intellettuali del 1968 il peso di Della Volpe era evidente. Molti tra i leader giovanili di quella stagione si erano formati proprio sui suoi testi. Rompendo da sinistra col Pci, o incalzandolo, con la lezione marxiana ripristinata da Della Volpe. Dalla riscoperta dell’antagonismo reale e «non dialettico» tra capitale e lavoro, alle impostazioni democratiche e radicali del suo Rousseau e Marx. In una con la riscoperta del suo giovane Marx antihegeliano.
Dunque c’era un che di malinconico e ingiusto in quella scomparsa inosservata. Come un silenzioso passaggio di testimone senza riconoscenza. Verso un pensatore guardato con diffidenza dalla stesso Pci «storicista», al quale peraltro Galvano Della Volpe fu sempre fedelissimo. Convinto come era, specie da metà anni Sessanta in poi, che quel partito incarnasse una «socialdemocrazia dinamica». Che si muoveva nel solco di una Costituzione repubblicana «post-borghese». Basata cioè su una «emancipazione della persona» post-liberale, sorretta da eguaglianza, diritti e lavoro.
Poi per fortuna, fu la scuola dellavolpiana a riabilitarlo: Lucio Colletti, Mario Rossi, Umberto Cerroni, Nicolao Merker. E a farlo conoscere meglio ai più giovani. Che avevano cominciato a sentirne parlare nel corso di una celebre disputa del 1962 su Rinascita, dove si confrontarono la scuola «dialettica» marxista e quella «adialettica» dellavolpiana. E tuttavia in fondo, sia quel dibattito, sia la posteriore esegesi post-mortem, non potevano dar conto della straordinaria ricchezza che si celava nei pensieri di quel teorico aristocratico nato a Imola nel 1895, raffinato e persino spiritosissimo, pur nelle sue spigolosità linguistiche.
Infatti Della Volpe era tutto fuor che un algido «scientista» monotematico. Era apertissimo alle scienze umane. All’estetica. E alla sensibilità artistica. Di cui dette un magistrale canone, razionalista ma flessibile. Ovvero, l’Arte come fatto intellettuale, intessuto di «polisemia», ambiguità, storicità ed emozioni. Per questa via i contrasti storici ridiventavano «dialettici». Sotto forma di metafore, stilemi, retorica. Il che dava al fruitore il piacere della verosimiglianza fantastica (come nel famoso «verosimile filmico»). Quanto invece ai contrasti storici e alle opposizioni sociali, per Della Volpe non erano certo rigidi o immobili. E però la ragione doveva fissarli dinamicamente, senza annegarli in sintesi illusorie (da demistificare con la «critica dell’ideologia»). E lasciando alla fine campo libero alla politica, favorita dal distinto campo di scavo aperto dalla teoria. In conclusione fu un grande pensiero liberatorio quello di Della Volpe. Coerente, anche nel passaggio dal gentilianesimo al marxismo. E da un certo volontarismo materialistico e scientista - di sapore rivoluzionario conservatore - al comunismo.
In Marx Della Volpe scoprì infatti negli anni Quaranta la vera liberazione sociale e multilaterale delle facoltà umane. E delle «forze produttive». Per poi più tardi revisionare lo stesso Marx con l’idea della legalità e della libertà della persona. Dentro un socialismo democratico che purtroppo non ebbe il tempo di teorizzare per intero.