martedì 15 luglio 2008

Repubblica 15.7.08
Il silenzio davanti alle schedature etniche
di Adriano Prosperi


L´Italia che ricorda in quest´anno 2008 il settantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali è sotto accusa di razzismo per alcune misure varate dal governo attuale.
E´ inevitabile che questa situazione dia un tono particolare alla rievocazione e alla discussione di quel che accadde nel 1938. Un gruppo di scienziati italiani, ad esempio, ha sentito la necessità di ribattere punto su punto le tesi di un celebre manifesto di alcuni scienziati di allora e di affermare esplicitamente che le razze umane non esistono. Questo "manifesto degli scienziati antirazzisti" è stato presentato nei giorni scorsi nel parco toscano di San Rossore in un meeting antirazzista dedicato dal presidente della Regione Claudio Martini a una riconsacrazione laica del luogo dove settant´anni fa Vittorio Emanuele III firmò le leggi razziali. Di commemorazioni e di riparazioni simboliche dello stesso genere se ne prevedono altre. Intanto, su di un binario parallelo a quello dei riti e dei simboli si srotolano i fatti concreti di una società italiana che, pur lontana anni luce da quella di allora, viene accusata di ricadere negli stessi errori . Fra tante altre misure che dividono e discriminano la popolazione tra chi è al di sopra e chi è al di sotto di ogni sospetto ce n´è una che ha colpito in modo speciale l´opinione pubblica: il censimento delle impronte dei piccoli zingari. La storia non si ripete, certo, anche se è difficile non ricordare che alle leggi razziali si arrivò nel 1938 dopo un censimento dei cognomi ebraici. Una cosa è certa: queste misure prese in nome della sicurezza diffondono insicurezza. Si è creato un circuito perverso tra paure socialmente diffuse e ricerca politica del consenso. Chi parla di maniera forte e tolleranza zero copre l´inefficienza delle istituzioni e stimola la paura nei confronti dei gruppi marginali. Mendicanti, vagabondi, gente senza casa e senza lavoro si trasformano così nella percezione sociale in gruppi pericolosi. E´ un fenomeno antico. Come abbia segnato la storia dell´Europa e dell´Italia ce lo ha raccontato in saggi bellissimi il grande storico e uomo politico polacco Bronislaw Geremek morto improvvisamente in questi giorni, che a quella umanità diversa, perdente e ribelle ha dedicato una vita di studi. Oggi, in una situazione di crisi delle società affluenti assistiamo al riprodursi di meccanismi antichi: aumentano i gruppi di sradicati, emarginati, migranti e cresce la paura nei loro confronti. Su quella paura crescono fortune politiche mentre le relazioni sociali si spogliano rapidamente di ogni traccia di umanità. Che la stragrande maggioranza degli italiani, inclusi i membri del governo, non sia disposta a dichiararsi razzista niente toglie alla cupezza di ciò che avviene.
Qui non sono in gioco fedi razziste. E tuttavia la discriminazione su base etnica che colpisce gli zingari in Italia solleva una grande questione morale e giuridica. Minimizzarla o coprirla con una untuosa retorica paternalista , parlarne come di una misura protettiva verso gli stessi zingari significa non rendersi conto che attraverso questa misura passa una offesa alla dignità dell´individuo, alla parità dei diritti fra tutti gli esseri umani, all´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La democrazia ne è colpita in un frammento della popolazione tanto più indifeso quanto più esposto a essere ferito. E se l´offesa fatta ai bambini ci offende in modo speciale è anche perché all´origine della sensibilità morale della nostra cultura nei confronti dei bambini c´è una indimenticabile pagina dei Vangeli cristiani.
Il limpido manifesto antirazzista degli scienziati non si muove a questo livello e non può far reagire una società italiana che non si sente razzista. E´antica tra noi la coscienza della nostra realtà di paese di passo, aperto a tutte le presenze del mondo. "L´origine degli Italiani attuali risale agli stessi immigrati africani e mediorientali che costituiscono tuttora il tessuto perennemente vivo dell´Europa": lo diceva perfino il manifesto razzista del 1938 con parole che, in tempi di criminalizzazione legale dell´immigrazione clandestina e di sfruttamento bestiale dei lavoratori africani e orientali condannati alla clandestinità, sembrano venire da un altro mondo.
Resta il fatto che alla discriminazione poliziesca di quel piccolo contingente di bambini (di volta in volta definiti "pericolosi" o "in pericolo" , a seconda della franchezza o dell´ipocrisia di chi parla) si dovrà opporre un rifiuto fermo. Chi ha autorità per farlo la usi. Chi si vergogna del paese che fa questo lo dica. Nel 1938 ci fu un italiano che alla lettura delle leggi razziali esplose gridando che si vergognava di essere italiano. Si chiamava Achille Ratti ed era Papa col nome di Pio XI. (L´episodio è emerso grazie a uno studio di P. Giovanni Sale sulla "Civiltà cattolica"). Se il Papa non giunse a dichiarazioni pubbliche conseguenti e adeguate, ciò si dovette solo alla morte che lo colse di lì a poco.
Le parole di un Papa contano. Contano anche i silenzi. Qualcuno immaginerà che si voglia qui riaprire la questione del cosiddetto "silenzio" del successore di Pio XI , un altro italiano di diversa personalità: Papa Pacelli. Non è questo il punto. Si vuole solo ricordare una realtà a tutti evidente: il Papa aveva allora in Italia e sulle cose italiane uno speciale campo di azione e di governo. Lo ha ancor oggi: e non certo meno di allora. L´esercizio del diritto papale a fare politica è un dato di fatto. Che di recente l´attuale maggioranza di governo se ne sia fatta garante è piuttosto una mossa del gioco politico che una sanzione al di sopra delle parti.
Potrebbe il Papa di oggi avvertire lo stesso sentimento di vergogna del suo predecessore Pio XI? Difficile immaginarlo. Ci si vergogna per il paese a cui si appartiene, così come i bambini si vergognano per i genitori. Ma qui si pone un problema non di sentimenti bensì di atti politicamente e socialmente rilevanti. Sia l´eventuale parola del Papa sia un suo perdurante silenzio avranno il loro peso in una lacerazione della società e in un disagio che emergono oggi soprattutto dalle voci del mondo cattolico più impegnato nel volontariato e nel governo pastorale; un disagio tanto più forte quanto più vasta è l´apertura di credito fatta al nuovo governo italiano da parte delle autorità della Chiesa.
Nell´Italia del 1938 al papato guardarono con speranza gli ebrei italiani, in nome di una antichissima tradizione storica che aveva costituito il vescovo di Roma come il protettore supremo della comunità ebraica. Ebbene, anche gli zingari hanno costruito nei secoli un vincolo di tipo protettivo col pontefice. Come ha raccontato Bronislaw Geremek, gli zingari ricorsero molto spesso alla protezione papale . Si appellarono al Papa perfino per dimostrare che, se rubavano, lo facevano con un suo permesso scritto (apocrifo, naturalmente).
Anche questa è una storia tutta italiana. Ne fu protagonista quella stessa minoranza di antica presenza nella penisola che è stata vittima di recenti gravissime violenze e che oggi è nel mirino di misure legali di discriminazione. Discriminazione etnica: non diremo razziale perché le razze non esistono.

l’Unità 15.7.08
Bolzaneto: 15 condanne, nessuno in carcere
Sentenza discutibile per i pestaggi. Scatta la prescrizione per tutti gli agenti


MITE GIUSTIZIA Solo quindici condanne e trenta assoluzioni: questa la sentenza del processo ai pestaggi e le torture avvenute nella caserma di Bolzaneto, il «girone infernale» come l’hanno definito i pm, durante il G8 di Genova nel 2001 ai danni dei no global arrestati o fermati tra la notte del 21 e 22 luglio. Dopo quasi dieci ore di camera di consiglio i giudici del tribunale presieduto da Renato Delucchi hanno condannato soltanto 15 dei 45 imputati, tra ufficiali, guardie carcerarie e medici, accusati a vario titolo di abuso d’ufficio, violenza privata, falso ideologico, abuso d’autorità nei confronti di detenuti o arrestati, violazione dell’ordinamento penitenziario e della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. I pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati avevano chiesto complessivamente 76 anni, 4 mesi e 20 giorni di condanne. I giudici ne hanno inflitte in primo grado per 24 anni ma, grazie alla prescrizione, non un solo giorno di carcere verrà scontato. Alessandro Perugini, il vice dirigente della Digos di Genova, è stato condannato a 2 anni e 4 mesi (ne erano stati chiesti 3 e mezzo), stessa pena inflitta alla vicequestore Anna Poggi. Daniela Maida, ispettore superiore ad 1 anno e 6 mesi di reclusione; Antonello Gaetano, a 1 anno e 3 mesi, gli ispettori della polizia di Stato Matilde Arecco, Natale Parisi, Mario Turco e Paolo Ubaldi ad 1 anno di reclusione ciascuno. Massimo Luigi Pigozzi, assistente capo della polizia di Stato a 3 anni e 2 mesi di reclusione; Barbara Amadei a 9 mesi, Alfredo Incoronato a 1 anno, Giuliano Patrizi a 5 mesi.
Sono inoltre stati condannati i medici Giacomo Toccafondi, responsabile organizzativo dell’infermeria, ad 1 anno e 2 mesi di reclusione e Aldo Amenta a 10 mesi. La condanna più alta è stata inflitta a Antonio Gugliotta, l’ispettore di Pg, responsabile della caserma Bolzaneto, che molte delle vittime hanno indicato come il picchiatore con il manganello: 5 anni di reclusione. I giudici hanno disposto l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, ma non hanno riconosciuto le accuse di abuso d’ufficio, di falso e di tortura, mentre hanno riconosciuto l’abuso di autorità su persone in carcere.
I pm, nella loro lunga requisitoria hanno sostenuto che nella «caserma di Bolzaneto furono inflitte alle persone fermate almeno quattro delle cinque tecniche di interrogatorio che, secondo la Corte Europea sui diritti dell’uomo, chiamata a pronunciarsi sulla repressione dei tumulti in Irlanda negli Anni Settanta, configurano “trattamenti inumani e degradanti”». «Nella sostanza l’accusa di abuso d’autorità è stato riconosciuta. Inoltre è stata riconosciuta la responsabilità di diversi imputati», ha commentato il pm Miniati. «È stato riconosciuto - ha spiegato - che qualcosa di grave nella caserma di Bolzaneto è successo». Questo il punto sottolineato anche dall’eurodeputato di «Sinistra Europea» Vittorio Agnoletto: «È una sentenza contraddittoria ma, per la prima volta, in un’aula di tribunale è stato stabilito che quanto dichiarato dalle vittime massacrate a Bolzaneto e da sempre sostenuto dal movimento corrisponde alla verità. Ed infatti a tutte le vittime è stato riconosciuto il diritto al risarcimento». I reati saranno tutti prescritti nel 2009, ma le parti civili potranno chiedere un risarcimento o ottenere già oggi una provvisionale, chiesta da tutti i loro legali.m.ze.

l’Unità 15.7.08
Nelle 600 pagine della requisitoria i pm hanno ricostruito l’orrore di quei due giorni di luglio del 2001
Calci, sevizie e umiliazioni: «Scene da tortura cilena»
di Maria Zegarelli


L’orrore. Due notti di violenze, soprusi, insulti. Due notti di codice di procedura penale sparito dagli uffici di polizia giudiziaria e penitenziaria, di televisioni di tutto il mondo che mandano in onda le immagini della «macelleria messicana» prima e delle «carceri cilene», poi. Genova, G8 2001. Quello che si è concluso ieri presso l’aula bunker del Tribunale della città di Colombo, è il processo - insieme a quello che è arrivato alla requisitoria dei pubblici ministeri sui fatti della scuola Diaz - che vede sul banco degli imputati alti dirigenti di polizia accusati di aver messo da parte il rispetto dei diritti umani certi di farla franca.
I fatti contestati ai funzionari e agli agenti condannati avvennero nella Caserma di Bolzaneto, dal 20 al 22 luglio di sette anni fa, dove furono trasferiti i no global fermati. Molti di loro furono prelevati dalla scuola Diaz, durante la notte di venerdì 20, dopo un’irruzione sanguinosa.
Diaz e Bolzaneto. La scuola e il carcere. Un unico filo comune: la violenza. I due pubblici ministeri durante la requisitoria, 1000 pagine, hanno ripercorso, grazie alle testimonianze delle vittime, le ore di detenzione presso la caserma, dove furono portati 55 «fermati» e 252 «arrestati». «Trattamenti inumani e degradanti», hanno detto i pm.
Giovani uomini e giovani donne costretti a stare per ore in piedi, a gambe larghe, o in ginocchio, con la faccia sul muro. Vessati. Insultati. Senza cibo né acqua. Donne costrette a togliersi piercing vaginali davanti ad uomini. Uomini picchiati con manganelli, presi a calci e pugni. Spray urticanti spruzzati in faccia. Schiaffi. Sputi. Persone costrette ad inneggiare al Duce, a deridere leader della sinistra. Filastrocche: «1-2-3, viva Pinochet. 4-5-6 a morte gli ebrei». Agenti penitenziari, poliziotti, uomini di legge, che si trasformano in aguzzini, torturatori. Che non saranno mai chiamati a rispondere dell’accusa di tortura, perché, dice la pm Patrizia Petruzziello «il nostro Paese non lo prevede». Eppure, «abbiamo visto che la tortura è stata molto vicina a Bolzaneto, si sono verificate una serie di sofferenze fisiche e morali continuate, dettate da due dei peggiori fini che la dottrina indica nei comportamenti disumani e degradanti: il fine di intimidazione e costrizione e quello di discriminazione». La difesa ha cercato di dimostrare che quanto avvenne in quei giorni fu solo il frutto di un «disastro organizzativo», di una catena di comando andata in tilt.
«I livelli di vertice di Bolzaneto erano ufficiali di Polizia giudiziaria e avevano il dovere di impedire la commissione di reato, erano anche responsabili dell’incolumità delle persone in stato di custodia, avevano l’obbligo di impedire che si verificassero o che continuassero a verificarsi. Si è verificato un mancato doveroso intervento per impedire le azioni criminose», anzi, ha detto la pm, si è fatto in modo che le violenze si commettessero, convinti e protetti dalla «certezze di impunità».
Iniziali di nomi e cognomi, verbali di interrogatorio e testimonianze, racconti che poco hanno a che vedere con l’abuso di ufficio che è stato contestato agli imputati. Racconta M.G. che il sabato venne percosso selvaggiamente. Ebbe un malore. Cadde a terra. Arrivarono altri calci e sputi. Poi, gli agenti lo costrinsero a mettersi nudo a quattro zampe. Gli strizzarono i testicoli. Carcere di Bolzaneto, Italia, 2001. E ancora: M. A. stava in cella. Fu raggiunto dagli agenti: calci nei talloni e pugni nei fianchi. Fu costretto a ripetere la filastrocca su Pinochet. H.J. invece fu picchiato con una cinghia, in corridoio. A. G. arrivò a Bolzaneto nel tardo pomeriggio di venerdì. Un agente gli squarciò una mano, lo portarono in infermeria e mentre lo cucivano, senza anestetico gli diedero uno straccio da mettersi in bocca, per non urlare. Seicento pagine di requisitoria, centinaia di episodi di questo tenore.

l’Unità 15.7.08
Neolaureati e insegnamento
di Giuno Luzzatto


Nessun nuovo laureato potrà divenire insegnante? Giustamente, Michele Ciliberto (l’Unità del 12 luglio) parla di "fine dello stupore" nel rilevare la sostanziale debolezza delle reazioni a quanto il Decreto finanziario prevede ai danni dell’Università. Aggiungo che vi è addirittura silenzio in merito a quanto rischia di accadere a danno dei giovani che si sono posti la prospettiva di un futuro lavoro quali insegnanti.
Il Governo precedente aveva bloccato le "graduatorie" in cui si trovano gli attuali abilitati all’insegnamento, quasi tutti con anni di supplenze alle spalle; queste avrebbero dovuto progressivamente esaurirsi, e il ripristino di un sistema concorsuale, aperto ai nuovi abilitati, avrebbe costituito lo strumento per un reclutamento di giovani. È noto, infatti, che l’età avanzata degli insegnanti italiani, sia al momento dell’ingresso in ruolo sia come anzianità media, realizza il meno invidiabile tra i record europei.
Il nuovo Governo vuole ora ridurre drasticamente l’organico dei docenti; le prossime assunzioni saranno molte meno di quelle prevedibili sulla base dei pensionamenti. La Ministra Gelmini, in numerose dichiarazioni, ha ritenuto di trarne la seguente conseguenza: poiché rallenta l’assorbimento delle "graduatorie", non occorre che vengano preparati nuovi insegnanti. Per la fascia secondaria (inferiore -scuola media- e superiore) lo strumento attraverso il quale avviene tale preparazione sono le Scuole universitarie di Specializzazione SSIS; la Ministra non firma perciò il Decreto che costituisce l’ultimo passaggio burocratico necessario per attivare tali Scuole nel prossimo autunno.
Tecnicamente, si tratta di un atto dovuto. Da un lato, infatti, le Università, sulla base di provvedimenti ministeriali, hanno già compiuto tutti i passaggi precedenti, impegnando anche risorse; d’altro lato molti dei recenti laureati hanno costruito il loro piano di studi proprio con gli insegnamenti che, sempre sulla base di formali Decreti, sono prescritti ai fini della presentazione al concorso di accesso alle SSIS. Per coprirsi giuridicamente, il Ministero ha tentato allora di inserire nel Decreto finanziario un emendamento che sancisce tale mancata attivazione; giovedì scorso, la Presidenza delle Commissioni della Camera che esaminano il Decreto ha però dichiarato inammissibile l’emendamento. Non si può pertanto prevedere, al momento, quale sarà la conclusione della vicenda.
Essa è comunque drammaticamente indicativa della fase politico-sociale nella quale ci troviamo.
La maggioranza proclama, a parole, di volere una pubblica amministrazione basata sul merito anziché sull’anzianità ma opera, di fatto, per escludere intere generazioni di nuovi laureati dalla possibilità di competere, in pubblici concorsi, per far valere la propria preparazione; anzi, vuole addirittura -per chiudere il discorso già in partenza- che a tale preparazione non si dia corso. L’opposizione dedica alla questione una attenzione insufficiente, come spesso accade quando gli interessi in gioco non sono quelli di categorie consolidate bensì quelli generali o quelli di gruppi ancora "virtuali": in questo caso, i giovani che vorrebbero iniziare il percorso per divenire insegnanti. Quanto a questi ultimi, l’assenza di una protesta diffusa e organizzata è sconcertante: i concorrenti all’accesso erano ogni anno oltre ventimila, gli accolti più della metà, ma gli attuali neo-laureati che al momento trovano le porte chiuse tacciono.
Tacciono anche i loro professori, e al proposito voglio tornare -con riferimento all’intervento di Ciliberto citato all’inizio- alla problematica universitaria complessiva. Lo scoraggiamento della parte più impegnata, scientificamente e politicamente, del mondo accademico ha molte cause: tra queste, inutile negarlo, una forte delusione per quanto il precedente Governo ha fatto (o non fatto) nel suo biennio di vita, nonché la percezione di una scarsa attenzione, quando non di una diffidenza, da parte della pubblica opinione. Vi è chi se la prende con lo scandalismo dei media, e proclama che i casi dei nepotismi e della predominanza di interessi professionali personali rispetto ai doveri universitari sono minoritari; probabilmente è vero, ma al riguardo dovremmo fare una durissima autocritica.
Uso questo plurale per parlare di quella parte del corpo docente che è impegnata, che fa ricerca spesso degna di riconoscimenti internazionali, che sta dando l’anima per trasformare "a misura di studente" una didattica che fino a pochi anni fa espelleva i due terzi degli iscritti: ebbene, che cosa abbiamo fatto per far emergere la differenza tra le due Università, quella di chi lavora al fine di far crescere l’istituzione e quella di chi lavora altrove, utilizzando l’istituzione ai fini propri, o non lavora affatto? Se non si isolano le mele marce della cesta, il contatto con esse può far marcire la cesta intera; e se anche ciò non accade, chi le vede sospetta che siano marce anche quelle buone.
È oggettivamente sicuro che nella "società della conoscenza" il definanziamento di università e ricerca comporterà per il Paese un sempre maggiore declino. Ma il definanziamento continuerà se non saremo capaci di convincere il Paese stesso che nelle strutture preposte a tali settori vi è non solo qualità, ma anche etica professionale.

l’Unità 15.7.08
Italia 2008, Odissea nella cocaina
di Luigi Cancrini


Tre anni sono passati da quando si è deciso di intervenire con nuovo impeto contro l’uso delle sostanze stupefacenti. I provvedimenti legali ed amministrativi resi più severi dalla legge Fini-Giovanardi non hanno determinato modificazioni rilevanti, tuttavia, ad un fenomeno che continua ad ampliarsi sotto gli occhi di tutti. Quella cui bisognerebbe saper rinunciare, in questa situazione, è una cultura della prevenzione basata sul terrorismo psicologico (una delle stupidaggini più ripetute è quella della cocaina che "brucia" il cervello) e sulla minaccia delle sanzioni. Sempre di più, mentre gli anni passano, l’esperienza insegna, d’altra parte, che le grida sulla necessità di una "tolleranza zero" nascondono l’insicurezza profonda di personaggi che hanno una loro specifica difficoltà a confrontarsi con la complessità del reale. C’è qualche cosa di disarmante nella ingenuità o nella malafede dei politici che continuano a parlare dell’emergenza droga e che votano compatti leggi con le quali, bloccando ancora una volta il turnover del personale(che se ne va e non può essere sostituito ormai da molti anni determinando un impoverimento progressivo di organici già deboli), si impedisce ai servizi di impostare dei programmi realistici di cura e di prevenzione. Quella di cui ci sarebbe bisogno, in realtà, è una grande mobilitazione delle coscienze sul tema fondamentale di una ecologia della mente dell’uomo, un tentativo serio di uscire dalla aridità di un pensiero unico ossessivamente centrato sulla competizione e sul mito dell’individuo che deve bastare a sé stesso. Tenendo conto, in particolare, del modo terribilmente naturale con cui l’uso della cocaina si lega, in tanti settori della nostra società al mito delle persone che si considerano (e spesso sono considerate) "vincenti, coraggiose e forti". Proponendo il problema della cocaina in termini più di doping sociale che di consolazione pericolosa per i più deboli.
La terapia.
Com’era naturale che fosse, la presenza ampia di cocaina a basso costo sul mercato della droga considerato nel suo complesso ha determinato una diffusione dell’uso di cocaina (e, in misura minore, di crack o di PBC) anche fra i tossicomani che dipendevano da altre sostanze. Nei casi in cui viene diffusa fra persone che erano già tossicodipendenti, nel mondo proprio dell’emarginazione e della devianza, la cocaina non cambia di molto però la loro situazione e non propone problemi nuovi dal punto di vista di una terapia che resta quella centrata sulle attività di riduzione del danno (i farmaci "sostitutivi") e di psicoterapia personale e famigliare in progetti che includono, abitualmente, la permanenza in Comunità Terapeutica. Quello che va considerato come un problema particolare e diverso, invece, è il problema dei cocainomani "puri": persone che abusano pericolosamente di cocaina e che, con ragionamenti diversi, non si identificano nella figura del drogato. L’uso e l’abuso di cocaina possono restare a lungo compatibili, infatti, con una vita apparentemente normale in cui l’identità del consumatore di cocaina convive con altre identità sociali: di lavoratore o di studente, di padre di famiglia o di figlio, di persona socialmente attiva e apprezzata. Fino al momento in cui una rottura si determina legata ai problemi economici (i soldi non bastano più, la banca non fa più credito, qualcuno in ufficio o a casa scopre dei furti o degli imbrogli) o affettivi e sentimentali (l’uso eccessivo di cocaina rende irritabili, collerici, insostenibili persone che sembrano non accorgersi più di quelli che vivono accanto a loro).
Il problema fondamentale della cura, in tutti questi casi, è quello legato allo sviluppo di una consapevolezza della propria condizione. Negando di essere un "drogato", il cocainomane continua a credere e a giurare di essere in grado di controllare l’uso della sostanza e deve essere contrastato con forza da chi vuole davvero aiutarlo. All’interno di un programma sperimentale portato avanti da Saman in diverse città italiane, quello che abbiamo potuto verificare direttamente in questi anni è che un trattamento capace di coinvolgere in questa attività di contrasto (che deve essere insieme ferma ed affettuosa) genitori e fratelli, mogli o mariti e, alle volte, i figli è assai più efficace di qualsiasi altro tentativo di ordine farmacologico per mettere in crisi il falso Sé di una persona che sta male ma non è (ancora) in grado di ammetterlo. Aiutandola ad accettare, nei casi più gravi, brevi periodi di Comunità Terapeutica ma aiutandola comunque, anche nei casi in cui la Comunità non è necessaria, a recuperare una valutazione più realistica della sua situazione e dell’impatto che la sua abitudine ha con la realtà della sua vita e dei suoi affetti. Con risultati importanti in percentuali di casi assai significative (e superiori comunque al 60%) perché quello su cui si può contare quando si lavora con queste persone è un bagaglio importante di esperienze e di competenze: acquisite prima di entrare in rapporto con la sostanza, fondamentali per la fase, assai più difficile con i tossicomani marginali, del reinserimento.
Dove ci troviamo oggi. Il programma di Saman è un programma proposto nell’ambito di quel privato sociale che tanto ha dato, negli ultimi 30 anni, allo sviluppo di un sistema di cure per le tossicodipendenze che si è lentamente sviluppato nel nostro paese e che è stato considerato, alla fine degli anni 90, come uno dei più avanzati del mondo. Quello che purtroppo non è facile far capire ai politici nazionali e regionali oggi è il modo in cui l’enfasi posta su inutili discussioni di principio (quando ci si terrorizza dello spinello o si sparano battute sulla tolleranza zero) ha corrisposto, nei fatti, ad una negligenza grave e spesso dolorosamente bipartisan nei confronti dei servizi pubblici (resi sempre più deboli dalla mancanza dei finanziamenti e delle idee) e del privato sociale (costretti ad indebitarsi per sopravvivere di fronte ai ritardi cronici dei pagamenti). Diminuendo progressivamente il numero degli operatori impiegati in questo settore: uno ogni 12 utenti nel 1996, uno ogni 24 oggi stando alla relazione di Giovanardi dell’altro ieri.
La realtà cui ci troviamo di fronte nei fatti è quella di uno Stato che spende per la repressione cifre molto più alte di quelle dedicate alla cura (due miliardi e ottocentomila euro contro un miliardo e ottocentomila euro secondo l’ultima relazione del governo, di un Parlamento in cui si discute delle tossicodipendenze in termini etici e di principio (i controlli sui parlamentari) dimenticando (in un silenzio bipartisan quasi assordante) la gravità della situazione drammatica in cui si trova il paese (l’Italia) che è oggi il centro più importante dei traffici di cocaina in tutto il mondo e di un insieme di Regioni che non hanno ancora recepito neppure le indicazioni dell’accordo firmato con il Governo nel 1999: nascondendo dietro la crisi gridata di una sanità (che tanti soldi regala alla corruzione delle case di cura private, dei medici e dei politici locali) la loro incapacità (o non volontà) di dare al problema delle dipendenze patologiche il rilievo che meriterebbe di avere. La sfida proposta dalla cocaina è, da questo punto di vista, una sfida cui i politici italiani non hanno saputo dedicare finora neppure una discussione seria su quello che si potrebbe o si dovrebbe fare. Dando un ulteriore contributo a quel sentimento di inutilità e di distanza delle istituzioni dai problemi dei cittadini che è la malattia più grave, a mio avviso, di questo nostro povero paese.
(fine. La prima puntata è stata pubblicata il 6 luglio scorso)

l’Unità Firenze 15.7.08
A Palazzo Vecchio prove di larghe intese sulla sicurezza
Sul nuovo regolamento di polizia municipale aperture di An
e Forza Italia. L’opposizione di sinistra rischia l’isolamento
di Tommaso Galgani


È SULLA SICUREZZA che arrivano convergenze tra la destra e il Pd a Palazzo Vecchio. Con la sinistra che rischia di finire con le spalle al muro. In particolare, le larghe intese bipartisan si registrano sul fronte del nuovo regolamento della polizia municipale. Ieri mattina l’assessore Graziano Cioni ha infatti incassato una netta apertura nell’incontro coi gruppi del l’opposizione. «Noi lo dicevamo da anni che il regolamento andava aggiornato. Bene ha fatto Cioni a muoversi in questa direzione», ha detto la capogruppo di Forza Italia Bianca Maria Giocoli. Che invita l’assessore ad accelerare: «Il nuovo regolamento arrivi al più presto alla discussione in consiglio comunale». I rilievi mossi ieri dal gruppo di Forza Italia auspicano un ulteriore giro di vite sul fronte graffitari e prostituzione. «Comunque la versa sfida per amministrazione e polizia municipale sarà quella di rendere applicabili le norme», specifica il consigliere Massimo Pieri di Fi. «Siamo d’accordo con la filosofia del nuovo regolamento, ma siamo scettici sulla sua applicabilità. Proporremo alcuni emendamenti e vedremo poi se in consiglio votarlo a meno», è la posizione di Alleanza Nazionale riassunta dal consigliere Stefano Alessandri.
Intanto Cioni ha fatto sapere che in consiglio il nuovo regolamento arriverà giovedì 24, prima della pausa estiva dei lavori, e dopo sarà inviato a casa dei fiorentini e tradotto nelle principali lingue straniere. «Si tratta di un regolamento che riscrive le regole alla base della convivenza di chi vive a Firenze ma anche di chi vi lavora o la visita. Per questo abbiamo deciso di trovare la massima condivisione possibile organizzando consultazioni ampie. Ben vengano le aperture della destra». Il percorso ha visto incontri con commissioni consiliari, consigli di quartiere, gruppi consiliari di maggioranza e opposizione, ma anche Cgil, Cisl e Uil, le associazioni di categoria, i tassisti, e il consiglio degli stranieri. L’assessore Cioni ha incontrato anche il mondo del volontariato (la consulta e il comitato di partecipazione) e alcuni gruppi di giovani.
E la sinistra? Unaltracittà e Rifondazione hanno ribadito che «un testo così complesso va discusso senza il limite del 24 luglio», mentre Verdi, Ps e Pdci non intendono alzare barricate sul progetto di Cioni. Sd invece presenterà emendamenti di carattere sociale. Oggi ne discuteranno insieme al seminario di Palazzo Vecchio, promosso dalla sinistra, “Insicurezza percepita e problemi reali di sicurezza”.

l’Unità Firenze 15.7.08
Congressi, vincono falce e martello
In Toscana prevale in Prc la mozione Ferrero e nel Pdci quella Diliberto: più lontana la costituente di sinistra
di Tommaso Galgani


FALCE E MARTELLO la fanno da padroni ai congressi toscani di Prc e Pdci. La conseguenza è la bocciatura dell’apertura di una costituente tra i partiti della si-
nistra. Tra i Verdi in regione a vincere è invece il Gruppo toscano che si appoggia sul consigliere regionale Fabio Roggiolani.
A Chianciano tra meno di due settimane avrà luogo il congresso nazionale di Prc. I dati dei congressi provinciali parlano di una vittoria per la mozione di Paolo Ferrero, che vuole partire da un rafforzamento del partito e solo dopo ragionare nell’ottica di un’unità a sinistra. In Toscana i circa 10mila iscritti per ora si sono espressi così: mozione 1 (Ferrero) al 44%, mozione 2 (firmata da Nichi Vendola e Fausto Bertinotti, in un’accelerata vesro la costituente di sinistra) al 37%, mozione 3 al 14%. mozione 4 al 3%, mozione 5 al 2%. Da più parti si parla di rischio scissioni, ma Anna Nocentini (consigliere comunale fiorentina e sostenitrice di Ferrero) smentisce: «A Firenze solo la mozione con minor voti non ha sottoscritto un documento unitario su cosa dovrà essere il partito: di certo, un partito che non ha nessuna voglia di sciogliersi».
Ma domenica si sono chiusi in Toscana anche i congressi provinciali del Pdci, con l’affermazione della mozione di Diliberto. Per la prima volta dalla sua fondazione nel PdCI si confrontavano due mozioni. Una di stampo neocomunista, primo firmatario il segretario Oliviero Diliberto - con lui, fra gli altri, anche Marco Rizzo, Manuela Palermi e il segretario regionale Nino Frosini - con obiettivo dichiarato l'unità dei comunisti a partire da Rifondazione Comunista. L'altra mozione, che registra fra i firmatari l'ex ministra Katia Bellillo, l'astronauta italiano Umberto Guidoni e fra i toscani Marco Montemagni, consigliere regionale, tende invece a proporre un partito unico della sinistra, un pò sullo stile dell'esperienza della Sinistra Arcobaleno. Il responso è stato nettamente a favore della mozione proponente il rilancio dell'unità dei comunisti. Infatti su 42 delegati spettanti alla Toscana, che parteciperanno al congresso nazionale del partito in svolgimento a Salsomaggiore il prossimo fine settimana, 38 sono a favore della mozione 1 (Diliberto) mentre sono 4 i delegati «arcobalenisti» che sostengono la mozione 2 (Bellillo). Marco Montemagni, sostenitore della mozione «arcobalenista», non è rientrato nel gruppo dei delegati per la mozione 2 che andranno a Salsomaggiore. Tuttavia Luca Pettini, consigilere comun ale fiorentino di Pdci e sostenitore della mozione 2, ricorda che «abbiamo vinto a Sesto, a Fiesole, nel Chianti, a Borgo San Lorenzo. Purtroppo siamo stati penalizzati da un criterio di ripartizone imposto dalla segreteria».
Se Sd e Ps hanno già affrontato i congressi estivi, i Verdi tra una settimana saranno achianciano per il congresso nazionale: il Gruppo toscano che appoggia Roggiolani se la vedrà con le mozioni di Marco Boato e del segretario uscente Alfonso Pecoraro Scanio.

Repubblica 15.7.08
Prc, guerra di numeri tra Vendola e Ferrero


ROMA -«La linea Vendola è stata sconfitta» dice Paolo Ferrero presentando i risultati della conta nel partito della Rifondazione comunista. «Abbiamo vinto, invece», ribatte Franco Giordano l´ex segretario che appoggia la proposta di «costituente della sinistra» del governatore della Puglia. Dopo la battaglia sul tesseramento gonfiato e le votazioni annullate, è guerra delle cifre in vista del congresso di Chianciano del 24 luglio che si apre in una situazione di stallo. Per Ferrero la mozione uno, la sua, ha il 41,1%, quella di Vendola il 46,5%, il resto è diviso tra le tre liste alleate con Ferrero. La conclusione dell´ex ministro è lapidaria: «La linea della costituente della sinistra è stata bocciata dalla base del partito».
«E´ vero il contrario – ribatte Giordano – quella di Vendola è la mozione più votata, nonostante i voti che ci sono stati ingiustamente tolti. La nostra proposta ha più consensi nella base». La verità è che saranno i patti che si faranno al congresso a decidere il nuovo segretario. Trattative tra le correnti sono in corso da giorni, da quando è stata stabilita una tregua e la commissione elettorale ha smesso di bocciare i congressi di circolo.

il Riformista 15.7.08
Eutanasia, lasciare le cose come stanno?
Ma la legge prevede 15 anni di carcere
Sulla questione non ci si può girare ancora dall'altra parte
di Marco Cappato


Caro direttore, quindici anni di carcere. Ecco la prima cosa che hanno in comune le storie che girano intorno alla parola «eutanasia», se con questa intendiamo non un concetto giuridico (che infatti non è mai menzionato dal nostro ordinamento), ma la scelta di una «buona morte». I quindici anni di carcere per omicidio del consenziente sono la minaccia che pende su tutti coloro - medici, familiari, amici, nemici - che "aiutano" quelle persone. La seconda cosa che hanno in comune quelle storie sono le scelte, drammatiche, che investono sempre più le fasi finali (sempre più lunghe della vita), indipendentemente dalla «tecnica» necessaria per realizzarle.
Lei, direttore, vuole lasciare le cose come stanno. Dopotutto, si potrebbe dire, Piergiorgio Welby ha ottenuto di interrompere le terapie; Beppino Englaro è stato autorizzato a interrompere l'alimentazione di Eluana; una signora a Modena ha nominato un amministratore di sostegno che ha impedito la tracheotomia necessaria per farla vivere contro la propria volontà; Giovanni Nuvoli ha ottenuto di essere lasciato morire. E chi invece vuole vivere può - sanità permettendo - vivere.
Lasciamo le cose così, dunque? No. No, perché il radicale Welby ha mosso il mondo per tre mesi prima di trovare un medico (su 400 mila in Italia) disposto ad aiutarlo, e quel medico ha aspettato un anno prima di uscire innocente dalle aule dei tribunali, mentre se avessero agito i medici belgi pronti a somministrare una dose letale, sarebbero stati condannati al carcere; no, perché Beppino Englaro di anni ne ha aspettati sedici, e se si fosse mosso prima avrebbe rischiato quindici anni di carcere; no, perché la signora di Modena ha avuto la fortuna di trovare un magistrato pronto e sensibile, altrimenti ora avrebbe un tubo non voluto in gola; no, perché Giovanni Nuvoli si è dovuto uccidere da solo autosospendendosi cibo e acqua per otto giorni visto che i carabinieri avevano fermato l'anestesista radicale Tommaso Ciacca, il quale affrontava il rischio di... quindici anni di carcere!
Caro direttore, lei ha scritto che la scelta della madre malata che si toglie la vita è individuale e «tragicamente libera». E precisa: «Quando il malato è ancora in grado di fare da sé». Ma quando non è in grado di fare da sé? Davvero lei vorrebbe far dipendere tutto dal fatto che la persona ha ancora in sé un briciolo di energie per suicidarsi? Distinguere è bene, certo. Distinguere tra interruzione delle terapie, testamento biologico, suicidio assistito, suicidio, e le altre categorie che si possono individuare. Alla base di queste scelte c'è però il dovere, per lo Stato, di distinguere soprattutto tra una scelta libera e responsabile e una imposizione (di vita o di morte che sia) subita da altri: che siano medici ideologizzati o parenti ingordi. Da una parte c'è la «buona morte», dall'altra c'è l'eutanasia clandestina, l'omicidio o l'accanimento tecno-sanitario. Distinguere per legge non è «burocratico», ma è necessario per proteggere il cittadino da violenze, da suicidi di disperazione, da «cattive morti» che un aiuto della legge e dello Stato potrebbe trasformare sia in vite decenti che in buone morti, o «morti opportune», come le chiamava, con Jacques Pohier, Piero Welby.
Proprio come lei, la legge italiana oggi non distingue sulla base della scelta (se è libera o no), ma sulla «tecnica». Se il medico di Welby avesse usato qualche milligrammo in più di anestetico, sarebbe diventato un omicida. Se con Nuvoli un farmaco letale avesse interrotto la sua agonia di fame e di sete, sarebbe stato un omicidio, così come se qualcuno ritenesse che quella di Eluana ora non debba essere trasformata in «agonia dell'agonia», con lunghi giorni di tifoserie politico-religiose, ma medicalmente terminata in pochi attimi (dopo sedici lunghi anni).
Direttore, scrivere che «nessuna legge umana può regolare la morte», e al tempo stesso chiedere che «le cose restino come stanno», è semplicemente contraddittorio. Le leggi già ci sono: sono cattive leggi delle cattive morti, che ammettono eccezioni soltanto da parte di persone particolarmente preparate, agguerrite o fortunate. Ecco perché le buone leggi servono, e non ci si può girare dall'altra parte.
segretario Associazione Coscioni e deputato europeo radicale

Corriere della Sera 15.7.08
Vengono costantemente violate le indicazioni e le direttive dell'Organizzazione mondiale della sanità
La scelta Si continua a combattere la sofferenza con farmaci «leggeri» anziché usare i più efficaci derivati dall'oppio
Lotta al dolore: l'Italia è ultima
di Mario Pappagallo


Se ogni anno in Italia 90 mila malati terminali non vengono curati, o lo sono parzialmente, per la sofferenza fisica (22 milioni di dosi di morfina annui bastano per curarne 60 mila su 150 mila), ancor peggio è la situazione per quei 10-15 milioni di italiani che soffrono di dolore cronico non causato da tumori. Mal di schiena al primo posto. Un classico. La mattina ci si sveglia senza riuscire a muoversi, anzi a distendere la schiena. Fitte atroci, piegati dal dolore. Telefonata in ufficio per avvertire dell'assenza: «Colpo della strega». Poi al medico di base. Un antinfiammatorio prescritto al telefono. Poi tutto passa... Le cause possono essere diverse, ma si calcola che almeno il 90 per cento della popolazione mondiale almeno una volta nella vita abbia provato questa lancinante sofferenza. E 9 volte su dieci passa da solo nel giro di qualche giorno. Quindi niente esami, nessuna diagnosi, causa ignota. Un dato che, con la creazione di servizi multispecialistici ( Pain center) in grado di affrontare il dolore come malattia, è subito sceso a circa il 70 per cento. Almeno è questa l'esperienza di New York, dove il mal di schiena è nell'hit parade dei costi sociali come giorni di lavoro persi, costi sanitari, assistenza domiciliare. E negli Stati Uniti il dolore cronico (mal di schiena al primo posto) non oncologico costa alla società circa 100 miliardi di dollari l'anno.
Al secondo posto, come impatto nelle assenze dal lavoro e nei costi socio-sanitari, c'è il mal di testa, tante le classificazioni... E anche in questo caso la terapia italiana è: anti-infiammatori. La pugnalata al centro del capo non passa. Non può passare. Chi ne soffre si chiude al silenzio, al buio (luce e suoni moltiplicano gli effetti)... Altro che andare al lavoro. Anche il mal di testa può trasformarsi in emergenza: basti pensare che il 2-7% degli europei che si rivolgono alle strutture di pronto soccorso si vede diagnosticare una cefalea acuta. Lo ricorda Paolo Martelletti, responsabile del centro per le cefalee dell'università La Sapienza di Roma. In Europa si registra una crescita per questo tipo di disturbo e l'Italia non è da meno. «Il 51% degli italiani — spiega Martelletti — soffre di cefalea acuta, mentre il 14% soffre di emicrania e il 4% di cefalea cronica». Quei 10-15 milioni di italiani che soffrono di dolore cronico forse sono molti di più. Siamo un popolo di doloranti, almeno una volta nella vita. E la severità dei sintomi spesso è tale da rendere dipendenti dai farmaci. «La maggior parte dei pazienti con cefalea cronica — aggiunge Martelletti — abusa quotidianamente di analgesici, senza sapere però che questi possono solo peggiorare la situazione, scatenando una cefalea secondaria da abuso di farmaci».
«È ora di dichiarare, su un fronte internazionale, la guerra all'ignoranza sul dolore», ha detto Costantino Benedetti, terapista del dolore all'Ohio university, in un intervento all'ultimo Sanit a Roma. Parlava della sua amata Italia. E sì, perché nel nostro Paese è già complicato assicurare la terapia del dolore (è tra le cure palliative) ai malati di tumore.
Per tutto il resto, ecco il quadro. Gli ospedali senza dolore sono una realtà conquistata con difficoltà: tutti i degenti non dovrebbero nemmeno avvertire la pur minima sofferenza. E tutte le mattine l'infermiera, oltre a pressione del sangue e temperatura, dovrebbe misurare il dolore e annotarlo in cartella clinica. Così è negli Stati Uniti dal 2001, così dovrebbe essere in Italia. Ma spesso è il paziente che deve chiederlo.
E la terapia? In ospedale c'è (anche se si eccede in dosi «rimbambenti » di oppioidi o morfina: il degente dorme e non dà fastidio), ma non multi farmaco e con dosaggi personalizzati come prescrivono le linee guida per un recupero fisico più rapido: senza dolore un operato si alza e riacquista prima le sue forze. Fuori dell'ospedale, sul territorio, il nulla: fai da te o medici di famiglia impreparati.
Nel 1944, il padre della moderna terapia del dolore, John Bonica (morto nel 1994, nato a Filicudi ma negli Stati Uniti dall'età di sette anni), oltre a mettere a punto la peridurale per il parto indolore, comincia proprio dai medici di famiglia e dagli infermieri a dare indicazioni su come curare il dolore.
In Italia però siamo sempre fermi all'epoca in cui Bonica cambiava le regole oltre Oceano. Non esiste un piano di Pain clinic territoriali che si occupino di diagnosi e cura di chi soffre, pur non avendo malattie terminali. Di chi ha una banale mal di schiena o una feroce emicrania, dolori mestruali o reumatismi vari, artrosi o psoriasi con complicanze dolorose, danni da diabete o neuropatie di varia origine. Si parla di 10-15 milioni di italiani (25 per cento) e di 70-80 milioni di americani. Le poche realtà efficienti si sperdono nel vuoto. Ed è una delle priorità per il sottosegretario al Welfare Ferruccio Fazio, scienziato, figlio di un noto clinico, che per il 17 luglio ha convocato alcuni esperti per discutere di come dare all'Italia un'organizzazione anti- dolore. In particolare ha chiamato Guido Fanelli, terapista del dolore dell'università di Parma.
Qualcosa si deve fare. Perché soffrire non è un obbligo, ma in Italia sembra che lo sia. È l'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) a dirlo. Con i numeri. Uno degli indicatori della qualità della vita si basa sulle dosi annue di morfina (e farmaci oppioidi) pro capite per curare il dolore (tutti i tipi di dolore). L'Italia era, nel 2004, al pari dell'Etiopia e del Ruanda. Nel 2007 è salita in classifica, ma di poco: ultimi in Europa, dopo Malta. Al ventiseiesimo posto. Il Centro Studi Mundipharma, al Sanit di Roma, ha rincarato le accuse: «Nonostante le raccomandazioni delle principali Linee guida internazionali, per quanto riguarda l'impiego dei farmaci oppioidi il nostro Paese rimane all'ultimo posto tra gli Stati dell'Ue, con una spesa media annua pro capite che non arriva a un euro». Il confronto: 0,63 euro contro i 7,66 della Danimarca; i 7,29 della Germania; i 4 del Regno Unito; i 2,88 della Spagna; i 2,61 della Francia e una media europea di 3,73 euro. Aggiunge Benedetti: «Se il Canada usa 170 milligrammi di morfina ed ossicodone pro capite all'anno e l'Italia solo 4, l'aumento dovrebbe essere di circa 40 volte per andare alla pari dei Paesi più avanzati». Il problema è soprattutto culturale: nel nostro Paese quando si parla di morfina si pensa alla droga, mentre all'estero si pensa a un farmaco. E quando si parla di dolore si pensa a un sintomo, quasi sempre esagerato dai pazienti che soffrono... Chissà poi perché?

Repubblica 15.7.08
Massimo schiera centristi e sinistra va in scena l’anteprima del congresso Pd
di Goffredo De Marchis


L´ex vicepremier, attaccato dai veltroniani, riunisce le opposizioni. E ora il segretario vuole un confronto interno sulle riforme
Rutelli dice no al referendum. Oggi la direzione sulla riforma per le elezioni europee

ROMA - «Ci potevo pensare prima sul sistema tedesco? Beh, le esperienze vanno fatte e questo è il bilancio di quindici anni: un disastro», dice Massimo D´Alema in un angolo a Cesare Salvi. Dal palco gli risponde Walter Veltroni: «È vero, la Seconda repubblica non ha funzionato ma non si può tornare al periodo precedente. Dobbiamo muoverci fuori dalle nostalgie». I due leader del Pd parlano a breve distanza nel giro di venti minuti concludendo il seminario sulle riforme organizzato da Italianieuropei, Astrid e altre 12 fondazioni. È un confronto che ha il sapore dell´antipasto congressuale, di una sfida di linee e di prospettive: su alleanze, riforme, dialogo. Ma al residence di Ripetta ci sono anche molti ospiti di partiti diversi, professori, un pubblico non solo democratico. È un seminario, non una sede di partito. Il confronto dentro il Pd è rimandato, ma avverrà. Anche presto, se è vero che Veltroni pensa a un´occasione di confronto sul sistema elettorale tutta interna al Partito democratico «perché la nostra posizione non si può costruire in un´arena nobile ma estranea al Pd. Così si fa confusione su un tema molto rilevante». Insomma, sulle riforme non ci si deve far dettare l´agenda, né da Casini né da Rifondazione e neanche da D´Alema, naturalmente. Dunque se ne riparlerà o in un appuntamento ad hoc o al congresso tematico di autunno. Quella di ieri è stata solo un´anteprima.
A un seminario che conta sulla presenza di costituzionalisti illustri (gli ex presidenti della Consulta Onida e Capotosti per esempio), costituzionalisti più giovani (Andrea Giorgis e Anna Chimenti tra gli altri), il duello vero del Partito democratico è stato affidato agli esperti delle rispettive squadre. Il pasdaran veltroniano Salvatore Vassallo ricorda all´ex ministro degli Esteri quando era un fervente sostenitore del modello francese, presidenziale e a doppio turno, cioè il contrario del metodo proporzionale come quello in vigore a Berlino. L´altro esperto vicinissimo a Veltroni Stefano Ceccanti affonda il documento istruttorio del convegno accusandolo di essere fuori dallo statuto e dal programma del Partito democratico e di puntare «un Pd piccolo». Alludendo anche al fatto che D´Alema insegue «un modello alternativo», che proprio nel giorno della presa della Bastiglia, il presidente di Italinieuropei mostra la sua disposizione vandeana, cioè una posizione conservatrice, mentre per una volta bisogna essere giacobini.
Ma lo sviluppo della giornata ha fatto capire che i margini di manovra per i sostenitori del tedesco sono veramente stretti, «quasi impossibili» sottolinea persino il tifoso Salvi dopo la chiusura netta di Fabrizio Cicchitto e la diplomazia inusuale di Roberto Calderoli. Dunque alla fine Veltroni ha fatto finta di niente, corteggiando nientedimeno che il terzo incomodo di questo congresso democratico in piccolo, Pier Ferdinando Casini. Ha accolto la proposta del leader Udc del quorum di due terzi per l´elezione dei presidenti delle Camere, ha evitato di rispondergli sul governo ombra definito da Casini «uno strumento di pura propaganda, un regalo a Berlusconi».
D´Alema può dire di aver riunito, intorno a una proposta comune, una larga fetta dell´opposizione, dall´Udc a chi è fuori dal Parlamento come la sinistra radicale. Al seminario c´era anche Antonio Di Pietro, che ha parlato. Ma poi hanno preso la parola anche Cicchitto e Calderoli. La loro chiusura ha fatto capire che chi nel Pd cercava sponde dentro la maggioranza per smontare la linea veltroniana, oggi ha pochissimo spazio. D´Alema si è messo idealmente alla guida di un fronte composito, almeno sulle riforme, ma che è molto lontano da una maggioranza parlamentare. «Per me la qualità dei governi è molto più importante della stabilità», spiega. E di fronte a questo assunto non si preoccupa neanche di una eventualità che il sistema tedesco mette nel conto: la grande coalizione. «Non mi sembra una prospettiva spaventosa. Fa parte fisiologicamente di una democrazia dell´alternanza». Solo una battuta per Ceccanti: «I giacobini fecero una brutta fine. Finirono a forconate...». Dibattito accademico dunque? Francesco Rutelli ricorda che il referendum elettorale scoccherà la prossima primavera, una linea ci vuole e subito. Lui è contrario, lo considera l´arma che ha ucciso il governo Prodi. D´Alema concorda: «Una consultazione al limite del colpo di Stato», sentenzia. È un nodo che può venire al pettine, dentro il Partito democratico. Ma prima tocca alle legge per le Europee. Oggi la direzione del Pd discuterà anche di questo. Perché sono tutti d´accordo su uno sbarramento al 3 per cento con le preferenze. Ma Berlusconi ha un´altra idea (5 per cento e abolizione delle preferenze). E come dimostra il seminario di ieri è il Cavaliere a decidere.

Repubblica 15.7.08
La volontà di dominio
di Giuseppe D’Avanzo


Le idee di rifondazione della Repubblica, nelle parole di Berlusconi, affiorano sempre in modo graduale, ma assolutamente esplicite e manifeste. Arrestano il governatore della Regione Abruzzo, e molti dei suoi, per corruzione.
Il processo ci dirà se con fonti di prova solide o dubbie. Il mago di Arcore non si cura di attenderne l´esito. Non ha alcuna prudenza. Sa di che cosa si tratta, nella sua chiaroveggenza. Due sole parole – corruzione (il reato contestato), politici (gli indagati) – gli sono sufficienti per sentenziare che si tratta di un «teorema». Che poi in matematica vuol dire «proposizione dimostrabile», ma nelle parole del mago di Arcore il significato si capovolge nel suo opposto e «teorema» diventa una costruzione artificiosa, infondata, priva di fatti e prove. E´ ai «teoremi» della magistratura che bisogna tagliare definitivamente la strada modificando radicalmente la magistratura ab imis fundamentis, dice, dalle più profonde fondamenta. Chi governa, di qualsiasi area politica sia (la giunta regionale abruzzese è di centro-sinistra), non deve più temere l´intervento della magistratura. Bisogna allora separare le carriere?, gli chiedono. «Di più, molto di più» risponde.
Forse per la prima volta, Berlusconi dichiara senza trucchi quel che intende fare. Separare la funzione requirente e giudicante non gli basta più. Il «di più» che invoca non è soltanto la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Il «molto di più» che annuncia è il pubblico ministero diretto dall´esecutivo. Il pubblico ministero, infatti, o è indipendente, come il giudice, o è alle dipendenze del ministro. Non ci sono alternative. Solo con un pubblico ministero scelto, arruolato, orientato e gestito dal governo, il potere politico sarà protetto da quel «controllo di legalità» che comprime e umilia – per Berlusconi – la legittimità di chi governa. Il presidente del Consiglio non si è lasciato allora sfuggire l´occasione per riproporre il conflitto legittimità/legalità nel giorno in cui un´inchiesta giudiziaria non colpisce lui o uomini del suo partito, ma gli avversari in una regione governata dal centro-sinistra. Come a dire: cari signori, vedete, la magistratura non è una mia ossessione, ma l´ostacolo che tutti dovremmo avere interesse a rimuovere se vogliamo davvero governare.
In questa "chiamata alle armi" della politica non appare in gioco soltanto il terzo dei macro-poteri dello Stato (art. 104 della Costituzione: «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»). Non si tratta della pur consueta polemica tra Berlusconi e le toghe, tra la politica e la magistratura. Questo è soltanto il terreno dello scontro, non il senso del conflitto. Berlusconi ha cominciato a mettere a riparo se stesso con la «legge Alfano» ma cova un processo riformatore e l´avventura appare soltanto all´inizio. Se ne possono rintracciare gli indizi e la «filosofia» nelle decisioni dei primi cento giorni; nei provvedimenti con immediata forza di legge approvati dal governo; come anche nel voto di fiducia che ha spento ogni confronto parlamentare su un «decreto sicurezza» che inaugura un diritto della diseguaglianza e, con il reato di immigrazione clandestina, trasforma una semplice condizione personale in reato.
Questa piena volontà di comando e dominio, che Berlusconi pretende libera da ogni discussione parlamentare, controllo di legge, verifica di costituzionalità, mortifica la legalità. E´ una modificazione dell´architettura istituzionale che il mago di Arcore sta preparando con cura, passo dopo passo, iniziativa dopo iniziativa. Annuncia una forma di «Stato governativo» che dovrebbe – nei prossimi anni – ridurre al silenzio lo «Stato legislativo parlamentare», lo Stato di diritto disegnato dalla Costituzione. Si comprende perché Berlusconi senta lo Stato parlamentare come un vestito stretto, soffocante.
Nello Stato legislativo parlamentare governano le leggi, non gli uomini né le autorità né le magistrature. E´ un sistema che attribuisce al legislatore il compito e il potere, nell´interesse generale, di varare norme «impersonali, generali, prestabilite e perciò pensate per durare». E´ un sistema che separa. Chi decide della legge, non la applica. Chi legifera, non dà esecuzione alla norma. Chi esercita il potere e il dominio agisce «in base alla legge», «in nome della legge». Il principio costruttivo di fondo dello Stato legislativo, in cui «non sono gli uomini a governare ma le norme ad avere vigore», è il principio di legalità. Berlusconi non accetta di essere l´anonimo esecutore di leggi e norme. Vuole disfarsi del «principio di legalità» e con esso dello Stato legislativo. Ciò che nello Stato legislativo è separato, egli vuole unirlo nella sua persona. Un passo in avanti già può vantarlo. Un parlamento di nominati e non eletti, quindi Camere obbedienti e genuflesse. Il secondo passo "naturale", quasi obbligato, è quel che annuncia da Parigi: il pubblico ministero alle dipendenze del governo. Non c´è più nulla, quindi, che abbia a che fare con il braccio di ferro tra politica e magistratura del decennio scorso. Siamo di fronte a una strategia riformatrice e come tale va osservata. Berlusconi non vuole governare in nome della legge, ma in nome della «necessità concreta», in nome della «cogenza della situazione». Non vuole che il suo governo sia orientato dalle norme, ma pretende che si muova dietro lo stato delle cose, le «situazioni» che egli ritiene che siano prioritarie (altra cosa è che lo siano davvero). Lo «Stato governativo» si definisce appunto per la qualità particolare che riconosce al comando concreto, «eseguibile e applicabile immediatamente». Lo Stato governativo, scrive Carl Schmitt, «riconosce un valore giuridico positivo al decisionismo della disposizione prontamente eseguibile. Qui vale il detto: "Il meglio al mondo è un comando"».
Berlusconi chiede che il suo governo, sia suo davvero, chiuso nella sua volontà personale, affidato al suo comando di capo che governa, che dispone di tutti i requisiti della legittimità, della piena rappresentanza. E´ un sistema che ha la necessità di liberarsi della "dittatura" della norma, del controllo della magistratura, delle discussioni parlamentari. Se tutto questo è vero, vale la pena capire se – quando si parla di «dialogo» – si ha chiaro che Berlusconi accetterà di discutere soltanto se le cose muoveranno nella direzione in cui è già in movimento.

Repubblica 15.7.08
Mimi Reinhardt era la segretaria dell'imprenditore nazista Per la prima volta, a 93 anni, racconta la sua storia
"Ho scritto io la lista di Schindler"
di Marco Ansaldo


"Ad Auschwitz mi assunse perché sapevo il tedesco e battere a macchina"
"Ora che sono tornata in Israele sento di poter rievocare quei momenti"

HERZLIYA. «Oskar Schindler non era un angelo. Era un avventuriero. Sapevamo perfettamente che faceva parte delle SS. La notte andava spesso a bere con i suoi colleghi. Ma al mattino in ufficio era sempre puntuale. Ed era palese che non poteva sopportare quello che ci stavano facendo. A volte mi domando perché non sono esistiti altri uomini come lui, capaci di rischiare la vita per salvare degli ebrei come noi. Nessun nazista fu così. Perché Schindler era un uomo. E probabilmente aveva un cuore d´oro».
Stretta in una giacca elegante e in un pullover color verde prato, vivace e pronta alla bella età di 93 anni, Mimi Reinhardt abbassa lo sguardo e osserva le sue dita. Sulle labbra un filo di rossetto, la collana a doppio giro di perle intorno al collo, due anelli leggeri di pietra agli anulari. E´ lei la segretaria di Oskar Schindler, l´imprenditore nazista che salvò dalla morte centinaia di ebrei trasferendoli dalla Polonia all´odierna Repubblica Ceca. E fu Mimi Reinhardt a battere, con due dita, uno per uno, i 1.200 nomi della famosa lista al momento della partenza dal Lager di Plaszow.
Oggi vedova, ha da poco lasciato New York e scelto di vivere in Israele, nella casa per anziani «Sette stelle» a Herzliya, alle spalle di Tel Aviv. Ha voluto rompere il giuramento di riservatezza mantenuto per più di 50 anni. «Alla fine della guerra - dice ora - mi sembrava che una parte della mia vita fosse ormai terminata, ed ero pronta a cominciarne un´altra».
Solo quando, al momento di fare domanda per andare a vivere in Israele, gli impiegati dell´Agenzia ebraica per il ritorno le fecero alcune domande, raccontò per la prima volta di aver lavorato nella fabbrica di Schindler. Prima a Plaszow, vicino Cracovia, e poi a Bruennlitz, dopo un terribile viaggio in treno. Le 300 donne destinate a Bruennlitz per unirsi con i loro uomini erano state per errore dirottate ad Auschwitz. «Davvero pensavamo che fosse arrivata la fine - ricorda Mimi - eravamo entrate nell´Inferno di Dante. Quando dopo due settimane arrivò Schindler, alto, imponente, caparbio, lo vedemmo come fosse arrivato il messia».
L´imprenditore minacciò il comandante dicendo che l´avrebbe denunciato a Berlino, accusandolo di bloccare la produzione di munizioni. «Quello che non fece in quell´occasione! - dice lei oggi, ancora ammirata - l´unico modo proprio di agire era di ingannare i nazisti. Solo così Schindler riuscì a liberarci». E a tornare in possesso di tutti i «suoi» ebrei.
Aveva 29 anni Mimi quando la misero a lavorare con lui. «L´unica cosa utile che ho imparato nella mia vita - dice staccando lo sguardo dalle mani - è la stenografia». Quel corso, e la conoscenza perfetta della lingua tedesca in quanto ebrea austriaca, le salvarono la vita. La lista costò un milione di marchi tedeschi, versati da Schindler al comandante del Lager, il famigerato Amon Goeth. «Io battevo a macchina con due dita. Tac tac tac. Cominciai mettendo il nome degli operai, poi quelli delle loro famiglie e dei loro amici. L´elenco cresceva, la gente si aggiungeva. Io scrivevo i nomi, uno dopo l´altro. Tac tac tac. Anche il nome di Schulim Vogelmann, l´unico italiano della lista. In pochi giorni la quota richiesta venne raggiunta. Alla fine misi i miei dati e quelli dei miei amici. Ci salvammo così. Una volta arrivati a Bruennlitz, dopo alcuni mesi, era ormai il maggio del 1945, fummo tutti liberati».
Il figlio di Mimi, Sacha, era nato prima, nel 1939. Fatto fuggire con documenti falsi in Ungheria, lei lo ritrovò solo nel 1945, cercandolo in ogni palazzo di Budapest. Suo marito fu invece ucciso a Cracovia. Finita la guerra, Mimi conobbe a Tangeri un direttore d´albergo ebreo che lavorava per i servizi segreti britannici. Lo sposò. Nel 1957 ottennero tutti un visto, e la famiglia si trasferì in America. Venne a Roma, visitò a Milano, ricorda Trieste. «Mia nonna - dice con un sorriso - era di Abbazia, vicino a Fiume». Nel film di Steven Spielberg, a tempestare la macchina da scrivere per stilare la lista era l´assistente personale di Schindler, Itzhak Stern, interpretato da Ben Kingsley. Lì il personaggio di Mimi non compare. Ma lei non si preoccupa: «Non ho mai cercato la gloria. Il libro su Schindler però era meglio, fu scritto persino da un australiano, e nemmeno ebreo (Thomas Keneally, ndr)».
All´inizio degli Anni sessanta Mimi andò a Vienna per visitare una parente. Mentre passava davanti a un caffè, si sentì improvvisamente chiamare con il suo nome da ragazza: «Carmen Weitman!». «Era Schindler - ricorda oggi con emozione - mi aveva riconosciuto. Stava seduto con altri ebrei che avevano lavorato con lui». Trascorsero la serata tutti insieme. E al momento di prendere il taxi per rientrare, Schindler abbracciò i suoi lavoratori uno per uno, Mimi compresa. All´autista austriaco, che lo guardava perplesso senza capire, spiegò: «Sono i miei ebrei. Li ho salvati io!».

Repubblica 15.7.08
Felicità. Così si ritrova il sorriso perduto
di Paola Coppola


Ognuno ha un grado di soddisfazione personale della vita al quale torna dopo fatti dolorosi o fortunati Lo stabilisce uno studio internazionale che ha misurato le oscillazioni dell’umore di 10 mila persone in vent’anni
Uomini e donne manifestano una diversa reazione agli eventi e tempi di ripresa difformi

ROMA. Toccare il cielo con un dito è una fortuna, che se la goda chi ce l´ha. La felicità non dura, e prima o poi tocca farci i conti. Meglio non pensarci se ce l´hai tra le mani. Per tutti gli altri vale l´adagio che dice "il tempo guarisce ogni ferita". Siamo immuni agli alti e ai bassi della vita, rivela uno studio pubblicato su The economic journal. Passa tutto, anche abbastanza in fretta, e dopo qualche tempo, cinque anni al massimo, si torna a essere felici come una volta. Chi più, chi meno.
La ricerca condotta da un team internazionale colpisce sia per la durata (20 anni) sia per il campione di persone considerato (più di 10mila tedeschi ogni anno, di età compresa tra i 16 e gli 80 anni). Il termometro della felicità realizzato dagli economisti Andrew Clark e Yannis Georgellis e dagli psicologi Ed Diener e Richard Lucas registra, rispetto a sei eventi positivi e negativi della vita (matrimonio, nascita di un figlio, divorzio, perdita del partner, disoccupazione e licenziamento), le oscillazioni del livello di soddisfazione negli anni che precedono e seguono, negli uomini e nelle donne.
Una misura degli umori che mostra come, nel bene o nel male e a prescindere da quello che ci capita, la felicità ritorni come l´avevamo lasciata. «Dipende dalla nostra personalità e da marcatori genetici, si adatta alle circostanze», chiarisce Georgellis, del dipartimento di Economia e finanza della Brunel University (West London): è la capacità di adattamento a portare il termometro al punto di partenza.
Cinque anni servono in media, ed è lunga se si soffre, ma la ripresa inizia subito. Tra tutti gli eventi funesti della vita si fa fatica a superare soltanto la disoccupazione. Lascia tracce soprattutto negli uomini. «È una scoperta che ha delle implicazioni per chi deve decidere le strategie economiche - continua lo studioso - perché dimostra, ad esempio, che la gratificazione di uno stipendio più alto dura un tempo limitato, ma l´esperienza di perdere un lavoro è un trauma che resta».
Diverso è per gli altri eventi che mettono in gioco le nostre emozioni: nel caso del divorzio, la scelta deprime, la tristezza aumenta ma si recupera in fretta, gli uomini più delle donne. E ancora: tra quelli che decidono di licenziarsi, pochi si pentono e, affrontato il momento fatidico, l´umore migliora, la soddisfazione cresce nei cinque anni successivi.
Si consolino quelli a cui le cose non stanno girando per il verso giusto per i risultati dello studio. Tornando alla nostra capacità di adattamento la cattiva notizia è che nel corso della vita si rivela un´arma a doppio taglio. La stessa che fa fuggire via la felicità, persino quella di mettere al mondo un figlio. Dopo la sua nascita, inizia a calare, linee più verticali nella curva delle donne rispetto a quella degli uomini. Farlo è splendido, crescerlo più difficile, sembra confermare la ricerca. Scricchiola anche la felicità della vita in due. Altro che crisi del settimo anno: dopo cinque anni di matrimonio quella delle donne rispetto all´evento è al minimo storico, negli uomini poco sotto il punto di partenza. Se le nozze sono un sogno da inseguire, chi lo corona lo consuma in fretta e la gioia legata all´idea s´appanna. Così, professore, se tutto diventa abitudine, anche le cose più belle, niente vale la pena di essere vissuto? «Semmai, provare la durata della felicità ci deve servire a essere più fatalisti», è il consiglio.

Repubblica 15.7.08
Ma la gioia è un capitale che la routine può erodere


ROMA La felicità dura poco, si sa. Ma per fortuna anche l´infelicità. L´una e l´altra hanno una nemica comune, l´abitudine. Che fa dimenticare ben presto le gioie come i dolori. Il matrimonio, la carriera, la nascita di un figlio, l´aumento di stipendio ci rendono felici. Ma si tratta di un´una tantum. Poi il nostro capitale di satisfaction si svaluta giorno dopo giorno lasciando il posto a una routine senza slanci. A dirlo è un gruppo di studiosi al termine di una ricerca che misura gli effetti che i grandi momenti della vita hanno sul nostro tasso di felicità. I risultati sono stati pubblicati sull´ultimo numero dell´Economic journal e si possono così riassumere. Primo, il denaro non fa la felicità. Secondo, i profitti economici sono cumulabili ma le ragioni della felicità no. Terzo, ci si abitua a tutto. Un pensiero chiaro, anzi lapalissiano. Che ricorda quel che dicevano i nostri nonni a lume di naso e senza supporto statistico.
Non è la prima volta che dei ricercatori cercano di scoprire il segreto della felicità. E purtroppo non sarà neanche l´ultima. Qualcuno addirittura ha creduto di prenderle le misure. Qualche anno fa gli inglesi Carol Rothwell e Pete Cohen, psicologa la prima e life coach il secondo, ne diedero perfino la formula: P+(Ex5)+(Hx3). Dove P sta per personalità, E designa condizioni come salute, ricchezza, successo mentre H corrisponde all´autostima. Come dire che una persona ricca, sana, attraente, vincente, e sempre in bella compagnia ha buone probabilità di essere felice. Evidentemente è troppo forte la tentazione di scoprire la chiave di uno dei più insondabili misteri della condizione umana. E di superare quella soglia dove si sono pudicamente fermati giganti del pensiero come Socrate e Kant, Tolstoi e Goethe, Buddha e Einstein. Una cosa è certa, anche se la felicità non si può comprare, c´è sempre qualcuno che tenta di venderla.

Repubblica 15.7.08
Simone Weil la guerriera
Il mito greco e l’orrore nazista
di Nadia Fusini


La filosofa francese espresse le sue idee in un saggio sull´Iliade, scritto a pochi mesi dall´occupazione tedesca di Parigi
Una riflessione al femminile sui temi della forza e della ferocia. Tre esperienze diverse a contatto con la brutalità del Novecento
Leggere l´opera di Omero l´aiutò: nel passato trovò principi e valori con cui rispondere all´angoscia del presente
Il culto della virilità non è solo una prerogativa di Hitler ma serpeggia nel fondo ideologico delle politiche e delle società dell´Occidente

Anni fa, Angela Putino, un´indimenticabile amica filosofa troppo presto scomparsa, scriveva: «Simone Weil è una donna e il significante che la presenta al mondo degli altri è precisamente quello di "donna", che la pone in un luogo che dice della sua esperienza come un esperire che non è di ognuno». A Simone Weil Angela ha dedicato negli anni un´attenzione fervida, incarnata in interventi orali e in libri, sì che è diventata il mio ponte verso Simone.
Io leggo Simone con Angela, mai senza di lei. Insieme ci eravamo più volte interrogate sulla violenza; se e come, essendo per noi donne un´esperienza di cui siamo spesso vittime, non si produca in noi per ciò stesso un pensiero differente. Che contrasta, fessura, scarta rispetto ai luoghi comuni, ai pregiudizi, alle convenzioni.
Chi si presenta al mondo vestita di quel significante che l´abbiglia di certi carismi e doni, sa che tra quei doni e carismi c´è la vulnerabilità. Nella donna, il genere umano si coglie nella sua propria nudità di preda. E´ un sentimento di sé che una donna conosce bene; a volte, ci gioca. E fa la preda; si atteggia, come la Lulù di Wedekind, a meravigliosa belva. Ma per lo più, subisce. E ha paura.
Spesso e volentieri una donna convive con un sentimento di sé, direi alla Jane Austen, di un gentil sesso debole, quanto a equipaggiamento fisico. La sua forza la depone come fosse un seme, o un uovo, altrove: la cova o la coltiva nella sopportazione di dolori che l´uomo non conosce. E´ lei a partorire la vita e sempre lei al capezzale di chi muore.
Al contrario, l´esercizio della forza è un compito da cui la cultura, la civiltà l´hanno assolta. Non le chiedevano, almeno nel passato, di combattere. Nella tradizione, se una donna andava in guerra era per curare i feriti. Ora è vero, ci sono donne - soldato, ma l´ipocrisia vuole che quegli eserciti siano al servizio non della guerra, ma della pace. Per lo più è ancora vero che se si tratta di violare, penetrare, è piuttosto l´uomo maschio chiamato a farlo. Lui si è specializzato nella performance. E nel gusto.
Proprio per questo, tanto più interessante risulta che nel cuore del secolo scorso tre donne diverse, lontane tra loro, si siano arrischiate in una riflessione sulla violenza di un´altezza abissale. Di queste tre donne - Simone Weil, Rachel Bespaloff, Hannah Arendt - vi racconterò.
Mi direte: non solo delle donne si sono interrogate in quegli anni su che cosa accadesse; anche degli uomini l´hanno fatto. E io risponderò che queste tre donne in particolare sono scese come palombare nelle tenebre del male assoluto, della violenza smisurata che segnò il cuore dei loro anni. Hitler e l´hitlerismo ponevano questioni alla mente, al cuore e alla carne, che queste tre donne seppero sostenere. Per dirlo con una bravissima studiosa di Simone Weil, Rita Fulco, seppero «corrispondere al limite». E cioè, rispondere di contraddizioni strazianti, che mettevano il pensiero di fronte all´impensabile.
Perché donne? Lo seppero fare, intendo dire, proprio perché donne? Risponderei di sì, e non per orgoglio femminista, ma perché mi torna alla mente una conversazione con un´amica psicoanalista argentina, Maria Elena Petrilli, in cui mi diceva come da parte delle bambine vi sia una precoce percezione del proprio corpo, tanto più misteriosa perché, al contrario dei maschi, non possono verificare in modo semplice e diretto l´integrità di organi interni, invisibili.
E´ per questo, mi chiedevo mentre la mia amica parlava, che il corpo per una donna non è mai mero oggetto, ma sempre vita? Per dirla con Husserl, mai Körper, sempre Leib? E cioè, essere vivente? Non è così, evidentemente, per un uomo maschio, se può violentare un corpo di donna. E se lo fa, e può farlo, è perché il corpo dell´«altro», evidentemente, non lo sente, né lo pensa come il ‘suo´.
Ma chi non percepisce l´altro come essere vivente, chi addirittura arriva a pensare che la violenza corrisponde a un fantasma di godimento, una specifica joussance, o volupté femminile; chi riesce a sottrarsi alla percezione dell´altro come di sé medesimo, chi non sperimenti in sé l´estraneo, è questo un uomo? «Sperimentazione dell´estraneo», chiama Simone Weil la facoltà che più le interessa. E si chiede: perché non si interroga sul proprio perverso piacere chi nell´altro si diverte a suscitare il grido di dolore? Finché non si avrà il coraggio di andare a ‘vedere´ lo spazio cieco in cui nasce questa violenza, insiste, non si comprenderà lo sfondo spettrale e cieco della violenza tout court. Ma chi può farlo? Non certo chi la violenza la esercita. Perché in chi provoca sventura c´è una voluta ignoranza della sofferenza che provoca. Ecco perché la violenza è cieca.
Non che Simone Weil non veda la complicità tra il fantasma della forza e l´attitudine alla sottomissione, il nodo che aggioga vittima e carnefice nella medesima anestesia del corpo e della mente. Simone anzi riconosce che il culto della Forza non è solo la tabe viriloide dell´hitlerismo, ma serpeggia nel fondo ideale e ideologico delle politiche e delle società d´Occidente.
Legge la sua drammatica potenza e tragica realtà nell´Iliade, che ribattezza «il poema della forza». E proprio prima di partire per New York, onde sfuggire alla persecuzione razzista, consegna alla rivista Cahiers du Sud il saggio sull´Iliade, che comparirà a Marsiglia nel gennaio 1941, a firma di Emile Novis, anagramma di Simone Weil.
Il saggio si apre con queste parole: «L´Iliade è il poema della forza. Il vero eroe, il vero argomento dell´Iliade è la forza». E continua: «la forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa». Sono affermazioni che risuonano nette come uno schiaffo, sonore, definitive. A conferma di una condanna, a cui la spinge il pacifismo radicale che la ispira. La forza, sia che la si possieda come Achille, sia che la si subisca come Ettore, distrugge. Sono paurose, insiste Simone, le visioni di violenza che si aprono nel poema omerico, dove l´essere coincide con l´essere-per-la-morte, dove è il pensiero della morte a dare agli eventi «il colore dell´eternità». La forza è l´ingiustizia, la forza è il male. Omero, né dalla parte dei Greci, né dalla parte dei Troiani, la descrive con amarezza e imparzialità.
Con la sconfitta della Francia nel 1940, l´occupazione di Parigi, e la montante barbarie nazista, inesorabile, tremenda, la storia imponeva non solo a Simone di alzare la guardia. Leggere il grande libro l´aiutò; in uno scrigno del passato trovò principi e valori con cui rispondere all´angoscia del presente. Lesse di come la violenza tenda all´annientamento della presenza umana, quanto la forza sia irreale, che cumulo di menzogne produca. La forza «de-realizza», comprese Simone: «la violenza stritola quelli che tocca», «uccidere è sempre uccidersi». Tra le pieghe del grande libro colse la visione dell´annullamento della presenza umana. Può forse il guerriero desiderare che l´altro viva? si chiese. Evidentemente no. Pure, per lei, era questo essere umani, l´unica forza a cui umanamente soccombere era quella di Amore; solo Amore fa guerra alla guerra - proclamò la «pensatrice guerriera».
Non era certo facile in quegli anni violenti trovare la forza di rinnegare ogni uso della forza ai fini della vita, proclamare la necessità dell´amore contro la necessità della forza. Di fronte all´ «irrealtà» che aveva in quegli anni il nome di Hitler l´idea di giustizia guidò l´«impolitica» Simone alla capriola finale: prese parte alla guerra, si fece per l´appunto «guerriera». Tornò dagli Stati Uniti a Londra, chiese di essere paracadutata oltre le linee nemiche. E alla fine, non potendo mettere fine alla battaglia, se la conficcò come una croce nel suo proprio cuore, e ne morì.
(1. Continua)

La Stampa 15.7.08
L'ex premier tiene aperti i contatti a sinistra
Ora Massimo punta tutto su Vendola
Latorre: Diliberto con Ferrero? E lui tirerà la volata a Nichi
di Federico Geremicca


Voto e Costituzione. «Le alleanze non sono vietate se ieri c'è stata l'Italia dei valori domani potranno esserci altri»
Tessere per Red e non per il Pd
«E allora? Non ci spiegavano che i partiti moderni funzionano con Internet e compagnia bella?»

Può essere che le cose cambino, perchè la faccenda - in fondo - è _ soltanto all'inizio. Dovessimo però stare a quanto accaduto, bisognerebbe annotare che nella "rete tedesca" calata ieri dalla dalemiana Italianieuropei e da altre tredici fondazioni è rimasto ben poco. Non il Pd, se non nella sua "anima" più vicina all'ex presidente del Consiglio; non l'attuale maggioranza di governo che ha detto no al sistema tedesco con Cicchitto e Gasparri (capigruppo) e "ni" con Calderoli, che teme che a parlare di riforma elettorale ci lasci le penne il federalismo; e nemmeno le altre opposizioni, che hanno definito la discussione sulle riforme "una trappola" (Di Pietro) o "accademia" (Casini), considerata l'indisponibilità di Berlusconi. Insomma, non precisamente un successo: ma sbaglierebbe chi pensasse che lo stop di ieri abbia convinto Massimo D'Alema a rinunciare all'impresa. La tessitura dell'ex presidente del Consiglio, infatti, è ormai avviata: con due obiettivi espliciti ed uno che potrebbe discenderne, come si dice, di risulta.
I primi due bersagli sono dichiarati: ridisegnare il modello istituzionale ed elettorale e togliere il Pd dall'isolamento in cui è finito dopo (ma secondo alcuni addirittura prima) del voto. Naturalmente poichè l'isolamento (vero o presunto) è determinato dalla linea sulla quale Veltroni ha attestato il Pd, è evidente che da una riapertura dei giochi - per esempio attraverso un largo consenso ad una riforma alla tedesca - ad aver tutto da perdere sarebbe proprio Walter Veltroni. Questo ieri, come dicevamo, non è accaduto: ma non sarà certo sufficiente a fermare l'iniziativa dalemiana. Che punta, prima di tutto, a ritessere quella reIte di alleanze letteralmente disintegrata dalla scelta veltroniana di un Pd a "vocazione maggioritaria".
Massimo D'Alema ne parlava qualche sera fa alla Festa de l'Unità di Perugia. «Dopo tanta confusione - spiegavafinalmente si è fatta chiarezza su questa storia della vocazione maggioritaria. Non vuoI dire andar da soli, non avere alleati: tanto è vero che alle elezioni ci siamo andati con Di Pietro. Dunque le alleanze non sono vietate: e se ieri è stata !'Italia dei Valori, domani potrà essere anche qualcun altro». Già,qualcun altro; ma chi? Naturalmente l'Udc. Ma soprattutto una sinistra rinnovata, più credibile e rigenerata. «La faccenda del voto utile - spiegava ieri Nicola Latorre a margine del convegno sul sistema tedesco - la prossima volta non funzionerà. Se Rifondazione si rimette in piedi, molti voti torneranno lì: e noi dobbiamo prepararci...». E la preparazione è già cominciata; infatti, D'Ale ma e i suoi (e non soltanto loro, per la verità) stanno facendo un gran tifo perché !'imminente congresso sia vinto da Vendola.
«Sì, Massimo sta aiutando Nichi ammetteva ieri Franco Giordano - così come Diliberto fa il tifo per Ferrero; e vedete voi chi sta messo meglio ... Certo l'aiuto diD'Alema non ci sta danneggiando, considerato che eravamo partiti in svantaggio e ora siamo davanti noi». Maperchè Vendola? «Perchè io vengo da un'esperienza di governo - dice D'Alema - nella quale la mattina decidevamo delle cose in consiglio dei ministri e poi alcuni ministri ci facevano i cortei contro. Vendola governa bene la Puglia da anni, e non mi risulta scenda in piazza contro quello che decide ... ». E non basta. «Nichi è più innovativo spiega Latorre - ha vinto le sue elezioni col sostegno anche dei moderati ed è stato lontano da Roma nell'ultimo paio di anni, cosa che non guasta considerando quel che è accaduto».
Tutto sta, naturalmente, a convincere il Pd che va bene guardare all'Udc di Casini, ma non basta: bisogna riaprire una linea di dialogo anche con la sinistra. E assieme a questo, naturalmente, radicare e rafforzare il Partito democratico. In verità, per il momento D'Alema sta rafforzando le sue creature; Italianieuropei, appunto, e la neonata Red-( «Ottocento t.essere in pochi giorni, e le richieste aumentano - dice fiero -. Un successo»). E a chi gli fa notare la singolarità di un impegno volto più a questo che al Pd, risponde assai seccato: «Questa storia che io faccio le tessere per Red e non per il Pd mi ha stufato. Chi mi critica se la prenda con quei professori che ci hanno spiegato per mesi che le tessere non si fanno, che quella è vecchia politica, che i partiti moderni funzionano in altro modo, con Internet, la Rete e compagnia bella. Aprano il tesseramento al Pd e io ci lavorerò. Ma fino ad allora, per favore, mi lascino in pace ... ».

lunedì 14 luglio 2008

l’Unità 14.7.08
1938, fuga dei cervelli, dono del Duce agli Usa
di Pietro Greco


Dalle leggi razziali al Cern. Due anniversari ci ricordano la dissoluzione della comunità scientifica europea e la fine della sua egemonia. Ma un terzo ne rievoca la rinascita nel dopoguerra, grazie all’impegno di Edoardo Amaldi

Il 14 luglio 1938, settant’anni fa, il Ministro degli Esteri del governo Mussolini, Galeazzo Ciano, annota sul suo diario: «Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui».
L’indomani il Giornale d’Italia sotto il titolo «Il Fascismo e i problemi della razza», pubblica la prima versione del «Manifesto della Razza» firmato da dieci scienziati italiani - tra cui primeggiano l’onorevole Sabato Visco, fisiologo, e il senatore Nicola Pende, endocrinologo - il cui incipit è destinato a diventare tristemente famoso: «Le razze umane esistono». Il manifesto sostiene - senza alcuna base scientifica - che l’umanità, appunto, si divide in razze; che queste razze sono diverse per capacità intellettuali dei propri membri; che esiste anche una «razza italiana» che, naturalmente, è più capace di altre e che bisogna tutelarla da pericolose contaminazioni genetiche. In particolare va tutelata dalle contaminazioni di sangue con una razza palesemente inferiore, quella degli ebrei.
L’ignominia intellettuale del manifesto - che il Duce si vanta di aver contribuito a redigere in prima persona - si traduce ben presto in pratica discriminazione. Già nel mese di settembre il governo di Benito Mussolini vara una serie di leggi che portano all’espulsione degli ebrei dalle scuole e dagli incarichi pubblici. Fu una scelta sciagurata, che ebbe conseguenze tragiche per gli ebrei (e i rom), per l’intero paese e, anche, per la scienza italiana. In poche settimane, per esempio, viene dissolta la fisica di punta. Lasciano l’Italia, infatti, Bruno Rossi ed Enrico Fermi: due giovani che hanno portata rispettivamente la fisica dei raggi cosmici e la fisica nucleare a punte di assoluto valore mondiale. Le loro brillanti scuole, a Padova e a Roma, si dissolvono.
Non è difficile calcolare gli effetti negativi sulla scienza e sulla società italiane di quella successione di eventi. Ci aiutano, fra l’altro, altri due anniversari che ricordiamo questo medesimo anno. Il settantacinquesimo anniversario delle leggi razziali di Hitler, che avevano già prodotto conseguenze nefaste in Germania, e il centesimo anniversario della nascita di Edoardo Amaldi, che si assumerà gran parte dell’onere di ricostruire la scienza italiana ed europea dopo la guerra che devasterà l’Europa di lì a pochi mesi.
Cosa era successo, dunque, in Germania esattamente cinque anni prima? La successione è nota. Il 30 gennaio Hitler viene nominato cancelliere del Reich. Il 27 febbraio fa incendiare il Parlamento (Reichstag). Il 28 gennaio vara il «decreto dell’incendio del Reichstag» e, in nome della sicurezza nazionale, abolisce molti diritti civili. Il 7 aprile con il «paragrafo ariano» della «legge sul ripristino dell’impiego nel pubblico servizio» obbliga tutti coloro che non sono di razza ariana a lasciare ogni incarico pubblico. In breve l’obbligo viene esteso anche agli avvocati e ai medici «non ariani», che non possono più lavorare nei tribunali e negli ospedali.
L’idea nazista è che la società tedesca deve essere divisa in due categorie: quella dei Volksgenossen (camerati della nazione), che appartengono alla comunità popolare, e quella dei Gemeinschaftsfremde (stranieri della comunità) che, invece, non appartengono alla storia e alla cultura della Germania. Agli stranieri della comunità appartengono: ebrei, zingari, portatori di handicap, asociali.
Il 14 luglio 1933, 75 anni fa, Hitler vara due nuove norme: una riguarda la revoca della naturalizzazione degli ebrei dell’Europa orientale che hanno avuto la cittadinanza tedesca dopo il 9 novembre 1918. L’altra è la sterilizzazione - «anche contro la volontà del soggetto» - dei portatori di presunte malattie ereditarie.
Negli anni successivi, fino al 1938, c’è uno stillicidio di leggi che accentuano sempre più le discriminazioni razziali. Ma già nel 1933 gli effetti di queste leggi sono evidenti. In primo luogo per la cultura tedesca, fino ad allora leader in Europa. Nei giorni successivi al provvedimento di aprile, infatti, ben 1.200 professori universitari (il 14% dell'intero corpo docente) deve lasciare l’insegnamento. La gran parte emigra all’estero, riparando soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
A soffrirne è in primo luogo la scienza. Da Einstein (già andato via) a Max Born, da James Franck a Fritz Haber lascia infatti la Germania, perché di origine ebrea, una moltitudine di cervelli, quantificata nel 20% degli scienziati e nel 25% dei Nobel scientifici. Non è solo una diaspora, è un vero e proprio ribaltamento polare. L’asse della scienza mondiale - da tre secoli saldamente centrato sull’Europa - si sposta per la prima volta nel Nord America. Giustamente gli storici americani Jean Medawar e David Pyke hanno parlato di «Hitler’s gift», del regalo di Hitler agli Stati Uniti.
Nel 1938, quando l’Italia di Mussolini si accinge a copiare la Germania di Hitler, tutto questo è già sostanzialmente evidente. La cultura di una parte decisiva dell’Europa è già stata distrutta. Mussolini vuole dare il suo ulteriore contributo a quel disastro. E, infatti, in poche settimane - come abbiamo detto - dissolve le due scuole scientifiche più brillanti del paese, quella di Enrico Fermi a Roma e quella di Bruno Rossi a Padova.
Ma dicevamo di un terzo anniversario che ricorre quest’anno. Che è legato ai primi due e che è di segno opposto. Di segno positivo. Nel 2008 ricorre infatti la nascita di Edoardo Amaldi, uno dei «ragazzi di via Panisperna», che ha lavorato con Fermi. L’unico che resta in Italia. E che, sopravvissuto alla guerra, inizierà - a partire già dal 1943 - l’opera della ricostruzione. In Italia e in Europa.
Dalle macerie, che non sono solo metaforiche, Amaldi si muoverà con lucido impegno lungo una serie di linee molto articolate, riconducibili a due grandi obiettivi: fare di necessità virtù e con poche risorse finanziare riportare l’Italia all'avanguardia della fisica mondiale; fare della scienza una leva per la pace in Europa e per la riconquista della leadership scientifica al nostro continente, nell’ambito di una sana competizione solidale col resto del mondo. Due obiettivi che, pur nel mutare delle situazioni, restano più che mai attuali.
Amaldi adotta una lucida strategia per il rilancio italiano. Il paese deve puntare tutte le sue risorse (che sono soprattutto umane) su pochi obiettivi di assoluto prestigio. Ma in cui acquisire una forte indipendenza. Gli obiettivi che Amaldi fissa sono: la fisica dei raggi cosmici nel campo della fisica di base; l’acquisizione di un know how di tutta la filiera del nucleare civile - dalla scienza di base alle applicazioni tecnologiche più spinte - nel campo della fisica applicata per conferire al paese una totale indipendenza in uno dei settori strategici dell’energia; fare più in generale della scienza la leva per portare l’Italia nel novero delle economie più sviluppate. A oltre sessant’anni dall’elaborazione di questa strategia, possiamo dire che Amaldi raggiunge solo il primo degli obiettivi che si prefigge: la fisica italiana ritorna presto tra le migliori al mondo. Gli altri due obiettivi: l’indipendenza energetica fondata su un know how autonomo e un’economia fondata sulla conoscenza, non verranno centrati. E non certo per colpa di Amaldi.
Il quale, invece, ha grande successo lungo l’altro percorso individuato: il ruolo della scienza in Europa. Egli infatti si fa promotore di un grande centro europeo di ricerca, che da un lato possa competere alla pari con Stati Uniti e Unione Sovietica. E dall’altro favorisca finalmente la pace tra i popoli di un continente devastato dai conflitti. In questo riesce, vincendo le resistenze di suoi illustri colleghi, del calibro per intenderci dell’americano Isidor Rabi e del danese Niels Bohr.
Quando, negli anni ‘50 dello scorso secolo, nasce a Ginevra, il Cern, il Centro di ricerca in fisica nucleare voluto da Amaldi, è la prima istituzione comune realizzata dai paesi europei usciti dalla guerra - il primo nucleo di condensazione dell’Unione europea - e il fisico italiano è il suo primo direttore generale.
Oggi il Cern di Ginevra è il più grande laboratorio di fisica al mondo e svolge le ricerche più avanzate nel suo settore. Un piccolo, grande monumento alla nuova Europa che ha saputo superare con progetti di pace e di integrazione culturale la sua pagina più buia: quella della discriminazione razziale.

Repubblica 14.7.08
Intellettuali antisemiti. Settant'anni fa i provvedimenti del fascismo contro gli ebrei
Ecco chi sostenne le leggi razziali
di Nello Ajello


Il manifesto sulla razza fu pubblicato il 14 luglio del 1938 sul "Giornale d´Italia"
Papa Pio XI pensava a una serie di misure contro la campagna anti-israelitica
Le misure razziste furono sostenute dai medici Pende e Visco, ma anche da giornalisti e uomini di cultura come Volpe, Fanfani, Monelli, Ansaldo e Malaparte

A emettere il primo acuto è Il Giornale d´Italia. Lì, il 14 luglio 1938 (sotto la data del 15 trattandosi di un quotidiano della sera) appare un manifesto intitolato «Il fascismo e i problemi della razza», attribuito a «un gruppo di studiosi fascisti», di cui non si fanno i nomi. Il testo, diviso in dieci punti, culmina in una rivendicazione della purezza razziale degli italiani e denuncia il rischio che il loro sangue venga contaminato dall´incrocio con ceppi extra-europei, portatori di varietà biologiche diverse da quella ariana. Il punto 9 del manifesto porta un titolo rivelatore: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana».
Solo il 26 luglio, il Partito nazionale fascista rivela le generalità degli autori del manifesto. Tra i quali i più celebri sono il patologo Nicola Pende, il biologo Sabato Visco e lo psichiatra Arturo Donaggio. Si informa che gli estensori del documento, redatto sotto l´egida del Ministero della Cultura Popolare, sono stati ricevuti dal segretario del Partito, Achille Starace. Poco più tardi Pende e Visco protestano, sostenendo che il testo originario è stato "rimaneggiato". Ma ben presto tacciono.
Chi non tacque affatto, fin da principio, furono gli intellettuali "militanti" - letterati, storici, giornalisti - quasi che l´avvio ufficiale della campagna antisemita rientrasse nei loro più fervidi voti. L´acuto risuonato sulle colonne del Giornale d´Italia diventò così un coro. Non soltanto gli organi di stampa del razzismo ufficiale, come La vita italiana di Giovanni Preziosi, Il Quadrivio o Il Tevere di Telesio Interlandi, Il Regime fascista di Farinacci, ma anche i quotidiani meno etichettati aderirono alla nuova missione. E per un certo numero di scrittori l´antisemitismo rappresentò una palestra per esercitare virtù retoriche e talenti pedagogici.
Fu proprio Interlandi a proclamare sulla Difesa della razza, fin dai primi giorni dell´agosto 1938, che la campagna antisemita mirava alla «liberazione dell´Italia dai caratteri remissivi» che le erano «stati imposti dalle precedenti classi politiche». Quale occasione migliore, dunque, per mostrarsi aggiornati e «rivoluzionari»? In un saggio pubblicato in quattro puntate nella rivista Il Ponte fra il 1952 e il 1953, Antonio Spinosa avrebbe poi offerto una nutrita antologia di scritti di chiara obbedienza razzistica. Altrettanto ricca in questo senso è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice. Si tratta di una documentazione inquietante.
Per questo genere di letteratura, il 1938 è un anno privilegiato. Esce un trattato di Gabriele De Rosa, intitolato La rivincita di Ario. Vi si sostiene «l´identità ebraismo=comunismo», binomio al quale si oppone con i fatti «l´asse Roma-Berlino»: l´Italia, specifica l´autore, sta combattendo «in terra di Spagna non l´iberico nemico, ma la terza internazionale ebraica, quella creata dall´ingegno giudaico-massonico del Komintern». Gli fanno eco, tra gli altri, giornalisti come Felice Chilanti e Ugo D´Andrea.
Critici delle più varie discipline denunziano, intanto, i danni che l´ebraismo infligge alla creazione artistica. In agosto un noto musicologo, Francesco Santoliquido, definisce la musica moderna «un vero e proprio monopolio della razza ebraica». Il critico letterario Francesco Biondolillo cerca di dimostrare che «il pericolo maggiore è nella narrativa». Qui, «da Svevo, ebreo di tre cotte, a Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo tutta una miserabile rete per pescare dal fondo limaccioso della società figure ripugnanti».
Moravia non era nuovo a simili attacchi. Già nel 1931, in visita a Giovanni Papini, era stato da lui accolto con le parole: «Lei collabora alla rivista Solaria. I solariani sono o zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte e tre le cose». Era una frase almeno in parte inesatta, avrebbe poi commentato il romanziere. Essa rientrava comunque nello stile dello scrittore fiorentino il cui romanzo Gog, edito proprio nel ´31, si ispirava al più schietto antisemitismo.
Ora, nei tardi anni Trenta, quei precedenti si amalgamavano al seguito di una parola d´ordine unitaria. Gli intellettuali razzisti di sentimenti razzisti si moltiplicavano. Fra quelli destinati a diventare proverbiali figura Guido Piovene. È lui a firmare, sul Corriere della sera del 15 dicembre 1939, una recensione entusiastica al libello di Interlandi Contra judaeos. Gli attribuisce il merito di «aver ridotto all´osso la questione ebraica». Salvarsi dagli influssi semitici, suggerisce, non è difficile: «si deve sentire d´istinto, e quasi per l´odore, quello che v´è di giudaico nella cultura». Nella Coda di paglia (1962), lo scrittore formulerà una drammatica abiura, confessando di aver «obbedito da schiavo», senza sentirsene mai «partecipe», alle direttive del regime.
In altri casi, come quello di Amintore Fanfani - il quale sostenne nel ´39 che «per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri» - un´abiura altrettanto recisa non ci sarà. E neppure qualcosa di simile verrà espressa dallo storico Gioacchino Volpe (1876-1971), al quale la politica della razza pura parve una tappa verso la costruzione di un´Europa «veramente unita e solidale».
Ma torniamo a letterati e giornalisti. Con lo scoppio della guerra l´antisemitismo assurge a epidemia. Dal ghetto di Varsavia, nel ´39, Paolo Monelli scrive per il Corriere della sera: «Nulla ci pare di avere in comune con questa schiatta ebraica, con la sua strana lingua, le sue insegne illeggibili, gli esotici costumi, i gesti paurosi, l´andare sbilenchi il più rasente al muro possibile». Dalla Cecoslovacchia Curzio Malaparte denunzia sullo stesso giornale «il pericolo sociale che rappresenta», per le città boeme, «l´enorme massa del proletariato giudaico»; mentre Giovanni Ansaldo scopre sulla Gazzetta del Popolo che sono stati gli ebrei ad aggravare il conflitto mondiale: «i "rabbi" di Nuova York, spingendo l´America alla guerra, hanno seguito l´istinto e la tradizione della razza».
Ci sono poi gli ossessi, come Mario Appelius e Marco Ramperti. Il primo definisce «Israele traditore del mondo». Per il secondo «più che dalla stella gialla gli ebrei si riconoscono dalla ferocia dello sguardo». Fra questi mostri, egli ne privilegia uno: «il più sozzo, il più ripugnante, il più disumano e nemico è Charlot».
Furono tutti così, gli "osservatori" italiani degli anni Trenta? Perfino nelle file fasciste si riscontrano casi di adesione al razzismo solo parziale, o perfino di ripudio. Pur ufficialmente antisemita, Giuseppe Bottai, a detta di un suo biografo, Alexander J. De Grand, «fu in grado di limitare l´applicazione alla cultura» delle teorie discriminatorie. Martinetti espresse la sua disapprovazione fin dal novembre 1938. A contrasti significativi si assiste anche nel dibattito sul tema «arte e razza». Ugo Ojetti si riconosce nel "pollice verso". Di parere opposto è Carlo Carrà: «Chiamare ebraizzante l´arte moderna», dichiara, «è tutto sommato molto puerile». Non per motivi di estetica, ma di fede, si oppone al razzismo Giorgio La Pira.
In campo cattolico le posizioni in materia sono variegate. Papa Pio XI, Achille Ratti, non smetterà di deprecare le «ideologie totalitarie», di cui sono frutto il «nazionalismo estremo» e il «razzismo esagerato», mentre meno reciso risulta l´atteggiamento di buona parte della gerarchia. Un simile quadro, già noto, s´arricchisce in questi giorni di nuovi particolari. Nel prossimo numero della Civiltà cattolica padre Giovanni Sale, storico della Compagnia di Gesù, ripercorre la vicenda, pubblicando una lettera inedita di Bonifacio Pignatti, ambasciatore d´Italia in Vaticano. In questa lettera, datata 20 luglio 1938 (cinque giorni dopo la pubblicazione del manifesto antisemita), il conte Pignatti scrive che «il Papa medita le contromisure da adottare dinnanzi alla campagna anti-israelitica progettata dall´Italia, e che verrà condotta in base ai principi di purezza di razza, redatti dai professori universitari italiani».
L´articolista ricorda che una settimana più tardi lo stesso Pio XI - in un discorso agli studenti di Propaganda Fide attaccò con forza l´indirizzo filo-tedesco adottato dal regime in campo razziale. La stessa severità il pontefice avrebbe mostrato il 6 settembre del ´38 - quasi in extremis: sarebbe morto il 10 febbraio successivo - sostenendo di fronte a un gruppo di pellegrini belgi «che l´antisemitismo è inammissibile e che spiritualmente siamo tutti semiti perché discendenti da Abramo, nostro padre nella fede». Era, osserva padre Sale, «la prima volta che un pontefice in modo chiaro ed esplicito condannava l´antisemitismo». Ci si può chiedere se ci sarebbero state altre volte.

Corriere della Sera 14.7.08
La primavera di Praga e l’alibi dell’intervento
di Sergio Romano


Ho partecipato, in qualità di giornalista interessato a varie tematiche, alla presentazione del libro di Enzo Bettiza «La Primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata».
Erano presenti, tra gli altri, il presidente Cossiga e il senatore Andreotti. Nel corso degli interventi sono stati ricordati anche i fatti di Budapest e a proposito dei due interventi sovietici in Ungheria e in Cecoslovacchia, Cossiga, allora sottosegretario agli Esteri, ha precisato che, in entrambe le circostanze, i sovietici avevano ammonito la Nato a non intervenire, ricordando il Patto di Yalta con le divisioni in Europa delle rispettive zone di influenza.
Cosa che ha portato alla famosa teoria della «sovranità limitata». E Cossiga ha ribadito: «Il Patto di Yalta era una realtà insormontabile».
Ora io ricordo che le prime consultazioni elettorali avvenute in Italia il 2 giugno del 1946 (e altre successive), vedevano un Partito comunista molto forte che, insieme ai socialisti di Nenni, poteva anche vincere le elezioni. Ora mi domando e le domando: che cosa sarebbe successo se quella volta o successivamente i comunisti avessero vinto, distaccando l'Italia dall'Occidente e uscendo da quella Nato che hanno sempre ferocemente combattuto? Il Patto di Yalta valeva solo per i Paesi europei dell'Est o anche per quelli dell'Ovest?
Sergio Favìa del Core

Caro Favìa del Core,
Non ero presente alla discussione romana sul libro di Bettiza, ma stento a credere che il senatore Cossiga (allora sottosegretario alla Difesa, non agli Esteri) si sia espresso nei termini da lei citati. L'Unione Sovietica non invocò gli accordi di Yalta, ma giustificò l'intervento in Cecoslovacchia con argomenti che vennero più tardi definiti «la dottrina Breznev» e sono contenuti in un discorso del leader sovietico ai lavoratori polacchi del novembre 1968. Accusato di avere tradito i principi marxisti e leninisti sulla sovranità e sui diritti dei popoli all'autodeterminazione, Breznev sostenne che quelle critiche erano infondate e aggiunse: «I popoli dei Paesi socialisti e i partiti comunisti sono certamente liberi di decidere le modalità del progresso nei loro rispettivi Paesi. Ma nessuna delle loro decisioni deve danneggiare il socialismo nel loro Paese o i fondamentali interessi di altri Paesi socialisti e l'intero movimento della classe operaia che lavora per il socialismo. Questo significa che ogni partito comunista deve rispondere dei suoi atti non soltanto al proprio popolo, ma a tutti i Paesi socialisti e all'intero movimento comunista. Chiunque lo dimentichi e sottolinei esclusivamente l'indipendenza del (singolo) partito comunista, diventa unilaterale. E trasgredisce il proprio dovere internazionale».
Vi sono altre due ragioni, del resto, per cui i sovietici non avrebbero mai invocato gli «accordi » della conferenza di Yalta. In primo luogo non avrebbero mai ammesso l'esistenza di un'intesa per la spartizione dell'Europa con le potenze capitaliste. In secondo luogo, a Yalta non vi furono accordi per il futuro dell'Europa e del mondo. La conferenza si tenne nel febbraio del 1945, quando la guerra non era ancora terminata. Si parlò molto dell'intervento dell'Urss contro il Giappone, delle condizioni della Polonia (che aveva allora un governo in esilio a Londra e un altro di obbedienza sovietica in patria) e infine del grande organismo internazionale che avrebbe dovuto succedere alla Società delle Nazioni. I temi che maggiormente interessavano Roosevelt, in quel momento, erano l'Onu e le regole istituzionali che ne avrebbero permesso il buon funzionamento. Si trattò di una speranza ingenua, come sostennero più tardi i suoi critici? Forse. Ma non dimentichi, caro Favìa del Core, che la guerra fredda sarebbe scoppiata nel 1947. Il senno di poi, nell'analisi degli avvenimenti internazionali, è un pessimo consigliere. La leggenda di Yalta come grande mercato per la spartizione dell'Europa fu in buona parte opera del generale de Gaulle, assente perché non invitato, e profondamente infastidito da questo gesto di scortesia degli alleati maggiori.
Alla domanda concernente l'Italia rispondo che gli Stati Uniti furono effettivamente molto preoccupati dalla possibile vittoria dei social-comunisti alle elezioni del 18 aprile 1948 e dedicarono una intera seduta del Consiglio per la sicurezza nazionale alle contromisure americane, anche militari, nell'eventualità dell'ipotesi peggiore. Ma l'Alleanza Atlantica non esisteva ancora. Fu creata a Washington nell'aprile del 1949 e il suo sessantesimo anniversario verrà celebrato agli inizi dell'anno prossimo.

Corriere della Sera 14.7.08
Archivi La rivista «La Nuova Europa» pubblica una lettera inedita in Italia in cui l'autore russo prefigurava l'equivalenza dei regimi
Pasternak: nazismo e comunismo sono gemelli
Lo scrittore nel '33 definiva i due totalitarismi «figli della stessa notte materialistica»
di Boris Pasternak


5 marzo 1933, Mosca
Miei cari mamma e papà, scusate se per tanto tempo non vi ho scritto, proprio non mi riusciva.
Non so come rispondere alla tua domanda a proposito di Anatolij Vasil'evic'; è questione terribilmente difficile e non ne ho il cuore. Un uomo che ha sofferto un colpo, la cui vita è appesa ad un filo, invecchiato, irriconoscibile, pronuncia davanti agli scrittori un discorso pubblico sulla drammaturgia, pieno di odio e di minacce, assetato di sangue e rivoluzionario: e questo quando ha già un piede nella fossa. Io ascoltavo con orrore e indicibile pietà. Mi sarà difficile trattare con lui, tanto più che si dice sia ancora malato. Forse è meglio che tu chieda a Šura.
Avete gioito troppo presto per la mia raccolta: l'hanno vietata. E inoltre in questi giorni hanno vietato anche la seconda edizione de Il salvacondotto, dedicata alla memoria di Rilke. Nonostante tutti questi dispiaceri siano insignificanti rispetto a come vive qui la gente, scriverò comunque a Gor'kij, per quanto ciò mi pesi. Le parole sul mio conto in cp. pal. hanno colto nel segno. Amara verità.
Come spesso ti ho scritto, a volte mi sembra di essere impazzito o di vivere in un incubo. La passaportizzazione riguarderà anche me: colpisce le due donne che fino ad oggi erano insieme a mio carico e che io ugualmente mantengo. Inoltre, Zina ha ancora una zia che probabilmente sarà sfrattata e non sa dove sbattere la testa. Garrik è già in confusione. Sono nel panico anche i vicini, i Frišman e Praskov'ja Petrovna. Con le tessere del pane ci sono state molte dolorose disavventure. Eppure gli scrittori sono portati in palmo di mano. Ma come fa la gente comune?
D'ora in avanti, forse, diventerà impossibile scriversi: è probabile che cresca la diffidenza da entrambe le parti. Ecco perché scrivo più apertamente che mai e proprio sul tema centrale, affinché in futuro possiamo limitarci esclusivamente a scambi di battute sulla salute, sempre che questa lettera vi arrivi e che a me non succeda nulla.
Auguro di tutto cuore, come pochi altri fanno, che sia coronato da successo qualsiasi tentativo di costruire un'umanità finalmente umana; e lo auguro soprattutto al nostro, visto che è proprio questo lo scopo per cui sono state sopportate così tante prove nel nostro Paese. Mi tormenta la stessa cosa nel nostro sistema qui e nel vostro, per quanto possa sembrarti strano: cioè il fatto che si tratta di movimenti nazionalistici e non cristiani, che corrono l'uguale rischio di scivolare nel bestialismo del fatto e che comportano un'identica rottura con la tradizione secolare misericordiosa, che si nutriva di trasformazioni e di prefigurazioni e non delle mere constatazioni della cieca inclinazione. Sono due movimenti gemelli, di pari livello, dove uno emula l'altro, il che è sempre più triste. Sono le due ali, destra e sinistra, della stessa notte materialistica.
Rispondimi comunicandomi di aver ricevuto questa mia lettera e dandomi notizie sulla vostra salute, e fammi anche sapere se devo continuare a scrivervi in russo o se è meglio in tedesco. Nel caso la corrispondenza alla nostra vecchia maniera crei difficoltà, per comodità comincerei a scrivervi nel mio pessimo francese storpiato. Avete letto la biografia di Wagner di Guy de Pourtalès? Leggetela. Ho molti progetti, ho una voglia matta di lavorare, ma tutto ciò è ancora là da venire: è idealismo.
Vi bacio forte Vostro Borja Lo scrittore Boris Pasternak (1890-1960) ritratto nel 1924 con la prima moglie Evgenija Lourie e il figlio Evgenij

Corriere della Sera 14.7.08
La capacità rabdomantica di anticipare gli eventi
di Dario Fertilio


Un Boris Pasternak talmente ispirato da sembrare il dottor Zivago, da identificarsi completamente con il suo personaggio letterario più famoso. È questo il profilo dell'autore di questa lettera, inedita fuori dalla Russia. Testimonianza doppiamente forte e inquietante, se si considera la data che porta, cioè il 5 marzo 1933. Hitler era cancelliere in Germania da due mesi, mentre il regno staliniano teneva ancora in serbo i suoi orrori peggiori. Eppure Pasternak già sapeva quel che sarebbe accaduto. Come spiegarlo? La risposta è nel passo in cui si parla di prefigurazione, cioè della capacità di vivere gli eventi in anticipo, immaginandoli: questa è considerata caratteristica distintiva dello scrittore ma, più in generale, tessuto connettivo di qualsiasi esperienza realmente umana. È invece il materialismo, secondo Pasternak, ovvero il «bestialismo del fatto», a distruggere l'uomo e la sua anima. Ma là dove il profetismo dello scrittore si rivela inquietante è nel paragone fra «i due regimi gemelli di pari livello, dove uno emula l'altro», comunismo e nazionalsocialismo. Chi, oltre a Pasternak, poteva aver già colto nel 1933 quella affinità tra i due sistemi che qui lo spinge a scrivere: «Sono le due ali, destra e sinistra, della stessa notte materialistica»? Certo, un altro grande della letteratura russa, Vasilij Grossman, avrebbe descritto in Vita e destino l'equivalenza delle due bandiere rosse — una con la falce e martello e l'altra con la svastica — ma sarebbe arrivato a una simile, amara conclusione solo nel 1960.
L'unica spiegazione possibile è questa: la particolare filosofia di Boris Pasternak, la sua teoria riguardo alla necessità di lasciarsi invadere dalla vita senza remore, pronunciando un sì a ogni suo aspetto, comprese le illuminazioni e le contraddizioni, lo rese straordinariamente ricettivo, acuto, rabdomantico nell'indagare la marea montante dei totalitarismi. Il merito della scoperta va a Serena Vianello, che si è imbattuta nel documento (il cui originale appartiene al fondo Pasternak di Oxford) consultando a Mosca l'Opera Omnia dello scrittore, da poco pubblicata. I riferimenti cui si allude nel documento sono stati decifrati da Simona Vianello: Anatolij Vasilevic, ad esempio, è Lunacharskij, primo commissario del popolo per l'Istruzione, cui il padre di Boris sperava di strappare l'autorizzazione a pubblicare un suo libro. Šura è il nomignolo di Aleksandr, fratello minore dello scrittore; la «passaportizzazione» allude al nuovo obbligo di passaporto interno con indicazione del domicilio; Garrik era un grande pianista, marito della sua futura seconda moglie; Guy de Pourtalès un biografo svizzero famoso all'epoca. Soltanto della misteriosa sigla «cp. pal.» sembra non sia ancora stata trovata la chiave.

Corriere della Sera 14.7.08
Manuali di storia e Primavera di Praga


Questa lettera di Boris Pasternak alla famiglia, inedita fuori dalla Russia, verrà pubblicata nel nuovo numero della rivista di cultura internazionale «La Nuova Europa», edita dal Centro studi «Russia Cristiana» (in uscita oggi). È stata trovata nell'Opera omnia dello scrittore (appena pubblicata in Russia) da una giovane ricercatrice, Serena Vianello, che ha decifrato quasi tutti i riferimenti del testo. Tra gli altri temi trattati in questo numero della rivista: un dossier sulla Primavera di Praga e sull'invasione sovietica del 21 agosto 1968 (con interventi di Jan Carnogursky, Sante Maletta, Fabrizio Rossi), una ricerca sui manuali russi di storia, con un intervento dello storico Nikita Sokolov e un'intervista a Irina Scerbakova della associazione «Memorial» di Mosca.

l’Unità 14.7.08
I rettori denunciano. Tagli ai fondi e un tentativo di privatizzazione
Tremonti e il decreto «affossa università»
di Pietro Greco


Tagli al Fondo di finanziamento ordinario delle università di 1 miliardo e 443 milioni da qui al 2013. Sostanziale blocco del turn-over: per ogni 10 docenti in uscita solo 2 potranno essere sostituiti. Possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato. Per la CRUI, la Conferenza dei rettori delle università italiane, non c’è dubbio: «La prospettiva che emerge chiaramente dalla manovra è quella di un sostanziale, progressivo e irreversibile disimpegno dello Stato dalle sue storiche responsabilità di finanziatore del sistema universitario nazionale».
La manovra che si accinge a realizzare la più radicale riforma dell’università mai effettuata nel nostro Paese e a rivoltare come un calzino il sistema italiano dell’alta educazione è il decreto-legge n. 112 elaborato dal Ministro dell’economia Giulio Tremonti e approvato il 25 giugno 2008 nel famoso Consiglio dei Ministri durato 9 minuti.
Il decreto di Tremonti potrebbe essere ribattezzato «affossa università pubblica» per almeno tre diverse considerazioni. La prima riguarda, appunto, il taglio al Fondo di finanziamento ordinario con cui lo Stato trasferisce i soldi alle università. Questo Fondo ammonta a circa 7 miliardi di euro. Esso serve, per oltre l’88%, a coprire le spese di personale. Il decreto prevede tagli progressivi a questo Fondo di: 63,582 milioni nel 2009; 190,727 nel 2010; 316,622 nel 2011; 417,077 nel 2012; 455,240 nel 2013. Per un totale di 1,443 miliardi in cinque anni.
Il combinato disposto dei tagli e degli aumenti automatici delle spese per gli stipendi del personale (scatti di anzianità previsti dalla legge) farà sì che già nel 2009 oltre il 90% del Fondo di finanziamento ordinario sarà assorbito dalle spese per il personale e che, nel 2013, si andrà oltre il 100%. In altri termini le università non avranno garantiti i soldi per pagare la bolletta della luce e del riscaldamento o per comprare la carta delle fotocopie. Sarà il collasso. Evitabile in un’unica maniera: acquisire fondi privati. O, in maniera improbabile, dalle imprese: che come si sa non hanno in Italia alcuna vocazione alla ricerca e alla formazione. O, come è più probabile, aumentando la retta di iscrizione degli studenti e accelerando l’espulsione dalle università dei giovani appartenenti a famiglie più povere.
Il secondo elemento è il sostanziale blocco del turn-over. Per ogni 10 docenti che andranno in pensione da qui al 2011 (e saranno tanti, vista la loro età media molto elevata), solo 2 potranno essere sostituiti. A partire dal 2012, le sostituzioni possibili saliranno al 50%: uno su due. La piccola università di Udine ha fatto una simulazione. Da qui al 2013, andranno in pensione in quell’ateneo 57 unità di personale. Potranno essere sostituite solo da 13 persone.
Meno docenti con minori dotazioni: la qualità dell’offerta didattica nelle università pubbliche italiane è destinata, dunque, a peggiorare. Non è una bella notizia. Anche perché gli investimenti che il nostro paese riserva all’alta educazione già oggi non superano lo 0,88% del Pil: e sono, dunque, un terzo in meno rispetto alla media europea, due terzi in meno rispetto al sistema universitario americano. In questo momento anche la Germania e la Francia stanno rivedendo la loro politica universitaria. Le riforme sono diverse. Ma entrambi aumentano i fondi.
Ma il decreto di Tremonti contiene un ulteriore passaggio. Si dice che le università italiane - se vogliono - potranno trasformarsi in fondazioni di diritto privato. L’idea è chiara. Lo Stato si ritira progressivamente dal settore dell’alta educazione e lascia le università italiane libere di attingere sul mercato i fondi di cui hanno bisogno. Insomma, come rileva il rettore di Udine, il decreto-legge è un frettoloso tentativo di privatizzare il sistema universitario italiano. Il completo ribaltamento di un modello - quello dell’università pubblica - che da almeno un paio di secoli caratterizza l’alta educazione in Italia e in Europa. Sorprendono tre cose, in questa frettolosa operazione.
Primo: che la riforma universitaria avvenga per volontà del Ministro dell’Economia e senza una parola da parte del Ministro dell’Istruzione.
Secondo: che avvenga in maniera nascosta, senza un’ampia e approfondita discussione in Parlamento.
Terzo: che l’opinione pubblica non se ne curi affatto. Solo i rettori si sono mobilitati. E solo il Presidente Giorgio Napolitano nei giorni scorsi ha espresso il suo «vivo interesse per le questioni e per le idee» che gli sono state illustrate da una delegazione di scienziati dell’Osservatorio della Ricerca. Il resto d’Italia è ignaro o si comporta come se lo fosse. Segno che il nostro paese non ha ancora acquisito piena consapevolezza né del proprio declino né, tanto meno, della cause che lo hanno scatenato.

l’Unità 14.7.08
Genetica. Uno studio italiano individua i motivi per cui il nostro Dna è lungo poco più di quello di un invertebrato
Quello che differenzia un uomo da un verme
di Nicoletta Manuzzato


Fino a una decina d’anni fa si riteneva che il nostro Dna contenesse all’incirca 100.000 geni. Con la completa mappatura del genoma umano, gli studiosi hanno dovuto ricredersi: i nostri geni sono solo 25.000, un quarto di quanto ipotizzato in precedenza. Il dato appare ancora più sconcertante se si considera che la Drosophila, il moscerino della frutta tanto spesso utilizzato nei laboratori di genetica, ne possiede 15.000 e i vermi ne hanno in media 20.000. Insomma il nostro corredo di geni non è molto più ricco di quello di un invertebrato. A parte l’indiscutibile colpo alla nostra immagine di specie dominante, resta da capire come non più di 5.000 geni facciano la differenza tra un verme e l’Homo sapiens. Da dove trae origine allora l’estrema complessità degli esseri umani, e dei mammiferi in generale?
Un’indicazione ci viene ora da una ricerca condotta da Gianfranco Di Segni, Serena Gastaldi e Glauco Tocchini-Valentini, dell’Istituto di Biologia Cellulare del Cnr di Monterotondo (Roma). I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences, aprono un nuovo spiraglio su quella straordinaria fabbrica delle più svariate proteine contenuta nelle nostre cellule.
I ricercatori del Cnr sono partiti dal meccanismo che, attraverso vere e proprie macchine enzimatiche, copia i geni presenti nel Dna generando corrispondenti molecole di Rna. Queste molecole costituiranno le istruzioni per la produzione delle sequenze di amminoacidi che compongono le proteine. Prima di essere utilizzate a tale scopo dovranno però subire alcune modifiche, la più importante delle quali è una sorta di montaggio, simile a quello che si effettua sulle pellicole cinematografiche. Alcuni tratti interni, gli «introni», vengono rimossi e i monconi rimasti, gli «esoni», vengono saldati tra loro: proprio come in un film, dal quale si tolgono le riprese inutili o le scene ridondanti.
Questo processo di splicing, di «taglia e cuci» all’interno di una stessa molecola di Rna, era già noto da tempo. La novità che emerge dal lavoro italiano è la possibilità per le cellule di collegare esoni distanti tra loro o addirittura posti su altre molecole di Rna. Tornando all’analogia con il cinema, il montaggio unisce questa volta spezzoni di pellicole differenti, ad esempio un horror e una commedia sentimentale: ne risulterà un film completamente nuovo. In ambito cellulare potranno formarsi proteine inedite, prodotte dalla fusione di domini di proteine diverse.
«Il funzionamento di questo meccanismo, ribattezzato long distance splicing, è paragonabile alla decompressione di un file archiviato in un computer - spiega il professor Tocchini-Valentini, che ha coordinato la ricerca - Una subroutine, cioè un’unità logica di un programma, contenente una piccola ma fondamentale molecola chiamata Rna transfer, possiede le istruzioni necessarie ad assemblare parti di due catene di Rna distinte tra loro, ottenendo così nuove sequenze in grado di sintetizzare particolari tipi di proteine, non ricavabili dalle istruzioni iniziali».
Un tempo si faceva semplicisticamente corrispondere a ogni gene una singola proteina. Con lo sviluppo della biologia molecolare, l’attività che ha luogo all’interno delle cellule si è rivelata molto più complessa. L’ulteriore passo avanti compiuto nei laboratori di Monterotondo mostra l’espansione dell’informazione che avviene durante i processi di espressione genetica.
Questo può forse aiutarci a spiegare la differenza fondamentale che, nonostante tutto, risiede tra un essere umano e un verme.

Corriere della Sera 14.7.08
Debutti «Animanera» è il titolo dell'opera prima di Verzillo
Si ispira al caso Chiatti il thriller psicologico sulla pedofilia in Italia
Il regista: nessuno voleva realizzare il film
di Giuseppina Manin


Prodotta anche grazie all'appoggio di diverse Onlus per la difesa dei bambini, la pellicola sarà nei cinema dal 29 agosto
Protagonista Luigi Santoro è il piccolo protagonista del film: «Non ha mai saputo di che storia si trattasse»
La piaga resta un tabù, qualcosa di cui non si deve parlare mai, solo qualche cenno nei casi estremi

MILANO — Un mucchietto di foto di bambini. Sorridenti, imbronciati, in bicicletta, davanti alla torta di compleanno, in canottiera... Tutti legati da un unico, atroce, destino. Tutti vittime di abusi sessuali. Alcuni non sono più tornati, uccisi dai loro torturatori. Il commissario le sfoglia senza parlare, lo sguardo cupo di chi, pur avendone viste tante, non sa rassegnarsi. Nessun perché basta a spiegare l'orrore. «La chiave sta proprio dentro gli aguzzini, li fermeremo solo quando avremo la risposta », suggerisce la psicologa che lo affianca nelle indagini. «Non mi interessa capire, sono solo bestie», taglia corto il poliziotto. Ma rabbia e vendetta non bastano a debellare chi ha l'Animanera, come dice il titolo del film di Raffaele Verzillo, opera prima coraggiosa, prodotta in toto dalla Scripta con l'appoggio di diverse Onlus per la difesa dei bambini, e dal 29 agosto nei cinema. «Un film nato per attirare l'attenzione su una delle piaghe più oscure della nostra realtà — spiega il regista, 39 anni —. Un film difficile, che nessuno voleva realizzare perché in Italia la pedofilia resta un tabù, qualcosa di cui non si deve parlare mai. Solo qualche cenno nei casi estremi, da cronaca nera. L'autocensura che copre tante violenze, anche sui più piccoli, nell'ambito familiare, unita alla presenza influente della Chiesa, spesso coinvolta in queste storie, fa voltare il capo da quello che è un problema sociale. Gli abusi sui bambini sono un male endemico, come la droga e l'Aids. Un male in costante ascesa, un 30% in più ogni anno. Fortunatamente anche in costante ascesa le denuncie. Ma se i potenziali pedofili nel nostro Paese si calcolano intorno ai 100mila, solo duemila sono stati gli arresti negli ultimi tre anni». Troppo pochi davvero. «Individuarli non è facile e ancor meno coglierli in flagrante.
Condizione necessaria per fermarli», spiega Verzillo. Nel suo thriller psicologico, costruito su caratteri reali e sulle tracce del caso Chiatti, il mostro di Foligno, il protagonista (Antonio Friello) nasconde la sua turpe attività di stupratore serial killer dietro l'apparenza rispettabile, i modi distinti, i capelli brizzolati. Il vicino di casa che saluti ogni mattina, gentile, premuroso, sempre con un pensierino in tasca per la moglie. Che sembra felice, ma forse dubita, forse intuisce, forse sa. Di certo tace.
«Questi individui sono spesso sposati, anche se con matrimoni quasi sempre "bianchi", di copertura — avverte Verzillo —. Per vergogna, per paura di perdere la posizione sociale, la moglie diventa una compagna omertosa. Se si sapesse, anche lei sarebbe infatti condannata a una ghettizzazione infamante».
Ma se la famiglia può nascondere le peggiori nefandezze, la famiglia può anche far molto per sventarle. «La prevenzione è l'arma migliore — assicura il regista —. Andrea, il bimbo che nel film viene avvicinato dal "mostro" è una preda facile. I suoi, sempre così occupati, distratti da mille impegni, non prestano attenzione ai segnali che manda: modi di parlare insoliti, disegni strani. Il pedofilo invece è attentissimo. Punta i bambini un po' solitari, con genitori assenti, si propone come l'amico o il padre che vorrebbero, li lusinga con complimenti e piccoli doni. Insomma, ne conquista la fiducia». Ma una volta catturati...
Come racconta nel film un altro di quei personaggi, un professore in pensione, si tengono in casa cuccioli come esca. Il bimbo gioca con loro, si sente rassicurato, poi di colpo spezzi il collo alla bestiolina avvisando il piccolo: se non sarai buono con me, se dirai qualcosa, tua mamma e tuo papà faranno la stessa fine. Tecniche spaventose. Verzillo non teme di denunciarle («Anche se in Italia il giro dei pedofili è potente, danaroso, e nasconde tanti intoccabili»). Con delicatezza estrema ha condotto il piccolo Luigi Santoro nelle riprese. «Non ha mai saputo di che storia si trattasse, sul set erano sempre presenti i suoi genitori e uno psicologo. Ha vissuto tutto come un gioco al lupo cattivo, tra lui e Friello si è creata una vera simpatia». Per fortuna senza nessun altro risvolto.

Corriere Economia 14.7.08
Il governatore protagonista del film «Focaccia Blues»
Vendola fa l'attore A spese della Regione
In cantiere due cinecittà: a Bari e Lecce
di Antonio Calitri


A Nichi Vendola non basta una piccola Cinecittà. Il governatore della Puglia ne sta progettando addirittura due. Una a Bari, l'altra a Lecce. Forse per non scontentare nessuno nelle due città tradizionali rivali nella Regione. Entro la fine dell'anno saranno realizzati due cineporti e dei business center per la produzione cinematografica. In pratica il lato b degli studios. Con la prospettiva, se tutto andrà bene, di aprire anche i primi teatri di posa, proprio come Cinecittà.
In un solo anno la Puglia ha raddoppiato il budget destinato al cinema passando da 700 mila euro a 1,5 milioni ed ha quasi raggiunto la storica «Film Commission Torino- Piemonte» che ha un budget di circa 2 milioni di euro ed è considerata la più importante d'Italia. Alla dote della commissione poi, quest'anno vanno aggiunti 500 mila euro extra budget che la Regione ha girato alla Rai per un film tv sul sindacalista Giuseppe Di Vittorio e altri 900 mila euro che saranno investiti per due nuove strutture di produzione.
Tutto però, con una originale contaminazione politica che, alla vigilia delle prossime elezioni comunali (2009) e regionali (2010) serberà molte sorprese. Una tra tutte riguarda proprio il presidente della regione Nichi Vendola che recita nel film «Focaccia Blues», la storia in chiave no global di un piccolo panificio di Altamura che ha respinto l'attacco di un McDonald's costringendolo a chiudere. Ebbene, il film prodotto da Alessandro Contessa e Gianluca Arcopinto (già produttori del film «Nichi» sulla inaspettata affermazione elettorale del presidente pugliese), è finanziato da Regione Puglia e Apulia Film Commission e andrà in sala la prossima stagione, proprio quando inizierà la nuova campagna elettorale per le regionali. Un altro film fortemente voluto da Vendola e finanziato dal suo ente è «Pane e Libertà», sulla storia del primo segretario della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, che verrà trasmesso in tv il prossimo autunno.
Infine il sindaco di Bari Michele Emiliano impegnato nella difesa della sua poltrona avrà nelle sale e in dvd «Punta Perotti Point», il documentario che celebra la sua prima promessa mantenuta, l'abbattimento degli ecomostri costruiti sul lungomare cittadino quando era magistrato.
I progetti cinematografici della Puglia però, non si limitano a quelli politici, anzi. La Film Commission ha già contribuito alla produzione di importanti film nazionali e internazionali, da «Non ti voltare » con Monica Bellucci e Sophie Marceau a «I galantuomini » di Edoardo Winspeare con un effetto moltiplicatore calcolato in sei volte l'investimento. «Quest'anno poi — spiega Silvio Maselli, direttore dell'Apulia Film Commission — con il budget raddoppiato, arriveranno le produzioni internazionali e poi i prossimi film di Michele Placido e di Lina Wertmüller».
Intanto, al fianco alle produzioni cinematografiche arrivano i cineporti. Si tratta di due complessi di 1.200 e 4.000 metri quadrati con uffici, camerini, sale per riunioni, trucco, casting, montaggio a disposizione delle nuove produzioni. In pratica il retro degli studios, che costeranno rispettivamente 500 e 400 mila euro e sono finanziati con i fondi per le aree sottosviluppate del Cipe. «Quanto ai veri e propri teatri di posa — continua Maselli — ci stiamo pensando ma è importante prima arrivare a uno standard di almeno dieci importanti produzioni all'anno perché siano economicamente sostenibili. Intanto con i fondi Por avvieremo presto corsi di formazione per creare le figure professionali dell'intera filiera».

Repubblica 14.7.08
Religione, Obama si confessa "Prego Dio tutte le sere"


NEW YORK - In che cosa crede Barack Obama? Cristiano convinto, ma spesso additato come musulmano dai suoi detrattori, il candidato democratico alla Casa Bianca racconta il suo rapporto con la fede nell´intervista al settimanale americano Newsweek. Lo fa partendo dall´inizio, dalla sua scoperta di Gesù: «Non un´epifania, ma un processo graduale», seguito alla scoperta del senso della vita nella storia cristiana. Un percorso che condivide con la moglie Michelle: «Parliamo di Dio con le bambine, recitiamo la preghiera di ringraziamento prima dei pasti. Credo fermamente che la fede non sia fatta solo di parole, ma di fatti e lavoro». Quasi un´ispirazione di vita, che il senatore trova anche nei testi sacri: «Leggo la Bibbia, mi consente di lasciarmi per qualche momento alle spalle la vita di tutti i giorni e di riflettere.» E prega tutte le sere, Obama, per chiedere «perdono e protezione». Forse anche per questa sua ultima avventura.

il Riformista 14.7.08
Bipolarismo etico Perché è meglio lasciare le cose come stanno
Nessuna legge umana può regolare la morte
di Antonio Polito


V orrei spiegare perché il nostro giornale non ha pubblicato la lettera uscita sabato sulla prima pagina di Repubblica, in cui una donna racconta la decisione della madre, malata di sclerosi laterale amiotrofica (Sla), di darsi la morte col sonnifero, da sola e di sua volontà. Quella lettera ci era stata offerta come un contributo al dibattito sull'eutanasia, riaperto dalla vicenda di Eluana. Ma non ci era sembrata pertinente. Vi si racconta infatti di un suicidio. Di una persona che, come scrive la figlia, «coraggiosamente è riuscita a liberarsi da quella terribile malattia», in realtà liberandosi della vita. In casi come questo, quando il malato è ancora in grado di fare da sé la sua volontà, non c'è materia che possa riguardare il dibattito pubblico. È una scelta individuale e tragicamente libera. Commuove il nostro sentimento, interpella la nostra etica, ci fa magari chiedere «che cosa farei io al suo posto»; ma non pretende alcuna risposta dalla comunità. Inserirla nel dibattito su Eluana rischia solo di accrescere la confusione tra suicidio, suicidio assistito, eutanasia, interruzione dell'accanimento terapeutico: soluzioni molto diverse tra loro e di radicale diversità di fronte alla legge e alla morale.
Quando il pubblico entra nelle scelte privatissime di un essere umano, allora è inevitabile contrapporre privato a privato. E infatti nello stesso giorno, sulla prima pagina del Foglio, un altro malato di Sla, Mario Melazzini, raccontava la sua decisione opposta: continuare a vivere nutrito dal sondino, scoprendo anzi la speciale qualità di quella vita: «Da uomo sano non ipotizzavo che la totale dipendenza dagli altri potesse essere conciliabile con la dignità della vita. Invece è così».
Il bipolarismo etico - il partito del meglio morire e il partito del meglio vivere - è una regressione del dibattito pubblico. Al limite, sarebbe stato più interessante se Repubblica avesse pubblicato la lettera di vita, e il Foglio quella di morte. Domandiamoci perché non è accaduto, e già avremo compreso il rischio di questo tipo di «guerre culturali».
Voglio dire che in materia di vita e di morte non si può pretendere ogni risposta dalla legge, e dunque dalla politica. La polis, in una data epoca storica e col grado di conoscenze scientifiche del momento, può al massimo cercare un limite. Ma fissare quella soglia nel modo burocratico e generale cui ogni legge si deve attenere non risolverà mai l'incertezza del caso per caso, non calzerà mai l'eccezionalità di ogni singola storia personale. A quelli che ritengono necessaria una legge per l'eutanasia, infatti, si potrebbe obiettare che la norma già consente la sentenza con cui la Cassazione ha autorizzato il padre di Eluana a sospenderle idratazione e alimentazione. A che servirebbe una nuova legge: a prescrivere, oltre che a consentire? A chi invece ritiene che sarebbe necessaria una legge per prevenire la volontà di eutanasia, verrebbe da chiedere: una legge che impedisca alla malata della lettera di Repubblica di togliersi la vita?
La yubris della modernità ci fa credere che l'uomo, attraverso la legge, possa ormai regolare ogni aspetto della vita: proteggerla dal rischio, difenderla dalla persona stessa in cui si incarna, o metterle fine quando un freddo criterio giuridico decide che non merita più di essere chiamata tale. Ma chi siamo noi, per dirlo? Ho seguito il dibattito sul testamento biologico che si è svolto per due anni al Senato, e vi assicuro che non saprei ancora dire se per me l'idratazione sia un accanimento terapeutico che si può interrompere, o l'irrinunciabile precetto evangelico di dar da bere agli assetati. La volontà del malato, che può essere chiara in una fase della malattia, come nel caso della lettera di Repubblica, può essere solo ipotizzata, come è nel caso di Eluana. Un genitore ne sa più di un parlamentare. Un medico più di un editorialista. Un giudice più di un lettore di quotidiani. Ogni uomo è un'isola, ed è per questo che lo stato etico, che decide una volta e per sempre e per tutti, è un pericoloso arbitrio.
Perciò non concordo con Pierluigi Battista, che sul Corriere si è lamentato del progressivo affievolirsi della battaglia politica sui valori. Al contrario: lo trovo un segno di maturità. Quasi una salutare confessione di impotenza, un soprassalto di pudore. Io lascerei le cose come stanno. Lascerei ai malati, ai loro familiari, ai medici, ai giudici quando sono chiamati a esprimersi, l'onere di decidere con prudenza e conoscenza, caso per caso. Loro non devono cercare voti, né vendere giornali. Sono più liberi. Nel mio universo morale, la vita è sempre più bella della morte. Ma non pretendo che il mio universo morale sia legge, perché la legge non può mai essere uguale per tutti. L'Italia non è pronta per una norma che imponga ad Eluana di continuare a vivere, o ai medici del signor Melazzini di consigliargli la morte. C'è un limite ai poteri di una maggioranza parlamentare, qualsiasi essa sia.