mercoledì 16 luglio 2008

l’Unità 16.7.08
«Razza», chiave del fascismo
di Bruno Gravagnuolo


Razza e fascismo Ottant’anni fa, sul Giornale d’Italia del 15 luglio veniva pubblicato in forma anonima il Manifesto sulla Razza (poi ripubblicato con estensori e aderenti sulla Difesa della razza il 5 agosto). Fu certo una «svolta» per il regime, avallata da scienziati e antropologi come Pende, Businco, Visco, Cipriani, Landra. Ma non già un’innocua mitologia d’occasione, accettata solo per «conformismo» dagli italiani e in fondo priva di conseguenze, come suggeriva Giordano Bruno Guerri sul Giornale di ieri. No. C’erano intanto forti addentellati col positivismo vitalistico di Mussolini, intriso di razzismo latente, e di nietzcheanesimo volgare e pedestre. E poi c’erano le leggi sulla «dignità e l’integrità della stirpe», fatte valere dal fascismo ben prima del 1938, contro le sette religiose, e le mescolanze di sangue con gli africani. Inoltre il mito razziale era del tutto coerente col mito totalitario e imperiale. Che vedeva una «razza italiana e mediterranea» al centro di un spazio globale europeo, proiettato verso il Mediterraneo e l’Oceano indiano. Infine, grazie alle leggi razziali del novembre 1938, furono stilati gli elenchi della «Demorazza», usati dalla Rsi e dai nazisti. Che consentirono lo sterminio di 7658 ebrei italiani (10mila in tutto, incluse colonie e zone occupate). Altro che burletta e leggi all’italiana! Quelle leggi e quella cultura ci fanno dire senza timore di smentite: anche il fascismo fu nel cono d’ombra dell’Olocausto. E ne fu complice per la sua parte. Tutto il fascismo, stanti certe premesse e certi esiti. E non solo il fascismo posteriore al 1938. Come fa comodo dire a Fini, e ai post-fascisti di oggi. (...)

l’Unità 16.7.08
Scure sulle espulsioni e pattuglioni in città: sicuri per decreto (il premier è già salvo con il Lodo)
di Maristella Iervasi


Blocca processi, soldati anti-crimine, aggravante di clandestinità per gli irregolari che commettono reati, stretta sugli ubriachi al volante e confisca della casa e arresto per chi affitta in nero ai clandestini. Ecco il decreto sicurezza - peraltro in buona parte già in vigore - sul quale il governo ha incassato ieri la fiducia: il provvedimento torna al Senato per essere approvato sul filo della scadenza.
Il vero obiettivo del decreto sicurezza - dietro il motto di governo «respingere chi viene in Italia per delinquere» - sono i cittadini romeni - oggi comunitari - e gli immigrati senza permesso di soggiorno. La scure delle espulsioni e l’aggravante, infatti, si abbatterà su queste categorie di persone: chi non si farà identificare, verrà rinchiuso nei Cpt (ribattezzati Cie: Centri di identificazione ed espulsioni) non più per soli 2 mesi ma per ben 18, in accordo con le direttive dell’Unione europea. E non è tutto. Subito dopo la firma al decreto da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - nel provvedimento che fu approvato il 23 maggio scorso nel primo Consiglio dei ministri del Berlusconi IV a Napoli -, per nascondere le manovre per bloccare i processi, è stata infilata anche una norma sulle prostitute: l’emendamento è stato poi ritirato dalla maggioranza.
Espulsioni
Il giudice ordina l’espulsione dello straniero o di un cittadino comunitario, quando c’è la condanna alla reclusione per un tempo superiore a 2 anni (non più 10 come in passato). Chi non obbedisce all’ordine del giudice è punito con la reclusione da 1 a 4 anni.
Processi celeri
Il pm avrà l’obbligo di richiedere il rito abbreviato o il giudizio immediato dei reati. Divieto di patteggiamento in appello.
Aggravante per i clandestini
L’essere immigrato irregolare diventa una circostanza aggravante. In pratica, l’anticamera del reato di clandestinità previsto in un disegno di legge a parte. Per chi delinque la pena verrà aumentata di un terzo.
Affitti in nero
È prevista la confisca della casa affittata in nero ai clandestini. Per il proprietario che ne trae «ingiusto profitto», reclusione da 6 mesi a 3 anni; multe fino a 50mila euro ed è prevista ahche la confisca della casa.
Blocca processi
Le proteste delle toghe (Anm e Csm su tutti) e il fronte compatto dell’opposizione un risultato l’ha ottenuto: sono sparite dal provvedimento le norme «blocca processi» che erano state inserite con 2 emendamenti in prima lettura al Senato e presentati dai relatori delle commisioni Filippo Berselli e Carlo Vizzini. Due modifiche al testo originario che miravano a sospendere per un anno tutti i processi già in dibattimento in primo grado per i reati puniti con meno di 10 anni di reclusione e commessi prima del 30 giugno 2002, che secondo stime dell’Anm avrebbero stoppato almeno 100mila processi per un tempo indefinibile. Fra questi, il processo Mills di Milano in cui Silvio Berlusconi è imputato per corruzione in atti giudiziari. Ma l’avvio del lodo Alfano ha poi reso inutile le norme. Sta di fatto che con un emendamento sono «sparite» dal testo approvato alla Camera e sostituite da una generica previsione che riconsegna all’autorità giudiziaria il compito di individuare i procedimenti cui dare priorità: come i reati sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e quelli relativi alla criminalità organizzata.
Soldati in città
Saranno 2000 i militari impiegati per la sorveglianza degli obiettivi sensibili e altri mille per le pattuglie miste con le forze dell’ordine. I soldati dell’esercito - subito dopo la conversione in legge del decreto - li vedremo in primis nelle stazioni ferroviarie e nelle piazze di Roma, Milano, Napoli e Padova.
Ubriachi al volante
Modifiche al codice penale con la previsione di una pena da 3 a 10 anni di reclusione per l’automobilista ubriaco o sotto gli effetti di sostanze stupefacenti che causa incidenti mortali. Revoca della patente e confisca della patente.
False identità
Inasprite le pene per chi dichiara una falsa identità a un pubblico ufficiale: reclusione da 1 a 6 anni. Identica pene per chi per impedire l’identificazione «altera parti del propio o dell’altrui corpo».
Poteri ai sindaci
Potranno adottare ordinanze urgenti e segnalare gli irregolari da espellere.
Certezza della pena
Niente sospensione del carcere per chi commette atti osceni, violenza sessuale, furti o spaccio. Sulle attenuanti generiche per gli incensurati valuterà il giudice caso per caso. Ergastolo per chi uccide un poliziotto.

l’Unità 16.7.08
Giuliano Pisapia. Sarà difficile però trovare la verità politica: la commissione fu boicottata dalla destra e dall’Idv. Molte le assoluzioni dovute alla poca collaborazione dei vertici della polizia
«La condanna dei ministeri sanziona le responsabilità del governo di allora»
di Maria Zegarelli


Giuliano Pisapia, ex parlamentare del Prc, nonché difensore della famiglia di Carlo Giuliani, fu il primo a denunciare quanto avvenne a Bolzaneto, «il girone dell’inferno», come è stato definito dai pm.
I pareri su questa sentenza sono discordi. Lei come la legge?
«La mia prima reazione è stata un susseguirsi di sconcerto, dolore e rabbia perché non potrò mai dimenticare il sangue sui volti di quei giovani e la loro vergogna per le violenze e le umiliazioni che erano stati costretti a subire. Poi, ho cercato di analizzare il dispositivo della sentenza con freddezza...»
E cosa ne ha dedotto?
«Ci sono due considerazioni da fare. La verità giudiziaria quasi mai è la stessa della realtà storica. Per la prima servono prove certe, per la seconda possono essere sufficienti delle ricostruzioni, inoltre, la responsabilità penale è diversa da quella politica, individuale o collettiva: questa sentenza dimostra che non si può delegare al giudice l’accertamento di qualcosa che va oltre la responsabilità penale e la conferma di ciò si ha nel fatto che molti imputati sono stati assolti ai sensi dell’articolo 530, secondo comma, cioè la vecchia insufficienza di prove. Insufficienza di prove derivata in questo caso da un vero e proprio boicottaggio da parte dei vertici della polizia di Stato e di quella penitenziaria che non hanno fornito foto riconoscibili degli agenti presenti a Bolzaneto, i relativi rapporti degli orari di lavoro dei singoli imputati e gli ordini di servizio che potevano dimostrare le responsabilità penali».
Roberto Castelli, ministro della Giustizia all’epoca dei fatti sostiene che è stato smontato il “teorema”. Concorda?
«Non capisco da cosa lo deduca, dal momento che sono stati condannati come responsabili civili il ministero della Giustizia e quello dell’Interno. Accade molto raramente che i ministeri vengano riconosciuti responsabili, in genere sono parti civili nei processi. La loro colpa è stata riconosciuta malgrado il tentativo dei legali di dimostrare che quelli degli agenti presenti a Bolzaneto erano stati comportamenti individuali di cui non potevano rispondere i ministeri. Mi sembra che rispetto alle responsabilità di carattere politico ci sia stato un chiaro riconoscimento nell’ambito in cui è possibile, e quindi solo indirettamente, in un processo penale».
Dopo questa sentenza crede possa riaprirsi uno spiraglio per l’accertamento della responsabilità politica?
«Non credo. Non si arriverà mai all’accertamento delle responsabilità politiche al di fuori da quell’aula di tribunale perché l’unica possibilità, rappresentata dalla Commissione parlamentare è stata boicottata non solo da chi era allora ed è oggi al governo, ma anche da parte di alcuni partiti del centrosinistra, come l’Italia dei valori».
Alessandro Perugini, il numero 2 della Digos di Genova è stato accusato per abuso di autorità contro i detenuti ma non di abuso di ufficio. Vista così sembra una contraddizione....
«Siamo di fronte ad un problema strettamente giuridico. L’elemento importante che va sottolineato è che il funzionario di polizia, responsabile del carcere, ha avuto la pene più pesante. Questo vuol dire che la responsabilità partiva dall’alto, dai vertici e non dall’iniziativa dei singoli. I pubblici ministeri hanno contestato l’abuso d’ufficio perché non esiste il reato di tortura».
Quindici condanne ma neanche un giorno di carcere. Giustizia mite?
«Credo che l’obiettivo delle vittime di queste nefandezze, fosse quello di accertare la verità e le responsabilità ma, soprattutto, che gli autori di quei gravissimi comportamenti fossero o rimosse o degradati dai loro incarichi. Purtroppo è successo l’opposto: sono stati promossi».

Repubblica 16.7.08
I giudici ciechi di Bolzaneto
di Giuseppe D’Avanzo


In mancanza di un reato ad hoc, i pm chiedevano un segno d´attenzione contro l´abuso della violenza da parte di chi esercita il potere
Senza regole vince il "diritto di polizia" ma i giudici di Genova si sono arresi
Dalle avvisaglie del 2001 alla attuale politica per la sicurezza nazionale
Ma il tribunale non ha voluto riconoscere l´inumanità degli abusi
Anche in democrazia può nascere un "campo" in cui si privano di dignità le persone

Non era la "punizione" degli imputati il cuore del processo per le violenze di Bolzaneto. Quel processo doveva dimostrare (e ha dimostrato in modo inequivocabile, a nostro avviso) che può nascere senza alcuna avvisaglia, anche in un territorio governato dalla democrazia, un luogo al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario, un «campo» dove esseri umani – provvisoriamente custoditi, indipendentemente dalle loro condotte penali – possono essere spogliati della loro dignità; privati, per alcune ore o per alcuni giorni, dei loro diritti e delle loro prerogative. Nelle celle di Bolzaneto, tutti sono stati picchiati. Questo ha documentato il dibattimento. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. Tutti sono stati insultati: alle donne è stato gridato «entro stasera vi scoperemo tutte». Agli uomini, «sei un gay o un comunista?». Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini. C´è chi è stato picchiato con stracci bagnati. Chi sui genitali con un salame: G. ne ha ricavato un «trauma testicolare». C´è chi è stato accecato dallo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi ha patito lo spappolamento della milza. A. D. arriva nello stanzone della caserma con una frattura al piede. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l´altro piede».
C´è chi ha ricordato in udienza un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I. M. T. ha raccontato che gli è stato messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello.
Ogni volta che provava a toglierselo, lo picchiavano. B. B. era in piedi. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». Percuotono S. D. «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti». S. P. viene condotto in un´altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». Queste sono le storie ascoltate, e non contraddette, nelle 180 udienze del processo. È legittimo che il tribunale abbia voluto attribuire a ciascuno di questi abusi una personale, e non collettiva, responsabilità penale. Meno comprensibile che non abbia voluto riconoscere – tranne che in un caso – l´inumanità degli abusi e delle violenze. Era questo il cuore del processo. Alla sentenza di Genova si chiedeva soltanto di dire questo: anche da noi è possibile che l´ordinamento giuridico si dissolva e crei un vuoto in cui ai custodi non appare più un delitto commettere – contro i custoditi – atti crudeli, disumani, vessatori. È possibile perché è accaduto, a Genova, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati.
È questo "stato delle cose" che il blando esito del giudizio non riconosce. È questa tragica probabilità che il tribunale rifiuta di vedere, ammettere, indicarci. Nessuno si attendeva pene "esemplari", come si dice. Il reato di tortura in Italia non c´è, non esiste. Il parlamento non ha trovato mai il tempo – in venti anni – di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell´Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Agli imputati erano contestati soltanto reati minori: l´abuso di ufficio, l´abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell´indulto (nessuna detenzione, quindi). Si sapeva che, in capo a sei mesi (gennaio 2009), ogni colpa sarebbe stata cancellata dalla prescrizione.
Il processo doveva soltanto evitare che le violenze di Bolzaneto scivolassero via senza lasciare alcun segno visibile nel discorso pubblico.
Il vuoto legislativo che non prevede il reato di tortura poteva infatti consentire a tutti – governo, parlamento, burocrazie della sicurezza, senso comune – di archiviare il caso come un imponderabile «episodio» (lo ripetono colpevolmente oggi gli uomini della maggioranza). Un giudizio coerente con i fatti poteva al contrario ricordare che la tortura non è cosa «degli altri». Il processo doveva evitare che quel "buco" permettesse di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che – per tre giorni – ci è già appartenuta.
I pubblici ministeri sono stati consapevoli dell´autentica posta del processo fin dal primo momento. «Bolzaneto è un "segnale di attenzione"», hanno detto. È «un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell´uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere».
I magistrati hanno chiesto, con una sentenza di condanna, soprattutto l´ascolto di chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia, l´attenzione di chi ostinatamente rifiuta di ammettere che, creato un vuoto di regole e una condicio inhumana, «tutto è possibile». Bolzaneto, hanno sostenuto, insegna che «bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l´ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi». È questa responsabile invocazione che una cattiva sentenza ha bocciato. Il pubblico ministero, con misura e rispetto, diceva alla politica, al parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato «gli atti di tortura», «i comportamenti crudeli, disumani, degradanti». E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria: quando si muove, è già troppo tardi. La violenza già c´è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso la partita. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri, nei campi di immigrati – dove i corpi vengono rinchiusi – dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza fosse effettiva (come non era per gli imputati di Bolzaneto). L´invito del pubblico ministero e una sentenza più coerente avrebbero potuto e dovuto indurre tutti – e soprattutto le istituzioni – a guardarsi da ogni minima tentazione d´indulgenza; da ogni volontà di creare luoghi d´eccezione che lasciano cadere l´ordinamento giuridico normale; da ogni relativizzazione dell´orrore documentato dal processo. Al contrario, la decisione del tribunale ridà fiato finanche a Roberto Castelli, ministro di giustizia dell´epoca: in visita nel cuore della notte alla caserma, bevve la storiella che i detenuti erano nella «posizione del cigno» contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne.
«Bolzaneto» è una sentenza pessima, quali saranno le motivazioni che la sostengono. È soprattutto una sentenza imprudente e, forse, pericolosa. Nel 2001 scoprimmo, con stupore e sorpresa, come in nome della «sicurezza», dell´«ordine pubblico», del «pericolo concreto e imminente», della «sicurezza dello Stato» si potesse configurare un´inattesa zona d´indistinzione tra violenza e diritto, con gli indiscriminati pestaggi dei manifestanti nelle vie di Genova, il massacro alla scuola Diaz, le torture della Bixio. Oggi, 2008, quelle formule hanno inaugurato un «diritto di polizia» che prevede – anche per i bambini – lo screening etnico, la nascita di «campi di identificazione» che spogliano di ogni statuto politico i suoi abitanti. Quel che si è intuito potesse incubare a Bolzaneto, è diventato oggi la politica per la sicurezza nazionale. La decisione di Genova ci dice che la giustizia si dichiara impotente a fare i conti con quel paradigma del moderno che è il «campo». Avverte che in questi luoghi «fuori della legge», dove le regole sono sospese come l´umanità, ci si potrà affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie e non al diritto. Non è una buona cosa. Non è una bella pagina per la giustizia italiana.

l’Unità 16.7.08
Eluana, i vescovi accusano
Il padre: «Condizione innaturale»
Il presidente Cei Bagnasco: no a consumare una vita con una sentenza
Beppino Englaro: i protocolli rianimativi hanno fermato il corso delle cose
di Virginia Lori


«QUI NON SI TRATTA di una consumazione di una vita, ma di fare in modo che la natura riprenda il suo corso che è stato interrotto dai protocolli rianimativi che hanno portato Eluana allo stato vegetativo permanente. Questa è una condizione innaturale».
Ancora una volta sono le parole di Beppino Englaro - ferme - a segnare tutta la distanza tra le opinioni e le esperienze vissute sulla pelle, 16 anni accanto alla sua Eluana inchiodata a un letto. E così infatti Beppino risponde all’ennesimo affondo dei vescovi, che dicono di «non poter tacere» sulla drammaticità della sentenza che autorizza il no al prosieguo dell’alimentazione artificiale: si tratterebbe - secondo il presidente della cei Bagnasco - di «procedere a una consumazione di una vita per sentenza».
«Non voglio insegnare niente a Bagnasco», precisa il papà di Eluana rispondendo al presidente della Cei «perchè come tutte le persone ha il diritto di esprimere la propria posizione che, in questo caso, ricalca il magistero della Chiesa. Ci mancherebbe altro». Ma ribadisce con convinzione che «questa situazione è stata creata clinicamente e se ne deve uscire clinicamente secondo protocolli che rispettino la persona umana». E ancora: «Chi critica questa decisione prima legga le due sentenze della Cassazione e della Corte d’Appello di Milano e poi parli. Volete che i magistrati di una Suprema Corte e d’Appello scendano a questo livello e autorizzino una persona a far morire un’altra di fame e di sete?». «Quando capiranno il valore di questa sentenza e di quella della Cassazione, avranno fatto tanti danni ma si renderanno conto che questi magistrati sono andati così nel profondo che più non potevano». «Io non devo difendere nessuno - ha aggiunto - ma parlo per amore della realtà di Eluana, realtà che loro hanno intravisto molto bene. Dobbiamo essere fieri di questi magistrati». Inoltre Beppino Englaro ha sottolineato che «certi luoghi comuni sono indietro anni luce rispetto alla volontà di mia figlia». E quindi ha rivolto ancora un appello: «Per favore, prima di parlare leggete queste sentenze, altrimenti non ha senso».
E in attesa delle decisioni sul dove effettuare le procedure di «uscita», continua anche la polemica politica. Con Binetti a ribadire che quella dei giudici di Milano è «una vera e propria sentenza di morte, fortunatamente non ancora applicata», che di fatto «può diventare la porta d’ingresso dell’eutanasia». Ancora più truculento Avvenire: la decisione dei giudici di Milano di sospendere alimentazione e idratazione a Eluana è la «prima “misericordiosa” esecuzione capitale nella storia della Repubblica italiana».

l’Unità Firenze 16.7.08
Ma Sartre si era convertito o meno?
Da venerdì a San Miniato «Bariona», testo anomalo del filosofo. In scena Sebastiano Lo Monaco
di Valentina Grazzini


«ESSERE CREDENTI non è chic nel mondo del teatro: ma non mi vergogno a dichiararlo e a portare il crocifisso in camerino». È per questo, ma non solo, che Sebastiano Lo Monaco ha accettato una bella sfida teatrale: quella di mettere in scena l’unico testo “religioso” di Jean Paul Sartre, specchio di un momento di crisi e sofferenza del filosofo che internato nel campo di priginia di Treviri (siamo nel 1940) accettò di scrivere e poi mettere in scena un racconto ambientato in Giudea durante l’occupazione romana. Per poi sconfessarlo successivamente, col dire che le sue idee non erano in realtà affatto cambiate. Bariona o il figlio del tuono è la produzione 2008 della Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato, dove lo spettacolo, diretto da Roberto Guicciardini, vedrà la luce in prima assoluta venerdì 18 (repliche fino al 23). «Se anche Sartre avesse visto la luce della speranza in termini di Credo per un solo attimo, questo giustificherebbe la situazione - prosegue Lo Monaco, noto al grande pubblico della prosa per i classici come Enrico IV, Uno sguardo dal ponte e il recente Otello -. D’altra parte questo è molto umano, ci sono passati gente comune e grandi personaggi». Nella lettura di Guicciardini la storia di Barione viene ambientata non nella Giudea immaginata dallo scrittore, bensì nel campo in cui l’opera vide la luce: in un gioco di teatro nel teatro assisteremo dunque alla difficile costruzione dello spettacolo ad opera della «baracca degli intellettuali» che fortunosamente mette insieme costumi e scene occorrenti. Barione narra la conversione del suo protagonista, che in piena protesta contro l’innalzamento delle tasse romane viene raggiunto dalla notizia della nascita del Messia. E di come dall’iniziale diffidenza con echi assassini il capovillaggio si lasci convincere da Baldassarre (uno dei Re Magi) alla verità rivelata. Nel contesto della Fondazione di San Miniato, che ogni anno propone drammi di deciso sapore spirituale, il testo pare estremamente ben inserito. Ma attenzione, un’altra lettura è possibile ed emerge dalle parole dello stesso Sartre, che parlando con i compagni di progionia si rese conto «di ciò che era il teatro: un grande fenomeno collettivo, religioso».
Info allo 0571/400955, ore 21

Corriere della Sera 16.7.08
Una monografia di Emanuele Cafagna inaugura la nuova collana del Mulino
Ragionare sulla Ragione. Ovvero filosofare
di Armando Torno


Anche se la ragione occupa una spazio della massima importanza nel dibattito filosofico di tutti i tempi, non è semplice definire cosa sia stata e cosa oggi intendiamo con questa parola. Da Eraclito a Hegel, da Descartes ad Heidegger, dall'uso che ne fecero Platone o Voltaire a quello dei positivisti, si può dire che ogni pensatore o corrente ha lasciato le sue definizioni, o quanto meno l'interpretazione che ha ritenuto più opportuna. Emanuele Cafagna, nella nuova collana edita dal Mulino «Lessico della filosofia», con la monografia intitolata Ragione (pp. 224, e 13) offre l'inventario dei concetti e delle sfumature che ne caratterizzarono la storia. Il saggio, interessante e informato, comincia con un'efficace espressione: «Quando diciamo "ragione" il nostro linguaggio si carica di filosofia». D'altra parte, ricostruirne le avventure equivale a toccare i punti nevralgici del pensiero dell'uomo. Se agli albori della civiltà greca la ragione trova lentamente forma nelle prime speculazioni, oggi sembra quasi che voglia prendersi un congedo da alcuni assunti della tradizione.
In mezzo ci siamo noi, con le eterne domande che assillano le nostre ricerche e con il continuo bisogno di risposte. Le quali devono essere verificate, soprattutto nell'era della comunicazione informatizzata, con strumenti come questo «Lessico della filosofia», collana che ha già edito tre volumi: oltre il testo di Cafagna, è uscito Mario De Caro con la monografia dedicata all'Azione, quindi Guido Bonino con Universali/Particolari. Sono libri che si affiancano alla serie di Guida «Parole chiave della filosofia» (dove Giovanni Casertano ha pubblicato Morte) e riprendono il testimone culturale della compianta editrice Isedi. La quale negli anni Settanta avviò la prima collana «laica» (si chiamava «Enciclopedia filosofica») di questo genere, dove figuravano monografie quali Segno di Umberto Eco o Arte di Dino Formaggio.

Corriere della Sera 16.7.08
La letteratura contro il 1789 in Italia
La rivoluzione alla rovescia
di Carlo Capra


Luciano Guerci approfondisce i temi della pubblicistica reazionaria

Negli ultimi decenni una crescente attenzione è stata dedicata al pensiero e all'azione della controrivoluzione, che alcuni autori vorrebbero sottilmente distinguere dall'antirivoluzione. Nella maggior parte dei casi, si tratta di studi ispirati da una certa simpatia per queste forme di resistenza o addirittura da un esplicito rigetto della Rivoluzione francese e dei mutamenti da essa prodotti in ambito politico, sociale e culturale. In Italia, in particolare, l'affermazione di partiti e movimenti di destra ha favorito una ripresa di motivi già presenti nella storiografia di matrice nazionalista e fascista, quali l'esaltazione dei moti popolari a sfondo legittimista e sanfedista che costellarono il triennio 1796-1799 e la loro interpretazione in chiave patriottica o clericale o autonomistica. Sono lavori per lo più privi di consistenti basi documentarie e di taglio prevalentemente ideologico (lo stesso rimprovero da essi rivolto alla storiografia «tradizionale »), che hanno avuto tuttavia il merito di riproporre il rilievo e l'interesse di quella che è stata certamente la più estesa e prolungata jacquerie della storia italiana.
Da queste sollecitazioni nasce, probabilmente, la ricerca di uno storico di razza, Luciano Guerci ( Uno spettacolo non mai più veduto nel mondo. La Rivoluzione francese come unicità e rovesciamento negli scrittori controrivoluzionari italiani (1789-1799), Utet, pagine VIII + 321, e 26) a cui dobbiamo fondamentali contributi sull'Illuminismo settecentesco e sulla pubblicistica d'intonazione repubblicana in Italia. Il suo libro non si occupa delle insorgenze antifrancesi in quanto tali, ma si propone di esplorarne e cartografarne il retroterra culturale, costituito dalla letteratura controrivoluzionaria che per un decennio a partire dal 1789 reagì ai grandi avvenimenti parigini e poi alle loro ripercussioni fuori dai confini francesi. Sono libri, opuscoli, articoli di giornale, fogli volanti, componimenti in prosa e in verso, nella maggior parte provenienti dallo Stato Pontificio e compilati da religiosi secolari o regolari (non pochi gli ex gesuiti): in toni violenti e a volte apocalittici i loro autori denunciano le enormità commesse dai rivoluzionari e, a monte, l'esistenza di una vera e propria congiura contro il trono e l'altare variamente addebitata ai filosofi atei e materialisti, ai massoni e ai giansenisti, i quali ultimi non avevano esitato ad allearsi coi sovrani riformatori per colpire i privilegi e le immunità della Chiesa. Se all'inizio non mancò qualche tentativo di coniugare la sovranità popolare con la supremazia della fede (il più noto è il trattato dell'abate Spedalieri De' diritti dell'uomo, pubblicato ad Assisi all'inizio del 1791), la decisa condanna pronunciata da Pio VI nel marzo-aprile 1791 nei confronti della Costituzione civile del clero e della Rivoluzione nel suo complesso pose fine a ogni ambiguità e diede il via a una martellante campagna di stampa che raggiunse il parossismo nel periodo del Terrore e che la fine analisi di Guerci riconduce a due motivi fondamentali, l'idea di unicità e quella di rovesciamento: «La Rivoluzione francese era un fenomeno unico nella storia dell'umanità ... e dava vita a un mondo alla rovescia: un mondo alla rovescia rispetto all'Ancien Régime, il solo ordine che i nostri scrittori riuscissero a pensare e ad accettare».
Nessuno dei controrivoluzionari italiani raggiunge la grandezza visionaria di un Burke, di un Bonald o di un De Maistre. Predomina una certa monotonia e ripetitività (la stessa che caratterizzerà più tardi gli scrittori antirisorgimentali) negli insulti, nelle espressioni di orrore e di scandalo e nel rimpianto per la monarchia assoluta e per la Santa Inquisizione. Ma non mancano le scoperte interessanti, come la verve satirica e l'inventività linguistica dell'ecclesiastico piemontese Francesco Eugenio Guasco, definito da Guerci «il Voltaire della controrivoluzione», artefice di gustosi neologismi come «gerobebelosia» («frammischianza di cose sacre con le profane» spiega Guasco) e «giangiacobini» (un incrocio pestilenziale di giansenisti e giacobini). Un libro, questo di Guerci, che colma una vera lacuna negli studi sul periodo rivoluzionario e che appare utile e necessario in tempi di rinnovate tentazioni integralistiche e antimodernistiche.

Repubblica 16.7.08
"Basta coltellate tra noi, così si muore"
Pd, allarme di Veltroni in direzione. Cuperlo sfida il leader. Ultimatum di Parisi
di Giovanna Casadio


Colloquio con D´Alema. Bindi ironica: serve un coordinatore delle fondazioni

ROMA - «Io sarò meno prudente di Dario...noi discutiamo troppo in questo partito e sembra sempre che non arriviamo da nessuna parte, si chiude una discussione rinviandola a un´altra discussione. Un partito di discussioni può morire. E poi smettiamola di pugnalarci alle spalle. Sapete cosa invidio ai partiti del centrodestra? Il silenzio». Uno scossone. L´altolà alla «sindrome Tafazzi» che affligge la sinistra. Così Walter Veltroni conclude la prima direzione del Pd. Che era stata introdotta dal vice, Dario Franceschini, con una relazione pacata e l´obiettivo di non creare altre tensioni. Ma l´indomani del seminario bipartisan sulle riforme e la legge elettorale che ha segnato il punto di massima distanza politica tra Massimo D´Alema e Veltroni, è proprio il segretario a non volere nascondere la polvere sotto il tappeto.
Quindi, Veltroni denuncia le correnti: «Molta gente aveva guardato a questo terreno vergine del Pd con un carico di aspettative, noi lo abbiamo urbanizzato con troppe case, più di quelle di provenienza e qualcuno potrebbe essere tentato di tornare all´origine». Invita a «non stare sempre in mare aperto, ma a raggiungere la meta», a mescolarsi alla gente e parlare delle cose che preoccupano gli italiani («basta guardare il bollettino di Bankitalia»), a preparare iniziative in vista della manifestazione del 25 ottobre («È lì che si vedrà lo stato di salute del partito»), a «rompere il cerchio» dell´autoreferenzialità perché il partito è «attaccato da più parti». Né manca la stoccata a Di Pietro che giudica il Pd «pappa e ciccia» con Berlusconi: «Perché allora si è alleato con noi, se davvero lo pensa?».
Un dibattito serrato, trentuno interventi dopo le relazioni di Beppe Fioroni sul tesseramento e di Salvatore Vassallo sulla proposta elettorale per le europee, un confronto sulla questione morale dopo il "caso Abruzzo". Ma è l´epilogo a surriscaldare la direzione pidì. Alla reprimenda sulle discussioni l´uno contro l´altro armati, segue l´altro rimprovero del segretario contro chi arriva alle riunioni con il discorso già scritto. Il riferimento è a Gianni Cuperlo e a Barbara Pollastrini. E Cuperlo non ci sta: prima che la sala si svuoti, a conclusioni di Veltroni già chiuse, prende la parola: è irrituale, ammette, però «mi sento svalutato e delegittimato, se non discutiamo qui, dove dobbiamo farlo?». Si riaccendono le polemiche. Rosy Bindi (e prima di lei Marina Sereni) entra nel merito degli scontri interni, critica il fatto che i temi scottanti - legge elettorale sul modello tedesco, bipartitismo, dialogo con Berlusconi - siano affidati alle riunioni di fondazioni: «A questo punto perché non facciamo un coordinatore delle fondazioni? Sarebbe l´uomo più potente del partito». Veltroni a quel punto getta acqua sul fuoco. Ha avuto con D´Alema un faccia a faccia, a margine della direzione nella quale l´ex ministro degli Esteri non interviene. Non si discute di congresso anticipato. Anche se in una pausa, Giovanna Melandri sbotta: «Se c´è una differenza sull´evoluzione del quadro politico, da un lato Veltroni dall´altro D´Alema, allora meglio il congresso». A chiederlo c´è sempre Arturo Parisi che ha rifiutato di entrare in direzione. Ieri ha fatto un nuovo gesto di rottura, ponendo un aut aut: chiede con una lettera ai 2.854 costituenti e ai parlamentari pd la riconvocazione dell´ultima Assemblea costituente alla quale hanno preso parte «non più del 20% dei delegati. Se non si convoca, mi arrendo definitivamente». Lo appoggia la prodiana Sandra Zampa: «L´appello di Parisi non va lasciato cadere». Maretta anche sulle primarie. Passa il criterio che per regola si fanno, ma alle amministrative nei piccoli comuni si valuterà caso per caso, e per le ricandidature, come quella di Cofferati o di Marrazzo, non sono necessarie.

Repubblica 16.7.08
I democratici: soglia al 3% e preferenza uomo-donna
Europee, sinistra in allarme si tratta sullo sbarramento
di Mauro Favale


ROMA - Chi snocciola numeri (3, 4 o 5%), chi non ne vuole proprio sentir parlare e chi, se costretto, pur con qualche riserva ne discuterebbe. La riforma delle legge elettorale europea torna ad essere un argomento caldo (forse anche terreno di dialogo) tra maggioranza e opposizione. Ieri il Partito democratico ha avanzato la sua proposta durante la riunione della direzione: mantenere il proporzionale per garantire rappresentatività, introdurre una soglia di sbarramento al 3%, raddoppiare il numero delle circoscrizioni (da 5 a 10) e preferenza unica anziché plurima. Al massimo accompagnandola con una "di genere", con la quale l´elettore può scegliere un uomo e una donna. E poi, norme più stringenti per l´incompatibilità tra cariche così da rendere non candidabili coloro che rivestono già un incarico elettivo istituzionale. «La proposta – ha spiegato Massimo D´Alema – coincide con il documento delle 15 fondazioni che abbiamo presentato al convegno di lunedì». Durante quel convegno è emersa, per bocca del ministro Roberto Calderoli, la posizione della Lega: sbarramento al 4%, 10 circoscrizioni, preferenza unica. Le distanze politiche si misurano in termini di pochi metri. Il premier Silvio Berlusconi ha dichiarato «pronto» un testo di riforma del governo, forse non del tutto coincidente con la proposta dei leghisti (lunedì Fabrizio Cicchitto, Pdl, poneva una soglia al 5%, 15 circoscrizioni e preferenze bloccate).
Discussione per appassionati ma, dietro i numeri, in gioco c´è la rappresentanza a Strasburgo nella prima competizione elettorale dopo le politiche che hanno ridefinito il panorama politico nazionale. Tra le forze in parlamento, l´Idv converge sulla proposta del Pd: «Mi sembra opportuno porre una soglia», dice Massimo Donadi, capogruppo a Montecitorio. Chi sta fuori dalle aule parlamentari, invece, non è così ben disposto. «Non c´è bisogno di cambiare la legge elettorale europea – dice Franco Giordano, segretario uscente di Rifondazione – ma se proprio dobbiamo, allora, per noi i paletti sono 3: soglia di sbarramento molto bassa, ripartizione degli eletti su base nazionale, circoscrizioni ampie». Proprio non ne vuol parlare Claudio Fava, coordinatore di Sinistra Democratica: «Dibattito grottesco. Il Pd segue un trastullo del governo fatto solo per limitare la visibilità dell´opposizione». I tempi per la riforma stringono. Per cambiare la legge elettorale più longeva in Italia (fu approvata nel 1979) c´è tempo fino a novembre. Altrimenti nel giugno del 2009 si andrà alle urne con la legge attuale.

Repubblica 16.7.08
Il declino della cultura italiana
Tra il 2009 e il 2011 i Beni culturali perderanno 900 milioni di stanziamenti
di Luisa Grion


Settimi al mondo nei musei e ottantaseiesimi nelle mostre, ma la spesa aumenta
Resta un divario di circa 3 punti con la media Ue. Nessun sostegno ai giovani creativi

ROMA - D´accordo, abbiamo un grande passato alle spalle e siamo un popolo di creativi, ma tutto questo non basta più. Non possiamo più vivere di rendita, serve un preciso disegno di sviluppo e soprattutto servono soldi. Bisogna investire: perché se il paese è scivolato al quarantaseiesimo posto nella classifica della competitività la colpa è anche dello scarso peso attribuito alla sua produzione culturale.
L´Italia, in questo campo, potrebbe fare, ma non fa. Siamo «creativi per caso», un paese che galleggia fra declino e progresso: è questa la conclusione cui arriva il quinto rapporto Federculture (la federazione che riunisce i soggetti pubblici e privati che programmano e gestiscono il settore culturale) sullo stato delle cose in Italia. Un ritratto spietato (su dati 2007) dal quale però deriva che non tutto è perduto, perché la domanda e l´interesse reggono. Nonostante la generale caduta dei consumi.
Le basi ci sono: siamo ancora leader nel design e secondi al mondo, dopo la Cina, nell´esportazione di prodotti creativi. Ma mentre i nostri concorrenti investono, noi tagliamo i fondi e non puntiamo alla formazione di nuovi talenti. La cultura, in Italia è intesa soprattutto come conservazione del patrimonio e occupazione del tempo libero - fa notare il rapporto - non si guarda ancora alla creatività come settore trainante del bilancio. Così, mentre l´Inghilterra stanzia 10 milioni di sterline per un piano di formazione culturale-economica, e l´Olanda finanzia le industrie creative con oltre 15 milioni di euro, in Italia i Beni culturali perderanno, fra il 2009 e il 2011, stanziamenti per 900 milioni di euro, ai quali va aggiunto il taglio di 150 milioni distolti alla tutela del paesaggio per finanziare i mancati introiti dell´Ici.
Il mecenatismo di imprese e privati e l´apporto delle fondazioni bancarie aiutano, ma non bastano. E i risultati si vedono. Guardando agli altri paesi il confronto è feroce: la graduatoria dei musei più visitati del mondo, dominata dalla Francia con Louvre e Centre Pompidou, ci vede solo al settimo gradino - grazie ai Musei Vaticani - seguiti al 17esimo posto dagli Uffizi. Stessa linea per le mostre: nel 2007 Tokyo ha organizzato le tre più visitate al mondo («The mind of Leonardo», «Monet´s Art», e «Legacy of the Toukugawa») la prima italiana («Turner e gli impressionisti» organizzata dal Museo di S. Giulia di Brescia) arriva solo all´86mo posto. E anche nella graduatoria mondiale per attrattiva e grado di notorietà internazionale arriviamo quinti dopo Australia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Eppure, anche dal fronte interno, la domanda regge: nel 2007 la spesa in cultura delle famiglie italiane è stata di 61,5 miliardi di euro, con un incremento del 2,3 per cento rispetto all´anno precedente. Certo, va precisato che - a fronte di incrementi record nell´alimentare - i «prezzi» di ricreazione, spettacoli e cultura hanno subito un aumento minimo dell´1,1 per cento, ma teatro e concerti hanno messo a segno aumenti netti (nel primo caso l´incremento di pubblico è stato del 7,6 per cento, nel secondo ha superato il 10). L´interesse c´è. Per Roberto Grossi, segretario generale di Federculture, il messaggio che da tutto ciò deriva è chiaro: «Occorre un sereno e profondo esame della situazione in cui si trova oggi l´Italia. Bisogna riconsiderare scelte politiche, comportamenti, priorità ».

Repubblica 16.7.08
La chiesa e il modello Zapatero
di Massimo L. Salvadori


Sul capo del socialista Zapatero la Chiesa cattolica si attiva a raccogliere le nubi più nere. Essa non accetta la politica che il leader spagnolo intende attuare in materia religiosa e la denuncia con toni tanto pesanti da evocare – lo si è fatto recentemente da alte gerarchie ecclesiastiche – addirittura una minaccia di ateismo imposto dallo Stato. Da parte sua su questo giornale Joaquín Navarro-Valls ha sostenuto che Zapatero persegue il disegno di un socialismo conformista, concepisce i diritti individuali in contrasto con «i sentimenti religiosi della maggioranza» della popolazione spagnola che è cattolica. In sintesi, egli «finisce per essere veramente il sostenitore di una proposta massimalista e totalitaria, degna di altri tempi».
Un simile modo di leggere la politica religiosa del leader socialista sembra a chi scrive un´interpretazione deformata. Una linea che ha per finalità di dare piena attuazione alla libertà civile e alla libertà religiosa ponendo tutti i cittadini di fronte allo Stato in una posizione di piena uguaglianza viene presentata alla stregua di una strategia volta a soffocare democrazia e pluralismo culturale e religioso. Qui l´equivoco non potrebbe essere maggiore. In realtà la posizione di Zapatero non si ispira affatto, come vorrebbe Navarro-Valls, ad un «socialismo antico» (ovvero ad un socialismo totalizzante), ma all´opposto al più schietto liberalismo, il quale è non già antireligioso ma laico nella sua essenza. Andiamo a un testo classico in argomento, La libertà religiosa, di un grande studioso liberale, certo non socialista, quale Francesco Ruffini, pubblicato nel 1901, e vi troviamo affermato che «la libertà religiosa è un concetto o un principio essenzialmente giuridico», che «il vero concetto di libertà», compresa la religiosa, «può solamente esistere dove identiche concessioni si fanno a tutti, e dove l´esercizio della libertà degli uni trova un freno e una regola nell´esercizio dell´uguale libertà degli altri». Ecco il punto: uguale libertà. Dal che deriva che uno Stato propriamente libero, democratico e laico, che non ha da contribuire direttamente o indirettamente ad indirizzare le coscienze verso questa o quella credenza religiosa o non religiosa o ad evidenziare una preferenza per alcuna di esse, chiede in quanto tale all´insieme dei cittadini di rispettare i loro doveri verso la sfera pubblica e di godere in privato e in pubblico dei propri diritti di libertà, di opinione e di orientamento interiore senza pretendere e ottenere privilegi neppure di carattere simbolico nei luoghi – dalle aule di giustizia alle scuole – frequentate da persone di diversa fede religiosa o non religiose, a cui lo Stato è tenuto a rivolgersi in maniera paritaria. Il che coinvolge anche l´esposizione del crocifisso. Chiederne la rimozione – la questione è stata posta anche in Italia - significa intraprendere la via non di un socialismo che impone dall´alto una laicità escludente, ma di un liberalismo democratico rispettoso delle scelte, quali che siano, delle coscienze dei gruppi e dei singoli. È facile vedere dove sta il punto dolente dell´invocare il rispetto privilegiato dei sentimenti degli appartenenti a una sola religione, la cattolica. Proviamo ad immaginare per ipotesi che ad un certo punto in uno Stato della Ue si giungesse ad una prevalenza islamica. In tal caso, la Chiesa cattolica accetterebbe che nei luoghi pubblici al crocifisso si sostituisse in virtù del principio di maggioranza un simbolo islamico? Inutile attendere la risposta. Quando Zapatero ha espresso la direttrice che intende seguire in tema di libertà religiosa, si sono levate da noi all´interno del Partito democratico voci che hanno inteso rassicurare che in Italia non si intende «imitare» questa direttrice. Ma certi diritti hanno o non hanno un valore universale?
Rileggiamo l´incipit del testo di Zapatero riportato su la Repubblica del 7 luglio, e ci si chieda dove appaia il supposto vulnus alla libertà religiosa e alla democrazia. Esso così suona: «La solidarietà che caratterizza la società spagnola si fonda sul rispetto dei diritti. Proprio di questi ci siamo occupati nei giorni passati, quando abbiamo discusso la portata della libertà religiosa; del riconoscimento e della protezione dei milioni di spagnoli cattolici, della tutela degli spagnoli non cattolici, delle conseguenze inderogabili della norma costituzionale sul carattere laico dello Stato». Il problema che egli mette al centro è dunque la posizione uguale dello Stato dinanzi a cattolici e non cattolici: posizione che richiede che ciascuno sia libero e rispettato nella propria diversità e che lo Stato perciò non consenta a che vi sia chi è più eguale degli altri. Un messaggio, dicevo, prettamente liberale.
Ad esso la Chiesa contrappone il proprio, che fa perno su due punti cardine essenziali. Il primo è una posizione di fede, la quale consiste sia nel credere – al che non vi è obiezione da farsi - che la propria verità sia la verità tout court, sia che questa verità comporti un diritto di supremazia giuridicamente sanzionata dallo Stato. Il secondo punto, il quale costituisce l´elemento spirituale che sorregge la dimensione giuridica, è l´idea che lo Stato debba avere e tutelare un nucleo «etico» da espandere nella società neppure ispirato alla religione ma al cristianesimo di cui la Chiesa cattolica costituisce la più autentica incarnazione. Fare appello da parte cattolica ai valori di pluralismo, rispetto degli altri, tolleranza, valorizzazione delle differenze in un simile contesto significa confondere le acque e pretendere davvero troppo dalla «contradizion che nol consente».

Repubblica 16.7.08
Evoluzione. Un futuro complicato
Un dibattito fra scienza e storia
di Luca e Francesco Cavalli Sforza


La natura promuove lo sviluppo degli esseri umani ma non lo guida Moltissimi fattori intervengono nel processo. Fattori sociali e politici, scelte economiche e ambientali, strategie internazionali
Si procede con una serie continua di adattamenti al proprio ambiente di vita
La cultura ha sopravanzato in molti modi e da tempo la nostra biologia
Emergono nuove contraddizioni L´agricoltura produce sia cibo che inquinamento

Qual è il futuro dell´evoluzione umana? Dove stiamo andando? Alcuni lettori ce lo hanno chiesto, dopo che in una serie di articoli pubblicati su queste pagine l´anno passato abbiamo parlato dei fattori che hanno determinato il nostro presente. Poche domande sono più difficili, ma vale la pena di capire perché è così impegnativo rispondere.
La natura promuove l´evoluzione degli esseri viventi, ma non la guida. Una guida precede e mostra la strada, mentre la natura non mostra nessuna strada: semplicemente, pone le condizioni che rendono inevitabile quell´aumento di varietà e quel cambiamento progressivo che chiamiamo evoluzione.
L´evoluzione procede attraverso una serie continua di adattamenti al proprio ambiente di vita. Evolvere è un fatto squisitamente biologico: le piante che crescono in ambiente arido sono costrette a sviluppare una strategia che consenta loro di trattenere l´acqua disponibile, o comunque di utilizzare al meglio la poca acqua che c´è, quando arriva. Le piante che vivono in climi piovosi hanno altre opzioni, ed evolvono di conseguenza.
Anche la nostra evoluzione è soggetta ai requisiti della nostra biologia. Le nostre cellule si procurano energia bruciando ossigeno, non zolfo o ferro, per cui non possiamo vivere in assenza di ossigeno. Siamo in grado di abitare climi più o meno caldi o freddi, ma se la temperatura si avvicina a zero assideriamo, se sale oltre i 40ºC rischiamo un colpo di calore.
La nostra specie però ha sviluppato più di qualunque altra strumenti culturali che estendono i confini della sua biologia e modificano a suo vantaggio l´ambiente circostante. Come una bombola di ossigeno ci permette di spingerci al di là dell´atmosfera o nelle profondità marine, così vestiti e abitazioni adatte permettono di risiedere nei climi più freddi e una tuta in tessuto antincendio può sfidare la fiamma viva.
La cultura ha sopravanzato in molti modi la nostra biologia. Non è un fenomeno recente, ma solo negli ultimi due secoli ha raggiunto le straordinarie dimensioni odierne. Basti un´osservazione a rendersene conto: la vita media oggi sfiora o supera gli 80 anni nei Paesi più avanzati, dopo essere stata fra i 20 e 30 anni - simile a quella degli scimpanzé - per la quasi totalità della storia dell´uomo. Questa triplicazione della durata media della vita (che vale solo per i Paesi più sviluppati: in Swaziland è intorno a 33,5 anni nel 2008) dimostra con eloquenza il potere della cultura. Ma questo non significa che ora sia la cultura a guidare l´evoluzione umana. Di nuovo, possiamo dire che la sospinge, non certo che la dirige, perché l´umanità non è mai stata consapevole delle conseguenze a cui avrebbero portato le sue scelte, le sue azioni e le sue tecnologie.
Prendiamo ad esempio la più importante delle invenzioni umane: quella che ci ha permesso di produrre, con l´agricoltura e l´allevamento, il nostro cibo. Grazie ad essa, l´umanità ha potuto aumentare di numero ben mille volte in diecimila anni: da qualche milione a qualche miliardo di individui. Al tempo stesso, agricoltura e allevamento hanno dato il via a quei processi di inquinamento, desertificazione, degrado ambientale, di cui oggi abbiamo cominciato a pagare il prezzo su scala planetaria. Ogni invenzione è a doppio taglio, ha un beneficio ma anche un costo: può produrre grandi vantaggi come conseguenze indesiderate. La scoperta dell´energia atomica ha fatto fare progressi senza precedenti tanto alle nostre conoscenze quanto alle nostre tecnologie, ma i benefici che ha portato sono stati finora limitati, per quanto riguarda la produzione di energia, mentre il pericolo rappresentato dalle migliaia di testate nucleari disponibili negli arsenali grava come una terribile minaccia sul futuro dell´umanità.
Dove ci porta questo grande sviluppo culturale? La nostra capacità di fare uso di conoscenze e di tecnologie avanzate in vista di un bene comune è tutt´altro che sviluppata. Negli ultimi anni, per esempio, la quantità di cibo prodotta sul pianeta è stata spesso superiore alle necessità della popolazione umana, su scala globale. Ma cosa significa questo, nel momento in cui un individuo su tre è malnutrito e quasi un miliardo di persone è destinato a morire di fame? L´eccedenza alimentare non raggiunge i miliardi che hanno bisogno di cibo, né mai li raggiungerà, per ragioni squisitamente strutturali, inerenti ai meccanismi di produzione e distribuzione caratteristici delle nostre società. Non sono i Paesi più ricchi a raggiungere i più poveri portando i benefici derivanti dallo sviluppo, sono piuttosto gli affamati a cercare di raggiungere i Paesi più ricchi.
Qualunque essere vivente si riproduce senza limiti se trova nutrimento bastante. Un singolo batterio, dividendosi in due ogni venti minuti, produrrebbe in poco più di un giorno una massa di batteri grande quanto l´intero pianeta, se trovasse cibo sufficiente per farlo. Ogni pianta, ogni animale, tende a riprodursi e ad aumentare di numero quanto più possibile: è l´ambiente a porre dei limiti, ed è la disponibilità di cibo a frenare la crescita di qualsiasi popolazione. Una popolazione di insetti che si nutre di chicchi di grano conosce uno sviluppo immenso quando un campo di grano matura. Quando tutto il grano sarà stato mangiato, o mietuto, il numero degli insetti crollerà.
Lo stesso discorso vale per la nostra specie. Abbiamo avuto molto successo e abbiamo continuato a crescere dal momento in cui siamo comparsi sul pianeta, sfruttando la nostra capacità di creare strumenti per trarre dall´ambiente il massimo vantaggio. Ogni volta che una popolazione umana è aumentata al di là delle risorse disponibili sono scattati meccanismi di regolazione: carestie, epidemie, guerre, che hanno ridotto il numero di individui fino a renderlo nuovamente compatibile con le risorse.
Questo è successo innumerevoli volte nel corso della storia. Poi, ogni volta, la crescita è ripresa, assistita dalla potenza della riproduzione e dall´innovazione tecnologica. Se la nostra cultura guidasse la nostra evoluzione, potremmo aspettarci che ci avrebbe suggerito di limitare la crescita numerica, sconsigliandoci di spingere la pressione umana sull´ambiente fino a vedere profilarsi all´orizzonte l´esaurimento delle risorse fossili, minerarie e financo ecologiche su cui sono state costruite le nostre società. Ma non è andata così. Al contrario, ideologie politiche e religiose hanno continuato (e continuano) a propugnare la proliferazione degli esseri umani, per conquistare potenza e acquistare fedeli tramite l´aumento dei numeri. In modo analogo, l´ideologia economica dominante spinge per una crescita illimitata di produzione e consumi, quasi questi potessero moltiplicarsi all´infinito.
Dotati di conoscenze e mezzi tecnologici che ci hanno dato di fatto il controllo del pianeta, continuiamo a procedere come gli animali e i Primati che siamo (e che per tanto tempo abbiamo voluto considerare inferiori a noi): ci appropriamo di tutto ciò su cui riusciamo a mettere le mani, come se ogni risorsa fosse disponibile in quantità illimitate, senza una visione dei possibili futuri cui stiamo aprendo la strada con il nostro agire.
Diamo grande importanza al pensiero umano, alle nostre convinzioni, moralità e filosofie. Ma a cosa sono servite, se non riescono ad evitare le guerre? Se i nostri sistemi economici mantengono in povertà e in miseria metà dell´umanità? Se dobbiamo prendere sul serio l´alta considerazione in cui abbiamo sempre tenuto la nostra specie, dobbiamo concludere che viviamo sempre nella preistoria: la storia umana non è ancora cominciata.
Quando usciremo dalle caverne? Quando cominceremo a combattere contro le guerre con la stessa forza con cui combattiamo le malattie e con cui ci dedichiamo alla produzione del cibo? Quando ci renderemo conto che la nostra stessa vita è possibile solo in equilibrio con le altre forme di vita e con l´ambiente non vivente? Quando arriveremo a rispettare le convinzioni e gli stili di vita altrui? E la vita non umana?
C´è almeno un segnale positivo, per quanto riguarda la nostra crescita numerica: è la cosiddetta «transizione demografica», che si è verificata in Europa, a partire dall´Inghilterra e dalla Scandinavia, fra la metà dell´Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento. Dopo un periodo iniziale durato circa una generazione in cui le popolazioni sono cresciute di numero perché è diminuita la mortalità, ma le nascite sono continuate indisturbate, si è cominciato a fare meno figli. Grazie alla migliore sopravvivenza dei nuovi nati e a vite più lunghe, la popolazione europea ha continuato a crescere per vari decenni, poi la crescita ha cominciato a diminuire, grazie alla minore natalità, fino a raggiungere un indice vicino a zero. Oggi l´aumento numerico, in Europa, è determinato solo dall´arrivo di immigrati provenienti da altri Paesi.
Dopo l´ultima guerra mondiale questo stesso fenomeno ha iniziato a estendersi al resto del mondo. La caduta della mortalità infantile e la maggior durata della vita hanno determinato un´esplosione demografica globale, che ha portato la popolazione umana da circa 3 a oltre 6,4 miliardi di individui (nel 2006). Di questo passo, si prevede che la popolazione mondiale smetterà di crescere fra il 2040 e il 2050. Quanti saremo diventati a quel punto? Il Nord non aumenterà forse più, ma il Sud aumenta ancora. Sono state fatte molte previsioni ma sono difficili, anche perché le crisi ecologiche ed economiche, la fame, le epidemie e le guerre potrebbero diminuire il numero degli esseri umani.
Dipenderà, evidentemente, dalle risposte collettive che sapremo dare ai problemi che abbiamo davanti. Il futuro della nostra evoluzione dipende in larga misura dalla consapevolezza collettiva. Il controllo della natalità è un bell´esempio della sfida che l´umanità si trova ad affrontare: dare un indirizzo alla propria evoluzione, così che ogni persona che nasce abbia la possibilità di una vita che valga la pena di essere vissuta e che la specie umana divenga una risorsa per il pianeta, non la sua rovina.
La vita genera incessantemente se stessa e ha dato forma a tutto l´ambiente naturale. Non sa dove va, ma percorre ogni strada che riesce a praticare. Anche la cultura umana esplora ogni possibilità, e il mondo in cui viviamo è il risultato delle nostre passate azioni e dell´uso che abbiamo fatto delle nostre tecnologie. La nostra salvezza, qualunque cosa sia, non sta in un altro mondo, ma in ciò che sapremo fare di questo. E´ incoraggiante che sia così, ed è la speranza migliore. Per quanto sia importante il numero degli esseri umani, il lettore potrà però chiedersi: come saranno fatte le donne e gli uomini di domani? Questo, naturalmente, è tutto un altro discorso.

Repubblica 16.7.08
Figli in provetta crescono
I trent’anni della fecondazione
di Elena Dusi


Quando nel 1978 nacque il primo bebè concepito con la fecondazione in vitro ci furono reazioni scomposte, e i neonati vennero trattati come se fossero creature sovrannaturali. Oggi i "figli del laboratorio" sono più di 3 milioni, di cui 100mila soltanto in Italia. E ovviamente sono persone normalissime

Louise Brown aprì gli occhi e fu chiamata "la bambina miracolo". I tabloid inglesi raccontarono la sua nascita il 25 luglio 1978 come se un meteorite fosse appena atterrato dallo spazio. Per la prima volta, nel caso di quella bimba dal viso rotondo, un ovulo e uno spermatozoo si erano congiunti nella provetta di una clinica e alla luce di una lampada al neon, anziché nel ventre materno. Frankenstein fu l´esempio più abusato per descrivere al pubblico la nuova tecnica e il New York Times intitolò il suo editoriale "Concepire l´inconcepibile". Aldous Huxley - si ricordò - quasi cinquant´anni prima aveva scritto un romanzo in cui sesso e procreazione avevano perso ogni legame, e i bambini nascevano in incubatoio respirando aria artificiale.
Trent´anni più tardi "i bambini miracolo" sono diventati tre milioni nel mondo, e nessuno si sogna più di chiamarli così. La scienza studia le tecniche per aumentare di qualche punto percentuale le chance di successo della fecondazione assistita. Si cerca di rendere i prezzi abbordabili anche per i paesi del terzo mondo. E tutti gli esami medici cui i "figli della provetta" sono stati sottoposti non hanno trovato nulla di strano.
Louise Brown sorride con il suo bambino in braccio, in barba al contratto che il tabloid inglese Daily Mail stipulò allora con i suoi genitori: 500mila dollari per le foto in esclusiva e la possibilità di rivenderle con uno sconto del 40 per cento qualora la bambina fosse morta nel giro di una settimana.
«Ricordo bene quando nacque Louise. Era l´anno della mia maturità e la notizia mi sembrò stravagante», ricorda Alberto Revelli, che trent´anni dopo dirige il Centro di medicina riproduttiva all´università di Torino e insegna biotecnologie della riproduzione umana. «Oggi i ragazzi nati dalla fecondazione in vitro li incrocio magari fra i corridoi. Hanno vent´anni, è bastato innaffiarli e sono diventati grandi così».
In Italia i figli della fecondazione assistita sono circa 100mila. «Ogni anno se ne aggiungono 7mila. Stiamo parlando di un numero importante. In alcuni paesi del nord Europa si arriva al 6 o 7 per cento delle nascite», spiega Anna Pia Ferraretti, direttrice scientifica della Sismer, la Società italiana di studi sulla medicina della riproduzione.
Sulla salute di questi giovani adulti si sa ormai molto. «Non ci sono problemi particolari - spiega Carlo Flamigni, che insegna ginecologia all´università di Bologna ed è membro del Comitato nazionale di bioetica - però tendono a nascere leggermente prematuri e sottopeso. Non sappiamo se questo dipenda dalla tecnica di fecondazione o dalle cure cui la coppia si era sottoposta in precedenza per combattere l´infertilità».
Quando oltre alla fecondazione in vitro si procede anche all´Icsi (iniezione intracitoplasmatica: lo spermatozoo viene iniettato direttamente dentro l´ovulo, bucandolo) qualche anomalia in più è stata notata. «C´è un lieve aumento di alcune malattie genetiche rare», spiega Flamigni. «Si tratta comunque di casi estremamente sporadici». Se oggi di uno sforzo c´è bisogno, per migliorare la fecondazione assistita, è quello di migliorare l´efficienza della tecnica. «Normalmente il 20-25 per cento delle coppie che si sottopongono a questo trattamento ha successo. Può sembrare una percentuale scoraggiante. Ma la specie umana ha un tasso di fertilità molto basso, anche in assenza di problemi specifici. E la legge italiana non ci aiuta a superare le difficoltà», spiega Ferraretti.
«Siamo fatti per avere figli a 18 anni - dice Flamigni - ma oggi le ragazze non ne vogliono sapere. Di fronte agli anni che passano, anche l´efficienza della riproduzione assistita si perde. Non basta che la tecnica migliori di anno in anno: abbiamo imparato a scegliere gli ovuli più adatti e riusciamo a conservarli congelandoli. Ma di fronte alla barriera dell´età non c´è molto da fare».
A sentir parlare di una tecnica con un successo del 20-30 per cento i "nonni" di Louise Brown (il ginecologo Robert Edwards e il biologo Patrick Steptoe) nel 1978 sarebbero balzati sulla sedia. Alla nascita della "bambina miracolo" si arrivò infatti dopo 12 anni di fallimenti. «Decine e decine di tentativi erano andati a vuoto. Fra gli scienziati e l´opinione pubblica c´era grande scetticismo. La Chiesa aveva pesantemente attaccato questa tecnica. E non dimentichiamo che allora il prelievo degli ovuli avveniva con un intervento chirurgico vero e proprio», spiega Revelli. Che fa il paragone con l´oggi: «L´interesse maggiore arriva dai paesi di Asia, Africa o Sudamerica. Sono appena tornato dall´India e ho in programma una conferenza in Tunisia. Abbattere i costi per estendere la fecondazione assistita a tutti è una delle priorità in questo momento. Ci sono società in cui l´infertilità è vissuta come uno stigma». La scorsa settimana l´ultimo congresso della Società europea per la riproduzione umana si è posto l´obiettivo di portare in Africa la fecondazione in vitro con meno di 200 euro a trattamento. Anche se le barriere culturali rimangono («Molti genitori tendono a tacere di fronte ai figli, come se nascere in questo modo fosse un peccato», racconta Ferraretti), i trent´anni della fecondazione in vitro per i medici sono un esempio. Forse non vale la pena, sembra raccontare la storia di Louise, scomodare così spesso Frankenstein invano.

il Riformista 16.7.08
Eversione. A Locarno un documentario su Franceschini e compagni
Il "sol dell'avvenire" di chi passò dalla Fgci alle Br
di Michele Anselmi


A tratti sembra una rimpatriata di sessantenni, neanche troppo ingrigiti. Scherzano, intonano vecchi inni anti-Nato, gustano i cappelletti e la polenta col cinghiale, bevono lambrusco, sotto lo sguardo della ostessa, che li ricorda poco più che ventenni. Quasi stenti a credere che lì, alla trattoria "da Gianni" di Costaferrata di Casina, sulle montagne attorno a Reggio Emilia, una settantina di "compagni" di vario culto marxista, molti dei quali radiati dal Pci, nel 1970 decisero di passare alla clandestinità per fondare le Brigate rosse. Una sorta di congresso, per nulla clandestino, tra canti di Bella ciao e letture collettive del Che. Ma non fu una burletta, alla luce di quanto sarebbe avvenuto di lì a poco. Cinque di quei cospiratori in erba sono tornati oggi in quella trattoria per rievocare e riflettere. Tre, Alberto Franceschini, Tonino Loris Paroli e Roberto Ognibene, imboccarono la strada della lotta armata, pagando col carcere la scelta dissennata. Due, Paolo Rozzi e Annibale Viappiani, si ritrassero in tempo: l'uno pilota il IV Municipio di Reggio, l'altro è un dirigente della Fiom-Cgil. «Ma per un filo non siamo passati dall'altra parte», ammette il sindacalista.
Il documentario di Gianfranco Pannone e Giovanni Fasanella si chiama Il sol dell'avvenire , lo si vedrà al festival di Locarno. Naturalmente il titolo, ironico ma non troppo, spiega molto, perché ci fu davvero un momento in cui quei ragazzi cresciuti nella Fgci pensarono di sovvertire il «social capitalismo» delle loro zone sposando la causa della rivoluzione proletaria. A quei tempi, il Pci reggiano contava 60 mila iscritti e 260 sezioni, fresca era la ferita dei cinque operai uccisi in piazza dalla polizia, il 7 luglio 1960, presto celebrati dalla ballata resistenziale di Fausto Amodei.
Il filmato è istruttivo, misurato, anche bello, per alcuni versi inquietante. Perché, nel ricostruire la nascita del cosiddetto gruppo dell'appartamento, ci fa capire come il passaggio dal Pci legalitario di Longo (vicesegretario Berlinguer) all'utopia armata di Sinistra Proletaria (nucleo delle future Br) non fu solo un impazzimento ideologico con relativa deriva criminale. L'album di famiglia c'era, eccome, anche se due di quei cinque, e con loro Adelmo Cervi, figlio di uno dei sette fratelli uccisi dai nazifascisti, seppero sottrarsi al progetto sovversivo. «Nessuno pensava che dieci scimuniti come noi potessero prendere il potere, l'idea era di far scoppiare le contraddizioni dentro il Pci», scandisce ora Franceschini. «Per fortuna», aggiunge, «non andò così, sennò Pol Pot impallidiva». Risate.
Il gruppo prese il nome dall'appartamento nel centro di Reggio affittato in quei mesi del 1969 per chiamare a raccolta gli scontenti del Pci, i militanti di Pot Op, del Manifesto , del Cpm, i maosti, i posadisti, qualche cattolico dissidente. Ad esempio il quasi novantenne Corrado Corghi, ex dirigente della Dc, rammenta bene quei ragazzi, specie Franceschini, intelligenza vivace, già con piglio da leader. Libero dopo diciotto anni di carcere, l'ex bierre fa un po' da Virgilio in questo viaggio dentro la Reggio della sua gioventù. Una città dove le strade portano i nomi di Marx, Tito, Ibarruri. A pochi chilometri di distanza, a Cavriago, il paesino che diede i natali a Orietta Berti, resiste una piazza Lenin con busto in bronzo del capo bolscevico, tuttora «sindaco onorario». È in quel contesto storico-geografico, dove l'efficienza amministrativa del Pci non riesce a far pace con il sentimento della «Resistenza tradita», che Franceschini e i suoi amici vagheggiano l'insurrezione comunista. Ma per farla servono le armi, e anche una vecchia Luger ricevuta in regalo da un segretario di sezione, tal Attolini, può servire. Proprio quell'arma, impugnata da una mano guantata, Franceschini poserà sulla guancia del sequestrato Idalgo Macchiarini, nel 1972, per la fotografia di rito.
«Noi non siamo stati terroristi», protesta Paroli, mai dissociatosi dalle Br. Oggi dipinge in chiave terapeutica, in un suo quadro compare il cadavere di Mara Cagol coperto da un telo, l'uomo sembra vacillare solo nel rievocare la morte di un «traditore» strangolato in carcere. Giustamente, sui titoli di coda, una serie di fotografie atroci ricorda allo spettatore la piega presa dagli eventi, dal sequestro Sossi all'uccisione di D'Antona. Un brivido salutare, tra tante pacche sulle spalle e i «non ricordo» di chi ha preferito non farsi intervistare.


dal decreto legge 25 giugno 2008 n. 112. L'Articolo 58.
(Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali).

1. Per procedere al riordino, gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e altri Enti locali, ciascun ente con delibera dell'organo di Governo individua, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. Viene così redatto il Piano delle Alienazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione.
2. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica; la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del Piano delle Alienazioni costituisce variante allo strumento urbanistico generale. Tale variante, in quanto relativa a singoli immobili, non necessita di verifiche di conformità agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle Province e delle Regioni
3. Gli elenchi di cui ai commi 1 e 2, da pubblicare mediante le forme previste per ciascuno di tali enti, hanno effetto dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti trascrizioni, e producono gli effetti previsti dall'articolo 2644 del codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione del bene in catasto.
4. Gli uffici competenti provvedono, se necessario, alle conseguenti attività di trascrizione, intavolazione e voltura.
5. Contro l'iscrizione del bene negli elenchi di cui ai commi 1 e 2, è ammesso ricorso amministrativo entro sessanta giorni dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.
6. La procedura prevista dall'articolo 3-bis del decreto-legge 25 settembre 2001 n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001 n. 410, per la valorizzazione dei beni dello Stato si estende ai beni immobili inclusi negli elenchi di cui al presente articolo. In tal caso, la procedura prevista al comma 2 del suddetto articolo si applica solo per i soggetti diversi dai Comuni e l'iniziativa è rimessa all'Ente proprietario dei beni da valorizzare. I bandi previsti dal comma 5 sono predisposti dall'Ente proprietario dei beni da valorizzare.
7. I soggetti di cui all'articolo 1 possono in ogni caso individuare forme di valorizzazione alternative, nel rispetto dei principi di salvaguardia dell'interesse pubblico e mediante l'utilizzo di strumenti competitivi.
8. Gli enti proprietari degli immobili inseriti negli elenchi di cui al presente articolo possono conferire i propri beni immobili anche residenziali a fondi comuni di investimento immobiliare ovvero promuoverne la costituzione secondo le disposizioni degli articoli 4 e seguenti del decreto-legge 25 settembre 2001 n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001, n. 410.
9. Ai conferimenti di cui al presente articolo, nonché alle dismissioni degli immobili inclusi negli elenchi di cui all'articolo 1, si applicano le disposizione dei commi 18 e 19 dell'articolo 3 del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001 n. 410.

martedì 15 luglio 2008

Repubblica 15.7.08
Il silenzio davanti alle schedature etniche
di Adriano Prosperi


L´Italia che ricorda in quest´anno 2008 il settantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali è sotto accusa di razzismo per alcune misure varate dal governo attuale.
E´ inevitabile che questa situazione dia un tono particolare alla rievocazione e alla discussione di quel che accadde nel 1938. Un gruppo di scienziati italiani, ad esempio, ha sentito la necessità di ribattere punto su punto le tesi di un celebre manifesto di alcuni scienziati di allora e di affermare esplicitamente che le razze umane non esistono. Questo "manifesto degli scienziati antirazzisti" è stato presentato nei giorni scorsi nel parco toscano di San Rossore in un meeting antirazzista dedicato dal presidente della Regione Claudio Martini a una riconsacrazione laica del luogo dove settant´anni fa Vittorio Emanuele III firmò le leggi razziali. Di commemorazioni e di riparazioni simboliche dello stesso genere se ne prevedono altre. Intanto, su di un binario parallelo a quello dei riti e dei simboli si srotolano i fatti concreti di una società italiana che, pur lontana anni luce da quella di allora, viene accusata di ricadere negli stessi errori . Fra tante altre misure che dividono e discriminano la popolazione tra chi è al di sopra e chi è al di sotto di ogni sospetto ce n´è una che ha colpito in modo speciale l´opinione pubblica: il censimento delle impronte dei piccoli zingari. La storia non si ripete, certo, anche se è difficile non ricordare che alle leggi razziali si arrivò nel 1938 dopo un censimento dei cognomi ebraici. Una cosa è certa: queste misure prese in nome della sicurezza diffondono insicurezza. Si è creato un circuito perverso tra paure socialmente diffuse e ricerca politica del consenso. Chi parla di maniera forte e tolleranza zero copre l´inefficienza delle istituzioni e stimola la paura nei confronti dei gruppi marginali. Mendicanti, vagabondi, gente senza casa e senza lavoro si trasformano così nella percezione sociale in gruppi pericolosi. E´ un fenomeno antico. Come abbia segnato la storia dell´Europa e dell´Italia ce lo ha raccontato in saggi bellissimi il grande storico e uomo politico polacco Bronislaw Geremek morto improvvisamente in questi giorni, che a quella umanità diversa, perdente e ribelle ha dedicato una vita di studi. Oggi, in una situazione di crisi delle società affluenti assistiamo al riprodursi di meccanismi antichi: aumentano i gruppi di sradicati, emarginati, migranti e cresce la paura nei loro confronti. Su quella paura crescono fortune politiche mentre le relazioni sociali si spogliano rapidamente di ogni traccia di umanità. Che la stragrande maggioranza degli italiani, inclusi i membri del governo, non sia disposta a dichiararsi razzista niente toglie alla cupezza di ciò che avviene.
Qui non sono in gioco fedi razziste. E tuttavia la discriminazione su base etnica che colpisce gli zingari in Italia solleva una grande questione morale e giuridica. Minimizzarla o coprirla con una untuosa retorica paternalista , parlarne come di una misura protettiva verso gli stessi zingari significa non rendersi conto che attraverso questa misura passa una offesa alla dignità dell´individuo, alla parità dei diritti fra tutti gli esseri umani, all´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La democrazia ne è colpita in un frammento della popolazione tanto più indifeso quanto più esposto a essere ferito. E se l´offesa fatta ai bambini ci offende in modo speciale è anche perché all´origine della sensibilità morale della nostra cultura nei confronti dei bambini c´è una indimenticabile pagina dei Vangeli cristiani.
Il limpido manifesto antirazzista degli scienziati non si muove a questo livello e non può far reagire una società italiana che non si sente razzista. E´antica tra noi la coscienza della nostra realtà di paese di passo, aperto a tutte le presenze del mondo. "L´origine degli Italiani attuali risale agli stessi immigrati africani e mediorientali che costituiscono tuttora il tessuto perennemente vivo dell´Europa": lo diceva perfino il manifesto razzista del 1938 con parole che, in tempi di criminalizzazione legale dell´immigrazione clandestina e di sfruttamento bestiale dei lavoratori africani e orientali condannati alla clandestinità, sembrano venire da un altro mondo.
Resta il fatto che alla discriminazione poliziesca di quel piccolo contingente di bambini (di volta in volta definiti "pericolosi" o "in pericolo" , a seconda della franchezza o dell´ipocrisia di chi parla) si dovrà opporre un rifiuto fermo. Chi ha autorità per farlo la usi. Chi si vergogna del paese che fa questo lo dica. Nel 1938 ci fu un italiano che alla lettura delle leggi razziali esplose gridando che si vergognava di essere italiano. Si chiamava Achille Ratti ed era Papa col nome di Pio XI. (L´episodio è emerso grazie a uno studio di P. Giovanni Sale sulla "Civiltà cattolica"). Se il Papa non giunse a dichiarazioni pubbliche conseguenti e adeguate, ciò si dovette solo alla morte che lo colse di lì a poco.
Le parole di un Papa contano. Contano anche i silenzi. Qualcuno immaginerà che si voglia qui riaprire la questione del cosiddetto "silenzio" del successore di Pio XI , un altro italiano di diversa personalità: Papa Pacelli. Non è questo il punto. Si vuole solo ricordare una realtà a tutti evidente: il Papa aveva allora in Italia e sulle cose italiane uno speciale campo di azione e di governo. Lo ha ancor oggi: e non certo meno di allora. L´esercizio del diritto papale a fare politica è un dato di fatto. Che di recente l´attuale maggioranza di governo se ne sia fatta garante è piuttosto una mossa del gioco politico che una sanzione al di sopra delle parti.
Potrebbe il Papa di oggi avvertire lo stesso sentimento di vergogna del suo predecessore Pio XI? Difficile immaginarlo. Ci si vergogna per il paese a cui si appartiene, così come i bambini si vergognano per i genitori. Ma qui si pone un problema non di sentimenti bensì di atti politicamente e socialmente rilevanti. Sia l´eventuale parola del Papa sia un suo perdurante silenzio avranno il loro peso in una lacerazione della società e in un disagio che emergono oggi soprattutto dalle voci del mondo cattolico più impegnato nel volontariato e nel governo pastorale; un disagio tanto più forte quanto più vasta è l´apertura di credito fatta al nuovo governo italiano da parte delle autorità della Chiesa.
Nell´Italia del 1938 al papato guardarono con speranza gli ebrei italiani, in nome di una antichissima tradizione storica che aveva costituito il vescovo di Roma come il protettore supremo della comunità ebraica. Ebbene, anche gli zingari hanno costruito nei secoli un vincolo di tipo protettivo col pontefice. Come ha raccontato Bronislaw Geremek, gli zingari ricorsero molto spesso alla protezione papale . Si appellarono al Papa perfino per dimostrare che, se rubavano, lo facevano con un suo permesso scritto (apocrifo, naturalmente).
Anche questa è una storia tutta italiana. Ne fu protagonista quella stessa minoranza di antica presenza nella penisola che è stata vittima di recenti gravissime violenze e che oggi è nel mirino di misure legali di discriminazione. Discriminazione etnica: non diremo razziale perché le razze non esistono.

l’Unità 15.7.08
Bolzaneto: 15 condanne, nessuno in carcere
Sentenza discutibile per i pestaggi. Scatta la prescrizione per tutti gli agenti


MITE GIUSTIZIA Solo quindici condanne e trenta assoluzioni: questa la sentenza del processo ai pestaggi e le torture avvenute nella caserma di Bolzaneto, il «girone infernale» come l’hanno definito i pm, durante il G8 di Genova nel 2001 ai danni dei no global arrestati o fermati tra la notte del 21 e 22 luglio. Dopo quasi dieci ore di camera di consiglio i giudici del tribunale presieduto da Renato Delucchi hanno condannato soltanto 15 dei 45 imputati, tra ufficiali, guardie carcerarie e medici, accusati a vario titolo di abuso d’ufficio, violenza privata, falso ideologico, abuso d’autorità nei confronti di detenuti o arrestati, violazione dell’ordinamento penitenziario e della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. I pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati avevano chiesto complessivamente 76 anni, 4 mesi e 20 giorni di condanne. I giudici ne hanno inflitte in primo grado per 24 anni ma, grazie alla prescrizione, non un solo giorno di carcere verrà scontato. Alessandro Perugini, il vice dirigente della Digos di Genova, è stato condannato a 2 anni e 4 mesi (ne erano stati chiesti 3 e mezzo), stessa pena inflitta alla vicequestore Anna Poggi. Daniela Maida, ispettore superiore ad 1 anno e 6 mesi di reclusione; Antonello Gaetano, a 1 anno e 3 mesi, gli ispettori della polizia di Stato Matilde Arecco, Natale Parisi, Mario Turco e Paolo Ubaldi ad 1 anno di reclusione ciascuno. Massimo Luigi Pigozzi, assistente capo della polizia di Stato a 3 anni e 2 mesi di reclusione; Barbara Amadei a 9 mesi, Alfredo Incoronato a 1 anno, Giuliano Patrizi a 5 mesi.
Sono inoltre stati condannati i medici Giacomo Toccafondi, responsabile organizzativo dell’infermeria, ad 1 anno e 2 mesi di reclusione e Aldo Amenta a 10 mesi. La condanna più alta è stata inflitta a Antonio Gugliotta, l’ispettore di Pg, responsabile della caserma Bolzaneto, che molte delle vittime hanno indicato come il picchiatore con il manganello: 5 anni di reclusione. I giudici hanno disposto l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, ma non hanno riconosciuto le accuse di abuso d’ufficio, di falso e di tortura, mentre hanno riconosciuto l’abuso di autorità su persone in carcere.
I pm, nella loro lunga requisitoria hanno sostenuto che nella «caserma di Bolzaneto furono inflitte alle persone fermate almeno quattro delle cinque tecniche di interrogatorio che, secondo la Corte Europea sui diritti dell’uomo, chiamata a pronunciarsi sulla repressione dei tumulti in Irlanda negli Anni Settanta, configurano “trattamenti inumani e degradanti”». «Nella sostanza l’accusa di abuso d’autorità è stato riconosciuta. Inoltre è stata riconosciuta la responsabilità di diversi imputati», ha commentato il pm Miniati. «È stato riconosciuto - ha spiegato - che qualcosa di grave nella caserma di Bolzaneto è successo». Questo il punto sottolineato anche dall’eurodeputato di «Sinistra Europea» Vittorio Agnoletto: «È una sentenza contraddittoria ma, per la prima volta, in un’aula di tribunale è stato stabilito che quanto dichiarato dalle vittime massacrate a Bolzaneto e da sempre sostenuto dal movimento corrisponde alla verità. Ed infatti a tutte le vittime è stato riconosciuto il diritto al risarcimento». I reati saranno tutti prescritti nel 2009, ma le parti civili potranno chiedere un risarcimento o ottenere già oggi una provvisionale, chiesta da tutti i loro legali.m.ze.

l’Unità 15.7.08
Nelle 600 pagine della requisitoria i pm hanno ricostruito l’orrore di quei due giorni di luglio del 2001
Calci, sevizie e umiliazioni: «Scene da tortura cilena»
di Maria Zegarelli


L’orrore. Due notti di violenze, soprusi, insulti. Due notti di codice di procedura penale sparito dagli uffici di polizia giudiziaria e penitenziaria, di televisioni di tutto il mondo che mandano in onda le immagini della «macelleria messicana» prima e delle «carceri cilene», poi. Genova, G8 2001. Quello che si è concluso ieri presso l’aula bunker del Tribunale della città di Colombo, è il processo - insieme a quello che è arrivato alla requisitoria dei pubblici ministeri sui fatti della scuola Diaz - che vede sul banco degli imputati alti dirigenti di polizia accusati di aver messo da parte il rispetto dei diritti umani certi di farla franca.
I fatti contestati ai funzionari e agli agenti condannati avvennero nella Caserma di Bolzaneto, dal 20 al 22 luglio di sette anni fa, dove furono trasferiti i no global fermati. Molti di loro furono prelevati dalla scuola Diaz, durante la notte di venerdì 20, dopo un’irruzione sanguinosa.
Diaz e Bolzaneto. La scuola e il carcere. Un unico filo comune: la violenza. I due pubblici ministeri durante la requisitoria, 1000 pagine, hanno ripercorso, grazie alle testimonianze delle vittime, le ore di detenzione presso la caserma, dove furono portati 55 «fermati» e 252 «arrestati». «Trattamenti inumani e degradanti», hanno detto i pm.
Giovani uomini e giovani donne costretti a stare per ore in piedi, a gambe larghe, o in ginocchio, con la faccia sul muro. Vessati. Insultati. Senza cibo né acqua. Donne costrette a togliersi piercing vaginali davanti ad uomini. Uomini picchiati con manganelli, presi a calci e pugni. Spray urticanti spruzzati in faccia. Schiaffi. Sputi. Persone costrette ad inneggiare al Duce, a deridere leader della sinistra. Filastrocche: «1-2-3, viva Pinochet. 4-5-6 a morte gli ebrei». Agenti penitenziari, poliziotti, uomini di legge, che si trasformano in aguzzini, torturatori. Che non saranno mai chiamati a rispondere dell’accusa di tortura, perché, dice la pm Patrizia Petruzziello «il nostro Paese non lo prevede». Eppure, «abbiamo visto che la tortura è stata molto vicina a Bolzaneto, si sono verificate una serie di sofferenze fisiche e morali continuate, dettate da due dei peggiori fini che la dottrina indica nei comportamenti disumani e degradanti: il fine di intimidazione e costrizione e quello di discriminazione». La difesa ha cercato di dimostrare che quanto avvenne in quei giorni fu solo il frutto di un «disastro organizzativo», di una catena di comando andata in tilt.
«I livelli di vertice di Bolzaneto erano ufficiali di Polizia giudiziaria e avevano il dovere di impedire la commissione di reato, erano anche responsabili dell’incolumità delle persone in stato di custodia, avevano l’obbligo di impedire che si verificassero o che continuassero a verificarsi. Si è verificato un mancato doveroso intervento per impedire le azioni criminose», anzi, ha detto la pm, si è fatto in modo che le violenze si commettessero, convinti e protetti dalla «certezze di impunità».
Iniziali di nomi e cognomi, verbali di interrogatorio e testimonianze, racconti che poco hanno a che vedere con l’abuso di ufficio che è stato contestato agli imputati. Racconta M.G. che il sabato venne percosso selvaggiamente. Ebbe un malore. Cadde a terra. Arrivarono altri calci e sputi. Poi, gli agenti lo costrinsero a mettersi nudo a quattro zampe. Gli strizzarono i testicoli. Carcere di Bolzaneto, Italia, 2001. E ancora: M. A. stava in cella. Fu raggiunto dagli agenti: calci nei talloni e pugni nei fianchi. Fu costretto a ripetere la filastrocca su Pinochet. H.J. invece fu picchiato con una cinghia, in corridoio. A. G. arrivò a Bolzaneto nel tardo pomeriggio di venerdì. Un agente gli squarciò una mano, lo portarono in infermeria e mentre lo cucivano, senza anestetico gli diedero uno straccio da mettersi in bocca, per non urlare. Seicento pagine di requisitoria, centinaia di episodi di questo tenore.

l’Unità 15.7.08
Neolaureati e insegnamento
di Giuno Luzzatto


Nessun nuovo laureato potrà divenire insegnante? Giustamente, Michele Ciliberto (l’Unità del 12 luglio) parla di "fine dello stupore" nel rilevare la sostanziale debolezza delle reazioni a quanto il Decreto finanziario prevede ai danni dell’Università. Aggiungo che vi è addirittura silenzio in merito a quanto rischia di accadere a danno dei giovani che si sono posti la prospettiva di un futuro lavoro quali insegnanti.
Il Governo precedente aveva bloccato le "graduatorie" in cui si trovano gli attuali abilitati all’insegnamento, quasi tutti con anni di supplenze alle spalle; queste avrebbero dovuto progressivamente esaurirsi, e il ripristino di un sistema concorsuale, aperto ai nuovi abilitati, avrebbe costituito lo strumento per un reclutamento di giovani. È noto, infatti, che l’età avanzata degli insegnanti italiani, sia al momento dell’ingresso in ruolo sia come anzianità media, realizza il meno invidiabile tra i record europei.
Il nuovo Governo vuole ora ridurre drasticamente l’organico dei docenti; le prossime assunzioni saranno molte meno di quelle prevedibili sulla base dei pensionamenti. La Ministra Gelmini, in numerose dichiarazioni, ha ritenuto di trarne la seguente conseguenza: poiché rallenta l’assorbimento delle "graduatorie", non occorre che vengano preparati nuovi insegnanti. Per la fascia secondaria (inferiore -scuola media- e superiore) lo strumento attraverso il quale avviene tale preparazione sono le Scuole universitarie di Specializzazione SSIS; la Ministra non firma perciò il Decreto che costituisce l’ultimo passaggio burocratico necessario per attivare tali Scuole nel prossimo autunno.
Tecnicamente, si tratta di un atto dovuto. Da un lato, infatti, le Università, sulla base di provvedimenti ministeriali, hanno già compiuto tutti i passaggi precedenti, impegnando anche risorse; d’altro lato molti dei recenti laureati hanno costruito il loro piano di studi proprio con gli insegnamenti che, sempre sulla base di formali Decreti, sono prescritti ai fini della presentazione al concorso di accesso alle SSIS. Per coprirsi giuridicamente, il Ministero ha tentato allora di inserire nel Decreto finanziario un emendamento che sancisce tale mancata attivazione; giovedì scorso, la Presidenza delle Commissioni della Camera che esaminano il Decreto ha però dichiarato inammissibile l’emendamento. Non si può pertanto prevedere, al momento, quale sarà la conclusione della vicenda.
Essa è comunque drammaticamente indicativa della fase politico-sociale nella quale ci troviamo.
La maggioranza proclama, a parole, di volere una pubblica amministrazione basata sul merito anziché sull’anzianità ma opera, di fatto, per escludere intere generazioni di nuovi laureati dalla possibilità di competere, in pubblici concorsi, per far valere la propria preparazione; anzi, vuole addirittura -per chiudere il discorso già in partenza- che a tale preparazione non si dia corso. L’opposizione dedica alla questione una attenzione insufficiente, come spesso accade quando gli interessi in gioco non sono quelli di categorie consolidate bensì quelli generali o quelli di gruppi ancora "virtuali": in questo caso, i giovani che vorrebbero iniziare il percorso per divenire insegnanti. Quanto a questi ultimi, l’assenza di una protesta diffusa e organizzata è sconcertante: i concorrenti all’accesso erano ogni anno oltre ventimila, gli accolti più della metà, ma gli attuali neo-laureati che al momento trovano le porte chiuse tacciono.
Tacciono anche i loro professori, e al proposito voglio tornare -con riferimento all’intervento di Ciliberto citato all’inizio- alla problematica universitaria complessiva. Lo scoraggiamento della parte più impegnata, scientificamente e politicamente, del mondo accademico ha molte cause: tra queste, inutile negarlo, una forte delusione per quanto il precedente Governo ha fatto (o non fatto) nel suo biennio di vita, nonché la percezione di una scarsa attenzione, quando non di una diffidenza, da parte della pubblica opinione. Vi è chi se la prende con lo scandalismo dei media, e proclama che i casi dei nepotismi e della predominanza di interessi professionali personali rispetto ai doveri universitari sono minoritari; probabilmente è vero, ma al riguardo dovremmo fare una durissima autocritica.
Uso questo plurale per parlare di quella parte del corpo docente che è impegnata, che fa ricerca spesso degna di riconoscimenti internazionali, che sta dando l’anima per trasformare "a misura di studente" una didattica che fino a pochi anni fa espelleva i due terzi degli iscritti: ebbene, che cosa abbiamo fatto per far emergere la differenza tra le due Università, quella di chi lavora al fine di far crescere l’istituzione e quella di chi lavora altrove, utilizzando l’istituzione ai fini propri, o non lavora affatto? Se non si isolano le mele marce della cesta, il contatto con esse può far marcire la cesta intera; e se anche ciò non accade, chi le vede sospetta che siano marce anche quelle buone.
È oggettivamente sicuro che nella "società della conoscenza" il definanziamento di università e ricerca comporterà per il Paese un sempre maggiore declino. Ma il definanziamento continuerà se non saremo capaci di convincere il Paese stesso che nelle strutture preposte a tali settori vi è non solo qualità, ma anche etica professionale.

l’Unità 15.7.08
Italia 2008, Odissea nella cocaina
di Luigi Cancrini


Tre anni sono passati da quando si è deciso di intervenire con nuovo impeto contro l’uso delle sostanze stupefacenti. I provvedimenti legali ed amministrativi resi più severi dalla legge Fini-Giovanardi non hanno determinato modificazioni rilevanti, tuttavia, ad un fenomeno che continua ad ampliarsi sotto gli occhi di tutti. Quella cui bisognerebbe saper rinunciare, in questa situazione, è una cultura della prevenzione basata sul terrorismo psicologico (una delle stupidaggini più ripetute è quella della cocaina che "brucia" il cervello) e sulla minaccia delle sanzioni. Sempre di più, mentre gli anni passano, l’esperienza insegna, d’altra parte, che le grida sulla necessità di una "tolleranza zero" nascondono l’insicurezza profonda di personaggi che hanno una loro specifica difficoltà a confrontarsi con la complessità del reale. C’è qualche cosa di disarmante nella ingenuità o nella malafede dei politici che continuano a parlare dell’emergenza droga e che votano compatti leggi con le quali, bloccando ancora una volta il turnover del personale(che se ne va e non può essere sostituito ormai da molti anni determinando un impoverimento progressivo di organici già deboli), si impedisce ai servizi di impostare dei programmi realistici di cura e di prevenzione. Quella di cui ci sarebbe bisogno, in realtà, è una grande mobilitazione delle coscienze sul tema fondamentale di una ecologia della mente dell’uomo, un tentativo serio di uscire dalla aridità di un pensiero unico ossessivamente centrato sulla competizione e sul mito dell’individuo che deve bastare a sé stesso. Tenendo conto, in particolare, del modo terribilmente naturale con cui l’uso della cocaina si lega, in tanti settori della nostra società al mito delle persone che si considerano (e spesso sono considerate) "vincenti, coraggiose e forti". Proponendo il problema della cocaina in termini più di doping sociale che di consolazione pericolosa per i più deboli.
La terapia.
Com’era naturale che fosse, la presenza ampia di cocaina a basso costo sul mercato della droga considerato nel suo complesso ha determinato una diffusione dell’uso di cocaina (e, in misura minore, di crack o di PBC) anche fra i tossicomani che dipendevano da altre sostanze. Nei casi in cui viene diffusa fra persone che erano già tossicodipendenti, nel mondo proprio dell’emarginazione e della devianza, la cocaina non cambia di molto però la loro situazione e non propone problemi nuovi dal punto di vista di una terapia che resta quella centrata sulle attività di riduzione del danno (i farmaci "sostitutivi") e di psicoterapia personale e famigliare in progetti che includono, abitualmente, la permanenza in Comunità Terapeutica. Quello che va considerato come un problema particolare e diverso, invece, è il problema dei cocainomani "puri": persone che abusano pericolosamente di cocaina e che, con ragionamenti diversi, non si identificano nella figura del drogato. L’uso e l’abuso di cocaina possono restare a lungo compatibili, infatti, con una vita apparentemente normale in cui l’identità del consumatore di cocaina convive con altre identità sociali: di lavoratore o di studente, di padre di famiglia o di figlio, di persona socialmente attiva e apprezzata. Fino al momento in cui una rottura si determina legata ai problemi economici (i soldi non bastano più, la banca non fa più credito, qualcuno in ufficio o a casa scopre dei furti o degli imbrogli) o affettivi e sentimentali (l’uso eccessivo di cocaina rende irritabili, collerici, insostenibili persone che sembrano non accorgersi più di quelli che vivono accanto a loro).
Il problema fondamentale della cura, in tutti questi casi, è quello legato allo sviluppo di una consapevolezza della propria condizione. Negando di essere un "drogato", il cocainomane continua a credere e a giurare di essere in grado di controllare l’uso della sostanza e deve essere contrastato con forza da chi vuole davvero aiutarlo. All’interno di un programma sperimentale portato avanti da Saman in diverse città italiane, quello che abbiamo potuto verificare direttamente in questi anni è che un trattamento capace di coinvolgere in questa attività di contrasto (che deve essere insieme ferma ed affettuosa) genitori e fratelli, mogli o mariti e, alle volte, i figli è assai più efficace di qualsiasi altro tentativo di ordine farmacologico per mettere in crisi il falso Sé di una persona che sta male ma non è (ancora) in grado di ammetterlo. Aiutandola ad accettare, nei casi più gravi, brevi periodi di Comunità Terapeutica ma aiutandola comunque, anche nei casi in cui la Comunità non è necessaria, a recuperare una valutazione più realistica della sua situazione e dell’impatto che la sua abitudine ha con la realtà della sua vita e dei suoi affetti. Con risultati importanti in percentuali di casi assai significative (e superiori comunque al 60%) perché quello su cui si può contare quando si lavora con queste persone è un bagaglio importante di esperienze e di competenze: acquisite prima di entrare in rapporto con la sostanza, fondamentali per la fase, assai più difficile con i tossicomani marginali, del reinserimento.
Dove ci troviamo oggi. Il programma di Saman è un programma proposto nell’ambito di quel privato sociale che tanto ha dato, negli ultimi 30 anni, allo sviluppo di un sistema di cure per le tossicodipendenze che si è lentamente sviluppato nel nostro paese e che è stato considerato, alla fine degli anni 90, come uno dei più avanzati del mondo. Quello che purtroppo non è facile far capire ai politici nazionali e regionali oggi è il modo in cui l’enfasi posta su inutili discussioni di principio (quando ci si terrorizza dello spinello o si sparano battute sulla tolleranza zero) ha corrisposto, nei fatti, ad una negligenza grave e spesso dolorosamente bipartisan nei confronti dei servizi pubblici (resi sempre più deboli dalla mancanza dei finanziamenti e delle idee) e del privato sociale (costretti ad indebitarsi per sopravvivere di fronte ai ritardi cronici dei pagamenti). Diminuendo progressivamente il numero degli operatori impiegati in questo settore: uno ogni 12 utenti nel 1996, uno ogni 24 oggi stando alla relazione di Giovanardi dell’altro ieri.
La realtà cui ci troviamo di fronte nei fatti è quella di uno Stato che spende per la repressione cifre molto più alte di quelle dedicate alla cura (due miliardi e ottocentomila euro contro un miliardo e ottocentomila euro secondo l’ultima relazione del governo, di un Parlamento in cui si discute delle tossicodipendenze in termini etici e di principio (i controlli sui parlamentari) dimenticando (in un silenzio bipartisan quasi assordante) la gravità della situazione drammatica in cui si trova il paese (l’Italia) che è oggi il centro più importante dei traffici di cocaina in tutto il mondo e di un insieme di Regioni che non hanno ancora recepito neppure le indicazioni dell’accordo firmato con il Governo nel 1999: nascondendo dietro la crisi gridata di una sanità (che tanti soldi regala alla corruzione delle case di cura private, dei medici e dei politici locali) la loro incapacità (o non volontà) di dare al problema delle dipendenze patologiche il rilievo che meriterebbe di avere. La sfida proposta dalla cocaina è, da questo punto di vista, una sfida cui i politici italiani non hanno saputo dedicare finora neppure una discussione seria su quello che si potrebbe o si dovrebbe fare. Dando un ulteriore contributo a quel sentimento di inutilità e di distanza delle istituzioni dai problemi dei cittadini che è la malattia più grave, a mio avviso, di questo nostro povero paese.
(fine. La prima puntata è stata pubblicata il 6 luglio scorso)

l’Unità Firenze 15.7.08
A Palazzo Vecchio prove di larghe intese sulla sicurezza
Sul nuovo regolamento di polizia municipale aperture di An
e Forza Italia. L’opposizione di sinistra rischia l’isolamento
di Tommaso Galgani


È SULLA SICUREZZA che arrivano convergenze tra la destra e il Pd a Palazzo Vecchio. Con la sinistra che rischia di finire con le spalle al muro. In particolare, le larghe intese bipartisan si registrano sul fronte del nuovo regolamento della polizia municipale. Ieri mattina l’assessore Graziano Cioni ha infatti incassato una netta apertura nell’incontro coi gruppi del l’opposizione. «Noi lo dicevamo da anni che il regolamento andava aggiornato. Bene ha fatto Cioni a muoversi in questa direzione», ha detto la capogruppo di Forza Italia Bianca Maria Giocoli. Che invita l’assessore ad accelerare: «Il nuovo regolamento arrivi al più presto alla discussione in consiglio comunale». I rilievi mossi ieri dal gruppo di Forza Italia auspicano un ulteriore giro di vite sul fronte graffitari e prostituzione. «Comunque la versa sfida per amministrazione e polizia municipale sarà quella di rendere applicabili le norme», specifica il consigliere Massimo Pieri di Fi. «Siamo d’accordo con la filosofia del nuovo regolamento, ma siamo scettici sulla sua applicabilità. Proporremo alcuni emendamenti e vedremo poi se in consiglio votarlo a meno», è la posizione di Alleanza Nazionale riassunta dal consigliere Stefano Alessandri.
Intanto Cioni ha fatto sapere che in consiglio il nuovo regolamento arriverà giovedì 24, prima della pausa estiva dei lavori, e dopo sarà inviato a casa dei fiorentini e tradotto nelle principali lingue straniere. «Si tratta di un regolamento che riscrive le regole alla base della convivenza di chi vive a Firenze ma anche di chi vi lavora o la visita. Per questo abbiamo deciso di trovare la massima condivisione possibile organizzando consultazioni ampie. Ben vengano le aperture della destra». Il percorso ha visto incontri con commissioni consiliari, consigli di quartiere, gruppi consiliari di maggioranza e opposizione, ma anche Cgil, Cisl e Uil, le associazioni di categoria, i tassisti, e il consiglio degli stranieri. L’assessore Cioni ha incontrato anche il mondo del volontariato (la consulta e il comitato di partecipazione) e alcuni gruppi di giovani.
E la sinistra? Unaltracittà e Rifondazione hanno ribadito che «un testo così complesso va discusso senza il limite del 24 luglio», mentre Verdi, Ps e Pdci non intendono alzare barricate sul progetto di Cioni. Sd invece presenterà emendamenti di carattere sociale. Oggi ne discuteranno insieme al seminario di Palazzo Vecchio, promosso dalla sinistra, “Insicurezza percepita e problemi reali di sicurezza”.

l’Unità Firenze 15.7.08
Congressi, vincono falce e martello
In Toscana prevale in Prc la mozione Ferrero e nel Pdci quella Diliberto: più lontana la costituente di sinistra
di Tommaso Galgani


FALCE E MARTELLO la fanno da padroni ai congressi toscani di Prc e Pdci. La conseguenza è la bocciatura dell’apertura di una costituente tra i partiti della si-
nistra. Tra i Verdi in regione a vincere è invece il Gruppo toscano che si appoggia sul consigliere regionale Fabio Roggiolani.
A Chianciano tra meno di due settimane avrà luogo il congresso nazionale di Prc. I dati dei congressi provinciali parlano di una vittoria per la mozione di Paolo Ferrero, che vuole partire da un rafforzamento del partito e solo dopo ragionare nell’ottica di un’unità a sinistra. In Toscana i circa 10mila iscritti per ora si sono espressi così: mozione 1 (Ferrero) al 44%, mozione 2 (firmata da Nichi Vendola e Fausto Bertinotti, in un’accelerata vesro la costituente di sinistra) al 37%, mozione 3 al 14%. mozione 4 al 3%, mozione 5 al 2%. Da più parti si parla di rischio scissioni, ma Anna Nocentini (consigliere comunale fiorentina e sostenitrice di Ferrero) smentisce: «A Firenze solo la mozione con minor voti non ha sottoscritto un documento unitario su cosa dovrà essere il partito: di certo, un partito che non ha nessuna voglia di sciogliersi».
Ma domenica si sono chiusi in Toscana anche i congressi provinciali del Pdci, con l’affermazione della mozione di Diliberto. Per la prima volta dalla sua fondazione nel PdCI si confrontavano due mozioni. Una di stampo neocomunista, primo firmatario il segretario Oliviero Diliberto - con lui, fra gli altri, anche Marco Rizzo, Manuela Palermi e il segretario regionale Nino Frosini - con obiettivo dichiarato l'unità dei comunisti a partire da Rifondazione Comunista. L'altra mozione, che registra fra i firmatari l'ex ministra Katia Bellillo, l'astronauta italiano Umberto Guidoni e fra i toscani Marco Montemagni, consigliere regionale, tende invece a proporre un partito unico della sinistra, un pò sullo stile dell'esperienza della Sinistra Arcobaleno. Il responso è stato nettamente a favore della mozione proponente il rilancio dell'unità dei comunisti. Infatti su 42 delegati spettanti alla Toscana, che parteciperanno al congresso nazionale del partito in svolgimento a Salsomaggiore il prossimo fine settimana, 38 sono a favore della mozione 1 (Diliberto) mentre sono 4 i delegati «arcobalenisti» che sostengono la mozione 2 (Bellillo). Marco Montemagni, sostenitore della mozione «arcobalenista», non è rientrato nel gruppo dei delegati per la mozione 2 che andranno a Salsomaggiore. Tuttavia Luca Pettini, consigilere comun ale fiorentino di Pdci e sostenitore della mozione 2, ricorda che «abbiamo vinto a Sesto, a Fiesole, nel Chianti, a Borgo San Lorenzo. Purtroppo siamo stati penalizzati da un criterio di ripartizone imposto dalla segreteria».
Se Sd e Ps hanno già affrontato i congressi estivi, i Verdi tra una settimana saranno achianciano per il congresso nazionale: il Gruppo toscano che appoggia Roggiolani se la vedrà con le mozioni di Marco Boato e del segretario uscente Alfonso Pecoraro Scanio.

Repubblica 15.7.08
Prc, guerra di numeri tra Vendola e Ferrero


ROMA -«La linea Vendola è stata sconfitta» dice Paolo Ferrero presentando i risultati della conta nel partito della Rifondazione comunista. «Abbiamo vinto, invece», ribatte Franco Giordano l´ex segretario che appoggia la proposta di «costituente della sinistra» del governatore della Puglia. Dopo la battaglia sul tesseramento gonfiato e le votazioni annullate, è guerra delle cifre in vista del congresso di Chianciano del 24 luglio che si apre in una situazione di stallo. Per Ferrero la mozione uno, la sua, ha il 41,1%, quella di Vendola il 46,5%, il resto è diviso tra le tre liste alleate con Ferrero. La conclusione dell´ex ministro è lapidaria: «La linea della costituente della sinistra è stata bocciata dalla base del partito».
«E´ vero il contrario – ribatte Giordano – quella di Vendola è la mozione più votata, nonostante i voti che ci sono stati ingiustamente tolti. La nostra proposta ha più consensi nella base». La verità è che saranno i patti che si faranno al congresso a decidere il nuovo segretario. Trattative tra le correnti sono in corso da giorni, da quando è stata stabilita una tregua e la commissione elettorale ha smesso di bocciare i congressi di circolo.

il Riformista 15.7.08
Eutanasia, lasciare le cose come stanno?
Ma la legge prevede 15 anni di carcere
Sulla questione non ci si può girare ancora dall'altra parte
di Marco Cappato


Caro direttore, quindici anni di carcere. Ecco la prima cosa che hanno in comune le storie che girano intorno alla parola «eutanasia», se con questa intendiamo non un concetto giuridico (che infatti non è mai menzionato dal nostro ordinamento), ma la scelta di una «buona morte». I quindici anni di carcere per omicidio del consenziente sono la minaccia che pende su tutti coloro - medici, familiari, amici, nemici - che "aiutano" quelle persone. La seconda cosa che hanno in comune quelle storie sono le scelte, drammatiche, che investono sempre più le fasi finali (sempre più lunghe della vita), indipendentemente dalla «tecnica» necessaria per realizzarle.
Lei, direttore, vuole lasciare le cose come stanno. Dopotutto, si potrebbe dire, Piergiorgio Welby ha ottenuto di interrompere le terapie; Beppino Englaro è stato autorizzato a interrompere l'alimentazione di Eluana; una signora a Modena ha nominato un amministratore di sostegno che ha impedito la tracheotomia necessaria per farla vivere contro la propria volontà; Giovanni Nuvoli ha ottenuto di essere lasciato morire. E chi invece vuole vivere può - sanità permettendo - vivere.
Lasciamo le cose così, dunque? No. No, perché il radicale Welby ha mosso il mondo per tre mesi prima di trovare un medico (su 400 mila in Italia) disposto ad aiutarlo, e quel medico ha aspettato un anno prima di uscire innocente dalle aule dei tribunali, mentre se avessero agito i medici belgi pronti a somministrare una dose letale, sarebbero stati condannati al carcere; no, perché Beppino Englaro di anni ne ha aspettati sedici, e se si fosse mosso prima avrebbe rischiato quindici anni di carcere; no, perché la signora di Modena ha avuto la fortuna di trovare un magistrato pronto e sensibile, altrimenti ora avrebbe un tubo non voluto in gola; no, perché Giovanni Nuvoli si è dovuto uccidere da solo autosospendendosi cibo e acqua per otto giorni visto che i carabinieri avevano fermato l'anestesista radicale Tommaso Ciacca, il quale affrontava il rischio di... quindici anni di carcere!
Caro direttore, lei ha scritto che la scelta della madre malata che si toglie la vita è individuale e «tragicamente libera». E precisa: «Quando il malato è ancora in grado di fare da sé». Ma quando non è in grado di fare da sé? Davvero lei vorrebbe far dipendere tutto dal fatto che la persona ha ancora in sé un briciolo di energie per suicidarsi? Distinguere è bene, certo. Distinguere tra interruzione delle terapie, testamento biologico, suicidio assistito, suicidio, e le altre categorie che si possono individuare. Alla base di queste scelte c'è però il dovere, per lo Stato, di distinguere soprattutto tra una scelta libera e responsabile e una imposizione (di vita o di morte che sia) subita da altri: che siano medici ideologizzati o parenti ingordi. Da una parte c'è la «buona morte», dall'altra c'è l'eutanasia clandestina, l'omicidio o l'accanimento tecno-sanitario. Distinguere per legge non è «burocratico», ma è necessario per proteggere il cittadino da violenze, da suicidi di disperazione, da «cattive morti» che un aiuto della legge e dello Stato potrebbe trasformare sia in vite decenti che in buone morti, o «morti opportune», come le chiamava, con Jacques Pohier, Piero Welby.
Proprio come lei, la legge italiana oggi non distingue sulla base della scelta (se è libera o no), ma sulla «tecnica». Se il medico di Welby avesse usato qualche milligrammo in più di anestetico, sarebbe diventato un omicida. Se con Nuvoli un farmaco letale avesse interrotto la sua agonia di fame e di sete, sarebbe stato un omicidio, così come se qualcuno ritenesse che quella di Eluana ora non debba essere trasformata in «agonia dell'agonia», con lunghi giorni di tifoserie politico-religiose, ma medicalmente terminata in pochi attimi (dopo sedici lunghi anni).
Direttore, scrivere che «nessuna legge umana può regolare la morte», e al tempo stesso chiedere che «le cose restino come stanno», è semplicemente contraddittorio. Le leggi già ci sono: sono cattive leggi delle cattive morti, che ammettono eccezioni soltanto da parte di persone particolarmente preparate, agguerrite o fortunate. Ecco perché le buone leggi servono, e non ci si può girare dall'altra parte.
segretario Associazione Coscioni e deputato europeo radicale

Corriere della Sera 15.7.08
Vengono costantemente violate le indicazioni e le direttive dell'Organizzazione mondiale della sanità
La scelta Si continua a combattere la sofferenza con farmaci «leggeri» anziché usare i più efficaci derivati dall'oppio
Lotta al dolore: l'Italia è ultima
di Mario Pappagallo


Se ogni anno in Italia 90 mila malati terminali non vengono curati, o lo sono parzialmente, per la sofferenza fisica (22 milioni di dosi di morfina annui bastano per curarne 60 mila su 150 mila), ancor peggio è la situazione per quei 10-15 milioni di italiani che soffrono di dolore cronico non causato da tumori. Mal di schiena al primo posto. Un classico. La mattina ci si sveglia senza riuscire a muoversi, anzi a distendere la schiena. Fitte atroci, piegati dal dolore. Telefonata in ufficio per avvertire dell'assenza: «Colpo della strega». Poi al medico di base. Un antinfiammatorio prescritto al telefono. Poi tutto passa... Le cause possono essere diverse, ma si calcola che almeno il 90 per cento della popolazione mondiale almeno una volta nella vita abbia provato questa lancinante sofferenza. E 9 volte su dieci passa da solo nel giro di qualche giorno. Quindi niente esami, nessuna diagnosi, causa ignota. Un dato che, con la creazione di servizi multispecialistici ( Pain center) in grado di affrontare il dolore come malattia, è subito sceso a circa il 70 per cento. Almeno è questa l'esperienza di New York, dove il mal di schiena è nell'hit parade dei costi sociali come giorni di lavoro persi, costi sanitari, assistenza domiciliare. E negli Stati Uniti il dolore cronico (mal di schiena al primo posto) non oncologico costa alla società circa 100 miliardi di dollari l'anno.
Al secondo posto, come impatto nelle assenze dal lavoro e nei costi socio-sanitari, c'è il mal di testa, tante le classificazioni... E anche in questo caso la terapia italiana è: anti-infiammatori. La pugnalata al centro del capo non passa. Non può passare. Chi ne soffre si chiude al silenzio, al buio (luce e suoni moltiplicano gli effetti)... Altro che andare al lavoro. Anche il mal di testa può trasformarsi in emergenza: basti pensare che il 2-7% degli europei che si rivolgono alle strutture di pronto soccorso si vede diagnosticare una cefalea acuta. Lo ricorda Paolo Martelletti, responsabile del centro per le cefalee dell'università La Sapienza di Roma. In Europa si registra una crescita per questo tipo di disturbo e l'Italia non è da meno. «Il 51% degli italiani — spiega Martelletti — soffre di cefalea acuta, mentre il 14% soffre di emicrania e il 4% di cefalea cronica». Quei 10-15 milioni di italiani che soffrono di dolore cronico forse sono molti di più. Siamo un popolo di doloranti, almeno una volta nella vita. E la severità dei sintomi spesso è tale da rendere dipendenti dai farmaci. «La maggior parte dei pazienti con cefalea cronica — aggiunge Martelletti — abusa quotidianamente di analgesici, senza sapere però che questi possono solo peggiorare la situazione, scatenando una cefalea secondaria da abuso di farmaci».
«È ora di dichiarare, su un fronte internazionale, la guerra all'ignoranza sul dolore», ha detto Costantino Benedetti, terapista del dolore all'Ohio university, in un intervento all'ultimo Sanit a Roma. Parlava della sua amata Italia. E sì, perché nel nostro Paese è già complicato assicurare la terapia del dolore (è tra le cure palliative) ai malati di tumore.
Per tutto il resto, ecco il quadro. Gli ospedali senza dolore sono una realtà conquistata con difficoltà: tutti i degenti non dovrebbero nemmeno avvertire la pur minima sofferenza. E tutte le mattine l'infermiera, oltre a pressione del sangue e temperatura, dovrebbe misurare il dolore e annotarlo in cartella clinica. Così è negli Stati Uniti dal 2001, così dovrebbe essere in Italia. Ma spesso è il paziente che deve chiederlo.
E la terapia? In ospedale c'è (anche se si eccede in dosi «rimbambenti » di oppioidi o morfina: il degente dorme e non dà fastidio), ma non multi farmaco e con dosaggi personalizzati come prescrivono le linee guida per un recupero fisico più rapido: senza dolore un operato si alza e riacquista prima le sue forze. Fuori dell'ospedale, sul territorio, il nulla: fai da te o medici di famiglia impreparati.
Nel 1944, il padre della moderna terapia del dolore, John Bonica (morto nel 1994, nato a Filicudi ma negli Stati Uniti dall'età di sette anni), oltre a mettere a punto la peridurale per il parto indolore, comincia proprio dai medici di famiglia e dagli infermieri a dare indicazioni su come curare il dolore.
In Italia però siamo sempre fermi all'epoca in cui Bonica cambiava le regole oltre Oceano. Non esiste un piano di Pain clinic territoriali che si occupino di diagnosi e cura di chi soffre, pur non avendo malattie terminali. Di chi ha una banale mal di schiena o una feroce emicrania, dolori mestruali o reumatismi vari, artrosi o psoriasi con complicanze dolorose, danni da diabete o neuropatie di varia origine. Si parla di 10-15 milioni di italiani (25 per cento) e di 70-80 milioni di americani. Le poche realtà efficienti si sperdono nel vuoto. Ed è una delle priorità per il sottosegretario al Welfare Ferruccio Fazio, scienziato, figlio di un noto clinico, che per il 17 luglio ha convocato alcuni esperti per discutere di come dare all'Italia un'organizzazione anti- dolore. In particolare ha chiamato Guido Fanelli, terapista del dolore dell'università di Parma.
Qualcosa si deve fare. Perché soffrire non è un obbligo, ma in Italia sembra che lo sia. È l'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) a dirlo. Con i numeri. Uno degli indicatori della qualità della vita si basa sulle dosi annue di morfina (e farmaci oppioidi) pro capite per curare il dolore (tutti i tipi di dolore). L'Italia era, nel 2004, al pari dell'Etiopia e del Ruanda. Nel 2007 è salita in classifica, ma di poco: ultimi in Europa, dopo Malta. Al ventiseiesimo posto. Il Centro Studi Mundipharma, al Sanit di Roma, ha rincarato le accuse: «Nonostante le raccomandazioni delle principali Linee guida internazionali, per quanto riguarda l'impiego dei farmaci oppioidi il nostro Paese rimane all'ultimo posto tra gli Stati dell'Ue, con una spesa media annua pro capite che non arriva a un euro». Il confronto: 0,63 euro contro i 7,66 della Danimarca; i 7,29 della Germania; i 4 del Regno Unito; i 2,88 della Spagna; i 2,61 della Francia e una media europea di 3,73 euro. Aggiunge Benedetti: «Se il Canada usa 170 milligrammi di morfina ed ossicodone pro capite all'anno e l'Italia solo 4, l'aumento dovrebbe essere di circa 40 volte per andare alla pari dei Paesi più avanzati». Il problema è soprattutto culturale: nel nostro Paese quando si parla di morfina si pensa alla droga, mentre all'estero si pensa a un farmaco. E quando si parla di dolore si pensa a un sintomo, quasi sempre esagerato dai pazienti che soffrono... Chissà poi perché?

Repubblica 15.7.08
Massimo schiera centristi e sinistra va in scena l’anteprima del congresso Pd
di Goffredo De Marchis


L´ex vicepremier, attaccato dai veltroniani, riunisce le opposizioni. E ora il segretario vuole un confronto interno sulle riforme
Rutelli dice no al referendum. Oggi la direzione sulla riforma per le elezioni europee

ROMA - «Ci potevo pensare prima sul sistema tedesco? Beh, le esperienze vanno fatte e questo è il bilancio di quindici anni: un disastro», dice Massimo D´Alema in un angolo a Cesare Salvi. Dal palco gli risponde Walter Veltroni: «È vero, la Seconda repubblica non ha funzionato ma non si può tornare al periodo precedente. Dobbiamo muoverci fuori dalle nostalgie». I due leader del Pd parlano a breve distanza nel giro di venti minuti concludendo il seminario sulle riforme organizzato da Italianieuropei, Astrid e altre 12 fondazioni. È un confronto che ha il sapore dell´antipasto congressuale, di una sfida di linee e di prospettive: su alleanze, riforme, dialogo. Ma al residence di Ripetta ci sono anche molti ospiti di partiti diversi, professori, un pubblico non solo democratico. È un seminario, non una sede di partito. Il confronto dentro il Pd è rimandato, ma avverrà. Anche presto, se è vero che Veltroni pensa a un´occasione di confronto sul sistema elettorale tutta interna al Partito democratico «perché la nostra posizione non si può costruire in un´arena nobile ma estranea al Pd. Così si fa confusione su un tema molto rilevante». Insomma, sulle riforme non ci si deve far dettare l´agenda, né da Casini né da Rifondazione e neanche da D´Alema, naturalmente. Dunque se ne riparlerà o in un appuntamento ad hoc o al congresso tematico di autunno. Quella di ieri è stata solo un´anteprima.
A un seminario che conta sulla presenza di costituzionalisti illustri (gli ex presidenti della Consulta Onida e Capotosti per esempio), costituzionalisti più giovani (Andrea Giorgis e Anna Chimenti tra gli altri), il duello vero del Partito democratico è stato affidato agli esperti delle rispettive squadre. Il pasdaran veltroniano Salvatore Vassallo ricorda all´ex ministro degli Esteri quando era un fervente sostenitore del modello francese, presidenziale e a doppio turno, cioè il contrario del metodo proporzionale come quello in vigore a Berlino. L´altro esperto vicinissimo a Veltroni Stefano Ceccanti affonda il documento istruttorio del convegno accusandolo di essere fuori dallo statuto e dal programma del Partito democratico e di puntare «un Pd piccolo». Alludendo anche al fatto che D´Alema insegue «un modello alternativo», che proprio nel giorno della presa della Bastiglia, il presidente di Italinieuropei mostra la sua disposizione vandeana, cioè una posizione conservatrice, mentre per una volta bisogna essere giacobini.
Ma lo sviluppo della giornata ha fatto capire che i margini di manovra per i sostenitori del tedesco sono veramente stretti, «quasi impossibili» sottolinea persino il tifoso Salvi dopo la chiusura netta di Fabrizio Cicchitto e la diplomazia inusuale di Roberto Calderoli. Dunque alla fine Veltroni ha fatto finta di niente, corteggiando nientedimeno che il terzo incomodo di questo congresso democratico in piccolo, Pier Ferdinando Casini. Ha accolto la proposta del leader Udc del quorum di due terzi per l´elezione dei presidenti delle Camere, ha evitato di rispondergli sul governo ombra definito da Casini «uno strumento di pura propaganda, un regalo a Berlusconi».
D´Alema può dire di aver riunito, intorno a una proposta comune, una larga fetta dell´opposizione, dall´Udc a chi è fuori dal Parlamento come la sinistra radicale. Al seminario c´era anche Antonio Di Pietro, che ha parlato. Ma poi hanno preso la parola anche Cicchitto e Calderoli. La loro chiusura ha fatto capire che chi nel Pd cercava sponde dentro la maggioranza per smontare la linea veltroniana, oggi ha pochissimo spazio. D´Alema si è messo idealmente alla guida di un fronte composito, almeno sulle riforme, ma che è molto lontano da una maggioranza parlamentare. «Per me la qualità dei governi è molto più importante della stabilità», spiega. E di fronte a questo assunto non si preoccupa neanche di una eventualità che il sistema tedesco mette nel conto: la grande coalizione. «Non mi sembra una prospettiva spaventosa. Fa parte fisiologicamente di una democrazia dell´alternanza». Solo una battuta per Ceccanti: «I giacobini fecero una brutta fine. Finirono a forconate...». Dibattito accademico dunque? Francesco Rutelli ricorda che il referendum elettorale scoccherà la prossima primavera, una linea ci vuole e subito. Lui è contrario, lo considera l´arma che ha ucciso il governo Prodi. D´Alema concorda: «Una consultazione al limite del colpo di Stato», sentenzia. È un nodo che può venire al pettine, dentro il Partito democratico. Ma prima tocca alle legge per le Europee. Oggi la direzione del Pd discuterà anche di questo. Perché sono tutti d´accordo su uno sbarramento al 3 per cento con le preferenze. Ma Berlusconi ha un´altra idea (5 per cento e abolizione delle preferenze). E come dimostra il seminario di ieri è il Cavaliere a decidere.

Repubblica 15.7.08
La volontà di dominio
di Giuseppe D’Avanzo


Le idee di rifondazione della Repubblica, nelle parole di Berlusconi, affiorano sempre in modo graduale, ma assolutamente esplicite e manifeste. Arrestano il governatore della Regione Abruzzo, e molti dei suoi, per corruzione.
Il processo ci dirà se con fonti di prova solide o dubbie. Il mago di Arcore non si cura di attenderne l´esito. Non ha alcuna prudenza. Sa di che cosa si tratta, nella sua chiaroveggenza. Due sole parole – corruzione (il reato contestato), politici (gli indagati) – gli sono sufficienti per sentenziare che si tratta di un «teorema». Che poi in matematica vuol dire «proposizione dimostrabile», ma nelle parole del mago di Arcore il significato si capovolge nel suo opposto e «teorema» diventa una costruzione artificiosa, infondata, priva di fatti e prove. E´ ai «teoremi» della magistratura che bisogna tagliare definitivamente la strada modificando radicalmente la magistratura ab imis fundamentis, dice, dalle più profonde fondamenta. Chi governa, di qualsiasi area politica sia (la giunta regionale abruzzese è di centro-sinistra), non deve più temere l´intervento della magistratura. Bisogna allora separare le carriere?, gli chiedono. «Di più, molto di più» risponde.
Forse per la prima volta, Berlusconi dichiara senza trucchi quel che intende fare. Separare la funzione requirente e giudicante non gli basta più. Il «di più» che invoca non è soltanto la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Il «molto di più» che annuncia è il pubblico ministero diretto dall´esecutivo. Il pubblico ministero, infatti, o è indipendente, come il giudice, o è alle dipendenze del ministro. Non ci sono alternative. Solo con un pubblico ministero scelto, arruolato, orientato e gestito dal governo, il potere politico sarà protetto da quel «controllo di legalità» che comprime e umilia – per Berlusconi – la legittimità di chi governa. Il presidente del Consiglio non si è lasciato allora sfuggire l´occasione per riproporre il conflitto legittimità/legalità nel giorno in cui un´inchiesta giudiziaria non colpisce lui o uomini del suo partito, ma gli avversari in una regione governata dal centro-sinistra. Come a dire: cari signori, vedete, la magistratura non è una mia ossessione, ma l´ostacolo che tutti dovremmo avere interesse a rimuovere se vogliamo davvero governare.
In questa "chiamata alle armi" della politica non appare in gioco soltanto il terzo dei macro-poteri dello Stato (art. 104 della Costituzione: «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»). Non si tratta della pur consueta polemica tra Berlusconi e le toghe, tra la politica e la magistratura. Questo è soltanto il terreno dello scontro, non il senso del conflitto. Berlusconi ha cominciato a mettere a riparo se stesso con la «legge Alfano» ma cova un processo riformatore e l´avventura appare soltanto all´inizio. Se ne possono rintracciare gli indizi e la «filosofia» nelle decisioni dei primi cento giorni; nei provvedimenti con immediata forza di legge approvati dal governo; come anche nel voto di fiducia che ha spento ogni confronto parlamentare su un «decreto sicurezza» che inaugura un diritto della diseguaglianza e, con il reato di immigrazione clandestina, trasforma una semplice condizione personale in reato.
Questa piena volontà di comando e dominio, che Berlusconi pretende libera da ogni discussione parlamentare, controllo di legge, verifica di costituzionalità, mortifica la legalità. E´ una modificazione dell´architettura istituzionale che il mago di Arcore sta preparando con cura, passo dopo passo, iniziativa dopo iniziativa. Annuncia una forma di «Stato governativo» che dovrebbe – nei prossimi anni – ridurre al silenzio lo «Stato legislativo parlamentare», lo Stato di diritto disegnato dalla Costituzione. Si comprende perché Berlusconi senta lo Stato parlamentare come un vestito stretto, soffocante.
Nello Stato legislativo parlamentare governano le leggi, non gli uomini né le autorità né le magistrature. E´ un sistema che attribuisce al legislatore il compito e il potere, nell´interesse generale, di varare norme «impersonali, generali, prestabilite e perciò pensate per durare». E´ un sistema che separa. Chi decide della legge, non la applica. Chi legifera, non dà esecuzione alla norma. Chi esercita il potere e il dominio agisce «in base alla legge», «in nome della legge». Il principio costruttivo di fondo dello Stato legislativo, in cui «non sono gli uomini a governare ma le norme ad avere vigore», è il principio di legalità. Berlusconi non accetta di essere l´anonimo esecutore di leggi e norme. Vuole disfarsi del «principio di legalità» e con esso dello Stato legislativo. Ciò che nello Stato legislativo è separato, egli vuole unirlo nella sua persona. Un passo in avanti già può vantarlo. Un parlamento di nominati e non eletti, quindi Camere obbedienti e genuflesse. Il secondo passo "naturale", quasi obbligato, è quel che annuncia da Parigi: il pubblico ministero alle dipendenze del governo. Non c´è più nulla, quindi, che abbia a che fare con il braccio di ferro tra politica e magistratura del decennio scorso. Siamo di fronte a una strategia riformatrice e come tale va osservata. Berlusconi non vuole governare in nome della legge, ma in nome della «necessità concreta», in nome della «cogenza della situazione». Non vuole che il suo governo sia orientato dalle norme, ma pretende che si muova dietro lo stato delle cose, le «situazioni» che egli ritiene che siano prioritarie (altra cosa è che lo siano davvero). Lo «Stato governativo» si definisce appunto per la qualità particolare che riconosce al comando concreto, «eseguibile e applicabile immediatamente». Lo Stato governativo, scrive Carl Schmitt, «riconosce un valore giuridico positivo al decisionismo della disposizione prontamente eseguibile. Qui vale il detto: "Il meglio al mondo è un comando"».
Berlusconi chiede che il suo governo, sia suo davvero, chiuso nella sua volontà personale, affidato al suo comando di capo che governa, che dispone di tutti i requisiti della legittimità, della piena rappresentanza. E´ un sistema che ha la necessità di liberarsi della "dittatura" della norma, del controllo della magistratura, delle discussioni parlamentari. Se tutto questo è vero, vale la pena capire se – quando si parla di «dialogo» – si ha chiaro che Berlusconi accetterà di discutere soltanto se le cose muoveranno nella direzione in cui è già in movimento.

Repubblica 15.7.08
Mimi Reinhardt era la segretaria dell'imprenditore nazista Per la prima volta, a 93 anni, racconta la sua storia
"Ho scritto io la lista di Schindler"
di Marco Ansaldo


"Ad Auschwitz mi assunse perché sapevo il tedesco e battere a macchina"
"Ora che sono tornata in Israele sento di poter rievocare quei momenti"

HERZLIYA. «Oskar Schindler non era un angelo. Era un avventuriero. Sapevamo perfettamente che faceva parte delle SS. La notte andava spesso a bere con i suoi colleghi. Ma al mattino in ufficio era sempre puntuale. Ed era palese che non poteva sopportare quello che ci stavano facendo. A volte mi domando perché non sono esistiti altri uomini come lui, capaci di rischiare la vita per salvare degli ebrei come noi. Nessun nazista fu così. Perché Schindler era un uomo. E probabilmente aveva un cuore d´oro».
Stretta in una giacca elegante e in un pullover color verde prato, vivace e pronta alla bella età di 93 anni, Mimi Reinhardt abbassa lo sguardo e osserva le sue dita. Sulle labbra un filo di rossetto, la collana a doppio giro di perle intorno al collo, due anelli leggeri di pietra agli anulari. E´ lei la segretaria di Oskar Schindler, l´imprenditore nazista che salvò dalla morte centinaia di ebrei trasferendoli dalla Polonia all´odierna Repubblica Ceca. E fu Mimi Reinhardt a battere, con due dita, uno per uno, i 1.200 nomi della famosa lista al momento della partenza dal Lager di Plaszow.
Oggi vedova, ha da poco lasciato New York e scelto di vivere in Israele, nella casa per anziani «Sette stelle» a Herzliya, alle spalle di Tel Aviv. Ha voluto rompere il giuramento di riservatezza mantenuto per più di 50 anni. «Alla fine della guerra - dice ora - mi sembrava che una parte della mia vita fosse ormai terminata, ed ero pronta a cominciarne un´altra».
Solo quando, al momento di fare domanda per andare a vivere in Israele, gli impiegati dell´Agenzia ebraica per il ritorno le fecero alcune domande, raccontò per la prima volta di aver lavorato nella fabbrica di Schindler. Prima a Plaszow, vicino Cracovia, e poi a Bruennlitz, dopo un terribile viaggio in treno. Le 300 donne destinate a Bruennlitz per unirsi con i loro uomini erano state per errore dirottate ad Auschwitz. «Davvero pensavamo che fosse arrivata la fine - ricorda Mimi - eravamo entrate nell´Inferno di Dante. Quando dopo due settimane arrivò Schindler, alto, imponente, caparbio, lo vedemmo come fosse arrivato il messia».
L´imprenditore minacciò il comandante dicendo che l´avrebbe denunciato a Berlino, accusandolo di bloccare la produzione di munizioni. «Quello che non fece in quell´occasione! - dice lei oggi, ancora ammirata - l´unico modo proprio di agire era di ingannare i nazisti. Solo così Schindler riuscì a liberarci». E a tornare in possesso di tutti i «suoi» ebrei.
Aveva 29 anni Mimi quando la misero a lavorare con lui. «L´unica cosa utile che ho imparato nella mia vita - dice staccando lo sguardo dalle mani - è la stenografia». Quel corso, e la conoscenza perfetta della lingua tedesca in quanto ebrea austriaca, le salvarono la vita. La lista costò un milione di marchi tedeschi, versati da Schindler al comandante del Lager, il famigerato Amon Goeth. «Io battevo a macchina con due dita. Tac tac tac. Cominciai mettendo il nome degli operai, poi quelli delle loro famiglie e dei loro amici. L´elenco cresceva, la gente si aggiungeva. Io scrivevo i nomi, uno dopo l´altro. Tac tac tac. Anche il nome di Schulim Vogelmann, l´unico italiano della lista. In pochi giorni la quota richiesta venne raggiunta. Alla fine misi i miei dati e quelli dei miei amici. Ci salvammo così. Una volta arrivati a Bruennlitz, dopo alcuni mesi, era ormai il maggio del 1945, fummo tutti liberati».
Il figlio di Mimi, Sacha, era nato prima, nel 1939. Fatto fuggire con documenti falsi in Ungheria, lei lo ritrovò solo nel 1945, cercandolo in ogni palazzo di Budapest. Suo marito fu invece ucciso a Cracovia. Finita la guerra, Mimi conobbe a Tangeri un direttore d´albergo ebreo che lavorava per i servizi segreti britannici. Lo sposò. Nel 1957 ottennero tutti un visto, e la famiglia si trasferì in America. Venne a Roma, visitò a Milano, ricorda Trieste. «Mia nonna - dice con un sorriso - era di Abbazia, vicino a Fiume». Nel film di Steven Spielberg, a tempestare la macchina da scrivere per stilare la lista era l´assistente personale di Schindler, Itzhak Stern, interpretato da Ben Kingsley. Lì il personaggio di Mimi non compare. Ma lei non si preoccupa: «Non ho mai cercato la gloria. Il libro su Schindler però era meglio, fu scritto persino da un australiano, e nemmeno ebreo (Thomas Keneally, ndr)».
All´inizio degli Anni sessanta Mimi andò a Vienna per visitare una parente. Mentre passava davanti a un caffè, si sentì improvvisamente chiamare con il suo nome da ragazza: «Carmen Weitman!». «Era Schindler - ricorda oggi con emozione - mi aveva riconosciuto. Stava seduto con altri ebrei che avevano lavorato con lui». Trascorsero la serata tutti insieme. E al momento di prendere il taxi per rientrare, Schindler abbracciò i suoi lavoratori uno per uno, Mimi compresa. All´autista austriaco, che lo guardava perplesso senza capire, spiegò: «Sono i miei ebrei. Li ho salvati io!».

Repubblica 15.7.08
Felicità. Così si ritrova il sorriso perduto
di Paola Coppola


Ognuno ha un grado di soddisfazione personale della vita al quale torna dopo fatti dolorosi o fortunati Lo stabilisce uno studio internazionale che ha misurato le oscillazioni dell’umore di 10 mila persone in vent’anni
Uomini e donne manifestano una diversa reazione agli eventi e tempi di ripresa difformi

ROMA. Toccare il cielo con un dito è una fortuna, che se la goda chi ce l´ha. La felicità non dura, e prima o poi tocca farci i conti. Meglio non pensarci se ce l´hai tra le mani. Per tutti gli altri vale l´adagio che dice "il tempo guarisce ogni ferita". Siamo immuni agli alti e ai bassi della vita, rivela uno studio pubblicato su The economic journal. Passa tutto, anche abbastanza in fretta, e dopo qualche tempo, cinque anni al massimo, si torna a essere felici come una volta. Chi più, chi meno.
La ricerca condotta da un team internazionale colpisce sia per la durata (20 anni) sia per il campione di persone considerato (più di 10mila tedeschi ogni anno, di età compresa tra i 16 e gli 80 anni). Il termometro della felicità realizzato dagli economisti Andrew Clark e Yannis Georgellis e dagli psicologi Ed Diener e Richard Lucas registra, rispetto a sei eventi positivi e negativi della vita (matrimonio, nascita di un figlio, divorzio, perdita del partner, disoccupazione e licenziamento), le oscillazioni del livello di soddisfazione negli anni che precedono e seguono, negli uomini e nelle donne.
Una misura degli umori che mostra come, nel bene o nel male e a prescindere da quello che ci capita, la felicità ritorni come l´avevamo lasciata. «Dipende dalla nostra personalità e da marcatori genetici, si adatta alle circostanze», chiarisce Georgellis, del dipartimento di Economia e finanza della Brunel University (West London): è la capacità di adattamento a portare il termometro al punto di partenza.
Cinque anni servono in media, ed è lunga se si soffre, ma la ripresa inizia subito. Tra tutti gli eventi funesti della vita si fa fatica a superare soltanto la disoccupazione. Lascia tracce soprattutto negli uomini. «È una scoperta che ha delle implicazioni per chi deve decidere le strategie economiche - continua lo studioso - perché dimostra, ad esempio, che la gratificazione di uno stipendio più alto dura un tempo limitato, ma l´esperienza di perdere un lavoro è un trauma che resta».
Diverso è per gli altri eventi che mettono in gioco le nostre emozioni: nel caso del divorzio, la scelta deprime, la tristezza aumenta ma si recupera in fretta, gli uomini più delle donne. E ancora: tra quelli che decidono di licenziarsi, pochi si pentono e, affrontato il momento fatidico, l´umore migliora, la soddisfazione cresce nei cinque anni successivi.
Si consolino quelli a cui le cose non stanno girando per il verso giusto per i risultati dello studio. Tornando alla nostra capacità di adattamento la cattiva notizia è che nel corso della vita si rivela un´arma a doppio taglio. La stessa che fa fuggire via la felicità, persino quella di mettere al mondo un figlio. Dopo la sua nascita, inizia a calare, linee più verticali nella curva delle donne rispetto a quella degli uomini. Farlo è splendido, crescerlo più difficile, sembra confermare la ricerca. Scricchiola anche la felicità della vita in due. Altro che crisi del settimo anno: dopo cinque anni di matrimonio quella delle donne rispetto all´evento è al minimo storico, negli uomini poco sotto il punto di partenza. Se le nozze sono un sogno da inseguire, chi lo corona lo consuma in fretta e la gioia legata all´idea s´appanna. Così, professore, se tutto diventa abitudine, anche le cose più belle, niente vale la pena di essere vissuto? «Semmai, provare la durata della felicità ci deve servire a essere più fatalisti», è il consiglio.

Repubblica 15.7.08
Ma la gioia è un capitale che la routine può erodere


ROMA La felicità dura poco, si sa. Ma per fortuna anche l´infelicità. L´una e l´altra hanno una nemica comune, l´abitudine. Che fa dimenticare ben presto le gioie come i dolori. Il matrimonio, la carriera, la nascita di un figlio, l´aumento di stipendio ci rendono felici. Ma si tratta di un´una tantum. Poi il nostro capitale di satisfaction si svaluta giorno dopo giorno lasciando il posto a una routine senza slanci. A dirlo è un gruppo di studiosi al termine di una ricerca che misura gli effetti che i grandi momenti della vita hanno sul nostro tasso di felicità. I risultati sono stati pubblicati sull´ultimo numero dell´Economic journal e si possono così riassumere. Primo, il denaro non fa la felicità. Secondo, i profitti economici sono cumulabili ma le ragioni della felicità no. Terzo, ci si abitua a tutto. Un pensiero chiaro, anzi lapalissiano. Che ricorda quel che dicevano i nostri nonni a lume di naso e senza supporto statistico.
Non è la prima volta che dei ricercatori cercano di scoprire il segreto della felicità. E purtroppo non sarà neanche l´ultima. Qualcuno addirittura ha creduto di prenderle le misure. Qualche anno fa gli inglesi Carol Rothwell e Pete Cohen, psicologa la prima e life coach il secondo, ne diedero perfino la formula: P+(Ex5)+(Hx3). Dove P sta per personalità, E designa condizioni come salute, ricchezza, successo mentre H corrisponde all´autostima. Come dire che una persona ricca, sana, attraente, vincente, e sempre in bella compagnia ha buone probabilità di essere felice. Evidentemente è troppo forte la tentazione di scoprire la chiave di uno dei più insondabili misteri della condizione umana. E di superare quella soglia dove si sono pudicamente fermati giganti del pensiero come Socrate e Kant, Tolstoi e Goethe, Buddha e Einstein. Una cosa è certa, anche se la felicità non si può comprare, c´è sempre qualcuno che tenta di venderla.

Repubblica 15.7.08
Simone Weil la guerriera
Il mito greco e l’orrore nazista
di Nadia Fusini


La filosofa francese espresse le sue idee in un saggio sull´Iliade, scritto a pochi mesi dall´occupazione tedesca di Parigi
Una riflessione al femminile sui temi della forza e della ferocia. Tre esperienze diverse a contatto con la brutalità del Novecento
Leggere l´opera di Omero l´aiutò: nel passato trovò principi e valori con cui rispondere all´angoscia del presente
Il culto della virilità non è solo una prerogativa di Hitler ma serpeggia nel fondo ideologico delle politiche e delle società dell´Occidente

Anni fa, Angela Putino, un´indimenticabile amica filosofa troppo presto scomparsa, scriveva: «Simone Weil è una donna e il significante che la presenta al mondo degli altri è precisamente quello di "donna", che la pone in un luogo che dice della sua esperienza come un esperire che non è di ognuno». A Simone Weil Angela ha dedicato negli anni un´attenzione fervida, incarnata in interventi orali e in libri, sì che è diventata il mio ponte verso Simone.
Io leggo Simone con Angela, mai senza di lei. Insieme ci eravamo più volte interrogate sulla violenza; se e come, essendo per noi donne un´esperienza di cui siamo spesso vittime, non si produca in noi per ciò stesso un pensiero differente. Che contrasta, fessura, scarta rispetto ai luoghi comuni, ai pregiudizi, alle convenzioni.
Chi si presenta al mondo vestita di quel significante che l´abbiglia di certi carismi e doni, sa che tra quei doni e carismi c´è la vulnerabilità. Nella donna, il genere umano si coglie nella sua propria nudità di preda. E´ un sentimento di sé che una donna conosce bene; a volte, ci gioca. E fa la preda; si atteggia, come la Lulù di Wedekind, a meravigliosa belva. Ma per lo più, subisce. E ha paura.
Spesso e volentieri una donna convive con un sentimento di sé, direi alla Jane Austen, di un gentil sesso debole, quanto a equipaggiamento fisico. La sua forza la depone come fosse un seme, o un uovo, altrove: la cova o la coltiva nella sopportazione di dolori che l´uomo non conosce. E´ lei a partorire la vita e sempre lei al capezzale di chi muore.
Al contrario, l´esercizio della forza è un compito da cui la cultura, la civiltà l´hanno assolta. Non le chiedevano, almeno nel passato, di combattere. Nella tradizione, se una donna andava in guerra era per curare i feriti. Ora è vero, ci sono donne - soldato, ma l´ipocrisia vuole che quegli eserciti siano al servizio non della guerra, ma della pace. Per lo più è ancora vero che se si tratta di violare, penetrare, è piuttosto l´uomo maschio chiamato a farlo. Lui si è specializzato nella performance. E nel gusto.
Proprio per questo, tanto più interessante risulta che nel cuore del secolo scorso tre donne diverse, lontane tra loro, si siano arrischiate in una riflessione sulla violenza di un´altezza abissale. Di queste tre donne - Simone Weil, Rachel Bespaloff, Hannah Arendt - vi racconterò.
Mi direte: non solo delle donne si sono interrogate in quegli anni su che cosa accadesse; anche degli uomini l´hanno fatto. E io risponderò che queste tre donne in particolare sono scese come palombare nelle tenebre del male assoluto, della violenza smisurata che segnò il cuore dei loro anni. Hitler e l´hitlerismo ponevano questioni alla mente, al cuore e alla carne, che queste tre donne seppero sostenere. Per dirlo con una bravissima studiosa di Simone Weil, Rita Fulco, seppero «corrispondere al limite». E cioè, rispondere di contraddizioni strazianti, che mettevano il pensiero di fronte all´impensabile.
Perché donne? Lo seppero fare, intendo dire, proprio perché donne? Risponderei di sì, e non per orgoglio femminista, ma perché mi torna alla mente una conversazione con un´amica psicoanalista argentina, Maria Elena Petrilli, in cui mi diceva come da parte delle bambine vi sia una precoce percezione del proprio corpo, tanto più misteriosa perché, al contrario dei maschi, non possono verificare in modo semplice e diretto l´integrità di organi interni, invisibili.
E´ per questo, mi chiedevo mentre la mia amica parlava, che il corpo per una donna non è mai mero oggetto, ma sempre vita? Per dirla con Husserl, mai Körper, sempre Leib? E cioè, essere vivente? Non è così, evidentemente, per un uomo maschio, se può violentare un corpo di donna. E se lo fa, e può farlo, è perché il corpo dell´«altro», evidentemente, non lo sente, né lo pensa come il ‘suo´.
Ma chi non percepisce l´altro come essere vivente, chi addirittura arriva a pensare che la violenza corrisponde a un fantasma di godimento, una specifica joussance, o volupté femminile; chi riesce a sottrarsi alla percezione dell´altro come di sé medesimo, chi non sperimenti in sé l´estraneo, è questo un uomo? «Sperimentazione dell´estraneo», chiama Simone Weil la facoltà che più le interessa. E si chiede: perché non si interroga sul proprio perverso piacere chi nell´altro si diverte a suscitare il grido di dolore? Finché non si avrà il coraggio di andare a ‘vedere´ lo spazio cieco in cui nasce questa violenza, insiste, non si comprenderà lo sfondo spettrale e cieco della violenza tout court. Ma chi può farlo? Non certo chi la violenza la esercita. Perché in chi provoca sventura c´è una voluta ignoranza della sofferenza che provoca. Ecco perché la violenza è cieca.
Non che Simone Weil non veda la complicità tra il fantasma della forza e l´attitudine alla sottomissione, il nodo che aggioga vittima e carnefice nella medesima anestesia del corpo e della mente. Simone anzi riconosce che il culto della Forza non è solo la tabe viriloide dell´hitlerismo, ma serpeggia nel fondo ideale e ideologico delle politiche e delle società d´Occidente.
Legge la sua drammatica potenza e tragica realtà nell´Iliade, che ribattezza «il poema della forza». E proprio prima di partire per New York, onde sfuggire alla persecuzione razzista, consegna alla rivista Cahiers du Sud il saggio sull´Iliade, che comparirà a Marsiglia nel gennaio 1941, a firma di Emile Novis, anagramma di Simone Weil.
Il saggio si apre con queste parole: «L´Iliade è il poema della forza. Il vero eroe, il vero argomento dell´Iliade è la forza». E continua: «la forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa». Sono affermazioni che risuonano nette come uno schiaffo, sonore, definitive. A conferma di una condanna, a cui la spinge il pacifismo radicale che la ispira. La forza, sia che la si possieda come Achille, sia che la si subisca come Ettore, distrugge. Sono paurose, insiste Simone, le visioni di violenza che si aprono nel poema omerico, dove l´essere coincide con l´essere-per-la-morte, dove è il pensiero della morte a dare agli eventi «il colore dell´eternità». La forza è l´ingiustizia, la forza è il male. Omero, né dalla parte dei Greci, né dalla parte dei Troiani, la descrive con amarezza e imparzialità.
Con la sconfitta della Francia nel 1940, l´occupazione di Parigi, e la montante barbarie nazista, inesorabile, tremenda, la storia imponeva non solo a Simone di alzare la guardia. Leggere il grande libro l´aiutò; in uno scrigno del passato trovò principi e valori con cui rispondere all´angoscia del presente. Lesse di come la violenza tenda all´annientamento della presenza umana, quanto la forza sia irreale, che cumulo di menzogne produca. La forza «de-realizza», comprese Simone: «la violenza stritola quelli che tocca», «uccidere è sempre uccidersi». Tra le pieghe del grande libro colse la visione dell´annullamento della presenza umana. Può forse il guerriero desiderare che l´altro viva? si chiese. Evidentemente no. Pure, per lei, era questo essere umani, l´unica forza a cui umanamente soccombere era quella di Amore; solo Amore fa guerra alla guerra - proclamò la «pensatrice guerriera».
Non era certo facile in quegli anni violenti trovare la forza di rinnegare ogni uso della forza ai fini della vita, proclamare la necessità dell´amore contro la necessità della forza. Di fronte all´ «irrealtà» che aveva in quegli anni il nome di Hitler l´idea di giustizia guidò l´«impolitica» Simone alla capriola finale: prese parte alla guerra, si fece per l´appunto «guerriera». Tornò dagli Stati Uniti a Londra, chiese di essere paracadutata oltre le linee nemiche. E alla fine, non potendo mettere fine alla battaglia, se la conficcò come una croce nel suo proprio cuore, e ne morì.
(1. Continua)

La Stampa 15.7.08
L'ex premier tiene aperti i contatti a sinistra
Ora Massimo punta tutto su Vendola
Latorre: Diliberto con Ferrero? E lui tirerà la volata a Nichi
di Federico Geremicca


Voto e Costituzione. «Le alleanze non sono vietate se ieri c'è stata l'Italia dei valori domani potranno esserci altri»
Tessere per Red e non per il Pd
«E allora? Non ci spiegavano che i partiti moderni funzionano con Internet e compagnia bella?»

Può essere che le cose cambino, perchè la faccenda - in fondo - è _ soltanto all'inizio. Dovessimo però stare a quanto accaduto, bisognerebbe annotare che nella "rete tedesca" calata ieri dalla dalemiana Italianieuropei e da altre tredici fondazioni è rimasto ben poco. Non il Pd, se non nella sua "anima" più vicina all'ex presidente del Consiglio; non l'attuale maggioranza di governo che ha detto no al sistema tedesco con Cicchitto e Gasparri (capigruppo) e "ni" con Calderoli, che teme che a parlare di riforma elettorale ci lasci le penne il federalismo; e nemmeno le altre opposizioni, che hanno definito la discussione sulle riforme "una trappola" (Di Pietro) o "accademia" (Casini), considerata l'indisponibilità di Berlusconi. Insomma, non precisamente un successo: ma sbaglierebbe chi pensasse che lo stop di ieri abbia convinto Massimo D'Alema a rinunciare all'impresa. La tessitura dell'ex presidente del Consiglio, infatti, è ormai avviata: con due obiettivi espliciti ed uno che potrebbe discenderne, come si dice, di risulta.
I primi due bersagli sono dichiarati: ridisegnare il modello istituzionale ed elettorale e togliere il Pd dall'isolamento in cui è finito dopo (ma secondo alcuni addirittura prima) del voto. Naturalmente poichè l'isolamento (vero o presunto) è determinato dalla linea sulla quale Veltroni ha attestato il Pd, è evidente che da una riapertura dei giochi - per esempio attraverso un largo consenso ad una riforma alla tedesca - ad aver tutto da perdere sarebbe proprio Walter Veltroni. Questo ieri, come dicevamo, non è accaduto: ma non sarà certo sufficiente a fermare l'iniziativa dalemiana. Che punta, prima di tutto, a ritessere quella reIte di alleanze letteralmente disintegrata dalla scelta veltroniana di un Pd a "vocazione maggioritaria".
Massimo D'Alema ne parlava qualche sera fa alla Festa de l'Unità di Perugia. «Dopo tanta confusione - spiegavafinalmente si è fatta chiarezza su questa storia della vocazione maggioritaria. Non vuoI dire andar da soli, non avere alleati: tanto è vero che alle elezioni ci siamo andati con Di Pietro. Dunque le alleanze non sono vietate: e se ieri è stata !'Italia dei Valori, domani potrà essere anche qualcun altro». Già,qualcun altro; ma chi? Naturalmente l'Udc. Ma soprattutto una sinistra rinnovata, più credibile e rigenerata. «La faccenda del voto utile - spiegava ieri Nicola Latorre a margine del convegno sul sistema tedesco - la prossima volta non funzionerà. Se Rifondazione si rimette in piedi, molti voti torneranno lì: e noi dobbiamo prepararci...». E la preparazione è già cominciata; infatti, D'Ale ma e i suoi (e non soltanto loro, per la verità) stanno facendo un gran tifo perché !'imminente congresso sia vinto da Vendola.
«Sì, Massimo sta aiutando Nichi ammetteva ieri Franco Giordano - così come Diliberto fa il tifo per Ferrero; e vedete voi chi sta messo meglio ... Certo l'aiuto diD'Alema non ci sta danneggiando, considerato che eravamo partiti in svantaggio e ora siamo davanti noi». Maperchè Vendola? «Perchè io vengo da un'esperienza di governo - dice D'Alema - nella quale la mattina decidevamo delle cose in consiglio dei ministri e poi alcuni ministri ci facevano i cortei contro. Vendola governa bene la Puglia da anni, e non mi risulta scenda in piazza contro quello che decide ... ». E non basta. «Nichi è più innovativo spiega Latorre - ha vinto le sue elezioni col sostegno anche dei moderati ed è stato lontano da Roma nell'ultimo paio di anni, cosa che non guasta considerando quel che è accaduto».
Tutto sta, naturalmente, a convincere il Pd che va bene guardare all'Udc di Casini, ma non basta: bisogna riaprire una linea di dialogo anche con la sinistra. E assieme a questo, naturalmente, radicare e rafforzare il Partito democratico. In verità, per il momento D'Alema sta rafforzando le sue creature; Italianieuropei, appunto, e la neonata Red-( «Ottocento t.essere in pochi giorni, e le richieste aumentano - dice fiero -. Un successo»). E a chi gli fa notare la singolarità di un impegno volto più a questo che al Pd, risponde assai seccato: «Questa storia che io faccio le tessere per Red e non per il Pd mi ha stufato. Chi mi critica se la prenda con quei professori che ci hanno spiegato per mesi che le tessere non si fanno, che quella è vecchia politica, che i partiti moderni funzionano in altro modo, con Internet, la Rete e compagnia bella. Aprano il tesseramento al Pd e io ci lavorerò. Ma fino ad allora, per favore, mi lascino in pace ... ».