giovedì 17 luglio 2008

l’Unità 17.7.08
Non solo Rom: dal 2010 tutti «schedati»
di Maristella Iervasi


Sì all’emendamento nella manovra economica di inserire i rilievi digitali sulle carte d’identità: dal 2010 le impronte saranno obbligatorie per tutti. Intanto, sui rom è scontro Pd-Maroni. Veltroni attacca: fermare subito la norma sulle impronte ai nomadi. Ma Maroni insiste: «Non ci penso proprio a ritirare la mia ordinanza». Sulla vicenda interviene anche il Garante della Privacy: sì al prelievo, basta che riguardi tutti indistintamente e con adeguate garanzie. E Bucarest avverte: le impronte ai rom, una pratica discriminatoria.
«Sospendere immediatamente la norma sulle impronte ai nomadi. Non ha più senso, visto che è ormai decisione universale». Walter Veltroni, leader del Pd, dopo l’emendamento approvato nella manovra economica (presentato da An e passato anche con i voti del Pd) di inserire i rilievi digitali sulle carte d’identità di tutti i cittadini , lo invoca con forza. Ma è subito scontro con Maroni, il ministro leghista che «vuole» censire i Rom. «Non ci penso proprio a ritirare la mia ordinanza che riguarda il censimento nei campi nomadi per ottenere l’identificazione di chi c’è. Veltroni abbia la decenza di rimanere zitto e l’onestà di vergognarsi e chiedere scusa - ribatte a stretto giro di posta il responsabile del Viminale. E ripete la stessa litania: «Veltroni, si vada a rileggere il patto per la sicurezza a Milano che Amato ha firmato durante il governo Prodi. Lì si parlava di emergenza rom; lì era discriminazione etnica. Noi l’abbiamo corretta con emergenza campi nomadi. Le impronte per tutti ci saranno dal 2010 e va benissimo - sottolinea -. Ma non cambia la nostra azione che serve per dare identità a chi non ce l’ha. Solo a Roma su 7mila minori solo mille hanno una qualche forma di scolarizzazione. Le polemiche - conclude - sono faziose, fasulle, tarocche e non mi stancherò di perseguire in sede giudiziaria». Ma Bucarest valuta così le misure del governo italiano: «Una pratica discriminatoria», fa sapere il premier romeno Calin Popescu Tariceanu. Mentre dal Garante della privacy arriva un invito fermo e chiaro alla «moderazione» nell’uso delle impronte e dei dati biometrici che non vanno usati «secondo criteri discriminatori», perchè «potenzialmente lesivi» della dignità delle persone.
Parla infatti Francesco Pizzetti, nella sua relazione annuale al Parlamento. E osserva: «Sì al prelievo delle impronte ma a condizione che riguardi tutti, indistintamente. Con regole e modalità introdotte dal Parlamento e con adeguate garanzie per i cittadini - precisa il Garante della privacy -. No, invece, alla rilevazione di dati biometrici in chiave discriminatoria». Il Garante affronta quindi anche il delicato tema dei minori e sottolinea che in questo caso «le cautele devo essere moltiplicate». Dev’essere chiarito «al di là di ogni dubbio» che a questo si fa ricorso «solo quando non è possibile usare altri strumenti» e al fine, «dimostrato», di proteggere i minori e la loro integrità. E poco dopo Maroni in Transatlantico commenta: «Il confronto con il Garante è aperto. Delle sue raccomandazioni ne terremo conto, tutto sarà fatto a regola d’arte». Il responsabile del Viminale non fa dunque marcia indietro e ribadisce che il censimento si concluderà in ottobre. Poi, incontrando le associazioni che si occupano di bambini, tra cui l’Unicef, lancia «un’idea» su cui sta lavorando: i bambini che vivono nei campi nomadi e sono senza genitori certi potrebbero avere la cittadinanza italiana. «Un’eccezione alla regola dello “jus sanguinis”, sottolinea.
Intanto, è di nuovo scontro tra la Romania e l’Italia. «Per il governo rumeno il rispetto dei diritti umani è una priorità. Non possiamo accettare che i cittadini rumeni siano soggetti a pratiche discriminatorie che non rispettano la dignità umana», ha detto il primo ministro Calin Tariceanu nel corso della riunione dell’esecutivo a Bucarest. Una preoccupazione lecita e un messaggio di disappunto che è stato fatto arrivare a Roma, attraverso l’ambasciatore Daniele Mancini, proprio incentrato sull’ordinanza Maroni sulla raccolta delle impronte digitali nei campi nomadi e sulle misure per i comunitari previste dal decreto sicurezza. Puntuale la controreplica della Farnesina: «Bucarest ha una conoscenza incompleta delle iniziative legislative recentemente adottate». In Italia - si legge in una nota del ministero degli Esteri - sono senz’altro «apprezzate» le «qualità» professionali ed umane della grande maggioranza dei lavoratori e cittadini romeni che vi risiedono. Tuttavia è noto «come una minoranza di essi si sia resa purtroppo responsabile di reati» che hanno profondamente colpito l’opinione pubblica italiana e che hanno «richiesto misure» per attuare controlli più efficaci, «non certo basati su criteri di nazionalità». Sulla stessa lunghezza d’onda anche il ministro per le politiche europee Andrea Ronchi: «Le preoccupazioni di Tariceanu sono assolutamente ingiustificate e destituite di ogni fondamento».

Punto informatico 17.7.08
L'Italia cede alle impronte digitali


Roma - C'era solo un modo per evitare che le polemiche infraeuropee sull'adozione di strumenti biometrici di controllo si placassero: il Governo italiano che intendeva schedare i Rom ora ha manovrato per estendere dal 2010 questa schedatura a mezzo impronte digitali a tutti i cittadini. In particolare, dal 2010 le carte di identità comprenderanno le impronte digitali dell'intestatario.
Il provvedimento è integrato al decreto legge della manovra voluta dal Governo, una misura che ha già ottenuto un primo via libera ieri notte dalla commissione Bilancio della Camera e che è associata al raddoppio del periodo di validità della carta di identità. "La carta di identità - recita l'emendamento - ha durata dieci anni e deve essere munita della fotografia e delle impronte digitali".
Sul provvedimento c'è un accordo bipartisan: maggioranza e opposizione sembrano andare a braccetto in questa occasione, anche perché - dicono tutti con convinzione - è l'Europa a muoversi in questa direzione. La sensazione nel Palazzo ancora oggi, insomma, è che contro ogni evidenza tecnica e tecnologica, la registrazione delle impronte digitali abbia effettivamente un senso anche quando applicata a tutti indiscriminatamente. Anzi proprio per questo, parrebbe, a sentire le dichiarazioni degli esponenti politici.
Secondo il segretario del Partito Democratico Walter Veltroni, ad esempio, "è giusta la decisione di prendere a tutti le impronte digitali". Veltroni chiede dunque la sospensione della misura rivolta ai soli Rom e sottolinea che "è giusto che sia una decisione universale". Soddisfazione anche di Pier Ferdinando Casini secondo cui è stata accettata la proposta del suo partito, l'UDC, per il quale è necessario "prendere le impronte digitali a tutti i nostri figli e non solo ai minori Rom, che sarebbe stata una misura razzista. Così invece si va sulla strada della giustizia e del rispetto della legalità".
Secondo i presentatori dell'emendamento, i deputati del PDL Marco Marsilio, Fabio Rampelli e Massimo Corsaro, in questo modo si risolvono tutti i problemi. "Grazie a questa norma - ha affermato Marsilio - è stata spazzata via la strumentale e demagogica polemica montata contro il governo in merito alla vicenda delle impronte ai minori nomadi. Questo provvedimento equipara tutti i cittadini nell'esigenza di rendere disponibili tutte le più moderne tecnologie per garantire la sicurezza e rendere certa e inequivocabile l'identificazione delle persone". Secondo Corsaro, "l'archivio tecnologico delle impronte digitali verrà accolto con favore dalla stragrande maggioranza dei cittadini onesti che non avvertirà questa innovazione come una costrizione o una limitazione della libertà personale, ma la interpreterà correttamente come un contributo al controllo del territorio e al mantenimento della sicurezza da parte delle istituzioni".
In realtà una certa prudenza l'ha espressa, invece, il Garante per la privacy Francesco Pizzetti, che ha ieri presentato la Relazione annuale e che a questo proposito ha dichiarato: "Il Garante non può che ripetere un fermo e chiaro invito alla moderazione nell'uso di questi strumenti, in quanto potenzialmente lesivi della dignità delle persone". Pizzetti ha in particolare affrontato il problema della schedatura dei minori ma è in effetti l'unica voce istituzionale che ieri abbia sollevato perplessità su un uso indiscriminato a tappeto di questa tecnica biometrica.
Le polemiche su una questione da lungo tempo dibattuta in sede internazionale non si sono fatte attendere. Falsificare una impronta digitale è a portata di tutti. È dello scorso marzo la clamorosa iniziativa degli hacker del Chaos Computer Club, che hanno pubblicato le impronte digitali del ministro dell'Interno tedesco in una confezione pronta ad essere usata da chiunque per lasciare in giro impronte identiche a quelle del Ministro. Ma è solo l'ultima di una serie di dimostrazioni che negli anni hanno demolito il concetto di impronta digitale come strumento identificativo. Gli howto per realizzare rapidamente kit di riproduzione di impronte altrui sono naturalmente a disposizione su Internet di chiunque abbia interesse a studiarsi questi metodi.
E se i Garanti europei in più occasioni hanno messo in guardia sull'utilizzo indiscriminato della biometria, un approfondimento di Stefano Rodotà, già garante italiano, proprio in questi giorni ha letteralmente fatto a pezzi l'idea di catturare le impronte digitali dei cittadini.
Il furto dell'impronta digitale può rivelarsi gravido di conseguenze, scrive Rodotà: "Se il furto riguarda l'impronta digitale, poiché questa non è sostituibile, l'effetto è drammatico: sarò escluso da tutti i sistemi fondati sull'identificazione attraverso l'impronta". "La tecnica delle impronte digitali - scrive ancora - non solo non è sicura ma, sfidata com'è anche dalle tecnologie della falsificazione, diviene pericolosa, rendendo possibile la disseminazione delle impronte all'insaputa dell'interessato, in occasioni e luoghi che questi non ha mai frequentato". Senza contare, inoltre, che "solo nelle apparenze le impronte digitali possono essere definite uno strumento neutrale. Hanno un forte valore simbolico: chi le raccoglie sembra quasi che si impadronisca del corpo altrui".
Ma le polemiche giungono anche dalla blogosfera. Non appena si è iniziata a diffondere la notizia, sui blog italiani si sono moltiplicate critiche e perplessità. Sul suo blog Alessandro Bottoni, nome già noto ai lettori di Punto Informatico, parla di provvedimento grave: "Questa soluzione - scrive - risolve un problema inesistente ed introduce un rischio molto più grave di quello che pretende di affrontare". Anarcadia invece scrive: "le impronte digitali saranno prese a tutti, così risolviamo la discriminazione su base etnica e troviam la scusa buona per aumentare il controllo dello stato sui cittadini, in un colpo solo".

l’Unità 17.7.08
La ritirata dopo la vergogna
di Paolo Soldini


Il ministro dell’Interno di quello che fu uno dei più prepotenti governi del mondo risale in disordine e senza speranza le valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza. Ci vorrebbe un generale Diaz per dar conto della botta che ha preso Roberto Maroni quando l’altra notte, in sede di discussione della Finanziaria, si è fatto polpette della sua arrogante pretesa di smontare un pezzo di civiltà di questo paese per imporre il razzistico provvedimento della schedatura con le impronte digitali dei piccoli rom. Le impronte digitali verranno prese a tutti quelli che chiederanno la carta d’identità dal 1° gennaio del 2010. Si può discutere se è bene o male, utile o inutile, ma si tratta di una cosa molto, molto diversa da quanto stava scritto nell’ordinanza «sui campi nomadi» e da quanto (contraddicendosi ogni volta che apriva bocca) andava sostenendo da settimane l’improvvido ministro dell’Interno: che la misura non era discriminatoria ma serviva, anzi, a «tutelare» i bambini nomadi. In realtà era discriminatoria in modo odioso e contraria a tutte le norme europee e internazionali sui diritti civili e l’uguaglianza dei cittadini e non tutelava proprio nessuno. Persino il superfluo ministro agli Affari comunitari era in grado di accorgersene.
Un generale Diaz non ce lo abbiamo. Possiamo mettere in fila, però, la truppa che ha contribuito a ricacciare gli invasori oltre le Alpi del buon senso, del diritto delle genti e della morale (morale: che bella parola). La Commissione europea, particolarmente il commissario agli Affari Sociali Vladimir Špidla, ma anche il francese Jacques Barrot (Giustizia e Libertà pubbliche) e lo stesso presidente Barroso, il quale, ancorché politicamente legato a Berlusconi (il quale sua sponte et pour cause gli ha promesso l’appoggio alla ricandidatura), ha comunque fissato, in una intervista al TG1 i paletti del "rispetto delle norme e dei princìpi europei". Poi l’Unicef, quindi l’Onu, con la condanna espressa non "da alcuni funzionari", come scrivevano ieri servilmente "alcuni giornali" (tra cui il Messaggero), ma da Doudou Diene, incaricato speciale sul razzismo per il Segretario Generale, da Gary McDougall, responsabile del comitato per la tutela delle minoranze e da Jorge Bustamante, responsabile per le politiche sull’immigrazione. Il governo italiano ha poco da risentirsi ed esprimere "sconcerto". Si sconcerti piuttosto per il dilettantismo dei suoi ministri e dei loro consiglieri diplomatici. Che hanno fatto rischiare all’Italia anche una crisi diplomatica con Bucarest, dove l’ambasciatore Daniele Mancini è stato convocato perché riferisse alle autorità italiane che il governo romeno "non può accettare che i cittadini romeni siano sottoposti a soprusi e a pratiche discriminatorie che non rispettano la dignità della persona umana". Poi il parlamento europeo, il quale ha votato una mozione di condanna della direttiva che Maroni, sceneggiato con ampi gesti dal suo collega più pleonastico, nella conferenza stampa tenuta qualche giorno fa ha bollato come "manovra strumentale della sinistra". Peccato che la mozione tanto strumentale e tanto di sinistra sia stata votata non solo dai liberal-democratici, ma anche da 21 deputati del Ppe, con altri 77 che si sono astenuti. Intere nazionalità, come i francesi, hanno votato il documento contro il governo Berlusconi. Il che ha aperto un problema politico di prima grandezza nel momento in cui Forza Italia sta cercando di portare dentro il gruppone Ppe gli eurodeputati di An. Infine, dopo il parere negativo di costituzionalisti, giuristi, avvocati, esperti di diritto internazionale, parroci, vescovi, Famiglia Cristiana, è arrivato quello, ufficialissimo anche se un po’ tardivo, del Garante della Privacy Francesco Pizzetti, il quale ha ammonito a non "fare ricorso a queste tecniche (le impronte digitali) secondo criteri discriminatori, specialmente di natura etnica o religiosa, che contrastino con la nostra Costituzione e con le carte dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino che il nostro paese ha siglato". Chiaro, no?
Chissà se qualche giornale, di quelli specializzatissimi in retroscena (qualche volta anche veri), ci racconterà come è maturato l’indietro-marsch di Maroni e soci. La nostra impressione è che abbia pesato, e molto, la rivolta nel Ppe della quale Barroso nella sua visita-lampo a Roma deve aver parlato con qualche preoccupazione a Berlusconi e che in caso di ulteriore incaponimento di Maroni avrebbe rischiato di avere un impatto duro, qui da noi, nei non semplicissimi rapporti tra Fi e An e in quelli ancor meno semplici tra la Lega e tutti e due gli alleati. L’inasprirsi, nelle ultime ore, dei toni sul tema giustizia potrebbe essere un segnale. Ma queste sono impressioni e illazioni. La cosa certa è che dopo uno schiaffone come quello che gli è stato stampato sulla faccia, ancorché di bronzo, il ministro dell’Interno dovrebbe dimettersi. In qualsiasi paese civile, un ministro che non riesce a far passare un provvedimento su cui ha puntato tutto, farebbe le valigie e a casa. Ma siamo nell’ Italia del cavalier Berlusconi e sapete che succederà? Maroni sosterrà che nessuno lo ha sbugiardato, per carità, ci mancherebbe altro. Io quelle cose le ho sempre dette, sono i giornali che non hanno capito. Le impronte digitali per tutti? Ma certo, è proprio quello che volevamo… Ah, come sarebbe bello se almeno per una volta il ministro dell’Interno della Repubblica italiana dicesse la verità. Che volete, ci piace sognare.

il Riformista 17.7.08
Ai bimbi rom no e a tutti gli italiani sì?


Ricapitoliamo. Prelevare le impronte digitali ai soli rom, misura funzionale alla possibilità per lo Stato di poterne tracciare l'identità, è inaccettabile. La stessa misura, estesa dal 2010 a tutti gli italiani, non desta preoccupazione. È davvero bizzarro il ragionamento per cui una lesione delle libertà civili è tanto più digeribile quanto più è estesa. Dietro, c'è un tic politicamente corretto e, per carità, comprensibile. È vero che ci riesce intollerabile l'immagine delle impronte prelevate ai bambini rom, contro cui si è scagliato anche Veltroni. Ma cosa rende più accettabile lo stesso prelievo agli adulti italiani?
Ieri il presidente dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali, Francesco Pizzetti, ha pronunciato un cauto ammonimento contro questa tendenza alle schedature generalizzate. Che già impazza nel privato. Quanti dati sono «concentrati», nei software di Google? Come valutare la campionatura di noi tutti, come consumatori che acquistano on line, che fanno i grandi negozi alla Amazon? C'è una perdita di privacy, ed è chiara. Certo, può anche essere utile, dal momento che il mio libraio informatico impara i gusti di mio gradimento. Finché i dati non sono concentrati in un unico luogo, si possono trarre i vantaggi che un po' di riservatezza in meno può produrre, abbastanza a cuor leggero.
Altra cosa quando si parla dello Stato. Noi viviamo in un paese nel quale le richieste delle assicurazioni di costituire un'Authority contro le frodi, da loro finanziata, sono cadute nel vuoto. Sarebbe un esercizio abbastanza semplice, un database degli imbroglioni, che hanno dimostrato di meritarsi meno rispetto per i propri diritti. Non si può: per la normativa sulla privacy. O forse perché sarebbe discriminazione: colpirebbe i «moralmente eterodossi».
Invece schedare tutti gli italiani si può, e andrà fatto. Dice Pizzetti che l'utilizzo dei dati biometrici, «anche nella forma del prelievo delle impronte digitali, si va diffondendo a macchia d'olio, sia nel mondo del lavoro sia in altri ambiti. Il Garante non può che ripetere un fermo e chiaro invito alla moderazione nell'uso di questi strumenti, in quanto potenzialmente lesivi della dignità delle persone». Un modesto reminder al nostro reminder. La riservatezza non è solo un fatto d'intercettazioni.


l’Unità 17.7.08
«La destra vuole una magistratura controllata dalla politica»
Preoccupazione al Csm. Cascini, segretario dell’Anm: il loro vero obiettivo è limitare l’indipendenza delle toghe
di Massimo Solani


Ora che Berlusconi ha deciso di caricare a testa bassa contro le toghe al Consiglio Superiore della Magistratura l’aria è tesa e preoccupata. Un po’ per il timore di sentirsi rinfacciata dalla maggioranza qualsiasi pur cauta esternazione, un po’ per la necessità di capire sino in fondo i contorni della nuova operazione giustizia del centrodestra, fatto è che a Palazzo dei Marescialli pochi sono i consiglieri disposti a commentare le nuove iniziative di Berlusconi. Un dato comunque è certo: sono lontani i tempi in cui il ministro della Giustizia Alfano prometteva una riforma condivisa in grado di ridare efficienza ai tribunali. «Lo avevo detto quando il ministro era stato qui: non facciamoci troppe illusioni - commenta il togato Livio Pepino - i fatti ci stanno dando ragione. C’è una mancanza di volontà di dialogo reale». E preoccupano anche le nuove sparate di Berlusconi: «per ora siamo nella fase delle iniziative legislative - prosegue l’esponente di Md - utilizzate come messaggi, profondamente negativi e inutili per l’efficienza del servizio e dannosi per l’indipendenza dei magistrati». Timori condivisi anche da Fabio Roia (Unicost): «Il problema vero è l’efficienza della giustizia - spiega - mentre qui si vuole ritoccare lo status dei magistrati per arrivare a una magistratura più controllabile dalla politica». Nei corridoi di Palazzo dei Marescialli l’agitazione è pesabile, e più di qualcuno adesso ricorda le parole del vicepresidente Mancino quando, dopo le fughe di notizie sul parere relativo alle norme blocca processi, si lasciò sfuggire un profetico «voi non vi rendete conto cosa rischiamo con questa maggioranza». «Sembrava che il ministro volesse concentrare la sua attenzione da subito sui processi - spiegava ieri Giuseppe Maria Berruti, uno dei togati più ascoltati e “di peso” - Prendo atto che l’intento è mutato». Del resto anche ieri si è notato quanto tesi siano i rapporti Palazzo Chigi-Csm, quando Ciro Riviezzo, Mario Fresa e Dino Petralia di Movimento per la Giustizia (corrente “verde” e di sinistra) hanno chiesto l’apertura di una pratica a tutela dei magistrati di Pescara, duramente attaccati da Berlusconi dopo l’arresto del presidente dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco.
Ma gli annunci di riforma del premier preoccupano anche il sindacato delle toghe. «Ancora una volta - spiegava infatti ieri Giuseppe Cascini, segretario dell’Associazione nazionale magistrati - la politica sembra volersi occupare della riforma dei magistrati, avendo come unico obiettivo quello della riduzione dell'indipendenza della magistratura».

l’Unità 17.7.08
Vita: troppi tagli all’editoria, si attacca la libertà


«Nel provvedimento eufemisticamente chiamato “Disposizioni urgenti per salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie” vengono tagliati almeno 300 milioni di euro a cultura, attività sportive, attività scolastiche universitarie e editoria: un provvedimento nato sotto un titolo economico, in verità dà un colpo ferale e terribile alla cultura italiana nei suoi vari aspetti, in particolare all'attività editoriale». È il grido di allarme del senatore del Pd Vincenzo Vita. «In Italia abbiamo tante attività non immediatamente di mercato come quotidiani, fogli di diversa periodicità, emittenze, ambiti che non hanno un tornaconto finanziario, ma che certo contribuiscono a quella straordinaria libertà che è la libertà di informazione - prosegue - Ebbene, da oggi al 2010 si prevede un taglio sulla voce specifica di bilancio del 6,8%. Un taglio talmente grave che è un vero e proprio attacco, forse inaudito e mai visto, alla libertà di comunicare».

l’Unità 17.7.08
Tagli alla sicurezza, Veltroni: sarà opposizione dura
Il leader del Pd: fanno decreti urgenti sull’ordine pubblico e poi tolgono le risorse. Oggi in piazza con le forze dell’ordine
di Maria Zegarelli


«O ci sarà un intervento per ripristinare le condizioni prima del taglio di 3,2 miliardi per la sicurezza o noi utilizzeremo tutti gli strumenti di opposizione per impedire che la sicurezza dei cittadini sia messa a repentaglio». Il segretario del Pd Veltroni promette battaglia in aula dopo aver denunciato i tagli previsti nella manovra sulla sicurezza. E annuncia: oggi sarò in piazza con i sindacati delle forze dell’ordine.
«Forze dell’ordine umiliate dal governo»
La denuncia di Veltroni: tagli incredibili, a rischio la sicurezza dei cittadini. Via al tesseramento

«O CI SARÀ un intervento per ripristinare le condizioni prima del taglio di 3,2 miliardi per la sicurezza o noi utilizzeremo tutti gli strumenti di opposizione per impedire che la sicurezza dei cittadini sia messa a repentaglio». Walter Veltroni lancia l’affondo contro i tagli previsti nella manovra su sicurezza, sanità e scuola. Il segretario del Pd - che oggi parteciperà alle 11 a piazza Montecitorio, alla protesta indetta dai sindacati delle forze dell’ordine - durante una conferenza stampa a Montecitorio ricorda il leit motiv della campagna elettorale del Pdl, tutta centrata sull’emergenza sicurezza per i cittadini e il taglio delle tasse e sottolinea come alle parole corrispondano atti di ben altro contenuto. «È incredibile - dice - che, mentre siamo impegnati al voto sul Dl sicurezza, si corrisponda nella manovra a misure assolutamente in contrasto per garantire la presenza delle forze dell’ordine sul territorio».
I tagli previsti per sanità e scuola arrivano in una «situazione gravissima, come non era da decenni. C’è una stagnazione che si va configurando come una recessione e come tale viene già percepita dalle famiglie italiane». Il Paese «rischia di avvitarsi in una spirale drammatica perché nella manovra del governo non c’è nessuno stimolo alla crescita», ma solo tagli che «graveranno sulle tasche dei cittadini». Il ministro ombra dell’economia Pierluigi Bersani, cita le forze della natura: «La manovra triennale è stata fatta in modo pericolosamente confuso e, con questo modo di impostare la politica economica, lo tsunami dell’inflazione si abbatterà sui cittadini». Una manovra, quella che arriva in Parlamento, assolutamente diversa da quella licenziata dal Consiglio dei ministri due settimane fa, ricorda Soro, dopo nove minuti e mezzo di discussione, come ebbe a vantarsi il premier. È evidente che l’opposizione si prepara a un ostruzionismo in aula, anche se questa è una maggioranza che pur avendo un largo respiro sui numeri ormai si muove a suon di fiducia per impedire qualunque dibattito parlamentare. Il Pd guarda alla battaglia parlamentare ma, come ha sottolineato lo stesso segretario durante la Direzione martedì scorso, punta anche e soprattutto alla mobilitazione sul territorio e alla grande manifestazione di ottobre, proprio sui temi dell’emergenza economica e sociale in cui versa il Paese. E quanto sia sentito il tema lo dimostra il fatto che il videoappello «Salva l’Italia», lanciato dal segretario sabato scorso in rete sia già stato visto da oltre 35mila persone, mentre la petizione in cinque giorni conta oltre 12.500 firmatari, con una media di oltre duemila firme ogni giorno. E ieri, durante una conferenza stampa Veltroni ha presentato la campagna di tesseramento 2008-2009 il cui slogan sarà «La differenza la fai tu». La tessera numero 1 ha già un titolare: il segretario, che ieri l’ha mostrata davanti alle telecamere. Sarà la «carta d’identità» dei militanti che per averla dovranno recarsi presso un circolo o un luogo pubblico, come le Feste democratiche in giro per l’Italia, firmarla e dare un contributo di 15 euro. «Ci rivolgiamo innanzitutto agli elettori delle primarie - dice Veltroni - ma anche a chi crede nella nostra alternativa riformista per la guida del Paese e pensa che sia l’unica alternativa a Berlusconi».
A settembre partirà anche la prima Summer school che non «sarà una scuola di partito ma un luogo di discussione, ascolto, riflessione non solo per i partecipanti ma anche per i politici che avranno modo di ascoltare una parte consistente della migliore cultura italiana e non solo». Il tema generale sarà «Globale-locale, le sfide della democrazia nell’era della globalizzazione». Tra i «docenti», Jeremy Rifkin, Mauro Ceruti, Valdana Shiva, Bernard Spitz, Andrea Riccardi.

Corriere della Sera 17.7.08
D'Alema: sulle riforme serve un colpo di reni Sì a ragionevoli convergenze
L'ex premier: ognuno deve assumersi le sue responsabilità Il sistema tedesco? Ha più consensi, nessuna lite con Walter
intervista di Maria Teresa Meli


Non ho alcun interesse a mettere in discussione la leadership di Veltroni né sono candidato ad alcuna leadership
L'enormità della crisi viene sottovalutata. Se andiamo avanti così la gente reagirà mandandoci tutti a quel paese

ROMA — Onorevole D'Alema, lei ripropone il sistema elettorale tedesco e tutti pensano male. Un sistema contro Veltroni?
«Innanzitutto non sono io: sono 15 istituzioni e fondazioni culturali, con il concorso di prestigiosi giuristi e costituzionalisti, tra cui tre ex presidenti della Corte, che hanno elaborato una proposta organica di riforma della legge elettorale e della forma di governo, allo scopo di disegnare un assetto più efficiente e democratico per le nostre istituzioni. È ridicolo che tutto questo venga letto nella chiave di un conflitto D'Alema- Veltroni».
Dicono che lei usi la riforma ai fini congressuali...
«Non ci sarà alcun congresso né alcuna resa dei conti, ma una conferenza programmatica per mettere a punto le nostre proposte ed è esattamente a questa riflessione che io cerco di dare un contributo».
Fatto sta che il Pd non si è schierato per il tedesco.
«Noi non abbiamo scelto un sistema. Abbiamo sempre detto che preferiremmo il sistema francese a doppio turno, ma sappiamo anche che in Italia nessuno lo sostiene. Il francese è una posizione di scuola».
Anche il tedesco.
«Non è così. Nella scorsa legislatura abbiamo partecipato a un confronto parlamentare sulla base di proposte di tipo proporzionale a partire dal modello tedesco o dal modello spagnolo: non mi pare che ci siano diversità tali da giustificare una guerra di religione».
A Forza Italia non piace...
«Quel che noi abbiamo proposto ha trovato il consenso di tutte le forze di opposizione: è una proposta condivisa dalla sinistra e dall'Udc, e accettata da Di Pietro. Se è vero che è venuta una reazione negativa da parte di Cicchitto, è anche vero che la Lega ha detto: "Noi non siamo contrari". Allo stato delle cose nessuna proposta è condivisa in modo prevalente, ma il tedesco è quello che ha il maggior numero di consensi o di accettazioni. Potrebbe essere veramente la riforma che alla fine si fa».
Sicuro che il tedesco non serva a destabilizzare il Pd?
«La verità è l'opposto. Del resto, il 24 febbraio del 2007, quando non c'era il Pd e Veltroni non era il leader, io feci una lunga intervista per spiegare perché il sistema tedesco poteva essere un modo per portare a compimento la transizione italiana. Quindi pensare che io lo abbia tirato fuori adesso strumentalmente per dare fastidio a Veltroni è evidentemente falso».
Insomma, non sta pugnalando alle spalle il segretario?
«Non ho alcun interesse a mettere in discussione la leadership di Veltroni, né sono candidato a nessuna leadership. Non pugnalo alle spalle: posso apparire spigoloso ma sono diretto e leale: se pensassi che ci deve essere un cambio di gruppo dirigente e di leadership lo direi innanzitutto al diretto interessato. Ma non è questo il problema, abbiamo semmai il bisogno di rafforzare la leadership, di coinvolgere più persone rispetto al rischio di un certo restringimento...».
Tornando al tedesco, nel Pd c'è chi ha storto il naso.
«Il Pd deciderà quel che deve fare nelle sedi proprie, le fondazioni culturali non sono un partito ma servono per approfondire i problemi e mettere la politica in contatto con il mondo della cultura e con la società civile: guai se un partito come il Pd non interloquisse in modo aperto con questa proposta. E non mi riferisco a Veltroni che comunque ha interloquito, e non in modo negativo ».
Be', questo lo dice lei...
«No, è quello è quello abbiamo ascoltato al convegno di lunedì».
Il tedesco non dispiace alla sinistra. Come sono ora i rapporti con Rifondazione?
«Vedo che stanno discutendo e spero che escano da questa riflessione critica e autocritica rinnovandosi e mettendo in campo una proposta politica compatibile con una prospettiva di governo».
Ferrero non sembra volere questa prospettiva, mentre Vendola non la esclude.
«Non voglio entrare nel merito della loro discussione ma auspico che si possa riaprire un dialogo tra la sinistra e i riformisti. Tra di loro ci sono alcuni che lo vogliono fare, vedremo chi prevarrà...».
Ma questa riforma, secondo lei, aiuta il dialogo con il centrodestra? E questo dialogo è poi tanto necessario?
«La parola dialogo è foriera di equivoci. Il problema è che noi siamo in Parlamento e dobbiamo confrontarci per trovare soluzioni ai problemi del Paese. E la legge elettorale è un problema: è un sistema cattivo, incostituzionale e oggetto di un referendum popolare, perciò va cambiata. Quindi non si tratta di volere l'inciucio. Facciamo un esempio che non riguarda il centrosinistra: il federalismo fa parte del programma di governo, ma mica si può pensare di innestarlo su questo sistema, senza che prima sia stato fatto un riordino completo del sistema istituzionale ed elettorale. Che ci si confronti su questi problemi è la normalità della vita democratica. Non so se si raggiungerà un accordo, perché questo non dipenderà solo da noi. Ma se Berlusconi dovesse impedirlo si assumerebbe un'ulteriore, grave, responsabilità di fronte al Paese».
C'è chi sostiene: «Si dice tedesco perché si pensa alla grande coalizione»...
«La grande coalizione è una scelta politica che si può realizzare con qualsiasi sistema elettorale. Comunque oggi in Italia non ci sono le condizioni per una coalizione di questo tipo, anzitutto per responsabilità della destra e delle sue scelte per il governo del Paese. Anziché fantasticare sulle grandi coalizioni sarebbe necessario cercare di trovare un accordo per le riforme indispensabili al Paese».
Il tentativo di riformare il sistema istituzionale ed elettorale va avanti da anni senza risultati.
«Il fatto è che l'enormità della crisi del Paese viene sottovalutata. O noi usciamo con un colpo di reni da questa situazione, creando le condizioni, sia pure nella diversità dei ruoli, per dare risposte e dimostrare che siamo in grado di tirare l'Italia fuori da una fase drammatica, o rischiamo alla fine di pagare tutti un prezzo. La destra si illude se pensa che ci sarà solo la crisi della sinistra e la sinistra si illude se pensa che ci sarà soltanto la crisi della destra. Lo ripeto da tempo: siamo di fronte a una crisi ben più profonda e complessiva del sistema politico. L'Italia sta male e vede che la politica è incapace di accordarsi per trovare soluzioni utili: se andiamo avanti così la gente reagirà mandandoci tutti a quel paese. Ci si adopera più a distruggere quel che propongono gli altri che a cercare prospettive su cui ci può essere una ragionevole convergenza, come è giusto fare in una situazione come questa».
Fa la Cassandra, onorevole D'Alema?
«Voglio mettere in guardia dal rischio di far fallire di nuovo un disegno di riforma costituzionale ed elettorale perché questo darebbe veramente il senso dell'impotenza del sistema politico. E siccome stavolta ci misuriamo con una crisi economica e sociale molto grave, come dimostra anche l'analisi di Bankitalia, questo fallimento potrebbe avere effetti molto pesanti nel rapporto tra cittadini e istituzioni. Tant'è che vedo il calo della popolarità di Berlusconi nei sondaggi, che potrebbe farmi contento in quanto esponente dell'opposizione, come un ulteriore elemento di scollamento del Paese, perché alla fine la gente dirà: «La sinistra non ce l'ha fatta, Berlusconi pensa agli affari suoi»... Il rischio è che si determini veramente una frattura nel rapporto tra cittadini e sistema politico».
Nel frattempo il Pd torna ad agitare la questione morale proprio quando esplode il caso Del Turco.
«Per quanto riguarda le concrete vicende giudiziarie, come lei sa, sono garantista e nello stesso tempo rispettoso della magistratura e del suo lavoro. Tuttavia è evidente che questi scandali, in particolare quando toccano il sistema sanitario, creano un grande e comprensibile turbamento tra i cittadini e un grande allarme sociale. Anche in questo caso è la politica che deve tornare a dare delle risposte, mettendo mano a tutto il meccanismo del rapporto tra il pubblico e il privato nel sistema sanitario. Altrimenti, poi, non ci si lamenti della pervasività del potere giudiziario».

l’Unità 17.7.08
Figli in provetta, tra speranze e pregiudizi
di Carlo Flamigni


Quando nacque Louise Brown, nel 1978, Robert Edwards aveva già patito tre delusioni: una gravidanza era terminata spontaneamente, una seconda era stata interrotta per una anomalia genetica del feto; della terza non so niente, immagino che si sia trattato di un altro aborto. Poi il primo successo, destinato a cambiare la storia della medicina della riproduzione e non solo quella. Sia Edwards che Steptoe si aspettavano discussioni e critiche, ma sono convinto che pettegolezzi e malignità che salutarono l’annuncio della nascita della prima bambina concepita in vitro li abbia sorpresi.
Ci fu chi scrisse che si erano inventato tutto, ci fu chi alluse a sperimentazioni immorali e illegali di vario tenore. Pochi anni dopo i coniugi Jones, negli Stati Uniti, dovettero difendersi in tribunale da analoghe accuse infamanti.
Per avere un’idea delle reazioni italiane alla notizia basta scorrere i giornali del 27 luglio 1978 (Louise era nata intorno alla mezzanotte del 25). A eccezione di Adriano Buzzati Traverso, che sul Corriere della Sera salutava l’evento come «Un grande passo avanti della scienza», tutti gli altri giornali mettevano in primo piano le perplessità e i timori, lasciando senza repliche le critiche subito mosse dai cattolici a Buzzati Traverso. Questi era stato molto esplicito nel lodare la nuova tecnica e aveva detto, tra l’altro: «Purtroppo molte persone colte di questo scorcio di XX secolo sono tuttora vittime della irrazionale “sacralità” di tabù d’antichissima origine. Il sacerdote o lo stregone che influenzano il comportamento sessuale dei loro simili lo fanno perché consapevoli del potere che essi possono così esercitare».
Ma lo stesso Corriere della Sera - il giornale che dovrebbe essere espressione della «borghesia illuminata» - subito moderava gli entusiasmi con un articolo di cronaca che era tutto teso a dar voce alle preoccupazioni e alle riserve suscitate dalla nuova tecnica. Gli aspetti critici erano preminenti anche nel Giornale di Indro Montanelli, dove Geno Pamploni, studioso cattolico, dopo qualche positiva affermazione di rito, sottolineava i pericoli: «E se nella provetta si volessero “programmare” gli uomini “alfa” o altri tipi di selezionati prodotti umani, sovvertendo il misterioso equilibrio della natura, condizione e limite della nostra libertà? E se un nuovo Hitler ordinasse che alle donne ebree fossero iniettate uova fecondate di donne ariane, attuando un raffinato e lento genocidio razziale?». Il giorno seguente veniva dato grande risalto alle critiche di James Watson, premio Nobel, che non condivideva «alcun entusiasmo: il mondo è sovrappopolato. Altre dovrebbero essere le applicazioni del progresso scientifico». Nel servizio si registrava anche l’atteggiamento «possibilista» di un alto prelato cattolico ed era esposto il ragionamento sostanzialmente favorevole di molti anglicani: «Dio ci ha creati intelligenti e responsabili: è naturale che impieghiamo queste qualità per vincere la sterilità». Ma il messaggio dato dal Giornale era complessivamente negativo.
Ancora più dura e critica era l’uscita della Repubblica, che nella pagina della cultura titolava: «Piacerebbe anche a Hitler questa fecondazione». Nel servizio, avevano grande rilievo le posizioni di Leo Abse, esponente della sinistra laburista, fortemente impegnato contro le discriminazioni sociali: «insieme a una settantina di parlamentari (Abse) sta lanciando una grande offensiva contro la cosiddetta fabbricazione artificiale dei bambini», perché convinto che «questo metodo sia incompatibile con i “diritti civili”». Un’intervista al teologo cattolico romano Dionigi Tettamanzi sottolineava il grave rischio di arrivare «alla totale e radicale separazione tra l’esercizio della sessualità nel contesto matrimoniale e la trasmissione della vita».
Più duro ancora il Tempo di Roma, che in prima pagina, sotto il titolo «Non è lecito violare la natura», offriva un commento del gesuita Virginio Rotondi in cui si affermava che «la fecondazione artificiale - anche quando non raggiunge quest’ultimo grado di aberrazione - è assolutamente e indiscutibilmente immorale».
Rispetto a questi toni accesi, il quotidiano cattolico Avvenire manteneva una buona dose di sobrietà. Il 27 luglio dava in prima pagina la notizia con un misurato commento di Tettamanzi che poneva le seguenti domande: non è la fecondazione artificiale una «sostituzione indebita» del potere che l’uomo ha sulla vita umana? Dio ha affidato agli sposi la missione di trasmettere la vita «perché l’avessero a realizzare solo mediante l’incontro coniugale o anche mediante il ricorso a procedimenti artificiali? Sono interrogativi che chiedono di essere ampiamente approfonditi». Il 28 luglio, sempre in prima pagina, sotto un occhiello che sottolineava l’aspetto commerciale della vicenda («Grossi e loschi affari dietro la nascita “in provetta”») e un titolo grande più conciliante («Ma la bimba almeno è innocente»), veniva inserita una secca replica a Buzzati Traverso: mentre tutti sono perplessi, «uno solo non ha dubbi», e ciò sebbene proprio il giornale che gli ha dato spazio sottolinei che «nella spartizione del largo bottino si sono impigliati i due scienziati e gli stessi genitori». Nessuno scese in campo a difesa di Buzzati Traverso e della nuova tecnica, avallando implicitamente la generale condanna comminata dai critici.
Nemmeno l’Unità scelse di farlo, anche se il 28 luglio pubblicava un breve e pacato commento del genetista pisano Nicola Loprieno: «Il successo di questa realizzazione dipenderà dall’uso che la società sarà in grado di fare, rendendola possibile in tutti i casi ed accessibile a tutte le coppie. Non credo che quanto realizzato in Inghilterra costituisca un pericolo per l’umanità».
Sin dall’inizio, in Italia c’è stato dunque un atteggiamento di condanna della Fivet, sebbene questa posizione fortemente critica non sia riuscita a fermare la diffusione della tecnica.
In realtà, la procreazione medicalmente assistita ha fatto giustizia di queste critiche e di queste perplessità in tutto il mondo civile, ma non nel nostro Paese: inutile chiedersi perché.
Oggi, 17 luglio, il sottosegretario Roccella farà ricordare i 30 anni di PMA da un gruppo di eccellenti esperti, che vale la pena di citare: l’Onorevole Renato Farina (proprio lui, non vi stupite); due giornalisti che scrivono su quotidiani (Il Foglio e Libero) noti per il loro laicismo; Francesco D’Agostino, egli stesso noto laicista. C’è poi Josephine Quintavalle, che ascolterei volentieri, ma che parla di compra-vendita di oociti senza contraddittorio. La perla del convegno è rappresentata da Massimo Moscarini, punto di riferimento costante della ginecologia italiana, che in una intervista ad Avvenire (17/6/2008) ha dichiarato nell’ordine che:
- la legge 40 ha consentito al nostro paese di mantenere gli stessi risultati del sud d’Europa:
- le coppie sono soddisfatte del trattamento ricevuto in Italia;
- il turismo procreativo riguarda una minima percentuale di coppie;
- gli operatori del settore sono finalmente soddisfatti;
- le diagnosi pre-impianto si possono fare anche da noi, ricorrendo allo studio del globulo polare.
Temo che siano tutte dichiarazioni non corrispondenti alla verità, il prof. Moscarini è stato mal informato. Del resto basta leggere la relazione del ministro Turco: i dati non migliorano, nascono 1000 bambini in meno rispetto al passato, siamo il fanalino di coda dell’Europa.
E quanto al turismo, tutti i centri europei contattati ci confermano che è in continua crescita rispetto all’ultimo censimento (2005), che riguardava 29 laboratori che ricevevano circa 5000 coppie all’anno; le indagini sui globuli polari sono pura fantasia, gli addetti ai lavori - tranne le poche pinzocchere in attività eticamente discutibile - sono sempre più arrabbiati. Per il resto, sono compassionevole, lascio perdere.
Questo è quanto ci offre la signora Roccella, e se le dico che dovrebbe vergognarsi mi risponde che manco di stile. In realtà, ho finito il senso dell’umorismo: e poi 30 anni di fecondazioni assistite meritavano qualcosa di più serio.

l’Unità 17.7.08
Eluana, Senato contro
La famiglia: andiamo avanti
Schifani dà l’ok a sollevare il conflitto di attribuzione contro la Cassazione
Sondaggio Swg: l’81% degli italiani dice sì allo stop dell’alimentazione
di Anna Tarquini


STOP «I giudici non potevano decidere su una materia così delicata. Meglio il Parlamento». E così, a una settimana dall’assenso a smettere il «mantenimento in vita» di Eluana in coma vegetativo da 16 anni (non è attaccata alle macchine, ma solo idratata e
alimentata) il presidente Schifani ha trovato la quadra per fermare la sentenza che le dava ragione. Accolto l’appello dei parlamentari ha chiesto al Senato di sollevare un conflitto di attribuzione. Cosa vuol dire? Vuol dire appunto che la Corte di Cassazione - secondo alcuni - non poteva decidere su un caso per il quale non c’è una legge specifica. E che il caso è deferito alla commissione Affari Costituzionali che dovrà sollevare un eventuale conflitto di attribuzione alla Consulta. Dopo il pronunciamento della Commissione Affari Costituzionali la decisione definitiva, spetterà all’aula di Palazzo Madama.
Si ferma tutto? Può essere. Il papà di Eluana ha sempre sostenuto che ogni decisione, ogni atto estremo, dovesse essere eseguito nel nome della legge. Dopo sedici anni di calvario non si può certo accusarlo di essere l’uomo dei blitz, difficile che voglia farne adesso. Però ieri ha fatto parlare il suo legale: «Per il momento non cambia niente. Noi andiamo avanti, e la famiglia di Eluana porrà in atto la sentenza della Cassazione, sospendendo l’alimentazione della figlia quando lo riterrà opportuno, anche se c’è una sentenza che lo autorizza a pensare la fine di sua figlia». Inoltre se il Senato decidesse effettivamente di sollevare conflitto di attribuzioni con la Cassazione davanti alla Corte Costituzionale, si tratterebbe di un’iniziativa senza precedenti. Perché la Cassazione non è mai stata parte di un conflitto sollevato dal potere legislativo per una sua sentenza.
La decisione arriva il giorno nel quale un sondaggio della Swg rivela che l’81 per cento degli italiani è favorevole alla sospensione dell’alimentazione per Eluana. Che questo però non si traduca in politica non è una sorpresa perché molti, nella sentenza dei giudici d’Appello di Milano, vedono lo scardinamento di un sistema che fino ad ora ha vietato l’eutanasia e chiuso un occhio sulle «dolci morti» che sono prassi nel privato. Proprio ieri 26 neurologi hanno chiesto alla Procura generale di impugnare la sentenza. Ma arriva, con grande tempestività, all’indomani dell’altolà del cardinale Bagnasco sul caso Englaro: «Non si può procedere a una consumazione di una vita per sentenza». Dice il ministro il ministro del Welfare Sacconi: «Meglio un dibattito parlamentare. Sul caso di Eluana è più corretto un sereno dibattito parlamentare senza pregiudizi». Sono 16 anni che Beppino Englaro domanda alla Politica, ai Giudici, alla Sanità un sereno dibattito che dia ragione dei tanti casi come quello di Eluana. Più di duemila in Italia. E sono sedici anni che a ogni domanda - rivolta ai giudici - di rispettare la volontà espressa da sua figlia di rifiutare l’accanimento terapeutico gli viene risposto di no. Questo fino a una settimana fa.
In Italia ci sono almeno 4 norme, alcune espressione della Carta Costituzionale, che tutelano al massimo la libertà scelta nel dire sì o no alla cura. La legge però non c’è e in Parlamento ci sono 8 proposte di legge sul testamento biologico che giacciono in commissione ormai da anni. Nessuno le guarda. Nessuno si impegna a discuterle. Poi arriva un magistrato come Lamanna al quale viene chiesto di prendersi una responsabilità su ciò che altri non decidono, e allora si chiede quel dibattito mai messo all’ordine del giorno. Il giudice Filippo Lamanna è l’uomo che materialmente ha scritto il decreto che autorizza Eluana a morire. Intervistato dall’Ansa ieri ha spiegato due cose: la prima è che un giudice quando decide deve rispondere solo alla legge e alla propria coscienza e non preoccuparsi delle reazioni anche se queste vengono dalla Chiesa. La seconda è che nella concreta situazione di Eluana Englaro, i magistrati sono stati chiamati a valutare se la decisione del tutore (cioè il padre) fosse o meno conforme alle scelte che avrebbe fatto la stessa Eluana in vita e la risposta è stata affermativa.

il Riformista 17.7.08
Monsignor Sgreccia: la chiesa deve dire la verità
«Eluana è come un neonato da nutrire»
di Paolo Rodari


Oggi ha ottant'anni e, fino a un mese fa, era il massimo esperto di bioetica in forza alla curia romana. Il vescovo Elio Sgreccia, dopo la nomina di monsignor Rino Fisichella alla guida della pontificia accademia per la vita, si è «ritirato» all'Istituto di Bioetica della Cattolica di Roma dove dirige, insieme ad Angelo Fiori, la storica rivista Medicina e Morale fondata nel 1951 da padre Gemelli. Molte università gli hanno offerto ruoli di docenza ma lui, per il momento, si gode un po' di relax dopo anni di lavoro.
Parliamo del caso Eluana Englaro e partiamo dal catechismo. Al numero 2278 si dice che «l'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima». È il caso di Eluana?
«Assolutamente no. Qui si tratta di interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione e quindi non si può parlare di procedure straordinarie».
Di cosa si deve parlare?
«Di omissione colpevole dell'alimentazione».
La Corte di cassazione milanese ha sbagliato? Ieri sono state aperte le procedure per sollevare il conflitto di attribuzione tra Senato e Corte di Cassazione…
«Dico solo che con questa sentenza viene leso il diritto alla vita. Viene leso il diritto per cui la vita non è un bene disponibile».
Lo stato vegetativo di Eluana non conta nulla?
«La sua situazione è paragonabile a quella di un neonato in braccio alla mamma. Anche Eluana deve essere nutrita. Non mi sembra che quando si dà il latte a un neonato si parli di accanimento terapeutico. È semplice nutrizione».
Però Eluana è da sedici anni che non comunica col mondo…
«È simile a un neonato o, se vogliamo, a un handicappato grave o a un infermo. Farla morire di fame e sete significa farla morire di stenti e questa è una pena aggiuntiva, né più, né meno».
Non significa smettere di accanirsi inutilmente?
«No. Qui, come in altri casi in passato, siamo davanti a una trasformazione epistemologica tipica del giornalismo. Non si toglie l'accanimento terapeutico perché di accanimento terapeutico non si tratta. Semplicemente si dà a una persona inferma una pena aggiuntiva».
Se rimanesse in vita, che vita sarebbe?
«Nessuno può dire il grado di coscienza di Eluana. Tra l'altro, ci sono stati casi di persone svegliatesi da situazioni simili dopo molti più anni di coma».
Il padre dice che Eluana non avrebbe mai voluto una vita simile.
«Anche se Eluana in passato avesse detto o addirittura scritto "Io voglio morire", nessuno né eticamente né giuridicamente è legittimato a farla morire. Il rifiuto delle terapie di cui parla la Costituzione non è applicabile in questo caso. Qui non ci sono terapie, ma cure ordinarie. Un esempio a cui chiedo sempre di guardare è quello di Emmanuel Mounier».
Cioè?
«Il filosofo cattolico francese aveva una figlia che si trovava più o meno nella stessa situazione di Eluana. Solo che vi si trovava dalla nascita. Era nata con una malattia neurologica. Riusciva a mala pena a percepire le carezze. Mounier, per sostenere la moglie, le scriveva delle lettere in cui le diceva che la fragile presenza in casa della figlia era come la presenza dell'eucaristia. Anche Cristo, nell'eucaristia, è muto, ma cambia la realtà».
Se Eluana muore, qualcuno la uccide?
«La responsabilità è condivisa. È di più persone. Di chi chiede la morte e di chi la autorizza».
Tre giorni fa, su Avvenire, del caso Eluana ha parlato il cardinale Tettamanzi. Come giudica il suo intervento? Secondo Giuliano Ferrara spesso la Chiesa soffre di una sorta di «afasia del pulpito»: non è sicura delle proprie ragioni e per questo arretra, risponde in modo intimidito…
«È sempre difficile parlare in questi casi. Anche io, come credo Tettamanzi, soffro quando devo intervenire su tali questioni. Da una parte occorre dire la verità (non si può dire che due più due è uguale a cinque), e dall'altra occorre avere comprensione di chi soffre. Tettamanzi, comunque, non ha negato che qui si lede il diritto della vita. Però è vero: la Chiesa non deve mai dimenticare che la verità va sempre detta».
Cosa dice dell'iniziativa "acqua per Eluana"?
«È un segno politico. Nel senso che è un modo per influenzare l'opinione pubblica. Si porta l'acqua per ricordare che non c'è accanimento terapeutico».



Corriere della Sera 17.7.08
Aborto, anestesista obiettore rifiuta di ridurre il dolore
di Paola D'Amico


MILANO — Il medico anestesista di turno, dichiarandosi obiettore di coscienza, si rifiuta di alleviare il dolore a una giovane donna ucraina, che ha subito un aborto terapeutico per malformazioni del feto. È accaduto nei giorni scorsi all'ospedale milanese Niguarda.
La donna viene ricoverata e l'8 luglio entra in sala parto. È quasi alla 22esima settimana della sua prima gravidanza. Le vengono somministrati i farmaci per indurre il travaglio abortivo. Lei urla per il dolore. Soffre molto, chiede aiuto. Ma l'anestesista si fa da parte: il feto è ancora vivo. «Non posso somministrare analgesia, sono obiettore», si giustifica.
La Cgil, che ha raccolto la denuncia del marito della paziente, parla di «omissione di atto dovuto per l'assistenza» e chiede che l'ospedale apra una commissione d'inchiesta. Ma sollecita anche l'intervento dell'Ordine dei medici e della Regione, perché si arrivi alla definizione di un codice etico di comportamento.
«L'obiezione di coscienza — sottolineano le responsabili della Cgil milanese, Marzia Oggiano e Fulvia Colombini — non può essere invocata in questo caso, perché alleviare il dolore è un preciso dovere di ogni medico».
Ma i primi a chiedere chiarezza sono i medici dell'ostetricia finita nel ciclone. «Alla donna è poi stato dato un antidolorifico dai ginecologi — spiega il primario Maurizio Bini —. Personalmente, avendo noi a disposizione 24 ore su 24 il servizio di parto-analgesia, ritengo che la procedura sia da estendere anche alle pazienti sottoposte ad aborto terapeutico, che viene fatto da sveglie, non in anestesia totale come gli aborti del primo trimestre ». Ma, nel gruppo di specialisti che conta 19 medici, di cui 14 obiettori, ci sono opinioni diverse. «Per questo abbiamo chiesto al Comitato bioetico del nostro ente di chiarire se l'obiezione di coscienza si possa estendere anche all'analgesia durante l'aborto». Le responsabili della Cgil milanese si dichiarano «indignate e addolorate per quanto è avvenuto » e mettono a disposizione della donna la struttura legale del sindacato. La direzione di Niguarda, interpellata, incassa il colpo e promette un'indagine interna.

l’Unità 17.7.08
Diliberto ora vuole riunire i comunisti
Dopo anni di lotte fratricide fa un congresso con questo progetto


Tutti i comunisti italiani potrebbero presto convivere sotto il tetto della stessa «dacia». È questo l’auspicio formulato da Oliviero Diliberto a poche ore dall’apertura del quinto congresso del Pdci che si terrà a Salsomaggiore Terme (Parma) da venerdì a domenica. In realtà, per il leader dei Comunisti Italiani non si tratta solo di una speranza, ma di una importante scommessa politica sulla quale il congresso verrà a chiamato a pronunciarsi. Bisogna archiviare la brutta pagina della scissione del ’98 del Prc di Fausto Bertinotti e della conseguente caduta per un voto del primo governo Prodi. Diliberto sa bene che si tratta di una strada in salita, resa difficile dai rancori passati oggi ravvivati dalla clamorosa sconfitta della Sinistra Arcobaleno. È la batosta che ha riaperto il dibattito sul rapporto con le stanze del potere. Il segretario dei Comunisti italiani ora non transige sulla necessità di archiviare il «partito di lotta e di governo», formula che bolla come un «clamoroso errore». Ma gli eredi di Bertinotti, alle prese con il difficile congresso del Prc, non dimenticano i vecchi contrasti che sfociarono in spaccatura in quel voto di fiducia dell’ottobre di 10 anni fa.
Forse è per questo che il docente di diritto romano ha proposto un collante infallibile: la comune lotta al governo Berlusconi per il quale «si pone una grave questione democratica e sociale». Entrambi i temi stimolano una ovvia sensibilità per un vero comunista. E per rendere più stretta la presa sul Prc, Diliberto ha sfoderato oggi un affondo all’ex alleato comune, Walter Veltroni: «È l’uomo degli slogan postum».

l’Unità 17.7.08
Togliatti ’48, l’Italia che non tradì se stessa
di Adriano Guerra


L’ATTENTATO DI LUGLIO È ancora giallo sui colpi sparati da Pallante al segretario del Pci? Oggi conta di più questa verità storica e politica: partito e sindacato, da un lato, e De Gasperi, dall’altro, seppero fare diga

L’ultimo mistero quello della borsa è stato sciolto: conteneva una lettera di Stalin sulla Jugoslavia
L’argomento sul piatto quindi non era un piano di insurrezione nella penisola ma Tito
Il rischio fu grande: ci fu guerriglia urbana. Di questo non si è ancora detto abbastanza

Sono le 12 del 14 luglio 1948. Togliatti, al quale un giovane siciliano, Antonio Pallante, ha sparato quattro colpi di pistola, esce in barella dall’infermeria di Montecitorio per essere traportato all’ospedale. Accanto a lui c’è Nilde Iotti ed è a lei che il segretario del Pci chiede con un fil di voce di cercare Pietro Secchia, vicesegretario del partito insieme a Luigi Longo e capo della Commissione d’organizzazione. Ma Secchia non c’è. C’è invece Mauro Scoccimarro, e c’è la moglie, Rita Montagnana. A chi dunque Togliatti ha detto quelle parole, «State calmi, non perdete la testa», che nei giorni successivi centinaia e poi migliaia di comunisti ripeteranno bloccando un’ondata di protesta che aveva assunto in più punti caratteri insurrezionali? C’è da tempo il dubbio che Togliatti quelle parole non le abbia pronunciate. O comunque - la testimonianza è di Longo raccolta da Giorgio Bocca - le abbia pronunciate più tardi nello studio del professor Valdoni che lo aveva operato. È invece certo che, appena ferito, Togliatti abbia invitato la Iotti a raccogliere da terra la borsa che all’uscita da Montecitorio teneva tra le mani. Che ci poteva essere in quella borsa da spingere un uomo tanto gravemente ferito a usare le poche forze rimastegli perché le sue carte non cadessero nelle mani di estranei? Forse i piani di insurrezione di cui tanto si era parlato nei giorni precedenti quando aveva detto alla Camera che ad una «guerra imperialista» si sarebbe risposto «con la rivolta, con l’insurrezione per la difesa della pace e dell'indipendenza»? Alle parole di Togliatti il quotidiano socialdemocratico rispose con un editoriale che, dopo l’attentato, potè essere letto come un’istigazione all’omicidio: qualora si dovesse arrivare alla rivolta scatenata dal «russo Togliatti» - si poteva leggere infatti sulla prima pagina dell’Umanità - «Il governo della repubblica e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l’energia, la decisione sufficiente per inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti e i suoi complici. E non solo metaforicamente».
Sulla «rivolta» evocata da Togliatti e bollata come tradimento dai socialdemocratici, la discussione - come si sa - non si è ancora chiusa. Ma forse un contributo ad una lettura più tranquilla di quei giorni può venire se utilizzando le carte oggi disponibili si cerca di individuare quel che poteva esserci nella borsa raccolta dalla Iotti. Alla domanda è possibile infatti fornire una risposta che, con tutte le cautele del caso, può essere accolta. Perché proprio quel mattino il segretario del Pci aveva ricevuto «per conoscenza», come oggi sappiamo, copia di una lettera che Stalin aveva inviato al segretario del partito cecoslovacco Klement Gottwald sulla questione di Tito (nel giugno 1948 si era - va tenuto presente - nel pieno della campagna scatenata dal Cominform contro la Jugoslavia). Maurizio Zuccari che in un libro appena uscito sul Pci e la rottura fra Stalin e Tito (Il dito sulla piaga, Mursia, 2008) ha pubblicato il testo del documento, ha aggiunto che proprio per via dell’attentato Togliatti non aveva avuto modo di leggere quella lettera. Cosa che potrà fare solo successivamente, al Policlinico. Quel che si può aggiungere è che la lettera di Stalin non era certo destinata alla pubblicazione. Del tutto comprensibile dunque la preoccupazione di Togliatti: il documento conteneva infatti un invito a Gottwald a non farsi illusioni su una possibile sconfitta di Tito al congresso della Lega jugoslava e a non rendere pubblici materiali compromettenti sui dirigenti jugoslavi.
La questione sul tappeto all’interno del movimento comunista era insomma non l’insurrezione in Italia ma la campagna contro Tito. Può però succedere che quattro colpi di pistola aprano la via a processi del tutto imprevisti. Di fatto nel pomeriggio del 14 luglio si giunse, come ha scritto Aldo Agosti nella sua biografia di Togliatti, «ad un passo dall’insurrezione» e dunque due questioni si pongono: quelle relative alle ragioni della rivolta e all’atteggiamento del Pci. Su entrambe le questioni le testimonianze a disposizione - ultime quelle raccolte da Carlo Maria Lomartire, in una documentata ricostruzione di quei giorni (Insurrezione. 14 luglio 1948. L’attentato a Togliatti e la tentazione rivoluzionaria, Mondadori, Milano 2006) sono imponenti. Esse intanto dicono che le spinte alla protesta avevano la loro origine da una parte nella drammatica situazione economica e sociale del paese e dall’altra nell’esistenza all’interno della sinistra di un malessere antico che si manifestava come confusa aspirazione ad una rivincita che veniva dalla visione della Resistenza come «rivoluzione tradita» e dalla sconfitta elettorale del 18 aprile 1948. Così mentre la Cgil, nel tentativo di controllare e gestire l’ondata di rivolte, proclamava uno sciopero generale (che veniva a spezzare quel che era rimasto in piedi della vecchia unità sindacale) in vari punti del paese le iniziali manifestazioni di protesta tendevano a mutare di segno. Questo soprattutto a Genova, Torino (ove operai armati di mitra entrarono nell’ufficio di Vittorio Valletta per informarlo dell’avvenuta occupazione della Fiat…), Napoli, Taranto, ma anche in molte aree agricole, e in primo luogo ad Abbadia san Salvatore, teatro dei «fatti» più gravi e sanguinosi. Per una serie di ragioni, forse non tutte giustificabili, nel dibattito politico-culturale, ma anche negli studi sull’Italia repubblicana, si è di fatto steso un velo su quel che è avvenuto dopo l’attentato a Togliatti in un’Italia ove si sono susseguiti momenti di vera e propria guerriglia urbana con la nascita di barricate e posti di blocco, assalti alle prefetture e a depositi di carburante e anche a caserme e a depositi di armi. Sono stati quelli i giorni - si pensi alle decine di vittime degli scontri a fuoco, alle centinaia di feriti, e poi alle migliaia di arrestati - più tragici della storia della nuova Italia.
Ma come è stato che nel giro di pochi giorni la strada dell’insurrezione e della guerra civile sia stata abbandonata? A chi darne il merito?
Sicuramente - come è stato detto - alla decisione, ma anche alla saggezza, di De Gasperi che nonostante venisse da più parti invitato a usare maniere sempre più forti per far fronte alla «insurrezione comunista», operò , pur scegliendo la via della repressione del movimento, perché non venisse imboccata la via della guerra civile. E un merito va certamente attribuito, come è stato fatto, alla straordinaria impresa portata a termine in quei giorni di fuoco da Gino Bartali al Tour di Francia. Non da oggi sappiamo che le vittorie, e le sconfitte, sportive, possono avere un grosso peso nella vita degli uomini. Non si può però mettere in secondo piano il ruolo giocato sin dal primo momento («State calmi. Non perdete la testa») dal Pci. E questo va detto nel momento in cui c’è ancora chi continua a mantener viva l’idea di un Pci fermo nell’attesa dell’«ora X» . Certo non era assente nelle fila comunista quella che Lomartire ha chiamato la «tentazione rivoluzionaria». Ed è altrettanto vero che coll’attentato a Togliatti siano scattati e per qualche tempo siano poi sfuggiti di mano - lo ha rilevato Agosti - quei meccanismi di difesa che il partito aveva predisposto nella prospettiva di dover far fronte ad un colpo di stato. D’altro canto era inevitabile chiedersi in quelle prime ore se dietro all’attentato vi fosse soltanto un giovane siciliano convinto che «per il risorgere della patria» fosse bene assassinare il capo dei comunisti. Naturale che si pensasse all’ipotesi di un complotto anche internazionale. Si aggiunga ancora che all’interno del gruppo dirigente del Pci c’erano, insieme alle debolezze e alle contraddizioni che porteranno nei decenni successivi alla crisi e alla sua uscita di scena, valutazioni diverse sulla situazione politica. C’era in particolare chi pensava di poter utilizzare la protesta per ottenere se non la caduta del governo almeno l’uscita di scena del ministro degli Interni Mario Scelba. Sin dal primo momento però già col comunicato della Direzione del Pci diffuso nello stesso pomeriggio del 14 luglio la grande scelta era compiuta. Si chiedevano le dimissioni del governo «della discordia, della fame e della guerra civile», ma per difendere la «pace interna» e la «legalità repubblicana». Nell’ora della verità insomma (e - si può aggiungere - prima ancora di sentire gli orientamenti, del resto noti, di Mosca, ove, così come a New York, si seguivano con apprensione le notizie che giungevano dall’Italia) - il Pci ribadiva che la sua linea continuava ad essere quella che lo aveva portato a respingere la «prospettiva greca» e a diventare coautore della Costituzione repubblicana.

Corriere della Sera 17.7.08
L'indagine del biologo Jean-Didier Vincent pone fine a dubbi ed errate interpretazioni
Turisti nei meandri del cervello
Guida ai misteri della mente, fra neuroscienze e luoghi comuni
di Edoardo Boncinelli


Nonostante che tutti parlino del cuore, un organo che non c'entra assolutamente niente né con l'emotività né con la mente, è il cervello quello che attira di più la nostra attenzione. Con il cervello pensiamo, amiamo, odiamo, preferiamo o rifiutiamo, ricordiamo, immaginiamo, desideriamo e talvolta ragioniamo. Con il cervello sbagliamo o trionfiamo, con il cervello ci pentiamo o ci compiacciamo. Con il cervello ci occupiamo del cervello e della mente.
Tutti vorrebbero quindi sapere sempre più cose sul cervello, ma gradirebbero che non si trattasse di un racconto troppo difficile e che fosse magari una lettura leggera e piacevole. Le opportunità non mancano. Sulla scia delle continue novità nel campo delle neuroscienze e seguendo le indicazioni della moda, negli ultimi anni sono stati pubblicati molti libri sull'argomento. Non tutti raccontano però le cose come stanno, né si astengono dal fornire per i diversi fenomeni della mente spiegazioni immaginarie. Su poche cose sono state dette con leggerezza tante sciocchezze come sul cervello e sulle sue funzioni.
Esistono, però, anche opere fatte per chi desidera un'informazione più seria, ma è più difficile che si tratti di letture gradevoli e allo stesso tempo complete. Questo è invece il caso di Viaggio straordinario al centro del cervello di Jean-Didier Vincent (Ponte alle Grazie, traduzione di L. De Tomasi e M. Fiorini), un libro non piccolo e pressoché completo, ma molto agile e che può anche essere letto «a episodi». Si può scorrere, cioè, un capitolo qua e uno là, senza seguire necessariamente l'ordine nel quale sono disposti. È concepito un po' come una guida turistica, attraverso la quale ci si può informare di volta in volta del posto che ci interessa senza doversi necessariamente occupare anche di tutti gli altri.
Ed è una guida sicura. Vincent è un neurobiologo di grande competenza e affidabilità con una decisa propensione per la divulgazione e la riflessione alta sulle diverse implicazioni del nostro modo di funzionare. Egli ha pensato anche di invitare una ventina di esperti esterni perché riassumessero in poche pagine il nocciolo di altrettanti argomenti correlati al cervello e alle sue funzioni. Ne risulta una trattazione distesa e ben distribuita, senza che se ne perda peraltro l'unità e il senso complessivo. Non si fa troppa fatica, quindi, e si imparano con estrema naturalezza un sacco di cose, sulla memoria, sulle passioni, sui desideri, sui riflessi, sul senso del bello, sul movimento, sulla riflessione e via discorrendo.
Ovviamente non si sa tutto di tutto. Quanto si sa della mente? Tanto e pochissimo: tanto rispetto a qualche decennio fa e pochissimo rispetto a quello che ci piacerebbe sapere. Ciò è esaltante e deludente a un tempo. Mi pare qui opportuna una considerazione, partendo dal Camus de Il mito di Sisifo, che dice: «Di chi e di che cosa posso dire:"Io lo conosco!"?» e incalza poeticamente : «Se si potesse dire una volta: "Ciò è chiaro", tutto sarebbe salvo». Da tali constatazioni si deve concludere che se non si sa tutto di un determinato argomento allora non si sa nulla? Assolutamente no, come afferma lo stesso Camus. Conoscere parzialmente vuol dire conoscere parzialmente e niente di più. Oggi poi che le conoscenze scientifiche si sono tanto ampliate, anche dai tempi di Camus, occorre sì evitare di credere che si sappia tutto di un certo argomento, ma anche evitare di credere che non se ne sappia proprio niente e che si possano, perciò, avanzare tutte le spiegazioni possibili. A proposito, anzi, delle cose che non hanno ancora ricevuto una completa e soddisfacente spiegazione in termini scientifici — e non sono poche — si è liberi, ovviamente, di avanzare spiegazioni di altro genere (altrimenti di certi argomenti non si potrebbe proprio parlare), ma si dovrebbe aver cura di evitare che queste spiegazioni siano in contrasto con ciò che si sa scientificamente. La scienza, spesso, non sa dire ancora bene come stanno le cose, ma sa bene come certamente non stanno. Occorre, quindi, grande circospezione e una guida sicura: il libro di cui stiamo parlando fortunatamente lo è.

Corriere della Sera 17.7.08
Riesplode in America la polemica sulle dichiarazioni del premio Nobel James Watson
Dna e talento, lo spettro razziale
«Ebrei più dotati dei neri grazie ai geni» «No, fattori culturali»
di Ennio Caretto


Lo scorso marzo, Henry Louis Gates jr, il celebre docente di Harvard, intellettuale afroamericano di punta, si recò dall'anziano Nobel per la medicina James Watson, il padre del Dna, per discutere del problema razziale. L'autunno precedente, Watson era stato costretto a scusarsi per alcune dichiarazioni controverse sulla intelligenza dei neri, inferiore, aveva dichiarato, a quella dei bianchi. I due uomini conversarono per oltre un'ora, e questo mese Gates ha pubblicato i propri appunti. Su TheRoot, la sua rivista elettronica, ha scritto che Watson non è un racist (razzista) ossia non nutre odi di razza: è un racialist (razzialista), crede cioè nelle diversità razziali, che sospetta abbiano radici genetiche. Il padre del Dna per esempio riscontra negli ebrei un'intelligenza innata, e nei neri una grande predisposizione alla pallacanestro: «Afferma che non sappiamo se i gruppi etnici siano davvero eguali». Gates ha concluso con un commento amaro: «È come se la natura avesse dato agli ebrei un gene in più per il cervello, e ai neri un gene in più per lo sport. Watson ha ragione a parlare di disparità genetiche tra individui, ma dubita che quelle etniche siano innanzitutto socioculturali. Temo che nell'era del genoma la lotta razziale non si svolga più nell'arena politica, bensì nei laboratori scientifici».
Il lamento di Gates, che sta lavorando a un nuovo libro, Razza e ragione nell'Illuminismo, non ha solo riaperto il confronto tra i neri e gli ebrei che periodicamente turba la storia americana. Ha riacceso anche il dibattito sulla superiorità ebraica esploso nel 2005, quando l'Università dello Utah attribuì agli ebrei di origine europea un IQ o quoziente d'intelligenza medio — metro di misura peraltro discutibile — di 115 punti, agli est asiatici di 105, ai bianchi di 100, agli afroamericani di 85, e agli abitanti dell'Africa subsahariana di 70. Quasi contemporaneamente, l'Università inglese di Cambridge pubblicò una classifica dello IQ delle nazioni con dati simili: Giappone 109 punti, Germania e Corea 105, Austria 104, Taiwan 103, Italia, Inghilterra e altre 102, Francia 101, Stati Uniti 100. In entrambi i casi, se ne fece una questione in prevalenza genetica, scatenando le proteste della intellighenzia liberal. Uno dei capitoli più recenti del dibattito è stato scritto nel 2007 dall'American Enterprise Institute, pensatoio neocon di Washington, a una conferenza intitolata «Perché gli ebrei sono così intelligenti?». La riposta di due dei tre relatori: grazie soprattutto al Dna.
Gates non contesta che gli ebrei rappresentino un punto di eccellenza intellettuale, contesta che lo debbano alla natura. «In quanto nero — nota — io sono danneggiato dallo stereotipo dell'ebreo geneticamente superiore: se fosse così, sarebbe inutile cercare di migliorarmi e sarebbe inutile per la società cercare di aiutarmi». La presunta inferiorità degli afroamericani e degli africani non è dovuta al Dna, continua Gates, ma alla classificazione delle razze fatta secoli or sono per giustificare lo sfruttamento della gente di colore. Sono d'accordo con lui Francis Collins, direttore del Progetto americano del genoma umano, e Laurie Zoloth, docente di bioetica alla Università Northwestern. «Riferirsi alla razza nella ricerca e nella pratica medica — tuona Collins — significa conferirle un'importanza biologica che non ha. Quelle razziali sono false distinzioni». «L'idea di una razza ebraica superiore — ammonisce la Zoloth, che è di origine israelita — desta il mio sdegno. È come dire che le altre razze sono inferiori. Ciò viola i nostri valori, che c'impegnano all'eguaglianza, e alimenta l'antisemitismo, che sta crescendo un poco ovunque».
Secondo Gates, Collins, la Zoloth e altri, come Sander Gilman, l'autore del saggio Il multiculturalismo e gli ebrei, è «la selezione culturale, socioeconomica, non naturale» a consentire di eccellere a un'etnia. Ma per la scuola opposta è il Dna. Kevin McDonald, un eugenista, avanzò questa tesi nel 1994, con il libro Il giudaismo come strategia di evoluzione di gruppo, sostenendo che nei secoli gli ebrei in Europa si erano chiusi agli estranei e si erano liberati dei meno intelligenti, affinando la loro «agilità mentale ». Un leader presbiteriano, Charles Murray, l'autore del saggio La curva Bell sulla «chiara inferiorità» dei neri, andò oltre: nell' Europa medioevale, gli ebrei furono costretti a dedicarsi ad attività intellettuali e divennero «una macchina per l'IQ». Uno degli effetti sarebbe stato il sorgere di malattie come la Tay Sachs, che ne avrebbe modificato i geni acuendone l'ingegno. Lo ribadì all'American Enterprise Institute l'ebreo Jon Entine, che stava dando alle stampe
I figli di Abramo: razza identità e Dna del popolo eletto. Noi siamo lo 0,2 per cento della popolazione mondiale ma abbiamo il 28 per cento dei Nobel della chimica, della matematica, della fisica e dell'economia, sottolineò Entine.
Contraddicendo Gates, Watson ha asserito che, se l'intelligenza degli ebrei avesse fondamenta genetiche, «nessuno ne risentirebbe». Ma il dibattito ha suscitato disagio nella comunità ebraica americana, in maggioranza liberal. L'American Enterprise Institute è il nido di Paul Wolfowitz, l'ex sottosegretario alla Difesa, uno dei principali architetti della guerra dell'Iraq. Dopo avere ascoltato Entine, Dana Milbank del Washington Post si chiese ironicamente: «Se noi siamo più intelligenti, come è possibile che Paul, un nostro maestro, abbia sbagliato tutto, proprio tutto, a Bagdad?». William Salaton della National Review fece del sarcasmo sulla «jewsnetics» (eugenetica ebraica) di McDonald e Murray: «Dobbiamo essere contenti di avere più cervello ma anche più malattie e quindi di rischiare di morire prima degli altri?». Reazioni che hanno confortato Gates, il quale ammonisce che la scienza «non deve diventare la nuova frontiera del razzismo» e che gli esseri umani «devono essere giudicati individualmente non come gruppo». E che richiamano l'insegnamento dell'ebreo Elliott Liebow, autore di un libro premonitore del '93: Dite loro chi io sia. La gente, scrisse Liebow «è in grande prevalenza di media intelligenza, determinazione e abilità. La nostra società sarà giudicata dalla sua capacità di fornirle una vita decente, e di fornirla a quanti, per qualsiasi motivo, siano al di sotto della media».

Repubblica 17.7.08
La riduzione di fondi mette a rischio il futuro e la civiltà di un Paese
Attaccato dal governo, ho una sola colpa: tutelo la cultura
Perché dà fastidio chi difende il paesaggio
di Salvatore Settis


Due eventi hanno turbato negli scorsi giorni gli eleganti corridoi del Collegio Romano, sede centrale dei Beni Culturali. Primo evento, i recenti tagli al bilancio del Ministero: il Dl sull´Ici ha cancellato i 45 milioni di euro per il ripristino dei paesaggi degradati; 105 milioni sono stati dirottati a compensare mancati introiti Ici e al "Fondo per la politica economica"; infine, il Dl 112/2008 taglia nel prossimo triennio quasi un miliardo, di cui 761 milioni dalla "tutela dei beni culturali e paesaggistici".
Il secondo evento è assai più banale: sul Sole-24 ore del 4 luglio ho commentato queste cifre, citandole dalla Gazzetta Ufficiale. Non ci vuol molto a capire che il primo di questi due eventi è assai preoccupante, il secondo è irrilevante.
Eppure è sul mio articolo, e non sui tagli che lo hanno provocato, che si sono concentrati quasi tutti i commenti di senatori e deputati (fra cui un sottosegretario), e di molti giornali. Nessuno ha contestato la correttezza dei dati che avevo addotto; in compenso, più d´uno ha chiesto le mie dimissioni da presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Perché? Perché la preoccupazione per questi tagli rivelerebbe «scarso rispetto per le istituzioni» (sen. Amato), «disinvoltura e gusto per la polemica» (on. Giro), «non condivisione della linea di rilancio delle attività culturali del Ministro» (on. Carlucci). Perché, insomma, chi presiede il Consiglio Superiore dei Beni Culturali è tenuto a non manifestare preoccupazioni sui Beni Culturali, che potrebbero suonare critiche verso il governo. Anzi, soggiunge il sen. Amato, il carattere strumentale di tali critiche è dimostrato dall´«assordante silenzio» che avrei osservato all´epoca del governo Prodi.
Il presupposto di queste esternazioni sembra essere: la presidenza del Consiglio Superiore è un incarico politico, e comporta fedeltà al governo; ergo, ogni preoccupazione del presidente non può che essere "strumentale", cioè da oppositore politico. Quanto al mio preteso silenzio durante il governo Prodi, ricordo al sen. Amato solo la normativa sul silenzio-assenso. Quando fu proposta dal ministro Baccini (governo Berlusconi), ne scrissi sulla prima pagina di Repubblica dell´8 marzo 2005 (Beni culturali, ultimo scempio); quando una norma assai simile fu riproposta dal ministro Nicolais (governo Prodi), il mio articolo Per i Beni Culturali ritorna lo scempio, ahinoi molto simile al precedente non solo nel titolo, uscì sulla prima pagina di Repubblica dell´11 settembre 2006 (in ambo i casi, la proposta fu ritirata).
Altri esponenti della maggioranza hanno preso per fortuna la strada opposta: l´on. Granata, per esempio, mentre lo stesso Ministro Bondi ha riconosciuto «l´urgente necessità di intraprendere un cammino comune per limitare il più possibile il temuto ridimensionamento delle risorse», e ha dichiarato di non aver «mai messo in dubbio la legittimità di esprimere liberamente le proprie opinioni da parte del presidente del Consiglio Superiore».
Ma è vero che, come alcuni han detto, chi ricopre questa carica è obbligato al pubblico silenzio su ogni questione che riguarda i beni culturali? No, non è vero. Il Consiglio Superiore dei Beni Culturali è, come altri Consigli Superiori (dei Lavori Pubblici o della Magistratura), uno degli organi tecnico-scientifici (non politici) che l´Italia liberale istituì come mediatori fra il governo, il parlamento e la società civile, convocando competenze dal mondo dell´università, della ricerca, delle professioni. Perciò la presidenza del Consiglio Superiore comporta la massima discrezione sui documenti su cui il Ministro chiede pareri, ma non comporta l´obbligo del silenzio sugli atti ufficiali del governo né il divieto di citare dati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, né tanto meno la proibizione di esprimere opinioni. Il carattere tecnico-scientifico e non politico del Consiglio è stato pienamente riconosciuto dal Ministro Bondi, quando, davanti alle (doverose) dimissioni del presidente e dei membri nominati da Rutelli, ha chiesto a tutti di restare al loro posto.
L´atteggiamento responsabile del Ministro e la sua dichiarazione alle Camere che intende «impegnarsi per una progressiva crescita dell´intervento economico dello Stato a favore delle politiche culturali, attualmente attestato sulla troppo modesta percentuale dello 0.28%» consentono di accantonare le polemiche inutili, per tornare al cuore del problema. Quale che sia la manovra economica del governo, a chiunque abbia una qualche competenza specifica sui beni culturali, o un ruolo istituzionale connesso, spetta non la facoltà, bensì l´obbligo di dire nel modo più chiaro che questo è un settore (come del resto l´università e la ricerca) in cui tagli troppo drastici e non compensati da credibili meccanismi di recupero possono generare conseguenze di lungo periodo. Il deterioramento del patrimonio e del paesaggio per carenza di tutela, così come la forzata chiusura di una linea di ricerca o l´emigrazione di giovani talenti, educati in Italia a caro prezzo, verso Paesi più interessati alla ricerca, innescano processi irreversibili, danni economici e culturali non più sanabili.
Il Paese non può permettersi tagli tanto gravi ai Beni Culturali da mettere a rischio l´obbligo costituzionale della tutela, tanto più d´attualità oggi di fronte alla selvaggia aggressione al paesaggio da parte di comuni e regioni di ogni colore politico. Oggi e non domani è il momento di dirlo, prima che il Dl venga convertito in legge (entro l´8 agosto). Una discussione aperta, trasparente, limpida (dunque pubblica) sui fatti è richiesta dal pubblico interesse e dalle regole della democrazia. E poiché il Ministro (ha ragione l´on. Carlucci) ha una chiara «linea di rilancio delle attività culturali», protestare contro i tagli che ne impedirebbero l´attuazione è segno di rispetto per lui, di condivisione delle sue dichiarazioni alle Camere, e non il contrario. Il Ministro, intanto, sta lavorando per limitare il danno che verrebbe al suo Ministero da quei tagli: infatti, all´assemblea di Federculture ha parlato della «carenza di risorse che attanaglia il Ministero». Dopo gli 80 milioni per il cinema già recuperati, dopo i 20 milioni che verranno da Arcus, non si può dubitare che egli si adoprerà sia per ridurre la portata dei tagli al suo bilancio sia per attivare altre fonti d´introito.
Il Parlamento, al cui esame è ora il Dl 112, non può, non deve sottoscrivere tagli ai Beni Culturali della portata ipotizzata. Lo ha ripetuto ieri all´unanimità il Consiglio Superiore al Ministro, esprimendo il proprio apprezzamento per le sue dichiarazioni e per l´intenzione di promuovere donazioni mediante misure di defiscalizzazione, ma anche «piena solidarietà e appoggio allo scopo di scongiurare la temuta deriva che rischia di annichilire la tutela e il governo del patrimonio culturale e paesaggistico». Una preoccupazione grave che nasce dal massimo rispetto per la Costituzione, per gli interessi del Paese, per i funzionari della tutela, per il Ministro che vi è preposto e per i progetti che egli ha dichiarato alle Camere. Con ostinato ottimismo rivolgiamo al senso di responsabilità istituzionale del Governo e del Parlamento un accorato appello perché le cifre dei tagli previsti dal Dl 112 vengano rivedute sensibilmente al momento della sua conversione in legge; anzi perché, pur nella difficile congiuntura economica, venga avviato un piano per una progressiva, necessaria crescita delle risorse.

Repubblica 17.7.08
Dio, la chiesa e la storia
di Aldo Schiavone


Il rapporto che il Dio dei Vangeli ha con il tempo e la storia – con la nostra storia e con la nostra speranza di salvezza, con la storia delle donne e degli uomini di questa terra – è forse il punto più enigmatico e cruciale di tutto il Cristianesimo. La sovranità di Dio sul tempo è assoluta e unica, e a tutti sconosciuto il suo progetto: «Di quel giorno e di quell´ora nessuno sa, neppure gli angeli che sono in cielo, neppure il Figlio, fuor che il Padre» (Marco,13,32-33). Ma Cristo ha tuttavia deciso di incontrare la storia del mondo, di immergersi totalmente in essa, e ha provato a spezzarla e a rivoluzionarla. La sua vita rappresenta, nel messaggio evangelico, l´intersezione, la giuntura tra l´infinito e il finito; è l´infinito che sceglie, pur non rinunciando a se stesso, di chiudersi in una forma – quella dell´uomo – per riscattarne l´esistenza e il destino. Da allora, ogni giorno, nella simbologia comunitaria della messa, o anche nella solitudine della preghiera, il credente rinnova la sconvolgente luminosità di questo contatto, stabilito per sempre.
Fra le molte ragioni che mi inducono a tenere in grande considerazione l´intervento che il cardinale Ruini ha voluto dedicare (su l´Avvenire del 13 luglio) al mio articolo apparso il giorno prima su "Repubblica", la prima – di carattere più teorico – è la completa consapevolezza che vi traspare di tutta la centrale problematicità di questo nodo (a un secondo motivo di apprezzamento, diciamo più politico, accennerò fra un attimo). Ruini scrive che il fatto che l´uomo sia, per la fede cristiana, "immagine di Dio" rivela la sua non completa "riducibilità alla natura come alla storia". Oltre, continuerebbe sempre a sporgere qualcosa: la scintilla di Dio. Il richiamo a questa dottrina è perfettamente pertinente.
Mi chiedo tuttavia quale sia il significato della rassomiglianza fra uomo e Dio, che incontriamo in un testo della "Genesi" (1,26-27) che non smette mai di inquietare. Anche se la accettiamo come il nucleo di una rivelazione (cosa che un non credente può rifiutarsi di ammettere, ma ora non mi interessa questa prospettiva), a me pare che la sua interpretazione più fondata ci riconduca di nuovo – almeno dal lato degli uomini – alla storia, e solo alla storia. Quale uomo, infatti, riflette l´"immagine" di Dio? A me pare che il paragone non possa essere riferito a questa o a quella figura che l´umano ha assunto nel corso del suo cammino, o a una sua inesistente immutabilità antropologica (anche l´antropologia non è che storia, solo più "fredda", e muta anch´essa, anche se molto più lentamente).
Molto meglio intendere la somiglianza come progettualità e come sviluppo, resi attuali dalla presenza salvatrice di Cristo nel tempo. Essa riguarda il nostro futuro (che è il presente di Dio, cui è concesso di conoscere il tempo come un blocco di ghiaccio, e non come un fiume che scorre). Somigliare a Dio non è dunque una condizione di partenza, ma una potenzialità e una conquista, anch´esse dunque, in qualche modo, storiche: che segnano un ricongiungimento e suggellano un´alleanza all´interno di un principio universale d´amore come morale assoluta del divino. Eminenza, risolvere l´umano nella sua sola storia non è "ridurlo", ma esaltarlo. "Riduzione" sarebbe condannarlo all´imitazione eterna di una natura posta fuori di lui.
E vengo all´apprezzamento politico. Il cardinal Ruini ammette l´importanza di "un atteggiamento più serenamente aperto da parte della Chiesa in ambito antropologico": e non è poco, mi sembra. Egli ne lega la possibilità al superamento di visione materialistica dell´umano. Ma siamo d´accordo. La materia (modernamente intesa) è solo una forma – non certo l´unica – dell´essere: basta la fisica a dirlo, senza scomodare la teologia. La storia – dell´Universo come della nostra mente – è altro. Arriviamo dunque a parlarci, liberi da pregiudizi, da entrambe le parti. Lei conviene che abbiamo bisogno di un´«etica forte» per affrontare i tempi che ci aspettano: per trasformare in opportunità di vita e di salvezza la potenza della tecnica che abbiamo appena iniziato a mettere in campo. Un´etica della responsabilità globale, direi.
Per costruirla servono immaginazione, conoscenza, amore. Nessuna delle culture che la nostra specie ha finora elaborato è pari a questo compito. È necessario pensare insieme. Il cattolicesimo può aiutare in modo determinante. Se noi sapremo ascoltarlo, e se la Chiesa saprà rendersi conto che una intransigente testimonianza d´amore – ama il prossimo tuo più di te stesso – non ha bisogno di proteggersi dietro nessuna pretesa immutabilità della natura e dei suoi principi. Anche l´amore, dal lato degli uomini, è solo storia. Dal lato di Dio, è mistero.

mercoledì 16 luglio 2008

l’Unità 16.7.08
«Razza», chiave del fascismo
di Bruno Gravagnuolo


Razza e fascismo Ottant’anni fa, sul Giornale d’Italia del 15 luglio veniva pubblicato in forma anonima il Manifesto sulla Razza (poi ripubblicato con estensori e aderenti sulla Difesa della razza il 5 agosto). Fu certo una «svolta» per il regime, avallata da scienziati e antropologi come Pende, Businco, Visco, Cipriani, Landra. Ma non già un’innocua mitologia d’occasione, accettata solo per «conformismo» dagli italiani e in fondo priva di conseguenze, come suggeriva Giordano Bruno Guerri sul Giornale di ieri. No. C’erano intanto forti addentellati col positivismo vitalistico di Mussolini, intriso di razzismo latente, e di nietzcheanesimo volgare e pedestre. E poi c’erano le leggi sulla «dignità e l’integrità della stirpe», fatte valere dal fascismo ben prima del 1938, contro le sette religiose, e le mescolanze di sangue con gli africani. Inoltre il mito razziale era del tutto coerente col mito totalitario e imperiale. Che vedeva una «razza italiana e mediterranea» al centro di un spazio globale europeo, proiettato verso il Mediterraneo e l’Oceano indiano. Infine, grazie alle leggi razziali del novembre 1938, furono stilati gli elenchi della «Demorazza», usati dalla Rsi e dai nazisti. Che consentirono lo sterminio di 7658 ebrei italiani (10mila in tutto, incluse colonie e zone occupate). Altro che burletta e leggi all’italiana! Quelle leggi e quella cultura ci fanno dire senza timore di smentite: anche il fascismo fu nel cono d’ombra dell’Olocausto. E ne fu complice per la sua parte. Tutto il fascismo, stanti certe premesse e certi esiti. E non solo il fascismo posteriore al 1938. Come fa comodo dire a Fini, e ai post-fascisti di oggi. (...)

l’Unità 16.7.08
Scure sulle espulsioni e pattuglioni in città: sicuri per decreto (il premier è già salvo con il Lodo)
di Maristella Iervasi


Blocca processi, soldati anti-crimine, aggravante di clandestinità per gli irregolari che commettono reati, stretta sugli ubriachi al volante e confisca della casa e arresto per chi affitta in nero ai clandestini. Ecco il decreto sicurezza - peraltro in buona parte già in vigore - sul quale il governo ha incassato ieri la fiducia: il provvedimento torna al Senato per essere approvato sul filo della scadenza.
Il vero obiettivo del decreto sicurezza - dietro il motto di governo «respingere chi viene in Italia per delinquere» - sono i cittadini romeni - oggi comunitari - e gli immigrati senza permesso di soggiorno. La scure delle espulsioni e l’aggravante, infatti, si abbatterà su queste categorie di persone: chi non si farà identificare, verrà rinchiuso nei Cpt (ribattezzati Cie: Centri di identificazione ed espulsioni) non più per soli 2 mesi ma per ben 18, in accordo con le direttive dell’Unione europea. E non è tutto. Subito dopo la firma al decreto da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - nel provvedimento che fu approvato il 23 maggio scorso nel primo Consiglio dei ministri del Berlusconi IV a Napoli -, per nascondere le manovre per bloccare i processi, è stata infilata anche una norma sulle prostitute: l’emendamento è stato poi ritirato dalla maggioranza.
Espulsioni
Il giudice ordina l’espulsione dello straniero o di un cittadino comunitario, quando c’è la condanna alla reclusione per un tempo superiore a 2 anni (non più 10 come in passato). Chi non obbedisce all’ordine del giudice è punito con la reclusione da 1 a 4 anni.
Processi celeri
Il pm avrà l’obbligo di richiedere il rito abbreviato o il giudizio immediato dei reati. Divieto di patteggiamento in appello.
Aggravante per i clandestini
L’essere immigrato irregolare diventa una circostanza aggravante. In pratica, l’anticamera del reato di clandestinità previsto in un disegno di legge a parte. Per chi delinque la pena verrà aumentata di un terzo.
Affitti in nero
È prevista la confisca della casa affittata in nero ai clandestini. Per il proprietario che ne trae «ingiusto profitto», reclusione da 6 mesi a 3 anni; multe fino a 50mila euro ed è prevista ahche la confisca della casa.
Blocca processi
Le proteste delle toghe (Anm e Csm su tutti) e il fronte compatto dell’opposizione un risultato l’ha ottenuto: sono sparite dal provvedimento le norme «blocca processi» che erano state inserite con 2 emendamenti in prima lettura al Senato e presentati dai relatori delle commisioni Filippo Berselli e Carlo Vizzini. Due modifiche al testo originario che miravano a sospendere per un anno tutti i processi già in dibattimento in primo grado per i reati puniti con meno di 10 anni di reclusione e commessi prima del 30 giugno 2002, che secondo stime dell’Anm avrebbero stoppato almeno 100mila processi per un tempo indefinibile. Fra questi, il processo Mills di Milano in cui Silvio Berlusconi è imputato per corruzione in atti giudiziari. Ma l’avvio del lodo Alfano ha poi reso inutile le norme. Sta di fatto che con un emendamento sono «sparite» dal testo approvato alla Camera e sostituite da una generica previsione che riconsegna all’autorità giudiziaria il compito di individuare i procedimenti cui dare priorità: come i reati sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e quelli relativi alla criminalità organizzata.
Soldati in città
Saranno 2000 i militari impiegati per la sorveglianza degli obiettivi sensibili e altri mille per le pattuglie miste con le forze dell’ordine. I soldati dell’esercito - subito dopo la conversione in legge del decreto - li vedremo in primis nelle stazioni ferroviarie e nelle piazze di Roma, Milano, Napoli e Padova.
Ubriachi al volante
Modifiche al codice penale con la previsione di una pena da 3 a 10 anni di reclusione per l’automobilista ubriaco o sotto gli effetti di sostanze stupefacenti che causa incidenti mortali. Revoca della patente e confisca della patente.
False identità
Inasprite le pene per chi dichiara una falsa identità a un pubblico ufficiale: reclusione da 1 a 6 anni. Identica pene per chi per impedire l’identificazione «altera parti del propio o dell’altrui corpo».
Poteri ai sindaci
Potranno adottare ordinanze urgenti e segnalare gli irregolari da espellere.
Certezza della pena
Niente sospensione del carcere per chi commette atti osceni, violenza sessuale, furti o spaccio. Sulle attenuanti generiche per gli incensurati valuterà il giudice caso per caso. Ergastolo per chi uccide un poliziotto.

l’Unità 16.7.08
Giuliano Pisapia. Sarà difficile però trovare la verità politica: la commissione fu boicottata dalla destra e dall’Idv. Molte le assoluzioni dovute alla poca collaborazione dei vertici della polizia
«La condanna dei ministeri sanziona le responsabilità del governo di allora»
di Maria Zegarelli


Giuliano Pisapia, ex parlamentare del Prc, nonché difensore della famiglia di Carlo Giuliani, fu il primo a denunciare quanto avvenne a Bolzaneto, «il girone dell’inferno», come è stato definito dai pm.
I pareri su questa sentenza sono discordi. Lei come la legge?
«La mia prima reazione è stata un susseguirsi di sconcerto, dolore e rabbia perché non potrò mai dimenticare il sangue sui volti di quei giovani e la loro vergogna per le violenze e le umiliazioni che erano stati costretti a subire. Poi, ho cercato di analizzare il dispositivo della sentenza con freddezza...»
E cosa ne ha dedotto?
«Ci sono due considerazioni da fare. La verità giudiziaria quasi mai è la stessa della realtà storica. Per la prima servono prove certe, per la seconda possono essere sufficienti delle ricostruzioni, inoltre, la responsabilità penale è diversa da quella politica, individuale o collettiva: questa sentenza dimostra che non si può delegare al giudice l’accertamento di qualcosa che va oltre la responsabilità penale e la conferma di ciò si ha nel fatto che molti imputati sono stati assolti ai sensi dell’articolo 530, secondo comma, cioè la vecchia insufficienza di prove. Insufficienza di prove derivata in questo caso da un vero e proprio boicottaggio da parte dei vertici della polizia di Stato e di quella penitenziaria che non hanno fornito foto riconoscibili degli agenti presenti a Bolzaneto, i relativi rapporti degli orari di lavoro dei singoli imputati e gli ordini di servizio che potevano dimostrare le responsabilità penali».
Roberto Castelli, ministro della Giustizia all’epoca dei fatti sostiene che è stato smontato il “teorema”. Concorda?
«Non capisco da cosa lo deduca, dal momento che sono stati condannati come responsabili civili il ministero della Giustizia e quello dell’Interno. Accade molto raramente che i ministeri vengano riconosciuti responsabili, in genere sono parti civili nei processi. La loro colpa è stata riconosciuta malgrado il tentativo dei legali di dimostrare che quelli degli agenti presenti a Bolzaneto erano stati comportamenti individuali di cui non potevano rispondere i ministeri. Mi sembra che rispetto alle responsabilità di carattere politico ci sia stato un chiaro riconoscimento nell’ambito in cui è possibile, e quindi solo indirettamente, in un processo penale».
Dopo questa sentenza crede possa riaprirsi uno spiraglio per l’accertamento della responsabilità politica?
«Non credo. Non si arriverà mai all’accertamento delle responsabilità politiche al di fuori da quell’aula di tribunale perché l’unica possibilità, rappresentata dalla Commissione parlamentare è stata boicottata non solo da chi era allora ed è oggi al governo, ma anche da parte di alcuni partiti del centrosinistra, come l’Italia dei valori».
Alessandro Perugini, il numero 2 della Digos di Genova è stato accusato per abuso di autorità contro i detenuti ma non di abuso di ufficio. Vista così sembra una contraddizione....
«Siamo di fronte ad un problema strettamente giuridico. L’elemento importante che va sottolineato è che il funzionario di polizia, responsabile del carcere, ha avuto la pene più pesante. Questo vuol dire che la responsabilità partiva dall’alto, dai vertici e non dall’iniziativa dei singoli. I pubblici ministeri hanno contestato l’abuso d’ufficio perché non esiste il reato di tortura».
Quindici condanne ma neanche un giorno di carcere. Giustizia mite?
«Credo che l’obiettivo delle vittime di queste nefandezze, fosse quello di accertare la verità e le responsabilità ma, soprattutto, che gli autori di quei gravissimi comportamenti fossero o rimosse o degradati dai loro incarichi. Purtroppo è successo l’opposto: sono stati promossi».

Repubblica 16.7.08
I giudici ciechi di Bolzaneto
di Giuseppe D’Avanzo


In mancanza di un reato ad hoc, i pm chiedevano un segno d´attenzione contro l´abuso della violenza da parte di chi esercita il potere
Senza regole vince il "diritto di polizia" ma i giudici di Genova si sono arresi
Dalle avvisaglie del 2001 alla attuale politica per la sicurezza nazionale
Ma il tribunale non ha voluto riconoscere l´inumanità degli abusi
Anche in democrazia può nascere un "campo" in cui si privano di dignità le persone

Non era la "punizione" degli imputati il cuore del processo per le violenze di Bolzaneto. Quel processo doveva dimostrare (e ha dimostrato in modo inequivocabile, a nostro avviso) che può nascere senza alcuna avvisaglia, anche in un territorio governato dalla democrazia, un luogo al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario, un «campo» dove esseri umani – provvisoriamente custoditi, indipendentemente dalle loro condotte penali – possono essere spogliati della loro dignità; privati, per alcune ore o per alcuni giorni, dei loro diritti e delle loro prerogative. Nelle celle di Bolzaneto, tutti sono stati picchiati. Questo ha documentato il dibattimento. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. Tutti sono stati insultati: alle donne è stato gridato «entro stasera vi scoperemo tutte». Agli uomini, «sei un gay o un comunista?». Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini. C´è chi è stato picchiato con stracci bagnati. Chi sui genitali con un salame: G. ne ha ricavato un «trauma testicolare». C´è chi è stato accecato dallo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi ha patito lo spappolamento della milza. A. D. arriva nello stanzone della caserma con una frattura al piede. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l´altro piede».
C´è chi ha ricordato in udienza un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I. M. T. ha raccontato che gli è stato messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello.
Ogni volta che provava a toglierselo, lo picchiavano. B. B. era in piedi. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». Percuotono S. D. «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti». S. P. viene condotto in un´altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». Queste sono le storie ascoltate, e non contraddette, nelle 180 udienze del processo. È legittimo che il tribunale abbia voluto attribuire a ciascuno di questi abusi una personale, e non collettiva, responsabilità penale. Meno comprensibile che non abbia voluto riconoscere – tranne che in un caso – l´inumanità degli abusi e delle violenze. Era questo il cuore del processo. Alla sentenza di Genova si chiedeva soltanto di dire questo: anche da noi è possibile che l´ordinamento giuridico si dissolva e crei un vuoto in cui ai custodi non appare più un delitto commettere – contro i custoditi – atti crudeli, disumani, vessatori. È possibile perché è accaduto, a Genova, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati.
È questo "stato delle cose" che il blando esito del giudizio non riconosce. È questa tragica probabilità che il tribunale rifiuta di vedere, ammettere, indicarci. Nessuno si attendeva pene "esemplari", come si dice. Il reato di tortura in Italia non c´è, non esiste. Il parlamento non ha trovato mai il tempo – in venti anni – di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell´Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Agli imputati erano contestati soltanto reati minori: l´abuso di ufficio, l´abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell´indulto (nessuna detenzione, quindi). Si sapeva che, in capo a sei mesi (gennaio 2009), ogni colpa sarebbe stata cancellata dalla prescrizione.
Il processo doveva soltanto evitare che le violenze di Bolzaneto scivolassero via senza lasciare alcun segno visibile nel discorso pubblico.
Il vuoto legislativo che non prevede il reato di tortura poteva infatti consentire a tutti – governo, parlamento, burocrazie della sicurezza, senso comune – di archiviare il caso come un imponderabile «episodio» (lo ripetono colpevolmente oggi gli uomini della maggioranza). Un giudizio coerente con i fatti poteva al contrario ricordare che la tortura non è cosa «degli altri». Il processo doveva evitare che quel "buco" permettesse di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che – per tre giorni – ci è già appartenuta.
I pubblici ministeri sono stati consapevoli dell´autentica posta del processo fin dal primo momento. «Bolzaneto è un "segnale di attenzione"», hanno detto. È «un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell´uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere».
I magistrati hanno chiesto, con una sentenza di condanna, soprattutto l´ascolto di chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia, l´attenzione di chi ostinatamente rifiuta di ammettere che, creato un vuoto di regole e una condicio inhumana, «tutto è possibile». Bolzaneto, hanno sostenuto, insegna che «bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l´ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi». È questa responsabile invocazione che una cattiva sentenza ha bocciato. Il pubblico ministero, con misura e rispetto, diceva alla politica, al parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato «gli atti di tortura», «i comportamenti crudeli, disumani, degradanti». E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria: quando si muove, è già troppo tardi. La violenza già c´è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso la partita. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri, nei campi di immigrati – dove i corpi vengono rinchiusi – dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza fosse effettiva (come non era per gli imputati di Bolzaneto). L´invito del pubblico ministero e una sentenza più coerente avrebbero potuto e dovuto indurre tutti – e soprattutto le istituzioni – a guardarsi da ogni minima tentazione d´indulgenza; da ogni volontà di creare luoghi d´eccezione che lasciano cadere l´ordinamento giuridico normale; da ogni relativizzazione dell´orrore documentato dal processo. Al contrario, la decisione del tribunale ridà fiato finanche a Roberto Castelli, ministro di giustizia dell´epoca: in visita nel cuore della notte alla caserma, bevve la storiella che i detenuti erano nella «posizione del cigno» contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne.
«Bolzaneto» è una sentenza pessima, quali saranno le motivazioni che la sostengono. È soprattutto una sentenza imprudente e, forse, pericolosa. Nel 2001 scoprimmo, con stupore e sorpresa, come in nome della «sicurezza», dell´«ordine pubblico», del «pericolo concreto e imminente», della «sicurezza dello Stato» si potesse configurare un´inattesa zona d´indistinzione tra violenza e diritto, con gli indiscriminati pestaggi dei manifestanti nelle vie di Genova, il massacro alla scuola Diaz, le torture della Bixio. Oggi, 2008, quelle formule hanno inaugurato un «diritto di polizia» che prevede – anche per i bambini – lo screening etnico, la nascita di «campi di identificazione» che spogliano di ogni statuto politico i suoi abitanti. Quel che si è intuito potesse incubare a Bolzaneto, è diventato oggi la politica per la sicurezza nazionale. La decisione di Genova ci dice che la giustizia si dichiara impotente a fare i conti con quel paradigma del moderno che è il «campo». Avverte che in questi luoghi «fuori della legge», dove le regole sono sospese come l´umanità, ci si potrà affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie e non al diritto. Non è una buona cosa. Non è una bella pagina per la giustizia italiana.

l’Unità 16.7.08
Eluana, i vescovi accusano
Il padre: «Condizione innaturale»
Il presidente Cei Bagnasco: no a consumare una vita con una sentenza
Beppino Englaro: i protocolli rianimativi hanno fermato il corso delle cose
di Virginia Lori


«QUI NON SI TRATTA di una consumazione di una vita, ma di fare in modo che la natura riprenda il suo corso che è stato interrotto dai protocolli rianimativi che hanno portato Eluana allo stato vegetativo permanente. Questa è una condizione innaturale».
Ancora una volta sono le parole di Beppino Englaro - ferme - a segnare tutta la distanza tra le opinioni e le esperienze vissute sulla pelle, 16 anni accanto alla sua Eluana inchiodata a un letto. E così infatti Beppino risponde all’ennesimo affondo dei vescovi, che dicono di «non poter tacere» sulla drammaticità della sentenza che autorizza il no al prosieguo dell’alimentazione artificiale: si tratterebbe - secondo il presidente della cei Bagnasco - di «procedere a una consumazione di una vita per sentenza».
«Non voglio insegnare niente a Bagnasco», precisa il papà di Eluana rispondendo al presidente della Cei «perchè come tutte le persone ha il diritto di esprimere la propria posizione che, in questo caso, ricalca il magistero della Chiesa. Ci mancherebbe altro». Ma ribadisce con convinzione che «questa situazione è stata creata clinicamente e se ne deve uscire clinicamente secondo protocolli che rispettino la persona umana». E ancora: «Chi critica questa decisione prima legga le due sentenze della Cassazione e della Corte d’Appello di Milano e poi parli. Volete che i magistrati di una Suprema Corte e d’Appello scendano a questo livello e autorizzino una persona a far morire un’altra di fame e di sete?». «Quando capiranno il valore di questa sentenza e di quella della Cassazione, avranno fatto tanti danni ma si renderanno conto che questi magistrati sono andati così nel profondo che più non potevano». «Io non devo difendere nessuno - ha aggiunto - ma parlo per amore della realtà di Eluana, realtà che loro hanno intravisto molto bene. Dobbiamo essere fieri di questi magistrati». Inoltre Beppino Englaro ha sottolineato che «certi luoghi comuni sono indietro anni luce rispetto alla volontà di mia figlia». E quindi ha rivolto ancora un appello: «Per favore, prima di parlare leggete queste sentenze, altrimenti non ha senso».
E in attesa delle decisioni sul dove effettuare le procedure di «uscita», continua anche la polemica politica. Con Binetti a ribadire che quella dei giudici di Milano è «una vera e propria sentenza di morte, fortunatamente non ancora applicata», che di fatto «può diventare la porta d’ingresso dell’eutanasia». Ancora più truculento Avvenire: la decisione dei giudici di Milano di sospendere alimentazione e idratazione a Eluana è la «prima “misericordiosa” esecuzione capitale nella storia della Repubblica italiana».

l’Unità Firenze 16.7.08
Ma Sartre si era convertito o meno?
Da venerdì a San Miniato «Bariona», testo anomalo del filosofo. In scena Sebastiano Lo Monaco
di Valentina Grazzini


«ESSERE CREDENTI non è chic nel mondo del teatro: ma non mi vergogno a dichiararlo e a portare il crocifisso in camerino». È per questo, ma non solo, che Sebastiano Lo Monaco ha accettato una bella sfida teatrale: quella di mettere in scena l’unico testo “religioso” di Jean Paul Sartre, specchio di un momento di crisi e sofferenza del filosofo che internato nel campo di priginia di Treviri (siamo nel 1940) accettò di scrivere e poi mettere in scena un racconto ambientato in Giudea durante l’occupazione romana. Per poi sconfessarlo successivamente, col dire che le sue idee non erano in realtà affatto cambiate. Bariona o il figlio del tuono è la produzione 2008 della Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato, dove lo spettacolo, diretto da Roberto Guicciardini, vedrà la luce in prima assoluta venerdì 18 (repliche fino al 23). «Se anche Sartre avesse visto la luce della speranza in termini di Credo per un solo attimo, questo giustificherebbe la situazione - prosegue Lo Monaco, noto al grande pubblico della prosa per i classici come Enrico IV, Uno sguardo dal ponte e il recente Otello -. D’altra parte questo è molto umano, ci sono passati gente comune e grandi personaggi». Nella lettura di Guicciardini la storia di Barione viene ambientata non nella Giudea immaginata dallo scrittore, bensì nel campo in cui l’opera vide la luce: in un gioco di teatro nel teatro assisteremo dunque alla difficile costruzione dello spettacolo ad opera della «baracca degli intellettuali» che fortunosamente mette insieme costumi e scene occorrenti. Barione narra la conversione del suo protagonista, che in piena protesta contro l’innalzamento delle tasse romane viene raggiunto dalla notizia della nascita del Messia. E di come dall’iniziale diffidenza con echi assassini il capovillaggio si lasci convincere da Baldassarre (uno dei Re Magi) alla verità rivelata. Nel contesto della Fondazione di San Miniato, che ogni anno propone drammi di deciso sapore spirituale, il testo pare estremamente ben inserito. Ma attenzione, un’altra lettura è possibile ed emerge dalle parole dello stesso Sartre, che parlando con i compagni di progionia si rese conto «di ciò che era il teatro: un grande fenomeno collettivo, religioso».
Info allo 0571/400955, ore 21

Corriere della Sera 16.7.08
Una monografia di Emanuele Cafagna inaugura la nuova collana del Mulino
Ragionare sulla Ragione. Ovvero filosofare
di Armando Torno


Anche se la ragione occupa una spazio della massima importanza nel dibattito filosofico di tutti i tempi, non è semplice definire cosa sia stata e cosa oggi intendiamo con questa parola. Da Eraclito a Hegel, da Descartes ad Heidegger, dall'uso che ne fecero Platone o Voltaire a quello dei positivisti, si può dire che ogni pensatore o corrente ha lasciato le sue definizioni, o quanto meno l'interpretazione che ha ritenuto più opportuna. Emanuele Cafagna, nella nuova collana edita dal Mulino «Lessico della filosofia», con la monografia intitolata Ragione (pp. 224, e 13) offre l'inventario dei concetti e delle sfumature che ne caratterizzarono la storia. Il saggio, interessante e informato, comincia con un'efficace espressione: «Quando diciamo "ragione" il nostro linguaggio si carica di filosofia». D'altra parte, ricostruirne le avventure equivale a toccare i punti nevralgici del pensiero dell'uomo. Se agli albori della civiltà greca la ragione trova lentamente forma nelle prime speculazioni, oggi sembra quasi che voglia prendersi un congedo da alcuni assunti della tradizione.
In mezzo ci siamo noi, con le eterne domande che assillano le nostre ricerche e con il continuo bisogno di risposte. Le quali devono essere verificate, soprattutto nell'era della comunicazione informatizzata, con strumenti come questo «Lessico della filosofia», collana che ha già edito tre volumi: oltre il testo di Cafagna, è uscito Mario De Caro con la monografia dedicata all'Azione, quindi Guido Bonino con Universali/Particolari. Sono libri che si affiancano alla serie di Guida «Parole chiave della filosofia» (dove Giovanni Casertano ha pubblicato Morte) e riprendono il testimone culturale della compianta editrice Isedi. La quale negli anni Settanta avviò la prima collana «laica» (si chiamava «Enciclopedia filosofica») di questo genere, dove figuravano monografie quali Segno di Umberto Eco o Arte di Dino Formaggio.

Corriere della Sera 16.7.08
La letteratura contro il 1789 in Italia
La rivoluzione alla rovescia
di Carlo Capra


Luciano Guerci approfondisce i temi della pubblicistica reazionaria

Negli ultimi decenni una crescente attenzione è stata dedicata al pensiero e all'azione della controrivoluzione, che alcuni autori vorrebbero sottilmente distinguere dall'antirivoluzione. Nella maggior parte dei casi, si tratta di studi ispirati da una certa simpatia per queste forme di resistenza o addirittura da un esplicito rigetto della Rivoluzione francese e dei mutamenti da essa prodotti in ambito politico, sociale e culturale. In Italia, in particolare, l'affermazione di partiti e movimenti di destra ha favorito una ripresa di motivi già presenti nella storiografia di matrice nazionalista e fascista, quali l'esaltazione dei moti popolari a sfondo legittimista e sanfedista che costellarono il triennio 1796-1799 e la loro interpretazione in chiave patriottica o clericale o autonomistica. Sono lavori per lo più privi di consistenti basi documentarie e di taglio prevalentemente ideologico (lo stesso rimprovero da essi rivolto alla storiografia «tradizionale »), che hanno avuto tuttavia il merito di riproporre il rilievo e l'interesse di quella che è stata certamente la più estesa e prolungata jacquerie della storia italiana.
Da queste sollecitazioni nasce, probabilmente, la ricerca di uno storico di razza, Luciano Guerci ( Uno spettacolo non mai più veduto nel mondo. La Rivoluzione francese come unicità e rovesciamento negli scrittori controrivoluzionari italiani (1789-1799), Utet, pagine VIII + 321, e 26) a cui dobbiamo fondamentali contributi sull'Illuminismo settecentesco e sulla pubblicistica d'intonazione repubblicana in Italia. Il suo libro non si occupa delle insorgenze antifrancesi in quanto tali, ma si propone di esplorarne e cartografarne il retroterra culturale, costituito dalla letteratura controrivoluzionaria che per un decennio a partire dal 1789 reagì ai grandi avvenimenti parigini e poi alle loro ripercussioni fuori dai confini francesi. Sono libri, opuscoli, articoli di giornale, fogli volanti, componimenti in prosa e in verso, nella maggior parte provenienti dallo Stato Pontificio e compilati da religiosi secolari o regolari (non pochi gli ex gesuiti): in toni violenti e a volte apocalittici i loro autori denunciano le enormità commesse dai rivoluzionari e, a monte, l'esistenza di una vera e propria congiura contro il trono e l'altare variamente addebitata ai filosofi atei e materialisti, ai massoni e ai giansenisti, i quali ultimi non avevano esitato ad allearsi coi sovrani riformatori per colpire i privilegi e le immunità della Chiesa. Se all'inizio non mancò qualche tentativo di coniugare la sovranità popolare con la supremazia della fede (il più noto è il trattato dell'abate Spedalieri De' diritti dell'uomo, pubblicato ad Assisi all'inizio del 1791), la decisa condanna pronunciata da Pio VI nel marzo-aprile 1791 nei confronti della Costituzione civile del clero e della Rivoluzione nel suo complesso pose fine a ogni ambiguità e diede il via a una martellante campagna di stampa che raggiunse il parossismo nel periodo del Terrore e che la fine analisi di Guerci riconduce a due motivi fondamentali, l'idea di unicità e quella di rovesciamento: «La Rivoluzione francese era un fenomeno unico nella storia dell'umanità ... e dava vita a un mondo alla rovescia: un mondo alla rovescia rispetto all'Ancien Régime, il solo ordine che i nostri scrittori riuscissero a pensare e ad accettare».
Nessuno dei controrivoluzionari italiani raggiunge la grandezza visionaria di un Burke, di un Bonald o di un De Maistre. Predomina una certa monotonia e ripetitività (la stessa che caratterizzerà più tardi gli scrittori antirisorgimentali) negli insulti, nelle espressioni di orrore e di scandalo e nel rimpianto per la monarchia assoluta e per la Santa Inquisizione. Ma non mancano le scoperte interessanti, come la verve satirica e l'inventività linguistica dell'ecclesiastico piemontese Francesco Eugenio Guasco, definito da Guerci «il Voltaire della controrivoluzione», artefice di gustosi neologismi come «gerobebelosia» («frammischianza di cose sacre con le profane» spiega Guasco) e «giangiacobini» (un incrocio pestilenziale di giansenisti e giacobini). Un libro, questo di Guerci, che colma una vera lacuna negli studi sul periodo rivoluzionario e che appare utile e necessario in tempi di rinnovate tentazioni integralistiche e antimodernistiche.

Repubblica 16.7.08
"Basta coltellate tra noi, così si muore"
Pd, allarme di Veltroni in direzione. Cuperlo sfida il leader. Ultimatum di Parisi
di Giovanna Casadio


Colloquio con D´Alema. Bindi ironica: serve un coordinatore delle fondazioni

ROMA - «Io sarò meno prudente di Dario...noi discutiamo troppo in questo partito e sembra sempre che non arriviamo da nessuna parte, si chiude una discussione rinviandola a un´altra discussione. Un partito di discussioni può morire. E poi smettiamola di pugnalarci alle spalle. Sapete cosa invidio ai partiti del centrodestra? Il silenzio». Uno scossone. L´altolà alla «sindrome Tafazzi» che affligge la sinistra. Così Walter Veltroni conclude la prima direzione del Pd. Che era stata introdotta dal vice, Dario Franceschini, con una relazione pacata e l´obiettivo di non creare altre tensioni. Ma l´indomani del seminario bipartisan sulle riforme e la legge elettorale che ha segnato il punto di massima distanza politica tra Massimo D´Alema e Veltroni, è proprio il segretario a non volere nascondere la polvere sotto il tappeto.
Quindi, Veltroni denuncia le correnti: «Molta gente aveva guardato a questo terreno vergine del Pd con un carico di aspettative, noi lo abbiamo urbanizzato con troppe case, più di quelle di provenienza e qualcuno potrebbe essere tentato di tornare all´origine». Invita a «non stare sempre in mare aperto, ma a raggiungere la meta», a mescolarsi alla gente e parlare delle cose che preoccupano gli italiani («basta guardare il bollettino di Bankitalia»), a preparare iniziative in vista della manifestazione del 25 ottobre («È lì che si vedrà lo stato di salute del partito»), a «rompere il cerchio» dell´autoreferenzialità perché il partito è «attaccato da più parti». Né manca la stoccata a Di Pietro che giudica il Pd «pappa e ciccia» con Berlusconi: «Perché allora si è alleato con noi, se davvero lo pensa?».
Un dibattito serrato, trentuno interventi dopo le relazioni di Beppe Fioroni sul tesseramento e di Salvatore Vassallo sulla proposta elettorale per le europee, un confronto sulla questione morale dopo il "caso Abruzzo". Ma è l´epilogo a surriscaldare la direzione pidì. Alla reprimenda sulle discussioni l´uno contro l´altro armati, segue l´altro rimprovero del segretario contro chi arriva alle riunioni con il discorso già scritto. Il riferimento è a Gianni Cuperlo e a Barbara Pollastrini. E Cuperlo non ci sta: prima che la sala si svuoti, a conclusioni di Veltroni già chiuse, prende la parola: è irrituale, ammette, però «mi sento svalutato e delegittimato, se non discutiamo qui, dove dobbiamo farlo?». Si riaccendono le polemiche. Rosy Bindi (e prima di lei Marina Sereni) entra nel merito degli scontri interni, critica il fatto che i temi scottanti - legge elettorale sul modello tedesco, bipartitismo, dialogo con Berlusconi - siano affidati alle riunioni di fondazioni: «A questo punto perché non facciamo un coordinatore delle fondazioni? Sarebbe l´uomo più potente del partito». Veltroni a quel punto getta acqua sul fuoco. Ha avuto con D´Alema un faccia a faccia, a margine della direzione nella quale l´ex ministro degli Esteri non interviene. Non si discute di congresso anticipato. Anche se in una pausa, Giovanna Melandri sbotta: «Se c´è una differenza sull´evoluzione del quadro politico, da un lato Veltroni dall´altro D´Alema, allora meglio il congresso». A chiederlo c´è sempre Arturo Parisi che ha rifiutato di entrare in direzione. Ieri ha fatto un nuovo gesto di rottura, ponendo un aut aut: chiede con una lettera ai 2.854 costituenti e ai parlamentari pd la riconvocazione dell´ultima Assemblea costituente alla quale hanno preso parte «non più del 20% dei delegati. Se non si convoca, mi arrendo definitivamente». Lo appoggia la prodiana Sandra Zampa: «L´appello di Parisi non va lasciato cadere». Maretta anche sulle primarie. Passa il criterio che per regola si fanno, ma alle amministrative nei piccoli comuni si valuterà caso per caso, e per le ricandidature, come quella di Cofferati o di Marrazzo, non sono necessarie.

Repubblica 16.7.08
I democratici: soglia al 3% e preferenza uomo-donna
Europee, sinistra in allarme si tratta sullo sbarramento
di Mauro Favale


ROMA - Chi snocciola numeri (3, 4 o 5%), chi non ne vuole proprio sentir parlare e chi, se costretto, pur con qualche riserva ne discuterebbe. La riforma delle legge elettorale europea torna ad essere un argomento caldo (forse anche terreno di dialogo) tra maggioranza e opposizione. Ieri il Partito democratico ha avanzato la sua proposta durante la riunione della direzione: mantenere il proporzionale per garantire rappresentatività, introdurre una soglia di sbarramento al 3%, raddoppiare il numero delle circoscrizioni (da 5 a 10) e preferenza unica anziché plurima. Al massimo accompagnandola con una "di genere", con la quale l´elettore può scegliere un uomo e una donna. E poi, norme più stringenti per l´incompatibilità tra cariche così da rendere non candidabili coloro che rivestono già un incarico elettivo istituzionale. «La proposta – ha spiegato Massimo D´Alema – coincide con il documento delle 15 fondazioni che abbiamo presentato al convegno di lunedì». Durante quel convegno è emersa, per bocca del ministro Roberto Calderoli, la posizione della Lega: sbarramento al 4%, 10 circoscrizioni, preferenza unica. Le distanze politiche si misurano in termini di pochi metri. Il premier Silvio Berlusconi ha dichiarato «pronto» un testo di riforma del governo, forse non del tutto coincidente con la proposta dei leghisti (lunedì Fabrizio Cicchitto, Pdl, poneva una soglia al 5%, 15 circoscrizioni e preferenze bloccate).
Discussione per appassionati ma, dietro i numeri, in gioco c´è la rappresentanza a Strasburgo nella prima competizione elettorale dopo le politiche che hanno ridefinito il panorama politico nazionale. Tra le forze in parlamento, l´Idv converge sulla proposta del Pd: «Mi sembra opportuno porre una soglia», dice Massimo Donadi, capogruppo a Montecitorio. Chi sta fuori dalle aule parlamentari, invece, non è così ben disposto. «Non c´è bisogno di cambiare la legge elettorale europea – dice Franco Giordano, segretario uscente di Rifondazione – ma se proprio dobbiamo, allora, per noi i paletti sono 3: soglia di sbarramento molto bassa, ripartizione degli eletti su base nazionale, circoscrizioni ampie». Proprio non ne vuol parlare Claudio Fava, coordinatore di Sinistra Democratica: «Dibattito grottesco. Il Pd segue un trastullo del governo fatto solo per limitare la visibilità dell´opposizione». I tempi per la riforma stringono. Per cambiare la legge elettorale più longeva in Italia (fu approvata nel 1979) c´è tempo fino a novembre. Altrimenti nel giugno del 2009 si andrà alle urne con la legge attuale.

Repubblica 16.7.08
Il declino della cultura italiana
Tra il 2009 e il 2011 i Beni culturali perderanno 900 milioni di stanziamenti
di Luisa Grion


Settimi al mondo nei musei e ottantaseiesimi nelle mostre, ma la spesa aumenta
Resta un divario di circa 3 punti con la media Ue. Nessun sostegno ai giovani creativi

ROMA - D´accordo, abbiamo un grande passato alle spalle e siamo un popolo di creativi, ma tutto questo non basta più. Non possiamo più vivere di rendita, serve un preciso disegno di sviluppo e soprattutto servono soldi. Bisogna investire: perché se il paese è scivolato al quarantaseiesimo posto nella classifica della competitività la colpa è anche dello scarso peso attribuito alla sua produzione culturale.
L´Italia, in questo campo, potrebbe fare, ma non fa. Siamo «creativi per caso», un paese che galleggia fra declino e progresso: è questa la conclusione cui arriva il quinto rapporto Federculture (la federazione che riunisce i soggetti pubblici e privati che programmano e gestiscono il settore culturale) sullo stato delle cose in Italia. Un ritratto spietato (su dati 2007) dal quale però deriva che non tutto è perduto, perché la domanda e l´interesse reggono. Nonostante la generale caduta dei consumi.
Le basi ci sono: siamo ancora leader nel design e secondi al mondo, dopo la Cina, nell´esportazione di prodotti creativi. Ma mentre i nostri concorrenti investono, noi tagliamo i fondi e non puntiamo alla formazione di nuovi talenti. La cultura, in Italia è intesa soprattutto come conservazione del patrimonio e occupazione del tempo libero - fa notare il rapporto - non si guarda ancora alla creatività come settore trainante del bilancio. Così, mentre l´Inghilterra stanzia 10 milioni di sterline per un piano di formazione culturale-economica, e l´Olanda finanzia le industrie creative con oltre 15 milioni di euro, in Italia i Beni culturali perderanno, fra il 2009 e il 2011, stanziamenti per 900 milioni di euro, ai quali va aggiunto il taglio di 150 milioni distolti alla tutela del paesaggio per finanziare i mancati introiti dell´Ici.
Il mecenatismo di imprese e privati e l´apporto delle fondazioni bancarie aiutano, ma non bastano. E i risultati si vedono. Guardando agli altri paesi il confronto è feroce: la graduatoria dei musei più visitati del mondo, dominata dalla Francia con Louvre e Centre Pompidou, ci vede solo al settimo gradino - grazie ai Musei Vaticani - seguiti al 17esimo posto dagli Uffizi. Stessa linea per le mostre: nel 2007 Tokyo ha organizzato le tre più visitate al mondo («The mind of Leonardo», «Monet´s Art», e «Legacy of the Toukugawa») la prima italiana («Turner e gli impressionisti» organizzata dal Museo di S. Giulia di Brescia) arriva solo all´86mo posto. E anche nella graduatoria mondiale per attrattiva e grado di notorietà internazionale arriviamo quinti dopo Australia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Eppure, anche dal fronte interno, la domanda regge: nel 2007 la spesa in cultura delle famiglie italiane è stata di 61,5 miliardi di euro, con un incremento del 2,3 per cento rispetto all´anno precedente. Certo, va precisato che - a fronte di incrementi record nell´alimentare - i «prezzi» di ricreazione, spettacoli e cultura hanno subito un aumento minimo dell´1,1 per cento, ma teatro e concerti hanno messo a segno aumenti netti (nel primo caso l´incremento di pubblico è stato del 7,6 per cento, nel secondo ha superato il 10). L´interesse c´è. Per Roberto Grossi, segretario generale di Federculture, il messaggio che da tutto ciò deriva è chiaro: «Occorre un sereno e profondo esame della situazione in cui si trova oggi l´Italia. Bisogna riconsiderare scelte politiche, comportamenti, priorità ».

Repubblica 16.7.08
La chiesa e il modello Zapatero
di Massimo L. Salvadori


Sul capo del socialista Zapatero la Chiesa cattolica si attiva a raccogliere le nubi più nere. Essa non accetta la politica che il leader spagnolo intende attuare in materia religiosa e la denuncia con toni tanto pesanti da evocare – lo si è fatto recentemente da alte gerarchie ecclesiastiche – addirittura una minaccia di ateismo imposto dallo Stato. Da parte sua su questo giornale Joaquín Navarro-Valls ha sostenuto che Zapatero persegue il disegno di un socialismo conformista, concepisce i diritti individuali in contrasto con «i sentimenti religiosi della maggioranza» della popolazione spagnola che è cattolica. In sintesi, egli «finisce per essere veramente il sostenitore di una proposta massimalista e totalitaria, degna di altri tempi».
Un simile modo di leggere la politica religiosa del leader socialista sembra a chi scrive un´interpretazione deformata. Una linea che ha per finalità di dare piena attuazione alla libertà civile e alla libertà religiosa ponendo tutti i cittadini di fronte allo Stato in una posizione di piena uguaglianza viene presentata alla stregua di una strategia volta a soffocare democrazia e pluralismo culturale e religioso. Qui l´equivoco non potrebbe essere maggiore. In realtà la posizione di Zapatero non si ispira affatto, come vorrebbe Navarro-Valls, ad un «socialismo antico» (ovvero ad un socialismo totalizzante), ma all´opposto al più schietto liberalismo, il quale è non già antireligioso ma laico nella sua essenza. Andiamo a un testo classico in argomento, La libertà religiosa, di un grande studioso liberale, certo non socialista, quale Francesco Ruffini, pubblicato nel 1901, e vi troviamo affermato che «la libertà religiosa è un concetto o un principio essenzialmente giuridico», che «il vero concetto di libertà», compresa la religiosa, «può solamente esistere dove identiche concessioni si fanno a tutti, e dove l´esercizio della libertà degli uni trova un freno e una regola nell´esercizio dell´uguale libertà degli altri». Ecco il punto: uguale libertà. Dal che deriva che uno Stato propriamente libero, democratico e laico, che non ha da contribuire direttamente o indirettamente ad indirizzare le coscienze verso questa o quella credenza religiosa o non religiosa o ad evidenziare una preferenza per alcuna di esse, chiede in quanto tale all´insieme dei cittadini di rispettare i loro doveri verso la sfera pubblica e di godere in privato e in pubblico dei propri diritti di libertà, di opinione e di orientamento interiore senza pretendere e ottenere privilegi neppure di carattere simbolico nei luoghi – dalle aule di giustizia alle scuole – frequentate da persone di diversa fede religiosa o non religiose, a cui lo Stato è tenuto a rivolgersi in maniera paritaria. Il che coinvolge anche l´esposizione del crocifisso. Chiederne la rimozione – la questione è stata posta anche in Italia - significa intraprendere la via non di un socialismo che impone dall´alto una laicità escludente, ma di un liberalismo democratico rispettoso delle scelte, quali che siano, delle coscienze dei gruppi e dei singoli. È facile vedere dove sta il punto dolente dell´invocare il rispetto privilegiato dei sentimenti degli appartenenti a una sola religione, la cattolica. Proviamo ad immaginare per ipotesi che ad un certo punto in uno Stato della Ue si giungesse ad una prevalenza islamica. In tal caso, la Chiesa cattolica accetterebbe che nei luoghi pubblici al crocifisso si sostituisse in virtù del principio di maggioranza un simbolo islamico? Inutile attendere la risposta. Quando Zapatero ha espresso la direttrice che intende seguire in tema di libertà religiosa, si sono levate da noi all´interno del Partito democratico voci che hanno inteso rassicurare che in Italia non si intende «imitare» questa direttrice. Ma certi diritti hanno o non hanno un valore universale?
Rileggiamo l´incipit del testo di Zapatero riportato su la Repubblica del 7 luglio, e ci si chieda dove appaia il supposto vulnus alla libertà religiosa e alla democrazia. Esso così suona: «La solidarietà che caratterizza la società spagnola si fonda sul rispetto dei diritti. Proprio di questi ci siamo occupati nei giorni passati, quando abbiamo discusso la portata della libertà religiosa; del riconoscimento e della protezione dei milioni di spagnoli cattolici, della tutela degli spagnoli non cattolici, delle conseguenze inderogabili della norma costituzionale sul carattere laico dello Stato». Il problema che egli mette al centro è dunque la posizione uguale dello Stato dinanzi a cattolici e non cattolici: posizione che richiede che ciascuno sia libero e rispettato nella propria diversità e che lo Stato perciò non consenta a che vi sia chi è più eguale degli altri. Un messaggio, dicevo, prettamente liberale.
Ad esso la Chiesa contrappone il proprio, che fa perno su due punti cardine essenziali. Il primo è una posizione di fede, la quale consiste sia nel credere – al che non vi è obiezione da farsi - che la propria verità sia la verità tout court, sia che questa verità comporti un diritto di supremazia giuridicamente sanzionata dallo Stato. Il secondo punto, il quale costituisce l´elemento spirituale che sorregge la dimensione giuridica, è l´idea che lo Stato debba avere e tutelare un nucleo «etico» da espandere nella società neppure ispirato alla religione ma al cristianesimo di cui la Chiesa cattolica costituisce la più autentica incarnazione. Fare appello da parte cattolica ai valori di pluralismo, rispetto degli altri, tolleranza, valorizzazione delle differenze in un simile contesto significa confondere le acque e pretendere davvero troppo dalla «contradizion che nol consente».

Repubblica 16.7.08
Evoluzione. Un futuro complicato
Un dibattito fra scienza e storia
di Luca e Francesco Cavalli Sforza


La natura promuove lo sviluppo degli esseri umani ma non lo guida Moltissimi fattori intervengono nel processo. Fattori sociali e politici, scelte economiche e ambientali, strategie internazionali
Si procede con una serie continua di adattamenti al proprio ambiente di vita
La cultura ha sopravanzato in molti modi e da tempo la nostra biologia
Emergono nuove contraddizioni L´agricoltura produce sia cibo che inquinamento

Qual è il futuro dell´evoluzione umana? Dove stiamo andando? Alcuni lettori ce lo hanno chiesto, dopo che in una serie di articoli pubblicati su queste pagine l´anno passato abbiamo parlato dei fattori che hanno determinato il nostro presente. Poche domande sono più difficili, ma vale la pena di capire perché è così impegnativo rispondere.
La natura promuove l´evoluzione degli esseri viventi, ma non la guida. Una guida precede e mostra la strada, mentre la natura non mostra nessuna strada: semplicemente, pone le condizioni che rendono inevitabile quell´aumento di varietà e quel cambiamento progressivo che chiamiamo evoluzione.
L´evoluzione procede attraverso una serie continua di adattamenti al proprio ambiente di vita. Evolvere è un fatto squisitamente biologico: le piante che crescono in ambiente arido sono costrette a sviluppare una strategia che consenta loro di trattenere l´acqua disponibile, o comunque di utilizzare al meglio la poca acqua che c´è, quando arriva. Le piante che vivono in climi piovosi hanno altre opzioni, ed evolvono di conseguenza.
Anche la nostra evoluzione è soggetta ai requisiti della nostra biologia. Le nostre cellule si procurano energia bruciando ossigeno, non zolfo o ferro, per cui non possiamo vivere in assenza di ossigeno. Siamo in grado di abitare climi più o meno caldi o freddi, ma se la temperatura si avvicina a zero assideriamo, se sale oltre i 40ºC rischiamo un colpo di calore.
La nostra specie però ha sviluppato più di qualunque altra strumenti culturali che estendono i confini della sua biologia e modificano a suo vantaggio l´ambiente circostante. Come una bombola di ossigeno ci permette di spingerci al di là dell´atmosfera o nelle profondità marine, così vestiti e abitazioni adatte permettono di risiedere nei climi più freddi e una tuta in tessuto antincendio può sfidare la fiamma viva.
La cultura ha sopravanzato in molti modi la nostra biologia. Non è un fenomeno recente, ma solo negli ultimi due secoli ha raggiunto le straordinarie dimensioni odierne. Basti un´osservazione a rendersene conto: la vita media oggi sfiora o supera gli 80 anni nei Paesi più avanzati, dopo essere stata fra i 20 e 30 anni - simile a quella degli scimpanzé - per la quasi totalità della storia dell´uomo. Questa triplicazione della durata media della vita (che vale solo per i Paesi più sviluppati: in Swaziland è intorno a 33,5 anni nel 2008) dimostra con eloquenza il potere della cultura. Ma questo non significa che ora sia la cultura a guidare l´evoluzione umana. Di nuovo, possiamo dire che la sospinge, non certo che la dirige, perché l´umanità non è mai stata consapevole delle conseguenze a cui avrebbero portato le sue scelte, le sue azioni e le sue tecnologie.
Prendiamo ad esempio la più importante delle invenzioni umane: quella che ci ha permesso di produrre, con l´agricoltura e l´allevamento, il nostro cibo. Grazie ad essa, l´umanità ha potuto aumentare di numero ben mille volte in diecimila anni: da qualche milione a qualche miliardo di individui. Al tempo stesso, agricoltura e allevamento hanno dato il via a quei processi di inquinamento, desertificazione, degrado ambientale, di cui oggi abbiamo cominciato a pagare il prezzo su scala planetaria. Ogni invenzione è a doppio taglio, ha un beneficio ma anche un costo: può produrre grandi vantaggi come conseguenze indesiderate. La scoperta dell´energia atomica ha fatto fare progressi senza precedenti tanto alle nostre conoscenze quanto alle nostre tecnologie, ma i benefici che ha portato sono stati finora limitati, per quanto riguarda la produzione di energia, mentre il pericolo rappresentato dalle migliaia di testate nucleari disponibili negli arsenali grava come una terribile minaccia sul futuro dell´umanità.
Dove ci porta questo grande sviluppo culturale? La nostra capacità di fare uso di conoscenze e di tecnologie avanzate in vista di un bene comune è tutt´altro che sviluppata. Negli ultimi anni, per esempio, la quantità di cibo prodotta sul pianeta è stata spesso superiore alle necessità della popolazione umana, su scala globale. Ma cosa significa questo, nel momento in cui un individuo su tre è malnutrito e quasi un miliardo di persone è destinato a morire di fame? L´eccedenza alimentare non raggiunge i miliardi che hanno bisogno di cibo, né mai li raggiungerà, per ragioni squisitamente strutturali, inerenti ai meccanismi di produzione e distribuzione caratteristici delle nostre società. Non sono i Paesi più ricchi a raggiungere i più poveri portando i benefici derivanti dallo sviluppo, sono piuttosto gli affamati a cercare di raggiungere i Paesi più ricchi.
Qualunque essere vivente si riproduce senza limiti se trova nutrimento bastante. Un singolo batterio, dividendosi in due ogni venti minuti, produrrebbe in poco più di un giorno una massa di batteri grande quanto l´intero pianeta, se trovasse cibo sufficiente per farlo. Ogni pianta, ogni animale, tende a riprodursi e ad aumentare di numero quanto più possibile: è l´ambiente a porre dei limiti, ed è la disponibilità di cibo a frenare la crescita di qualsiasi popolazione. Una popolazione di insetti che si nutre di chicchi di grano conosce uno sviluppo immenso quando un campo di grano matura. Quando tutto il grano sarà stato mangiato, o mietuto, il numero degli insetti crollerà.
Lo stesso discorso vale per la nostra specie. Abbiamo avuto molto successo e abbiamo continuato a crescere dal momento in cui siamo comparsi sul pianeta, sfruttando la nostra capacità di creare strumenti per trarre dall´ambiente il massimo vantaggio. Ogni volta che una popolazione umana è aumentata al di là delle risorse disponibili sono scattati meccanismi di regolazione: carestie, epidemie, guerre, che hanno ridotto il numero di individui fino a renderlo nuovamente compatibile con le risorse.
Questo è successo innumerevoli volte nel corso della storia. Poi, ogni volta, la crescita è ripresa, assistita dalla potenza della riproduzione e dall´innovazione tecnologica. Se la nostra cultura guidasse la nostra evoluzione, potremmo aspettarci che ci avrebbe suggerito di limitare la crescita numerica, sconsigliandoci di spingere la pressione umana sull´ambiente fino a vedere profilarsi all´orizzonte l´esaurimento delle risorse fossili, minerarie e financo ecologiche su cui sono state costruite le nostre società. Ma non è andata così. Al contrario, ideologie politiche e religiose hanno continuato (e continuano) a propugnare la proliferazione degli esseri umani, per conquistare potenza e acquistare fedeli tramite l´aumento dei numeri. In modo analogo, l´ideologia economica dominante spinge per una crescita illimitata di produzione e consumi, quasi questi potessero moltiplicarsi all´infinito.
Dotati di conoscenze e mezzi tecnologici che ci hanno dato di fatto il controllo del pianeta, continuiamo a procedere come gli animali e i Primati che siamo (e che per tanto tempo abbiamo voluto considerare inferiori a noi): ci appropriamo di tutto ciò su cui riusciamo a mettere le mani, come se ogni risorsa fosse disponibile in quantità illimitate, senza una visione dei possibili futuri cui stiamo aprendo la strada con il nostro agire.
Diamo grande importanza al pensiero umano, alle nostre convinzioni, moralità e filosofie. Ma a cosa sono servite, se non riescono ad evitare le guerre? Se i nostri sistemi economici mantengono in povertà e in miseria metà dell´umanità? Se dobbiamo prendere sul serio l´alta considerazione in cui abbiamo sempre tenuto la nostra specie, dobbiamo concludere che viviamo sempre nella preistoria: la storia umana non è ancora cominciata.
Quando usciremo dalle caverne? Quando cominceremo a combattere contro le guerre con la stessa forza con cui combattiamo le malattie e con cui ci dedichiamo alla produzione del cibo? Quando ci renderemo conto che la nostra stessa vita è possibile solo in equilibrio con le altre forme di vita e con l´ambiente non vivente? Quando arriveremo a rispettare le convinzioni e gli stili di vita altrui? E la vita non umana?
C´è almeno un segnale positivo, per quanto riguarda la nostra crescita numerica: è la cosiddetta «transizione demografica», che si è verificata in Europa, a partire dall´Inghilterra e dalla Scandinavia, fra la metà dell´Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento. Dopo un periodo iniziale durato circa una generazione in cui le popolazioni sono cresciute di numero perché è diminuita la mortalità, ma le nascite sono continuate indisturbate, si è cominciato a fare meno figli. Grazie alla migliore sopravvivenza dei nuovi nati e a vite più lunghe, la popolazione europea ha continuato a crescere per vari decenni, poi la crescita ha cominciato a diminuire, grazie alla minore natalità, fino a raggiungere un indice vicino a zero. Oggi l´aumento numerico, in Europa, è determinato solo dall´arrivo di immigrati provenienti da altri Paesi.
Dopo l´ultima guerra mondiale questo stesso fenomeno ha iniziato a estendersi al resto del mondo. La caduta della mortalità infantile e la maggior durata della vita hanno determinato un´esplosione demografica globale, che ha portato la popolazione umana da circa 3 a oltre 6,4 miliardi di individui (nel 2006). Di questo passo, si prevede che la popolazione mondiale smetterà di crescere fra il 2040 e il 2050. Quanti saremo diventati a quel punto? Il Nord non aumenterà forse più, ma il Sud aumenta ancora. Sono state fatte molte previsioni ma sono difficili, anche perché le crisi ecologiche ed economiche, la fame, le epidemie e le guerre potrebbero diminuire il numero degli esseri umani.
Dipenderà, evidentemente, dalle risposte collettive che sapremo dare ai problemi che abbiamo davanti. Il futuro della nostra evoluzione dipende in larga misura dalla consapevolezza collettiva. Il controllo della natalità è un bell´esempio della sfida che l´umanità si trova ad affrontare: dare un indirizzo alla propria evoluzione, così che ogni persona che nasce abbia la possibilità di una vita che valga la pena di essere vissuta e che la specie umana divenga una risorsa per il pianeta, non la sua rovina.
La vita genera incessantemente se stessa e ha dato forma a tutto l´ambiente naturale. Non sa dove va, ma percorre ogni strada che riesce a praticare. Anche la cultura umana esplora ogni possibilità, e il mondo in cui viviamo è il risultato delle nostre passate azioni e dell´uso che abbiamo fatto delle nostre tecnologie. La nostra salvezza, qualunque cosa sia, non sta in un altro mondo, ma in ciò che sapremo fare di questo. E´ incoraggiante che sia così, ed è la speranza migliore. Per quanto sia importante il numero degli esseri umani, il lettore potrà però chiedersi: come saranno fatte le donne e gli uomini di domani? Questo, naturalmente, è tutto un altro discorso.

Repubblica 16.7.08
Figli in provetta crescono
I trent’anni della fecondazione
di Elena Dusi


Quando nel 1978 nacque il primo bebè concepito con la fecondazione in vitro ci furono reazioni scomposte, e i neonati vennero trattati come se fossero creature sovrannaturali. Oggi i "figli del laboratorio" sono più di 3 milioni, di cui 100mila soltanto in Italia. E ovviamente sono persone normalissime

Louise Brown aprì gli occhi e fu chiamata "la bambina miracolo". I tabloid inglesi raccontarono la sua nascita il 25 luglio 1978 come se un meteorite fosse appena atterrato dallo spazio. Per la prima volta, nel caso di quella bimba dal viso rotondo, un ovulo e uno spermatozoo si erano congiunti nella provetta di una clinica e alla luce di una lampada al neon, anziché nel ventre materno. Frankenstein fu l´esempio più abusato per descrivere al pubblico la nuova tecnica e il New York Times intitolò il suo editoriale "Concepire l´inconcepibile". Aldous Huxley - si ricordò - quasi cinquant´anni prima aveva scritto un romanzo in cui sesso e procreazione avevano perso ogni legame, e i bambini nascevano in incubatoio respirando aria artificiale.
Trent´anni più tardi "i bambini miracolo" sono diventati tre milioni nel mondo, e nessuno si sogna più di chiamarli così. La scienza studia le tecniche per aumentare di qualche punto percentuale le chance di successo della fecondazione assistita. Si cerca di rendere i prezzi abbordabili anche per i paesi del terzo mondo. E tutti gli esami medici cui i "figli della provetta" sono stati sottoposti non hanno trovato nulla di strano.
Louise Brown sorride con il suo bambino in braccio, in barba al contratto che il tabloid inglese Daily Mail stipulò allora con i suoi genitori: 500mila dollari per le foto in esclusiva e la possibilità di rivenderle con uno sconto del 40 per cento qualora la bambina fosse morta nel giro di una settimana.
«Ricordo bene quando nacque Louise. Era l´anno della mia maturità e la notizia mi sembrò stravagante», ricorda Alberto Revelli, che trent´anni dopo dirige il Centro di medicina riproduttiva all´università di Torino e insegna biotecnologie della riproduzione umana. «Oggi i ragazzi nati dalla fecondazione in vitro li incrocio magari fra i corridoi. Hanno vent´anni, è bastato innaffiarli e sono diventati grandi così».
In Italia i figli della fecondazione assistita sono circa 100mila. «Ogni anno se ne aggiungono 7mila. Stiamo parlando di un numero importante. In alcuni paesi del nord Europa si arriva al 6 o 7 per cento delle nascite», spiega Anna Pia Ferraretti, direttrice scientifica della Sismer, la Società italiana di studi sulla medicina della riproduzione.
Sulla salute di questi giovani adulti si sa ormai molto. «Non ci sono problemi particolari - spiega Carlo Flamigni, che insegna ginecologia all´università di Bologna ed è membro del Comitato nazionale di bioetica - però tendono a nascere leggermente prematuri e sottopeso. Non sappiamo se questo dipenda dalla tecnica di fecondazione o dalle cure cui la coppia si era sottoposta in precedenza per combattere l´infertilità».
Quando oltre alla fecondazione in vitro si procede anche all´Icsi (iniezione intracitoplasmatica: lo spermatozoo viene iniettato direttamente dentro l´ovulo, bucandolo) qualche anomalia in più è stata notata. «C´è un lieve aumento di alcune malattie genetiche rare», spiega Flamigni. «Si tratta comunque di casi estremamente sporadici». Se oggi di uno sforzo c´è bisogno, per migliorare la fecondazione assistita, è quello di migliorare l´efficienza della tecnica. «Normalmente il 20-25 per cento delle coppie che si sottopongono a questo trattamento ha successo. Può sembrare una percentuale scoraggiante. Ma la specie umana ha un tasso di fertilità molto basso, anche in assenza di problemi specifici. E la legge italiana non ci aiuta a superare le difficoltà», spiega Ferraretti.
«Siamo fatti per avere figli a 18 anni - dice Flamigni - ma oggi le ragazze non ne vogliono sapere. Di fronte agli anni che passano, anche l´efficienza della riproduzione assistita si perde. Non basta che la tecnica migliori di anno in anno: abbiamo imparato a scegliere gli ovuli più adatti e riusciamo a conservarli congelandoli. Ma di fronte alla barriera dell´età non c´è molto da fare».
A sentir parlare di una tecnica con un successo del 20-30 per cento i "nonni" di Louise Brown (il ginecologo Robert Edwards e il biologo Patrick Steptoe) nel 1978 sarebbero balzati sulla sedia. Alla nascita della "bambina miracolo" si arrivò infatti dopo 12 anni di fallimenti. «Decine e decine di tentativi erano andati a vuoto. Fra gli scienziati e l´opinione pubblica c´era grande scetticismo. La Chiesa aveva pesantemente attaccato questa tecnica. E non dimentichiamo che allora il prelievo degli ovuli avveniva con un intervento chirurgico vero e proprio», spiega Revelli. Che fa il paragone con l´oggi: «L´interesse maggiore arriva dai paesi di Asia, Africa o Sudamerica. Sono appena tornato dall´India e ho in programma una conferenza in Tunisia. Abbattere i costi per estendere la fecondazione assistita a tutti è una delle priorità in questo momento. Ci sono società in cui l´infertilità è vissuta come uno stigma». La scorsa settimana l´ultimo congresso della Società europea per la riproduzione umana si è posto l´obiettivo di portare in Africa la fecondazione in vitro con meno di 200 euro a trattamento. Anche se le barriere culturali rimangono («Molti genitori tendono a tacere di fronte ai figli, come se nascere in questo modo fosse un peccato», racconta Ferraretti), i trent´anni della fecondazione in vitro per i medici sono un esempio. Forse non vale la pena, sembra raccontare la storia di Louise, scomodare così spesso Frankenstein invano.

il Riformista 16.7.08
Eversione. A Locarno un documentario su Franceschini e compagni
Il "sol dell'avvenire" di chi passò dalla Fgci alle Br
di Michele Anselmi


A tratti sembra una rimpatriata di sessantenni, neanche troppo ingrigiti. Scherzano, intonano vecchi inni anti-Nato, gustano i cappelletti e la polenta col cinghiale, bevono lambrusco, sotto lo sguardo della ostessa, che li ricorda poco più che ventenni. Quasi stenti a credere che lì, alla trattoria "da Gianni" di Costaferrata di Casina, sulle montagne attorno a Reggio Emilia, una settantina di "compagni" di vario culto marxista, molti dei quali radiati dal Pci, nel 1970 decisero di passare alla clandestinità per fondare le Brigate rosse. Una sorta di congresso, per nulla clandestino, tra canti di Bella ciao e letture collettive del Che. Ma non fu una burletta, alla luce di quanto sarebbe avvenuto di lì a poco. Cinque di quei cospiratori in erba sono tornati oggi in quella trattoria per rievocare e riflettere. Tre, Alberto Franceschini, Tonino Loris Paroli e Roberto Ognibene, imboccarono la strada della lotta armata, pagando col carcere la scelta dissennata. Due, Paolo Rozzi e Annibale Viappiani, si ritrassero in tempo: l'uno pilota il IV Municipio di Reggio, l'altro è un dirigente della Fiom-Cgil. «Ma per un filo non siamo passati dall'altra parte», ammette il sindacalista.
Il documentario di Gianfranco Pannone e Giovanni Fasanella si chiama Il sol dell'avvenire , lo si vedrà al festival di Locarno. Naturalmente il titolo, ironico ma non troppo, spiega molto, perché ci fu davvero un momento in cui quei ragazzi cresciuti nella Fgci pensarono di sovvertire il «social capitalismo» delle loro zone sposando la causa della rivoluzione proletaria. A quei tempi, il Pci reggiano contava 60 mila iscritti e 260 sezioni, fresca era la ferita dei cinque operai uccisi in piazza dalla polizia, il 7 luglio 1960, presto celebrati dalla ballata resistenziale di Fausto Amodei.
Il filmato è istruttivo, misurato, anche bello, per alcuni versi inquietante. Perché, nel ricostruire la nascita del cosiddetto gruppo dell'appartamento, ci fa capire come il passaggio dal Pci legalitario di Longo (vicesegretario Berlinguer) all'utopia armata di Sinistra Proletaria (nucleo delle future Br) non fu solo un impazzimento ideologico con relativa deriva criminale. L'album di famiglia c'era, eccome, anche se due di quei cinque, e con loro Adelmo Cervi, figlio di uno dei sette fratelli uccisi dai nazifascisti, seppero sottrarsi al progetto sovversivo. «Nessuno pensava che dieci scimuniti come noi potessero prendere il potere, l'idea era di far scoppiare le contraddizioni dentro il Pci», scandisce ora Franceschini. «Per fortuna», aggiunge, «non andò così, sennò Pol Pot impallidiva». Risate.
Il gruppo prese il nome dall'appartamento nel centro di Reggio affittato in quei mesi del 1969 per chiamare a raccolta gli scontenti del Pci, i militanti di Pot Op, del Manifesto , del Cpm, i maosti, i posadisti, qualche cattolico dissidente. Ad esempio il quasi novantenne Corrado Corghi, ex dirigente della Dc, rammenta bene quei ragazzi, specie Franceschini, intelligenza vivace, già con piglio da leader. Libero dopo diciotto anni di carcere, l'ex bierre fa un po' da Virgilio in questo viaggio dentro la Reggio della sua gioventù. Una città dove le strade portano i nomi di Marx, Tito, Ibarruri. A pochi chilometri di distanza, a Cavriago, il paesino che diede i natali a Orietta Berti, resiste una piazza Lenin con busto in bronzo del capo bolscevico, tuttora «sindaco onorario». È in quel contesto storico-geografico, dove l'efficienza amministrativa del Pci non riesce a far pace con il sentimento della «Resistenza tradita», che Franceschini e i suoi amici vagheggiano l'insurrezione comunista. Ma per farla servono le armi, e anche una vecchia Luger ricevuta in regalo da un segretario di sezione, tal Attolini, può servire. Proprio quell'arma, impugnata da una mano guantata, Franceschini poserà sulla guancia del sequestrato Idalgo Macchiarini, nel 1972, per la fotografia di rito.
«Noi non siamo stati terroristi», protesta Paroli, mai dissociatosi dalle Br. Oggi dipinge in chiave terapeutica, in un suo quadro compare il cadavere di Mara Cagol coperto da un telo, l'uomo sembra vacillare solo nel rievocare la morte di un «traditore» strangolato in carcere. Giustamente, sui titoli di coda, una serie di fotografie atroci ricorda allo spettatore la piega presa dagli eventi, dal sequestro Sossi all'uccisione di D'Antona. Un brivido salutare, tra tante pacche sulle spalle e i «non ricordo» di chi ha preferito non farsi intervistare.


dal decreto legge 25 giugno 2008 n. 112. L'Articolo 58.
(Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali).

1. Per procedere al riordino, gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e altri Enti locali, ciascun ente con delibera dell'organo di Governo individua, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. Viene così redatto il Piano delle Alienazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione.
2. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica; la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del Piano delle Alienazioni costituisce variante allo strumento urbanistico generale. Tale variante, in quanto relativa a singoli immobili, non necessita di verifiche di conformità agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle Province e delle Regioni
3. Gli elenchi di cui ai commi 1 e 2, da pubblicare mediante le forme previste per ciascuno di tali enti, hanno effetto dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti trascrizioni, e producono gli effetti previsti dall'articolo 2644 del codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione del bene in catasto.
4. Gli uffici competenti provvedono, se necessario, alle conseguenti attività di trascrizione, intavolazione e voltura.
5. Contro l'iscrizione del bene negli elenchi di cui ai commi 1 e 2, è ammesso ricorso amministrativo entro sessanta giorni dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.
6. La procedura prevista dall'articolo 3-bis del decreto-legge 25 settembre 2001 n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001 n. 410, per la valorizzazione dei beni dello Stato si estende ai beni immobili inclusi negli elenchi di cui al presente articolo. In tal caso, la procedura prevista al comma 2 del suddetto articolo si applica solo per i soggetti diversi dai Comuni e l'iniziativa è rimessa all'Ente proprietario dei beni da valorizzare. I bandi previsti dal comma 5 sono predisposti dall'Ente proprietario dei beni da valorizzare.
7. I soggetti di cui all'articolo 1 possono in ogni caso individuare forme di valorizzazione alternative, nel rispetto dei principi di salvaguardia dell'interesse pubblico e mediante l'utilizzo di strumenti competitivi.
8. Gli enti proprietari degli immobili inseriti negli elenchi di cui al presente articolo possono conferire i propri beni immobili anche residenziali a fondi comuni di investimento immobiliare ovvero promuoverne la costituzione secondo le disposizioni degli articoli 4 e seguenti del decreto-legge 25 settembre 2001 n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001, n. 410.
9. Ai conferimenti di cui al presente articolo, nonché alle dismissioni degli immobili inclusi negli elenchi di cui all'articolo 1, si applicano le disposizione dei commi 18 e 19 dell'articolo 3 del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2001 n. 410.