«Alla Diaz fu macelleria»: chieste 28 condanne per agenti e capi della polizia
di Maristella Iervasi
L’accusa chiede 109 anni, la pena più alta al poliziotto che portò due molotov nella scuola
Per la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel luglio 2001, i pm hanno chiesto 28 condanne - per un totale di 109 anni - per gli agenti e gli attuali vertici della Polizia. Solo per uno di essi è stata richiesta l’assoluzione. Pene di 4 anni e 6 mesi per Gratteri (Direzione Anticrimine) e Luperi (Servizi Segreti).
I FATTI della Diaz sono «violazioni gravi, perchè minacciano la democrazia molto più del lancio delle bottiglie molotov». Quella notte del 2001 a Genova, nella scuola Diaz dove dormivano i partecipanti al Social Forum, «non è stata solamente usata la ma-
no pesante». C’è stata, anche, «la diffusa violazione di norme considerate d’impiccio allo svolgimento dell’azione delle forze dell’ordine». In pratica la sospensione dei diritti. «I generali «sono scesi in campo con casco e manganello a fianco della truppa», senza alcuna premeditazione. Così i pubblici ministeri Erico Zucca e Francesco Cardona Albini a conclusione della requisitoria hanno spiegando le ragioni della richiesta di condanna per 28 dei 29 poliziotti che il 21 luglio di sei anni fecero irruzione alla scuola dove vennero pestati 93 no-global, poi rinchiusi a Bolzaneto. 109 gli anni di carcere in totale, con richieste che variano da 3 mesi a 5 anni di reclusione; tra cui gli attuali vertici della polizia: Francesco Gratteri, all’epoca direttore dello Sco e oggi alla Direzione anticrimine centrale, e Giovanni Luperi, Servizi segreti, ex vicecapo dell’Ucigos. Le accuse vanno da falso ideologico a lesioni, calunnia, arresto arbitrario (che ha ha sostituito il reato di abuso di ufficio)e falso. Per un solo poliziotto, Alfredo Fabbrocini, - difeso dall’avvocato Alfredo Biondi, è stata chiesta l’assoluzione. La sentenza del tribunale, presieduto da Gabrio Barone, è prevista in autunno. La richiesta delle attenuanti generiche accorcerà però i tempi della prescrizione. Nei giorni scorsi la sentenza di Bolzaneto contro agenti e medici accusati di abusi su 200 no-global. Un verdetto «mite»: 15 condanne e 30 assoluzioni.
La pena più alta, 5 anni, è stata chiesta per il vicequestore dell’epoca, Pietro Troiani: accusato di aver piazzato due molotov come tentativo di farle passare come armi trovate in possesso ai no-global. Per lo stesso reato sono stati chiesti 4 anni per il poliziotto Michele Burgio. Per Gratteri e Luperi i pm hanno chiesto 4 anni e 6 mesi ciascuno per falsi verbali sottoscritti, calunnia e falso. Per questi ultimi due reati sono accusati anche Gilberto Caldarozzi, all’epoca vice dello Sco, e Massimiliano De Bernardini, vice questore aggiunto. Poi ci sono i presunti «picchiatori», come Vincenzo Canterini, all’epoca comandante del I° reparto Mobile di Roma con una richiesta di condanna di 4 anni e 6 mesi; il suo vice Michelangelo Fournier per il quale è stata invece chiesta una pena leggermente più bassa: 3 anni e 6 mesi, e otto capisquadra. Fournier è il poliziotto che in aula trovò il coraggio di rompere quello che i pm hanno descritto come un sistema di omertà: fu proprio Fournier a descrivere come «una macelleria messicana» i pestaggi fatti dentro la scuola. Il poliziotto urlò «basta, basta» - come riferito da alcune parti lese - mentre si toglieva con rabbia il casco. Per Spartaco Mortola, invece, ex numero due della Digos del capoluogo ligure sono stati chiesti 4 anni di carcere. Stessa richiesta contro Massimo Nucera, il poliziotto che sostenne di essere stato accoltellato durante il blitz. Infine, la condanna più iù lieve è stata chiesta per l’agente Luigi Fazio.
Scontento il giornalista free-lance inglese Mark Covell, picchiato dai poliziotti: «I pm hanno fatto un ottimo lavoro ma capisco la situazione politica che c’è adesso in Italia». Mentre Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum ai tempi del G8, dice: «Richieste proporzionate all’estrema gravità dei fatti contestati». ma.ier.
l’Unità 18.7.08
Gianclaudio Bressa: «Fu una spedizione punitiva. E si sospesero i diritti civili e umani»
di Maristella Iervasi
«Quello che si è intravisto nel 2001 al G8 di Genova sta diventato legge in questi giorni con il governo Berlusconi». Gianclaudio Bressa, vicepresidente dei deputati del Piddì commenta così le richieste di condanne ai 28 poliziotti per la sanguinosa irruzione alla scuola «Diaz». E sottolinea: «È in atto la sospensione dei diritti per motivi di sicurezza».
Si spieghi meglio.
«Nel 2001 a Genova ci fu la sospensione dei diritti umani, ignorando le più elementari norme di diritto penale e diritto penitenziario. È quanto si può vedere in trasparenza in questi giorni con la sospensione del diritto umano e lo stravolgimento del diritto penale».
Si riferisce forse alla spinosa questione dei nomadi e della loro identificazione?
«Esattamente. Si prendono le impronte ai Rom, si vogliono identificare i campi, si vogliono spogliare di ogni forma di diritto e di statuto politico i nomadi».
Restiamo al G8 di Genova. Il pm ha chiesto il processo per l’assalto alla Diaz. Pensa che finirà come Bolzaneto?
«La Diaz fa un po’ il paio con Bolzaneto. Quella sentenza di pochi giorni fa, pur essendo molto, molto brutta, ha sancito che nella democraticissima Italia c’è la sospensazione dei diritti. Le pene sono state leggere anche perché non c’è il delitto di tortura, pur essendo stato ratificato fin dal 1988 il trattato internazionale».
E per la Diaz?
«Al di là delle gravissime richieste per i poliziotti indagati: falso, calunnia, arresto illegale, lesioni, c’è anche qui il riconoscimento di spedizione punitiva. Esattamente come per Bolzaneto».
Lei si spese molto per una Commissione d’inchiesta sul G8, poi negata dal Parlamento. Ha qualche rammarico?
«Ho un rammarico politico. La Commissione non voleva indagare le responsabilità personali di quello che era successo a Genova: per fare questo c’è la magistratura; ma arrivare ad atti di chiarimento politico. Così ecco che quello che si è intravisto nel 2001 sta diventando legge: la sopensione dei diritti per motivi di sicurezza».
Il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri ha detto dallo schermo di La7 che «la manifestazione di Firenze è andata meglio di quella di Genova perchè i manifestanti violenti hanno capito che lo Stato non scherza». Come commenta?
«È la riprova che Gasparri ha gli occhi foderati di prosciutto. Il suo tasso di ideologia è tale che non riesce a distinguere. Furono il sindaco e l’allora prefetto Achille Serra a far sì che le manifestazioni fossero controllate e che la polizia si comportasse a dovere: cioè, tutelare la sicurezza pubblica. Ma non mi meraviglia: Gasparri non è la prima volta che sui fatti relativi alla sicurezza mostra una cultura di impronta fascista».
Ha ragione il Guardian nel dire: «La polizia italiana è fascista»?
«La nostra polizia non è fascista. Ci sono stati episodi che possono essere inquadrati come squadrismo. Abbiamo bisogno di polizia credibile».
I poliziotti coinvolti nel sanguinoso assalto alla Diaz, dovrebbero chiedere scusa o quantomeno dimettersi?
«L’Italia esce svergognata da queste vicende. Il problema è politico. Quei poliziotti portano una responsabilità personale che non gli consente di essere credibili: le forze di polizie, da subito, avrebbero dovuto prendere provvedimenti disciplinari».
l’Unità 18.7.08
Il Guardian: «Al G8 di Genova poliziotti fascisti sospesero la legge»
Picchiati senza pietà, in modo sistematico, non per ottenere confessioni ma per ritorsione. Un’inchiesta lunga sette pagine del Guardian - titolo «La sanguinosa battaglia di Genova» - il giornale britannico accusa la polizia italiana: «Questo non è il comportamento di un gruppo di esaltati. Questo è fascismo». I pestaggi nella scuola, le torture nel carcere di Bolzaneto. E non solo: i poliziotti parlavano in modo enfatico di Mussolini e Pinochet. I loro cellulari avevano suonerie con le tradizionali canzoni del ventennio. E i prigionieri furono costretti a dire più volte «Viva il Duce» o «Un, due, tre, viva Pinochet».
«Senza il lavoro del pubblico ministero - scrive il Guardian - senza la posizione rigorosa della magistratura, la polizia avrebbe potuto sfuggire alle proprie responsabilità. Tuttavia la giustizia è stata compromessa. Nessun politico è stato indagato, nonostante ci fossero forti sospetti che la polizia avesse agito con la sicurezza dell'impunità».
Il quotidiano non dimentica il ruolo di Gianfranco Fini, «Un tempo segretario nazionale del partito neofascista Msi e poi vice premier, Fini - secondo quanto scrisse in quei giorni la stampa - era presente nel quartier generale della polizia. Non gli è mai stato chiesto di spiegare che ordini avesse dato».
Sconsolato il giudizio dei giornalisti britannici: giustizia non sarà fatta. La maggioranza dei poliziotti coinvolti nei fatti della Diaz e di Bolzaneto non ha avuto nemmeno un richiamo disciplinare. Nessuno è stato sospeso, nessuno è stato accusato di torture, alcuni sono stati addirittura promossi. «Anche il processo ai 28 agenti è a rischio perché il premier Silvio Berlusconi ha voluto una legge che ritarda tutti i processi che riguardano fatti avvenuti prima del 2002».
l’Unità 18.7.08
«Rispettate Eluana» Un coro di no a Schifani
La Consulta di bioetica: si rispetti la famiglia di Eluana
di Luca Sebastiani
Coro di no contro il Senato che sul caso Englaro ha sollevato il conflitto di attribuzione. Alla famiglia è arrivata la solidarietà della Consulta di bioetica, che dice: si rispetti la famiglia di Eluana. Per i Valdesi «il Parlamento non deve censurare i giudici»
SENZA PACE Il caso di Eluana Englaro ha innescato un dibattito feroce e a volte decisamente sopra le righe. Tanto che la Consulta di Bioetica è intervenuta per invitare ad abbassare i toni di una polemica che sta alimentandosi sulla testa di una persona in carne ed ossa e del dramma di una famiglia. Per questo «la Consulta è vicina alla famiglia Englaro che - recita il documento diffuso ieri - gelosamente custodisce la volontà di Eluana, e invita i critici ad abbassare i toni e diminuire l'insistente pressione ad un ripensamento».
«Giudici necrofili», «prima esecuzione capitale della storia repubblicana», «condanna a morte per fame e per sete», «crimine assurdo di mercanti di morte», «martirio sulla strada della legalizzazione dell'eutanasia«, «omicidio di Stato». In queste ore si sono sentite parole di ogni sorta, a volte al di là della decenza o della semplice «educazione». Parole di, scrive la Consulta, «opinionisti devoti e rappresentanti del clero mossi da sacri furori che s’ingegnano a costruire le più macabre formule per tenere in caldo un'opinione pubblica ritenuta forse ghiotta solo di emozioni forti e colpi di teatro». In realtà, la questione sarebbe anche semplice di per sé, se solo si mettessero «da parte i vecchi schemi vitalisti legati alla sacralità della vita». In Italia infatti, ricorda la Consulta agli smemorati «è riconosciuto anche su base costituzionale il diritto delle persone coscienti e capaci di rifiutare le cure mediche. Riconoscere questo diritto ai capaci e negarlo agli incapaci o a chi abbia definitivamente perso la coscienza è in contrasto col principio di eguaglianza». Ecco perchè la Corte di Cassazione prima e la Corte d'Appello di Milano poi, non hanno fatto che colmare un vuoto e ristabilire un diritto, quello di Eluana, «in stato vegetativo da oltre 16 anni, di non prolungare la propria esistenza, ridotta a mera vita biologica, in conformità all'idea che ella nutriva di dignità personale e alle volontà espresse quando ancora era cosciente».
Stesso discorso da parte di un gruppo di una quarantina di neurologi del Gruppo di studio di Bioetica e cure Palliative della Società Italiana di Neurologia che afferma in una nota di non condividere l'appello presentato da 25 neurologi al procuratore generale di Milano per bloccare il provvedimento che autorizza l'interruzione della cure a Eluana. Tra i firmatari figurano oltre al professor Alberto Defanti, Giandomenico Borasio dell'università di Monaco, Alberto Primavera dell'università di Genova, Mariolina Congedo dell'università di Trieste. Anche Erika Tomassone, del Comitato bioetico delle chiese metodiste e valdesi, si augura che tutti coloro che in questi giorni utilizzano «la situazione coraggiosa e sofferente della famiglia Englaro, per i propri fini ideologici o politici, sappiano fare un passo indietro, perché le questioni in gioco non possono essere oggetto di battaglie ideologiche, ma piuttosto di un serio lavoro legislativo».
E invece politicamente il dibattito è di diverso genere, molto più involuto rispetto a quello auspicato dalla Tomassone. Il Parlamento infatti discuterà, lunediì al Senato e mercoledì alla Camera, il conflitto di attribuzione con la Cassazione. Una discussione che ha fatto reagire il senatore del Pd Enzo Bianco, secondo cui, invece, il caso di Eluana avrebbe meritato un «rigoroso e rispettoso silenzio». Anche per questo è contrario alla discussione del conflitto d’attribuzione, perchè, spiega, «La decisione della Corte suprema è ineccepibile» in quanto «non sostituisce al legislatore».
Dello stesso avviso, ma più deciso, il senatore Stefano Ceccanti, secondo cui il conflitto d’attribuzione non appare neanche «uno strumento percorribile».
Repubblica 18.7.08
Malati da rispettare
di Ignazio Marino
Caro direttore, la dignità della vita non si discute. Che si tratti di un neonato, di un giovane ammalato, di un anziano disabile o di una persona in stato vegetativo permanente, il valore di quell´esistenza va sempre riconosciuto e rispettato. Tuttavia, di fronte a malattie incurabili che segnano il destino di un essere umano, o di fronte ad una condizione irreversibile come quella di Eluana Englaro, non c´è un solo modo di rapportarsi, non c´è chi ha ragione o chi ha torto, c´è solo un drammatico bisogno di rispetto dei diritti e della dignità.
Le due testimonianze pubblicate nei giorni scorsi su Repubblica dimostrano proprio questo: due donne con la stessa malattia, con il medesimo ineluttabile destino a cui hanno reagito in maniera diametralmente opposta. Una ha scelto di liberarsi dalla sofferenza ponendo fine alla propria esistenza in tragica solitudine. La seconda ha scelto invece di continuare a vivere e ci ricorda, con una forza che obbliga a riflettere, le carenze organizzative di un sistema che non le garantisce tutti i supporti medici e tecnologici che oggi esistono. A questa donna, e a tutti coloro che vivono in situazioni drammaticamente simili, va detto che non c´è nessun motivo per cui il diritto a continuare a vivere non debba essere affermato e difeso. Ci mancherebbe altro! Allo stesso tempo è difficile non riconoscere che un paziente possa sentirsi abbandonato quando deve lottare per ottenere quegli strumenti e quelle attrezzature mediche indispensabili a garantire il proseguimento della vita in maniera dignitosa.
Ma le responsabilità non vanno attribuite solo e genericamente allo Stato, piuttosto il dito va puntato anche contro l´inerzia delle amministrazioni sanitarie regionali che sono spesso all´origine di gravi disfunzioni e della mancata assistenza a questi malati. I responsabili hanno un nome e cognome, sono quasi sempre i funzionari di un assessorato che non portano avanti le pratiche con la dovuta celerità, che non hanno la sensibilità di capire che dietro alle carte c´è la vita di una persona che attende una firma, un´autorizzazione. Non c´è una strategia nelle loro azioni, la chiamerei piuttosto imperdonabile e gravissima sciatteria. Ciò di cui si dovrebbe dibattere, per arrivare ad una legge che regolamenti la materia in modo chiaro, è il rispetto delle volontà dell´individuo di fronte alla malattia. C´è chi, per motivi personali, culturali, religiosi o altro, afferma la propria volontà di ricevere ogni cura di fronte ad ogni circostanza avversa. Sono persone coraggiose che devono essere ascoltate, sostenute e assistite con ogni mezzo e sostegno economico possibile. Ma c´è anche chi preferisce rinunciare a terapie che considera sproporzionate per se stesso. Ci sono persone che non giudicano accettabile l´idea di trascorrere la propria esistenza in stato vegetativo permanente perché ritengono che la vita sia soprattutto relazione con il mondo e se la relazione non c´è più, per loro la vita perde di significato. Anche questa posizione va rispettata senza esprimere giudizi.
Nessuno dei due diritti, alle terapie o alla rinuncia delle terapie, può essere negato. È questo ciò che lo Stato deve garantire: parità di diritti a tutti i cittadini, nel caso specifico il rispetto dell´autodeterminazione dei pazienti nelle decisioni terapeutiche. Le due situazioni mettono dunque in luce problemi gravissimi, sono entrambe importanti, ma non sono direttamente collegate. Il rispetto della vita e della persona non è in contraddizione con il rispetto delle volontà del malato, ma per fare in modo che ognuno possa esercitare un diritto è necessaria una legge che si occupi di tutti gli aspetti che riguardano la fine della vita, dal testamento biologico alle cure palliative alle terapie del dolore. Non serve una legge per staccare la spina, ma una legge perché ogni cittadino, sulla base dei propri principi e dell´articolo 32 della Costituzione, possa liberamente decidere ciò che vuole o non vuole nel momento di passaggio dalla vita alla morte.
(L'autore è senatore del Pd)
il Riformista 18.7.08
Parla monsignor Fisichella «quella ragazza è viva, e morire non dà mai la felicità»
«Rispetto il papà di Eluana, ma non c'è un diritto alla morte»
di Paolo Rodari
È cappellano di Montecitorio, rettore della pontificia università lateranense, membro della dottrina della fede e, da qualche settimana, responsabile della pontificia accademia per la vita, il ministero vaticano che si occupa di promuovere e difendere la vita umana. Monsignor Rino Fisichella parla col Riformista delle vicende che riguardano Eluana Englaro e spiega che, se oggi incontrasse Beppino, il padre di Eluana, probabilmente non direbbe «nulla». Starebbe zitto? «Penso che non direi nulla. Vorrei soltanto stringergli molto forte le mani. Nessuno, infatti, può mettersi nei suoi panni in questo momento. Lui sta portando avanti una sua convinzione, che è quella di far rispettare un desiderio di libertà della figlia. Io credo che, più che il rispetto di questo desiderio di libertà, debba esserci il profondo senso di amore per la vita della figlia. Ma mi rendo conto che ci vuole una sorta di eroismo per sostenere una simile posizione. Un eroismo che può essere realizzato con un sostegno molto forte. In questo caso, il sostegno della fede è determinante». Insomma, innanzitutto ci vuole rispetto per la posizione del padre di Eluana? «Ogni caso ha una sua peculiarità, una sua storia, mostra un'esperienza che merita rispetto. Personalmente apprezzo i toni sempre molto pacati, rispettosi, che il papà di Eluana sta usando in questi giorni nei confronti di chi gli suggerisce altre possibilità, altri punti di vista. Inoltre, ritengo che nessuno debba permettersi di essere giudice nella coscienza altrui». Però, nel merito, la Chiesa non condivide la scelta di Beppino. «Nel merito rimane il fatto che la sentenza della Corte d'appello non sia, a mio avviso, condivisibile. Anche se non è mia intenzione entrare nelle questioni giuridiche, voglio dire che ho ammirato l'intelligenza politica e l'acutezza di Francesco Cossiga, il quale ha giustamente mostrato come vi sia un conflitto di attribuzione. Io, fin dal primo giorno, ho detto che questa sentenza merita di essere impugnata, anche perché di fatto apre la strada a un'azione di eutanasia». Molti parlano di accanimento terapeutico… «Da quello che ho letto con attenzione sui giornali e dalle dichiarazioni fatte in tv, mi sembra che qualcuno giochi a carte truccate. Non si può, ad esempio, giocare sui termini di eutanasia dicendo che questa è semplicemente un modo per dare la morte a chi soffre. Il termine eutanasia è oggi usato in modo troppo ambiguo. E la stessa cosa vale per altre terminologie». Eluana ha una vita? «Eluana vive. Da quello che ci dicono le suore e le persone che la accudiscono, Eluana è una persona che ha una sua vita. Viene portata a passeggiare nel giardino. Si addormenta e si sveglia. Viene nutrita e le viene dato da bere. C'è chi dice che il suo non sia altro che un coma vegetativo. Io dico, invece, che l'esistenza di Eluana è un mistero che merita stupore e rispetto. Quello stupore che ci impone di guardare a lei con criteri nuovi. Mi rifiuto, ad esempio, di pensare che una persona in coma vegetativo sia priva di emozioni. Nessuno può dire che non abbia emozioni. Il nostro cervello è ancora, nella maggioranza delle sue funzioni, sconosciuto. Dobbiamo quindi avere l'umiltà di riconoscere i limiti della nostra conoscenza e riconoscere che siamo davanti a una persona. C'è una ragazza. C'è una donna che sta vivendo. Che viene nutrita e a cui viene dato da bere». Se Eluana davvero avesse detto prima dell'incidente che non avrebbe voluto vivere se si fosse ridotta nello stato in cui è ora, la sua libertà non andrebbe rispettata? «Qui viene invocata la libertà di morire. Io sostengo che c'è un diritto alla vita e non alla morte. C'è un diritto a essere curati. Un diritto a non soffrire, secondo quanto la scienza riesce a fare. Ma non esiste un diritto e una libertà a scegliere di morire. Tra l'altro, è l'intero ordinamento giuridico che si fonda sul diritto primario alla vita e non su quello della morte. Non c'è libertà di scelta quando questa è contraria ai valori, contraria al bene. In questo senso, anche la sentenza su Eluana è contraddittoria. Dice di togliere il nutrimento e l'idratazione a una persona e poi, con la stessa sentenza, stabilisce che questa persona deve essere accudita. È una contraddizione profonda, perché implica il riconoscimento che, togliendole il nutrimento, le viene provocata una sofferenza ingiusta». La posizione della Chiesa su Eluana può essere accettata da chi non crede? «Non ho mai parlato di fede. Non sto facendo un discorso come credente o come vescovo. Il mio è un richiamo a dei princìpi etici che non hanno una colorazione né laica né cattolica. Sono solito distinguere tra etica e morale. Noi stiamo facendo un discorso etico. Stiamo facendo un discorso che segue dei princìpi che sono prodotti dalla ragione che pensa e non dalla ragione che crede. E la ragione, quando vuole riflettere su come essere felice, sceglie di darsi alcuni orientamenti, alcuni princìpi. La morte non può dare felicità a una persona. È la vita che dà felicità perché la vita è relazione, è amore, è progettazione di sé e del futuro. Non la morte. In questo senso, i princìpi di cui sto parlando possono essere condivisi da persone che non credono. Certamente, potremmo discutere sul tema della libertà e cioè se esista una libertà a togliersi la vita, a lasciarsi morire. Se, in sostanza, il suicidio sia un gesto di libertà. Se veramente una ragazza, nel momento in cui è in piena salute e dice che se dovesse trovarsi nello stato in cui è oggi Eluana vorrebbe morire, espleti un'opzione veramente libera. C'è, infatti, anche la libertà di cambiare opinione. Nessuno può dire se, nel momento in cui ci si trovi in una condizione come quella di Eluana, si voglia morire. Di questo dovremmo discutere. Ma l'abc del diritto lo conosciamo tutti. La legge italiana vieta che si possa favorire la morte di una persona. Chi favorisce la morte è colpevole». Secondo lei una legge sul testamento biologico non è necessaria? «Quando si parla di testamento biologico, si parla di una scatola vuota. Il problema è come questa scatola viene riempita. Nella legislatura precedente c'erano nove proposte di legge in proposito e ognuna diversa dall'altra. Penso che sia giusto che il parlamento trovi una formula legislativa nuova, perché questi temi toccheranno sempre più il nostro futuro. Ma questa legislazione non può essere in alcun modo invasiva della sfera personale. Deve cioè rimanere inviolabile la concezione del mistero della vita. Non sto parlando della sacralità della vita, ma del mistero della vita, dell'inviolabilità del mistero della vita. Inoltre, non si può legiferare sull'onda dell'emozione di un caso specifico. Si deve legiferare a mente fredda, in un contesto di condivisione, di partecipazione e di non conflittualità, in contesti di amplissima maggioranza». Il segno lanciato dalla campagna "acqua per Eluana" come lo giudica? «Credo sempre al valore dei segni e questo segno è molto espressivo. Ho insegnato per vent'anni semiologia e, dunque, capisco l'importanza di certe azioni. Penso che davanti a casi come questi anche la Chiesa debba ricordarsi che non serve la diplomazia ma la chiarezza delle posizioni. Da questo punto di vista, comunque, mi pare che la Chiesa sia stata chiara».
l’Unità 18.7.08
Congressi. Si celebrano da oggi quelli di Pdci e Verdi
ROMA I partiti della sinistra usciti malconci dalle elezioni politiche si affidano alle cure termali per ritrovare almeno un po’ dello smalto perduto: già a giugno Sinistra democratica si era affidata ai ben noti benefici per il fegato delle acque di Chianciano, poi è toccato alle assise dei socialisti a Montecatini. Da oggi a domenica tornano in scena gli ex Arcobaleno: i Verdi e i Comunisti italiani celebrano i loro congressi nazionali rispettivamente a Chianciano e a Salsomaggiore. Chiuderà la serie dei congressi termali Rifondazione comunista, sempre a Chianciano ma dal 24 al 27 di luglio.
Il 55-60% dei circa 550 delegati dei Verdi, che si riuniranno al Palamontepaschi, sostiene la vecchia maggioranza, riunita nella prima mozione congressuale. È il patto che teneva insieme i centristi di Alfonso Pecoraro Scanio e Angelo Bonelli e la sinistra di Paolo Cento. Orfana di qualche spezzone significativo, quest’area candida Grazia Francescato, ambientalista storica, proveniente dalle fila del Wwf, già leader della Federazione tra il 1999 e il 2001. Ma sarà una soluzione ponte: una modifica statutaria sancirà la scelta di eleggere un portavoce invece che un presidente e rinvierà a dopo le elezioni europee i nuovi gruppi dirigenti più stabili.
Oliviero Diliberto gode di una maggioranza larga e la sua riconferma alla guida del Pdci non è in discussione: con l’86% dei consensi la mozione di maggioranza ha vinto il congresso, e al suo interno gli equilibri sono cambiati, con un ridimensionamento, a livello locale, del peso della componente più radicale di Marco Rizzo.
il Riformista 18.7.08
A' Ferrero, facce Tarzan!
N ell'indifferenza generale si sta svolgendo l'acceso dibattito pre-congressuale di Rifondazione comunista. È evidente che hanno torto gli italiani a non dar peso a ciò che si dice e si decide nell'assise del più importante partito politico desaparecido. Ma bisogna capirli, gli italiani, sono fatti così, non colgono. Ieri su "Liberazione" Alfonso Gianni scriveva che è stato giusto non partecipare alla manifestazione di Di Pietro a piazza Navona, mentre prima della rivoluzione in Russia era opportuno andare alle adunate del pope Gabon. Di fronte a argomenti di così stringente legame col presente, gli italiani hanno torto marcio a ignorare i Bertinotti boys. Soprattutto, gli italiani, sottovalutano l'orizzonte tematico limpidissimo che propone Paolo Ferrero, sempre su "Liberazione", quando scrive che «il nodo è come ricostruire un conflitto efficace che ponendo il tema della trasformazione sociale, politica e culturale permetta la costruzione di una nuova soggettività» per «rimettere al centro il tema della ricostruzione del comunismo, cioè della ricostruzione di un universo simbolico in grado di rappresentare la volontà di trascendimento dello stato di cose presenti». Come vedete è tutto chiaro e solo così, per usare le parole dell'anti-Vendola, si può «evitare che il comunismo diventi folclore». Chiaro, no? A questo punto le cose sono messe definitivamente a posto, la linea è tracciata. Resta una sola richiesta che inoltro a nome di tutti: «a' Ferrero, facce Tarzan!».
l’Unità 18.7.08
Festival. A Carpi e Sassuolo, oltre che nel capoluogo di provincia emiliano, il Festival di tre giorni sulla« fantasia»
Modena, la filosofia è un menù del Pensiero
di Bruno Gravagnuolo
La kermesse organizzata dai tre comuni presentata ieri a Roma alla «Stampa Estera»
Tra gli ospiti Marramao, Augé, Givone, Galimberti, Stenger e Rizzolato
Fantasia a prima vista è termine banale. A tutti si richiede fantasia per vivere, scrivere un articolo, dipingere, giocare al calcio, progettare una vacanza etc. Eppure, a guardar bene, non c’è parola più intimamente filosofica di questa paroletta logora. Stante che l’etimo ha a che fare con «phainomai», fantasma, apparire, apparenza, fenomeno, epifania e quant’altro.
La fantasia insomma è l’arte di produrre immagini, e come tale sta tra l’esperienza immediata e il pensiero vero e proprio. Anzi, per molti filosofi era l’anima del pensare stesso. «Facoltà dell’immaginazione per Kant», «memoria dilatata e composta» per Vico, autoriflessione rammemorante per Hegel (e per Heidegger) e «presupposto» del Logos per Aristotele. Dunque è ben scelta la parola per il Festival della filosofia di Modena Carpi e Sassuolo, in scena dal 19 settembre al 21 nelle tre città. Per la supervisione di Remo Bodei, e con oltre 200 appuntamenti gratuiti in piazza, al coperto, in teatro, persino in treno, con filosofi e scienziati vaganti su rotaia, in dialogo col pubblico.
Certo ci vuole la «spiega» per illustrare il senso dell’iniziativa, giunta ormai all’ottava edizione. Per evitare - e il rischio c’è col «turismo filosofico» e liquido diffuso - che il Festival appaia o divenga una specie di sagra. Come quella della melanzana o della salama da sugo (siamo in Emilia). Ma gli emiliani ci sanno fare, e hanno organizzato le cose per benino. Con percorsi e personaggi di tutto rilievo. Dalla scienza, all’arte, all’utopia, ai deliri ideologici dell’immaginazione (la Padania celtica!), alle creature fantastiche del mito e delle favole. E con gente come Isabelle Stenger, allieva di Prigogine, il neurologo Giacomo Rizzolato, quello dei «neuroni a specchio», Giacomo Marramao, Roberto Esposito, Marc Augé, Sergio Givone, Carlo Sini, Emanuele Severino, l’immancabile Galimberti, Jean-Luc Nancy, Silvia Vegetti-Finzi, il grande mitografo dei Greci Marcel Detienne, e tanti altri ancora. Idea di fondo, ci pare, «il potere dell’immaginazione». Indagato come costituente di base del pensare. E propellente dell’agire, delle relazioni umane. Nel bene e nel male. Nella convinzione che tutto quel che esiste è frutto di quel potere immaginifico. Demiurgico e connaturato all’uomo come animale progettante. Del resto, lo spiegava bene nel 900 il grande antropologo conservatore Arnold Gehlen. L’uomo è animale debole, con scarsa coordinazione naturale tra istinto e reattività operativa. Al contrario degli animali. Sicché per reagire l’uomo deve inventarsi delle protesi, degli strumenti progettanti. A cui delegare lo sforzo, e su cui scaricare la fatica, nel differire il perseguimento delle mete. Differimento che Gehlen chiamava «Entlastung», esonero. Qui dunque si apre la sovranità della fantasia: simulare un altro mondo, per afferrare quello reale. Senza artigli veri e propri, ma con artigli inventati. E allora ci si potrebbe anche chiedere: che il pensiero sia nient’altro che una protesi o un artiglio? Qualcosa che nasce dal vuoto, dalla debolezza, e in fondo dalla morte, esperita o temuta? Grande tema questo per la psicoanalisi, presente in forze negli attrezzi scientifici dei relatori, oltre che nella relazione dalla Vegetti-Finzi, che parlerà delle «proiezioni inconsce e immaginative che riempiono l’attesa della maternità». Nonché della generazione di «senso» in termini più ampi.
Domanda: ma non c’è il rischio che così il mondo sia tutto ridotto a simulazione? Oltretutto in un momento in cui non ci si salva proprio dalle simulazioni virtuali, divenute di fatto la sostanza vera e propria di un mondo ormai ridotto a «immaterialità». Speriamo che i 200 incontri ci offrano qualche antidoto a riguardo. Evitando che il Festival si riduca a mimesi allegra di un reale già privato di senso, e ridotto a spazio del festoso consumo omologato. Nel frattempo possiamo gustare, virtualmente, i menù filosofici di Tullio Gregory, gran studioso di Cartesio: 40 ristoranti e 9 liste. Protagonista il maiale, «animale encinclopedico» di cui non si butta niente. E tanti fritti misti. Dai quali distillare «universali categoriali» sarà dura, anche per i fegati filosofici più allenati.
Corriere della Sera 18.7.08
Praga 1968: il Pci alla prova, la sorte di Jiri Pelikan
di Sergio Romano
Ho letto l'intervento di un lettore sulla posizione del Pci di fronte agli interventi sovietici in Ungheria e in Cecoslovacchia. A proposito dell'invasione della Cecoslovacchia, faccio presente che la posizione del Pci al riguardo fu radicalmente diversa da quella assunta 12 anni prima a proposito dell'Ungheria.
Le riporto di seguito un paio di frasi delle dichiarazioni di Ingrao nel dibattito alla Camera del 30 agosto 1968 (riportate dalla Civiltà Cattolica - Civ. Catt. 1968, III, 517-518). Dopo un attacco alla maggioranza, che aveva bollato come strumentale la condanna dell'intervento fatta dal Pci nel Comitato centrale di pochi giorni prima («la goffaggine e i richiami all'indipendenza da parte di chi ha manifestato comprensione e si è fatto corresponsabile del genocidio in Vietnam»), Ingrao proseguì (seguo il riassunto della rivista dei gesuiti) osservando che «il nuovo corso non era esente da pericoli: il dissenso manifestato dal Pci non nasceva e non nasce dall'ignorare questi pericoli, ma dalla convinzione che l'intervento militare non è la via giusta per combattere quei pericoli». Come ho detto sopra, la posizione del Pci era quindi radicalmente mutata dall'adesione acritica sull'Ungheria.
Piero Stagno
Caro Stagno,
Come ha ricordato Enzo Bettiza in occasione dell'uscita del suo recente libro sugli avvenimenti della Cecoslovacchia («La primavera di Praga», edito da Mondadori), il Pci «deplorò»: espressione ambigua che poteva valere per gli invasori come per gli invasi. La stessa ambiguità riappare nelle dichiarazioni di Pietro Ingrao alla Camera che lei ricorda nella sua lettera. Ingrao sostiene anzitutto che il corso inaugurato da Alexander Dubceck e dai riformatori «non era esente da pericoli». E non condanna l'intervento, ma sostiene che «non è la via giusta per combattere quei pericoli». Insomma i riformatori sarebbero stati troppo imprudenti e l'Urss troppo impetuosa. Lei ha ragione quando osserva che fra le posizioni del '56 e quelle del '68 corre una grande differenza. Ma non sarebbe neppure giusto dimenticare che la vicenda di Praga fu sin dagli inizi molto diversa da quella di Budapest. Si trattò di una riforma, non di una rivoluzione e, per di più, cadde in un periodo della guerra fredda durante il quale il rischio di un scontro frontale in Europa era considerevolmente diminuito. Mosca avrebbe potuto affrontare il problema cecoslovacco con altri strumenti.
Quello che maggiormente mi colpisce nelle dichiarazioni di Ingrao, caro Stagno, non è la differenza dei toni rispetto ai tempi di Budapest, ma l'evidente disagio dell'esponente del partito comunista italiano. Ingrao non può approvare la violazione della sovranità cecoslovacca, ma è costretto a trovare qualche giustificazione per l'intervento. Vi è un altro episodio, del resto, che conferma questo disagio e mette in maggiore evidenza il grande imbarazzo del Pci in quel periodo.
L'episodio concerne Jiri Pelikan, amico e collaboratore di Dubceck, direttore della televisione all'epoca degli avvenimenti, personalità di spicco del blocco riformista. Nei mesi che precedettero la crisi e nei giorni cruciali dell'invasione, Pelikan fu probabilmente la persona che maggiormente contribuì, con i suoi programmi televisivi, a riscaldare il cuore dei riformatori. I sovietici lo detestavano. Quando Dubceck ritornò a Praga dall'Unione Sovietica, dove fu sequestrato per alcuni giorni, Pelikan era già in clandestinità, ma ne uscì, come ricorda Bettiza, per registrare il discorso umiliante che il segretario generale del partito fu costretto a pronunciare in quella occasione. Il leader riformatore era «spento, svuotato, privo di energie, come se avesse subito mesi di torture». Ma prese in disparte Pelikan per dirgli che i sovietici non lo avrebbero mai perdonato per ciò che la televisione aveva fatto nei sette mesi della «primavera» e nei sette giorni dell'occupazione. Fu questa la ragione per cui Pelikan, qualche giorno dopo, arrivò in Italia. Una delle sue prime iniziative fu l'invio di una lettera a Enrico Berlinguer da cui sperava di ricevere simpatia e aiuto. Quella lettera non ebbe mai risposta. L'aiuto venne dai socialisti e in particolare da Bettino Craxi che lo volle candidato del partito socialista alle prime elezioni del Parlamento europeo.
Corriere della Sera 18.7.08
Lettera aperta al ministro
Caro Tremonti, corregga quei tagli: la ricerca è l'investimento più prezioso
di Luciano Canfora
Signor ministro Tremonti, pur non amando affatto il genere letterario definibile come «querimonia dei dotti» e ben sapendo quanto sia arduo tener conto degli interessi generali e non soltanto di quelli di un singolo comparto, per quanto importante, unisco la mia voce alle molte, di schietto e fondato allarme, levatesi in questi giorni in merito ai «tagli» incombenti sull'Università italiana. Lei lo sa bene, l'università non è un lusso, è il più importante investimento sul futuro.
Circolano in questi giorni le notizie più allarmanti relative ai risultati del lavoro del Comitato direttivo preposto alla attribuzione dei finanziamenti Prin (ricerca universitaria: progetti di rilevante interesse nazionale), comitato presieduto dalla professoressa Clelia Mora dell'Università di Pavia.
Se mi permetto di scriverle, è per chiederle se, nonostante le scelte dissennate compiute in questo campo dal precedente governo (fondi per la ricerca stornati verso il «prestito-ponte» Alitalia!), non sia possibile, prima che sia troppo tardi, stanziare una ulteriore, anche limitata, «tranche» di finanziamento per la ricerca. Ciò consentirebbe di finanziare almeno in parte la classe «B» (come contemplato dal regolamento vigente, al punto 11).
Siamo infatti quest'anno al paradosso per cui solo la classe «A» (le cosiddette, ahimé, «eccellenze») risulterebbe finanziabile.
Faccio un solo esempio degli effetti aberranti della selezione risultante da un tale restringimento. Tra le «vittime» della falcidia finirebbe con l'esserci persino l'Istituto Papirologico Vitelli di Firenze, fiore all'occhiello della scienza antichistica italiana e «biglietto da visita» della scienza italiana nel mondo!
E tralascio di ricordare insigni colleghi, «falcidiati» anch'essi: chi già richiesto ad Harvard (ma, a quanto pare, non degno del Prin), chi tradotto nelle principali lingue del mondo.
Forse c'è un limite in basso che non andrebbe mai valicato per il buon nome del nostro Paese.
Corriere della Sera 18.7.08
Il debutto di Houellebecq come regista e l'omaggio a Moretti
Locarno, la nascita delle Br nel film «Il sol dell'avvenire»
di Maurizio Porro
MILANO — Presentato a Milano il 61˚Festival di Locarno, dal 6 al 16 agosto, giudicato ribelle e impertinente sia dal suo presidente Solari, che si definisce «non di sinistra», sia dal direttore Frédéric Maire che invece dichiara la propria fede. Si annuncia la retrospettiva Nanni Moretti come autore, attore, produttore che porta una sua mini cineteca di film del cuore: «Lo so che per voi è più un personaggio, ma per noi svizzeri è soprattutto un regista».
Tra le novità — The Eternity Man, opera moderna di Julien Temple; il film tratto dal libro di Chuck Palahniuk; il debutto al cinema di Michel Houellebecq e Lezione 21 di Baricco sulla
Nona di Beethoven — Maire tiene a dichiarare quest'anno la presenza dell'Europa, che parla della crisi di pubblico e privato, e in particolare dell'Italia nelle varie sezioni. Cose curiose e vite vissute: un bel documentario di Giovanni Piperno sul viaggio Venezia-Pechino di un gruppo di malati di mente con dottori e parenti; Sognavo le nuvole colorate
di Mario Balsamo, è storia di un bambino albanese emigrato da noi; Mar Nero di Federico Bondi ci parla del rapporto tra una donna (Ilaria Occhini) e la sua badante rumena. Ma c'è anche un film sociologico di Bruno Oliviero Napoli Piazza Municipio e la novità di Elisabetta Sgarbi Non chiederci la parola, girata al Sacro Monte di Varallo, musica di Battiato; e breve incontro cinematografico tra il poeta regista Nelo Risi che parla con Andrea Zanzotto. Atteso documentario Petites historias das criancas, girato in 7 Paesi e firmato da Guido Lazzarini, Gabriele Salvatores e Fabio Scamoni sul progetto Intercampus:
in 90 minuti si racconta il potere integrativo sociale del gioco del calcio salvavita dei bambini delle periferie più infelici del mondo, lungo progetto- lavoro in fieri voluto da Moratti per l'Inter. Al Festival, che costa 6 milioni d mezzo di euro, omaggia Anjelica Huston e decora il regista israeliano Amos Gitai, sarà presentato l'atteso documento italiano sulle brigate rosse Il sol dell'avvenire
di Giovanni Pasanella e Gianfranco Pannone, in cui Franceschini parla del movimento e dell'Italia di ieri e d'oggi, baricentro la trattoria toscana sull'Appennino emiliano dove nacquero le Br nell'estate 1970.
Infine una lieta sorpresa offerta dalla Cineteca Italiana che ha restaurato un film inedito in Italia che Luigi Comencini girò nel '59 in Germania, ...e questo di lunedì mattina, che sarà accompagnato dal libro Appunti di un cineasta con foto del regista, già attento ai bambini, realizzate dal '45 al '48.
Repubblica 18.7.08
Il nuovo "baby-boom" d'America mai tanti neonati dal 1957
Dietro al record del 2007 l'aumento degli emigranti e delle mamme ultra-quarantenni
di Arturo Zmpaglione
NEW YORK - La cicogna ha «consegnato» l´anno scorso nelle culle degli americani un numero record di bebè. Ne sono nati 4 milioni e 315mila, superando la cifra raggiunta mezzo secolo fa, nel 1957, all´apice del baby-boom. «È una pietra miliare» annuncia Stephanie Ventura, dirigente del National center for health statistics, l´organismo del ministero della sanità che ha pubblicato i dati sulle nascite nel 2007.
Le statistiche del National center sono ancora provvisorie (quelle definitive usciranno a settembre), ma hanno già mobilitato gli esperti di demografia: da un lato, infatti, preannunciano l´inizio di un mini-boom delle nascite; dall´altro nascondono un fenomeno nuovo. È quello che Arthur Nelson chiama una "tempesta perfetta": «Dietro ai numeri record del 2007 - dice il professore dell´università dello Utah - c´è la concomitanza di tre fattori». Il primo è la forte crescita negli States degli emigranti, che hanno tassi di fertilità più alti: del resto i due stati che hanno registrato il maggior numero di bebè sono stati California (566mila) e Texas (405mila) dove c´è una forte concentrazione di messicani. Il secondo elemento è la "tenuta" delle donne che si trovano nella fascia d´età tradizionale per la maternità, cioè dopo i 20 anni e prima dei 40. La terza componente, che poi è la vera novità dell´ultima fotografia demografica, è l´aumento dei bebè nati dalle ultra-quarantenni che avevano posticipato la maternità soprattutto per ragioni professionali e ora, favorite dai progressi della medicina riproduttiva, hanno deciso di diventare mamme.
Per la prima volta nella storia americana un paio di generazioni di donne hanno voluto (e potuto) mettere al mondo dei figli. Già negli anni scorsi c´era stato un aumento dei bambini: nel 2000, dopo anni di declino, era stata risuperata la soglia dei 4milioni, ma ora il trend si è consolidato. Certo, in termini percentuali le nascite del 2007 sono ancora al di sotto di quelle del più celebre baby-boom della storia, che nel clima euforico del dopoguerra, tra il 1946 e il 1964, sfornò 78,2 milioni di bambini. Adesso infatti la popolazione degli Stati Uniti è di 303 milioni, quasi il doppio dei 157milioni di americani del 1957. Ma anche se i tassi di natalità sono più bassi di allora, Nelson è convinto che il record dell´anno scorso indichi l´inizio di un mini-baby-boom destinato a durare e sociologicamente diverso dal passato.
Per una strana coincidenza l´impennata delle nascite nel 2007 è avvenuta mentre Kathleen Casey-Kirshling, considerata la prima baby-boomer della storia americana, perché era nata a Filadelfia a mezzanotte e un minuto del primo gennaio 1946, si apprestava ad andare in pensione: il 15 ottobre dell´anno scorso.
Così come i vecchi baby-boomers creeranno problemi per le casse dello stato, la nuova ondata di bebè avrà bisogno di scuole, strutture, assistenza sanitaria. «Ed è bene cominciare a pensarci sin tempo» ha dichiarato a Usa Today un altro professore di demografia, Ronald Rindfluss dell´università della Carolina del Nord. Non è facile capire come aumentare la spesa pubblica in un momento così difficile per l´economia per colpa della recessione, del prezzo della benzina e della crisi immobiliare; ma per fortuna, a differenza del maxi-boom del dopoguerra, il mini-baby-boom appare molto più graduale.
Repubblica 18.7.08
L’offensiva della destra in Europa
di Marc Lazar
La destra francese proclama orgogliosamente di aver vinto la battaglia delle idee. Come riferisce Le Monde del 15 luglio, il primo ministro François Fillon ha insistito con fierezza su questo tema: «La Francia ha voltato pagina e ha cambiato i suoi valori, la sua cultura e la sua politica». Che pensare di dichiarazioni del genere? Sono semplici millanterie, o hanno una reale consistenza? E poi: la Francia è un caso a parte, oppure quest´offensiva della destra riguarda anche altri Paesi, primo tra tutti l´Italia?
È facile intuire le intenzioni dei capi della destra francese che parlano a voce alta. Si tratta di inculcare all´opinione pubblica l´idea che l´esito della lotta contro la sinistra sia ormai deciso inesorabilmente in loro favore. Ma sarebbe un errore vedere in questo una semplice mossa di comunicazione. Per oltre un decennio, la destra francese ha lavorato moltissimo. In Francia l´UMP, il partito di Nicolas Sarkozy, ha dato vita a numerosi gruppi di lavoro, colloqui e convegni su tutti i temi più scottanti. Si sono consultati intellettuali ed esperti, si è provveduto alla formazione degli addetti. E intanto la sinistra francese ha continuato a riposare sui suoi allori, convinta di possedere per sempre l´egemonia culturale. Quale è precisamente il sistema di valori di Sarkozy? Si tratta di un mix di diverse tematiche: l´ordine, l´autorità, il lavoro, l´impresa, il merito, la responsabilità individuale, l´identità nazionale, l´Europa, la libertà, la protezione, la sicurezza, la riforma dello Stato, la competitività, la laicità, la religione. Il candidato Sarkozy è stato tanto abile da conferire a tutti questi ingredienti un´apparente coerenza. E soprattutto ha utilizzato alcune formule a effetto, ben cesellate da lui stesso e dai suoi collaboratori e consiglieri in materia di comunicazione. Un esempio per tutti è una frase divenuta un leitmotiv ossessivo della sua campagna: «Lavorare di più per guadagnare di più». Vari fattori concorrono a spiegare questo corpus di valori, spesso in contraddizione tra loro. Innanzitutto, se Sarkozy è riuscito a unificare la maggior parte delle destre francesi, ha dovuto, come contropartita, usare riguardo alle diverse sensibilità: statalista e liberista, egualitaria e libertaria, moderata e conservatrice. Peraltro, Sarkozy non è un ideologo, bensì un pragmatico che rivendica il suo pragmatismo. Non propone una dottrina, ma mobilita un insieme di valori che servono da argomenti elettorali suscettibili di rispondere alle attese degli elettori su vari problemi cruciali: la globalizzazione, l´occupazione, la sicurezza, l´individualismo, l´immigrazione. È questa la forza della destra. Vivendo in un periodo di paure, inquietudini ed incertezze, gli elettori sono alla ricerca di significati e di riferimenti. Da qui la necessità di fornire risposte di fondo. Ma al tempo stesso è essenziale saper fare buon uso dei simboli e nutrire l´immaginario collettivo, soprattutto attraverso incessanti iniziative mediatiche.
Ma questa politica di Nicolas Sarkozy ha il suo rovescio. Le sue ambivalenze si sono immediatamente ripercosse sulla sua azione di governo. Certo, il presidente ha aperto un gran numero di cantieri, ed è riuscito così a far ammettere ai francesi la necessità di un cambiamento. D´altra parte però non ha saputo scegliere tra liberismo e colbertismo; e quest´ambiguità gli si è ritorta contro, anche perché ha commesso numerosi errori. Non basta: tutti i sondaggi dimostrano che i francesi, ancorché consapevoli dell´imperativo delle riforme, davanti a quelle proposte dall´esecutivo hanno posizioni diverse: se approvano il controllo dell´immigrazione e una repressione giudiziaria più dura, sono però assai più divisi sulle misure nel campo dei servizi pubblici, e largamente ostili alla nomina governativa diretta del presidente delle Tv pubbliche. Infine, continuano a mostrare un forte attaccamento alla tutela sociale e alla solidarietà. I record di impopolarità riportati da Sarkozy dall´inizio del 2008 confermano i limiti contro i quali si scontra la destra. Una destra vincente nella battaglia sui ma non ancora in grado di convincere completamente.
Quali insegnamenti si possono trarre dal caso francese per l´Italia? La destra italiana è più che mai vicina a quella francese, e porta avanti idee analoghe su un liberismo temperato da protezionismo, sull´impresa, sullo Stato, sulla religione. Sono vicine anche nella loro visione del capitalismo manageriale e morale, come ha ben dimostrato Pierre Musso nel suo recente libro dal titolo «Le sarkoberlusconisme». Con ciò non si vuol dire che Berlusconi sia uguale a Sarkozy o viceversa, ma solo rilevare una serie di convergenze, che peraltro sono in atto in tutta la destra, nel crogiolo formato dal Partito popolare europeo. Da tutto ciò emerge una volta di più quello che oggi è il compito del Pd. Indubbiamente questo partito è tenuto a denunciare le leggi ad personam che il presidente del Consiglio sta facendo approvare. Ma deve anche ricostituire a sua volta un corpus di valori alternativo e saper fare del proprio riformismo una narrativa mobilitante. A forza di voler essere moderato, il Pd sembra dimenticare la propria natura riformista. Deve dunque prendere decisioni nette e agire. È quanto meno sorprendente che sia stato proprio Sarkozy a dichiarare di aver meditato sugli insegnamenti di un certo Antonio Gramsci.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
Repubblica 18.7.08
L’arma dei Masai contro l´Aids il mistero delle erbe magiche
di Alessandra Viola
In uno sperduto villaggio della Tanzania alcuni guaritori curano con foglie e radici E qualcuno giura di aver sconfitto anche il cancro. Adesso l´Italia studia quelle piante
Sotto esame 41 germogli e cortecce conservati da cinque "stregoni"
Il ministero degli Esteri ha allestito un laboratorio con l´aiuto del governo e l’università locale
NGARENANYKI (TANZANIA) Sembra un cellulare che trilla lontanissimo. Un suono familiare, eppure talmente incongruo nel cuore della Tanzania e di questa savana gialla e polverosa in cui rumoreggiano solo le capre, che pensi di essere colto da un´allucinazione. Intorno alla capanna alcuni ciuffi d´erba secca si piegano silenziosi nel vento caldo, e nell´aia persino i bambini sono ammutoliti dal tormento delle mosche. Eppure avvicinandoti all´abitazione giureresti che sia proprio un telefonino che squilla, anche se il suono artificiale si diffonde malamente nella stanza col pavimento di terra battuta in cui Elias sta ricevendo i suoi pazienti, seduto dietro a un tavolo ingombro di barattolini di plastica.
È venerdì, giornata di visita, e la stanza è stipata di gente. Sono donne, uomini, bambini, arrivati a piedi anche da molto lontano, malgrado tutti siano malati. Arusha, la terza città della Tanzania, poco più che qualche sbaffo d´asfalto costeggiato da edifici di cemento e pochi alberi, dista in auto oltre due ore. Ma qualcuno è arrivato anche da lì, come una donna con il suo bambino, entrambi sieropositivi. La fama di Elias, il guaritore più noto del villaggio di Ngarenanyki, uno dei traditional doctors che a partire dal 2002 sono stati ufficialmente riconosciuti dal governo della Tanzania e ammessi ad esercitare la loro professione alla luce del sole, è giunta fino in città. «Posso curare la malaria, il diabete, l´asma, il cancro e anche l´Aids», assicura in un dialetto swahili questo masai alto e dinoccolato. Vestito di stoffe colorate, le orecchie bucate e le guance scavate da due grandi cerchi che indicano la sua appartenenza alla tribù dei pastori, non ha esattamente l´aspetto di uno specialista dal quale andresti a farti curare il cancro, e forse nemmeno un raffreddore. Eppure ogni settimana decine di persone vanno a trovarlo per chiedergli aiuto, e tra loro anche alcuni occidentali.
Una terapia per il cancro e l´Aids a base di foglie, cortecce e radici? Tutto è talmente inconcepibile che quando Ze-Elias, come lo chiamano qui, estrae un cellulare ultrapiatto di ultima generazione, in realtà ci si stupisce appena. È la Tanzania: un paese in cui modernità e tradizione convivono nel rispetto reciproco, in cui 120 diverse tribù e una decina di religioni danno luogo a una pacifica repubblica presidenziale e in cui guaritori tradizionali e medicina moderna collaborano per migliorare il servizio sanitario nazionale, scambiandosi i pazienti per diagnosi e terapie. «Devo andare», si scusa Elias finita la telefonata, indicando un punto lontano, dietro al monte Meru. Oltre il suo dito, a una distanza moltiplicata da buche e fango, sassi e torrenti da passare al guado, avvolto da una foresta tropicale fresca e verdissima, c´è il villaggio di Ngongongare. Lì la cooperazione italiana ha costruito e attrezzato un laboratorio di ricerca, con tanto di stanze per i ricercatori e collegamenti wi-fi, coinvolgendo la comunità locale, le università e il governo della Tanzania. Obiettivo: catalogare e salvaguardare le piante usate dai guaritori tradizionali creando una piccola attività commerciale, un vivaio gestito dalle donne del villaggio in cui coltivare e vendere le piante che oggi i guaritori raccolgono in natura, percorrendo anche centinaia di chilometri. Elias è uno dei cinque esperti selezionati dal progetto finanziato dal nostro ministero degli Esteri e portato avanti congiuntamente da Cins (Cooperazione Italiana Nord Sud) e Aaf (Associazione Africa Futura). Insieme a lui ci sono Leizar, un altro masai, e tre donne: Mama Mathilia, Mama Lucy e Mama Fatume, nota agli ospedali di mezza Tanzania per la sua ricetta delle 41 piante capace, dicono, di curare l´Aids.
Nei verdi germogli del vivaio di Ngongongare infatti c´è molto più che un piccolo business di villaggio: c´è la potenziale soluzione dell´Africa ai suoi più gravi problemi. Perché i rimedi capaci di curare l´Aids o il cancro, se esistono, valgono cifre inestimabili. «Prima di vedere i test ero molto dubbioso sulle capacità di questi medici tradizionali e pensavo che le guarigioni fossero dovute a suggestione - afferma Josih Tayali medico e docente dell´università di Arusha coinvolto nel progetto - ma mi sono dovuto ricredere sia sulle loro capacità diagnostiche che su quelle curative: scelgono piante che contengono gli stessi principi attivi utilizzati in farmacologia, e anzi ne usano direi più di quanti ne conosciamo. Molti guaritori sono analfabeti, ma hanno nozioni approfondite di anatomia e fisiologia: conoscono gli organi e il loro funzionamento e sono in grado di diagnosticare anche malattie complesse, tra cui alcune forme di cancro. Ormai persino gli ospedali consigliano ai pazienti terminali di rivolgersi ai guaritori. È una pratica non ufficiale, ma molto diffusa».
Tayali sta studiando il caso di due sieropositivi che si sono rivolti a Mama Fatume poco dopo essersi ammalati di Aids. In 3 mesi il virus è regredito, il CD4 (un indicatore delle difese immunitarie) è salito da 400 a 750 e le persone stanno di nuovo bene. E se le 41 piante di Fatume (o le due di Elias, gli unici guaritori che si dicono in grado di curare l´Aids, mentre gli altri lamentano di non aver trovato la cura adatta) fossero davvero capaci di produrre dei risultati? «Se muoio porto la mia conoscenza con me - dice Mama Fatume - ma se la divulgo perdo il mio lavoro. Non so decidere cosa fare. Per ora ho scelto una via di mezzo: non ho consegnato le mie piante all´università di Dar Es Salaam, che me le chiede da molto tempo per analizzarle. Però le ho date agli italiani, che hanno firmato delle carte in cui dicono che se dalle mie piante si può ricavare una medicina io avrò molti soldi, nessuno potrà rubare la mia ricetta e potrò anche continuare a lavorare».
«Le 41 piante di Fatume ora sono in Italia - dice Paola Murri, coordinatrice del progetto - ma il nostro coinvolgimento non prevedeva fondi per questo tipo di analisi. Si cerca quindi una struttura che effettui gratuitamente i rilievi (lo hanno già fatto per altre piante il Cnr, l´università di Firenze e quella di Pavia, ndr), per poi lasciare in ogni caso al governo della Tanzania i benefici di ogni scoperta».
Per il progetto sono stati spesi oltre due milioni di euro. Fino a qualche tempo fa l´Occidente ricco, con una cifra del genere, finanziava una parte del suo senso di colpa, ma oggi le cose sono cambiate. Oggi, i risultati economici di una ricerca scientifica possono diventare un´opportunità per tutti.
Repubblica 18.7.08
In esilio con Omero. Rachel e la forza della guerra
di Nadia Fusini
Nei guerrieri greci non vede né buoni né cattivi, ma il segreto dell´esistenza. Una visione che non le bastò: morì suicida nel ´49
La pensatrice ebrea Bespaloff sbarcò a New York nel ´43, come Simone Weil. E, come lei, trovò nell´Iliade la chiave per capire le tenebre
Se il conflitto distrugge ciò che tocca, restituisce alla vita suprema importanza
La poesia omerica e quella biblica avevano la facoltà di ricostituire il cuore umano
Due donne negli stessi anni leggono lo stesso libro, l´Iliade. Fatto di per sé interessante, osserva Laura Sanò nel suo bel libro Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici). È così: in un libro, l´Iliade, che non cancella, ma accompagna l´altro, la Bibbia, Simone Weil e Rachel Bespaloff, trovano la luce per comprendere le tenebre dei loro giorni.
Due donne, entrambe ebree, entrambi esuli, entrambe destinate a una morte precoce, entrambe in procinto di lasciare l´Europa, fissano lo sguardo su un testo che è all´inizio della civiltà e tradizione in cui le donne si riconoscono: la coincidenza, ripeto, non può passare inosservata. E la nota difatti l´amico caro Jean Wahl nella prefazione a De l´Iliade, che viene pubblicato in francese a New York nel 1943. Nel 1947 appare la traduzione in inglese On the Iliad, ad opera di Mary McCarthy, con introduzione di Hemann Broch. In italiano il testo esce per Città Aperta Edizioni nel 2004. Simone Weil e Rachel Bespaloff non si conoscono. Ma si sfiorano più volte. Nella primavera del 1938 Rachel viene a curarsi nella stessa clinica svizzera per malattie nervose, dove l´anno precedente era stata ricoverata Simone. A Ginevra entrambe sostano a lungo a una mostra di quadri di Goya.
Negli stessi giorni del maggio 1942 sono entrambe a Marsiglia in attesa di un visto per fuggire dalla Gestapo, e dunque dall´Europa, direzione New York, dove giungono nella medesima estate.
Ma non viaggiarono sulla stessa nave, né capitò loro di incontrarsi in terra americana. Simone ripartì presto per Londra, perché voleva che il proprio destino si compisse nel bel mezzo della lotta; Rachel si trasferì al College di Mount Holyhoke, dove Jean Wahl le aveva trovato un incarico di insegnamento. E lì rimarrà, fino alla morte che si diede di sua propria mano nell´aprile 1949.
Le due donne, ripeto, non si incontrano, e tuttavia una trama di coincidenze le avvicina. Prima di partire per gli Stati Uniti Simone aveva consegnato ai Cahiers du Sud il saggio su L´Iliade, poema della forza, che uscirà a Marsiglia nel numero del dic.1940-genn.1941. Aveva iniziato la stesura dello scritto nel ‘39. Nello stesso anno Rachel rileggeva l´Iliade insieme con la figlia, che seguiva con materna sollecitudine negli studi. Una passione la prese per quel libro meraviglioso, e cominciò a prendere appunti, ad accumulare note su note; sentiva in Omero il tono, l´accento della verità. Sì, l´Iliade è davvero, come la Bibbia, un libro ispirato, disse.
Scoprì tardi, quando ormai il suo testo nelle sue linee fondamentali era quasi compiuto, il saggio di Simone. A spedirlo al suo indirizzo fu un amico, che lei ringrazia con impeto, grata e meravigliata. Confessa: «Vi sono intere pagine delle mie note che potrebbero sembrare un plagio». Ma non si tratta di plagio. Né di identità di vedute.
E´ qualcosa di più straordinario: è la corrispondenza misteriosa e profonda di due intelligenze e sensibilità diverse, ma della medesima qualità rabdomantica, che leggendo un testo del passato rispondono del loro presente.
Sì, anche per Rachel il mondo di Omero è il mondo della forza. Attenzione, però: la forza, così come la legge Rachel, non è né bene né male. Non si tratta di condannare né di assolvere la forza. Essa è, come la vita è. Gli eroi di Omero non sono né bellicisti né pacifisti. La forza di Ettore, come la forza di Achille sono rami del medesimo tronco. Achille e Ettore sono una sola cosa agli occhi di Zeus, come di Omero. Nel mondo di Omero, come in quello di Platone, l´ingiustizia o la si impone o la si subisce.
Non c´è in Omero, né tantomeno in Rachel, nessuna apologia della medesima; Omero, al contrario, è «il poeta dell´infelicità», dichiara Rachel. Non dei trionfi, né delle apoteosi.
Amarezza, vi aveva trovato Simone: «il tono non cessa mai di essere intriso di amarezza»; proprio questo sentimento della «miseria umana», aveva dichiarato sicura, suscita un «amore doloroso» per ciò che è minacciato dalla forza. Di «tenerezza verso le cose periture» parla Rachel. Entrambe intuiscono in Omero una compassione "che conosce".
Sì, è vero, continua Rachel, l´eraclitea: Polemos è padre e re di tutte le cose. La guerra non dà tregua. Si nutre dell´infelicità degli uomini. Ha questo solo e unico appetito e di questo appetito prospera. Gode del proprio abuso. Enorme il sacrificio umano che Ares esige.
Ma è anche vero che Ares è, a suo modo, imparziale, e uccide chi ha ucciso. E alla fine la guerra arriva a consumare le differenze; tanto che il vincitore assomiglierà a tutti i vincitori, il vinto a tutti i vinti. E non si può nascondere che v´è una certa qual "bellezza della forza", un suo «fascino ipnotizzante», addirittura narcotizzante, come la stessa Weil aveva riconosciuto. Si potrebbe addirittura dire, anzi Rachel lo afferma, che Omero «divinizza la sovrabbondanza di vita che massimamente rifulge nel disprezzo della morte, nell´estasi del sacrificio». Nella violenza, insomma. Ma anche: come non accorgersi nello stesso momento della fatalità che muta quella stessa forza in inerzia, in impulso cieco, maligno?
Non bisogna né stupirsi, né indignarsi, continua Rachel: non ci sono buoni e cattivi; nessuna falsa e semplicistica dicotomia servirà a rincuorarci. Chi si appassioni alla giustizia, dovrà convivere con il lutto della medesima. Si badi bene: non stancarsi di piangerla, di evocarla, ma nel riconoscimento che la vita non si lascia giudicare, misurare, condannare o giustificare dal vivente.
In altri termini, Rachel scopre (è qui che Omero le "serve") che "polemico" è il carattere costitutivo dell´essere. La realtà è polemos. La contraddizione è principio ontologico. Il dolore non è accidentale. In questo senso, la guerra tra Ettore e Achille non decreta un vincitore: l´uno non può togliere l´altro. Rachel è anti-dialettica, il suo pensiero è radicalmente tragico. Ha inoltre un temperamento melanconico. Per lei la contraddizione non potrà mai essere superata, non si darà sintesi dialettica delle differenze che Achille e Ettore sono.
Ma se la guerra distrugge ciò che tocca, al tempo stesso restituisce alla vita che divora un´importanza suprema: questo la poesia di Omero dimostra. Nella poesia di Omero si risolvono e pacificano i contrasti. E´ la poesia di Omero a trasportarci altrove, in quei momenti di smarrimento in cui avvengono le scelte morali e religiose, anche quando siano dettate dal destino, e perciò inevitabili; quei momenti, o quelle svolte della vita, quelle crisi, in cui l´uomo incontra se stesso, anche quando la decisione sia imposta. E´ in quella spazio di interiorità, in quell´istante che si manifesta per tutti e ciascuno il segreto dell´esistenza. A sorprendere questo segreto è la poesia, per Rachel: una poesia che abbia, come quella omerica, come quella biblica, la suprema facoltà di ricostituire quel cuore umano.
Per Simone, era l´amore, ricordate? l´amore di Dio, naturalmente; l´amore che l´uomo prova per Dio. E di Dio per lui. Mentre per Rachel è la poesia. In quanto «la poesia rapisce alla bellezza il segreto della giustizia vietato alla Storia».
Come ho detto, Rachel non tornò dall´esilio americano. In un certo senso Rachel era Ettore: provava affetti di un´esigenza terribile che le si imponevano come a Ettore la patria; sentiva responsabilità che la legavano al paese in cui l´esilio le si confermò come un destino - "cronico" lo definì. «Vivere qui» disse «è come un´amputazione». «La guerra vista da qui non ha realtà».
Ma la guerra dové viverla dentro di sé, e la violenza l´assaporò fino in fondo, quando all´età di 55 anni si suicidò. Sigillò bene le porte e le finestre e aprì il gas.
Quanto a Simone, lei era Achille. Tornò in Europa e fino alla fine dei suoi giorni non pensò ad altro, se non a come combattere l´infamia nazista. La morte le giunse per fame. Nel chiasmo della violenza, il cui cuore di tenebra entrambe avevano illuminato, le loro esistenze alla fine si strinsero. Perché se «uccidere è sempre uccidersi», non vale anche il contrario?
Repubblica 18.7.08
Franz Kafka. Il mistero delle carte perdute
Diventa un caso la storia della donna di Tel Aviv che custodirebbe manoscritti dell´autore del "Processo"
Hava Hoffe ha ereditato l´archivio, tramite la madre, da Max Brod, amico dello scrittore. Ma nessuno ha visto il materiale. Che in parte è stato anche venduto
Nel 1973 Esther Hoff fu fermata in aeroporto mentre stava partendo per l´estero con le valigie piene di preziosi materiali
La legge israeliana impedisce di esportare materiali importanti per la storia del popolo ebraico. E anche su questo è polemica
TEL AVIV. L’ultimo mistero nella tragica storia della vita di Franz Kafka è nascosto in una casetta nel centro di Tel Aviv. Viene custodito come un tesoro da cui ricavare benessere da Hava Hoffe, la donna di 74 anni che ieri per la prima volta il fotografo del quotidiano Haaretz è riuscito a ritrarre dopo un appostamento degno delle vicende dello spionaggio israeliano. Da qualche settimana la storia ha iniziato a interessare chi in Israele, in Germania, a Praga ha seguito la vicenda del più interessante scrittore in tedesco del Novecento. Articoli, manoscritti, disegni, lettere di Kafka sono in quell´appartamento.
Hava Hoffe li ha ereditati dalla madre Esther, che è morta l´anno scorso e che a sua volta li aveva ricevuti dall´uomo col quale aveva lavorato come segretaria. L´uomo era Max Brod, un grande amico di Kafka, anzi il suo più grande amico; giornalista, scrittore, musicista, Brod fu anche medico di Kafka, provò per esempio ad indirizzarlo al sanatorio di Kierling, vicino Vienna, nel tentativo di fermare la tubercolosi che inarrestabile uccise Kafka a 41 anni, nel 1924. Kafka aveva lasciato a Brod tutto il suo archivio, le lettere, soprattutto le opere incompiute, con il compito di bruciare tutto.
Brod non poteva rispettare quell´impegno, e anzi la pubblicazione delle opere non terminate di Kafka contribuì a completare proprio il disegno di «incompiutezza» dello scrittore praghese. Nel 1939, incalzato dal nazismo, Brod, anche lui ebreo, decide di spostarsi a Tel Aviv, in quella che era la Palestina del mandato britannico. Lì lavorò all´archivio, e quando morì nel 1969 passò tutto ad Esther Hoffe. In cambio di milioni di dollari, Esther riuscì a vendere negli anni alcuni dei manoscritti, riuscendo addirittura in un´occasione a organizzare un´asta in Svizzera. Nel 1973 il direttore degli archivi di Stato israeliani fece fermare dalla polizia la Hoffe all´aeroporto di Tel Aviv mentre stava partendo per l´estero con le valigie piene di carte. Oggi Yehoshua Freundlich è il nuovo capo dell´Archivio ebraico: «La nostra legge impone che tutto quanto riguardi la storia del popolo ebraico possa essere ispezionato e fotocopiato dallo Stato prima di lasciare Israele. Per questo abbiamo scritto per anni alla signora Hoffe, e adesso abbiamo scritto alla figlia Hava e anche a sua sorella Ruth». Il problema è che da quando la notizia dell´esistenza dell´archivio Kafka è stata ricordata da Haaretz all´inizio di luglio, i giornalisti, gli studiosi e anche le università di mezzo mondo sono corsi in Israele. Il più titolato è forse l´Archivio letterario tedesco di Marbach, la maggiore organizzazione privata tedesca di questo tipo. «Ho letto che anche loro volevano impossessarsi della carte di Kafka», dice Freundlich, «ma ho scritto anche a loro per ricordare che la legge israeliana impedisce di rimuovere liberamente materiali che siano di importanza per la storia e la cultura del popolo ebraico». Ieri Haaretz ricordava che anche la Biblioteca nazionale di Gerusalemme per anni ha provato a gettare uno sguardo su quelle carte: «Dal 1982 abbiamo iniziato una corrispondenza con la signora Hoffe, la speranza era quella di avere le carte conservate da Brod. Niente da fare, lei come minimo era una donna impossibile».
Adesso però un nuovo tema sembra affacciarsi attorno a questo archivio: Kafka scriveva in tedesco, sognava di vivere a Berlino: cosa c´entra con Israele, dice apertamente Shimon Sandbank, il professore che ha tradotto i suoi libri in ebraico «Israele, l´ebraismo non sono talmente decisivi in Kafka da poterci far dire che la sua eredità debba rimanere ed essere preservata qui da noi in Israele, da dover costringere gli studiosi che lavorano a Marbach a fare un viaggio a Tel Aviv solo per vedere parte del lavoro di Kafka».
Per ora comunque, le sorelle Hoffe hanno tutte le intenzioni di tener ben chiuso quell´archivio.
Repubblica 18.7.08
Gli incubi e i fantasmi che assediavano lo scrittore
Quelle opere da mandare al rogo
In una casa nel centro di Tel Aviv è custodito l´ultimo mistero della vita di Franz Kafka. Viene custodito da Hava Hoffe, la donna di 74 anni che per la prima volta il fotografo del quotidiano Haaretz è riuscito a ritrarre dopo lunghi appostamenti. Articoli, manoscritti, disegni, lettere di Kafka sono in quell´appartamento. Hava Hoffe li ha ereditati dalla madre Esther, che a sua volta li aveva ricevuti dall´uomo col quale aveva lavorato come segretaria. L´uomo era Max Brod, giornalista, scrittore musicista, e grande amico di Kafka.
Già a metà ottobre Kafka scriveva a Brod che «i fantasmi notturni» l´avevano scovato.
Quando componeva lettere o libri, gli spettri notturni, le potenze malvagie, che aveva evocato per amore della letteratura, dominavano con un piacere intollerabile la sua esistenza. Dunque, anche lì, a Berlino, era stato sconfitto.
Come combattere contro i fantasmi? Abbiamo un solo indizio. Kafka pensò a una specie di rogo rituale, dove ardere tutto quello che aveva scritto sotto il dominio degli spettri notturni: quasi tutta la sua opera. Se avesse bruciato tutto avrebbe riacquistato quella che chiamava la sua libertà diventando un altro scrittore. Si accontentò di meno. Un giorno, quando era malato, fece bruciare a Dora alcuni manoscritti, tra cui alcuni racconti e un lavoro teatrale: non sappiamo assolutamente di cosa si tratti.
Intanto parlava continuamente a Dora dell´arte nuova libera dai fantasmi, che dopo di allora avrebbe cominciato a scrivere. Ma noi non conosciamo nessun «nuovo Kafka»: il grande racconto La tana è, per esempio, un capolavoro suggerito dai fantasmi.
Tranne diversi racconti giovanili e degli ultimi mesi di vita, e alcuni importanti epistolari, Max Brod pubblicò le opere complete di Kafka. La sua edizione è buona, anche se non perfetta: la recente edizione critica non ha portato innovazioni sostanziali. La notizia data dal giornale israeliano Haaretz, sui manoscritti di Kafka che forse possederebbe la signora Hava Hoffe, solleva molti dubbi ai quali non so come rispondere. Cosa ha la signora Hoffe? Quale materiale kafkiano, ereditato dalla madre e da Max Brod? Non si capisce per quale ragione Brod, così meticoloso, non avrebbe pubblicato tutti i testi narrativi di Kafka che aveva in mano. Esiste, forse, una possibilità. Potrebbe trattarsi di epistolari, che egli non giudicava ancora adatti, per una ragione qualsiasi, alla pubblicazione.
Repubblica 18.7.08
Una storia degna di un suo romanzo
di Siegmund Ginzberg
Brod lasciò Praga nel ´39 poco prima dell´invasione nazista e portò con sé le carte in Palestina
C´è chi parla e racconta, fin troppo. E chi non parla, si tiene stretti ricordi e documenti, resistendo ad ogni sollecitazione. Conosco bene il tipo. La signora Ilse Esther Hoffe, che si è fatta beffe, fino alla sua scomparsa, della caccia mondiale all´archivio di Franz Kafka, mi ricorda mia zia Perla. Entrambe erano vissute nella Praga di Kafka. Quasi coetanee, si sarebbero potute anche conoscere. Entrambe ebree, si sono sempre rifiutate di raccontare, specialmente di quegli anni. Ilse è morta che aveva 101 anni. Senza che nessuno fosse riuscita a scucirle la bocca su quali autografi di Kafka le avesse passato Max Brod, di cui era stata segretaria e intima.
Zia Perla se n´è andata che ne aveva 104, senza mai raccontarmi, malgrado le mie insistenze, della Praga degli anni Venti, di come da entraineuse in un caffè era diventata la moglie di uno degli uomini più ricchi e famosi della Cecoslovacchia di quei tempi. «Sai, non ricordo…», il refrain di zia Perla. Un giorno, quando aveva da tempo superato la novantina, le avevo chiesto, a bruciapelo: «Ma le altre ragazze del caffè, che fine hanno fatto?» «Ah, allora sai tutto…», si era lasciata andare, ma solo per un istante. Non ho mai capito il perché di tanta insistenza sui segreti di famiglia. Perla di chi poteva avere paura? Di mia cugina, che ha passato la settantina, ha cioè pressappoco l´età delle figlie di Esther Hoffe, e che un anno dopo la morte di mia zia mi ha chiesto: «Ma mia mamma era ebrea?». Certa gente semplicemente non parla, nemmeno sotto tortura. O se parla e scrive magari si pente, come Kafka, che aveva chiesto all´amico Brod di bruciare tutti i suoi manoscritti, il quale fortunatamente disobbedì e tradì le sue ultime volontà. Max Brod lasciando Praga nel 1939, giusto poco prima dell´invasione nazista, se li portò in un paio di valigie in Palestina, allora sotto mandato britannico. Per imbarcarsi verso la Palestina potrebbe aver preso lo stesso treno da Praga che, negli stessi giorni, prese mio padre richiamato alle armi nell´esercito turco, ma questa è un´altra storia.
No, non c´entra l´Alzheimer. Non è che Perla ed Esther non ricordassero. Mi piacerebbe essere rimbambito quanto erano furbe, vispe e lucide loro da centenarie. Esther era già ultrasettantenne quando nel 1974 l´arrestarono all´aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, diretta in Svizzera con parte dell´archivio Kafka avuto in consegna da Brod. Brod, morto nel 1968, l´aveva nominata suo esecutore testamentario, esattamente come l´amico Kafka aveva fatto mezzo secolo prima con lui. Ma era Esther a custodire gelosamente tutto il materiale da prima ancora della morte di Brod. L´editore tedesco Klaus Wagenbach è uno dei pochi che possano sostenere di aver preso, negli anni Cinquanta, almeno fugacemente visione di parte di quel materiale, che, secondo la sua testimonianza, oltre ad alcuni disegni e manoscritti autografi di Kafka, comprenderebbe il carteggio di Brod. «Brod mi lasciò visionare il materiale, ma di nascosto da Esther, che non voleva fosse maneggiato o portato via da nessuno», ha raccontato alla Frankfurter Allgemeine. «Esther era ossessionata dall´idea che qualcuno se ne appropriasse, o le venissero rubati», racconta un amico di famiglia dei Brod. C´è chi sostiene che li abbia messi in banca, e quindi non li tenesse affatto nel suo appartamento pieno di gatti e cani. Non c´è dubbio che la vecchia Esther fosse pienamente cosciente del loro valore. Ma si deve pure vivere. Nel 1987 era stata battuta all´asta a New York, per oltre mezzo milione di dollari, una collezione di 327 lettere di Kafka alla "fidanzata" Felice Bauer, l´ispiratrice del personaggio di fraulein Burstener nel Processo (lei, pur non ricambiandolo molto, aveva conservato le lettere di lui, lui aveva distrutto le lettere di lei). L´anno successivo il manoscritto originale del Processo fu venduto al prezzo allora record di quasi 2 milioni di dollari da Sotheby´s. Per conto della signora Esther Hoffe. Aveva pare promesso a un editore tedesco, per una cifra notevole, se non dello stesso ordine di grandezza, anche i diari di Max Brod. Ma a tutt´oggi non si sa che fine abbia fatto la transazione.
Il termine "kafkiano" fu usato per la prima volta in inglese, sulla rivista NewYorker, nel 1947, per indicare un intrico di vicoli ciechi. Da allora è entrato nei vocabolari di tutte le lingue, compresa la nostra, con un significato anche più ricco, che comprende ogni forma di angustia dell´individuo nei confronti degli altri e del potere in generale. Devo fare una confessione: Kafka mi attira e, al tempo stesso, mi spaventa, perché ogni volta che lo ripiglio in mano sono travolto più dall´angoscia che dal piacere, insomma mi viene una voglia irresistibile di buttarmi dalla finestra. Il fascino del kafkiano non è nella sua stranezza, è nella sua ovvietà quotidiana. Come nella vicenda dei manoscritti, come dire, galleggianti. Tutti viviamo nella realtà e negli incubi di ogni giorno storie kafkiane. Non tutti sappiamo raccontarle impietosamente, spietatamente, come faceva Franz Kafka.
Il Messaggero 18.7.08
Arte. Quel ladro del Fürer
di Fabio Isman
Voleva sopprimere quella “degenerata”,
rimpatriare i dipinti tedeschi dispersi,
creare un suo museo. E ordinò razzie
in tutta l’Europa, assicurandosi con la forza
oltre 650 mila opere. Che, 60 anni dopo,
sono al centro di infinite dispute giudiziarie
DOPO oltre 60 anni, Hitler è ancora tra noi. Almeno per ciò che riguarda le opere d’arte che ha prelevato, dal 1938 al ’45, in tutt’Europa: per gli organismi ebraici, erano 650 mila; oltre 5 milioni per un soldato americano, che dal ’43 al ’51 ha lavorato ai recuperi, Harry Ettlinger. Hitler è ancora tra noi perché non sono ancora finite le conseguenze di quella razzia, voluta con mille motivazioni: sopprimere l’“arte degenerata”, rimpatriare le opere tedesche partite dalla Germania dopo il 1500, creare a Linz l’Hitler Museum. Così, s’è da poco scoperto che Cupido si lamenta con Venere della National Gallery di Londra, un capolavoro di Lucas Cranach il Vecchio comprato nel 1963, era nell’appartamento di Monaco del Führer, mai fotografato: a Washington, tra i 1.200 libri della biblioteca di Hitler, la studiosa Birgit Schwartz ha ritrovato un album con i dipinti che erano lì; questo non si sa a chi appartenesse, se ad un ebreo o no, e quindi, non si parla per ora di un’eventuale restituzione.
Come esclude una restituzione, assumendo d’avere acquistato in buona fede, l’ottuagenario Rudolf Leopold, collezionista dei più celebri, che ha aperto un museo a Vienna: vi hanno trovato 12 opere rubate dai nazisti a ebrei; anche Case sul lago di Egon Schiele, 1914. L’obbligo di restituzione, in Austria, riguarda solo le pubbliche istituzioni; ma ora, il ministro della Cultura dice che saranno varate «regole più severe». Dopo 60 anni è invece tornato alla Gemäldegalerie di Berlino il Ritratto di donna con cane di Alessandro Allori, allievo di Agnolo di Cosimo detto il Bronzino, che eterna Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I Medici; era sparito dai depositi durante la guerra, e cela una storia curiosa. Per mezzo secolo l’ha avuto un corrispondente da Berlino della Bbc, Charles Wheeler: ricevuto come regalo di nozze da un amico di Francoforte, che spiegava di averlo comprato da un soldato russo. Ma in questa storia, il clou della singolarità spetta a due album, 110 foto di dipinti francesi proprietà di ebrei essi pure francesi, ritrovato pochi anni fa, in una soffitta americana. Esibiti come prova al processo di Norimberga, 39 album simili sono negli archivi a Washington: se li faceva preparare Hitler, per scegliere cosa prelevare; e ne esisterebbero altri 40. Un soldato americano, nel 1945, ne preleva due dal Berghof, il “nido d’aquila“ sulle Alpi Bavaresi che era la dimora preferita dal Führer: vengono ritrovati dopo la sua morte.
Ma oltre 60 anni dopo, le querelles imperversano. Da Vienna sono partiti, pochi anni fa, cinque Klimt indebitamente prelevati; ma gli eredi di un mercante ebreo tedesco non riescono a riavere due Cranach (i Ritratti di Adamo e Eva) dal Norton Simon Museum di Pasadena, California: giudicata prescritta la loro richiesta. Altri eredi combattono con i musei, per un Otto Dix e un acquerello di Paul Klee. Si è ritrovato in Grecia un carnet di disegni di Van Gogh: un partigiano ellenico l’aveva sottratto da un treno nazista.
Per le sue razzie, Hitler aveva formato reparti speciali: il Sonderraufrtrag Linz, che controllava di persona, per il museo di Linz; l’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg (Alfred era il “guru” ideologico del partito), che ramazzava libri e oggetti ebraici per un futuro istituto di documentazione, s’intende antisemita: a Roma, le biblioteche della Comunità ebraica; poi, c’era il Kunstschutz. Un grande cacciatore di “arte rubata”, Rodolfo Siviero spiegava: «Hitler e Göring senza ritegno andavano accaparrando, anche con complicità italiane». Se a fine ’700 Napoleone nelle sue razzie ha per mentore Dominique Vivant-Denon, creatore del Louvre, Hitler ha al fianco Hans Posse, direttore del museo di Dresda dal ’13; e con lui, Bruno Lohse dell’Einsatzstab Rosenberg, consulente di Hermann Göring, morto, senza avere troppi problemi, a 95 anni nel 2007, la cui ombra ora riemerge.
Gisela Fischer, 87 anni che vive a Zurigo, è partita da Vienna bambina, nel ’38: due giorni dopo l’Anschluss. La casa dei suoi, subito saccheggiata dalla Gestapo. Lei cerca ancora un dipinto di Camille Pissarro, Le Quai Malaquais, Printemps. Interpella l’“Art Loss Register”, un organismo privato di Londra che recupera opere sparite. L’indagine è affidata a Jonathan Petropoulos, storico che insegna negli Usa e dirige un istituto di studi sulla Shoah e ha diretto una commissione creata da Clinton nel ’98 per ridare a chi di diritto le opere sottratte esistenti negli Usa. Questi dice di sapere dove è; la possiede una Fondazione. L’Art Register chiede molti soldi per il recupero. Petropoulos, pure: si presenta con un mercante tedesco, chiedono di più. La signora declina. La polizia di Zurigo irrompe nel caveau di una banca; con un Renoir e un Monet, trova il Pissarro. Il caveau è di una “Anstalt” del Liechtenstein, fondata da Lohse; il mercante ne era l’aiutante: è entrato nel caveau 20 volte dopo il 1988. Petropoulos dice che non sapeva, e si dimette. Indagini sono in corso. Intanto, a Gerusalemme due mostre espongono 40 opere «orfane»: tornate in Israele, ma senza padroni; e 53 francesi in cerca di chi le reclami. Davvero, dopo oltre 60 anni, Hitler è ancora tra noi.
Il Messaggero 18.7.08
«Contro le ingiustizie mi metto in ballo»
Vanessa Redgrave, accompagnata dai figli, accende il Global Fest e parla
del suo impegno sociale e politico, di povertà, di xenofobia, di bambini
E di cinema: «Amo da sempre quello italiano»
di Giovanni Luca
ISCHIA – E' sera. Luna quasi piena su Ischia, sul golfo, sulle chitarre della Nuova Compagnia di Canto popolare, su una tammurriata che impazza. Un concerto al profumo di bougainvillea e di Arabia: note che incalzano, furiose. E Vanessa Redgrave si mette a ballare. Come se fosse la cosa più normale del mondo. A settantun anni. Una larga tunica bianca, la sua magrezza. La figura dritta. I capelli di argento scintillante, senza mistificazioni. Gli occhi limpidi, da ragazzina. Balla senza esitazioni. E d'improvviso diventa leggerissima. Diventa musica.
E', quella danza, una delle gemme inattese dell'Ischia Global Film and Music Fest, il festival di cinema e musica segnato dalla presenza carismatica di Vanessa Redgrave. Una leggenda del cinema che balla. Non per esibizionismo, o per i fotografi, ma per pura gioia. Lei, figlia di un divo del cinema inglese, sir Michael Redgrave, gentleman amato da Hitchcock e da Welles, cresciuta a luci del set, apparsa nel cinema che conta tra le foto in bianco e nero di Blow Up di Antonioni, per poi correre una cavalcata lunga quarant'anni, attraverso il cinema internazionale e l'impegno politico e sociale. Lei, pasionaria e appassionata. Compagna di uomini di cinema, come Tony Richardson e Franco Nero. Madre, ancora nel segno del cinema. Joely e Natasha, le figlie, attrici di eleganza e sex appeal. Carlo Gabriel Nero, il figlio, regista. Ed è con lui, e con Joely, che Vanessa balla, il calice di vino alto. E quella voglia di perdersi nella musica, di smemorarsi nel sapore delle note che hanno spesso gli inglesi. Specie se offri loro una camera con vista sul Sud.
Poi, però, il mattino dopo, la incontriamo e parla di cose serie. E dure. Bambini, libertà, diritti umani, politica, Unicef. «I bambini sono le prime e autentiche vittime delle guerre. L'Unicef ha un compito: non fare dimenticare i bambini. Sono stata in Bosnia, Serbia, Macedonia, Croazia. Ne ho visti a migliaia. Ci sono bambini vittime delle mine, ma anche degli embarghi, della miseria, della mancanza di medicine. In Africa c'è lo sterminio di un'intera generazione di bimbi e di genitori per il virus dell'Aids». Lei, ambasciatrice Unicef da anni, fondatrice di movimenti per la pace, impegnata da sempre contro le guerre, quella del Vietnam come quella in Iraq, dice: «La convenzione sui diritti dell'infanzia sarà ratificata nel 2009. Spero che diventi un impegno anche per quei governi, come gli Stati Uniti, che ancora non si sono caricati di questa responsabilità». Clinton aveva firmato la Convenzione, dice. Ma nessun governo Usa ha poi ratificato gli accordi.
Vanessa parla di povertà: «C'è una povertà che dilaga in tutto il mondo, di cui siamo tutti responsabili. E non ci sono soltanto i bambini da proteggere. Ci sono le loro madri, gli anziani, gli imprenditori che hanno fallito, gli sconfitti di questa società. E i governi non si occupano di loro». Parla di xenofobia. Non parla direttamente dell'Italia. Ma dice: «Se ti dici cristiano, come puoi chiudere la porta di fronte a un rifugiato? Il diritto di asilo dovrebbe essere riconosciuto a chiunque. Invece c'è una xenofobia pervasiva, che si diffonde per motivi economici. La polizia di Paesi europei picchia i rifugiati stranieri. Tutto questo deve cambiare. Il cinema? Può servire anche a questo: a fare aprire gli occhi. Come il cinema italiano che ho amato. Quello di De Sica, di Rossellini, di Fellini. Ladri di biciclette e La strada hanno acceso in me la passione per questo mestiere».