domenica 20 luglio 2008

l’Unità 20.7.08
Rifondazione, Vendola «sorpassa» Ferrero
Congressi di circolo ok per il governatore, traballa l’asse tra l’ex ministro e Grassi. E Belillo (Pdci) apre
di Simone Collini


NON NASCERÀ «un grande partito comunista» dalla fusione di Pdci e Rifondazione, come vorrebbe Oliviero Diliberto. Però la complicata situazione che vive il Prc finisce per influenzare le dinamiche interne ai Comunisti italiani, che oggi chiudono il congresso di Salsomaggiore senza aver fatto registrare sostanziali novità politiche. Al di là di qualche distinguo da parte di Marco Rizzo (il cui peso nel partito è ridimensionato), il più atteso intervento ieri era quello di Katia Bellillo, che ha raccolto il 12% dei consensi attorno a una mozione che difende il dialogo con il Pd e propone l'avvio di una costituente di sinistra analoga a quella prospettata da Nichi Vendola nel Prc e da Claudio Fava per Sinistra democratica. «Qualcuno ha fatto di tutto perché ce ne andassimo ma noi non rinunciamo a questo partito», ha detto l'ex ministro. Ma se questo «non è tempo di scissioni», è perché il panorama è troppo confuso per prendere decisioni così importanti.
La Bellillo ha invitato ad «uscire dalla sindrome identitaria» e ha dato vita a un'associazione che consenta di lavorare «fuori dai nostri recinti». Aggirando così la norma da «comunismo obsoleto» del centralismo democratico che impedisce la formazione di correnti. In attesa di capire cosa succederà dentro Rifondazione.
Per saperlo bisognerà aspettare il congresso di Chianciano che si apre giovedì, e poi ancora qualche settimana. Mentre a Salsomaggiore il Pdci discuteva, la mozione Vendola ha fatto uscire i risultati dei congressi di circolo, quelli che determinano i rapporti di forza interni. Per loro, 47,57%; per la mozione Ferrero-Grassi, 40,13%; 7,57% per la terza mozione (quella più interessata alla costituente comunista proposta da Diliberto); 3,18% per la quarta e 1,51% per la quinta. La mozione Vendola ha insomma la maggioranza relativa, ma non il 50% più uno necessario a governare il partito. Dopo i pesanti attacchi reciproci delle scorse settimane, però, ora si registrano delle novità che fanno ipotizzare un congresso senza le temute lacerazioni. Ieri per la prima volta la mozione Ferrero-Grassi non ha apertamente contestato i dati diffusi dalla mozione Vendola, né ha contrattaccato quando il bertinottiano Francesco Ferrara ha sottolineato che ai voti conteggiati andrebbero aggiunti gli oltre 500 cancellati «senza motivi». Il motivo del silenzio? Per i sostenitori della mozione Vendola è dovuto a una divergenza di linea tra Ferrero e Grassi. E su questa intendono lavorare per cercare di arrivare a Chianciano con una ricomposizione il più unitaria possibile.
I bertinottiani guardano con attenzione le uscite di Claudio Grassi. In particolare, non è sfuggito il comportamento che il coordinatore di «Essere comunisti» ha tenuto al congresso del Pdci: a Salsomaggiore c'era anche Ferrero, il quale però non è stato avvisato né della tempistica né del contenuto di una nota che Grassi avrebbe fatto uscire. E che dice: «Pensare di fare coalizioni contro, in questa situazione, sarebbe un delirio». E poi, parlando non della mozione ma di Essere comunisti: «Il nostro peso è determinante per qualsiasi ipotesi di fuoriuscita dalle difficoltà». Due messaggi: uno inviato a Ferrero, che a metà settimana ha chiamato i primi firmatari delle quattro mozioni che si contrappongono a Vendola per verificare la possibilità di fare fronte comune (operazione non riuscita); e uno ai bertinottiani, che con il sostegno dei delegati portati a Chianciano da Grassi possono superare abbondantemente il 50%. A quali condizioni? Il coordinatore di Essere comunisti ha proposto un documento comune che prevede l'abbandono della costituente di sinistra e un segretario diverso da Vendola. Entrambe le cose non verranno accettate dai bertinottiani, che sanno però che quello è solo l'avvio della trattativa. Che potrebbe concludersi con la segreteria per il governatore pugliese e un incarico di vertice per Grassi, la presentazione alle europee da soli col simbolo del Prc, anche perché i tempi stretti non consentono altre operazioni credibili, e però iniziando a lavorare al processo della costituente di sinistra.

l’Unità 20.7.08
Grazia Francescato torna di nuovo leader dei Verdi
Fischi per Pecoraro. Ma la minoranza non trova un candidato unico e gli consegna una facile vittoria


È Grazia Francescato la leader dei Verdi. È stata eletta portavoce con 300 voti , mentre la minoranza ha scelto di dividersi tra la candidatura di Marco Boato, 111 voti, e quella di Fabio Roggiolani, consigliere regionale toscano, che ha raccolto 63 voti. Il tentativo di far convergere la minoranza sulla candidatura dell’europarlamentare Monica Frassoni è fallito. Appena eletta la nuova leader ha assicurato: lavorerà «per garantire maggioranza e minoranza», e tra un anno lascerà a due giovani, un uomo e una donna. Solo dopo l’elezione della sua candidata, Francescato, l'ex presidente dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio, si è presentato al congresso del Sole. La platea dei delegati lo ha accolto tra molti applausi e qualche fischio. «La minoranza - allarga le braccia l'ex ministro - deve fischiare, e di 40 fischi su 500 non me ne importa niente». Del resto ha vinto lui.
Ma la minoranza ha lottato. Molto critico Marco Boato: «Non ci deve essere nessuna resa dei conti ma serve un profondo cambiamento dal punto di vista dell'organizzazione, della linea e del programma. Con umiltà e senza arroganza cerchiamo di costruire un nuovo inizio». Tra gli errori, sostiene Boato, c’è lo schiacciamento a sinistra, l’antagonismo e l’essere percepiti come il partito del no, la separazione elettorale con il Pd. E l’altro candidato di minoranza, Roggiolani, avverte: «Se non usciamo da questo muro contro muro - avverte - andremo solo a sbattere».
Divisa al voto la minoranza, la candidata della maggioranza Francescato si è presentata relativamente sicura. «Vi garantisco la massima autonomia, Perché io sono così e quando si dovrà parlare del tema delle alleanze non coinvolgerò solo il coordinamento ma chiederò a ogni delegato di esprimersi, su questo decideremo insieme, maggioranza e minoranza, perché non abbiamo bisogno di unanimismo, ma di unità e dobbiamo ritrovare insieme la passione per quella bandiera che ci ha visti uniti». Anche se poi non saranno pochi i fischi quando proporrà Angelo Bonelli, braccio destro di Pecoraro, come coordinatore dell’ufficio politico.
Molti i fischi anche a Pecoraro, energicamente difeso da Francescato: «Sta pagando per gli errori fatti ma chiunque sia amico e non cortigiano lo avrebbe criticato quando era al potere e non avrebbe aspettato che fosse a terra per sputargli addosso». Poi ha parlato dei temi ambientali che devono tornare al centro, su cui i Verdi «hanno avuto il torto di aver avuto ragione troppo presto e troppo a lungo da soli». Ora bisogna ripartire da lì, dalle battaglie sui temi ecologici a partire dalle questioni degli Ogm e del no al nucleare.

Corriere della Sera 20.7.08
Rissa sfiorata al Sole che ride. Insulti all'ex ministro Pecoraro Scanio (che arriva solo a fine lavori)
Verdi, assise tra urla e accuse. Francescato leader
di Paolo Foschi


CHIANCIANO TERME (Siena) — «Venduti». «Tangentari ». «Camorristi». Qualcuno fa addirittura il gesto di lanciare una manciata di monetine contro il palco. Scene da Hotel Raphael. E' invece solo uno dei tanti momenti caldi del primo congresso dei Verdi dopo la batosta elettorale. Rissa sfiorata. Comincia così il nuovo corso del Sole che beffardamente se la ride sulle bandiere di partito, mentre i delegati litigano scambiandosi accuse e offese.
La resa dei conti è scattata nella seconda giornata dell'assemblea a Chianciano (Siena), riunita per eleggere il successore di Alfonso Pecoraro Scanio. Il leader uscente, contestatissimo, anche ieri ha disertato i lavori. «Gli hanno chiesto di non parlare», dicono dallo staff, «più tardi arriva». L'ex ministro, a distanza, ha comunque spinto una sua candidata: Grazia Francescato. Era stata l'ultimo presidente prima di Pecoraro Scanio. Una staffetta a due. E lei ha ricambiato: «Non siamo a piazzale Loreto, ingiusto addossare tutte le colpe ad Alfonso». Alla fine è stata eletta.
Poco dopo mezzogiorno, lo scontro. Angelo Bonelli, ex capogruppo alla Camera, dal palco illustra la mozione di maggioranza. «Basta con i veti ideologici. Serve la concretezza del quotidiano», urla al microfono, proprio mentre in sala vengono raccolte le firme contro l'estrazione del petrolio in Basilicata. Il caos scoppia quando Angelo Bonelli dice: «Non dobbiamo più vedere scempi come quello nel parco della Sila». Il riferimento è agli impianti eolici voluti dai Verdi della Calabria. La vicenda è finita al centro di un'inchiesta del pm Luigi De Magistris. Metà della sala insorge. Tutti in piedi a urlare. «Vai a casa». «Ladri». «Corrotti».
Torna la calma. Bonelli si spende per la Francescato: «Non ha mai voluto poltrone». Lei si commuove. Lacrime e abbraccio. Il dibattito va avanti. «Mai con questo Pd — dice Fabio Roggiolani, dalla Toscana —. Ma bisogna cambiare i nostri vertici». Prende la parola Maurizio Pieroni, ex senatore: «E il rinnovamento? Otto anni fa siamo partiti da Grazia. E oggi ripartiamo da lei? Autovestirsi di rappresentanza non funziona. Il consenso deve arrivare dai cittadini. E questo vertice non ha avuto consenso».
Tocca dunque a Mario Pavese, di Mantova: «Il partito esiste solo quando bisogna rinnovare la tessera, è diventato solo un centro di potere». E via con altri interventi dello stesso tono. Loredana De Petris poco dopo le 18 interrompe il dibattito per dare la parola ai tre candidati- portavoce: Francescato; Marco Boato, ex parlamentare; e Fabio Roggiolani, l'outsider.
Grazia Francescato nel suo intervento accenna alla squadra che vorrebbe nell'ufficio politico: Bonelli, l'ex sottosegretario Paolo Cento... Non può continuare. Urla e fischi. «E' questo il nuovo? Vergogna », grida un delegato della Sardegna. Alla conta l'ex presidente del Wwf esce vincitrice (300 su 507 voti). I Verdi ripartono dunque dalla donna ambientalista che in un libro ha raccontato di aver incontrato l'arcangelo Michele. Il vero miracolo sembra però un altro: alla proclamazione si materializza l'ex ministro Pecoraro Scanio, atteso da due giorni. «Mafioso, mafioso» è il grido che lo accoglie.

l’Unità 20.7.08
Quando l’America non vive più alla grande
di Roberto Rezzo


DISOCCUPAZIONE, inflazione, assalto agli sportelli bancari. La Casa Bianca cerca di tranquillizzare gli americani ma non convince nessuno. George Soros evoca lo spettro della Grande depressione del 1929. Dalla crisi dei mutui sub prime al contagio che investe tutta l’economia. La bolletta energetica è l’incubo principale delle famiglie.

È sparita dai cartelloni una celebre pubblicità di Citibank, il primo gruppo bancario degli Stati Uniti e uno dei più grandi al mondo. Suggeriva alla clientela di «vivere alla grande», investendo nei suoi prodotti finanziari e spendendo liberamente grazie a una generosa linea di credito.

Adesso ai piani alti del grattacielo al numero 399 di Park Avenue a New York hanno ben altri problemi: cercare di farsi pagare dai debitori e convincere i correntisti a non fuggire a gambe levate. Venerdì scorso, dopo la chiusura dei mercati, Citibank ha annunciato una perdita secca di 2,5 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre e una svalutazione degli investimenti pari a 7,2 miliardi. Wall Street ha tirato un sospiro di sollievo: gli analisti si aspettavano che andasse molto peggio. Nel trimestre precedente Citibank aveva perso 5,1 miliardi. Intanto a Washington i funzionari di un’agenzia governativa di cui solo gli addetti ai lavori conoscevano l’esistenza rilasciano comunicati e interviste a tutto spiano, Si chiama Federal Deposit Insurance Corporation (Fdci) e garantisce i depositi sino a 100mila dollari nel caso la banca si dichiari insolvente.
L’America ha assistito sotto shock alle immagini trasmesse da tutti i telegiornali. File interminabili davanti agli sportelli di IndyMac, la prima banca nell’area di Los Angeles e il settimo istituto Usa nel settore dei mutui immobiliari. Migliaia di correntisti accampati sotto il sole per ritirare i risparmi. L’11 giugno IndyMac è ufficialmente fallita. Su qualsiasi strada della California si vedono a centinaia le case abbandonate con un cartello davanti: «Foreclosed». Proprietà pignorate per mancato pagamento del mutuo e che da mesi non trovano un compratore. Non sono le periferie abitate dagli immigrati messicani e cinesi. Sono i quartieri residenziali con le case prefabbricate tutte uguali, quattro camere da letto, tre bagni, cucina con frigorifero monumentale, il giardino ben curato. Due o tre auto nel garage. Il sogno raggiunto della middle class protagonista di «American Beauty». Intere comunità spazzate via dalla crisi, costrette a trasferirsi in appartamenti d’affitto in città.
Nessuno parla più di depressione. Il termine è stato abolito dopo la Seconda guerra mondiale. Evocava la Grande depressione del 1929, con la gente rovinata che si gettava dalla finestra. Il panico. In seguito gli economisti hanno preferito parlare di recessione, per indicare un protratto periodo di crescita negativa. L’ultima viene fatta risalire al 2001 e ufficialmente durò appena nove mesi. L’amministrazione Bush sostiene che gli Stati Uniti adesso non sono affatto in recessione. E per spiegare la situazione ha coniato un nuovo termine «rallentamento». Per la gente comune sono parole che sembrano pronunciate da chi vive su un altro pianeta. L’ultimo sondaggio Gallup indica che l’81% degli americani sta tagliando le spese su ogni fronte possibile. Tre su quattro hanno rinunciato a qualche divertimento o a un’uscita al ristorante. Due terzi sono stati costretti a pianificare un budget mensile per la famiglia. Quasi la metà risparmia sistematicamente sugli acquisti: il 49% scegliendo prodotti di qualità inferiore, il 46% cercando articoli scontati. Il 30% si è trovato un secondo lavoro. Dall’ultima indagine pubblicata da Destination Analists, il centro studi e marketing delle organizzazioni di tour operator, risulta che negli ultimi dodici mesi c’è stata una contrazione del 45,8% nei viaggi per le vacanze. E per chiarire meglio il fenomeno, conia il neologismo «staycation». Significa passare le ferie a casa.
«C’è il rischio concreto d’andare incontro alla più grave crisi mai vista in vita nostra», ha dichiarato George Soros. E il finanziere di origine ungherese, la cui fortuna personale è stimata in nove miliardi di dollari, essendo nato nell’agosto del 1930, ha visto anche la Grande depressione. Anzi, c’è cresciuto in mezzo. Al capezzale di Fannie Mae e Freddie Mac, le due società che insieme detengono circa il 50% dei 12.360 miliardi di dollari in mutui attualmente accesi in Usa, sono stati chiamati i massimi esperti. Nessuna incertezza sulla diagnosi: o interviene il Congresso o vanno a gambe all’aria. Furono create durante la Grande depressione per cercare di rendere più accessibile l’acquisto della casa. Il loro lavoro è quello di acquistare i mutui concessi da banche e società di brokeraggio, impacchettarli sotto forma di prodotti finanziari, e rivenderli agli investitori. Sempre attraverso il sistema bancario. Il meccanismo consente alle banche di recuperare liquidità, che può essere destinata a nuovi prestiti. Il meccanismo si è inceppato con i mutui sub prime, finanziamenti capestro a tasso variabile, concessi anche in assenza di garanzie, pur di macinare commissioni. Ora il buco rischia di superare la metà dell’intero debito pubblico americano. Susan Wachter, docente all’università della Pennsylvania, spiega che la crisi finanziaria alimenta la crisi del mercato immobiliare. E che la crisi del mercato immobiliare alimenta quella finanziaria: «Siamo in un circolo vizioso».

l’Unità 20.7.08
Aversa, nell’inferno spento del manicomio
di Andrea di Consoli


Mai la psicologia potrà dire sulla follia la verità, perché è la follia che detiene la verità sulla psicologia
Michel Foucault

Migliaia e migliaia di storie e casi clinici conservati in archivio e l’ombra di tante povere vite recluse e punite per volontà delle famiglie

Viaggio in quello che fu uno dei più grandi ospedali psichiatrici d’Italia. Fondato nel 1813 da Murat ospitava i «folli» di tutto il Mezzogiorno, ma per l’epoca era molto moderno e avanzato. L’ultimo degente uscì nel 1998

All’ex manicomio di Aversa, in provincia di Caserta, mi accompagna Salvatore D’Angelo, intellettuale buono di Succivo (traduce divinamente Rimbaud, Bachmann e la Ortese in napoletano. La sua tesi è: «Anche il dialetto è metafisico»). Nel labirinto casertano, tra le mille vie che s’incrociano come un rebus, ritrovo ogni volta due geni della nostra cultura: Giuseppe Montesano, lo scrittore di Sant’Arpino, e Salvatore Di Vilio, un grande fotografo del quale, all’alba, nella hall di un albergo ambiguo e dechirichiano di Orta di Atella, ammiro la vitalità e la barba normanna.
Prima di andare ad Aversa, Salvatore mi mostra alcune foto della metà degli anni Novanta che ha fatto ai ragazzi che di pomeriggio (travestiti) andavano in discoteca nel casertano; e sono foto in bianco e nero, epperò colorate, tanto da creare un commovente effetto «fin de siècle». Poi mi mostra le foto che, negli anni, ha fatto agli chef dei matrimoni, al mare, a Praga, ecc. E beviamo caffè in ogni bar che ci capiti a tiro, e abbiamo la camicia sudata, e siamo due barbari che cercano un segreto impossibile nelle piazze, sulle strade, nei cortili che abbiamo davanti. Di Vilio è tragicamente fortunato, perché lui potrà dire ai suoi figli di aver assistito (in quanto fotografo) ai matrimoni dei camorristi, ché lui ha visto i leoni sulle terrazze delle ville hollywoodiane; lui ha visto il rito di regalare ai figli dei casalesi, durante la prima comunione, una pistola, sulla quale quei poveri ragazzi erano costretti a pisciare; lui ha visto le facce, le pose, i dinieghi, di fronte all’obiettivo, dei camorristi latitanti.
E quel che più amo, da sempre, di queste terre, è l’odore di soffritto che invade le strade, le pance esposte, larghe e scure, delle giovani donne, il fatto che c’è sempre qualcuno che cammina, finanche sulle strade più desolate (il cammino di chi, come un cane, cerca qualcosa).
La sera del mio arrivo a Succivo, Salvatore D’Angelo mi ha fatto visitare la mostra fotografica della canzone napoletana allestita nella Casa delle Arti, un ex palazzo littorio, ora destinato, dopo la felice ristrutturazione, alla cultura. Mi sono soffermato sulla foto di Carmelo Zappulla, il cantante siracusano trapiantato a Napoli (ebbe guai giudiziari e fu anche latitante, ed è rimasto nella storia della disperazione popolare con album quali Pover’ammore e Pronto Lucia).
A Giuseppe Montesano, che mi stava a fianco, si è subito illuminato il volto: «Zappulla! L’ho intervistato a Casal di Principe. Aveva i figli che erano uguali a lui. Succhiavano Coca-Cola da una cannuccia, mentre lui parlava dei suoi successi in America. Grande Zappulla!».
A me invece è tornato in mente che, una decina d’anni prima, a Sanremo, avevo osservato per un’intera notte Mario Merola al Casinò (tirava fuori rotoloni di soldi avvolti in un elastico, e stava, taciturno, col viso schiacciato sul collo taurino).
Ma perché ho chiesto a Salvatore D’Angelo di accompagnarmi all’ex manicomio di Aversa? Cosa sono queste voci del passato che mi nascono dentro? Mi aggiro come un fantasma spaesato in questo pezzo di mondo chiamato Sud Italia, e non sono mai persuaso, e mi ripeto a memoria, come un invasato, e senza capirne il reale motivo, tutti i primati del glorioso e misero Regno delle due Sicilie: 1735, istituzione della prima cattedra di astronomia a Napoli; 1754, istituzione della prima cattedra di economia al mondo, affidata ad Antonio Genovesi; 1781, redazione del primo Codice Marittimo del mondo, ad opera di Michele Jorio; istituzione del primo Ospedale Psichiatrico italiano, ad Aversa, nel 1813; costruzione, nel 1839, della prima tratta ferroviaria in Italia, sulla direttrice Napoli-Portici; istituzione del primo Centro Sismologico nel 1841, sul Vesuvio, ecc. Invece oggi sono nel regno dei miasmi, nel dominio della spazzatura e della camorra, tra le sregolatezze di una terra abbandonata a se stessa, epperò forte nei suoi oscuri vincoli familiari, in una landa in cui il disprezzo per lo Stato e per il Governo è assoluto, eppure, ogni giorno di più, sono fiero della superba intelligenza di questo Sud (Vico, Campanella, Giordano Bruno, ecc.), e voci m’inseguono, chiedendo luce, solo più luce: sono le voci degli «alienati» dei manicomi di Aversa, Girifalco, Bisceglie, Palermo (i grandi manicomi del Sud).
Quando entriamo nella «Casa dei matti» di Aversa, il sole è forte, ci fa barcollare. Ci aggiriamo, io e Salvatore, tra i padiglioni abbandonati e avvolti da erbacce fitte. A terra ci sono scatoloni, materassi, rifiuti di ogni tipo. Il custode ci aveva detto, prima di entrare: «Fate attenzione ai cani». Ma di cani non ce ne sono; piuttosto c’è qualche gatto assonnato, e a me sono tornate in mente le parole di un ex infermiere del manicomio: «I manicomi erano pieni di gatti, perché i manicomi erano il regno dei topi». Quando abbiamo visto il padiglione principale, quello che era l’ingresso del manicomio, ho detto a mia moglie: «Quando una persona entrava da questa porta, non ne usciva più». Era così; arrivare nel manicomio di Aversa significava non uscirne più. Magari entravi per una depressione e, a furia di stare tra gli escrementi e le urla degli altri, alla fine ti annientavi per sempre. Visitiamo i padiglioni dismessi (reparto femminile, maschile, agitati, semi-agitati, ecc.). C’è abbandono e squallore dappertutto (ma è uno squallore buono, come la carcassa di un inferno passato). Solo l’immaginazione lavora come una sega circolare; e quasi si riescono a vedere, se solo ci si abbandona un po’, i volti delle donne, degli uomini, dei ragazzi perduti per sempre tra gli escrementi della malattia (c’era anche chi ci nasceva, in manicomio, e per tutta la vita rimaneva chiuso nel manicomio).
Alla sinistra dell’ingresso troviamo una piccola chiesa. È chiusa con i catenacci; ed è annichilita dall’incuria, dalle erbacce, dai rifiuti (a terra ci sono scarpe, medicine, scatole di preservativi). A cosa serviva, questa chiesa? A quale Dio si rivolgevano i malati? Pagherei qualsiasi cifra pur di ritornare indietro di centocinquanta anni, e stare seduto in questa chiesa buia, tra i lamenti e le invocazioni dei malati. Bisogna assolutamente portare luce tra le vite obliate dei manicomi del Sud.
Il manicomio di Aversa fu istituito l’11 marzo del 1813 da Gioacchino Murat durante il suo «periodo napoletano». Ospitava tutti i malati psichiatrici del Sud. Oggi, negli archivi del manicomio, ci sono 35.000 cartelle cliniche «inedite», a disposizione di chi vuole dare luce e memoria a questi dannati della Storia (perché non metterle on-line? Perché non pubblicarle a puntate, magari per mezzo di un periodico? Ci sta lavorando Nicola Cunto, direttore del Centro studi dell’ex manicomio). In questa «Casa dei matti» affluivano i folli provenienti dal Regno delle Due Sicilie, e acquistò fama internazionale grazie anche a una serie di iniziative terapeutiche intraprese da Gennaro Maria Linguiti, primo direttore del manicomio, fama che sopravvisse alle fortune politiche dei francesi e che si consolidò anche con il ritorno al trono dei Borboni. Gaetano Parente scriveva che i visitatori rimanevano «attoniti del vedere per esempio un biliardo fra i pazzi, dell’udirli a suonare e cantare e talvolta recitar commedie e conversare con chicchessia affabilmente; non più catene, (…) alla reclusione antica sostituito il beneficio della vita attiva ed i giocondi passatempi e le salubri passeggiate per l’aprica campagna». Il manicomio di Aversa era un’istituzione «totale», un campo di concentramento che occultava al mondo esterno la visione del dolore e del delirio, ma era, per l’epoca, un primo segnale di interesse per il dolore psichico (l’idea era quella di dare «sollievo», ma si era ai primordi della conoscenza della psiche e dei nervi, e perciò si affrontava il problema legando, punendo, «contenendo»).
La famiglia e il manicomio, per quasi due secoli, si sono spalleggiati a vicenda nell’incapacità di leggere i segnali del rifiuto della realtà, dell’aggressività, del delirio, della mania.
Prima di uscire dal manicomio, dopo aver a lungo guardato due struzzi con la dispnea che stavano chiusi in un recinto, raccolgo le confidenze e i ricordi di un signore che è stato ispettore al Leonardo Bianchi: «Mio nonno lavorava in manicomio. Anche mio padre lavorava qui. Io ci sono entrato nel 1967. All’epoca c’erano 1.800 pazienti. Quest’ospedale era una vera e propria città: avevamo 12 mucche, con cui producevamo il latte da dare ai malati. C’era il panificio e la lavanderia. C’erano i laboratori. Si faceva anche teatro. Anzi, attività teatrale se n’è sempre fatta, in questo manicomio. La cosa che più mi ricordo, di quegli anni, è la puzza. Per quanto lavassimo, l’odore di urina e di feci era fortissimo. I muri ne erano impregnati. Le camerate erano ampie, erano corridoi lunghissimi. In ogni camerata c’erano almeno 120 persone. Venivano malati da tutta Italia, ma principalmente dalla Campania, dal basso Lazio e da Milano. Anche Alda Merini è stata qui, ma lei c’è stata prima che io arrivassi. Ho assistito parecchie volte agli elettroshock. Io sono contrario a questa pratica, ma ho visto tanti pazienti rinascere, con questo strumento di tortura. Non ho mai visto, invece, il naso sanguinare, dopo un elettroshock. Ho assistito solo a un paio di aggressioni, in tanti anni di lavoro in questo posto. Sono stato a lungo infermiere, e si è sempre fatto un uso massiccio di calmanti e di sedativi. Molti pazienti ci aiutavano. E molti li abbiamo visti morire. C’era un bel rapporto, tra di noi. L’ultimo malato psichiatrico è uscito nel giugno del 1998. Da quella data in poi non ci sono stati più pazienti in questa struttura».
Usciamo e, dopo qualche minuto, siamo di nuovo nel rebus dei paesi del casertano. E lascio il manicomio di Aversa con un «arrivederci» anziché con un «addio», perché quelle cartelle cliniche «inedite» mi appartengono, sono parte della mia storia, e prima o poi le leggerò, e passerò del tempo a capirle, per portare luce, più luce, tra le anime in pena della Storia.

Corriere della Sera Salute 20.7.08
Matti ancora da legare
di Roberto Satolli


Giorni fa, in una piccola libreria stipata e torrida, ho ascoltato agghiacciato Alice Banfi, trentenne autrice di "Tanto scappo lo stesso - Romanzo di una matta", leggere la sua esperienza di ricoveri a ripetizione dentro e fuori da una dozzina di reparti di psichiatria della penisola, nell'arco di diversi anni. Una descrizione asciutta, senza lacrime, ironica e persino amorevole di un inferno, di cui nessuno avrebbe oggi sospettato l'esistenza. I manicomi sono stati aboliti trenta anni fa grazie all'opera di Franco Basaglia, ma dietro le porte (quasi sempre chiuse) dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura le persone che hanno un disturbo mentale sono ancora oggi spesso trattate come se non avessero gli stessi diritti degli altri cittadini. I malati vengono legati al letto o chiusi in camerini di isolamento, con modalità che farebbero giustamente scandalo se venissero attuate su pericolosi criminali o sospetti terroristi: chi vuole capire può leggere le pagine di Alice, che sono un'occasione unica di vedere ciò che è normalmente sottratto agli occhi dei non addetti.
E non è il racconto di una matta. Nella prefazione al libro, lo psichiatra di Trieste Peppe Dell'Acqua riferisce che l'Istituto superiore di sanità, pochi anni fa, ha organizzato una indagine nei 285 servizi psichiatrici italiani, fotografando quanto vi accadeva nell'arco di 3 giorni. Da quella ricerca risulta che 200 servizi dichiarano di usare comunemente mezzi di contenzione, e che in 85 vi era almeno una persona legata al momento della rilevazione, in un caso addirittura quattro contemporaneamente. Risulta anche che gli uomini sono legati più delle donne (ma in un centro era legata al letto addirittura una ragazzina di 14 anni) e gli immigrati, guarda caso, più dei locali.
Anziché facili effetti di indignazione, si vorrebbe poter proporre qualcosa di concreto, una legge di un solo articolo che dica "La contenzione è vietata". Ma forse è un'ingenuità: qualsiasi proibizione sarebbe vanificata, senza un cambiamento generale di mentalità. Più che la repressione e le denunce contano gli esempi in positivo. La statistica dell'Istituto superiore di sanità già dice che nello stesso paese almeno 85 servizi riescono a fare a meno di legare i matti, nonostante che abbiano probabilmente gli stessi problemi organizzativi e le stesse carenze che vengono addotte altrove come scusanti. Sul sito del Forum di salute mentale (www.forumsalutementale.it) si trova un Club dei servizi psichiatrici "no restraint", che conta al momento quindici centri, da Trieste ad Aversa, da Novara ad Enna. Sono luoghi dove i malati ricevono ascolto, sostegno, comprensione, senza lacci e senza porte sbarrate. Bisogna farli conoscere, per far crescere anche negli altri la volontà di fare altrettanto.

l’Unità 20.7.08
Eluana, quando la sacralità è disumana
Sradichiamo la violenza dall’apparato mummificato delle culture del sacro
di don Enzo Mazzi


Eluana Englaro cesserà di vivere o ricomincerà a vivere? Questo interrogativo scuote le coscienze di fronte alla interruzione dell’alimentazione forzata di una donna da sedici anni in coma irreversibile. La vita di Eluana è identificabile col battito cardiaco o con la funzione digestiva assicurate non dalla autonomia del proprio sistema biologico ma solo dalla potenza della tecnologia medica, oppure è forza vitale in continuo divenire che preme per essere liberata da un corpo che da se stesso non sarebbe più in grado di contenerla? E chi ama di più la vita: la suorina che vorrebbe continuare ad alimentare forzatamente la donna in coma o il padre che ha scelto di generare di nuovo la figlia liberando la forza vitale di lei imprigionata da sedici anni in un corpo incapace di funzioni vitali autonome? E non è tutto. Perché l’interrogativo riguardante la vita e la morte di Eluana è forse la domanda fondamentale che accompagna l’umanità fin dalla sua origine e che costituisce la spinta della trasformazione creatrice. Eluana è tutti noi, è ogni donna e ogni uomo.
Mia figlia - ha detto a più riprese il padre di Eluana - aveva un senso del morire come parte del vivere e non avrebbe accettato di essere una vittima sacrificale di una concezione sacrale della morte come realtà separata e opposta alla vita.
Può darsi che sfugga la pregnanza di un simile messaggio. Ma è proprio lì in quell’angoscioso intreccio di vita/morte che si radica da sempre ed oggi in modo particolarmente intenso la spinta della evoluzione culturale.
Al fondo della crudeltà insensata che tutt’ora insanguina il mondo c’è la persistenza di un senso alienato della vita derivante dal dominio del sacro e dalla sua penetrazione nella società moderna. La vita è sacra. È un principio etico fondamentale. Ma è sacra in quanto parte della sacralità di un tutto in divenire che comprende finitezza e morte. Questo dice la saggezza dei secoli a chi ha orecchi per intendere. La cultura sacrale invece separa la vita dalla sua finitezza. La vita viene sacralizzata come dimensione astratta contrapposta alla dimensione altrettanto astratta della morte. La sacralità, intesa come astrazione, separazione e contrapposizione fra le varie dimensioni della nostra esistenza, è la proiezione di un’angoscia irrisolta, di una frattura interna, di una mancanza di autonomia e infine di una alienazione della propria soggettività nelle mani del potere.
La critica che è rivolta alla gerarchia cattolica ormai da molti credenti, compresi tanti teologi e teologhe di valore, riguarda proprio la incapacità a liberarsi e liberare dal dominio del sacro. "La proprietà dell’Evangelo è quella di metterci in una intransigente lotta contro il sacro … in quanto la sacralizzazione è la stessa cosa che l’alienazione dell’uomo … ma noi dobbiamo constatare che la fede cristiana si è come corrotta, imputridita …". Queste affermazioni forti di padre Ernesto Balducci sono condivise da molti nella Chiesa e sono alla base della critica per l’intransigenza della gerarchia verso le posizioni etiche espresse da Eluana e dai genitori di lei.
È un compito immane la liberazione del profondo dalla cultura sacrale che genera violenza. Bisogna andare finalmente alle radici, individuare e tentar di sradicare il gene della violenza che cova in tutto l’apparato mummificato, simbolico e normativo, delle culture del sacro tanto laiche che religiose.
Ognuno deve fare la sua parte, dovunque si trova ad operare, usando gli strumenti di conoscenza e di saggezza che gli sono stati forniti dall’esperienza di vita e dalla rete delle relazioni che ha potuto intrecciare.
Eluana e suo padre stanno facendo la propria parte. Seminano senso positivo della vita con sofferenza e con forza.
A loro dobbiamo essere profondamente grati.

Corriere della Sera 20.7.08
Dossier abusi Sono 4.392 i sacerdoti statunitensi accusati dal 1950 al 2002
Il record americano e i diciassette casi italiani
Dai primi scandali negli Usa alle denunce in Europa
In Brasile 1.700 imputazioni in un anno, ma negli Stati Uniti i casi sono decisamente in calo dopo il Duemila
di M.Antonietta Calabrò


Le deviazioni sessuali nei rappresentanti della Chiesa si manifestano soprattutto negli Usa: a Los Angeles sono 660 i milioni di dollari versati alle circa 500 vittime accertate Ma anche in 24 città italiane ci sono casi di violenze

Europa. In Inghilterra, Francia, Croazia e Irlanda sono quasi 150 i preti cattolici coinvolti in violenze
I costi. Tra spese legali e indennizzi il costo delle cause in Europa è stato di 7,8 milioni di euro

L'ultimo maxirisarcimento per le vittime dei preti pedofili americani lo ha deciso l'arcivescovado di Denver (Colorado) il 2 luglio 2008 versando 5,5 milioni di dollari per risolvere in via amichevole 18 denunce presentate contro tre preti, ormai morti. È di venerdì, 18 luglio, invece, l'ultima denuncia per un prete americano accusato di aver molestato una minorenne a bordo di un aereo partito da New York. Il prete è tornato in libertà su cauzione (10mila dollari), ma non può avvicinare minorenni per ordine del Tribunale.
Due casi che da soli illustrano il dramma della Chiesa americana dove per prima è esploso lo scandalo pedofilia che ha contagiato la Chiesa cattolica fino in Australia. Ma anche in Italia l'ultimo arresto clamoroso risale a non più di venti giorni fa, il primo luglio, quando in carcere finisce un prete romano di 55 anni, Ruggero Conti, parroco della Natività di Maria Santissima: è accusato di aver ripetutamente abusato di minorenni negli ultimi dieci anni. Sette, al momento, le sue vittime accertate (tutti maschi). Durante l'ultima campagna elettorale, il prete era stato uno dei cinque testimonial («garante per la famiglia») per il candidato, e poi sindaco, Gianni Alemanno che ha chiesto «ai magistrati e agli inquirenti tutta la chiarezza possibile e di non fare sconti a nessuno ».
Nel nostro Paese nel 2000 si segnalano casi di arresti o di condanne di sacerdoti a Foggia, Ferrara, Napoli, Torino, Modena, Milano. Nel 2001 a Genova e a Milano, nel 2002 ancora a Napoli e Milano. Nel 2003 a Bergamo, Milano, Teramo, Palermo, Cuneo, Oristano. Nel 2004 la lista delle città colpite si allunga: Forlì, Torino, Roma, Varese, Grosseto, Nuoro, Agrigento Alessandria, Bari, Savona. Nel 2005 Como, Cuneo, Arezzo e ancora Napoli. Nel 2006 di nuovo Roma, Ferrara e Lecce. In tutto 17 condanne (dal 1991 al 2006) e 22 incriminazioni. Ma per avere un termine di confronto va tenuto presente che in Italia i sacerdoti diocesani nel 2003 erano in tutto 35.019.
Negli Stati Uniti la Conferenza episcopale nel 2004 ha pubblicato un documento ufficiale che si è avvalso di uno studio statistico del John Jay College of Criminal Justice della City University of New York, che è unanimemente riconosciuta come la più autorevole istituzione americana di criminologia. Queste statistiche dicono che dal 1950 al 2002 4.392 sacerdoti americani (su oltre 109.000) sono stati accusati di relazioni sessuali con minorenni. L'81% dei sacerdoti accusati erano omosessuali. Il record assoluto dei risarcimenti si è verificato nella diocesi di Los Angeles (660 milioni di dollari alle circa 500 vittime accertate a partire dagli anni Quaranta) e di Boston. Già lo studio del John Jay College notava però il «declino notevolissimo » dei casi negli anni 2000: le nuove inchieste sono state poche, e le condanne pochissime (un effetto delle politiche di «tolleranza zero» dei vescovi seguite alle direttive del cardinale Ratzinger prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede).
In Brasile a cavallo tra il 2005 e il 2006 sono stati denunciati 1.700 preti per violenze, orge e uso di droga nei confronti di bambini piccoli, per lo più estremamente poveri. In almeno due casi a testimoniare la veridicità dei racconti delle vittime sono stati gli stessi violentatori che hanno riportato le loro esperienze su un inquietante diario.
Il quadro mondiale, insomma, è allarmante. Numerosi casi anche in Inghilterra, Francia, Croazia e Irlanda.
Quasi 150 preti cattolici e religiosi di Dublino sono stati coinvolti negli ultimi 67 anni. Tra spese legali e indennizzi il costo è stato di 7,8 milioni di euro.

Corriere della Sera 20.7.08
Scola: politiche per la famiglia Il governo deve fare molto di più
Il Patriarca di Venezia: cambiare la legge sull'aborto, non si può stare fermi
intervista di Aldo Cazzullo


Penso soprattutto a due elementi: l'equità fiscale e una effettiva conciliazione tra famiglia e lavoro
Bisogna dire con chiarezza che il divorzio è e resta una ferita grave per la nostra società
Sul caso di Eluana e sull'aborto Ferrara fa opera di cultura e di civiltà È bene che questi temi siano sollevati con forza
Quanto il Papa, con coraggio estremo, ha fatto sulla pedofilia, è una risposta inequivocabile

Angelo Scola, patriarca di Venezia, uomo tra i più vicini a Wojtyla e Ratzinger, è al lavoro nella sua stanza in Patriarcato, tra le targhe che ricordano i predecessori Roncalli e Luciani. Oggi, nel discorso del Redentore, affronterà il tema della famiglia, anche sotto l'aspetto economico e politico. «Una società che si va facendo sempre più liquida ha bisogno di qualcosa di solido. La famiglia in Italia è un fattore decisivo di solidità. Se poi viene riconosciuta come un capitale sociale, rappresenta un elemento importante su cui far leva per la vita buona; in senso morale ma anche economico. Per questo la politica e il governo devono fare di più, molto di più».
Patriarca, la famiglia sembra essere anche in Italia vittima della secolarizzazione.
«La secolarizzazione non è la stessa in tutti i paesi. In Italia non è come in Germania, in Francia o in Spagna. Uno dei fattori che fa la differenza è proprio la famiglia. Lo dimostrano i dati Istat e Censis: l'indice di divorzio in Italia è tra i più bassi d'Europa; le convivenze quasi sempre sfociano nel matrimonio; quando indica le aspettative primarie della vita, la donna, che oggi lavora di più, mette al centro il matrimonio e la maternità. Più della metà delle famiglie ospita in casa un genitore anziano, nel 90% di esse ci si trova a mangiare insieme almeno una volta la settimana. La cura che i nonni hanno dei nipoti integra un welfare che è ancora assai discutibile. Certe cose — penso alla sofferenza e alla morte — si imparano più dai nonni che dai genitori. E l'indice del dono, della gratuità, è in crescita non solo nel passaggio dai genitori ai figli, ma anche dai figli ai genitori».
I dati che lei cita sono spesso letti come segno di arretratezza, a cominciare dai giovani che restano fino all'età adulta a casa di papà.
«Credo che dobbiamo superare un concetto equivoco di progresso, per cui tutto l'inedito — e in questo clima di fluidità spesso inedito equivale a capriccioso, a non verificato — è progresso, e tutto ciò che rinnova la tradizione è conservazione. L'Italia per fortuna ha un popolo ancora sano, che si ribella a questo dualismo di stampo manicheo. Il vero progresso sa innestare il nuovo sull'antico. La famiglia è un fattore di progresso, ed è anche un attore economico molto importante, pur se spesso dimenticato. In famiglia si decide dei consumi, del reddito e del risparmio; soprattutto, la famiglia ha un grande valore economico nella formazione del capitale umano e sociale. Lo riconosce persino la Banca Mondiale, che pure è ossessionata dal
family planning, dai programmi contraccettivi. In futuro questo suo ruolo sarà ancora più importante, perché un paese come il nostro non può reggere senza un'innovazione fondata su educazione, conoscenza, cultura. Questi sono dati oggettivi che, a mio parere, rendono politicamente intelligente intraprendere azioni a sostegno della famiglia. Penso soprattutto a due elementi: l'equità fiscale, e una effettiva conciliazione tra famiglia e lavoro».
La sua impressione è che in Italia la politica, al di là delle enunciazioni di principio, trascuri la famiglia?
«Sì, in Italia la politica non ha ancora fatto questo passo, di fatto rimanendo arretrata rispetto ad altri paesi. Il che è paradossale, perché la forza della famiglia è molto più rilevante da noi che altrove. Un progetto globale di sviluppo dovrebbe mettere subito in primo piano un sistema di politiche familiari avveduto. Non ridotto alla mera dimensione para-assistenziale, ma capace di valorizzare la soggettività affettiva, economica, politica ed etica della famiglia».
Che cosa dovrebbe fare il governo? Lei parla di equità fiscale. In campagna elettorale si è proposto il quoziente familiare. Ma non è stato introdotto né annunciato.
«Se si vede l'importanza educativa, sociale ed economica della famiglia, allora si capisce perché è conveniente fare una politica fiscale che la valorizzi come risorsa. Questo comporta anche un diverso modo di concepire l'economia; il fatto che negli ultimi anni si parli di più di sussidiarietà e solidarietà, e di capitale umano e sociale, è un segno positivo. Da una parte, il mondo cattolico ha trascurato troppo a lungo l'importanza del mercato. Dall'altra, non si può ridurre tutto alla sfera del mercato ma, al contrario, il mercato va inserito in una visione umana e culturale più intera e potente. Vengo dal Kenya e ho visto la tragedia della miseria e della fame nel Sud del Sahara ».
Tremonti parla di crisi del mercatismo.
«Al di là del neologismo, certo il mercato è un fatto culturale, non è un fatto naturale che procede per leggi rigide ed immodificabili. È qualcosa su cui possiamo incidere. L'economia ha le sue leggi, ma la scoperta che l'economia sta facendo della famiglia mi sembra significativa. La critica al mercatismo è benvenuta. Purché ne derivi una politica conseguente».
C'è un ritardo di cultura e anche di norme?
«Certamente. Si tratta di coniugare un progetto a lungo termine con un progetto a medio termine e con uno di intervento immediato. Questo non è più procrastinabile, come molte forze sociali hanno chiesto. A me sembra che, per quanto riguarda l'equità fiscale, si debba lavorare con questa tempistica ma cominciando subito. Non mi avventuro nella traduzione tecnica di questa indicazione, mi limito a costatare un dato di fatto: da noi la famiglia più è famiglia più è penalizzata. Prevale una concezione della convivenza sociale in cui i due unici attori sono il singolo individuo, considerato come separato e come portatore di diritti e non di altrettanti doveri, e l'istituzione statuale. Come se non esistessero i corpi intermedi. Come se in mezzo non ci fosse la vita della società».
C'è qualcosa da cambiare anche in tema di divorzio?
«Innanzitutto, dovremmo avere maggior attenzione per i più deboli. I bambini avvertono moltissimo la perdita del riferimento alla coppia d'origine. Hanno un bisogno assoluto dell'unità dei differenti, del papà e della mamma. Per questo quando si fanno interventi politici o in campo economico, far prevalere la famiglia comporta il tener ferma la famiglia d'origine, anche in caso di divorzio o separazione. Questo per me, uomo di Chiesa, implica dire con chiarezza che il divorzio è e resta una ferita grave per la nostra società».
Sta dicendo che valeva la pena a suo tempo combattere la battaglia per l'abolizione del divorzio, e che questa è una battaglia che non finisce?
«Sulla questione del matrimonio, della famiglia e della vita non si può stare fermi».
Va cambiata la legge sull'aborto?
«Anzitutto la legge deve essere applicata in tutta la sua ampiezza. E su certi punti deve essere ripensata; ovviamente in maniera rispettosa della natura procedurale della nostra democrazia. Per questo una società plurale veramente laica esige che ogni soggetto non solo abbia il diritto ma senta anche il dovere di esprimere sino in fondo la propria visione delle cose».
Campagne culturali come quelle di Giuliano Ferrara sono utili o controproducenti?
«Io reputo che su questioni come l'aborto, come la vita — penso al caso Englaro —, mettersi in gioco pagando di persona sia di decisiva importanza. Al di là delle scelte tecnico-politiche, Ferrara fa opera di cultura e di civiltà. Nessuno può permettersi il lusso di non lavorare con serietà su questi temi. È bene che siano sollevati con forza».
La Chiesa è considerata in particolare sintonia con il centrodestra, guidato da leader divorziati. Sono difensori credibili della famiglia?
«In questo campo il nemico numero uno si chiama moralismo, cioè la pretesa di giudicare la verità di una proposta a partire dalla debolezza e dalla fragilità di chi la formula impancandosi a giudici. Noi preti questo lo sappiamo fin troppo bene, perché siamo uomini fragili come tutti gli altri e siamo sempre sotto tiro. Ma avere misericordia verso la fragilità non significa creare una separazione radicale tra vizi privati e pubbliche virtù. Io non credo nella doppia morale. Non penso che la moralità personale sia incidente sull'azione sociopolitica di un leader. Da questo punto di vista, rimpiango figure di politici e statisti — che tuttavia non mancano del tutto neanche oggi nel nostro paese — che hanno sempre cercato di coniugare dimensione personale e dimensione sociale della morale. Comunque alla fine chi ha una responsabilità legislativa e di governo produce atti che hanno sempre un valore pedagogico oggettivo. Non è indifferente legiferare in un modo piuttosto che nell'altro, difendere la famiglia o non farlo».
Qual è la reale dimensione della questione pedofilia tra i sacerdoti?
«Ci sono esagerazioni e manipolazioni ideologiche, anche per una certa responsabilità dei media. Detto questo, credo che quanto il Santo Padre, con coraggio estremo, ha fatto negli Stati Uniti ed ha ribadito a Sydney, sia una risposta inequivocabile. La ferita inferta ai minori in questo campo è gravissima e tradisce la testimonianza cristiana. La scelta della tolleranza zero da parte della Chiesa è una scelta drastica ma giusta».
Non le manca mai il fatto di non essersi formato una famiglia?
«Ma la verginità, nel mio caso il celibato, è un altro modo di realizzare sino in fondo la propria affettività, compresa la propria sessualità. Nella misura in cui uno è veramente chiamato e fa l'esperienza di questa forma progressiva di compimento del suo io, non vive con senso di privazione il fatto di non avere una sposa o dei figli. Io non la sento come una mancanza; eppure mi sembra di essere un uomo affettivamente equilibrato».

Corriere della Sera 20.7.08
Impronte ai bambini rom. Sì dal 67% degli italiani
di Renato Mannheimer


La proposta di rilevare le impronte digitali ai bambini nei campi nomadi ha suscitato un dibattito ampio e contrastato. Il ministro Maroni, proponente principale dell'iniziativa, l' ha motivata prevalentemente con motivi di sicurezza: la riconoscibilità dei soggetti, legata all'unicità dell'impronta digitale, ne permetterebbe un controllo più agevole. Ma, accanto a queste motivazioni, si è sottolineato, come, in questo modo, si faciliti anche l'imposizione dell'obbligo scolastico e di altri adempimenti sociali.
Queste ragioni non hanno persuaso le forze di opposizione e svariati esponenti della società civile, che hanno ravvisato nella proposta una vera e propria schedatura dei bimbi rom: un atto di discriminazione fondato sull'etnia, tale da evocare le leggi razziali del 1938 (che furono precedute proprio da un censimento delle minoranze «sospette»). Malgrado queste pesanti obiezioni, la maggioranza degli italiani pare vedere con favore il provvedimento. Con un'accentuazione di giudizi positivi tra gli strati socialmente meno centrali, possessori di titoli di studio più bassi, residenti nei comuni di minori dimensioni, casalinghe.
Ma le differenze più significative nel giudizio si registrano, ovviamente, considerando l'orientamento politico. Gli elettori di centrodestra si schierano nettamente a favore del provvedimento: nella Lega il consenso è al 92%, mentre nel Pdl si colloca poco al di sotto dell'80% (il che mostra che anche all'interno del partito di Berlusconi, c'è un'area di dissenso, pari grosso modo al 15%). Specularmente, tra i sostenitori delle forze di opposizione emerge una maggioranza di contrari: assai più accentuata però tra gli elettori della Sinistra radicale che tra quelli del Pd dove la proposta del ministro leghista raccoglie comunque il 44% dei consensi.
Un così elevato favore si spiega tenendo presente: a) l'argomentazione relativa alla necessità di far adempiere i minori «schedati» all'obbligo scolastico. È un tema cui gli italiani sono molto sensibili: l'idea, più o meno fondata, che i genitori abbiano voluto sottrarre i loro figli all'istruzione, porta generalmente ad una forte avversione verso di loro.
b) più in generale, la diffusa ostilità verso i rom. Tra tutte, questa minoranza è la meno amata e, non a caso, la sua numerosità è decisamente sopravvalutata.
c) l'intensa crescita del senso di insicurezza. Spesso legato più ad un'impressione — dettata anche dai media — che da esperienze vissute personalmente. Tanto che la percezione di aumento della criminalità risulta minore nel contesto in cui si risiede e si accresce man mano che si prendono in considerazione realtà più «lontane»: il 48% ritiene che nell'ultimo anno la criminalità sia aumentata nel quartiere in cui vive, mentre ben l'85% ha questa sensazione se si parla più genericamente dell'Italia nel suo insieme. È probabile che il governo abbia tenuto conto di questo «clima di opinione» nel varare il provvedimento.

Repubblica 20.7.08
Vendevano tartarughe e braccialetti I bagnini sono riusciti a salvare le amiche
Due bimbe rom annegano a Napoli "In quella spiaggia tanta indifferenza"
di Stella Cervasio e Maria Pirro


Arrivate dal campo di Secondigliano per vendere piccoli monili fra gli ombrelloni
L´accusa dei soccorritori: "Fra i bagnanti tanti sono rimasti indifferenti"

NAPOLI - Quattro bambine rom vanno al mare per vendere tartarughe e braccialetti. Hanno caldo e fanno un tuffo vestite, perché non indossano i costumi. Sono sole, non c´è a nessuno a dir loro che non si fa il bagno appena dopo mangiato, quando il mare è agitato e non si è capaci di nuotare. Violetta e Cristina Ebrehmovich, dodici e undici anni, muoiono annegate mentre la spiaggia è affollata e le onde crescono sul litorale flegreo, a Torregaveta. Le altre due, Manuela di quindici anni e una bambina di otto, vengono invece salvate dai soccorritori. Ma la spiaggia volta le spalle alla tragedia: mentre i corpi senza vita delle bambine sono ancora sulla sabbia, c´è chi continua a far colazione e a prendere il sole a pochi metri.
È sabato mattina, ci sono un centinaio di bagnanti. Molti evitano di tuffarsi, gli stessi bagnini consigliano di non allontanarsi troppo dalla riva e di tenere i bambini sotto l´ombrellone. Quando il mare è agitato a Torregaveta le correnti non perdonano e, se non si è nuotatori esperti, si corre il rischio di essere ingannati dalle secche.
Le quattro ragazzine hanno preso il treno che dal centro storico di Napoli porta i bagnanti sulla costa flegrea che va da Pozzuoli a Monte di Procida. Mangiano i loro panini, ma il caldo è troppo forte. Non resistono alla tentazione di tuffarsi. Lasciano le borse e le scarpe sul pontile e vanno in acqua. L´ipotesi è che si siano sentite male. Il mare forza due le travolge. Fanno appena in tempo a chiedere aiuto. Le grida vengono sentite da terra da due bagnini delle vicine spiagge private, che si lanciano subito verso le piccole. Due di loro vengono raggiunte e portate in salvo a riva. Si tenta inutilmente di raggiungere le altre due. Ma i corpi scompaiono tra le onde. C´era stata anche una telefonata al 118: alle 13.46 una donna che vede la scena chiede l´intervento dei soccorritori. Che arrivano quando le prime due bambine sono in salvo. La Capitaneria di porto spedisce i suoi uomini su un gommone mentre i vigili del fuoco cercano di avvicinarsi a bordo di una motobarca. Ma le bambine vengono trascinate lontano e solo il mare, più tardi, restituisce i corpi senza vita. Inutile il tentativo di rianimarle, una volta recuperate a 150 metri dalla battigia.
L´autista del 118, Pasquale Desiato, racconta le operazioni di recupero: «All´improvviso ho notato i corpi in lontananza, mi sono avvicinato e ho afferrato la più piccola per un braccio, ma mi è sfuggita ed è scomparsa di nuovo. Quando le abbiamo portate a terra non c´era più niente da fare. Avevano bevuto tanta acqua». Sulla spiaggia le altre due bambine piangevano disperatamente. Sono state loro a fornire le generalità dei genitori delle annegate: il padre e uno zio, di origini slave ma con documento di identità italiani, sono stati rintracciati nel campo rom di Secondigliano e accompagnati alla Capitaneria di Porto di Pozzuoli, dove hanno riconosciuto i corpi.
La Procura ha aperto un´inchiesta sulla morte delle piccole. Violetta e Cristina vivevano nell´accampamento di Secondigliano, il primo in Italia dove è iniziato il censimento ordinato dal ministero dell´Interno anche per i rom minorenni dai quattordici anni in su. Sorprendente la reazione dei bagnanti: «Abbiamo recuperato i corpi tra l´indifferenza generale», dice l´autista dell´ambulanza.

Corriere della Sera 20.7.08
Il tirapugni di Padre Pio
di Sergio Luzzatto


Hanno perso un'ottima occasione per tacere certi amministratori di sinistra del comune di San Giuliano Terme (Pisa), denunciando il rigoroso studio di Antonio Carioti sugli Orfani di Salò (Mursia) come un insidioso libello neofascista. Se appena si fossero degnati di leggerlo, ne avrebbero imparate delle belle sul variopinto demi-monde missino dei tardi anni Quaranta, e anche su certi suoi sorprendenti fiancheggiatori. Uno di questi era Padre Pio, il cappuccino con le stigmate. Che fin dagli anni Venti aveva contato fra i suoi protetti un caporione squadrista, il «ras» di Foggia Giuseppe Caradonna. E che nell'Italia del 1949 — si apprende dal libro di Carioti — conferì una specie di benedizione al tirapugni di Caradonna junior: il neofascista Giulio, che lo usava per scazzottarsi con i comunisti nelle vie di Roma. Benedetto (o quasi) da Padre Pio, quel tirapugni veniva trattato dalla madre di Giulio, devotissima terziaria francescana, come una metallica reliquia.

Corriere della Sera 20.7.08
Contestatori Un doppio numero di «Critica sociale» sulla sinistra italiana ostile alla «Primavera» cecoslovacca
Il Sessantotto che negò Praga
«Una rivolta socialdemocratica, bisogna tornare a Lenin»
di Dario Fertilio


Il numero doppio della rivista «Critica sociale », con il saggio di Paolo Sensini «I due Sessantotto» sul dissenso e la contestazione italiana dal 1968 al 1977, sarà presentato martedì alle 18.30 a Roma, in via del Seminario 76, sala del refettorio. Parteciperanno Stefania Craxi, Ugo Finetti, Ernesto Galli della Loggia, Carlo Ripa di Meana, Stefano Carluccio.

Che facevano i bravi ragazzi del Sessantotto al tempo della Primavera di Praga? Giravano la testa dall'altra parte. Al potere allora non ci andò l'immaginazione, ma più prosaicamente la fila di carri armati sovietici che il 20 agosto fece tremare i vetri dei palazzi cecoslovacchi. Si sarebbe potuto almeno scendere in piazza: ci si smarrì invece fra ta-ze-bao e analisi astratte, concludendo che laggiù non stava succedendo proprio niente d'importante, era in corso uno scontro fra conservatori e reazionari. Perché il vero socialismo, s'intende, era tutt'altra cosa, e occorreva leggere al di là degli avvenimenti, tornare a Lenin o abbeverarsi alla saggezza di Mao Ze Dong, non lasciarsi ingannare da uno «pseudosocialismo». Fu strabismo ideologico, e ne fu vittima la grande maggioranza della sinistra radicale. Con l'aggravante di perseverare nella cecità ideologica durante gli anni successivi, quelli dell'esilio a Solgenitsin ('74), e fino alla Biennale veneziana del Dissenso ('77).
A quel colossale abbaglio la rivista Critica Sociale dedica ora un numero doppio, che comprende diversi interventi (fra cui quello del direttore Ugo Finetti), un articolo d'epoca (firmato sull'Avanti! nel 1978 da Ernesto Galli della Loggia con il titolo significativo Praga '68 e l'intellettuale «surrogato» ), e un editoriale affidato all'uomo che guidò la Biennale veneziana durante la storica edizione del '77, Carlo Ripa di Meana. Tuttavia il cuore della ricerca porta la firma del filosofo e storico Paolo Sensini, che ha passato al setaccio la stampa dei gruppuscoli, ossia la galassia della sinistra extra-parlamentare.
Risulta che, al di là delle mitologie libertarie, i sessantottini subirono pesantemente l'egemonia culturale del Pci, così espressa dal segretario Luigi Longo su Rinascita: «La nostra collocazione è del tutto chiara e irrinunciabile. Noi staremo sempre dalla parte del socialismo». Persino il gruppo del «Manifesto», che in seguito maturò la sua storica scissione dal Pci anche come conseguenza dell'invasione sovietica a Praga, non uscì mai dalla vecchia logica, sostenendo non che ci voleva più libertà ma un ritorno a Lenin, in modo da «accorciare la distanza fra avanguardia e classe » e insomma bisognava «da Marx tornare a Marx».
Ma se il gruppo di Lucio Magri e Rossana Rossanda si sforzò almeno di cogliere la crisi del comunismo, i gruppi ancora più a sinistra bevvero sino in fondo la pozione ideologica e assunsero posizioni che, col senno di poi, appaiono quasi incredibili. «Potere Operaio», ad esempio, disquisì a lungo sulle «buone e cattive intenzioni dei socialisti dal volto umano», giungendo alla conclusione poco lungimirante che «nella Patria della rivoluzione», cioè l'Urss, e negli altri Paesi del «campo socialista», «vigesse tutt'ora il modo di produzione capitalistico », e che questo fosse la causa di tutto. Sostituite il «capitalismo di Stato sovietico» con la «Rivoluzione culturale cinese», invocava il giornale, e vedrete se «il progetto grandioso di Lenin » non riprenderà a marciare!
Più severi di «Potop», i Quaderni Piacentini liquidavano i fatti di Praga come «socialimperialismo della burocrazia sovietica»: anche qui il maoismo avrebbe costituito «un correttivo alla rivolta spontanea, anarcoide, populista e pseudoreligiosa». Invece Problemi del socialismo, diretto da Lelio Basso, molto vicino al Movimento studentesco, condannava insieme il «conservatorismo» dei carri armati e «la risposta di tipo socialdemocratico», oltre all'economista della Primavera, Ota Sik, giudicato l'autore di «concezioni che favorivano le forze antisocialiste e controrivoluzionarie». Allorché il Movimento studentesco si esprimeva in prima persona, attraverso i suoi bollettini, prendeva di mira la «restaurazione borghese» realizzata dai sovietici a Est e allo stesso tempo «le tesi apertamente socialdemocratiche della cosiddetta Primavera di Praga». Nel frattempo Servire il Popolo tesseva le sue lodi al grande Timoniere Mao, eliminando il povero Solgenitsin con un'alzata di spalle: «Sul piano letterario, politico e storico non rappresenta nulla che non sia un luogo comune».
E la libertaria Lotta Continua di Adriano Sofri? Attenta al «grande lascito di Lenin», pronta a contrapporre al «comunismo falso della Polonia quello vero rappresentato dalla Cina». Si potrebbe continuare il florilegio: Bandiera Rossa che ospita un articolo del redattore capo della Pravda in cui Solgenitsin viene definito «uno schizofrenico»; Nuovo Impegno che, di fronte al suicidio di Jan Palach commenta con involontario umor nero: «Non ci fa certo ridere la sua morte... ma il fatto principale della mobilitazione generato da Palach non ha contenuti socialisti»; Lavoro politico, che si oppone fermamente «tanto agli aggressori social- imperialisti sovietici che alla cricca ultrarevisionista capeggiata da Dubcek» proclamando la sua devozione al partito comunista cinese; Giovane Critica, sprezzante riguardo al «punto nodale filocapitalista e filoimperialista del nuovo corso cecoslovacco»; il guevarista Maquis, pronto a giudicare «l'occupazione della Cecoslovacchia un avvenimento dolorosamente necessario sul piano politico»; Avanguardia Operaia, ferma nel condannare la Primavera alla stregua di «un volgare tentativo di riformare il paese con ricette all'occidentale». E si potrebbe concludere con Lotta Comunista, attratta dalla fantastica ipotesi di una «alleanza tra le superpotenze mondiali», Usa e Urss.
Ma è giusto infierire su chi allora rinunciò a essere laico, preferendo atti di fede ideologici e formule liturgiche?

Corriere della Sera 20.7.08
Il saggio di Alessandra Dino
Quando la mafia è troppo devota
Cosa Nostra e il controverso legame tra uomini d'onore e Chiesa
di Vittorio Grevi


A 15 anni dall'assassinio di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio a Palermo, di fronte ad una Chiesa siciliana ancora divisa nella valutazione della figura del sacerdote ucciso dai sicari, per il suo impegno contro i soprusi delle cosche, la sociologa Alessandra Dino torna ad occuparsi di un tema cruciale sul terreno della criminalità organizzata siciliana, analizzando i rapporti tra «Chiesa, religione e Cosa nostra ». Ne è scaturito un volume di taglio insolito, e pressoché unico nella pubblicistica corrente ( La mafia devota, Laterza, pp. 304, e 16), che non solo affronta alcuni interrogativi suscitati anche da recenti fatti di cronaca (esiste un Dio dei mafiosi? qual è il rapporto tra gli uomini d'onore e la religione?), ma si pone altresì il problema più generale dell'atteggiamento della Chiesa siciliana rispetto al fenomeno mafioso.
Circa il primo versante, il volume si sofferma sulle forme di devozione, non sempre propriamente evangelica, diffuse presso molti esponenti della mafia, dai capi alle manovalanze. Ne emerge che sovente l'immagine di Dio coltivata dai primi è diversa da quella dei secondi, distinguendosi per un maggior grado di strumentalità rispetto ai fini del sodalizio criminoso: insomma, un Dio «conveniente», funzionale agli obiettivi delle classi dirigenti affiliate alla mafia. Ma le manifestazioni di religiosità sono per molti aspetti analoghe. Sia quelle private (dai santini di Bernardo Provenzano agli altari domestici di Pietro Aglieri, fino all'uso frequente della Bibbia, e non soltanto per letture edificanti), sia quelle pubbliche, di solito caratterizzate da una forte ricerca della ritualità esterna, ricca di significati simbolici (tipico il caso delle feste e delle processioni, ad esempio quelle in onore di San Gaetano a Palermo o di Sant'Agata a Catania, non di rado promosse o controllate da potenti famiglie mafiose del luogo). E questo senza dire del linguaggio impiegato nell'universo mafioso, grondante di frequenti invocazioni al nome di Dio, talora evocato anche nel momento dei più brutali omicidi, quasi a giustificarli all'insegna di una morale superiore.
Quanto alla linea pastorale seguita dalla Chiesa siciliana nei rapporti con la «questione mafia», l'analisi contenuta nel volume si avvantaggia dei risultati di una apposita indagine svolta dall'autrice, anche mediante un particolare questionario, presso un significativo campione di sacerdoti isolani. Si tratta di risultati sconcertanti, che meritano una attenta riflessione da parte dei responsabili della Chiesa locale, poiché fotografano una realtà ecclesiale fortemente divaricata, e spesso ignara della gravità del problema rappresentato dalla mafia, dai suoi metodi e dalle sue ideologie pagane, rispetto al popolo dei fedeli. Basti pensare che solo il 15% degli intervistati dimostrava di avere piena consapevolezza della necessità di riservare una pastorale specifica al recupero del senso della legalità, mentre un altro 20% si limitava ad una «conoscenza stereotipica» del fenomeno mafioso (non priva di atteggiamenti critici anche nei confronti della magistratura), e il restante 65% si rifugiava in una posizione ambigua e pilatesca, ritenendo che la presenza mafiosa sul territorio non costituisse «una questione di diretta competenza della Chiesa».
Una Chiesa per buona parte senza coraggio e senza memoria (nemmeno delle severe invettive lanciate da Papa Giovanni Paolo II e dal Cardinale Pappalardo), dinnanzi alla quale Alessandra Dino, pur non disconoscendo i progressi compiuti negli anni sul piano delle posizioni ufficiali delle gerarchie, non può che registrare la fisionomia di una istituzione «dalle molte anime e dalle molte contraddizioni», poiché «come non esiste una sola mafia, non esiste una sola Chiesa». Una realtà preoccupante, che suscita «profondo disgusto» in un uomo di fede come don Luigi Ciotti, ma che lo induce «ad amare ancora di più» quella parte della Chiesa siciliana che è «capace di vivere fino in fondo il suo ruolo profetico», talora anche a rischio della vita dei suoi preti più coraggiosi.

Corriere della Sera 20.7.08
Ginevra. Scolpire il passato
di Andrea Genovese


Pietra, legno, ceramica, metalli preziosi, marmo. Dal neolitico ai primi secoli della nostra era, dalle caverne ai palazzi mesopotamici, dalle steppe scitiche agli altipiani iraniani, dall'Egitto al Vietnam, dalla raffinata civiltà villanoviana a quella etrusca e romana, nella sua lunga marcia verso l'al di là o il nulla eterno, l'uomo ha modellato la materia bruta elevandola a simbolo, testimonianza, creazione (cosciente o meno) artistica. La collezione d'opere antiche Barbier- Mueller è nota in tutto il mondo; con i 250 capolavori, moltissimi mai esposti, ci si interroga sulle intenzioni secolari o religiose che li hanno ispirati. Quale Picasso ha scolpito, durante il terzo millennio a.c., in Sardegna la testa di Ozieri, nelle Cicladi la figurina in forma di violino?
Si resta di marmo.
IL PROFANO E IL DIVINO Ginevra, Musée d'art et d'histoire, sino al 31 luglio. Tel. +41/224182600 Testa romana del I sec. a. C.

Corriere della Sera Salute 20.7.08
Psicologia Conferme della validità di un metodo che non ha più niente di «magico» ma molto di scientifico
Con l'ipnosi ti convinco a guarire
di Angelo De' Micheli


Oggi è usata in modo nuovo per curare ansia, depressione e timidezza
Altro che regredire nel passato: l'ipnosi serve per creare un realtà virtuale capace di "rimodellare" la nostra personalità

Quando si dice ipnosi il pensiero corre a una tecnica ereditata dall'Ottocento, che sa sempre un po' di "magia", ma l'ipnosi è tutt'altra cosa al punto da essere una moderna forma di psicoterapia. Ha però cambiato modi e obiettivi. Non viene utilizzata per aiutare il paziente a regredire nel suo passato, o per scoprire chi era in una vita precedente, oppure per trovare, come vuole la psicoanalisi, le radici di un antico trauma infantile, ma per instaurare una modalità diversa e privilegiata di comunicazione. Il paziente viene infatti condotto in un particolare stato di coscienza, nel quale vive come "reali" situazioni immaginarie che il terapeuta struttura in modo da aiutarlo a "rimodellare" comportamenti, scelte e stati d'animo (vedi box sotto).
A questa "nuova" ipnosi si ricorre in molti percorsi terapeutici: per curare ansia, depressione, fobie, disadattamento sociale e familiare e disturbi della sfera sessuale. L'ipnosi si rivela particolarmente utile nella cura dell'alexitimia, un disturbo della sfera affettiva e cognitiva che inibisce la capacità di comunicare i propri sentimenti. Di fatto, un evidente ostacolo alle tradizionali tecniche di psicoterapia. E uno studio condotto da Marie Carie Gay, del Dipartimento di psicologia dell'Università di Parigi, pubblicato sulla rivista Contemporary Hypnosi, ne ha recentemente confermato l'efficacia.
La sperimentazione è stata condotta su 36 donne, tra 18 e i 46, scelte a caso e tutte volontarie. Metà si sono sottoposte a ipnosi. Metà ha fatto da "gruppo di controllo": non ha, cioè, seguito nessuna terapia.
Tutti i soggetti sono stati valutati attraverso una serie di test, per verificare le capacità di immaginazione e quella cognitiva, il livello di ansia e l'eventuale presenza di depressione, e hanno risposto a un questionario per stabilire il profilo di qualità di gratificazione/ soddisfazione presente nelle loro vite.
Ogni seduta di psicoterapia ipnotica durava trenta minuti ed era individuale.
La psicoterapia ipnotica si è protratta per quattro settimane, per un totale di otto sedute (per un ciclo di terapia generalmente ne servono una dozzina).
«L'ipnosi — spiega Olivier Luminet, dell'università di Lovanio, uno degli autori della ricerca — creava nelle pazienti una condizione di coscienza diversa dalla abituale: la percezione dell'ambiente reale era ridotta e l'attenzione era indirizzata verso situazioni immaginate che generavano uno stato di benessere caratterizzato da tranquillità, calma ma anche curiosità dovuta alla percezione della condizione di ipnosi. L'obiettivo era creare situazioni immaginative, allucinatorie, attive, per esempio i pazienti venivano indotti a vedere se stessi mentre tenevano un discorso in pubblico, una situazione in grado, successivamente, di indurre dei reali cambiamenti nel comportamento ».
Tutti i soggetti sottoposti alla psicoterapia ipnotica hanno mostrato una riduzione del punteggio relativo ai diversi test utilizzati per valutare la loro situazione emotiva, passando da un iniziale 65.23 (valore medio), a 58 dopo quattro settimane di terapia e a 56.54 dopo otto settimane. Per il gruppo di controllo i valori sono rimasti immutati.
«La possibilità di utilizzare le capacità immaginative sotto ipnosi — chiarisce Giampiero Mosconi, direttore della Scuola Europea di psicoterapia ipnotica di Milano - rende la terapia relativamente veloce ed è proprio questo uno dei maggiori pregi della tecnica. Lo studio del gruppo coordinato da Marie Claire Gay è un'ulteriore conferma del fatto che l'ipnosi può essere considerata una forma di terapia a pieno titolo, degna di essere approfondita e sperimentata in ambito universitario, come da oltre cinquant'anni l'Associazione medica per lo studio dell'ipnosi (Amisi) ha sostenuto in occasione dei suoi congressi nazionali ».

Corriere della Sera Salute 20.7.08
Usi illegali. «A me gli occhi» e il contante
di A.D.M.


Ma davvero si può rapinare qualcuno dopo averlo ipnotizzato? Negli ultimi 15 anni, le cronache italiane, hanno riportato dai due ai tre casi all'anno di rapine apparentemente fatte utilizzando l'ipnosi.
Qualcuno si avvicina alla cassiera di un supermercato, o all'impiegata di una banca o alla commessa di una gioielleria e, mentre le chiede il prezzo di un prodotto o un'informazione, la fissa intensamente. A quel punto diventa impossibile — raccontano le cronache — resistere alla richiesta di consegnare l'incasso, o i quattrini o i gioielli. Non c'è stata alcuna violenza ed è molto difficile per la commessa o l'impiegato giustificare il fatto. Solo le immagini delle videocamere di sorveglianza documentano l'accaduto.
«Periodicamente giungono all'attenzione dell'opinione pubblica notizie su eventi criminosi come questi, compiuti mediante "ipnosi" — commenta Carlo Alfredo Clerici, medico, ricercatore alla cattedra di Psicologia della facoltà di Medicina dell'Università di Milano.
«Il fenomeno per la relativa frequenza, per le caratteristiche è spesso liquidato come una leggenda metropolitana.
Noi abbiamo analizzato i singoli eventi degli ultimi quindici anni: nella maggior parte dei casi la spiegazione è legata alla capacità di suggestione, alla manipolazione dell'attenzione e non ad un vero e proprio processo d'ipnosi».

Corriere della Sera Salute 20.7.08
Neurologia. Uno studio svela che l'inclinazione all'avventura è scritta nel nostro cervello più primitivo e non è legata all'attesa di vantaggi
Siamo tutti Indiana Jones, temerari per natura
di Cesare Peccarisi


Decisioni. La scelta di rischiare, come Indiana, si avvia in automatico anche se non sappiamo se ne deriverà un vantaggio

Che cosa vi attrae sfogliando un depliant d'agenzia per le prossime vacanze? Una scogliera tempestosa, la vista aerea di un paesaggio lontano, un tranquillo lago racchiuso fra le montagne, o un'infinita spiaggia di sabbia dorata lambita dalle onde di un mare cristallino?
Questi sono solo quattro dei diversi paesaggi da cartolina usati dai ricercatori della University College di Londra, diretti da Bianca Wittmann, per individuare, attraverso la risonanza magnetica funzionale, l'area cerebrale che determina una personalità avventurosa, come quella dell'intrepido archeologo Indiana Jones che nei suoi film finisce sempre nei luoghi più improbabili.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Neuron, ha indicato che, se in alternativa alla solita spiaggia e del solito mare, vi proponessero una meta sconosciuta, molti preferirebbero la nuova esperienza anche senza sapere se finiranno in un albergo a cinque stelle o in una pensioncina, perché, quando una scelta non è legata a particolari vantaggi, ciò che ci fa decidere è la novità, in virtù della nostra innata curiosità che ci ha sempre spinto a esplorare l'ignoto, facendoci progredire dalla clava ai voli spaziali.
Il comportamento avventuroso è legato in maniera specifica all'area cerebrale chiamata striato ventrale: più questa regione è attiva, maggiore sarà la nostra propensione all'avventura e, in un certo senso, anche ai colpi di testa e alle decisioni avventate.
Finora si supponeva che nell'esplorazione delle novità fosse coinvolto il cosiddetto "sistema della ricompensa", gestito da vari centri cerebrali (oltre allo striato, anche amigdala, mesencefalo, corteccia orbito- frontale e prefrontale mesiale) che, attraverso il neurotrasmettitore dopamina, ci fanno sentire appagati quando una nuova esperienza risulta piacevole: ad esempio, un buon vino o un buon pranzo.
Ma in questa ricerca delle novità, i nuovi stimoli positivi non spingerebbero questi centri a cercarne di nuovi e, soprattutto, non attiverebbero la corteccia cerebrale frontopolare, sede delle aree cognitive più nobili: il comportamento esplorativo si avvia automaticamente, anche se non sappiamo quale vantaggio potrebbe derivarne.
I 15 giovani (8 maschi e 7 femmine di circa 26 anni) dello studio inglese dovevano osservare su un computer 32 foto di paesaggi, presentate 4 alla volta ad ogni prova e in una posizione sempre diversa dello schermo. Successivamente le cartoline virtuali erano ripresentate a caso e gli esaminandi dovevano premere un bottone se riconoscevano particolari del paesaggio, come ad esempio una casa: ad ogni risposta corretta ottenevano una sterlina e da quel momento quella cartolina sarebbe ricomparsa col timbro 1 sterlina. A questo punto comparivano anche altre cartoline che avrebbero potuto portare a vincite maggiori. Anche se le foto associate alla ricompensa diventavano rapidamente riconoscibili, con l'introduzione di quelle nuove molti tendevano a scegliere queste, piuttosto che quelle già note e dal guadagno assicurato. E quando optavano per la novità, la risonanza magnetica funzionale, che fotografava l'attività del loro cervello, mostrava un'iperattività dello striato ventrale e, diversamente da quanto finora ritenuto, quest'area si attivava non solo quando la scelta era stata fatta risultando soddisfacente, ma anche poco prima, quando si ha un pizzico di paura per ciò che si sta scegliendo.
In fondo, Indiana Jones è come tutti gli altri e anche lungo la sua schiena corre un brivido quando sta per lanciarsi in una delle sue avventure...

Repubblica 20.7.08
"Genova, al G8 agenti Usa pronti a sparare"
Il Pg: i disobbedienti dovevano essere fermati. Oggi commemorazione di Giuliani
di Massimo Calandri e Marco Preve


GENOVA - A Genova, nel luglio del 2001, durante i giorni del G8, un contingente di militari e agenti dei servizi statunitensi era stato autorizzato all´uso delle armi sul territorio italiano, ed era pronto a sparare per fermare eventuali aggressioni ai propri rappresentanti istituzionali.
E´ una novità assoluta, quella rivelata in un documento di 20 pagine depositato pochi giorni fa nell´ufficio impugnazioni del tribunale di Genova. Si tratta del ricorso con il quale il sostituto procuratore generale di Genova, Ezio Castaldi, chiede il processo d´appello per alcuni dei 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio che, nel dicembre scorso, mentre molti vennero condannati a pene pesantissime, evitarono una sentenza più dura. Accadde perché il tribunale riconobbe ai cosiddetti "disobbedienti" coinvolti negli scontri di via Tolemaide, di essersi ritrovati in una situazione di guerriglia originata da un errore del plotone di carabinieri il quale, diretto in altra parte della città, deviò e caricò all´improvviso il corteo delle tute bianche, dando così il via agli scontri.
Castaldi, nel ricostruire quegli eventi, critica l´interpretazione del tribunale, sostiene che la maggior parte dei manifestanti presenti in via Tolemaide aveva intenzioni non pacifiche e giustifica quindi l´operato delle forze dell´ordine e dello stesso contingente dei carabinieri. Per dare forza a quest´impostazione rivela un retroscena fino ad oggi sconosciuto.
«... Le forze dell´ordine - scrive a pagina 6 - dovevano impedire che entrassero in azione, e con mezzi estremi, le forze di sicurezza degli stessi stati partecipanti al G8».
Non si parla di pochi agenti della security del presidente George W. Bush. «Dette forze di sicurezza - continua infatti l´ex procuratore di Tempio Pausania - , per lo più statunitensi, erano infatti ampiamente dislocate nella "zona rossa" a tutela ravvicinata e diretta dell´incolumità personale dei capi di Stato presenti a Genova: ed erano pronte alla reazione immediata ed armata. Su ciò nessun dubbio è possibile... ».
Novità e rivelazioni che non muteranno, comunque, il clima pacifico che si respira in queste ore nel capoluogo ligure dove sono in corso numerosi eventi in occasione del settimo anniversario delle manifestazioni contro il G8. Oggi, in particolare, verrà ricordata l´uccisione di Carlo Giuliani avvenuta in piazza Alimonda, quando i manifestanti diedero l´assalto a una jeep dei carabinieri e un militare sparò uccidendo Giuliani.
Nel pomeriggio un corteo partirà da piazza De Ferrari fino a piazza Alimonda, dove si terrà una commemorazione organizzata dal Comitato Piazza Carlo Giuliani, presentato dal comico Andrea Rivera e con la partecipazione di musicisti rom.
Prima, in mattinata, il sindaco Marta Vincenzi incontrerà alcuni dei ragazzi imprigionati e picchiati nel carcere di Bolzaneto. Nei giorni scorsi si è chiuso il processo di primo grado con 15 condannati, 30 assolti e molte polemiche. Domani sera, invece, un gruppo di reduci della scuola Diaz organizzerà una fiaccolata che si concluderà davanti all´istituto teatro della brutale irruzione della polizia, vicenda per la quale la sentenza è attesa in ottobre. Da prefettura e questura nessun segnale di preoccupazione per un appuntamento che, fin dal 2002, non ha mai fatto registrare tensione o disordini.

Repubblica 20.7.08
"La Chiesa faccia santo Stalin" richiesta-shock dei comunisti russi
di Leonardo Coen


Uno dei leader del partito minaccia: in caso di rifiuto pronti a fomentare uno scisma
In un sondaggio sui leader più popolari l´ex dittatore contende il titolo a Nicola II

«Vogliamo che la Chiesa Russa Ortodossa canonizzi Stalin». Non è uno scherzo. Lo pretende Sergej Malinkovich, il presidente della sezione interregionale dei comunisti di Pietroburgo e della regione di Leningrado, la culla della rivoluzione d´Ottobre, uno dei membri più influenti del partito.«Ci rivolgeremo alla Chiesa con la richiesta di canonizzare colui che riunì le terre russe, che sconfisse i nemici della patria, che creò il grande minimo sociale, che fu l´eroe e il padre dei popoli», sostiene Malinkovich. Che poi minaccia: «Se la Chiesa si rifiutasse, allora al suo interno comparirà, non senza la partecipazione delle forze patriottiche, una tendenza di rinnovamento, una chiesa ortodossa popolare orientata in modo sociale, intollerante nei confronti dell´opulenza e dell´ostentata religiosità dei burocrati. Sarà questa chiesa rinnovata a canonizzare il grande Stalin, primo passo dell´unione del movimento di liberazione nazionale e dell´ortodossia popolare. Alla fine del XXI secolo le icone con l´immagine del Santo Josif Stalin compariranno in ogni casa ortodossa».
Una provocazione? Non proprio. Tutto nasce dal fatto che per quasi due settimane Stalin è rimasto in testa alla classifica del progetto tv «Il nome della Russia», il sondaggio Internet che si concluderà a Natale con la proclamazione del personaggio storico russo più rappresentativo. Qualche giorno fa la votazione è stata bloccata. Imperscrutabili «motivi tecnici». Poi, Alexsandr Ljubimov, direttore del progetto, ha spiegato che c´era stato un attacco di spam contro il sito, per favorire Stalin. Ma appena ha ripreso a funzionare, Stalin è stato superato dallo zar Nicola II.
I comunisti non hanno digerito il sorpasso: «Nessuna manipolazione del signor Ljubimov può nascondere la sacrosanta verità - ha scritto Malinkovich - Stalin è il nome più popolare della Russia. Il popolo perdona al Comandante Supremo sia le repressioni che la collettivizzazione, lo sterminio dei quadri dell´Armata Rossa, la lotta contro il cosmopolitismo ed altri inevitabili errori e tragedie dei tempi crudeli di guerra e di rivoluzione. Ovviamente, a noi, alla sinistra di oggi, è più vicino Ilich (Lenin, ndr.), ma per Stalin che ricevette la Russia con l´aratro di legno e la lasciò con il missile atomico votano i comunisti, i patrioti, i nazionalisti russi, i giovani e i vecchi». Ecco perché Stalin non deve essere demonizzato ma beatificato.
«È una richiesta mostruosa», ha replicato ieri ai microfoni di Radio Eko di Mosca Vladimir Vigiljanskij, portavoce del Patriarcato: «Stalin e i suoi furono colpevoli della totale distruzione della Chiesa Ortodossa Russa. Nell´epoca staliniana subirono morte violenta circa 200mila sacerdoti. Canonizzare uno colpevole di banditismo e terrorismo di stato è un sacrilegio terribile». Risposta dei comunisti di Pietroburgo: «La posizione del Patriarcato è dettata dalla pressione delle autorità laiche, non riflette l´opinione di tutto il clero, soprattutto dei pope della grande maggioranza delle piccole città russe e della campagna».
Come dimenticare, del resto, il telegramma che la Chiesa ortodossa inviò a Stalin il 21 dicembre del 1949? «Caro Josif Vissarionovich, nel giorno del suo 70esimo compleanno, le esprimiamo la nostra profonda riconoscenza. preghiamo per il rafforzamento del Suo vigore e benedicendo il Suo eroismo ce ne ispiriamo noi stessi».

Repubblica 20.7.08
Aleksandra Kollontaj. L’amore ai tempi del comunismo
Compagna femminista nel partito dell´ordine
di Miriam Mafai


Aleksandra Kollontaj, prima donna ministro nel governo dei Soviet, prima donna ambasciatrice, teorica dei rapporti tra sessi per il nuovo Stato. Bollata come "incendiaria" dai nemici, come vera rivoluzionaria dai solidali e come restauratrice dai detrattori, in questi scritti inediti in Italia tenta la sintesi dialettica tra "l´insana libidine" della società borghese e il vero affetto dei bolscevichi

Una spregiudicata femminista ante litteram? Una disinvolta teorica del "libero amore"? Una sostenitrice di quella riprovevole teoria del "bicchier d´acqua" (si beve quando si ha sete, si ha un rapporto sessuale quando lo si desidera), che già venne condannata a suo tempo da Lenin come «antimarxista e antisociale»? Niente di tutto questo, a leggere il testo di Aleksandra Kollontaj che oggi ci viene riproposto con il suo titolo originale Largo all´Eros alato e già il titolo anticipa il tono e il contenuto di queste pagine, un centinaio appena, con le quali la dirigente bolscevica, l´amica di Bucharin e di Lenin, prima donna ministro nel governo dei Soviet, prima donna ad assumere l´incarico di ambasciatore, si rivolge a un giovane compagno per spiegargli, con attenzione pazienza e tenerezza, cos´è l´Eros, nelle sue varie declinazioni. C´è infatti l´Eros alato, «intessuto di una sottile trama di svariatissime emozioni d´ordine spirituale e morale» e l´Eros senz´ali, «attrazione sessuale senza radici spirituali e morali». E non esita a «storicizzare» il sentimento d´amor, a spiegare che anche questo sentimento può evolvere e cambiare, come in effetti evolve e cambia a seconda delle epoche e della struttura della società.
«Mio giovane compagno, mi chiedete quale sia il ruolo che l´ideologia proletaria assegna all´amore. Quel che vi turba è che la gioventù lavoratrice sia attualmente più occupata dall´amore e da tutte le questioni connesse che dai grandi compiti con i quali la repubblica dei lavoratori deve misurarsi». E allora, pazientemente, la dirigente bolscevica racconta al suo giovane interlocutore le molte forme che può assumere, che concretamente ha assunto nel corso della storia dell´umanità quello che si definisce «l´enigma dell´amore». Nelle differenti tappe del suo sviluppo storico, l´umanità ha tentato di risolvere «la questione della relazione tra i sessi in diversi modi. Le chiavi cambiano, ma l´enigma rimane tale. Esse dipendono dall´epoca, dalla classe, dallo spirito del tempo (la cultura)».
Come esempio dell´amore «determinato dai vincoli del sangue», la Kollontaj ricorda Antigone che, rischiando la propria vita, fa sotterrare il corpo del fratello; come esempio dell´amore-amicizia ricorda la gloria di Castore e Polluce; come esempio dell´amore-cavalleresco ricorda quel sentimento platonico che spinge il cavaliere non tanto verso l´amata quanto verso gesta eroiche. E così, man mano lungo i secoli, cambia, il sentimento d´amore, spiega la dirigente bolscevica, anche a seconda delle esigenze, della cultura delle varie società, dalle società primitive a quelle feudali fino a quando «gli ideologi rivoluzionari della borghesia in ascesa produssero un nuovo ideale dell´amore: quello che unisce in sé due principi, uno carnale, l´altro morale». Siamo dunque alla famiglia borghese «fondata sulla volontà di impedire la dispersione del capitale tra i figli naturali e di assicurare la concentrazione del capitale».
Ma se con il cambiare delle strutture sociali, nel corso dei secoli, cambia, assumendo sempre nuove forme, il sentimento d´amore, cosa accadrà di Eros quando, finalmente sconfitta la borghesia capitalistica, il proletariato avrà conquistato il potere? È esattamente la condizione in cui si trova l´Urss in quegli anni e la Kollontaj, autorevole dirigente del partito che ha conquistato il potere, spiega al giovane ignoto compagno che si è rivolto a lei, quali debbano essere, quali saranno le caratteristiche di questo nuovo «amore da compagni». Con la conquista del potere da parte del proletariato, assicura, verrà superata, anche in amore, la cultura fondata sull´istinto di proprietà, sull´idea di possesso totale ed esclusivo dell´altro (in genere dell´altra) che ha raggiunto il suo massimo nella società borghese. Non si andrà, tuttavia, si badi bene, né verso «l´insana libidine» né verso la poligamia o la poliandria (ambedue dannose per il fisico e per lo spirito) ma verso una «complessa e intrecciata rete di vincoli spirituali e morali, grazie ai quali si consoliderà la collettività sociale dei lavoratori».
Al primo posto, comunque, un buon comunista metterà sempre gli interessi del collettivo. «Per quanto grande sia l´amore che lega i due sessi, per quanto numerosi siano i legami di cuore e di spirito che intesse fra loro, i vincoli dello stesso tipo con l´intera collettività debbono essere ancora più forti, più numerosi, più organici. La morale borghese esigeva: tutto per l´essere amato. La morale proletaria prescrive: tutto per il collettivo».
Il tempo smussa il tono e il senso delle polemiche. In qualche caso, le rende addirittura incomprensibili. Questa lettera della Kollontaj al suo «giovane amico» risale al 1923, l´anno in cui, con il lancio della Nep (Nuova politica economica) il regime sovietico tentava di mettere riparo agli eccessi dei primi anni della Rivoluzione, Luigi Cavallaro, in una stimolante prefazione al testo della Kollontaj non esita a definire questo testo «incendiario» tanto da provocare all´autrice critiche durissime del suo partito e una fama, che dura nel tempo, di femminista ante litteram. A distanza di quasi un secolo, è possibile anche, al contrario, leggere questo breve testo come l´invito, rivolto a una gioventù irrequieta, a chiudere la fase del disordine sentimentale e sessuale che aveva contrassegnato gli anni della prima fase rivoluzionaria, e a "rientrare nei ranghi", rinunciando al disordine sessuale, pericoloso per il fisico e per lo spirito, mettere al primo posto l´impegno per il collettivo.
La data, del resto, è significativa. Con le prime leggi emanate dal potere sovietico era stata sancita l´assoluta uguaglianza tra uomo e donna nella società e nella famiglia, era stato reso legale l´aborto, il matrimonio, registrato o sciolto di fronte a un qualunque ufficiale di stato civile, non comportava alcun impegno dei coniugi tra loro e assai limitati nei confronti dei figli. Fu un periodo dunque di assoluta libertà individuale e disordine. Con la introduzione della Nep, tuttavia, se non si veniva ancora a proporre una revisione delle leggi sulla famiglia e sull´aborto (revisione che giungerà negli anni successivi) si riconosceva tuttavia l´importanza di una vita familiare più regolare e regolata. Il testo della Kollontaj non va ancora esplicitamente in questa direzione, ma il suo ripetuto appello all´esigenza di mettere sempre al primo posto gli interessi del collettivo sembra indicare quella strada.

Repubblica 20.7.08
Ideologia proletaria e collettivismo dell'Eros
di Aleksandra Kollontaj


Qual è dunque l´ideale amoroso della classe operaia? Quali sono i sentimenti e le emozioni che l´ideologia proletaria pone alla base dei rapporti tra i sessi? Abbiamo già constatato, mio giovane compagno, che ogni epoca ha il suo ideale di amore, che ogni classe, nel proprio interesse, vuole introdurre nella nozione morale dell´amore i contenuti che le sono propri. Ogni fase culturale, portando con sé le più ricche emozioni umane nel campo spirituale e morale, ridipinge con i propri colori i toni delicati delle ali di Eros. [...]
Sotto l´azione delle forze economiche e sociali, l´istinto biologico di riproduzione, che ha determinato i rapporti sessuali nei primi stadi dello sviluppo dell´umanità, ha subito due degenerazioni in direzioni diametralmente opposte. Da un lato, per uno scopo riproduttivo, sotto la spinta di rapporti socio-economici abnormi, e in particolare sotto il dominio del capitalismo, il normale istinto sessuale, la normale attrazione tra i sessi, sono degenerati in malsana libidine. L´atto sessuale si è trasformato in uno scopo a sé stante, in strumento per procurarsi un "godimento supplementare", in concupiscenza esacerbata da eccessi e perversioni, sotto la spinta di un´artificiale esaltazione della carne. Se un uomo si lega a una donna, non è più perché una sana inclinazione sessuale lo ha fortemente attratto verso quella donna in particolare; al contrario, senza provare ancora alcun bisogno sessuale, l´uomo cerca la donna la cui presenza risvegli in lui l´attrazione sessuale e gli permetta così di godere attraverso l´atto sessuale fine a se stesso. Su questo è costruita la prostituzione. [...] Nella sua forma attuale, l´amore è uno stato d´animo estremamente complesso, che si è da molto tempo allontanato dalla sua primitiva fonte (l´istinto biologico di riproduzione) e spesso si trova perfino in netto contrasto con essa. L´amore è una sorta di conglomerato, un complesso insieme formato di passione, di amicizia, di tenerezza materna, di inclinazione amorosa, di comunanza di spirito, di pietà, di ammirazione, di abitudine, e di molte altre sfumature sentimentali ed emotive. Di fronte a una simile complessità, è sempre più problematico stabilire un nesso diretto tra voce della natura, Eros senz´ali (l´attrazione fisica dei sessi), ed Eros alato (l´attrazione carnale mista a emozioni spirituali e morali). L´amore-amicizia, nel quale non v´è alcuna componente fisica, l´amore spirituale per una causa o un´idea, l´amore impersonale per la collettività: tutti questi fenomeni sono la testimonianza di quanto il sentimento d´amore si sia distaccato dalla sua base biologica, di quanto si sia "spiritualizzato".
[...] Per millenni, una cultura fondata sull´istinto di proprietà ha inculcato negli uomini la convinzione che il sentimento d´amore aveva anch´esso come base il principio della proprietà. L´ideologia borghese ha messo in testa alla gente l´idea che l´amore, compreso l´amore reciproco, dava il diritto di possedere interamente e senza spartizioni il cuore dell´essere amato. Quest´ideale, questo esclusivismo nell´amore, derivava naturalmente dalla forma di unione coniugale stabilita e dall´ideale borghese di "amore totale ed esclusivo" tra gli sposi. Ma può forse un simile ideale corrispondere agli interessi della classe operaia? [...]
L´essere esclusivi in amore, l´essere "totalmente assorbiti" dall´amore, non può costituire l´ideale dei rapporti tra i sessi dal punto di vista dell´ideologia proletaria. Al contrario, lo scoprire che Eros alato è multiforme e multicorde non produce nel proletariato né orrore né indignazione, come avviene per l´ipocrita morale borghese. Al contrario il proletariato tenterà con tutte le sue forze di indirizzare questo fenomeno (risultato di complesse cause sociali) nella direzione corrispondente ai suoi compiti di classe in un dato momento della lotta, in un dato momento della costruzione della società comunista. [...] L´ideale d´amore della classe operaia, che discende dalla cooperazione nel lavoro e dalla solidarietà di spirito e di volontà dei membri di questa classe, uomini e donne, si differenzia naturalmente, sia per la forma che per il contenuto, dalle nozioni dell´amore proprie alle altre epoche culturali. Ma cos´è l´amore da compagni? Significa forse che l´austera ideologia della classe operaia, elaborata nell´atmosfera arroventata delle lotte per la dittatura del proletariato, vorrà scacciare senza pietà il tenero e fremente Eros alato dai rapporti sessuali? Assolutamente no. Non solo l´ideologia della classe operaia non ha intenzione di abolire Eros alato, ma al contrario essa libera la strada al riconoscimento del valore dell´amore come forza psico-sociale. La morale ipocrita della cultura borghese ha strappato senza pietà le piume dalle ali multicolori e sgargianti di Eros, obbligandolo a frequentare unicamente le "coppie legittime". Al di fuori del matrimonio, l´ideologia borghese lascia posto unicamente a un Eros senza piume e senza ali: l´unione sessuale momentanea, sotto forma di carezze comperate (prostituzione) o rubate (adulterio).
La morale della classe operaia invece, nella misura in cui ha già iniziato a cristallizzarsi, trascura completamente la forma esteriore che possono assumere i rapporti d´amore tra i sessi. Per ciò che concerne gli obiettivi di classe del proletariato, è del tutto indifferente che l´amore assuma la forma di un´unione duratura e legalizzata o che si esprima semplicemente in una relazione passeggera. L´ideologia della classe operaia non impone alcun limite formale all´amore. Al contrario, fin da ora essa guarda soprattutto al contenuto dell´amore, delle sfumature sentimentali ed emozionali che uniscono i due sessi. [...] Eros senz´ali è contrario agli interessi della classe operaia. In primo luogo, conduce inevitabilmente a degli eccessi, e di conseguenza a un esaurimento fisico che non può che diminuire l´energia lavorativa dell´umanità. In secondo luogo, rende l´animo sterile, ostacolando così lo sviluppo e il rafforzamento dei legami spirituali e dei "sentimenti di simpatia". In terzo luogo, è di solito basato sull´ineguaglianza dei diritti nei rapporti sessuali, sulla dipendenza della donna nei confronti dell´uomo, sulla fatuità e sulla rozzezza maschili, il che può unicamente frenare lo sviluppo del sentimento di solidarietà fra compagni.
Traduzione Claudio Fracassi
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