mercoledì 23 luglio 2008

Liberazione 23.7.08
Se chiudono il manifesto e Liberazione...
di Piero Sansonetti



La manovra economica che è stata votata in blocco - senza emendamenti - lunedì sera alla Camera, e che ora andrà al Senato, conteneva una norma che taglia - e praticamente azzera - i finanziamenti ai giornali politici. Questa norma può essere corretta dal Senato, oppure lasciata così com'è. Se sarà lasciata così com'è provocherà la chiusura - nel giro di un paio di mesi al massimo, ma forse anche prima - di alcune decine di testate giornalistiche, tra le quali il manifesto , L'Unità , Liberazione , il Secolo , la Padania , Europa , Avvenire . Alcuni di questi giornali sono sostenuti da gruppi editoriali privati potenti e ricchi, altri da partiti robusti e in grado di finanziare, altri ancora per vivere contano soltanto sulle proprie forze, sulle vendite, sul finanziamento pubblico. Se si chiude il rubinetto del finanziamento pubblico e si stabilisce che è giusto che il diritto ad informare sia riservato a chi possiede i capitali necessari, almeno due di questi giornali, e cioè il manifesto e Liberazione , dovranno dichiarare fallimento e sparire dalla circolazione. Con la conseguenza che l'Italia - unico paese in Europa a non disporre di una rappresentanza parlamentare della sinistra tradizionale (socialista, o comunista, o ambientalista) si troverà anche senza giornali di sinistra. E paradossalmente questa scomparsa dei giornali di sinistra - che dal 1945 sono presenti senza interruzione, e per molti anni anche in gran numero, nelle edicole - sarebbe la conseguenza diretta di una legge dello Stato. Cioè potremmo dire, senza alcuna forzatura, che la stampa di sinistra, la stampa di opposizione, è stata chiusa per legge.
Questa legge non prevede tagli indiscriminati all'editoria, ma tagli miratissimi: si annulla il finanziamento ai giornali di partito e si mantiene intatto il finanziamento ai grandi giornali. Per capirci bene, qualche cifra: il manifesto e Liberazione , attualmente, ricevono dallo Stato un finanziamento che complessivamente arriva a circa 7 milioni all'anno (tra tutti e due, naturalmente). Il Corriere della Sera - che è un giornale largamente in attivo, e che dispone di sconfinate risorse pubblicitarie - riceve ogni anno circa 13 milioni di Euro. Il Sole 24 ore , quotidiano di Confindustria - che distribuisce svariati milioni di utili ai suoi azionisti - riceve 17 milioni di finanziamento. Tutti questi finanziamenti alla grande impresa non vengono tagliati. 
I fatti sono questi. Se non ci saranno correzioni, la nostra condanna a morte è segnata. Non so se poi si potrà dire con leggerezza che l'Italia comunque resta un paese libero, che in ogni caso qui la democrazia è padrona. E siccome noi siamo convinti che l'Italia sia davvero un paese libero, siamo anche convinti che il Senato cambierà la legge approvata alla Camera.

lunedì 21 luglio 2008

l'Unità 21.7.08
Le bimbe rom annegate
Violetta, Cristina e gli indifferenti
di Dijana Pavlovic


Violetta e Cristina Ebrehmovic, due bambine rom sono annegate a Napoli vicino Pozzuoli. Avevano 12 e 11 anni ed erano di origine slava.
Ora queste due bambine non potranno più essere vendute come la loro coetanea di Brescia e sposarsi a dodici anni, non potranno mai più essere costrette a elemosinare o a commettere piccoli furti, non potranno più rubare i bambini alle brave mamme napoletane, non saranno rappresentate nei disegni dei bambini di Ponticelli come cattivi da bruciare.
Dunque va tutto bene. Non c’è bisogno di agitarsi, di lasciarsi andare al sentimentalismo o, peggio che mai, ai sensi di colpa per una morte che poteva essere evitata se solo qualche bagnante in più si fosse distratto dalle sue occupazioni. Questa volta nell’acqua non c’erano i bambini italiani e fuori non c’era il solito extracomunitario generoso disposto a morire pur di salvarli come è successo spesso. Questa è tutt’altra storia. Questa volta dal mare vengono estratti due piccoli corpi dalla pelle scura, che forse hanno pure infastidito gran parte dei bagnanti offrendo loro qualche cianfrusaglia.
Fuori dal mare, vicino a chi è intervenuto salvando due altre bambine del piccolo gruppo, ci sono le persone «normali» che continuano a prendere il sole, che sorseggiano una bibita fresca e chiamano i loro amici e parenti con il loro cellulare ultimo modello a pochi metri dai corpi senza vita di due piccole zingare che volevano fare un bagno in una calda giornata d'estate e divertirsi come tutti i bambini del mondo.
Di fronte a questo fatto, come a tutti quelli che si sono succeduti in questi ultimi mesi, io mi ripeto la stessa domanda, una domanda dolorosa: l’indifferenza delle persone «normali» di fronte a questa tragedia a cosa è dovuta? È possibile che sia dipesa dal fatto che erano annegate «solo» due bambine rom? Oppure ormai questa società è diventata un enorme tritacarne che macina qualsiasi orrore? Di solito in questi casi ci si interroga sulle responsabilità. Di chi sono: della società, della politica, dei media? Se c’è qualcuno che ancora lo vuole fare forse è bene che però parta da se stesso, perché ciascuno di noi si deve interrogare sulla sua parte di responsabilità, sulla sua indifferenza, sul suo egoismo, senza aspettare che sia sempre un qualche ente esterno, in questo caso il portavoce dell’alto commissario dell’ONU per i rifugiati che si indigni.
Nel frattempo Violetta e Cristina non potranno più subire gli sgomberi, i roghi dei campi, i loro giocattoli non saranno più distrutti dalle ruspe, non avranno più il terrore che i poliziotti vengano per accertare la loro appartenenza religiosa ed etnica e a prendere le loro impronte digitali.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l'Unità 21.7.08
Diliberto, segretario all’unanimità, riscopre il centralismo democratico
La minoranza di Bellillo però non partecipa al voto. L’ultimo appello a Vendola: non facciamoci la guerra
di Simone Collini


PRIMA di salire sul palco ironizza con i giornalisti sulla proposta dei comunisti russi di far santo Stalin: «Sarebbe il primo a rivoltarsi nella tomba. E mi auguro che
non chiedano di fare santo anche me quando sarò morto». Poi invece è serio quando, nell'intervento con cui chiude il congresso del Pdci, rispolvera la norma del centralismo democratico introdotto dal Pcus negli anni '20: «Correnti cristallizzate non saranno tollerate». La norma che vieta di dar vita a gruppi organizzati dentro al partito e di sostenere posizioni contrarie a quelle decise dagli organismi dirigenti è stata confermata nello statuto in una riunione fiume sabato notte (nel regolamento interno è stata inserita anche l'espulsione per chi ricoprendo incarichi pubblici non versa al partito una quota dello stipendio). E Diliberto, rieletto segretario all'unanimità ma soltanto perché la minoranza che fa capo a Katia Bellillo non partecipa alla votazione in segno di protesta contro la sua «linea autoritaria», chiude i lavori a Salsomaggiore sottolineando che intende farla rispettare: «Vale per tutte le componenti, quelle espresse e quelle implicite». Un messaggio rivolto ai sostenitori della mozione Bellillo, favorevoli al dialogo col Pd e alla costituente di sinistra, ma anche a Marco Rizzo, che pur stando in maggioranza ha chiesto al segretario di schierare il Pdci su posizioni più radicali. «Smettiamola con la logica del più uno sempre, noi non siamo per il ritiro delle truppe italiane dal Libano», dice rispondendo proprio all'europarlamentare (che non dovrebbe entrare nella segreteria, molto ristretta, a cui sta pensando Diliberto).
Distinguo insomma non saranno ammessi, perché risalire la china dopo la débâcle delle politiche non sarà facile e perché «non possiamo andare in ordine sparso all'incontro con Rifondazione». Il leader del Pdci non si rassegna infatti a veder cadere nel vuoto la proposta di unificare le forze comuniste, nonostante dal Prc siano arrivate solo risposte negative. «Compagno Vendola - rilancia chiudendo il congresso - ci serve andare alle europee con due liste contrapposte? Ci serve farci la guerra tra noi quando c'è il nemico di classe che sta governando il Paese?».
Al segretario del Pdci non sfugge però che a meno di sorprese eclatanti, l'unificazione alle europee non ci sarà. E allora, parallelamente a questa operazione, intende portare avanti un lavoro sul partito che riesca a creare una controtendenza rispetto al calo di votanti e di iscrizioni degli ultimi anni. Insieme alla stretta sulla vita interna, allora, Diliberto ne annuncia una sull'attività da svolgere quotidianamente che serva di monito ai “fannulloni”: «I nostri organismi passano il 90% del loro tempo a litigare sui posti, anche quando non contano nulla. L'ufficio di segreteria sarà chiamato a verificare come producono e lavorano le strutture territoriali, verificherà settimana per settimana cosa ha fatto il segretario del partito per il reclutamento nel Pdci». Pausa. Poi: «La gligliottina è qui fuori». Una battuta. Insieme a un'altra, con cui pone fine alla guerra dei rossi che mediaticamente ha caratterizzato più di tante altre cose questo congresso: «Da ex deputato reggiano dico che il Lambrusco è un ottimo vino». Un'autocritica rispetto al «fa schifo» del giorno prima? Fino a un certo punto. Perché poi aggiunge: «Il Cannonau però è molto meglio». E guai a chi non è fedele alla linea.

l'Unità 21.7.08
Francescato: l’ambiente è una priorità. Noi Verdi risaliremo la china
di Eduardo Di Blasi


Grazia Francescato lei è stata nuovamente eletta alla guida dei Verdi. Ha davanti un partito che appare diviso e che è non è rappresentato in Parlamento.
«La strada che abbiamo davanti non è in salita: è una parete verticale. Servirà molta forza per tentare di risalire. Però è un dovere. Lo dobbiamo al partito, ai nostri elettori, ai cittadini. Perché c’è ancora bisogno dei Verdi nel nostro Paese».
I cittadini alle ultime elezioni non vi hanno premiato...
«La questione ambientale, dopo tanti decenni, è al top dell’agenda politica mondiale e dovrebbe esserlo anche in quella italiana. Il ruolo dei Verdi dovrebbe essere quello di custodire un ambientalismo radicale. La questione ambientale è connessa molto strettamente a quella economica e sociale».
Alleanze?
«Il tema delle alleanze è un tema forte. Soprattutto tenendo conto che in Italia si sta andando verso un periodo di deficit di democrazia. Questo è un Paese in cui, accanto allo smantellamento delle conquiste sul tema ambientale c’è uno smantellamento ancora più pauroso per quello che riguarda lo stato di diritto. Noi dobbiamo quindi battere questo centrodestra. Questo è l’obiettivo prioritario. E quindi dobbiamo ricostruire un tessuto di rapporti positivi all’interno di tutto il centrosinistra e della sinistra in particolare. Chi va da solo non ottiene grandi risultati se non quello di danneggiare molti».
Voi venite dall’esperienza poco felice della Sinistra Arcobaleno. Da Verdi ritenete di aver commesso degli errori?
«È stata una scelta condivisa e per certi versi obbligata perché con queste leggi elettorali noi dovevamo per forza scegliere di fare questo tipo di alleanza. Certo dentro quel progetto c’era un tema importante che non va sprecato: ed era la possibilità di mettere insieme ragioni del lavoro e ragioni dell’ambiente, difesa dei diritti umani e civili, della pace. Tutti temi che la sinistra ha sempre condiviso. Ora chiaramente non si può riproporre uno schema che ha fallito in questo modo, però vorrei che queste questioni forti venissero mantenute salde. Un matrimonio tra economia e ecologia passa dal mettere insieme ragioni del lavoro e ragioni dell’ambiente».
Una collocazione nel centrosinistra, ma dove?
«Naturalmente nei Verdi ci sono varie anime. C’è un’anima che pensa che si possa fare un accordo con la sinistra, un’altra che privilegia il Pd, e c’è un’altra che pensa che si deve stare sotto le proprie bandiere, magari anche morirci, però restando soli e autonomi. Io cercherò di consultare tutto il partito al momento in cui, penso per le europee, avremo davanti questa opzione. Naturalmente ho le mie idee: sono sempre stata di sinistra non lo nascondo di sicuro. Ma mi devo fare garante di tutti».
Sul partito, anche durante questa Assemblea nazionale, incombe la presenza di Alfonso Pecoraro Scanio.
«Dobbiamo stare attenti, come ho detto in Assemblea, alla sindrome di Ambra e a quella di Piazzale Loreto. È assurdo pensare che io sono qui come propaggine di Pecoraro Scanio. Perché così non è. Ed è allo stesso modo inutile fare di Pecoraro il capro espiatorio quando invece la responsabilità delle scelte è stata collettiva».
Certo è che in questi anni siete rimasti inchiodati all’immagine di un «partito del no».
«Il vestito del “partito del no” ce l’hanno cucito addosso. E non a caso. Dicendo questi “no” abbiamo dato fastidio ai poteri forti, a interessi economici molto consistenti. Lei pensi cosa abbia significato dire no per primi al Ponte sullo Stretto di Messina, agli Ogm, al Cip6».
Quali «no» rivendicherete nelle prossime battaglie politiche?
«Di nuovo e fortemente il no al nucleare. Ma i nostri non saranno solo “no” ambientali. Diciamo di no alla vergogna della schedatura dei bambini rom, a questa politica sull’immigrazione, al cappio che viene messo all’informazione libera, allo smantellamento della costituzione...».
Le prime cose che ha in agenda dal punto di vista organizzativo...
«Dobbiamo chiudere con forme di tesseramento e di organizzazione interna che potevano lasciare spazio a piccoli clan di potere. E recuperare soprattutto il senso del “noi”. Un partito finisce quando prevale l’interesse dei singoli rispetto all’interesse collettivo».
Lei ha annunciato che tra un anno lascerà la guida del partito.
«Certo. Ho sessantuno anni. Ho già fatto una volta questo lavoro e lo faccio adesso proprio per senso del dovere. Sono una piemontese calvinista. Però, come tutte le donne, amo molto mettere insieme la vita e l’impegno sociale. So benissimo che stando in prima linea questo equilibrio salta. L’anno prossimo spero di lasciare a una leadership uomo-donna».
Come si sente, da Verde, a leggere che Berlusconi ha «ripulito» Napoli?
«Mi viene da ridere e da piangere. Conosco la vicenda dei rifiuti di Napoli da 14 anni. So che non è colpa dei Verdi perché se ci avessero ascoltato sulla raccolta differenziata, riciclo e recupero non ne staremo parlando. È il solito Berlusconi mago illusionista che agita la bacchetta magica e pensa che tutti ci cascheranno. Ma i problemi sono lungi dall’essere risolti».

l'Unità 21.7.08
È di Sartre questo fiato spirituale
di Valentina Grazzini


TEATRO «Bariona o il figlio del tuono»: Sartre lo sconfessò per una vena spiritualista ripudiata. Ma lo scrisse. Guicciardini ha messo in scena questo dramma della prigionia spostandolo di due millenni...

San Miniato. La prigionia, le privazioni, subire le più efferate atrocità ad opera di altri esseri umani porta certo a sfumare ogni contorno, rinunciare se non alla dignità quantomeno alla caparbietà delle idee. Così può accadere che un pensatore come Jean-Paul Sartre, ben lontano dalle convenzioni religiose, si trovi a scrivere un testo teatrale di decisa matrice spirituale, e a metterlo addirittura in scena interpretando uno dei Re Magi, complice la situazione creatasi nel campo di concentramento di Treviri, nella Germania nazista del 1940 (salvo poi sconfessarlo poco più di vent’anni dopo con una lettera dai toni inequivocabili). Oggi questo testo, Bariona o il figlio del tuono, forse destinato ad un dignitoso oblio, viene ripescato dal regista Roberto Guicciardini per farne la produzione numero 62 della Festa del Teatro a San Miniato, in provincia di Pisa (repliche fino al 23 luglio). A dar vita al ruolo del titolo, con reale piglio da antico romano, Sebastiano Lo Monaco, ancora calato nei panni di Otello, sua penultima fatica teatrale. L’idea di Guicciardini, a sottolineare la genesi della storia, sta nel trasporre il racconto dalla Giudea romana in cui Sartre lo aveva pensato agli anni della guerra in cui venne scritto: e ci troviamo dunque circondati da filo spinato, equamente divisi sui due lati di una lunga pedana che con francescana semplicità offre agli attori spazio per immaginare la rappresentazione teatrale organizzata dai prigionieri, in prevedibile completo a righe bianche e nere. Ma il gioco del teatro nel teatro, antico e scivoloso, resta fine a se stesso, non aggiungendo alcunché allo spettacolo se non il mettere fuori sincronia il raccontato ed il visto.
Soffermandoci sulla storia, spunti per coglierne echi contemporanei - come è doveroso tentar di fare - non mancano: Barione, per offrire forma estrema di resistenza di fronte al rincarare dei balzelli di Roma, impone ai cittadini del villaggio di cui è a capo l’astinenza sessuale, per portare all’estinzione l’umana specie. «I romani regneranno sulle nostre città deserte», profetizza imbonendo la folla. L’idea di fronte all’inflazione potrebbe avere un suo perché anche nel nostro millennio, salvo poi capire contro chi operare il non banale sacrificio. In ogni caso, per Bariona, arriva l’imprevisto: la buona novella lo coglie e lo colpisce nel pieno del fervore, e se inizialmente trama addirittura di uccidere il neonato Messia, poi comprenderà grazie alle parole di Baldassarre che esiste una speranza, una libertà, una luce. Lo Monaco non si risparmia, dando fondo con imponente fisicità al suo distillato di tecnica attoriale. La compagnia lo segue, diciamo non proprio coralmente, ma restano comunque opinabili le scelte registiche: oltre ad un inspiegabile astrazione dal bel contesto (siamo in piazza Duomo, all’aperto, ma lo spazio naturale circostante viene ignorato), i registri sono altalenanti ed incerti. Bariona parte grave e drammatico per poi scoprirsi, giusto nel momento clou della conversione, ironico e sopra le righe. I compagni di prigionia (o antichi romani che li si voglia vedere) si trasformano strada facendo in personaggi della Commedia dell’Arte, con tanto di maschera. Il successo non manca, mistero della fede.

l'Unità 21.7.08
Razzismo, così fan tutti, compresi gli Stati Uniti
di Enzo Verrengia


Una lunga vicenda quella della segregazione che ha lasciato segni profondi e che alla fine si è cristallizzata anche nel «politically correct»
Tocqueville fu tra i primi a scorgere il conflitto tra etnie nella nascita del grande paese tra schiavismo e mito della Frontiera

COSTUME Bisogna essere cauti quando si parla di «Melting pot» e di buoni modelli di integrazione negli Usa. Come dimostrano esperienze e studi recenti la verità è un’altra: l’intolleranza resta sotto traccia. Ed esplode proprio come accade oggi in Italia

La lettera aperta da Londra della ricercatrice italiana Maria Vinci smentisce chi ritiene sia in corso una delegittimazione strumentale dell’Italia a partire dagli ultimi fatti di intolleranza. Qui è una connazionale a confermare che il razzismo costituisce un rischio concreto per il Paese nato proprio da una società multietnica, quella dell’antica Roma. Il cui spirito era l’esatto contrario di una legge sulla clandestinità che innesca controlli a tappeto sui mezzi pubblici e nega all’improvviso precarie abitazioni con le quali fino a ieri si speculava sul disagio degli immigrati. Per non riproporre la questione di una memoria storica nazionale azzerata circa i precedenti da emigrati, che rendono un controsenso la xenofobia di oggi. Soprattutto, si profila la possibilità che la rivolta delle periferie parigine qui si verifichi nel senso opposto: i residenti scacciano i nuovi arrivati con la tecnica, letterale, della terra bruciata. Si è visto a Ponticelli. E, sia pure senza fuoco e fiamme, nelle spedizioni punitive del Pigneto, nelle invettive contro Kledi, il ballerino albanese di Amici, e nella temibile ascesa delle ronde. Queste ultime, davvero incostituzionali, come ha avvertito Di Pietro. Perché nel documento basilare della democrazia italiana non si permette ai privati di sostituire le forze dell’ordine, di costituirsi in milizie. Questo avviene, negli Stati Uniti.
Ed è al di là dell’Atlantico che bisogna guardare, ancora una volta, per analizzare l’insorgere, con ritardo, di fenomeni da società industriale avanzata. «Black Belt», fascia nera, è detto l’insieme degli stati meridionali dove si coltivava il cotone, dal colore di quelle schiene piegate dalla frusta. Mentre alla zona industriale del nord ci si riferisce come «Rust Belt», fascia della ruggine, e comprende Chicago, Detroit e Pittsburgh. In entrambe le aree geografiche, gli afroamericani erano il carburante umano della crescita nazionale, anche dopo il loro affrancamento dallo schiavismo, cominciato già nella nativa Africa. Nel Dahomey, come ricorda l’antropologo Alfred Métraux, «la tratta era un’industria nazionale».
Non basterà la Guerra di Secessione per porre fine alla sottomissione degli afroamericani. Bisognerà attendere i Civil Rights Acts, del 1957 e del 1960, e il Civil Rights Bill, del 1964/65. Soltanto che l’accresciuto accesso ai normali processi dell’economia e del lavoro negli Stati Uniti non corrisponde all’effettiva integrazione. A Los Angeles nel 1965, l’assassinio di Malcom X provoca la rivolta del ghetto negro di Watts. Lo stesso a Detroit nel 1967, e a Memphis nel 1968, dopo la morte di Martin Luther King. 1992: il verdetto di assoluzione emesso dalla corte di Simi Valley nei confronti dei poliziotti che hanno pestato l’afroamericano Rodney King finisce in un calderone di umori pronti a deflagrare. South Central Los Angeles, fra Inglewood e Culver City, esplode. Non ci sono solo afroamericani per le strade, bensì tutti i gruppi etnici. Anche bianchi pieni di rancore per un Paese che non ha realizzato i loro sogni di benessere. I disordini si estendono a S. Francisco, Las Vegas ed altre città degli Stati Uniti. Più che nel passato, i roghi di Los Angeles nel 1992 assumono la connotazione di un regolamento di conti fra neri e bianchi, nonostante un cittadino angeleno afroamericano, approvando l’operato della polizia, dichiari: «Questa non è una questione razziale, ma criminale». In larga parte, le bande sono di colore. Sempre su Time, si legge: «Non si può chiudere gli occhi sul fatto che dei neri siano coinvolti sproporzionatamente nel crimine violento. Sebbene costituiscano solo il 12% della popolazione degli Stati Uniti, essi compongono il 48% della popolazione carceraria».
Il melting-pot, il crogiolo di razze, si rivela un’ebollizione al calore bianco, che tracima nelle strade delle metropoli americane. Quello che le caratterizza fin dall’inizio è il loro sorgere in una terra incognita da colonizzare. Aveva fatto parecchio lo scrittore William R. Burnett, per fissare con il titolo di un romanzo Giungla d’asfalto, la metafora definitiva il profilo urbano dell’occidente avanzato. A conferma del motto di Thomas Hobbes: «Homo homini lupus», anticipato da Plauto. L’espansione tentacolare avviene in un clima di avventura obbligata. Vince sempre l’individuo più forte. Arriva gente che per mesi ha vissuto nella «wilderness», la natura selvaggia dell’ovest, e non accetta le regole dell’Habeas corpus. La costa orientale, dove Boston, Baltimora, Filadelfia e Washington mostrano all’Europa una replica di se stessa, è un immenso avamposto di frontiera, oltre cui si estende l’ignoto. Quindi, sullo sviluppo metropolitano del Nuovo Mondo, s’innesta il principio dell’autodifesa emerso dalla Rivoluzione Francese e ripreso dalla Costituzione americana nel «diritto di portare armi» come massima garanzia di libertà individuale. In Francia Dubois-Crance nel 1789 aveva sostenuto: «Ogni cittadino dovrà essere soldato e ogni soldato un cittadino, altrimenti non avremo mai una costituzione».
Scriveva Alexis de Tocqueville ne La democrazia in America: «Gli uomini sparsi in questo spazio non formano, come in Europa, altrettanti rami della stessa famiglia. Si scoprono fra loro, a prima vista, tre razze naturalmente distinte e, potrei quasi dire, nemiche».
Ne La cultura del piagnisteo sono raccolte tre conferenze tenute da Robert Hughes alla New York Public Library nel gennaio del ’92, pochi mesi prima dei disordini a Los Angeles. Oggetto: il «politicamente corretto», mito sofistico sul quale pare ormai fondarsi l’intera società degli Stati Uniti. Si dice «afroamericano» al posto di negro, «latino» al posto di ispanico o portoricano, «persona» al posto di uomo o donna. Si trattava di epurare dalle connotazioni negative parole scadute attraverso i secoli al ruolo di marchi d’infamia. Negli Stati Uniti invece sta affermandosi, secondo Hughes una perversa inviolabilità dell’Ego, in nome della quale si assolve, si giustifica, si santifica ogni diversità, perfino quelle inesistenti. Dietro la bandiera della tolleranza, Hughes intravede nel politically correct il trionfo di tutte le intolleranze.
Una situazione che favorisce l’affermarsi del vittimismo. Con conseguenze terrificanti specie nel campo dell’istruzione. Non è il primo allarme contro il prevalere nella scuola americana di un livellamento verso il basso. Non si afferma più che bisogna raggiungere certi risultati di profitto per poi inserirsi al meglio nella vita e del lavoro. Quello che conta è l’autostima. Dunque, niente più ultimo della classe o asino, bensì alunno non proficiente. «Poiché la nuova sensibilità», scrive Hughes, «decreta che i nostri eroi saranno solo le vittime», Mentre «il rango di vittima comincia ad essere reclamato anche dal maschio americano bianco». Hughes può permettersi di pungere, perché viene da un continente simile, l’Australia. Dove, certo, la convivenza di culture non è stata agevole, a scapito degli aborigeni, ma da tempo ci si è dati un modello di convivenza che non trincera i concetti dietro la retorica.
Lo sgretolamento delle due torri a Manhattan è il segnale esterno di un processo interno alla società americana. Dopo l’11 settembre 2001, facce di ogni razza e colore si proclamano «american», ma tutto congiura verso l’«unamerican». L’economia a briglia sciolta demolisce proprio la libera impresa, favorendo monopoli. Dapprima i fallimenti a catena delle casse di risparmio, poi la crisi dell’agricoltura. Le grandi aziende tartassano i piccoli proprietari costringendoli a vendere le terre e stabilendo una nuova politica dei prezzi. È la versione aggiornata alla crudele economia avanzata delle epopee narrate da Steinbeck, Faulkner e Saroyan. Più subdolamente, si incoraggia l’afflusso dei giovani figli di contadini nelle università della «Corn Belt», la cintura del grano, come si definiscono gli stati-granai del Middle West. La scommessa è che i neolaureati non tornino alla terra dei padri, lasciandola preda delle razzie finanziarie. Il prezzo maggiore, lo pagano afroamericani e ispanici.
Da Harlem, a New York, al South Side di Chicago, fino alla parte bassa di Los Angeles, non è stata affatto estirpata la segregazione delle numerose etnie di cui è fatta l’America. Bisogna rifletterci quando in Italia si punta il dito agli Stati Uniti come esempio ideale di società multirazziale.

l'Unità 21.7.08
La medicalizzazione della nascita, il dolore, la mancanza di informazioni corrette alle donne tra i temi affrontati da Elisabetta Malvagna
Niente paura, è solo un parto
di Cristiana Pulcinelli


In Italia la percentuale più alta di tagli cesarei tra i paesi industrializzati

L’Italia è uno dei paesi con il più basso tasso di natalità. Ma è anche il paese industrializzato con il più alto numero di parti cesarei. Facciamo pochi figli e quei pochi li facciamo nascere con l’aiuto della chirurgia. Nel 2003 il 36,4% dei parti avvenuti nel nostro paese sono stati parti cesarei: fino a vent’anni fa erano tre volte di meno.
Il fenomeno naturalmente non è solo italiano: un aumento del ricorso al bisturi nel momento del parto si riscontra negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania. E recentemente anche paesi come l’India, il Brasile e la Cina stanno assistendo a un fenomeno analogo, nonostante che per l’Organizzazione Mondiale della Sanità il numero di cesarei dovrebbe costituire un 15% di tutti i parti.
Perché si ricorre al cesareo? In un libro della giornalista dell’Ansa Elisabetta Malvagna (Partorire senza paura, Edizioni red!, pp. 141, euro 12,00) troviamo alcune risposte. Le statistiche dicono che l’uso del bisturi avviene più nelle strutture private che nelle strutture pubbliche. Questo fa pensare che ci sia un ritorno economico maggiore a spingere verso il ricorso alla chirurgia, inoltre c’è il fatto che il parto si può programmare in anticipo senza dover saltare pasti o sonni. Ma non bisogna dimenticare che c’è anche un alto numero di donne che chiede di partorire con il cesareo. Tanto che nel 2004 il governo britannico ha esortato i medici del sistema sanitario pubblico a non accettare automaticamente le richieste di partorire con il taglio cesareo avanzate dalle future mamme. Il taglio cesareo infatti non è esente da rischi per la madre e, inoltre, costa molto di più al servizio sanitario.
A spingere le donne verso la chirurgia è la paura, sostiene Malvagna. Prima di tutto paura del dolore. Ma l’autrice punta il dito contro la mancanza di informazione. «Il problema è che 4 donne su 10 non ricevono un’informazione sufficiente sul loro stato e per il 50% le opinioni della partoriente non sono prese in considerazione». Anche il dolore si può affrontare se si hanno gli strumenti per farlo e se si sa esattamente cos’è e perché c’è.
Il fenomeno dell’incremento nel numero di cesarei, in realtà, è solo un aspetto di un fenomeno più vasto che si potrebbe definire «medicalizzazione» del parto. Le donne partoriscono da sempre e sanno come farlo, ma negli ultimi duecento anni il parto non è più una cosa naturale. Ai primi dell’Ottocento si diffonde l’uso del lettino ostetrico e il forcipe viene inventato poco prima. Quasi contemporaneamente comincia il declino del ruolo dell’ostetrica a favore del ginecologo. La partoriente comincia ad essere considerata una persona malata.
Malvagna racconta i suoi due parti avvenuti in casa e segnala le esperienze pilota internazionali, senza disconoscere il ruolo della medicina: dove e come partorire è una scelta individuale, ma deve essere fatta in possesso di tutte le informazioni. Un’esigenza già espressa da una Carta dei diritti della partoriente votata dal parlamento di Strasburgo nel 1988, ma che l’Italia non ha mai ratificato.

Corriere della Sera 21.7.08
Ritorna l'affascinante polemica sulla falsità tra Constant e Kant. E un'opera dimenticata di Hobbes
Non possiamo vivere senza menzogna
Ignacio Mendiola: la bugia è un rifugio. Ci protegge dal mondo
di Armando Torno


Nel 1797 il trentenne Benjamin Constant scrive un trattatello dal titolo Delle reazioni politiche. Viene subito tradotto e ripartito in vari fascicoli da una rivista tedesca. Tra i molti nervi scoperti che l'amico di Madame de Staël si procura il piacere di toccare c'è il tema della menzogna. Da uomo del suo tempo, disilluso quanto brillante, Constant ricorda che i princìpi universali, qualora si dovessero utilizzare per le concretezze della vita, dovrebbero fondarsi su qualcosa di intermedio, insomma su un riferimento capace di concatenarli con la realtà. E, tra le molte frasi, ce n'è una che non poteva passare inosservata: «Dire la verità è un dovere, ma solo nei confronti di chi ha diritto alla verità».
Apparentemente sembra una teoria come molte altre di quel periodo ma, mettendo a punto la cosa, Constant non riesce a trattenersi dal criticare Immanuel Kant e, in particolare, alcune sue riflessioni. Tra le quali c'era la seguente: «Persino di fronte a degli assassini che vi chiedessero se il vostro amico, che loro stanno inseguendo, si sia rifugiato in casa vostra, la menzogna sarebbe un crimine ». Era noto — e lo è ancora ai nostri giorni — che per il sommo pensatore bisogna dire la verità in ogni situazione. Sempre e comunque.
La replica non si fa attendere. Kant risponde, ribattendo punto per punto (come fece Origene contro il pagano Celso), con uno scritto dal titolo
Su un presunto diritto di mentire per amore dell'umanità. Per dirla in breve, il tedesco non si muove di un millimetro. Tra le sue parole vale la pena ricordare: «Chi dunque mente, per quanto buone siano le sue intenzioni, ha l'obbligo di assumersi le responsabilità delle conseguenze che ne derivano»; e ancora: «È pertanto un sacro precetto della ragione — precetto che si impone incondizionatamente ed è irriducibile a ogni ordine di convenienza — essere veritieri (onesti) in ogni dichiarazione». Ora, chi volesse conoscere quella polemica e prendere atto dei testi, trova in un delizioso libretto, firmato Kant-Constant e dal titolo Il diritto di mentire, quanto desidera. La curatrice, Sabrina Mori Carmignani, merita una menzione per il saggio introduttivo e la confezione del piccolo volume edito da Passigli. Pagine che sollevano una questione irrisolta da millenni: già Agostino aveva scritto il De mendacio, dove distingueva e catalogava le bugie, mentre sette secoli prima di lui Eubulide di Mileto (ripreso da Aristotele) elaborò il «Sofisma del mentitore». Che, nella prima formulazione, suonava così: «Se menti dicendo di mentire, nello stesso tempo menti e dici la verità ». Lo hanno ripreso i logici del Novecento.
L'argomento sarebbe una questione oziosa e irrisolta della filosofia se non fosse tornato di grande attualità. O meglio, per dirla con i francesi, «è nel vento». Prova ne è la traduzione italiana, uscita da Tropea, di un brillante saggio di Ignacio Mendiola,
Elogio della menzogna. In esso si afferma una verità incontestabile: sulla menzogna sono state dette molte bugie. Gli esempi riportati si sprecano e il sociologo basco ne prende a prestito dal cinema, dalla letteratura e dalle esperienze esistenziali. Che sarebbe l'amore senza la bugia?
Mendiola rivendica il nostro diritto a mentire. Per lui Pinocchio non esiste ma di questo burattino abbiamo bisogno, come del principe azzurro e del lupo cattivo, giacché tra le braccia delle loro menzogne abbiamo trascorso ore serene e sonni beati. Ma lasciamogli la parola: «La menzogna è una protezione contro il mondo, un costrutto che ci salvaguardia dall'inclemenza del nonsenso, un rifugio che deve essere costruito anche da chi ripudia la menzogna, perché nella verità risiede solo l'inesistente occhio di Dio». Non si esprime da credente, ma i suoi argomenti sono perfetti per la vita che dobbiamo sopportare.
Si dovrebbe infine parlare di menzogna culturale, dell'inganno dell'arte e dell'architettura, del fondamentale ruolo della bugia in politica, in economia e nella società della comunicazione di oggi (senza menzogna ci sarebbe la Tv?), ma preferiamo segnalarvi un ultimo libro che indirettamente soffia sull'argomento.
Si tratta della Historia Ecclesiastica
di Thomas Hobbes, che ha appena visto la luce presso l'editore parigino Honoré Champion con il testo critico latino, la versione inglese e una formidabile introduzione di 300 pagine di Patricia Springborg dell'ateneo di Sydney (esce con il contributo della Libera Università di Bolzano). Quest'opera, in forma di carme elegiaco, che non ha mai trovato rilievo negli studi su Hobbes, è forse lo scritto più virulento e polemico del filosofo inglese. Alla base c'è la condanna del potere papale, ma i versi sono permeati da una domanda inquietante, espressa sovente in forma di satira: quante menzogne ha avuto bisogno la Chiesa nella storia?
Come si fa a rispondere? Hobbes non ne offre l'elenco. E poi, tutto sommato, per chi ha fede non è particolarmente importante.
La menzogna che accomuna uomini e donne nell'illustrazione di Alberto Ruggieri (Corbis)

Corriere della Sera 21.7.08
In un volume, curato da Uliano Lucas, le immagini più celebri. L'introduzione di Sergio Luzzatto
Il '68 attraverso l'obiettivo dei fotografi italiani


Le storie del '68 finora erano molto differenti: libri di documenti, note, apparati, e magari qualche rara illustrazione; da questi testi nessuno capisce il senso di anni lontani. Certo, quelli della mia generazione qualcosa ricordano: i manifesti ironici, violenti; slogan come «l'immaginazione al potere»; i cortei e gli scontri con la polizia; tutti filmati che trasmetteva allora la Tv nel segno però di un'altra storia, che narrava l'ordine contro il disordine. Ma adesso, per capire quei tempi, cosa resta? Una risposta importante viene da un libro appena pubblicato (' 68. Un anno di confine. I fotografi italiani raccontano, a cura di Uliano Lucas, introduzione di Sergio Luzzatto, Rizzoli, pp. 279, e 45) che propone l'altra immagine, scattata da molti dei maggiori fotografi italiani, da Gianni Berengo Gardin a Lisetta Carmi, da Carla Cerati a Cesare Colombo, da Luciano d'Alessandro a Mario Dondero, da Pepi Merisio a Ugo Mulas a Federico Patellani. Di che immagine si tratta? Il curatore del volume, Uliano Lucas ci fa capire il senso di una rivoluzione: queste non sono foto documento di chi resta estraneo agli eventi, queste sono foto che stanno dalla parte di chi contesta, dalla parte degli operai e degli studenti, le due forze che sono state il fulcro del Sessantotto.
Sono proprio le foto che dividono il mondo: da una parte gli ultimi, periferie disperse al limite delle campagne, vecchie case di ringhiera, contadini estraniati al Sud davanti alle loro case; al Nord operai alle catene di montaggio, oppure fuori, in sciopero, cartelli, aste, bandiere. Da ultimo gli alienati, con alcune immagini che hanno fatto capire l'orrore dei manicomi, delle «istituzioni totali». Di fronte — gli altri — sono violenza. E una foto parla da sola: poliziotti picchiano col calcio dei fucili un dimostrante. Dunque due mondi: la vita, la giovinezza, l'allegria del movimento, l'ironia delle scritte sui muri da una parte; dall'altra l'ufficialità dei discorsi, di Berlinguer come dei sindacalisti. Insomma foto come racconto, ma un racconto particolare, un racconto di strada. Nel libro a volte un particolare è dilatato a doppia pagina, e così le forme si sgranano, diventano ombre, come quelle delle foto scattate di notte e in movimento.
La novità delle foto di strada sta nella differenza rispetto alle immagini ufficiali, anche quelle delle istituzionali manifestazioni operaie. La lingua è nuova: mentre i fotografi della tradizione aspettano la luce giusta, scattano inquadrando in modo bilanciato, i fotografi del '68 scelgono immagini in movimento, slabbrate, sghembe. Uliano Lucas e altri con lui hanno scoperto un altro modo di raccontare: fotografia come segno della contraddizione, come metodo per scardinare le certezze delle immagini consuete, di consumo; insomma hanno inventato una foto di strada dove non ci sono protagonisti, ma centinaia di personaggi, e dove sono le idee a dominare. Grande libro, nel segno della memoria di mitologie, sogni, slogan, figure, davvero perdute. Ma anche libro denso di storia, quella di una Italia contadina e operaia che si trasforma, si amalgama, diventa altra.

Corriere della Sera 21.7.08
Lo scrittore di «Trauma» si confessa: i gesuiti, le messe, il latino. Poi la ribellione
McGrath: ero sulla cattiva strada
«Fui sedotto dalla controcultura: festival e hashish. Mi salvò mio padre»
di Nicholas Wroe


Il luogo molto particolare in cui lo scrittore britannico Patrick McGrath è cresciuto, una dependance dell'ospedale psichiatrico criminale dove suo padre era sovrintendente medico, ha sempre incuriosito. Ma è lo stretto legame che questo luogo sembra avere con le opere dello scrittore a dimostrarsi particolarmente affascinante.
Nell'ultimo romanzo di McGrath, Trauma (edito in Italia da Bompiani), lo psichiatra che fa da narratore, Charlie, entra nello studio della madre scrittrice. «Mi piaceva l'aspetto della scrivania di uno scrittore: carte e libri sparsi sul piano di lavoro, matite, occhiali, macchina da scrivere», dice. «Da piccolo pensavo che questo sarebbe stato il mio lavoro, ma sono un animale troppo sociale. Ho bisogno di parlare. Lo psichiatra è uno scrittore mancato, esiliato dal regno degli scrittori perché deve parlare». Le analogie e i contrasti tra l'esistenza dell'artista e quella dello psichiatra sono le forze vitali che sostengono il romanzo. Ascoltando McGrath parlare della sua vita e del suo lavoro è difficile non chiedersi se queste stesse tensioni non siano presenti anche in lui.
Le prime opere di McGrath, come la raccolta di racconti Acqua e sangue (1987) e il romanzo d'esordio,
Grottesco (1988), gli hanno valso, a torto o a ragione, la fama di scrittore «gotico». Le grandi case umide nelle grigie cittadine di periferia dei suoi libri sembravano nascondere terribili segreti. I romanzi successivi rimandavano a quel genere in maniera meno esplicita, ma l'etichetta gli è rimasta, anche perché McGrath continuava a far muovere i suoi protagonisti mentalmente instabili in un'Inghilterra un po' estraniata.
McGrath passa ancor oggi l'estate a Londra, o a Ibiza, ma vive a New York dal 1981. È solo da pochi anni, però, con Martha Peake (2000), che ha cominciato ad ambientare le sue opere in America. Il suo ottavo romanzo,
Trauma, è il primo a svolgersi interamente a New York e ad avere personaggi esclusivamente americani.
McGrath è nato nel 1950 e da quando aveva cinque anni — quando, secondo le storie familiari, la madre decretò che sarebbe diventato un poeta — ha vissuto nella tenuta di Broadmoor, dove stupratori e assassini lavoravano nel giardino della famiglia. Si raccontavano storie raccapriccianti sui pazienti del padre, come quella del vicario che aveva arrostito nel forno la testa della moglie, ma McGrath dice che gli era sempre chiara la differenza tra un aneddoto orripilante e il serio lavoro psichiatrico del padre. A parte questo, i ragazzi McGrath — Patrick è il primo di quattro fratelli — ebbero un'infanzia relativamente normale.
In casa c'erano molti libri e McGrath leggeva «di tutto»; si era appassionato ai racconti dell'orrore, ma anche a Evelyn Waugh e a Graham Greene. A 13 anni fu mandato in un collegio di gesuiti, e anche se dalla fine dell'adolescenza non è più credente, ricorda con piacere le messe di primo mattino, «con sei o sette preti, la luce del sole che filtrava attraverso le vetrate colorate nelle frizzanti mattine invernali, l'odore dell'incenso e il latino. Era stupendo».
Poi ha fatto il Sessantotto con tutti i suoi corollari, i festival, l'hashish e le «idee anti-autoritarie piuttosto confuse». Una delle conseguenza dell'infatuazione per la controcultura è stata la scelta di lasciare la scuola a 16 anni. È poi andato all'università, ma si è sentito piuttosto isolato: «Avevo la sensazione di essere sulla strada sbagliata e di star perdendo qualcosa di importante». Dopo il college non aveva idea di che cosa fare, e quando il padre gli procurò un lavoro in un ospedale psichiatrico in Canada accettò la proposta con entusiasmo. «Ero più interessato alla possibilità di andare in Canada che alle malattie mentali, ma poi il lavoro mi ha coinvolto e per quattro o cinque anni ho pensato che avrei continuato a lavorare in quel campo».
Nel 1981 si è trasferito a Manhattan, dove ha cominciato a guadagnarsi da vivere correggendo bozze «di noiosissimi libri di testo su astruse questioni legali o amministrative». Il quartiere di Tribeca stava allora cominciando a essere colonizzato dagli artisti — «non c'era ancora neanche un negozio di alimentari » — e McGrath ricorda la grande energia artistica di quegli anni. «C'erano posti in cui potevi leggere le tue opere, e nascevano molte piccole riviste dove potevi vedere le tue cose stampate. Era un luogo molto competitivo e utile per fare esperienza».
Peter Carey, un altro newyorchese d'adozione, sostiene che l'entusiasmo di McGrath per la città non è diminuito. «McGrath non ha bisogno di vini, vestiti o case costose. L'unica cosa che veramente gli occorre è un posto dove scrivere. Questo è quello a cui tiene ». Carey dice che McGrath è quasi il solo scrittore con cui riesce davvero a parlare di questo lavoro, anche se «non si tratta di uno scambio di consigli, ma del piacere di comunicare con chi sa cosa significa scrivere e quali sono i problemi. Si ha bisogno di una persona che capisca queste cose». E aggiunge che «McGrath ha investito molto, emotivamente, negli aspetti migliori dell'America, anche se è consapevole dei suoi lati peggiori. Il suo cuore è profondamente legato a questo paese». McGrath ha preso la cittadinanza americana, è membro del partito democratico ed è «tremendamente arrabbiato e angosciato» per le scelte dell'amministrazione Bush.
Nonostante viva a New York, per molto tempo ha trovato «comodo» ambientare i romanzi nella sua versione fantastica ed inquietante dell'Inghilterra. Sua moglie, l'attrice e regista Maria Aitken, aveva già letto i suoi libri prima che si incontrassero e si sposassero, nel giro di poche settimane, nel 1991. «Secondo lei, si capiva subito che ero inglese», ricorda McGrath, «ma si capiva anche che c'era qualcosa di strano. E penso che questa sia una sintesi abbastanza efficace dell'Inghilterra descritta nei miei libri».
Essere classificato come scrittore gotico al principio della carriera è diventato per lui un problema: McGrath si lamenta del fatto che questo ha indotto a non leggerlo con attenzione, perché «si pensa di sapere fin dall'inizio quel che succederà. In libri come
Grottesco, e anche in Martha Peake, ho usato il genere gotico deliberatamente. In altri cercavo di fare qualcosa di diverso». Rimane comunque attratto dalla letteratura gotica anteriore a Freud e dalle «intuizioni sul funzionamento della mente che vi si trovano, anche se le teorie freudiane erano ancora di là da venire».
Da post-freudiano, McGrath ha cercato di rappresentare il più accuratamente possibile la malattia mentale. «Quando ho scritto dello schizofrenico Spider, ne ho parlato con mio padre, che si è complimentato con me, dicendomi che si trattava della miglior rappresentazione di uno schizofrenico che avesse mai visto. Ma quando gli ho spiegato come pensavo di finire il libro, con Spider che riusciva a venirne fuori e aveva l'impressione che l'intera struttura della sua memoria fosse irreale, mio padre ha scosso la testa e ha detto che non era quello che succedeva a persone come lui. Aveva una visione più pessimista della mia, ma parlava con cognizione di causa. Credo che lo scrittore e lo psichiatra abbiano a lungo sondato con pari impegno le disfunzioni della mente. Lo scrittore vuole interessare e piacere, lo psichiatra curare, ma entrambi cercano di esplorare la natura umana».
© Guardian News & Media 2008 (Traduzione di Maria Sepa) Maestri
Dall'alto: Patrick McGrath, Graham Green (1904-1991) ed Evelyn Waugh (1903-1966)

Sono arrabbiato e angosciato per le scelte che ha fatto l'amministrazione di George W. Bush


Repubblica 21.7.08
Il segreto di Hannah
Quel che Kafka rivelò alla Arendt
di Nadia Fusini


Se la Weil e la Bespaloff avevano intuito il tema dello sradicamento umano, lei poté osservare l´intera parabola del totalitarismo
Durante l´esilio in America, la pensatrice affrontò "Il Castello" e capì il male radicale che stava stravolgendo il mondo
Solo la coscienza individuale può difendere il volto etico dell´esistenza
L´abuso della forza tramutava in dis-umani sia i persecutori che le vittime

Nell´agosto 1944 Hannah Arendt fu invitata ai colloqui di Pontigny-en-Amerique, che si svolgevano presso il College di Mount Holyhoke, nel Massachussets, non lontanto da Boston. Dal monastero circestense in Borgogna, armi e bagagli gli «Entretiens de Pontigny» si erano lì trasferiti, dopo l´invasione nazista del suolo francese, e Mount Holyhoke era diventato in quegli anni un sicuro riparo per chi di origine ebraica fuggisse dalle persecuzioni razziali. Del comitato di intellettuali esuli facevano parte Jacques Maritain, Gustave Cohen, Jean Wahl. Insieme con Jean Wahl, nel 1942 era arrivata Rachel Bespaloff. La quale dal ‘43 aveva preso a insegnare Letteratura Francese.
Rachel era senz´altro tra coloro che in quell´agosto ascoltarono il discorso di Hannah Arendt su Kafka. Partendo dal romanzo Il Castello, Hannah Arendt affrontava lo stesso tema della violenza, cui Rachel e Simone Weil s´erano appassionate leggendo l´Iliade. A partire da un testo letterario anche lei rifletteva sul presente.
Kafka era vicino, assai più vicino di Omero; era più facile, in un certo senso, leggerlo come un pensatore politico. E soprattutto profetico, perché Hannah Arendt rintraccia nel romanzo kafkiano la descrizione di una nuova forma di governo, sconosciuta - osserva - a Montesquieu; la forma che di lì a poco - Kafka scriveva negli anni ‘20 - il mondo avrebbe assunto. Anzi, aveva assunto.
Agli orecchi di chi ascoltava l´appassionata conferenza si profilò un nuovo nesso tra passato e futuro; un vincolo agghiacciante in cui il futuro investiva d´impeto il presente e non donava, semmai toglieva il passato, facendosi beffe di ogni umana, troppo umana arroganza. Ma se il futuro era alle spalle, e il presente intransitabile - che fare?
La domanda non è irrilevante per Hannah, la quale si presenterà sempre non come una filosofa: «Io non appartengo alla cerchia dei filosofi» ripeterà più volte. Ci tiene a dirlo, quasi annunciasse in tal modo la sua vocazione, che è quella di pensare: «il mio mestiere, la mia disciplina è di pensare» afferma senza mezzi termini; e prosegue qualificando il suo proprio modo di pensare come Selbstdenken. E cioè, al modo di una che pensa da sé, che pensa da sola. Così amava dire Rahel Levin Varnhagen, la giovane donna ebrea a cui all´inizio degli anni Trenta aveva dedicato la sua attenzione. Quando nel suo salotto letterario di Berlino Rachel conversava con Schlegel, con Humboldt, con Schleiermacher, Rachel proclamava: «tutto dipende dal riuscire a pensare da soli». Appunto.
Il fatto che si pensi da soli, però, non significa che i pensieri non si intreccino in una rete di stimoli, impulsi, echi, rimandi. E´ questa trama, al contrario, che io invito a cogliere tra i pensieri di Hannah, di Rachel - questa Rachel che ora Hannah ha di fronte in ascolto - e Simone.
Dopo il seminario di Mount Holyhoke Rachel Bespaloff e Hannah Arendt si incontrarono un´altra volta a una cena a cui erano presenti, tra gli altri, Hermann Broch e Mary McCarthy. I quali saranno nel tempo grandi amici di Hannah. Ed erano stati entrambi coinvolti nella pubblicazione in inglese del saggio sull´Iliade di Rachel. Se Rachel ascoltò Hannah, perché Hannah non avrebbe dovuto leggere Rachel?
Pur nelle distinzioni che rimangono tra loro, le due donne condividono esperienze che le accomunano; l´esilio, la persecuzione, e delle letture. Kafka, Benjamin, Brecht sono nomi che dicono molto anche a Rachel. La quale in quegli anni legge i romanzi di Albert Camus e rabbrividisce alla «furia di gelida violenza» che vi trova.
K. - il protagonista del Castello - spiega Hannah voleva essere un uomo come tutti gli altri. Ma scopre che la società in cui vive non è più umana; ragion per cui, la sua intenzione, all´apparenza semplice, modesta, di realizzare i diritti umani essenziali risulterà in un progetto impossibile a realizzare. Le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi una camera, osserva Hannah, ma non «a soddisfare il bisogno elementare di vivere un´esistenza umana».
Ecco, il male - che Simone aveva definito «incolore, monotono, arido, noioso», e Hannah chiama «radicale», mentre più tardi, con maggiore precisione, sostituirà l´aggettivo «radicale» con «estremo». Ecco, la violenza - e cioè, la distruzione della dignità umana, l´uccisione della personalità morale, dell´unicità dell´uomo. Ecco l´«uomo-cosa». Ecco l´«irrealtà». Un uomo di buona volontà, il quale vuole solo quello che gli spetta di diritto, e cioè una casa, un lavoro, una famiglia, il diritto di cittadinanza; un uomo che non chiede mai nulla più del giusto, le cui ambizioni sono tutte qui, ripete Hannah: avere una casa, una posizione, un lavoro - viene trattato come se chiedesse l´impossibile. Gli si fa capire che potrebbe avere quel che esige, se solo lo chiedesse come un dono, come un´elargizione dall´alto; non come un diritto. K. si rende conto di qualcosa che è accaduto senza che tutti gli altri abitanti del villaggio l´abbiano compreso; anzi, proprio senza rendersene conto, l´hanno accettato. E´ accaduto che tutto ciò che secondo natura dovrebbe essere in mano all´uomo gli è stato sottratto dal potere, e gli torna dall´alto come destino, o come dono, o come una maledizione. K. non vuole accettare quel sistema di violenza, né l´ossessione della paura in cui vive il villaggio all´ombra del Castello. Morirà spossato in una battaglia che non riesce neppure a ingaggiare.
Il potere di fatto non gli riconosce la libertà, ovvero, la «capacità umana di agire», di confrontarsi in un´«amicizia eguale» con gli altri, di costruirsi la sua propria vita. Ecco il male radicale, il male estremo che soffoca l´esistenza. - argomenta Hannah. Kafka lo rivela. Coglie il segreto doloroso, ma vero, dell´esistenza umana. Che il tramite sia l´Iliade, o il Castello, chi legge il testo vi legge il mondo.
Se avvicino Hannah Arendt a Simone Weil (e a Rachel Bespaloff) non è per stringerle in una identità di vedute che le scolorisca l´una sull´altra. Sono al contrario ben avvertita del «doppio paradosso» di cui parla Roberto Esposito nel suo bel libro L´origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, uscito qualche anno fa per Donzelli: quel che le avvicina, nel loro caso, sono d´accordo, è una «lontananza approssimante», «una distanza che congiunge». Ma le risonanze contano e quello «sradicamento umano», che sia Simone sia Rachel avevano intuito nei loro anni, e ora si stava realizzando, Hannah, che sopravvisse loro, ebbe il tempo di vederlo. Simone, ricordo, morì nel 1943. Rachel nel ‘49.
Hannah nel ‘65. Erano nate Simone nel 1909, Rachel nel 1895 e Hannah nel 1906. Se le prime due conobbero la sola ipostasi nazi-fascista, Hannah potè osservare per intero compiersi la parabola del fenomeno totalitario. Ebbe modo dunque di portare a fondo un´intelligenza che si nutrì anche dell´incontro con il pensiero delle altre due donne. Anzi, con un pensiero femminile che non separava la filosofia dalla vita, né la lettura dall´esistenza.
Un pensiero la cui potenza di illuminazione cresceva in proporzione all´indignazione etica, secondo una piega che muoveva la sensibilità e l´intelligenza a prendere il punto di vista dell´altro, a mettersi nei panni del più debole.
La «forza» torna al centro della sua attenzione. Simone l´aveva detto: «non credo che si capisca molto dei rapporti umani, se non si mette al centro la nozione di forza». Hannah la segue; ma di quella forza, che Simone vede come costante universale della natura umana (della quale verità l´Iliade è «il più bello, il più puro degli specchi»), vuole descrivere l´espressione "nuova", frutto dei regimi totalitari che indaga. Nel mondo di Hannah, secondo Hannah, è accaduto qualcosa di nuovo, una degenerazione, una perversione, una mostruosità abnorme in cui l´abuso della forza tramuta in dis-umani sia i persecutori, sia le vittime.
Tutto è forza, «salvo in un punto» aveva detto Simone. In quel «punto» aveva identificato una specie di non-forza, una specie di negativo della forza, e l´aveva chiamato Amore. Amore tiene in pugno Ares, aveva detto. Rachel quel «punto» lo chiama piuttosto poesia, ovvero la capacità del poeta di mantenere viva nella parola l´avventura umana della conoscenza. La sua difesa di un luogo dell´interiorità, dove l´esistenza prende un volto etico.
Per Hannah quel «punto» è la coscienza individuale. La forza ha il potere di «congelare l´anima», aveva detto Simone. Hannah riprende l´immagine, e la modula diversamente: mai nessun potere, afferma, ha preteso l´annientamento della presenza umana, se non quello totalitario. Mai nessun potere ha voluto con altrettanta determinazione annichilire la coscienza. Qui si vuole non soltanto l´obbedienza; qui si vuole l´annientamento non solo della vittima, ma anche del carnefice. Qui si distrugge non solo l´ebreo, ma il nazista. Si annienta l´uomo. E tale degenerazione non è iscritta nelle cellule del potere; semmai, ne è l´esito perverso.
Su questo punto tra le tre donne non c´è accordo. Non si tratta di stabilire oggi, a distanza di anni chi ha torto e ragione. Ma di non dimenticare l´ascolto di cui sono state capaci proprio mettendo a tema ognuna a suo modo la loro differenza.
Perché oggi si ha l´impressione che sia necessario pensare la libertà, e ripensare la politica.

(fine - le altre puntate sono uscite il 15 e il 18 luglio)

Repubblica 21.7.08
Il diritto di morire nel nostro Medioevo
di Adriano Prosperi


Una antica rissa cristiana sembra essersi riaccesa in Italia intorno al più cupo dei diritti, quello di morire: suore uscite per un attimo dall´ombra di una vita di carità, prelati e dotti teologi offrono gli argomenti della religione a un movimento assai composito di gente comune e di affannati politicanti. Ed è un dolce nome di donna quello a cui tocca ancora una volta il compito di portare il simbolo dell´offesa e della violenza patita. Ma la schiuma della cronaca talvolta nasconde piuttosto che rivelare le correnti profonde. Per questo non faremo quel nome. Per una volta almeno non sarà pronunziato il nome di donna a cui tocca oggi – in attesa di altri candidati che non mancheranno – il compito di rappresentare nella piazza mediatica il dramma della nostra impotenza davanti alle crudeltà della natura e di offrire il suo volto indifeso alle bandiere di un "partito" contro un altro – un sedicente partito della vita in lotta contro un improbabile partito della morte. Tacerlo è la sola cosa che resta da fare, non solo per pudore e per pietà, ma anche perché tutto il necessario è stato detto e tutte le risorse e i saperi delle istituzioni sono stati messi a frutto.
Qui si tratta piuttosto di capire la sostanza dei problemi che agitano la società e che muovono ciascuno di noi a partecipare intensamente, coi sentimenti e con le idee, alla tempesta che ogni volta si scatena intorno a questi casi. Ogni volta questa speciale forma di morte chiama in gioco la medicina e il diritto, la religione e la politica. È la moderna danza macabra di un nuovo Medioevo, ossessionato come l´antico dalla paura di un nemico terribile: che non è più la morte improvvisa e senza sacramenti della peste, ma è la minaccia congiunta di una vita che non è vita e di una morte debole, inavvertita e sfuggente.
Le ragioni del diritto le ha esposte ieri con la solita inappuntabile precisione Stefano Rodotà. Ma è la medicina che viene prima di tutto. A lei, in una celebre intervista del 1957, un lungimirante Pio XII lasciò il compito e la responsabilità di individuare il segno del confine tra la vita e la morte. E ben prima di allora i medici hanno cercato di fare propria l´antica certezza di Re Lear: «Io so ben riconoscere quando uno è morto e quando vive». Ci sono riusciti? non sembra. Oggi negli Stati Uniti d´America può accadere che una persona - la stessa persona - sia ritenuta legalmente morta in California e ancora in vita nel Missouri. Il caso (reale) è raccontato dal professor Carlo Alberto Defanti, nella prima pagina di un libro che sembra scritto apposta per guidare con l´aiuto della scienza medica i lettori dei nostri tempi, in sosta angosciati davanti al passaggio estremo: Soglie. Medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp.270).
Quali le soglie su cui si è attestato nel nostro provvisorio presente il limite estremo della vita umana? sono ancora quelle antiche, in contrasto da secoli: il battito del cuore, la scintilla del cervello. La medicina si è impadronita della questione quando, col ritorno alla pratica anatomica alla fine del Medioevo, la foresta degli organi è cominciata ad emergere dietro l´unità della pianta umana. E fin da allora la pratica medica concepì quella fame di corpi che non doveva più lasciarla: la "fabbrica del corpo umano" (il titolo fu di Andrea Vesalio) doveva essere chiamata nel ‘900 - dopo la celebre operazione di Christian Barnard - a fornire tanti pezzi di ricambio. Questo non è un dettaglio ma un punto nodale dei problemi attuali. L´offerta di corpi umani, possibilmente ancora palpitanti di una vita residua, ha alimentato i progressi della medicina.
Ma per ottenerli è stata necessaria una alleanza coi poteri della religione e dello Stato: fin dagli inizi. Come si racconta in un libro collettivo, uscito contemporaneamente a quello di Defanti (Misericordie, Confessioni sotto il patibolo, Edizioni della Normale 2007) si ricorse per secoli alle forniture dei patiboli e alle membra più "vili", quelle dei condannati a morte. E ci volle uno speciale investimento di pratiche e di rituali per saldare il necessario circuito tra potere e religione, tra erogazione della morte e promessa di vita - quella dell´aldilà ai condannati e quella di questo mondo agli ammirati spettatori delle meravigliose operazioni della scienza medica. Da allora in poi quel circuito doveva ripresentarsi costantemente, sia pure sotto altre forme.
Le tappe successive della storia scientifica della questione ci portano ancora alla diarchia cuore-cervello. Il "miracolo" della rianimazione (dall´inglese "resuscitation") aprì la strada alle moderne cure intensive con le tecniche per far ripartire un cuore arrestato e ventilare chi non era in grado di respirare autonomamente (il polmone d´acciaio è del 1927). Ma quando si scoprì nel 1959 che in determinati stati di coma l´elettroencefalogramma non rilevava più onde elettriche cerebrali, si pose il problema se valesse la pena proseguire l´assistenza ventilatoria. Dalla scoperta del coma irreversibile derivò la proposta del comitato della Harvard Medical School di considerare questo stato come "sindrome della morte cerebrale" e di fissarlo come nuovo criterio di morte. La data del documento (1968) segna una svolta storica importante, come mostra Defanti che ne analizza il contesto e le ragioni, scientifiche ed economiche, e segnala la cautela con cui fu cercato l´avallo delle autorità religiose. È su questa base che fu definita la procedura per ottenere organi utilizzabili per trapianti, pezzi per l´officina delle riparazioni chirurgiche. Ma, come sanno o dovrebbero sapere tutti coloro che hanno nel portafoglio l´autorizzazione all´espianto dei propri organi, quel criterio fu scelto per ragioni pratiche da chi sapeva quanto fosse difficile fissare l´attimo decisivo su di un orologio della morte che è capace di misurare solo un processo graduale e differenziato. Così anche il documento di Harvard non segnò la fine della questione. Da un lato la diffusione clamorosa con Barnard del trapianto di cuore spinse potentemente in direzione dell´eutanasia attiva e dell´espianto di cuori funzionanti; dall´altro l´esplorazione del cervello ha dissolto l´unità di questo organo in entità diverse, ognuna con una vita e una morte propria.
Se lasciamo l´ancoraggio delle ricerche mediche, ci si apre davanti l´universo dei sentimenti: specialmente di quella paura della morte di sé che in ciascuno si scatena davanti alla morte degli altri. E qui la realtà del nostro tempo rivela la sua irrecuperabile lontananza dall´antica religione che oggi lotta con tutte le sue forze contro i suoi nemici di sempre. Eutanasia, questa è la parola: parola ambigua, odiata e ripudiata quando si presenta con l´orrendo volto nazista della soppressione forzata di un´umanità difettiva, ma che cela nel suo benevolo suono la voce di una sirena antica: il desiderio e l´augurio - per sé e per i propri cari - di una morte rapida e totale, senza sofferenze; ma anche la convinzione ormai acquisita che disporre della sorte del proprio corpo rientra fra i diritti dell´individuo. Qui si incontrano i bisogni profondi del nostro tempo. E si capisce perché ci colpisce tanto la storia di quella dolce figura femminile, che appare oggi ancora viva almeno nella cronaca lacerata del paese: è la nostra storia, una possibile, sempre più probabile storia della fine che aspetta ciascuno di noi. Qui si misura l´arretramento drammatico del senso cristiano della morte, di quella morte gioiosa del credente che dettò a Martin Lutero uno dei suoi scritti più belli e che doveva animare la fede dei martiri della Riforma mentre salivano lietamente sui patiboli dell´Inquisizione. Oggi solo la deliberata ambiguità della scelta di una parola, la vita - termine che i credenti possono intendere nel senso di vita dell´aldilà e tutti gli altri sono liberi di applicare alla vita che abbiamo qui - sostiene le incongrue alleanze costruite per battere le leggi sull´aborto e le proposte di testamento biologico.
Il filo che ci porta al presente cominciò quando nella cultura europea del ‘700 razionalista prese corpo il rischio della morte apparente. Come ha raccontato anni fa Claudio Milanesi furono allora elaborate norme precise tuttora valide per scongiurare il pericolo della sepoltura di persone in stato di catalessi; e tutti conoscono in che modo la fantasia romantica di Edgar Allan Poe desse poi corpo a quei fantasmi dei morti viventi che abitano oggi negli incubi del nostro presente e ci vengono incontro nelle corsie delle cliniche.
Dunque, una conclusione si impone. La storia ci ha condotti a questo punto, per molte e complicate vie che fanno parte incancellabile della realtà di un paese moderno. Pertanto non ci sono alternative alla messa in opera delle regole faticosamente elaborate per conciliare il diritto individuale a disporre del proprio corpo con l´obbligo istituzionale a fornire tutte le cure necessarie alla persona malata: obbligo che non si deve tuttavia spingere alla "tortura inutile" di cui scriveva Paolo VI nella lettera del 1970 citata da Rodotà. E se le attuali gerarchie cattoliche farebbero bene a meditare quelle parole, spetta invece allo Stato italiano affrontare sia il gravissimo problema delle carenze delle strutture sanitarie che oggi obbligano le famiglie a sostenere il peso anche morale di situazioni dolorosissime, sia introdurre finalmente una regolamentazione adeguata del testamento biologico. Nell´immediato, spetta a noi tutti fare un passo indietro, recedere dal clamore indecente che oggi assedia chi ha diritto al rispetto e al silenzio.

il Riformista 21.7.08
Englaro abbiamo visto il peggio delle culture in campo
Eluana, macabro caso di accanimento biopolitico
di Emma Fattorini


Ex-male, bonum. Tra i pochissimi segnali positivi di una stagione morale e culturale così triste, potevamo, almeno, essere contenti per l'affievolirsi di quel furioso e regressivo bipolarismo etico che, nell'ultimo decennio ha coperto vuoti culturali, politici e purtroppo anche religiosi. Saggiamente auspicato da Antonio Polito su queste pagine e rimpianto da chi, invece, vuole rilanciare la contrapposizione astiosa sui temi ultimi. Uno scontro che si autoalimenta e che ha espresso il peggio delle culture in campo: l'umanesimo laico in nome della libertà e della qualità della vita piuttosto che seguire i sentieri della pietà e dell'umanità si è arroccato sulla burocratica richiesta legislativa, il fronte cattolico ha rischiato una difesa sempre più "materialistica" della vita intesa nella sua pura naturalità biologica, nella sua mera artificialità.
Ora, invece, sulla sorte della povera Eluana si riaccende, purtroppo, il macabro spettacolo nazionale: il Magazine del Corriere della Sera invita i lettori a votare pro o contro, come in un nuovo gioco estivo, mentre i cattolici intransigenti si permettono di accusare il padre di egoismo e crudeltà.
Anch'io, come Polito, lascerei «le cose come stanno»: ben diverso dal caso Welby, dove c'era un reale accanimento, una crescita di sofferenza, una volontà chiara ed esplicita del malato e dove sarebbe stata sacrosanta una legge che ne consentisse la volontà, quello di Eluana, è tutto un altro caso. Da un punto strettamente bioeticistico aprirebbe un precedente di carattere eutanasico perchè siamo in una palese sospensione non delle cure ma della nutrizione. Una distinzione però che fuori dalle disquisizioni giuridiche e bioetiche, in molti altri casi, nella vita concreta del paziente suona quanto mai artificiosa, pretestuosa e ipocrita: c'è un momento in cui l'alimentazione è la cura.
La mancanza di un minimo di legislazione sulla fine vita fa sì che, ancora una volta sia la giustizia a supplire, a sostituirsi alla politica.
Troviamo dei paletti per i casi estremi, visto che ormai concordiamo tutti sul bisogno di dettare alcune regole. Lo hanno detto molto bene Eugenia Roccella e Gaetano Quagliariello.
Senza illudersi che il testamento biologico (orrenda dizione) risolva magicamente problemi quasi insolubili fuori da un buon rapporto medico-paziente: dopo una malattia, dopo una certa età, dopo una maturazione interiore è frequentissimo cambiare idea sull'accettabilità delle proprie condizioni di vita, pochi comunque restano lucidi e consapevoli. Ma per chi ha questa "fortuna" e, all'opposto, per i casi estremi si deve approntare un testo legislativo minimo, che accetti la richiesta di sospensione delle cure. Perchè dopo anni di estenuante dibattito sul testamento biologico non si pensa anche alla normalità della morte e non si trova un accordo sulle cure palliative e le terapie del dolore, non si potenzia l'uso degli oppiacei, se ne agevola la somministrazione?
Più i grandi dilemmi bioetici si affrontano nella concreta esperienza delle vite umane piuttosto che a partire dalle contrapposizioni ideal-ideologiche e più si trovano soluzioni largamente condivise. Non è relativismo. Non è una rinuncia ai propri principi. È una constatazione misurata anche "statisticamente", quantitativamente, da molti tra i più autorevoli bioeticisti di tutto il mondo, soprattutto americani. Dati e inchieste alla mano. Nella angosciante scelta circa la sospensione delle cure, la stragrande maggioranza delle decisioni si risolve in una dolente intesa tra medico-paziente e famiglia. Non sembri una semplificazione di buon senso: è davvero così. Ma l'opinione pubblica è spesso tratta in inganno dalla esasperazione di casi limite enfatizzati dai media e dalle polemiche politiche e non riesce a vedere come siano sempre superiori le ragioni di una comune visione umana. Perchè? Questa è la vera domanda. L'esasperazione intollerante, l'enfatizzazione ideologica delle divisioni di principio testimonia della crisi profonda della nostra cultura politica sia laica sia cattolica. Eppure proprio perchè i problemi sono gravi, perchè non c'è più un umanesimo credibile in grado di accogliere queste verità, proprio perchè esiste un'emergenza morale dobbiamo ripartire dalle concrete esperienze esistenziali delle persone e scopriremmo che sulle domande essenziali del dolore e della morte sono più le cose che ci uniscono da quelle che ci dividono.

il Riformista 21.7.08
Obama chiede più truppe in Afghanistan
«È una guerra che non si può perdere». Ma il vero scoglio sarà l'Iraq


Un breakfast con i soldati a Kabul, un colloquio nella capitale afghana con il presidente Hamid Karzai. Per Barack Obama, la prima tappa del viaggio che lo porterà anche in Iraq e poi in Giordania, in Israele, in Germania, in Francia e in Gran Bretagna è stata probabilmente la più facile. Protetto dall'etichetta del viaggio congressuale, accompagnato da due uomini politici con una lunga esperienza di affari militari e di opposta fede politica, il repubblicano Chuck Hagel e il democratico Jack Reed, tenuto rigorosamente alla larga da telecamere e malintenzionati da un imponente servizio di sicurezza, il senatore dell'Illinois ha rischiato poco. «Il mio compito è soprattutto di stare a sentire. Questo è un viaggio del Congresso e il presidente in carica è uno solo», ha spiegato già prima della partenza da Washington.
Nelle basi militari che il viaggio ha toccato, il grande Bagram Air Field, la principale base Usa in Afghanistan, e poi il Jalalabad Air Field all'ombra delle montagne di Tora sabato, e infine ieri a Kabul, Obama ha soprattutto ascoltato, mangiato insieme alle truppe, perfino giocato a basket. Quello che i generali, e perfino il governatore di Mangarhar, un ex signore della guerra ormai schierato al fianco degli americani, gli hanno raccontato, d'altra parte ha dipinto una situazione sempre più tesa, in cui i talebani e i seguaci di Al Qaeda si sono rafforzati nelle zone al confine con il Pakistan e gli attentati e le vittime sono cresciuti nell'ultimo anno. Solo nell'ultimo mese i morti in Afghanistan sono stati tre volte più numerosi di quelli in Iraq.
Per il candidato nero, che ha sempre sostenuto durante la campagna elettorale che l'Afghanistan è una «guerra che non si può perdere» e che ha ripetutamente chiesto l'invio nella regione di due nuove brigate, circa 7 mila uomini, le parole degli alti militari e del governatore non hanno rappresentato probabilmente altro che una conferma.
E, d'altra parte, anche tra i repubblicani la posizione di Obama su questo argomento non trova molte critiche. Anche McCain, infatti, è sostanzialmente d'accordo con la necessità di un rinnovato impegno americano per combattere le forze di Al Qaeda che sembrano aver lasciato l'Iraq per rifugiarsi nelle più sicure montagne ai confini del Pakistan. «Obama ci ha offerto il suo supporto per la ricostruzione e la sicurezza», ha fatto sapere Ghul Aga Sherzai, il governatore di Mangarhar. Anche con Karzai, che Obama ha in passato accusato di «non essere uscito dal bunker», il candidato ha d'altra parte lasciato capire di non voler forzare i toni della polemica.
Per il senatore dell'Illinois, però, i trabocchetti cominceranno con le prossime tappe. Per Barack Obama, che in questi ultimi mesi si è messo intorno uno staff di politica estera che ha raccolto il meglio degli esperti del partito democratico nel settore, dall'ex consigliere per la sicurezza nazionale Anthony Lake allo storico negoziatore per il Medio Oriente Dennis Ross, il primo scoglio sarà l'Iraq. Già ieri mattina, i giornali conservatori americani hanno dedicato i loro editoriali al primo viaggio di Obama a Baghdad e all'incontro che avrà con il primo ministro iracheno Nuri al Maliki e non hanno lesinato le critiche. Riguardo alla guerra in Iraq, Obama ha avuto fin dall'inizio una posizione molto netta e molto chiara, è stato contrario all'intervento americano nel 2003, quando ancora non votava in Senato, ed è stato critico nei confronti del cosiddetto «surge», l'aumento di 30 mila soldati deciso lo scorso autunno da Bush. Se sarà eletto presidente, ha promesso agli americani, ordinerà il ritiro delle truppe a un ritmo di una o due brigate al mese. In questo momento, tuttavia, la sua posizione presenta il fianco alle critiche. Giusto pochi giorni fa, infatti, Bush ha inaspettatamente cambiato rotta e, dopo anni di rifiuto, ha aperto uno spiraglio al calendario per l'inizio del ritiro. Dopo una discussione effettuata in videoconferenza, Bush e Maliki si sono accordati per stabilire un «orizzonte temporale» per una «ulteriore riduzione delle forze di combattimento americane in Iraq». La concessione della Casa Bianca dovrebbe facilitare la conclusione entro fine mese di un accordo generale di sicurezza tra le forze americane e l'Iraq.
Da parte sua, McCain è stato fin dall'inizio un deciso difensore della necessità di aumentare le truppe e adesso la situazione sul campo sembra dargli ragione. In questi giorni, così, il candidato repubblicano è pronto a lodare la decisione di Obama di esporsi per la prima volta in Afghanistan e in Iraq. «Era un viaggio dovuto da molto tempo, se vuole guidare questo paese», ha spiegato McCain. Prima di aggiungere, ironico, «Obama è così ancorato alle proprie idee che difficilmente cambierà opinione sull'Iraq. Solo un anno fa, sosteneva che l'invio di trentamila nuovi soldati non sarebbe servito a niente». Al senatore nero, adesso, non resterà che destreggiarsi sotto gli occhi attenti dei suoi futuri ospiti internazionali e di una non ancora del tutto convinta opinione pubblica interna.


il Riformista 21.7.08
Lo schiamazzo reale alle quattro di mattina
Il gabbiano di mare e quello di città
di Francesco Petretti


Fra la fine di giugno e l'inizio di luglio in città, a Roma, ma non solo, anche a Napoli, a Bari e a Cagliari, sembra di trovarsi su un peschereccio circondato da una nube di gabbiani.
I grandi uccelli schiamazzano in continuazione, ma hanno un picco di attività canora fra le quattro e le sei di mattino, quando la colonia, che non è rimasta inattiva durante la notte, saluta il nuovo giorno e ristabilisce ruoli, gerarchie e abitudini ricorrendo a un ampio vocabolario che conta ben diciassette frasi diverse.
Esistono versi di allarme, pigoliii di richiesta, schiamazzi nuziali e soprattutto canti territoriali profondi e prolungati come il latrato di un cane.
Gli ornitologi nel repertorio del gabbiano reale (Larus cachinnans) hanno distinto numerose vocalizzazioni diverse, ma la più caratteristica è proprio questo lungo grido territoriale, o "long call" che somiglia a una risata o a un latrato ed è emesso dai gabbiani a pieni polmoni, con il becco aperto e puntato verso l'alto.
Grazie alle vocalizzazioni , i gabbiani definiscono il possesso del territorio di nidificazione, rappresentato dal tetto di una casa, dal comignolo, dal muro di un edificio storico o monumentale. Qui hanno stabilito, già in pieno inverno, il proprio dominio preparandosi alla riproduzione che ha luogo in primavera e si conclude con l'involo di due o tre giovani proprio alla fine di giugno..
Il gabbiano reale , dal dorso di color grigio e le parti inferiori candide, ha due anime: quella che sa di mare e quella che sa di rifiuti. E', fra gli uccelli, l'equivalente dei topolino con la sua duplice natura cittadina e campagnola.
C'è il gabbiano reale che ha eletto a sua dimora lo scoglio battuto dal vento e dalle onde, incrostato di salsedine, arroventato dal sole d'estate, odoroso di resine e di oli vegetali.
Questo gabbiano conosce solo le onde, il vento che le accarezza e gli consente di planare senza sforzo.
Poi c'è il gabbiano che ha scelto l'uomo come amico e provvidenziale dispensatore di beni.
Stanco di faticare dal mattino alla sera per rimediare un po' di pesce, questo gabbiano ha imparato a ingozzarsi con la spazzatura che tira fuori dai sacchetti di plastica sbrindellati a colpi di becco, e con gli scarti che i pescherecci seminano in mare dopo aver vuotato sul ponte il sacco della rete a strascico.
Hanno addirittura abbandonato la quiete e la solitudine marine pér nidificare in città, accettando rumore, turbinio di automobili, smog e fuliggine solo per risparmiare tempo ed energie nel tragitto dal sito di nidificazione alla discarica di rifiuti.
Ma bisogna fare attenzione perché è sempre lui, il gabbiano. reale.
Reale per l'abito impeccabile e immacolato che indossa anche nella più fuligginosa e maleodorante discarica urbana.
A Roma i gabbiani reali sono comparsi all'inizio degli anni ottanta sui tetti di alcuni edifici moliumentali del centro storico.
Cominciarono a Palazzo Braschi, vicino a Piazza Navona, poi fu la volta di San Giovanni dei Fioirentini, che ha una bella vista sul Tevere all'altezza di Castel Sant'Angelo, e infine arrivarono a Sant'Ignazio, centralissima, a più di mezzo chilometro dal fìume .
Qui i gabbiani stazionano tutto l'anno e gennaio cominciano i -loro caroselli aerei , accompagnando con rauche canizze i concerti di organo che si tengono nella chiesa. Fanno il nido sui cornicioni, sulle mensole, sui capitelli e sulle anguste strutture a disposizione.
I loro pulcini crescono senza vedere il mare e l'acqua per mesi, scrutando incuriositi i piccioni e le taccole che condividono l'artificiale sito di nidificazione e il rischio di cadere sul selciato della piazza sottostante.
Poi a giugno, coperti dal piumaggio bruno e ocra , stendono le lunghe ali e, senza prove e appelli, partono per il grande immondezzaio dispensatore di rifiuti, a metà strada fra il centro storico e la costa del mare a Fiumicino.
Il corso del Tevere li guida e offre loro possibilità di sosta quando sono troppo stanchi.
Nella discarica mangiano fino a strozzarsi e avvelenarsi: c'è sempre qualche animale morto o agonizzante per aver ingerito qualche sostanza tossica o per essersi soffocato con un boccone troppo grande.
I gabbiani reali sono diventati talmente numerosi che si pone il problema di come controllarne il numero. La loro espansione non dà fastidio agli uomini, ma interferisce con altre specie ecologicamente più delicate.
In molte città i gabbiani sono diventati i più feroci predatori di colombi.
Al gabbiano reale ha dedicato gran parte della sua attività di ricerca Niko Tinbergen, uno dei padri dell'etologia insieme a Lorenze a Von Frisch.
Lo zoologo ha descritto con dovizia di particolari i comportamenti nuziali e territorialidei gabbiani, i rapporti fra adulti e pulcini, i meccanismi innati e appresi che regolano il controllo dell'aggressività in un animale che sa essere un formidabile predatore e allo stesso tempo un affettuoso e delicato genitore.
Sono in effetti uccelli gregari che coltivano la vita di gruppo per gli indubbi vantaggi che essa comporta: una migliore sorveglianza e difesa dai predatori, uno scambio attivo e continuo d'informazioni sulla localizzazione delle fonti di cibo.
Università di Camerino

domenica 20 luglio 2008

l’Unità 20.7.08
Rifondazione, Vendola «sorpassa» Ferrero
Congressi di circolo ok per il governatore, traballa l’asse tra l’ex ministro e Grassi. E Belillo (Pdci) apre
di Simone Collini


NON NASCERÀ «un grande partito comunista» dalla fusione di Pdci e Rifondazione, come vorrebbe Oliviero Diliberto. Però la complicata situazione che vive il Prc finisce per influenzare le dinamiche interne ai Comunisti italiani, che oggi chiudono il congresso di Salsomaggiore senza aver fatto registrare sostanziali novità politiche. Al di là di qualche distinguo da parte di Marco Rizzo (il cui peso nel partito è ridimensionato), il più atteso intervento ieri era quello di Katia Bellillo, che ha raccolto il 12% dei consensi attorno a una mozione che difende il dialogo con il Pd e propone l'avvio di una costituente di sinistra analoga a quella prospettata da Nichi Vendola nel Prc e da Claudio Fava per Sinistra democratica. «Qualcuno ha fatto di tutto perché ce ne andassimo ma noi non rinunciamo a questo partito», ha detto l'ex ministro. Ma se questo «non è tempo di scissioni», è perché il panorama è troppo confuso per prendere decisioni così importanti.
La Bellillo ha invitato ad «uscire dalla sindrome identitaria» e ha dato vita a un'associazione che consenta di lavorare «fuori dai nostri recinti». Aggirando così la norma da «comunismo obsoleto» del centralismo democratico che impedisce la formazione di correnti. In attesa di capire cosa succederà dentro Rifondazione.
Per saperlo bisognerà aspettare il congresso di Chianciano che si apre giovedì, e poi ancora qualche settimana. Mentre a Salsomaggiore il Pdci discuteva, la mozione Vendola ha fatto uscire i risultati dei congressi di circolo, quelli che determinano i rapporti di forza interni. Per loro, 47,57%; per la mozione Ferrero-Grassi, 40,13%; 7,57% per la terza mozione (quella più interessata alla costituente comunista proposta da Diliberto); 3,18% per la quarta e 1,51% per la quinta. La mozione Vendola ha insomma la maggioranza relativa, ma non il 50% più uno necessario a governare il partito. Dopo i pesanti attacchi reciproci delle scorse settimane, però, ora si registrano delle novità che fanno ipotizzare un congresso senza le temute lacerazioni. Ieri per la prima volta la mozione Ferrero-Grassi non ha apertamente contestato i dati diffusi dalla mozione Vendola, né ha contrattaccato quando il bertinottiano Francesco Ferrara ha sottolineato che ai voti conteggiati andrebbero aggiunti gli oltre 500 cancellati «senza motivi». Il motivo del silenzio? Per i sostenitori della mozione Vendola è dovuto a una divergenza di linea tra Ferrero e Grassi. E su questa intendono lavorare per cercare di arrivare a Chianciano con una ricomposizione il più unitaria possibile.
I bertinottiani guardano con attenzione le uscite di Claudio Grassi. In particolare, non è sfuggito il comportamento che il coordinatore di «Essere comunisti» ha tenuto al congresso del Pdci: a Salsomaggiore c'era anche Ferrero, il quale però non è stato avvisato né della tempistica né del contenuto di una nota che Grassi avrebbe fatto uscire. E che dice: «Pensare di fare coalizioni contro, in questa situazione, sarebbe un delirio». E poi, parlando non della mozione ma di Essere comunisti: «Il nostro peso è determinante per qualsiasi ipotesi di fuoriuscita dalle difficoltà». Due messaggi: uno inviato a Ferrero, che a metà settimana ha chiamato i primi firmatari delle quattro mozioni che si contrappongono a Vendola per verificare la possibilità di fare fronte comune (operazione non riuscita); e uno ai bertinottiani, che con il sostegno dei delegati portati a Chianciano da Grassi possono superare abbondantemente il 50%. A quali condizioni? Il coordinatore di Essere comunisti ha proposto un documento comune che prevede l'abbandono della costituente di sinistra e un segretario diverso da Vendola. Entrambe le cose non verranno accettate dai bertinottiani, che sanno però che quello è solo l'avvio della trattativa. Che potrebbe concludersi con la segreteria per il governatore pugliese e un incarico di vertice per Grassi, la presentazione alle europee da soli col simbolo del Prc, anche perché i tempi stretti non consentono altre operazioni credibili, e però iniziando a lavorare al processo della costituente di sinistra.

l’Unità 20.7.08
Grazia Francescato torna di nuovo leader dei Verdi
Fischi per Pecoraro. Ma la minoranza non trova un candidato unico e gli consegna una facile vittoria


È Grazia Francescato la leader dei Verdi. È stata eletta portavoce con 300 voti , mentre la minoranza ha scelto di dividersi tra la candidatura di Marco Boato, 111 voti, e quella di Fabio Roggiolani, consigliere regionale toscano, che ha raccolto 63 voti. Il tentativo di far convergere la minoranza sulla candidatura dell’europarlamentare Monica Frassoni è fallito. Appena eletta la nuova leader ha assicurato: lavorerà «per garantire maggioranza e minoranza», e tra un anno lascerà a due giovani, un uomo e una donna. Solo dopo l’elezione della sua candidata, Francescato, l'ex presidente dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio, si è presentato al congresso del Sole. La platea dei delegati lo ha accolto tra molti applausi e qualche fischio. «La minoranza - allarga le braccia l'ex ministro - deve fischiare, e di 40 fischi su 500 non me ne importa niente». Del resto ha vinto lui.
Ma la minoranza ha lottato. Molto critico Marco Boato: «Non ci deve essere nessuna resa dei conti ma serve un profondo cambiamento dal punto di vista dell'organizzazione, della linea e del programma. Con umiltà e senza arroganza cerchiamo di costruire un nuovo inizio». Tra gli errori, sostiene Boato, c’è lo schiacciamento a sinistra, l’antagonismo e l’essere percepiti come il partito del no, la separazione elettorale con il Pd. E l’altro candidato di minoranza, Roggiolani, avverte: «Se non usciamo da questo muro contro muro - avverte - andremo solo a sbattere».
Divisa al voto la minoranza, la candidata della maggioranza Francescato si è presentata relativamente sicura. «Vi garantisco la massima autonomia, Perché io sono così e quando si dovrà parlare del tema delle alleanze non coinvolgerò solo il coordinamento ma chiederò a ogni delegato di esprimersi, su questo decideremo insieme, maggioranza e minoranza, perché non abbiamo bisogno di unanimismo, ma di unità e dobbiamo ritrovare insieme la passione per quella bandiera che ci ha visti uniti». Anche se poi non saranno pochi i fischi quando proporrà Angelo Bonelli, braccio destro di Pecoraro, come coordinatore dell’ufficio politico.
Molti i fischi anche a Pecoraro, energicamente difeso da Francescato: «Sta pagando per gli errori fatti ma chiunque sia amico e non cortigiano lo avrebbe criticato quando era al potere e non avrebbe aspettato che fosse a terra per sputargli addosso». Poi ha parlato dei temi ambientali che devono tornare al centro, su cui i Verdi «hanno avuto il torto di aver avuto ragione troppo presto e troppo a lungo da soli». Ora bisogna ripartire da lì, dalle battaglie sui temi ecologici a partire dalle questioni degli Ogm e del no al nucleare.

Corriere della Sera 20.7.08
Rissa sfiorata al Sole che ride. Insulti all'ex ministro Pecoraro Scanio (che arriva solo a fine lavori)
Verdi, assise tra urla e accuse. Francescato leader
di Paolo Foschi


CHIANCIANO TERME (Siena) — «Venduti». «Tangentari ». «Camorristi». Qualcuno fa addirittura il gesto di lanciare una manciata di monetine contro il palco. Scene da Hotel Raphael. E' invece solo uno dei tanti momenti caldi del primo congresso dei Verdi dopo la batosta elettorale. Rissa sfiorata. Comincia così il nuovo corso del Sole che beffardamente se la ride sulle bandiere di partito, mentre i delegati litigano scambiandosi accuse e offese.
La resa dei conti è scattata nella seconda giornata dell'assemblea a Chianciano (Siena), riunita per eleggere il successore di Alfonso Pecoraro Scanio. Il leader uscente, contestatissimo, anche ieri ha disertato i lavori. «Gli hanno chiesto di non parlare», dicono dallo staff, «più tardi arriva». L'ex ministro, a distanza, ha comunque spinto una sua candidata: Grazia Francescato. Era stata l'ultimo presidente prima di Pecoraro Scanio. Una staffetta a due. E lei ha ricambiato: «Non siamo a piazzale Loreto, ingiusto addossare tutte le colpe ad Alfonso». Alla fine è stata eletta.
Poco dopo mezzogiorno, lo scontro. Angelo Bonelli, ex capogruppo alla Camera, dal palco illustra la mozione di maggioranza. «Basta con i veti ideologici. Serve la concretezza del quotidiano», urla al microfono, proprio mentre in sala vengono raccolte le firme contro l'estrazione del petrolio in Basilicata. Il caos scoppia quando Angelo Bonelli dice: «Non dobbiamo più vedere scempi come quello nel parco della Sila». Il riferimento è agli impianti eolici voluti dai Verdi della Calabria. La vicenda è finita al centro di un'inchiesta del pm Luigi De Magistris. Metà della sala insorge. Tutti in piedi a urlare. «Vai a casa». «Ladri». «Corrotti».
Torna la calma. Bonelli si spende per la Francescato: «Non ha mai voluto poltrone». Lei si commuove. Lacrime e abbraccio. Il dibattito va avanti. «Mai con questo Pd — dice Fabio Roggiolani, dalla Toscana —. Ma bisogna cambiare i nostri vertici». Prende la parola Maurizio Pieroni, ex senatore: «E il rinnovamento? Otto anni fa siamo partiti da Grazia. E oggi ripartiamo da lei? Autovestirsi di rappresentanza non funziona. Il consenso deve arrivare dai cittadini. E questo vertice non ha avuto consenso».
Tocca dunque a Mario Pavese, di Mantova: «Il partito esiste solo quando bisogna rinnovare la tessera, è diventato solo un centro di potere». E via con altri interventi dello stesso tono. Loredana De Petris poco dopo le 18 interrompe il dibattito per dare la parola ai tre candidati- portavoce: Francescato; Marco Boato, ex parlamentare; e Fabio Roggiolani, l'outsider.
Grazia Francescato nel suo intervento accenna alla squadra che vorrebbe nell'ufficio politico: Bonelli, l'ex sottosegretario Paolo Cento... Non può continuare. Urla e fischi. «E' questo il nuovo? Vergogna », grida un delegato della Sardegna. Alla conta l'ex presidente del Wwf esce vincitrice (300 su 507 voti). I Verdi ripartono dunque dalla donna ambientalista che in un libro ha raccontato di aver incontrato l'arcangelo Michele. Il vero miracolo sembra però un altro: alla proclamazione si materializza l'ex ministro Pecoraro Scanio, atteso da due giorni. «Mafioso, mafioso» è il grido che lo accoglie.

l’Unità 20.7.08
Quando l’America non vive più alla grande
di Roberto Rezzo


DISOCCUPAZIONE, inflazione, assalto agli sportelli bancari. La Casa Bianca cerca di tranquillizzare gli americani ma non convince nessuno. George Soros evoca lo spettro della Grande depressione del 1929. Dalla crisi dei mutui sub prime al contagio che investe tutta l’economia. La bolletta energetica è l’incubo principale delle famiglie.

È sparita dai cartelloni una celebre pubblicità di Citibank, il primo gruppo bancario degli Stati Uniti e uno dei più grandi al mondo. Suggeriva alla clientela di «vivere alla grande», investendo nei suoi prodotti finanziari e spendendo liberamente grazie a una generosa linea di credito.

Adesso ai piani alti del grattacielo al numero 399 di Park Avenue a New York hanno ben altri problemi: cercare di farsi pagare dai debitori e convincere i correntisti a non fuggire a gambe levate. Venerdì scorso, dopo la chiusura dei mercati, Citibank ha annunciato una perdita secca di 2,5 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre e una svalutazione degli investimenti pari a 7,2 miliardi. Wall Street ha tirato un sospiro di sollievo: gli analisti si aspettavano che andasse molto peggio. Nel trimestre precedente Citibank aveva perso 5,1 miliardi. Intanto a Washington i funzionari di un’agenzia governativa di cui solo gli addetti ai lavori conoscevano l’esistenza rilasciano comunicati e interviste a tutto spiano, Si chiama Federal Deposit Insurance Corporation (Fdci) e garantisce i depositi sino a 100mila dollari nel caso la banca si dichiari insolvente.
L’America ha assistito sotto shock alle immagini trasmesse da tutti i telegiornali. File interminabili davanti agli sportelli di IndyMac, la prima banca nell’area di Los Angeles e il settimo istituto Usa nel settore dei mutui immobiliari. Migliaia di correntisti accampati sotto il sole per ritirare i risparmi. L’11 giugno IndyMac è ufficialmente fallita. Su qualsiasi strada della California si vedono a centinaia le case abbandonate con un cartello davanti: «Foreclosed». Proprietà pignorate per mancato pagamento del mutuo e che da mesi non trovano un compratore. Non sono le periferie abitate dagli immigrati messicani e cinesi. Sono i quartieri residenziali con le case prefabbricate tutte uguali, quattro camere da letto, tre bagni, cucina con frigorifero monumentale, il giardino ben curato. Due o tre auto nel garage. Il sogno raggiunto della middle class protagonista di «American Beauty». Intere comunità spazzate via dalla crisi, costrette a trasferirsi in appartamenti d’affitto in città.
Nessuno parla più di depressione. Il termine è stato abolito dopo la Seconda guerra mondiale. Evocava la Grande depressione del 1929, con la gente rovinata che si gettava dalla finestra. Il panico. In seguito gli economisti hanno preferito parlare di recessione, per indicare un protratto periodo di crescita negativa. L’ultima viene fatta risalire al 2001 e ufficialmente durò appena nove mesi. L’amministrazione Bush sostiene che gli Stati Uniti adesso non sono affatto in recessione. E per spiegare la situazione ha coniato un nuovo termine «rallentamento». Per la gente comune sono parole che sembrano pronunciate da chi vive su un altro pianeta. L’ultimo sondaggio Gallup indica che l’81% degli americani sta tagliando le spese su ogni fronte possibile. Tre su quattro hanno rinunciato a qualche divertimento o a un’uscita al ristorante. Due terzi sono stati costretti a pianificare un budget mensile per la famiglia. Quasi la metà risparmia sistematicamente sugli acquisti: il 49% scegliendo prodotti di qualità inferiore, il 46% cercando articoli scontati. Il 30% si è trovato un secondo lavoro. Dall’ultima indagine pubblicata da Destination Analists, il centro studi e marketing delle organizzazioni di tour operator, risulta che negli ultimi dodici mesi c’è stata una contrazione del 45,8% nei viaggi per le vacanze. E per chiarire meglio il fenomeno, conia il neologismo «staycation». Significa passare le ferie a casa.
«C’è il rischio concreto d’andare incontro alla più grave crisi mai vista in vita nostra», ha dichiarato George Soros. E il finanziere di origine ungherese, la cui fortuna personale è stimata in nove miliardi di dollari, essendo nato nell’agosto del 1930, ha visto anche la Grande depressione. Anzi, c’è cresciuto in mezzo. Al capezzale di Fannie Mae e Freddie Mac, le due società che insieme detengono circa il 50% dei 12.360 miliardi di dollari in mutui attualmente accesi in Usa, sono stati chiamati i massimi esperti. Nessuna incertezza sulla diagnosi: o interviene il Congresso o vanno a gambe all’aria. Furono create durante la Grande depressione per cercare di rendere più accessibile l’acquisto della casa. Il loro lavoro è quello di acquistare i mutui concessi da banche e società di brokeraggio, impacchettarli sotto forma di prodotti finanziari, e rivenderli agli investitori. Sempre attraverso il sistema bancario. Il meccanismo consente alle banche di recuperare liquidità, che può essere destinata a nuovi prestiti. Il meccanismo si è inceppato con i mutui sub prime, finanziamenti capestro a tasso variabile, concessi anche in assenza di garanzie, pur di macinare commissioni. Ora il buco rischia di superare la metà dell’intero debito pubblico americano. Susan Wachter, docente all’università della Pennsylvania, spiega che la crisi finanziaria alimenta la crisi del mercato immobiliare. E che la crisi del mercato immobiliare alimenta quella finanziaria: «Siamo in un circolo vizioso».

l’Unità 20.7.08
Aversa, nell’inferno spento del manicomio
di Andrea di Consoli


Mai la psicologia potrà dire sulla follia la verità, perché è la follia che detiene la verità sulla psicologia
Michel Foucault

Migliaia e migliaia di storie e casi clinici conservati in archivio e l’ombra di tante povere vite recluse e punite per volontà delle famiglie

Viaggio in quello che fu uno dei più grandi ospedali psichiatrici d’Italia. Fondato nel 1813 da Murat ospitava i «folli» di tutto il Mezzogiorno, ma per l’epoca era molto moderno e avanzato. L’ultimo degente uscì nel 1998

All’ex manicomio di Aversa, in provincia di Caserta, mi accompagna Salvatore D’Angelo, intellettuale buono di Succivo (traduce divinamente Rimbaud, Bachmann e la Ortese in napoletano. La sua tesi è: «Anche il dialetto è metafisico»). Nel labirinto casertano, tra le mille vie che s’incrociano come un rebus, ritrovo ogni volta due geni della nostra cultura: Giuseppe Montesano, lo scrittore di Sant’Arpino, e Salvatore Di Vilio, un grande fotografo del quale, all’alba, nella hall di un albergo ambiguo e dechirichiano di Orta di Atella, ammiro la vitalità e la barba normanna.
Prima di andare ad Aversa, Salvatore mi mostra alcune foto della metà degli anni Novanta che ha fatto ai ragazzi che di pomeriggio (travestiti) andavano in discoteca nel casertano; e sono foto in bianco e nero, epperò colorate, tanto da creare un commovente effetto «fin de siècle». Poi mi mostra le foto che, negli anni, ha fatto agli chef dei matrimoni, al mare, a Praga, ecc. E beviamo caffè in ogni bar che ci capiti a tiro, e abbiamo la camicia sudata, e siamo due barbari che cercano un segreto impossibile nelle piazze, sulle strade, nei cortili che abbiamo davanti. Di Vilio è tragicamente fortunato, perché lui potrà dire ai suoi figli di aver assistito (in quanto fotografo) ai matrimoni dei camorristi, ché lui ha visto i leoni sulle terrazze delle ville hollywoodiane; lui ha visto il rito di regalare ai figli dei casalesi, durante la prima comunione, una pistola, sulla quale quei poveri ragazzi erano costretti a pisciare; lui ha visto le facce, le pose, i dinieghi, di fronte all’obiettivo, dei camorristi latitanti.
E quel che più amo, da sempre, di queste terre, è l’odore di soffritto che invade le strade, le pance esposte, larghe e scure, delle giovani donne, il fatto che c’è sempre qualcuno che cammina, finanche sulle strade più desolate (il cammino di chi, come un cane, cerca qualcosa).
La sera del mio arrivo a Succivo, Salvatore D’Angelo mi ha fatto visitare la mostra fotografica della canzone napoletana allestita nella Casa delle Arti, un ex palazzo littorio, ora destinato, dopo la felice ristrutturazione, alla cultura. Mi sono soffermato sulla foto di Carmelo Zappulla, il cantante siracusano trapiantato a Napoli (ebbe guai giudiziari e fu anche latitante, ed è rimasto nella storia della disperazione popolare con album quali Pover’ammore e Pronto Lucia).
A Giuseppe Montesano, che mi stava a fianco, si è subito illuminato il volto: «Zappulla! L’ho intervistato a Casal di Principe. Aveva i figli che erano uguali a lui. Succhiavano Coca-Cola da una cannuccia, mentre lui parlava dei suoi successi in America. Grande Zappulla!».
A me invece è tornato in mente che, una decina d’anni prima, a Sanremo, avevo osservato per un’intera notte Mario Merola al Casinò (tirava fuori rotoloni di soldi avvolti in un elastico, e stava, taciturno, col viso schiacciato sul collo taurino).
Ma perché ho chiesto a Salvatore D’Angelo di accompagnarmi all’ex manicomio di Aversa? Cosa sono queste voci del passato che mi nascono dentro? Mi aggiro come un fantasma spaesato in questo pezzo di mondo chiamato Sud Italia, e non sono mai persuaso, e mi ripeto a memoria, come un invasato, e senza capirne il reale motivo, tutti i primati del glorioso e misero Regno delle due Sicilie: 1735, istituzione della prima cattedra di astronomia a Napoli; 1754, istituzione della prima cattedra di economia al mondo, affidata ad Antonio Genovesi; 1781, redazione del primo Codice Marittimo del mondo, ad opera di Michele Jorio; istituzione del primo Ospedale Psichiatrico italiano, ad Aversa, nel 1813; costruzione, nel 1839, della prima tratta ferroviaria in Italia, sulla direttrice Napoli-Portici; istituzione del primo Centro Sismologico nel 1841, sul Vesuvio, ecc. Invece oggi sono nel regno dei miasmi, nel dominio della spazzatura e della camorra, tra le sregolatezze di una terra abbandonata a se stessa, epperò forte nei suoi oscuri vincoli familiari, in una landa in cui il disprezzo per lo Stato e per il Governo è assoluto, eppure, ogni giorno di più, sono fiero della superba intelligenza di questo Sud (Vico, Campanella, Giordano Bruno, ecc.), e voci m’inseguono, chiedendo luce, solo più luce: sono le voci degli «alienati» dei manicomi di Aversa, Girifalco, Bisceglie, Palermo (i grandi manicomi del Sud).
Quando entriamo nella «Casa dei matti» di Aversa, il sole è forte, ci fa barcollare. Ci aggiriamo, io e Salvatore, tra i padiglioni abbandonati e avvolti da erbacce fitte. A terra ci sono scatoloni, materassi, rifiuti di ogni tipo. Il custode ci aveva detto, prima di entrare: «Fate attenzione ai cani». Ma di cani non ce ne sono; piuttosto c’è qualche gatto assonnato, e a me sono tornate in mente le parole di un ex infermiere del manicomio: «I manicomi erano pieni di gatti, perché i manicomi erano il regno dei topi». Quando abbiamo visto il padiglione principale, quello che era l’ingresso del manicomio, ho detto a mia moglie: «Quando una persona entrava da questa porta, non ne usciva più». Era così; arrivare nel manicomio di Aversa significava non uscirne più. Magari entravi per una depressione e, a furia di stare tra gli escrementi e le urla degli altri, alla fine ti annientavi per sempre. Visitiamo i padiglioni dismessi (reparto femminile, maschile, agitati, semi-agitati, ecc.). C’è abbandono e squallore dappertutto (ma è uno squallore buono, come la carcassa di un inferno passato). Solo l’immaginazione lavora come una sega circolare; e quasi si riescono a vedere, se solo ci si abbandona un po’, i volti delle donne, degli uomini, dei ragazzi perduti per sempre tra gli escrementi della malattia (c’era anche chi ci nasceva, in manicomio, e per tutta la vita rimaneva chiuso nel manicomio).
Alla sinistra dell’ingresso troviamo una piccola chiesa. È chiusa con i catenacci; ed è annichilita dall’incuria, dalle erbacce, dai rifiuti (a terra ci sono scarpe, medicine, scatole di preservativi). A cosa serviva, questa chiesa? A quale Dio si rivolgevano i malati? Pagherei qualsiasi cifra pur di ritornare indietro di centocinquanta anni, e stare seduto in questa chiesa buia, tra i lamenti e le invocazioni dei malati. Bisogna assolutamente portare luce tra le vite obliate dei manicomi del Sud.
Il manicomio di Aversa fu istituito l’11 marzo del 1813 da Gioacchino Murat durante il suo «periodo napoletano». Ospitava tutti i malati psichiatrici del Sud. Oggi, negli archivi del manicomio, ci sono 35.000 cartelle cliniche «inedite», a disposizione di chi vuole dare luce e memoria a questi dannati della Storia (perché non metterle on-line? Perché non pubblicarle a puntate, magari per mezzo di un periodico? Ci sta lavorando Nicola Cunto, direttore del Centro studi dell’ex manicomio). In questa «Casa dei matti» affluivano i folli provenienti dal Regno delle Due Sicilie, e acquistò fama internazionale grazie anche a una serie di iniziative terapeutiche intraprese da Gennaro Maria Linguiti, primo direttore del manicomio, fama che sopravvisse alle fortune politiche dei francesi e che si consolidò anche con il ritorno al trono dei Borboni. Gaetano Parente scriveva che i visitatori rimanevano «attoniti del vedere per esempio un biliardo fra i pazzi, dell’udirli a suonare e cantare e talvolta recitar commedie e conversare con chicchessia affabilmente; non più catene, (…) alla reclusione antica sostituito il beneficio della vita attiva ed i giocondi passatempi e le salubri passeggiate per l’aprica campagna». Il manicomio di Aversa era un’istituzione «totale», un campo di concentramento che occultava al mondo esterno la visione del dolore e del delirio, ma era, per l’epoca, un primo segnale di interesse per il dolore psichico (l’idea era quella di dare «sollievo», ma si era ai primordi della conoscenza della psiche e dei nervi, e perciò si affrontava il problema legando, punendo, «contenendo»).
La famiglia e il manicomio, per quasi due secoli, si sono spalleggiati a vicenda nell’incapacità di leggere i segnali del rifiuto della realtà, dell’aggressività, del delirio, della mania.
Prima di uscire dal manicomio, dopo aver a lungo guardato due struzzi con la dispnea che stavano chiusi in un recinto, raccolgo le confidenze e i ricordi di un signore che è stato ispettore al Leonardo Bianchi: «Mio nonno lavorava in manicomio. Anche mio padre lavorava qui. Io ci sono entrato nel 1967. All’epoca c’erano 1.800 pazienti. Quest’ospedale era una vera e propria città: avevamo 12 mucche, con cui producevamo il latte da dare ai malati. C’era il panificio e la lavanderia. C’erano i laboratori. Si faceva anche teatro. Anzi, attività teatrale se n’è sempre fatta, in questo manicomio. La cosa che più mi ricordo, di quegli anni, è la puzza. Per quanto lavassimo, l’odore di urina e di feci era fortissimo. I muri ne erano impregnati. Le camerate erano ampie, erano corridoi lunghissimi. In ogni camerata c’erano almeno 120 persone. Venivano malati da tutta Italia, ma principalmente dalla Campania, dal basso Lazio e da Milano. Anche Alda Merini è stata qui, ma lei c’è stata prima che io arrivassi. Ho assistito parecchie volte agli elettroshock. Io sono contrario a questa pratica, ma ho visto tanti pazienti rinascere, con questo strumento di tortura. Non ho mai visto, invece, il naso sanguinare, dopo un elettroshock. Ho assistito solo a un paio di aggressioni, in tanti anni di lavoro in questo posto. Sono stato a lungo infermiere, e si è sempre fatto un uso massiccio di calmanti e di sedativi. Molti pazienti ci aiutavano. E molti li abbiamo visti morire. C’era un bel rapporto, tra di noi. L’ultimo malato psichiatrico è uscito nel giugno del 1998. Da quella data in poi non ci sono stati più pazienti in questa struttura».
Usciamo e, dopo qualche minuto, siamo di nuovo nel rebus dei paesi del casertano. E lascio il manicomio di Aversa con un «arrivederci» anziché con un «addio», perché quelle cartelle cliniche «inedite» mi appartengono, sono parte della mia storia, e prima o poi le leggerò, e passerò del tempo a capirle, per portare luce, più luce, tra le anime in pena della Storia.

Corriere della Sera Salute 20.7.08
Matti ancora da legare
di Roberto Satolli


Giorni fa, in una piccola libreria stipata e torrida, ho ascoltato agghiacciato Alice Banfi, trentenne autrice di "Tanto scappo lo stesso - Romanzo di una matta", leggere la sua esperienza di ricoveri a ripetizione dentro e fuori da una dozzina di reparti di psichiatria della penisola, nell'arco di diversi anni. Una descrizione asciutta, senza lacrime, ironica e persino amorevole di un inferno, di cui nessuno avrebbe oggi sospettato l'esistenza. I manicomi sono stati aboliti trenta anni fa grazie all'opera di Franco Basaglia, ma dietro le porte (quasi sempre chiuse) dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura le persone che hanno un disturbo mentale sono ancora oggi spesso trattate come se non avessero gli stessi diritti degli altri cittadini. I malati vengono legati al letto o chiusi in camerini di isolamento, con modalità che farebbero giustamente scandalo se venissero attuate su pericolosi criminali o sospetti terroristi: chi vuole capire può leggere le pagine di Alice, che sono un'occasione unica di vedere ciò che è normalmente sottratto agli occhi dei non addetti.
E non è il racconto di una matta. Nella prefazione al libro, lo psichiatra di Trieste Peppe Dell'Acqua riferisce che l'Istituto superiore di sanità, pochi anni fa, ha organizzato una indagine nei 285 servizi psichiatrici italiani, fotografando quanto vi accadeva nell'arco di 3 giorni. Da quella ricerca risulta che 200 servizi dichiarano di usare comunemente mezzi di contenzione, e che in 85 vi era almeno una persona legata al momento della rilevazione, in un caso addirittura quattro contemporaneamente. Risulta anche che gli uomini sono legati più delle donne (ma in un centro era legata al letto addirittura una ragazzina di 14 anni) e gli immigrati, guarda caso, più dei locali.
Anziché facili effetti di indignazione, si vorrebbe poter proporre qualcosa di concreto, una legge di un solo articolo che dica "La contenzione è vietata". Ma forse è un'ingenuità: qualsiasi proibizione sarebbe vanificata, senza un cambiamento generale di mentalità. Più che la repressione e le denunce contano gli esempi in positivo. La statistica dell'Istituto superiore di sanità già dice che nello stesso paese almeno 85 servizi riescono a fare a meno di legare i matti, nonostante che abbiano probabilmente gli stessi problemi organizzativi e le stesse carenze che vengono addotte altrove come scusanti. Sul sito del Forum di salute mentale (www.forumsalutementale.it) si trova un Club dei servizi psichiatrici "no restraint", che conta al momento quindici centri, da Trieste ad Aversa, da Novara ad Enna. Sono luoghi dove i malati ricevono ascolto, sostegno, comprensione, senza lacci e senza porte sbarrate. Bisogna farli conoscere, per far crescere anche negli altri la volontà di fare altrettanto.

l’Unità 20.7.08
Eluana, quando la sacralità è disumana
Sradichiamo la violenza dall’apparato mummificato delle culture del sacro
di don Enzo Mazzi


Eluana Englaro cesserà di vivere o ricomincerà a vivere? Questo interrogativo scuote le coscienze di fronte alla interruzione dell’alimentazione forzata di una donna da sedici anni in coma irreversibile. La vita di Eluana è identificabile col battito cardiaco o con la funzione digestiva assicurate non dalla autonomia del proprio sistema biologico ma solo dalla potenza della tecnologia medica, oppure è forza vitale in continuo divenire che preme per essere liberata da un corpo che da se stesso non sarebbe più in grado di contenerla? E chi ama di più la vita: la suorina che vorrebbe continuare ad alimentare forzatamente la donna in coma o il padre che ha scelto di generare di nuovo la figlia liberando la forza vitale di lei imprigionata da sedici anni in un corpo incapace di funzioni vitali autonome? E non è tutto. Perché l’interrogativo riguardante la vita e la morte di Eluana è forse la domanda fondamentale che accompagna l’umanità fin dalla sua origine e che costituisce la spinta della trasformazione creatrice. Eluana è tutti noi, è ogni donna e ogni uomo.
Mia figlia - ha detto a più riprese il padre di Eluana - aveva un senso del morire come parte del vivere e non avrebbe accettato di essere una vittima sacrificale di una concezione sacrale della morte come realtà separata e opposta alla vita.
Può darsi che sfugga la pregnanza di un simile messaggio. Ma è proprio lì in quell’angoscioso intreccio di vita/morte che si radica da sempre ed oggi in modo particolarmente intenso la spinta della evoluzione culturale.
Al fondo della crudeltà insensata che tutt’ora insanguina il mondo c’è la persistenza di un senso alienato della vita derivante dal dominio del sacro e dalla sua penetrazione nella società moderna. La vita è sacra. È un principio etico fondamentale. Ma è sacra in quanto parte della sacralità di un tutto in divenire che comprende finitezza e morte. Questo dice la saggezza dei secoli a chi ha orecchi per intendere. La cultura sacrale invece separa la vita dalla sua finitezza. La vita viene sacralizzata come dimensione astratta contrapposta alla dimensione altrettanto astratta della morte. La sacralità, intesa come astrazione, separazione e contrapposizione fra le varie dimensioni della nostra esistenza, è la proiezione di un’angoscia irrisolta, di una frattura interna, di una mancanza di autonomia e infine di una alienazione della propria soggettività nelle mani del potere.
La critica che è rivolta alla gerarchia cattolica ormai da molti credenti, compresi tanti teologi e teologhe di valore, riguarda proprio la incapacità a liberarsi e liberare dal dominio del sacro. "La proprietà dell’Evangelo è quella di metterci in una intransigente lotta contro il sacro … in quanto la sacralizzazione è la stessa cosa che l’alienazione dell’uomo … ma noi dobbiamo constatare che la fede cristiana si è come corrotta, imputridita …". Queste affermazioni forti di padre Ernesto Balducci sono condivise da molti nella Chiesa e sono alla base della critica per l’intransigenza della gerarchia verso le posizioni etiche espresse da Eluana e dai genitori di lei.
È un compito immane la liberazione del profondo dalla cultura sacrale che genera violenza. Bisogna andare finalmente alle radici, individuare e tentar di sradicare il gene della violenza che cova in tutto l’apparato mummificato, simbolico e normativo, delle culture del sacro tanto laiche che religiose.
Ognuno deve fare la sua parte, dovunque si trova ad operare, usando gli strumenti di conoscenza e di saggezza che gli sono stati forniti dall’esperienza di vita e dalla rete delle relazioni che ha potuto intrecciare.
Eluana e suo padre stanno facendo la propria parte. Seminano senso positivo della vita con sofferenza e con forza.
A loro dobbiamo essere profondamente grati.

Corriere della Sera 20.7.08
Dossier abusi Sono 4.392 i sacerdoti statunitensi accusati dal 1950 al 2002
Il record americano e i diciassette casi italiani
Dai primi scandali negli Usa alle denunce in Europa
In Brasile 1.700 imputazioni in un anno, ma negli Stati Uniti i casi sono decisamente in calo dopo il Duemila
di M.Antonietta Calabrò


Le deviazioni sessuali nei rappresentanti della Chiesa si manifestano soprattutto negli Usa: a Los Angeles sono 660 i milioni di dollari versati alle circa 500 vittime accertate Ma anche in 24 città italiane ci sono casi di violenze

Europa. In Inghilterra, Francia, Croazia e Irlanda sono quasi 150 i preti cattolici coinvolti in violenze
I costi. Tra spese legali e indennizzi il costo delle cause in Europa è stato di 7,8 milioni di euro

L'ultimo maxirisarcimento per le vittime dei preti pedofili americani lo ha deciso l'arcivescovado di Denver (Colorado) il 2 luglio 2008 versando 5,5 milioni di dollari per risolvere in via amichevole 18 denunce presentate contro tre preti, ormai morti. È di venerdì, 18 luglio, invece, l'ultima denuncia per un prete americano accusato di aver molestato una minorenne a bordo di un aereo partito da New York. Il prete è tornato in libertà su cauzione (10mila dollari), ma non può avvicinare minorenni per ordine del Tribunale.
Due casi che da soli illustrano il dramma della Chiesa americana dove per prima è esploso lo scandalo pedofilia che ha contagiato la Chiesa cattolica fino in Australia. Ma anche in Italia l'ultimo arresto clamoroso risale a non più di venti giorni fa, il primo luglio, quando in carcere finisce un prete romano di 55 anni, Ruggero Conti, parroco della Natività di Maria Santissima: è accusato di aver ripetutamente abusato di minorenni negli ultimi dieci anni. Sette, al momento, le sue vittime accertate (tutti maschi). Durante l'ultima campagna elettorale, il prete era stato uno dei cinque testimonial («garante per la famiglia») per il candidato, e poi sindaco, Gianni Alemanno che ha chiesto «ai magistrati e agli inquirenti tutta la chiarezza possibile e di non fare sconti a nessuno ».
Nel nostro Paese nel 2000 si segnalano casi di arresti o di condanne di sacerdoti a Foggia, Ferrara, Napoli, Torino, Modena, Milano. Nel 2001 a Genova e a Milano, nel 2002 ancora a Napoli e Milano. Nel 2003 a Bergamo, Milano, Teramo, Palermo, Cuneo, Oristano. Nel 2004 la lista delle città colpite si allunga: Forlì, Torino, Roma, Varese, Grosseto, Nuoro, Agrigento Alessandria, Bari, Savona. Nel 2005 Como, Cuneo, Arezzo e ancora Napoli. Nel 2006 di nuovo Roma, Ferrara e Lecce. In tutto 17 condanne (dal 1991 al 2006) e 22 incriminazioni. Ma per avere un termine di confronto va tenuto presente che in Italia i sacerdoti diocesani nel 2003 erano in tutto 35.019.
Negli Stati Uniti la Conferenza episcopale nel 2004 ha pubblicato un documento ufficiale che si è avvalso di uno studio statistico del John Jay College of Criminal Justice della City University of New York, che è unanimemente riconosciuta come la più autorevole istituzione americana di criminologia. Queste statistiche dicono che dal 1950 al 2002 4.392 sacerdoti americani (su oltre 109.000) sono stati accusati di relazioni sessuali con minorenni. L'81% dei sacerdoti accusati erano omosessuali. Il record assoluto dei risarcimenti si è verificato nella diocesi di Los Angeles (660 milioni di dollari alle circa 500 vittime accertate a partire dagli anni Quaranta) e di Boston. Già lo studio del John Jay College notava però il «declino notevolissimo » dei casi negli anni 2000: le nuove inchieste sono state poche, e le condanne pochissime (un effetto delle politiche di «tolleranza zero» dei vescovi seguite alle direttive del cardinale Ratzinger prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede).
In Brasile a cavallo tra il 2005 e il 2006 sono stati denunciati 1.700 preti per violenze, orge e uso di droga nei confronti di bambini piccoli, per lo più estremamente poveri. In almeno due casi a testimoniare la veridicità dei racconti delle vittime sono stati gli stessi violentatori che hanno riportato le loro esperienze su un inquietante diario.
Il quadro mondiale, insomma, è allarmante. Numerosi casi anche in Inghilterra, Francia, Croazia e Irlanda.
Quasi 150 preti cattolici e religiosi di Dublino sono stati coinvolti negli ultimi 67 anni. Tra spese legali e indennizzi il costo è stato di 7,8 milioni di euro.

Corriere della Sera 20.7.08
Scola: politiche per la famiglia Il governo deve fare molto di più
Il Patriarca di Venezia: cambiare la legge sull'aborto, non si può stare fermi
intervista di Aldo Cazzullo


Penso soprattutto a due elementi: l'equità fiscale e una effettiva conciliazione tra famiglia e lavoro
Bisogna dire con chiarezza che il divorzio è e resta una ferita grave per la nostra società
Sul caso di Eluana e sull'aborto Ferrara fa opera di cultura e di civiltà È bene che questi temi siano sollevati con forza
Quanto il Papa, con coraggio estremo, ha fatto sulla pedofilia, è una risposta inequivocabile

Angelo Scola, patriarca di Venezia, uomo tra i più vicini a Wojtyla e Ratzinger, è al lavoro nella sua stanza in Patriarcato, tra le targhe che ricordano i predecessori Roncalli e Luciani. Oggi, nel discorso del Redentore, affronterà il tema della famiglia, anche sotto l'aspetto economico e politico. «Una società che si va facendo sempre più liquida ha bisogno di qualcosa di solido. La famiglia in Italia è un fattore decisivo di solidità. Se poi viene riconosciuta come un capitale sociale, rappresenta un elemento importante su cui far leva per la vita buona; in senso morale ma anche economico. Per questo la politica e il governo devono fare di più, molto di più».
Patriarca, la famiglia sembra essere anche in Italia vittima della secolarizzazione.
«La secolarizzazione non è la stessa in tutti i paesi. In Italia non è come in Germania, in Francia o in Spagna. Uno dei fattori che fa la differenza è proprio la famiglia. Lo dimostrano i dati Istat e Censis: l'indice di divorzio in Italia è tra i più bassi d'Europa; le convivenze quasi sempre sfociano nel matrimonio; quando indica le aspettative primarie della vita, la donna, che oggi lavora di più, mette al centro il matrimonio e la maternità. Più della metà delle famiglie ospita in casa un genitore anziano, nel 90% di esse ci si trova a mangiare insieme almeno una volta la settimana. La cura che i nonni hanno dei nipoti integra un welfare che è ancora assai discutibile. Certe cose — penso alla sofferenza e alla morte — si imparano più dai nonni che dai genitori. E l'indice del dono, della gratuità, è in crescita non solo nel passaggio dai genitori ai figli, ma anche dai figli ai genitori».
I dati che lei cita sono spesso letti come segno di arretratezza, a cominciare dai giovani che restano fino all'età adulta a casa di papà.
«Credo che dobbiamo superare un concetto equivoco di progresso, per cui tutto l'inedito — e in questo clima di fluidità spesso inedito equivale a capriccioso, a non verificato — è progresso, e tutto ciò che rinnova la tradizione è conservazione. L'Italia per fortuna ha un popolo ancora sano, che si ribella a questo dualismo di stampo manicheo. Il vero progresso sa innestare il nuovo sull'antico. La famiglia è un fattore di progresso, ed è anche un attore economico molto importante, pur se spesso dimenticato. In famiglia si decide dei consumi, del reddito e del risparmio; soprattutto, la famiglia ha un grande valore economico nella formazione del capitale umano e sociale. Lo riconosce persino la Banca Mondiale, che pure è ossessionata dal
family planning, dai programmi contraccettivi. In futuro questo suo ruolo sarà ancora più importante, perché un paese come il nostro non può reggere senza un'innovazione fondata su educazione, conoscenza, cultura. Questi sono dati oggettivi che, a mio parere, rendono politicamente intelligente intraprendere azioni a sostegno della famiglia. Penso soprattutto a due elementi: l'equità fiscale, e una effettiva conciliazione tra famiglia e lavoro».
La sua impressione è che in Italia la politica, al di là delle enunciazioni di principio, trascuri la famiglia?
«Sì, in Italia la politica non ha ancora fatto questo passo, di fatto rimanendo arretrata rispetto ad altri paesi. Il che è paradossale, perché la forza della famiglia è molto più rilevante da noi che altrove. Un progetto globale di sviluppo dovrebbe mettere subito in primo piano un sistema di politiche familiari avveduto. Non ridotto alla mera dimensione para-assistenziale, ma capace di valorizzare la soggettività affettiva, economica, politica ed etica della famiglia».
Che cosa dovrebbe fare il governo? Lei parla di equità fiscale. In campagna elettorale si è proposto il quoziente familiare. Ma non è stato introdotto né annunciato.
«Se si vede l'importanza educativa, sociale ed economica della famiglia, allora si capisce perché è conveniente fare una politica fiscale che la valorizzi come risorsa. Questo comporta anche un diverso modo di concepire l'economia; il fatto che negli ultimi anni si parli di più di sussidiarietà e solidarietà, e di capitale umano e sociale, è un segno positivo. Da una parte, il mondo cattolico ha trascurato troppo a lungo l'importanza del mercato. Dall'altra, non si può ridurre tutto alla sfera del mercato ma, al contrario, il mercato va inserito in una visione umana e culturale più intera e potente. Vengo dal Kenya e ho visto la tragedia della miseria e della fame nel Sud del Sahara ».
Tremonti parla di crisi del mercatismo.
«Al di là del neologismo, certo il mercato è un fatto culturale, non è un fatto naturale che procede per leggi rigide ed immodificabili. È qualcosa su cui possiamo incidere. L'economia ha le sue leggi, ma la scoperta che l'economia sta facendo della famiglia mi sembra significativa. La critica al mercatismo è benvenuta. Purché ne derivi una politica conseguente».
C'è un ritardo di cultura e anche di norme?
«Certamente. Si tratta di coniugare un progetto a lungo termine con un progetto a medio termine e con uno di intervento immediato. Questo non è più procrastinabile, come molte forze sociali hanno chiesto. A me sembra che, per quanto riguarda l'equità fiscale, si debba lavorare con questa tempistica ma cominciando subito. Non mi avventuro nella traduzione tecnica di questa indicazione, mi limito a costatare un dato di fatto: da noi la famiglia più è famiglia più è penalizzata. Prevale una concezione della convivenza sociale in cui i due unici attori sono il singolo individuo, considerato come separato e come portatore di diritti e non di altrettanti doveri, e l'istituzione statuale. Come se non esistessero i corpi intermedi. Come se in mezzo non ci fosse la vita della società».
C'è qualcosa da cambiare anche in tema di divorzio?
«Innanzitutto, dovremmo avere maggior attenzione per i più deboli. I bambini avvertono moltissimo la perdita del riferimento alla coppia d'origine. Hanno un bisogno assoluto dell'unità dei differenti, del papà e della mamma. Per questo quando si fanno interventi politici o in campo economico, far prevalere la famiglia comporta il tener ferma la famiglia d'origine, anche in caso di divorzio o separazione. Questo per me, uomo di Chiesa, implica dire con chiarezza che il divorzio è e resta una ferita grave per la nostra società».
Sta dicendo che valeva la pena a suo tempo combattere la battaglia per l'abolizione del divorzio, e che questa è una battaglia che non finisce?
«Sulla questione del matrimonio, della famiglia e della vita non si può stare fermi».
Va cambiata la legge sull'aborto?
«Anzitutto la legge deve essere applicata in tutta la sua ampiezza. E su certi punti deve essere ripensata; ovviamente in maniera rispettosa della natura procedurale della nostra democrazia. Per questo una società plurale veramente laica esige che ogni soggetto non solo abbia il diritto ma senta anche il dovere di esprimere sino in fondo la propria visione delle cose».
Campagne culturali come quelle di Giuliano Ferrara sono utili o controproducenti?
«Io reputo che su questioni come l'aborto, come la vita — penso al caso Englaro —, mettersi in gioco pagando di persona sia di decisiva importanza. Al di là delle scelte tecnico-politiche, Ferrara fa opera di cultura e di civiltà. Nessuno può permettersi il lusso di non lavorare con serietà su questi temi. È bene che siano sollevati con forza».
La Chiesa è considerata in particolare sintonia con il centrodestra, guidato da leader divorziati. Sono difensori credibili della famiglia?
«In questo campo il nemico numero uno si chiama moralismo, cioè la pretesa di giudicare la verità di una proposta a partire dalla debolezza e dalla fragilità di chi la formula impancandosi a giudici. Noi preti questo lo sappiamo fin troppo bene, perché siamo uomini fragili come tutti gli altri e siamo sempre sotto tiro. Ma avere misericordia verso la fragilità non significa creare una separazione radicale tra vizi privati e pubbliche virtù. Io non credo nella doppia morale. Non penso che la moralità personale sia incidente sull'azione sociopolitica di un leader. Da questo punto di vista, rimpiango figure di politici e statisti — che tuttavia non mancano del tutto neanche oggi nel nostro paese — che hanno sempre cercato di coniugare dimensione personale e dimensione sociale della morale. Comunque alla fine chi ha una responsabilità legislativa e di governo produce atti che hanno sempre un valore pedagogico oggettivo. Non è indifferente legiferare in un modo piuttosto che nell'altro, difendere la famiglia o non farlo».
Qual è la reale dimensione della questione pedofilia tra i sacerdoti?
«Ci sono esagerazioni e manipolazioni ideologiche, anche per una certa responsabilità dei media. Detto questo, credo che quanto il Santo Padre, con coraggio estremo, ha fatto negli Stati Uniti ed ha ribadito a Sydney, sia una risposta inequivocabile. La ferita inferta ai minori in questo campo è gravissima e tradisce la testimonianza cristiana. La scelta della tolleranza zero da parte della Chiesa è una scelta drastica ma giusta».
Non le manca mai il fatto di non essersi formato una famiglia?
«Ma la verginità, nel mio caso il celibato, è un altro modo di realizzare sino in fondo la propria affettività, compresa la propria sessualità. Nella misura in cui uno è veramente chiamato e fa l'esperienza di questa forma progressiva di compimento del suo io, non vive con senso di privazione il fatto di non avere una sposa o dei figli. Io non la sento come una mancanza; eppure mi sembra di essere un uomo affettivamente equilibrato».

Corriere della Sera 20.7.08
Impronte ai bambini rom. Sì dal 67% degli italiani
di Renato Mannheimer


La proposta di rilevare le impronte digitali ai bambini nei campi nomadi ha suscitato un dibattito ampio e contrastato. Il ministro Maroni, proponente principale dell'iniziativa, l' ha motivata prevalentemente con motivi di sicurezza: la riconoscibilità dei soggetti, legata all'unicità dell'impronta digitale, ne permetterebbe un controllo più agevole. Ma, accanto a queste motivazioni, si è sottolineato, come, in questo modo, si faciliti anche l'imposizione dell'obbligo scolastico e di altri adempimenti sociali.
Queste ragioni non hanno persuaso le forze di opposizione e svariati esponenti della società civile, che hanno ravvisato nella proposta una vera e propria schedatura dei bimbi rom: un atto di discriminazione fondato sull'etnia, tale da evocare le leggi razziali del 1938 (che furono precedute proprio da un censimento delle minoranze «sospette»). Malgrado queste pesanti obiezioni, la maggioranza degli italiani pare vedere con favore il provvedimento. Con un'accentuazione di giudizi positivi tra gli strati socialmente meno centrali, possessori di titoli di studio più bassi, residenti nei comuni di minori dimensioni, casalinghe.
Ma le differenze più significative nel giudizio si registrano, ovviamente, considerando l'orientamento politico. Gli elettori di centrodestra si schierano nettamente a favore del provvedimento: nella Lega il consenso è al 92%, mentre nel Pdl si colloca poco al di sotto dell'80% (il che mostra che anche all'interno del partito di Berlusconi, c'è un'area di dissenso, pari grosso modo al 15%). Specularmente, tra i sostenitori delle forze di opposizione emerge una maggioranza di contrari: assai più accentuata però tra gli elettori della Sinistra radicale che tra quelli del Pd dove la proposta del ministro leghista raccoglie comunque il 44% dei consensi.
Un così elevato favore si spiega tenendo presente: a) l'argomentazione relativa alla necessità di far adempiere i minori «schedati» all'obbligo scolastico. È un tema cui gli italiani sono molto sensibili: l'idea, più o meno fondata, che i genitori abbiano voluto sottrarre i loro figli all'istruzione, porta generalmente ad una forte avversione verso di loro.
b) più in generale, la diffusa ostilità verso i rom. Tra tutte, questa minoranza è la meno amata e, non a caso, la sua numerosità è decisamente sopravvalutata.
c) l'intensa crescita del senso di insicurezza. Spesso legato più ad un'impressione — dettata anche dai media — che da esperienze vissute personalmente. Tanto che la percezione di aumento della criminalità risulta minore nel contesto in cui si risiede e si accresce man mano che si prendono in considerazione realtà più «lontane»: il 48% ritiene che nell'ultimo anno la criminalità sia aumentata nel quartiere in cui vive, mentre ben l'85% ha questa sensazione se si parla più genericamente dell'Italia nel suo insieme. È probabile che il governo abbia tenuto conto di questo «clima di opinione» nel varare il provvedimento.

Repubblica 20.7.08
Vendevano tartarughe e braccialetti I bagnini sono riusciti a salvare le amiche
Due bimbe rom annegano a Napoli "In quella spiaggia tanta indifferenza"
di Stella Cervasio e Maria Pirro


Arrivate dal campo di Secondigliano per vendere piccoli monili fra gli ombrelloni
L´accusa dei soccorritori: "Fra i bagnanti tanti sono rimasti indifferenti"

NAPOLI - Quattro bambine rom vanno al mare per vendere tartarughe e braccialetti. Hanno caldo e fanno un tuffo vestite, perché non indossano i costumi. Sono sole, non c´è a nessuno a dir loro che non si fa il bagno appena dopo mangiato, quando il mare è agitato e non si è capaci di nuotare. Violetta e Cristina Ebrehmovich, dodici e undici anni, muoiono annegate mentre la spiaggia è affollata e le onde crescono sul litorale flegreo, a Torregaveta. Le altre due, Manuela di quindici anni e una bambina di otto, vengono invece salvate dai soccorritori. Ma la spiaggia volta le spalle alla tragedia: mentre i corpi senza vita delle bambine sono ancora sulla sabbia, c´è chi continua a far colazione e a prendere il sole a pochi metri.
È sabato mattina, ci sono un centinaio di bagnanti. Molti evitano di tuffarsi, gli stessi bagnini consigliano di non allontanarsi troppo dalla riva e di tenere i bambini sotto l´ombrellone. Quando il mare è agitato a Torregaveta le correnti non perdonano e, se non si è nuotatori esperti, si corre il rischio di essere ingannati dalle secche.
Le quattro ragazzine hanno preso il treno che dal centro storico di Napoli porta i bagnanti sulla costa flegrea che va da Pozzuoli a Monte di Procida. Mangiano i loro panini, ma il caldo è troppo forte. Non resistono alla tentazione di tuffarsi. Lasciano le borse e le scarpe sul pontile e vanno in acqua. L´ipotesi è che si siano sentite male. Il mare forza due le travolge. Fanno appena in tempo a chiedere aiuto. Le grida vengono sentite da terra da due bagnini delle vicine spiagge private, che si lanciano subito verso le piccole. Due di loro vengono raggiunte e portate in salvo a riva. Si tenta inutilmente di raggiungere le altre due. Ma i corpi scompaiono tra le onde. C´era stata anche una telefonata al 118: alle 13.46 una donna che vede la scena chiede l´intervento dei soccorritori. Che arrivano quando le prime due bambine sono in salvo. La Capitaneria di porto spedisce i suoi uomini su un gommone mentre i vigili del fuoco cercano di avvicinarsi a bordo di una motobarca. Ma le bambine vengono trascinate lontano e solo il mare, più tardi, restituisce i corpi senza vita. Inutile il tentativo di rianimarle, una volta recuperate a 150 metri dalla battigia.
L´autista del 118, Pasquale Desiato, racconta le operazioni di recupero: «All´improvviso ho notato i corpi in lontananza, mi sono avvicinato e ho afferrato la più piccola per un braccio, ma mi è sfuggita ed è scomparsa di nuovo. Quando le abbiamo portate a terra non c´era più niente da fare. Avevano bevuto tanta acqua». Sulla spiaggia le altre due bambine piangevano disperatamente. Sono state loro a fornire le generalità dei genitori delle annegate: il padre e uno zio, di origini slave ma con documento di identità italiani, sono stati rintracciati nel campo rom di Secondigliano e accompagnati alla Capitaneria di Porto di Pozzuoli, dove hanno riconosciuto i corpi.
La Procura ha aperto un´inchiesta sulla morte delle piccole. Violetta e Cristina vivevano nell´accampamento di Secondigliano, il primo in Italia dove è iniziato il censimento ordinato dal ministero dell´Interno anche per i rom minorenni dai quattordici anni in su. Sorprendente la reazione dei bagnanti: «Abbiamo recuperato i corpi tra l´indifferenza generale», dice l´autista dell´ambulanza.

Corriere della Sera 20.7.08
Il tirapugni di Padre Pio
di Sergio Luzzatto


Hanno perso un'ottima occasione per tacere certi amministratori di sinistra del comune di San Giuliano Terme (Pisa), denunciando il rigoroso studio di Antonio Carioti sugli Orfani di Salò (Mursia) come un insidioso libello neofascista. Se appena si fossero degnati di leggerlo, ne avrebbero imparate delle belle sul variopinto demi-monde missino dei tardi anni Quaranta, e anche su certi suoi sorprendenti fiancheggiatori. Uno di questi era Padre Pio, il cappuccino con le stigmate. Che fin dagli anni Venti aveva contato fra i suoi protetti un caporione squadrista, il «ras» di Foggia Giuseppe Caradonna. E che nell'Italia del 1949 — si apprende dal libro di Carioti — conferì una specie di benedizione al tirapugni di Caradonna junior: il neofascista Giulio, che lo usava per scazzottarsi con i comunisti nelle vie di Roma. Benedetto (o quasi) da Padre Pio, quel tirapugni veniva trattato dalla madre di Giulio, devotissima terziaria francescana, come una metallica reliquia.

Corriere della Sera 20.7.08
Contestatori Un doppio numero di «Critica sociale» sulla sinistra italiana ostile alla «Primavera» cecoslovacca
Il Sessantotto che negò Praga
«Una rivolta socialdemocratica, bisogna tornare a Lenin»
di Dario Fertilio


Il numero doppio della rivista «Critica sociale », con il saggio di Paolo Sensini «I due Sessantotto» sul dissenso e la contestazione italiana dal 1968 al 1977, sarà presentato martedì alle 18.30 a Roma, in via del Seminario 76, sala del refettorio. Parteciperanno Stefania Craxi, Ugo Finetti, Ernesto Galli della Loggia, Carlo Ripa di Meana, Stefano Carluccio.

Che facevano i bravi ragazzi del Sessantotto al tempo della Primavera di Praga? Giravano la testa dall'altra parte. Al potere allora non ci andò l'immaginazione, ma più prosaicamente la fila di carri armati sovietici che il 20 agosto fece tremare i vetri dei palazzi cecoslovacchi. Si sarebbe potuto almeno scendere in piazza: ci si smarrì invece fra ta-ze-bao e analisi astratte, concludendo che laggiù non stava succedendo proprio niente d'importante, era in corso uno scontro fra conservatori e reazionari. Perché il vero socialismo, s'intende, era tutt'altra cosa, e occorreva leggere al di là degli avvenimenti, tornare a Lenin o abbeverarsi alla saggezza di Mao Ze Dong, non lasciarsi ingannare da uno «pseudosocialismo». Fu strabismo ideologico, e ne fu vittima la grande maggioranza della sinistra radicale. Con l'aggravante di perseverare nella cecità ideologica durante gli anni successivi, quelli dell'esilio a Solgenitsin ('74), e fino alla Biennale veneziana del Dissenso ('77).
A quel colossale abbaglio la rivista Critica Sociale dedica ora un numero doppio, che comprende diversi interventi (fra cui quello del direttore Ugo Finetti), un articolo d'epoca (firmato sull'Avanti! nel 1978 da Ernesto Galli della Loggia con il titolo significativo Praga '68 e l'intellettuale «surrogato» ), e un editoriale affidato all'uomo che guidò la Biennale veneziana durante la storica edizione del '77, Carlo Ripa di Meana. Tuttavia il cuore della ricerca porta la firma del filosofo e storico Paolo Sensini, che ha passato al setaccio la stampa dei gruppuscoli, ossia la galassia della sinistra extra-parlamentare.
Risulta che, al di là delle mitologie libertarie, i sessantottini subirono pesantemente l'egemonia culturale del Pci, così espressa dal segretario Luigi Longo su Rinascita: «La nostra collocazione è del tutto chiara e irrinunciabile. Noi staremo sempre dalla parte del socialismo». Persino il gruppo del «Manifesto», che in seguito maturò la sua storica scissione dal Pci anche come conseguenza dell'invasione sovietica a Praga, non uscì mai dalla vecchia logica, sostenendo non che ci voleva più libertà ma un ritorno a Lenin, in modo da «accorciare la distanza fra avanguardia e classe » e insomma bisognava «da Marx tornare a Marx».
Ma se il gruppo di Lucio Magri e Rossana Rossanda si sforzò almeno di cogliere la crisi del comunismo, i gruppi ancora più a sinistra bevvero sino in fondo la pozione ideologica e assunsero posizioni che, col senno di poi, appaiono quasi incredibili. «Potere Operaio», ad esempio, disquisì a lungo sulle «buone e cattive intenzioni dei socialisti dal volto umano», giungendo alla conclusione poco lungimirante che «nella Patria della rivoluzione», cioè l'Urss, e negli altri Paesi del «campo socialista», «vigesse tutt'ora il modo di produzione capitalistico », e che questo fosse la causa di tutto. Sostituite il «capitalismo di Stato sovietico» con la «Rivoluzione culturale cinese», invocava il giornale, e vedrete se «il progetto grandioso di Lenin » non riprenderà a marciare!
Più severi di «Potop», i Quaderni Piacentini liquidavano i fatti di Praga come «socialimperialismo della burocrazia sovietica»: anche qui il maoismo avrebbe costituito «un correttivo alla rivolta spontanea, anarcoide, populista e pseudoreligiosa». Invece Problemi del socialismo, diretto da Lelio Basso, molto vicino al Movimento studentesco, condannava insieme il «conservatorismo» dei carri armati e «la risposta di tipo socialdemocratico», oltre all'economista della Primavera, Ota Sik, giudicato l'autore di «concezioni che favorivano le forze antisocialiste e controrivoluzionarie». Allorché il Movimento studentesco si esprimeva in prima persona, attraverso i suoi bollettini, prendeva di mira la «restaurazione borghese» realizzata dai sovietici a Est e allo stesso tempo «le tesi apertamente socialdemocratiche della cosiddetta Primavera di Praga». Nel frattempo Servire il Popolo tesseva le sue lodi al grande Timoniere Mao, eliminando il povero Solgenitsin con un'alzata di spalle: «Sul piano letterario, politico e storico non rappresenta nulla che non sia un luogo comune».
E la libertaria Lotta Continua di Adriano Sofri? Attenta al «grande lascito di Lenin», pronta a contrapporre al «comunismo falso della Polonia quello vero rappresentato dalla Cina». Si potrebbe continuare il florilegio: Bandiera Rossa che ospita un articolo del redattore capo della Pravda in cui Solgenitsin viene definito «uno schizofrenico»; Nuovo Impegno che, di fronte al suicidio di Jan Palach commenta con involontario umor nero: «Non ci fa certo ridere la sua morte... ma il fatto principale della mobilitazione generato da Palach non ha contenuti socialisti»; Lavoro politico, che si oppone fermamente «tanto agli aggressori social- imperialisti sovietici che alla cricca ultrarevisionista capeggiata da Dubcek» proclamando la sua devozione al partito comunista cinese; Giovane Critica, sprezzante riguardo al «punto nodale filocapitalista e filoimperialista del nuovo corso cecoslovacco»; il guevarista Maquis, pronto a giudicare «l'occupazione della Cecoslovacchia un avvenimento dolorosamente necessario sul piano politico»; Avanguardia Operaia, ferma nel condannare la Primavera alla stregua di «un volgare tentativo di riformare il paese con ricette all'occidentale». E si potrebbe concludere con Lotta Comunista, attratta dalla fantastica ipotesi di una «alleanza tra le superpotenze mondiali», Usa e Urss.
Ma è giusto infierire su chi allora rinunciò a essere laico, preferendo atti di fede ideologici e formule liturgiche?

Corriere della Sera 20.7.08
Il saggio di Alessandra Dino
Quando la mafia è troppo devota
Cosa Nostra e il controverso legame tra uomini d'onore e Chiesa
di Vittorio Grevi


A 15 anni dall'assassinio di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio a Palermo, di fronte ad una Chiesa siciliana ancora divisa nella valutazione della figura del sacerdote ucciso dai sicari, per il suo impegno contro i soprusi delle cosche, la sociologa Alessandra Dino torna ad occuparsi di un tema cruciale sul terreno della criminalità organizzata siciliana, analizzando i rapporti tra «Chiesa, religione e Cosa nostra ». Ne è scaturito un volume di taglio insolito, e pressoché unico nella pubblicistica corrente ( La mafia devota, Laterza, pp. 304, e 16), che non solo affronta alcuni interrogativi suscitati anche da recenti fatti di cronaca (esiste un Dio dei mafiosi? qual è il rapporto tra gli uomini d'onore e la religione?), ma si pone altresì il problema più generale dell'atteggiamento della Chiesa siciliana rispetto al fenomeno mafioso.
Circa il primo versante, il volume si sofferma sulle forme di devozione, non sempre propriamente evangelica, diffuse presso molti esponenti della mafia, dai capi alle manovalanze. Ne emerge che sovente l'immagine di Dio coltivata dai primi è diversa da quella dei secondi, distinguendosi per un maggior grado di strumentalità rispetto ai fini del sodalizio criminoso: insomma, un Dio «conveniente», funzionale agli obiettivi delle classi dirigenti affiliate alla mafia. Ma le manifestazioni di religiosità sono per molti aspetti analoghe. Sia quelle private (dai santini di Bernardo Provenzano agli altari domestici di Pietro Aglieri, fino all'uso frequente della Bibbia, e non soltanto per letture edificanti), sia quelle pubbliche, di solito caratterizzate da una forte ricerca della ritualità esterna, ricca di significati simbolici (tipico il caso delle feste e delle processioni, ad esempio quelle in onore di San Gaetano a Palermo o di Sant'Agata a Catania, non di rado promosse o controllate da potenti famiglie mafiose del luogo). E questo senza dire del linguaggio impiegato nell'universo mafioso, grondante di frequenti invocazioni al nome di Dio, talora evocato anche nel momento dei più brutali omicidi, quasi a giustificarli all'insegna di una morale superiore.
Quanto alla linea pastorale seguita dalla Chiesa siciliana nei rapporti con la «questione mafia», l'analisi contenuta nel volume si avvantaggia dei risultati di una apposita indagine svolta dall'autrice, anche mediante un particolare questionario, presso un significativo campione di sacerdoti isolani. Si tratta di risultati sconcertanti, che meritano una attenta riflessione da parte dei responsabili della Chiesa locale, poiché fotografano una realtà ecclesiale fortemente divaricata, e spesso ignara della gravità del problema rappresentato dalla mafia, dai suoi metodi e dalle sue ideologie pagane, rispetto al popolo dei fedeli. Basti pensare che solo il 15% degli intervistati dimostrava di avere piena consapevolezza della necessità di riservare una pastorale specifica al recupero del senso della legalità, mentre un altro 20% si limitava ad una «conoscenza stereotipica» del fenomeno mafioso (non priva di atteggiamenti critici anche nei confronti della magistratura), e il restante 65% si rifugiava in una posizione ambigua e pilatesca, ritenendo che la presenza mafiosa sul territorio non costituisse «una questione di diretta competenza della Chiesa».
Una Chiesa per buona parte senza coraggio e senza memoria (nemmeno delle severe invettive lanciate da Papa Giovanni Paolo II e dal Cardinale Pappalardo), dinnanzi alla quale Alessandra Dino, pur non disconoscendo i progressi compiuti negli anni sul piano delle posizioni ufficiali delle gerarchie, non può che registrare la fisionomia di una istituzione «dalle molte anime e dalle molte contraddizioni», poiché «come non esiste una sola mafia, non esiste una sola Chiesa». Una realtà preoccupante, che suscita «profondo disgusto» in un uomo di fede come don Luigi Ciotti, ma che lo induce «ad amare ancora di più» quella parte della Chiesa siciliana che è «capace di vivere fino in fondo il suo ruolo profetico», talora anche a rischio della vita dei suoi preti più coraggiosi.

Corriere della Sera 20.7.08
Ginevra. Scolpire il passato
di Andrea Genovese


Pietra, legno, ceramica, metalli preziosi, marmo. Dal neolitico ai primi secoli della nostra era, dalle caverne ai palazzi mesopotamici, dalle steppe scitiche agli altipiani iraniani, dall'Egitto al Vietnam, dalla raffinata civiltà villanoviana a quella etrusca e romana, nella sua lunga marcia verso l'al di là o il nulla eterno, l'uomo ha modellato la materia bruta elevandola a simbolo, testimonianza, creazione (cosciente o meno) artistica. La collezione d'opere antiche Barbier- Mueller è nota in tutto il mondo; con i 250 capolavori, moltissimi mai esposti, ci si interroga sulle intenzioni secolari o religiose che li hanno ispirati. Quale Picasso ha scolpito, durante il terzo millennio a.c., in Sardegna la testa di Ozieri, nelle Cicladi la figurina in forma di violino?
Si resta di marmo.
IL PROFANO E IL DIVINO Ginevra, Musée d'art et d'histoire, sino al 31 luglio. Tel. +41/224182600 Testa romana del I sec. a. C.

Corriere della Sera Salute 20.7.08
Psicologia Conferme della validità di un metodo che non ha più niente di «magico» ma molto di scientifico
Con l'ipnosi ti convinco a guarire
di Angelo De' Micheli


Oggi è usata in modo nuovo per curare ansia, depressione e timidezza
Altro che regredire nel passato: l'ipnosi serve per creare un realtà virtuale capace di "rimodellare" la nostra personalità

Quando si dice ipnosi il pensiero corre a una tecnica ereditata dall'Ottocento, che sa sempre un po' di "magia", ma l'ipnosi è tutt'altra cosa al punto da essere una moderna forma di psicoterapia. Ha però cambiato modi e obiettivi. Non viene utilizzata per aiutare il paziente a regredire nel suo passato, o per scoprire chi era in una vita precedente, oppure per trovare, come vuole la psicoanalisi, le radici di un antico trauma infantile, ma per instaurare una modalità diversa e privilegiata di comunicazione. Il paziente viene infatti condotto in un particolare stato di coscienza, nel quale vive come "reali" situazioni immaginarie che il terapeuta struttura in modo da aiutarlo a "rimodellare" comportamenti, scelte e stati d'animo (vedi box sotto).
A questa "nuova" ipnosi si ricorre in molti percorsi terapeutici: per curare ansia, depressione, fobie, disadattamento sociale e familiare e disturbi della sfera sessuale. L'ipnosi si rivela particolarmente utile nella cura dell'alexitimia, un disturbo della sfera affettiva e cognitiva che inibisce la capacità di comunicare i propri sentimenti. Di fatto, un evidente ostacolo alle tradizionali tecniche di psicoterapia. E uno studio condotto da Marie Carie Gay, del Dipartimento di psicologia dell'Università di Parigi, pubblicato sulla rivista Contemporary Hypnosi, ne ha recentemente confermato l'efficacia.
La sperimentazione è stata condotta su 36 donne, tra 18 e i 46, scelte a caso e tutte volontarie. Metà si sono sottoposte a ipnosi. Metà ha fatto da "gruppo di controllo": non ha, cioè, seguito nessuna terapia.
Tutti i soggetti sono stati valutati attraverso una serie di test, per verificare le capacità di immaginazione e quella cognitiva, il livello di ansia e l'eventuale presenza di depressione, e hanno risposto a un questionario per stabilire il profilo di qualità di gratificazione/ soddisfazione presente nelle loro vite.
Ogni seduta di psicoterapia ipnotica durava trenta minuti ed era individuale.
La psicoterapia ipnotica si è protratta per quattro settimane, per un totale di otto sedute (per un ciclo di terapia generalmente ne servono una dozzina).
«L'ipnosi — spiega Olivier Luminet, dell'università di Lovanio, uno degli autori della ricerca — creava nelle pazienti una condizione di coscienza diversa dalla abituale: la percezione dell'ambiente reale era ridotta e l'attenzione era indirizzata verso situazioni immaginate che generavano uno stato di benessere caratterizzato da tranquillità, calma ma anche curiosità dovuta alla percezione della condizione di ipnosi. L'obiettivo era creare situazioni immaginative, allucinatorie, attive, per esempio i pazienti venivano indotti a vedere se stessi mentre tenevano un discorso in pubblico, una situazione in grado, successivamente, di indurre dei reali cambiamenti nel comportamento ».
Tutti i soggetti sottoposti alla psicoterapia ipnotica hanno mostrato una riduzione del punteggio relativo ai diversi test utilizzati per valutare la loro situazione emotiva, passando da un iniziale 65.23 (valore medio), a 58 dopo quattro settimane di terapia e a 56.54 dopo otto settimane. Per il gruppo di controllo i valori sono rimasti immutati.
«La possibilità di utilizzare le capacità immaginative sotto ipnosi — chiarisce Giampiero Mosconi, direttore della Scuola Europea di psicoterapia ipnotica di Milano - rende la terapia relativamente veloce ed è proprio questo uno dei maggiori pregi della tecnica. Lo studio del gruppo coordinato da Marie Claire Gay è un'ulteriore conferma del fatto che l'ipnosi può essere considerata una forma di terapia a pieno titolo, degna di essere approfondita e sperimentata in ambito universitario, come da oltre cinquant'anni l'Associazione medica per lo studio dell'ipnosi (Amisi) ha sostenuto in occasione dei suoi congressi nazionali ».

Corriere della Sera Salute 20.7.08
Usi illegali. «A me gli occhi» e il contante
di A.D.M.


Ma davvero si può rapinare qualcuno dopo averlo ipnotizzato? Negli ultimi 15 anni, le cronache italiane, hanno riportato dai due ai tre casi all'anno di rapine apparentemente fatte utilizzando l'ipnosi.
Qualcuno si avvicina alla cassiera di un supermercato, o all'impiegata di una banca o alla commessa di una gioielleria e, mentre le chiede il prezzo di un prodotto o un'informazione, la fissa intensamente. A quel punto diventa impossibile — raccontano le cronache — resistere alla richiesta di consegnare l'incasso, o i quattrini o i gioielli. Non c'è stata alcuna violenza ed è molto difficile per la commessa o l'impiegato giustificare il fatto. Solo le immagini delle videocamere di sorveglianza documentano l'accaduto.
«Periodicamente giungono all'attenzione dell'opinione pubblica notizie su eventi criminosi come questi, compiuti mediante "ipnosi" — commenta Carlo Alfredo Clerici, medico, ricercatore alla cattedra di Psicologia della facoltà di Medicina dell'Università di Milano.
«Il fenomeno per la relativa frequenza, per le caratteristiche è spesso liquidato come una leggenda metropolitana.
Noi abbiamo analizzato i singoli eventi degli ultimi quindici anni: nella maggior parte dei casi la spiegazione è legata alla capacità di suggestione, alla manipolazione dell'attenzione e non ad un vero e proprio processo d'ipnosi».

Corriere della Sera Salute 20.7.08
Neurologia. Uno studio svela che l'inclinazione all'avventura è scritta nel nostro cervello più primitivo e non è legata all'attesa di vantaggi
Siamo tutti Indiana Jones, temerari per natura
di Cesare Peccarisi


Decisioni. La scelta di rischiare, come Indiana, si avvia in automatico anche se non sappiamo se ne deriverà un vantaggio

Che cosa vi attrae sfogliando un depliant d'agenzia per le prossime vacanze? Una scogliera tempestosa, la vista aerea di un paesaggio lontano, un tranquillo lago racchiuso fra le montagne, o un'infinita spiaggia di sabbia dorata lambita dalle onde di un mare cristallino?
Questi sono solo quattro dei diversi paesaggi da cartolina usati dai ricercatori della University College di Londra, diretti da Bianca Wittmann, per individuare, attraverso la risonanza magnetica funzionale, l'area cerebrale che determina una personalità avventurosa, come quella dell'intrepido archeologo Indiana Jones che nei suoi film finisce sempre nei luoghi più improbabili.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Neuron, ha indicato che, se in alternativa alla solita spiaggia e del solito mare, vi proponessero una meta sconosciuta, molti preferirebbero la nuova esperienza anche senza sapere se finiranno in un albergo a cinque stelle o in una pensioncina, perché, quando una scelta non è legata a particolari vantaggi, ciò che ci fa decidere è la novità, in virtù della nostra innata curiosità che ci ha sempre spinto a esplorare l'ignoto, facendoci progredire dalla clava ai voli spaziali.
Il comportamento avventuroso è legato in maniera specifica all'area cerebrale chiamata striato ventrale: più questa regione è attiva, maggiore sarà la nostra propensione all'avventura e, in un certo senso, anche ai colpi di testa e alle decisioni avventate.
Finora si supponeva che nell'esplorazione delle novità fosse coinvolto il cosiddetto "sistema della ricompensa", gestito da vari centri cerebrali (oltre allo striato, anche amigdala, mesencefalo, corteccia orbito- frontale e prefrontale mesiale) che, attraverso il neurotrasmettitore dopamina, ci fanno sentire appagati quando una nuova esperienza risulta piacevole: ad esempio, un buon vino o un buon pranzo.
Ma in questa ricerca delle novità, i nuovi stimoli positivi non spingerebbero questi centri a cercarne di nuovi e, soprattutto, non attiverebbero la corteccia cerebrale frontopolare, sede delle aree cognitive più nobili: il comportamento esplorativo si avvia automaticamente, anche se non sappiamo quale vantaggio potrebbe derivarne.
I 15 giovani (8 maschi e 7 femmine di circa 26 anni) dello studio inglese dovevano osservare su un computer 32 foto di paesaggi, presentate 4 alla volta ad ogni prova e in una posizione sempre diversa dello schermo. Successivamente le cartoline virtuali erano ripresentate a caso e gli esaminandi dovevano premere un bottone se riconoscevano particolari del paesaggio, come ad esempio una casa: ad ogni risposta corretta ottenevano una sterlina e da quel momento quella cartolina sarebbe ricomparsa col timbro 1 sterlina. A questo punto comparivano anche altre cartoline che avrebbero potuto portare a vincite maggiori. Anche se le foto associate alla ricompensa diventavano rapidamente riconoscibili, con l'introduzione di quelle nuove molti tendevano a scegliere queste, piuttosto che quelle già note e dal guadagno assicurato. E quando optavano per la novità, la risonanza magnetica funzionale, che fotografava l'attività del loro cervello, mostrava un'iperattività dello striato ventrale e, diversamente da quanto finora ritenuto, quest'area si attivava non solo quando la scelta era stata fatta risultando soddisfacente, ma anche poco prima, quando si ha un pizzico di paura per ciò che si sta scegliendo.
In fondo, Indiana Jones è come tutti gli altri e anche lungo la sua schiena corre un brivido quando sta per lanciarsi in una delle sue avventure...

Repubblica 20.7.08
"Genova, al G8 agenti Usa pronti a sparare"
Il Pg: i disobbedienti dovevano essere fermati. Oggi commemorazione di Giuliani
di Massimo Calandri e Marco Preve


GENOVA - A Genova, nel luglio del 2001, durante i giorni del G8, un contingente di militari e agenti dei servizi statunitensi era stato autorizzato all´uso delle armi sul territorio italiano, ed era pronto a sparare per fermare eventuali aggressioni ai propri rappresentanti istituzionali.
E´ una novità assoluta, quella rivelata in un documento di 20 pagine depositato pochi giorni fa nell´ufficio impugnazioni del tribunale di Genova. Si tratta del ricorso con il quale il sostituto procuratore generale di Genova, Ezio Castaldi, chiede il processo d´appello per alcuni dei 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio che, nel dicembre scorso, mentre molti vennero condannati a pene pesantissime, evitarono una sentenza più dura. Accadde perché il tribunale riconobbe ai cosiddetti "disobbedienti" coinvolti negli scontri di via Tolemaide, di essersi ritrovati in una situazione di guerriglia originata da un errore del plotone di carabinieri il quale, diretto in altra parte della città, deviò e caricò all´improvviso il corteo delle tute bianche, dando così il via agli scontri.
Castaldi, nel ricostruire quegli eventi, critica l´interpretazione del tribunale, sostiene che la maggior parte dei manifestanti presenti in via Tolemaide aveva intenzioni non pacifiche e giustifica quindi l´operato delle forze dell´ordine e dello stesso contingente dei carabinieri. Per dare forza a quest´impostazione rivela un retroscena fino ad oggi sconosciuto.
«... Le forze dell´ordine - scrive a pagina 6 - dovevano impedire che entrassero in azione, e con mezzi estremi, le forze di sicurezza degli stessi stati partecipanti al G8».
Non si parla di pochi agenti della security del presidente George W. Bush. «Dette forze di sicurezza - continua infatti l´ex procuratore di Tempio Pausania - , per lo più statunitensi, erano infatti ampiamente dislocate nella "zona rossa" a tutela ravvicinata e diretta dell´incolumità personale dei capi di Stato presenti a Genova: ed erano pronte alla reazione immediata ed armata. Su ciò nessun dubbio è possibile... ».
Novità e rivelazioni che non muteranno, comunque, il clima pacifico che si respira in queste ore nel capoluogo ligure dove sono in corso numerosi eventi in occasione del settimo anniversario delle manifestazioni contro il G8. Oggi, in particolare, verrà ricordata l´uccisione di Carlo Giuliani avvenuta in piazza Alimonda, quando i manifestanti diedero l´assalto a una jeep dei carabinieri e un militare sparò uccidendo Giuliani.
Nel pomeriggio un corteo partirà da piazza De Ferrari fino a piazza Alimonda, dove si terrà una commemorazione organizzata dal Comitato Piazza Carlo Giuliani, presentato dal comico Andrea Rivera e con la partecipazione di musicisti rom.
Prima, in mattinata, il sindaco Marta Vincenzi incontrerà alcuni dei ragazzi imprigionati e picchiati nel carcere di Bolzaneto. Nei giorni scorsi si è chiuso il processo di primo grado con 15 condannati, 30 assolti e molte polemiche. Domani sera, invece, un gruppo di reduci della scuola Diaz organizzerà una fiaccolata che si concluderà davanti all´istituto teatro della brutale irruzione della polizia, vicenda per la quale la sentenza è attesa in ottobre. Da prefettura e questura nessun segnale di preoccupazione per un appuntamento che, fin dal 2002, non ha mai fatto registrare tensione o disordini.

Repubblica 20.7.08
"La Chiesa faccia santo Stalin" richiesta-shock dei comunisti russi
di Leonardo Coen


Uno dei leader del partito minaccia: in caso di rifiuto pronti a fomentare uno scisma
In un sondaggio sui leader più popolari l´ex dittatore contende il titolo a Nicola II

«Vogliamo che la Chiesa Russa Ortodossa canonizzi Stalin». Non è uno scherzo. Lo pretende Sergej Malinkovich, il presidente della sezione interregionale dei comunisti di Pietroburgo e della regione di Leningrado, la culla della rivoluzione d´Ottobre, uno dei membri più influenti del partito.«Ci rivolgeremo alla Chiesa con la richiesta di canonizzare colui che riunì le terre russe, che sconfisse i nemici della patria, che creò il grande minimo sociale, che fu l´eroe e il padre dei popoli», sostiene Malinkovich. Che poi minaccia: «Se la Chiesa si rifiutasse, allora al suo interno comparirà, non senza la partecipazione delle forze patriottiche, una tendenza di rinnovamento, una chiesa ortodossa popolare orientata in modo sociale, intollerante nei confronti dell´opulenza e dell´ostentata religiosità dei burocrati. Sarà questa chiesa rinnovata a canonizzare il grande Stalin, primo passo dell´unione del movimento di liberazione nazionale e dell´ortodossia popolare. Alla fine del XXI secolo le icone con l´immagine del Santo Josif Stalin compariranno in ogni casa ortodossa».
Una provocazione? Non proprio. Tutto nasce dal fatto che per quasi due settimane Stalin è rimasto in testa alla classifica del progetto tv «Il nome della Russia», il sondaggio Internet che si concluderà a Natale con la proclamazione del personaggio storico russo più rappresentativo. Qualche giorno fa la votazione è stata bloccata. Imperscrutabili «motivi tecnici». Poi, Alexsandr Ljubimov, direttore del progetto, ha spiegato che c´era stato un attacco di spam contro il sito, per favorire Stalin. Ma appena ha ripreso a funzionare, Stalin è stato superato dallo zar Nicola II.
I comunisti non hanno digerito il sorpasso: «Nessuna manipolazione del signor Ljubimov può nascondere la sacrosanta verità - ha scritto Malinkovich - Stalin è il nome più popolare della Russia. Il popolo perdona al Comandante Supremo sia le repressioni che la collettivizzazione, lo sterminio dei quadri dell´Armata Rossa, la lotta contro il cosmopolitismo ed altri inevitabili errori e tragedie dei tempi crudeli di guerra e di rivoluzione. Ovviamente, a noi, alla sinistra di oggi, è più vicino Ilich (Lenin, ndr.), ma per Stalin che ricevette la Russia con l´aratro di legno e la lasciò con il missile atomico votano i comunisti, i patrioti, i nazionalisti russi, i giovani e i vecchi». Ecco perché Stalin non deve essere demonizzato ma beatificato.
«È una richiesta mostruosa», ha replicato ieri ai microfoni di Radio Eko di Mosca Vladimir Vigiljanskij, portavoce del Patriarcato: «Stalin e i suoi furono colpevoli della totale distruzione della Chiesa Ortodossa Russa. Nell´epoca staliniana subirono morte violenta circa 200mila sacerdoti. Canonizzare uno colpevole di banditismo e terrorismo di stato è un sacrilegio terribile». Risposta dei comunisti di Pietroburgo: «La posizione del Patriarcato è dettata dalla pressione delle autorità laiche, non riflette l´opinione di tutto il clero, soprattutto dei pope della grande maggioranza delle piccole città russe e della campagna».
Come dimenticare, del resto, il telegramma che la Chiesa ortodossa inviò a Stalin il 21 dicembre del 1949? «Caro Josif Vissarionovich, nel giorno del suo 70esimo compleanno, le esprimiamo la nostra profonda riconoscenza. preghiamo per il rafforzamento del Suo vigore e benedicendo il Suo eroismo ce ne ispiriamo noi stessi».

Repubblica 20.7.08
Aleksandra Kollontaj. L’amore ai tempi del comunismo
Compagna femminista nel partito dell´ordine
di Miriam Mafai


Aleksandra Kollontaj, prima donna ministro nel governo dei Soviet, prima donna ambasciatrice, teorica dei rapporti tra sessi per il nuovo Stato. Bollata come "incendiaria" dai nemici, come vera rivoluzionaria dai solidali e come restauratrice dai detrattori, in questi scritti inediti in Italia tenta la sintesi dialettica tra "l´insana libidine" della società borghese e il vero affetto dei bolscevichi

Una spregiudicata femminista ante litteram? Una disinvolta teorica del "libero amore"? Una sostenitrice di quella riprovevole teoria del "bicchier d´acqua" (si beve quando si ha sete, si ha un rapporto sessuale quando lo si desidera), che già venne condannata a suo tempo da Lenin come «antimarxista e antisociale»? Niente di tutto questo, a leggere il testo di Aleksandra Kollontaj che oggi ci viene riproposto con il suo titolo originale Largo all´Eros alato e già il titolo anticipa il tono e il contenuto di queste pagine, un centinaio appena, con le quali la dirigente bolscevica, l´amica di Bucharin e di Lenin, prima donna ministro nel governo dei Soviet, prima donna ad assumere l´incarico di ambasciatore, si rivolge a un giovane compagno per spiegargli, con attenzione pazienza e tenerezza, cos´è l´Eros, nelle sue varie declinazioni. C´è infatti l´Eros alato, «intessuto di una sottile trama di svariatissime emozioni d´ordine spirituale e morale» e l´Eros senz´ali, «attrazione sessuale senza radici spirituali e morali». E non esita a «storicizzare» il sentimento d´amor, a spiegare che anche questo sentimento può evolvere e cambiare, come in effetti evolve e cambia a seconda delle epoche e della struttura della società.
«Mio giovane compagno, mi chiedete quale sia il ruolo che l´ideologia proletaria assegna all´amore. Quel che vi turba è che la gioventù lavoratrice sia attualmente più occupata dall´amore e da tutte le questioni connesse che dai grandi compiti con i quali la repubblica dei lavoratori deve misurarsi». E allora, pazientemente, la dirigente bolscevica racconta al suo giovane interlocutore le molte forme che può assumere, che concretamente ha assunto nel corso della storia dell´umanità quello che si definisce «l´enigma dell´amore». Nelle differenti tappe del suo sviluppo storico, l´umanità ha tentato di risolvere «la questione della relazione tra i sessi in diversi modi. Le chiavi cambiano, ma l´enigma rimane tale. Esse dipendono dall´epoca, dalla classe, dallo spirito del tempo (la cultura)».
Come esempio dell´amore «determinato dai vincoli del sangue», la Kollontaj ricorda Antigone che, rischiando la propria vita, fa sotterrare il corpo del fratello; come esempio dell´amore-amicizia ricorda la gloria di Castore e Polluce; come esempio dell´amore-cavalleresco ricorda quel sentimento platonico che spinge il cavaliere non tanto verso l´amata quanto verso gesta eroiche. E così, man mano lungo i secoli, cambia, il sentimento d´amore, spiega la dirigente bolscevica, anche a seconda delle esigenze, della cultura delle varie società, dalle società primitive a quelle feudali fino a quando «gli ideologi rivoluzionari della borghesia in ascesa produssero un nuovo ideale dell´amore: quello che unisce in sé due principi, uno carnale, l´altro morale». Siamo dunque alla famiglia borghese «fondata sulla volontà di impedire la dispersione del capitale tra i figli naturali e di assicurare la concentrazione del capitale».
Ma se con il cambiare delle strutture sociali, nel corso dei secoli, cambia, assumendo sempre nuove forme, il sentimento d´amore, cosa accadrà di Eros quando, finalmente sconfitta la borghesia capitalistica, il proletariato avrà conquistato il potere? È esattamente la condizione in cui si trova l´Urss in quegli anni e la Kollontaj, autorevole dirigente del partito che ha conquistato il potere, spiega al giovane ignoto compagno che si è rivolto a lei, quali debbano essere, quali saranno le caratteristiche di questo nuovo «amore da compagni». Con la conquista del potere da parte del proletariato, assicura, verrà superata, anche in amore, la cultura fondata sull´istinto di proprietà, sull´idea di possesso totale ed esclusivo dell´altro (in genere dell´altra) che ha raggiunto il suo massimo nella società borghese. Non si andrà, tuttavia, si badi bene, né verso «l´insana libidine» né verso la poligamia o la poliandria (ambedue dannose per il fisico e per lo spirito) ma verso una «complessa e intrecciata rete di vincoli spirituali e morali, grazie ai quali si consoliderà la collettività sociale dei lavoratori».
Al primo posto, comunque, un buon comunista metterà sempre gli interessi del collettivo. «Per quanto grande sia l´amore che lega i due sessi, per quanto numerosi siano i legami di cuore e di spirito che intesse fra loro, i vincoli dello stesso tipo con l´intera collettività debbono essere ancora più forti, più numerosi, più organici. La morale borghese esigeva: tutto per l´essere amato. La morale proletaria prescrive: tutto per il collettivo».
Il tempo smussa il tono e il senso delle polemiche. In qualche caso, le rende addirittura incomprensibili. Questa lettera della Kollontaj al suo «giovane amico» risale al 1923, l´anno in cui, con il lancio della Nep (Nuova politica economica) il regime sovietico tentava di mettere riparo agli eccessi dei primi anni della Rivoluzione, Luigi Cavallaro, in una stimolante prefazione al testo della Kollontaj non esita a definire questo testo «incendiario» tanto da provocare all´autrice critiche durissime del suo partito e una fama, che dura nel tempo, di femminista ante litteram. A distanza di quasi un secolo, è possibile anche, al contrario, leggere questo breve testo come l´invito, rivolto a una gioventù irrequieta, a chiudere la fase del disordine sentimentale e sessuale che aveva contrassegnato gli anni della prima fase rivoluzionaria, e a "rientrare nei ranghi", rinunciando al disordine sessuale, pericoloso per il fisico e per lo spirito, mettere al primo posto l´impegno per il collettivo.
La data, del resto, è significativa. Con le prime leggi emanate dal potere sovietico era stata sancita l´assoluta uguaglianza tra uomo e donna nella società e nella famiglia, era stato reso legale l´aborto, il matrimonio, registrato o sciolto di fronte a un qualunque ufficiale di stato civile, non comportava alcun impegno dei coniugi tra loro e assai limitati nei confronti dei figli. Fu un periodo dunque di assoluta libertà individuale e disordine. Con la introduzione della Nep, tuttavia, se non si veniva ancora a proporre una revisione delle leggi sulla famiglia e sull´aborto (revisione che giungerà negli anni successivi) si riconosceva tuttavia l´importanza di una vita familiare più regolare e regolata. Il testo della Kollontaj non va ancora esplicitamente in questa direzione, ma il suo ripetuto appello all´esigenza di mettere sempre al primo posto gli interessi del collettivo sembra indicare quella strada.

Repubblica 20.7.08
Ideologia proletaria e collettivismo dell'Eros
di Aleksandra Kollontaj


Qual è dunque l´ideale amoroso della classe operaia? Quali sono i sentimenti e le emozioni che l´ideologia proletaria pone alla base dei rapporti tra i sessi? Abbiamo già constatato, mio giovane compagno, che ogni epoca ha il suo ideale di amore, che ogni classe, nel proprio interesse, vuole introdurre nella nozione morale dell´amore i contenuti che le sono propri. Ogni fase culturale, portando con sé le più ricche emozioni umane nel campo spirituale e morale, ridipinge con i propri colori i toni delicati delle ali di Eros. [...]
Sotto l´azione delle forze economiche e sociali, l´istinto biologico di riproduzione, che ha determinato i rapporti sessuali nei primi stadi dello sviluppo dell´umanità, ha subito due degenerazioni in direzioni diametralmente opposte. Da un lato, per uno scopo riproduttivo, sotto la spinta di rapporti socio-economici abnormi, e in particolare sotto il dominio del capitalismo, il normale istinto sessuale, la normale attrazione tra i sessi, sono degenerati in malsana libidine. L´atto sessuale si è trasformato in uno scopo a sé stante, in strumento per procurarsi un "godimento supplementare", in concupiscenza esacerbata da eccessi e perversioni, sotto la spinta di un´artificiale esaltazione della carne. Se un uomo si lega a una donna, non è più perché una sana inclinazione sessuale lo ha fortemente attratto verso quella donna in particolare; al contrario, senza provare ancora alcun bisogno sessuale, l´uomo cerca la donna la cui presenza risvegli in lui l´attrazione sessuale e gli permetta così di godere attraverso l´atto sessuale fine a se stesso. Su questo è costruita la prostituzione. [...] Nella sua forma attuale, l´amore è uno stato d´animo estremamente complesso, che si è da molto tempo allontanato dalla sua primitiva fonte (l´istinto biologico di riproduzione) e spesso si trova perfino in netto contrasto con essa. L´amore è una sorta di conglomerato, un complesso insieme formato di passione, di amicizia, di tenerezza materna, di inclinazione amorosa, di comunanza di spirito, di pietà, di ammirazione, di abitudine, e di molte altre sfumature sentimentali ed emotive. Di fronte a una simile complessità, è sempre più problematico stabilire un nesso diretto tra voce della natura, Eros senz´ali (l´attrazione fisica dei sessi), ed Eros alato (l´attrazione carnale mista a emozioni spirituali e morali). L´amore-amicizia, nel quale non v´è alcuna componente fisica, l´amore spirituale per una causa o un´idea, l´amore impersonale per la collettività: tutti questi fenomeni sono la testimonianza di quanto il sentimento d´amore si sia distaccato dalla sua base biologica, di quanto si sia "spiritualizzato".
[...] Per millenni, una cultura fondata sull´istinto di proprietà ha inculcato negli uomini la convinzione che il sentimento d´amore aveva anch´esso come base il principio della proprietà. L´ideologia borghese ha messo in testa alla gente l´idea che l´amore, compreso l´amore reciproco, dava il diritto di possedere interamente e senza spartizioni il cuore dell´essere amato. Quest´ideale, questo esclusivismo nell´amore, derivava naturalmente dalla forma di unione coniugale stabilita e dall´ideale borghese di "amore totale ed esclusivo" tra gli sposi. Ma può forse un simile ideale corrispondere agli interessi della classe operaia? [...]
L´essere esclusivi in amore, l´essere "totalmente assorbiti" dall´amore, non può costituire l´ideale dei rapporti tra i sessi dal punto di vista dell´ideologia proletaria. Al contrario, lo scoprire che Eros alato è multiforme e multicorde non produce nel proletariato né orrore né indignazione, come avviene per l´ipocrita morale borghese. Al contrario il proletariato tenterà con tutte le sue forze di indirizzare questo fenomeno (risultato di complesse cause sociali) nella direzione corrispondente ai suoi compiti di classe in un dato momento della lotta, in un dato momento della costruzione della società comunista. [...] L´ideale d´amore della classe operaia, che discende dalla cooperazione nel lavoro e dalla solidarietà di spirito e di volontà dei membri di questa classe, uomini e donne, si differenzia naturalmente, sia per la forma che per il contenuto, dalle nozioni dell´amore proprie alle altre epoche culturali. Ma cos´è l´amore da compagni? Significa forse che l´austera ideologia della classe operaia, elaborata nell´atmosfera arroventata delle lotte per la dittatura del proletariato, vorrà scacciare senza pietà il tenero e fremente Eros alato dai rapporti sessuali? Assolutamente no. Non solo l´ideologia della classe operaia non ha intenzione di abolire Eros alato, ma al contrario essa libera la strada al riconoscimento del valore dell´amore come forza psico-sociale. La morale ipocrita della cultura borghese ha strappato senza pietà le piume dalle ali multicolori e sgargianti di Eros, obbligandolo a frequentare unicamente le "coppie legittime". Al di fuori del matrimonio, l´ideologia borghese lascia posto unicamente a un Eros senza piume e senza ali: l´unione sessuale momentanea, sotto forma di carezze comperate (prostituzione) o rubate (adulterio).
La morale della classe operaia invece, nella misura in cui ha già iniziato a cristallizzarsi, trascura completamente la forma esteriore che possono assumere i rapporti d´amore tra i sessi. Per ciò che concerne gli obiettivi di classe del proletariato, è del tutto indifferente che l´amore assuma la forma di un´unione duratura e legalizzata o che si esprima semplicemente in una relazione passeggera. L´ideologia della classe operaia non impone alcun limite formale all´amore. Al contrario, fin da ora essa guarda soprattutto al contenuto dell´amore, delle sfumature sentimentali ed emozionali che uniscono i due sessi. [...] Eros senz´ali è contrario agli interessi della classe operaia. In primo luogo, conduce inevitabilmente a degli eccessi, e di conseguenza a un esaurimento fisico che non può che diminuire l´energia lavorativa dell´umanità. In secondo luogo, rende l´animo sterile, ostacolando così lo sviluppo e il rafforzamento dei legami spirituali e dei "sentimenti di simpatia". In terzo luogo, è di solito basato sull´ineguaglianza dei diritti nei rapporti sessuali, sulla dipendenza della donna nei confronti dell´uomo, sulla fatuità e sulla rozzezza maschili, il che può unicamente frenare lo sviluppo del sentimento di solidarietà fra compagni.
Traduzione Claudio Fracassi
© 2008 Il nuovo Melangolo Srl, Genova