giovedì 24 luglio 2008

l’Unità 24.7.08
Vendola: no a un «partitino» giustizialista di duri e puri
di Andrea Carugati


Presidente Vendola, che giudizio dà della discussione in Rifondazione di questi mesi? Non crede sia stato un dibattito lontano dalla vita reale, anche dei vostri elettori?
«C’è stata una nevrotica separazione dalla realtà, un avvitamento in una contesa intestina che talvolta ha superato i limiti della ragionevolezza. Però c’è anche un altro elemento: 40mila persone che, sfidando la calura, hanno discusso appassionatamente nei circoli anche dopo il trauma di aprile. È un segno di vitalità, una forte domanda di buona politica a cui purtroppo noi gruppi dirigenti rispondiamo in modo fragile perché siamo parte del problema, parte di una crisi ideale e culturale della sinistra».
È possibile che al congresso di Chianciano il Prc esca da tutto questo?
«Sarà possibile se il congresso sarà un pezzo del processo per rifondare Rifondazione, per rimettere in piedi una comunità: un cantiere per lenire le ferite del partito e fare tutti un passo avanti. Ma per farlo bisogna che ci liberiamo da sindromi come l’idea che ci sia qualcuno che vuole sfasciare il partito. Io sono l’ultimo rimasto del gruppo che ha fondato il Prc e per me è stato molto doloroso essere indicato come il suo dissolutore. Si è manipolata la mia mozione per attribuirle disegni che non c’erano: un’esplosione dei risentimenti e veleni, anche da parte di compagni che ho sempre considerato fratelli. Ma ormai questo è alle nostre spalle».
La sua mozione ha vinto ma non ha la maggioranza assoluta. L’ipotesi che il Prc vada alle europee con il suo simbolo può essere un modo per allargare la sua maggioranza, magari al gruppo di Grassi?
«In Europa Rifondazione ha dato vita alla Sinistra europea e ci sta con il suo simbolo: è un processo contrario a una trincea identitaria. Ci sono ancora in gioco variabili importanti, come la legge elettorale e lo sbarramento: ma io credo che il Prc debba proseguire in questo percorso con il suo simbolo. Non è un arretramento».
C’è però il tema del processo costituente a sinistra da lei proposto. I suoi avversari dicono che, con il 47%, il suo progetto è stato bocciato.
«La politica dice che abbiamo la maggioranza relativa: questo ci chiede di sentire la responsabilità di offrire a tutti un percorso che consenta la salvezza della nostra comunità, che ha vissuto un rischio di dissoluzione, e consenta a una parte più larga del partito di riconoscersi in un governo unitario».
Anche con Ferrero?
«Non si tratta di smussare dissensi strategici che ci sono. Sento una grande distanza culturale con Paolo Ferrero, perché avverto in lui il retaggio del minoritarismo di vecchie culture che invocavano l’apologia del sociale, di ciò che sta in basso, persino flirtando con il giustizialismo e l’antipolitica. Non sono solo sensibilità personali, ma differenze strategiche. Con altri compagni le differenze sono più attenuate. Il punto è: lavoriamo a un piccolo partito di duri e puri o per un Prc come pilastro di una sinistra di popolo?».
Gli incontri con le altre mozioni che lei ha proposto in questi giorni hanno dato risultati?
«Ci hanno aiutato a portare la discussione fuori dal livello delle contumelie. Abbiamo riportato la discussione alla politica e questo ha esorcizzato i fantasmi di scissione o di autodissoluzione. Oggi possiamo andare a Chianciano disarmati dai risentimenti, e rimetterci tutti in cammino per far fronte alla tempesta sociale che sta arrivando. Rifondazione non vuol dire restaurazione: il partito esiste se è la fabbrica di una sinistra più larga, non se è culto identitario o nostalgia».
Sarebbe disponibile a un passo indietro dalla segreteria se questo servisse per trovare una maggioranza più larga alla guida del Prc?
«Sono sempre disponibile a fare un passo avanti per il bene della mia comunità, non indietro. La mia era l’unica mozione che conteneva l’indicazione di un segretario ed è stata votata da 21mila persone: non c’era mai stata un’indicazione così larga, dunque non è una questione di persone ma di democrazia».
È disposto a farsi eleggere segretario solo dai suoi delegati?
«Il segretario è figlio dell’opzione politica su cui si costruisce il governo del partito. Non vogliamo soluzioni pasticciate, ma coraggiose e unitarie».
Come valuta l’esito dei congressi di Pdci e Verdi alla luce del processo costituente a sinistra?
«Lo dico con molto rispetto, ma mi sono parsi ancora più nevrotici del nostro, un rendiconto tutto interno ai gruppi dirigenti e molto aspro, nei Verdi, o scisso dalla realtà nel caso del Pdci. Questo ci fa capire quanto sia profonda la crisi di una sinistra alternativa, per questo il processo costituente deve ricostruire dalle radici, in un panorama di desertificazione a sinistra».
E il rapporto con il Pd?
«Dobbiamo giocare fino in fondo la nostra autonomia e la nostra divaricazione strategica dal Pd e contemporaneamente lavorare con pazienza per rendere largo e forte il fronte delle opposizioni. Il diluvio di aprile ha cancellato l’idea della separazione consensuale. Dove sarà possibile bisogna pensare ad alleanze col Pd: in Emilia Romagna e in Puglia, ad esempio, sarebbe folle immaginare una rottura. Governo e opposizione non sono totem, ma prospettive da affrontare in modo laico».

l’Unità 24.7.08
Prc, i primi diciassette anni
Le contraddizioni continue di una Rifondazione resistente


Nasce come movimento e una volta diventato partito conosce una seconda giovinezza nel rapporto con i movimenti, tanto leaderistico a uno sguardo esterno quanto percorso al suo interno da forze antileader. Nato per tenere uniti tutti i comunisti ha dato vita, tra una scissione e l’altra, a una decina di più o meno fortunate sigle anticapitaliste. Rifondazione comunista è un partito dalle forti contraddizioni. Rispetto alle quali è anche poca cosa che oggi, dopo un voto che ha fatto registrare il minimo storico e che ne ha decretato la scomparsa dal Parlamento, vada a un congresso divisa in 5 mozioni e senza aver scongiurato il rischio scissione.
La storia del Prc è una storia di separazioni, quella del Pdci nel ’98 è solo la più consistente e quelle del Partito comunista dei lavoratori di Ferrando e della Sinistra critica di Turigliatto sono solo le più recenti. Ma non è per la nascita dell’Iniziativa comunista nel ’94 o dei Comunisti unitari nel ’95, e poi via via nel fiorire di sigle varie, che i consensi elettorali vengono a mancare. Le percentuali salgono o scendono - dall’8,5% delle politiche del ’96 (Camera) al 4,3% delle europee del ’99, dal 7,4% delle politiche 2006 (Senato) al 3% delle ultime elezioni - perché la storia del Prc è anche fatta di scelte azzardate, che premiano e fanno pagare: far cadere un governo progressista nell’autunno ’98 pur sapendo che questo avrebbe aperto la strada alle destre e poi far parte, nel 2006, di un governo del quale era chiaro il marchio riformista moderato. Separazioni e scelte azzardate. E però la fine più volte presagita non è mai arrivata, perché quelle contraddizioni Rifondazione le ha cavalcate, spesso ricorrendo a quella giocata che piace tanto a Fausto Bertinotti, «la mossa del cavallo». Che però non può riuscire sempre, non riesce a tutti, non riesce da tutte le posizioni, soprattutto da quelle istituzionali.
Così al congresso che si apre oggi a Chianciano a pesare saranno vecchie e nuove contraddizioni, amplificate da una sconfitta che non ha precedenti e da una campagna congressuale lacerante, che ha coinvolto 45mila dei 92mila iscritti e che in gran parte è stata combattuta sulla regolarità dei nuovi tesseramenti e dell’applicazione delle norme statutarie. Come verranno gestite si saprà soltanto domenica quando, a congresso chiuso, si riuniranno i 250 membri del Comitato politico (i delegati sono 650) per eleggere il nuovo segretario. Se, come sembrava negli ultimi giorni, Nichi Vendola riuscirà a stringere con Claudio Grassi un accordo politico (nella migliore delle ipotesi) o programmatico (il minimo indispensabile) basato sulla presentazione alle europee del simbolo del Prc ma senza rinunciare all’avvio di un processo costituente della sinistra, il governatore pugliese sarà eletto. Se invece, come sembra nelle ultime ore, Paolo Ferrero riuscirà a mantenere saldo l’accordo con Essere comunisti per il rilancio del Prc come «partito sociale», saranno possibili due subordinate. La prima: Ferrero riesce a coalizzare attorno a un nome alternativo a Vendola la sua e le altre tre mozioni e porta a casa la segreteria col 53% dei voti (la mozione Vendola ha il 47%). La seconda: non tutti i delegati anti-vendola si mettono d’accordo (la terza mozione, Pegolo-Giannini, guarda con interesse alla costituente comunista del Pdci di Diliberto) e il governatore pugliese diventa segretario con la maggioranza semplice.
Contraddittorio per il Prc è stato il rapporto con il leader, Fausto Bertinotti. Quando il partito viene fondato, nel dicembre ’91, per iniziativa del Movimento della Rifondazione comunista che all’ultimo congresso del Pci si oppone alla svolta della Bolognina di Occhetto e alla nascita del Pds, Bertinotti non c’è. C’è Nichi Vendola, con Sergio Garavini e gli altri. E ci entrano poco dopo quelli di Democrazia proletaria, come Paolo Ferrero e Giovanni Russo Spena. L’allora sindacalista della Cgil, con una trentina di colleghi, arriva due anni dopo, abbandonata polemicamente la Quercia. Armando Cossutta lo vuole segretario, l’incarico gli viene affidato nel gennaio ’94. Marco Rizzo sostiene nel suo libro Perché ancora comunisti che «si iscrisse a Rifondazione direttamente da segretario». E però Bertinotti è un segretario amato dai suoi, che per 12 anni riesce a governare un partito e a fargli accettare decisioni inattese - come il rapporto col movimento no-global inaugurato col G8 di Genova del 2001, l’adesione alla Sinistra europea nel 2004, la rottura con lo stalinismo al congresso di Rimini del 2002, la svolta della nonviolenza a quello di Venezia del 2005 - nonostante abbia al suo interno una minoranza forte di quasi il 25% dei consensi come è quella di Grassi e almeno tre minoranze trotzkiste; un segretario accusato di frequentare troppo i salotti e che però riesce a portarsi dietro iscritti ed elettori da una posizione a quella opposta senza troppi scossoni o autocritiche.
Contraddittorio è anche il rapporto del Prc con le forze progressiste e col governo, rispetto al quale ha sperimentato tutte le formule: il «patto di desistenza» con l’Ulivo nel ’96 e l’appoggio esterno al primo esescutivo Prodi; la decisione di correre da solo, nel 2001; l’adesione all’Unione per le politiche del 2006 e l’entrata al governo con il Prodi II. Ogni scelta ha portato più o meno rapidamente a esiti negativi, calamitato critiche, suscitato polemiche. L’appoggio esterno finisce nell’autunno del ’98 con il voto contrario del Prc alla Finanziaria e la caduta di Prodi per un voto. Le politiche del 2001 finiscono con la vittoria del centrodestra guidato da Berlusconi («non capisco perché deve ringraziare milioni e milioni di persone quando basterebbe ringraziarne una sola, Fausto Bertinotti», disse in tv Nanni Moretti pochi giorni dopo il voto).
L’esperienza dell’Unione, dopo un biennio di distinguo, astensioni e voti contrari in Consiglio dei ministri, manifestazioni in piazza e difficoltà sempre maggiori a far votare in Aula i parlamentari secondo le decisioni prese dagli organismi dirigenti, finisce con la crisi del secondo governo Prodi innescata dai centristi Mastella e Dini e con le elezioni anticipate che riducono Rifondazione comunista a una forza extraparlamentare. Poco sopra il 3% insieme a Verdi, Pdci e Sd nella Sinistra arcobaleno guidata dal loro ex segretario Bertinotti. Colpa della campagna sul «voto utile» portata avanti dal Pd, sostengono gli esponenti del Prc. Ma ha pesato anche l’essere in balia di due spinte, contraddittorie: ottenere risultati ma non rimpere con il governo. E per Vendola l’Arcobaleno è stato percepito come un puro cartello elettorale, quando il processo di unificazione a sinistra deve avere un’altra profondità. Per Ferrero, che pure è stato ministro, Rifondazione ha sbagliato a entrare in un governo dagli equilibri così sfavorevoli e ora deve ripartire dal sociale e trascurare il rapporto con le altre forze politiche. Ne discuteranno al congresso, il primo dopo 14 anni senza Bertinotti segretario. Per il suo intervento, sabato, c’è molta attesa. Per quel che dirà e per l’accoglienza che riceverà. E poco importa se anche questa è una contraddizione.

Repubblica 24.7.08
Punti per l´intesa
"Io non faccio passi indietro mi candido e salvo la sinistra"
Vendola e il congresso: serve un patto per rifiatare
di Umberto Rosso


Propongo un accordo al partito: ripartire dal Prc, simbolo alle Europee e opposizione larga

ROMA - «Un passo indietro? Diciamo che nella mia vita non ne ho mai fatti, e quindi non ci sono abituato. Passi avanti, semmai. Quelli sì. Ero e resto candidato alla segreteria di Rifondazione. Non è in discussione. Questo partito voglio salvarlo, insieme alla sinistra».
Il congresso si apre oggi, governatore Nichi Vendola, ma Ferrero continua a sparargli contro: non ha conquistato la maggioranza, non può guidare un Prc così spaccato.
«Il 52 per cento del partito non condivide la mia mozione, ma se la mettiamo così il 60 per cento è contro quella di Ferrero, il 90 per cento non ha votato Giannini... E allora, che si fa, fermi tutti? Una maggioranza, pure se relativa, l´ho portata a casa. Non si può governare un partito solo "contro", con i "no". Invece i miei avversarsi mi ricordano tanto il Montale di Ossi di Seppia: "Codesto solo possiamo dirti, ciò che non siamo ciò che non vogliamo"».
Resta il problema dei numeri...
«Il punto è invertire la deriva dissolutiva che ci ha investito, uscire da tutti i simbolismi. Noi non siamo stati all´altezza di una sconfitta che non è stata solo politica ma ha rotto al nostro interno vincoli di fraternità. Di fronte ad un compito simile, certo, è difficile immaginare un partito guidato da una maggioranza ristretta».
Sta lanciando una mediazione, mano tesa ai rivali?
«Proporrò al congresso un forte accordo di programma, una piattaforma di alcuni punti su cui trovare una maggioranza. Anche con un orizzonte temporale limitato».
Limitato quanto?
«Diciamo un anno: il tempo per riprendere fiato, per rimettere in sesto Rifondazione. Per restituirle il piacere della convivenza, riannodare e riaprire i cantieri dell´innovazione culturale che hanno sempre accompagnato la vita del nostro partito».
I punti per un accordo?
«Tre. Rifondazione come forza-chiave per un processo di rigenerazione della sinistra. E´ una condizione necessaria, anche se non sufficiente».
La "rigenerazione" prende il posto della "costituente" della sinistra. Questione di vocabolario o concessione politica a Ferrero e compagni?
«Nessuno di noi, con la costituente, intendeva mascherare lo scioglimento del Prc. E questa nostra proposta ha politicamente vinto il congresso. Se, come credo, su tutto il dibattito ha pesato la paura, allora esorcizziamola. Andiamo alla sostanza delle cose. La sinistra è mille cantieri, non ci sono modelli da imitare».
Secondo punto per la trattativa da aprire a Chianciano.
«Prc come struttura portante dell´esperienza della Sinistra europea, che nelle prossime elezioni avrà un momento importante di verifica».
Significa che alle elezioni europee Rifondazione si presenterà con il proprio simbolo?
«Penso di sì, ma senza mettere il carro davanti ai buoi. Bisogna vedere che legge elettorale ci sarà, che tipo di sbarramento. In ogni caso, anche qui non si tratta di tornare indietro, perché il processo della Sinistra Europea è aperto da tempo, ci stiamo dentro, rappresenta la nostra bussola».
Terzo e ultimo punto di programma.
«Come costruire un fronte di larga opposizione al governo. Il ribellismo plebeo non serve a nulla, se non si mette al centro la questione del lavoro. La destra vince perché convince».
Quindi, confronto aperto con il Pd?
«In politica non ci sono dogmi da proclamare, che fanno dell´opposizione o del governo dei feticci. Ho paura di una sorta di metafisica dell´opposizione, mentre bisogna entrare nella carne viva di chi governa per rendere efficace la battaglia. L´autonomia dal Pd, la divaricazione strategica con quel partito, sono come postulati. Ma noi dobbiamo sempre fare politica, che vive anche in un confronto aspro col Pd».
Fronte largo di opposizione anche con Di Pietro?
«La battaglia per la legalità è autentica se legata alla lotta alla xenofobia e razzismo. Ma sulla sicurezza Di Pietro è ideologicamente trasversale ai due poli, e i diritti dei cittadini non si possono svendere per qualche voto in più».
Dica la verità: con la sua proposta punta a rompere le alleanze interne, ad attirare i voti di Grassi o magari di Giannini...
«Io non faccio il furbo, io mi rivolto a tutto il congresso. E non faccio il presidenzialista, come mi accusa Russo Spena, semmai sono il presidente della Regione Puglia. Non vorrei, con criteri simili, che mi dessero pure del nichilista, visto che mi chiamo Nichi».

Corriere della Sera 23,7,08
Il governatore della Puglia «Pronto a discutere di federalismo. Una resa? No, un attacco»
Vendola: voglio vedere il gioco leghista
di Gian Guido Vecchi


MILANO — «Certo che vado a vedere il gioco! Non sto qui a dire: c'è stata la riforma del Titolo V, è nel programma di governo, ormai lo dobbiamo fare per forza, quindi mi faccio il segno della croce e speriamo bene di limitare i danni. Eh no...». Nichi Vendola, presidente della Puglia nonché leader in pectore di Rifondazione comunista, non ha problemi a sedersi al tavolo con il ministro leghista Roberto Calderoli: «Siamo una grande regione d'Europa, la parte del Continente che si tuffa nel Mediterraneo e vuole essere moderna. Il Sud deve avere ambizioni e pensieri lunghi. Raccogliere e anzi lanciare la sfida.
Perciò io la accetto: prendiamo in mano la bandiera contro sprechi, parassitismo, corruzione, lentezze burocratiche, dipendenza delle burocrazie dalla politica eccetera. E ciascuno faccia fino in fondo la sua parte».
Presidente, Calderoli dice di aver ricevuto da lei «ampi assensi » sul federalismo. Vero?
«Probabile che si riferisse a un mio intervento all'Aspen. Dicevo che il federalismo non si può fare con il calcolatore».
E cioè?
«Non ha senso che ad ogni ipotesi ciascuno passi subito alla simulazione, al calcolo di vantaggi e svantaggi. O il federalismo diventa una sfida molto alta, oppure non si va da nessuna parte. Tanto più nel momento in cui c'è la percezione di una crisi economica durissima che si sta abbattendo sul Paese: una riforma di scarsa ambizione politica e culturale sarebbe travolta».
Ora Calderoli dice che il suo progetto è un'altra cosa rispetto al modello lombardo...
«Il testo lombardo per noi del Sud era una provocazione, aveva il profumo della secessione fiscale. Vedremo cosa ci sarà presentato. Però, certo, sgomberare il campo da quell'ipotesi significa passare dalla provocazione alla discussione politica, e a me va bene. Si cambia tavolo e questo tavolo, dal mio punto di vista, è utile ».
Dice di esser pronto a sedersi al tavolo con Calderoli. Non teme che nel suo partito possano contestarla?
«Ma io non propongo una resa. Sto proponendo di giocare all'attacco. Per esempio, dirò a Tremonti che non può credere di parlare con noi di federalismo e insieme commissariare le Regioni rastrellando i fondi della spesa comunitaria. Il federalismo comporta coerenza. Una griglia di valutazione meritocratica nella pubblica amministrazione è una bella sfida che riguarda la storia della nostra burocrazia e la sua subalternità al potere. Ma Brunetta non vada a caccia di capri espiatori e fantasmi: si cominci dai dirigenti... Tutti abbiamo bisogno di elevare la discussione».
Già, ma in che modo?
«Per il Mezzogiorno può essere un'occasione straordinaria di mettere a tema la "questione meridionale". Di guardare con spietatezza a noi stessi ma anche raccontare i nostri talenti e successi. Arriverà il momento in cui si guarderà quanto si è investito in infrastrutture a Nord e a Sud... La leva fiscale non può essere l'unico parametro. La Puglia, ad esempio, consuma meno del 20 per cento dell'energia che produce. Oltre l'80 lo dà al Paese. Esiste un livello in cui questo ingrediente sia valutato come merita? E ancora: la spesa pubblica...».
Bel problema...
«Sì, ma non se può parlare con formule esoteriche e ridondanti. Magari indicando la voragine nella spesa sanitaria, come se non fosse sottoposta all'aumento dei costi delle tecnologie, del personale... Il rischio è una logica dei tagli che non riduce né gli sprechi né la corruzione, ma diritti e servizi».
Pone delle condizioni?
«Dei tabù, piuttosto: unitarietà del sistema scolastico, sanitario, socio-assistenziale, dei trasporti pubblici locali. I diritti alla salute, alla scuola o l'assistenza sono universali, velocità diverse sarebbero inconcepibili, l'inizio della dissoluzione del Paese. Su questi faremmo le barricate».
E la polemica di Bossi sugli insegnanti meridionali?
«Appunto: è il Sud che anche in questo caso si fa carico di accrescere la ricchezza del Nord...».
Quindi?
«C'è bisogno di una discussione seria. Puntiamo all'idea difficilissima di una nuova convivenza, di un patto per il futuro del-l'Italia. Responsabilizzazione dei territori e solidarietà nazionale sono le due gambe su cui il federalismo può camminare. E l'invocazione di un livello più alto non è una clausola di stile. Compromessi al ribasso sarebbero spazzati via».
La sfida
«Accetto la sfida, però ciascuno deve fare fino in fondo la sua parte»

l’Unità 23.7.08
Ferrero: «La costituente è chiusa ora ricostruiamo il partito»
di Luca Sebastiani


«Non è un problema di analisi logica. È un problema politico». Paolo Ferrero, firmatario della mozione 1 al Congresso di Rifondazione che si apre domani, ha le idee chiare sul futuro della Sinistra. E del Prc. Per questo preferisce non addentrarsi nelle distinzioni grammaticali che Nichi Vendola, firmatario della mozione 2, ha utilizzato per tentare di aprire ad una parte dei sostenitori della mozione dell’ex ministro della Solidarietà sociale. «Per me - dice Ferrero - costituente e processo costituente sono esattamente la stessa cosa». Invece la priorità è «il rilancio del partito», ergo «la costituente è chiusa». Più chiaro di così.
Indubbiamente le posizioni tra le due mozioni arrivate in testa al voto degli iscritti restano ancora lontane e domani, molto probabilmente, a Chianciano la platea dei delegati sarà divisa in due. I sostenitori del governatore della Puglia (che ha raccolto il 47,3% dei voti) da una parte e quelli dell’ex ministro (40,3%) dall’altra.
Ferrero, Nichi Vendola ha detto che vuole incontrare i rappresentanti delle altre quattro mozioni per ricostruire l’unità di Rifondazione. Lo ha già visto?
«Non ancora, molto probabilmente lo vedrò domani (ndr oggi)».
Però sembra che Vendola abbia dialogato con Claudio Grassi, firmatario della sua mozione...
«Non voglio trasformare il congresso in una specie di telenovela. Preferisco attenermi alle notizie ufficiali. E vedo che Claudio ha respinto al mittente le aperture. La nostra mozione resta compatta».
Cosa pensa di questa sorta di «bilaterali» lanciati dalla mozione della maggioranza relativa?
«Noi pensiamo che la sede più opportuna per il confronto sia la Commissione politica del congresso. Crediamo che sia un luogo più trasparente, per il semplice fatto che vi siedono tutte le mozioni».
In molti hanno evocato un congresso della doppia platea, con voi da una parte e vendoliani dall’altra...
«Indubbiamente è stato un congresso molto combattuto, ma spero si riescano a trovare degli elementi di ascolto reciproco. Del resto anche durante le discussioni nei circoli, qui e là, questi elementi si sono trovati».
Quindi esclude lo spettro della scissione?
«Nessuno ne ha mai parlato, quindi credo che non si possa prendere in considerazione».
Quali sono i margini di ricomposizione?
«Questi si verificheranno nella commissione politica dove noi proporremo una gestione unitaria, di tutte le mozioni, e cercheremo una convergenza sui nostri punti prioritari».
E il segretario?
«Quello viene dopo, prima dobbiamo definire una linea politica».
Quali sono i punti qualificanti della vostra mozione?
«Per prima cosa ripartire da Rifondazione, la costituente è chiusa».
Andrete alle europee insieme ai Comunisti italiani come ha chiesto Diliberto?
«Credo che dovremmo andare alle elezioni col nostro simbolo, non credo sia il caso in questo contesto andare col Pdci. Dobbiamo rifondare il partito attraverso la ricostruzione della sua utilità sociale. E per mettere il sociale al centro abbiamo bisogno della nostra autonomia. Anche dal Pd che ha scelto la strada sbagliata. Per uscire dalla crisi bisogna scavare in basso a sinistra, il contrario d quello che fanno i democratici».
Che vuol dire scavare in basso?
«Ricostruire il conflitto tra il basso e l’alto perché l’alternativa è tra il conflitto di classe e la lotta tra poveri».
Cioè?
«Nella crisi della globalizzazione la destra rischia di essere egemone proponendo la guerra tra i poveri, cioè gestendo le paure dei cittadini e mettendoli gli uni contro gli altri. Una volta è colpa dei cinesi, un’altra dell’immigrato, un’altra ancora dello zingaro».
E come si fa opposizione?
«Appunto, ricostruendo il conflitto tra chi sta in basso e chi sta in alto. Non solo sui luoghi di lavoro, ma in un senso molto più ampio. Per chiedere gli asili, le scuole, etc. Solo così usciremo dalla crisi che ci ha travolto dopo l’esperienza del Governo Prodi».
Un'esperienza fallimentare?
«Sui punti fondamentali per i quali la gente ci aveva votato, non siamo riusciti a dare risposte concrete. Chi non arrivava a fine mese nel 2006 continua a non arrivarci ora. Chi era precario lo è restato. Tra le altre cose non abbiamo risolto il conflitto d’interessi. È anche questa mancanza che ci ha travolto».

il Riformista 24.7.08
Rifondazione. Al via oggi il congresso a Chianciano
Nichi senza numeri si affida al delegato di Cosenza
di Alessandro De Angelis


Il delegato del Prc di Cosenza Fausto Bertinotti interverrà sabato mattina, da semplice militante: «Non parlerò più di dieci minuti» ha assicurato. Ormai Fausto vive un'altra fase, umana e politica. Che forse, per chi viene da una certa storia, è un po' la stessa cosa: la rivista Alternative per il socialismo , il lavoro di preparazione della sua Fondazione, i libri. È lontano, anzi lontanissimo dai veleni che animeranno il congresso di Rifondazione che inizia oggi a Chianciano. La mozione Vendola ha ottenuto il 47 per cento dei voti, quella di Ferrero il 40, le altre tre di comunisti, più o meno irriducibili, il resto. Ma la quadra ancora non c'è: né sulla linea né sul segretario. Ancora ieri è stata una giornata di incontri, tra i vendoliani e i rappresentanti delle altre mozioni, per arrivare con una «proposta unitaria» in vista del comitato politico di domenica. Se Vendola vorrà guidare un partito non a pezzi dovrà modificare la linea. Il punto è: di quanto. Negli ultimi tempi Nichi ha ammorbidito le sue parole d'ordine: la «costituente» è diventata «processo costituente», di «nuovo centrosinistra» si parla sempre meno. L'obiettivo è rassicurare chi vede lo scioglimento del partito come fumo negli occhi. Nello specifico: Claudio Grassi, che ieri si è mostrato compatto con Ferrero ma che - almeno così dicono ambienti della sua mozione - a determinate condizioni potrebbe sganciarsi con la sua pattuglia di delegati e garantire la maggioranza a Vendola. I bertinottiani puri sono scettici: si può rallentare il processo - ad esempio presentandosi col proprio simbolo alle europee - ma mettere in discussione la costruzione di una nuova sinistra, questo no: «Grassi vuole comunistizzare il percorso. Gli va bene Vendola ma vuole eleggerlo con un'altra linea. Ma la nostra proposta non si può annacquare» dice Gianni, vicinissimo a Bertinotti. Oggi si presentano le mozioni: aprirà Vendola poi Acerbo (non Ferrero), a seguire gli altri. Ma la battaglia, come nelle migliori tradizioni è nei comitati politici da cui uscirà il documento finale.
L'alta politica, quella non c'è. E - nonostante Vendola - a più di un bertinottiano manca Fausto. Un dirigente di rango vicino a Bertinotti spiega: «Nichi è bravo ma ha un limite. Non è ancora sintonizzato sulla lunghezza d'onda necessaria. Un conto è fare il capopopolo un conto è fare il segretario dopo la sconfitta. Ancora non si cala nel ruolo del dirigente». E così - paradossalmente ma non troppo - più di Nichi la differenza potrebbe farla proprio il delegato di Cosenza. L'ultima battaglia di Bertinotti presenta una novità, e non da poco. Per la prima volta Fausto parlerà quasi come corpo estraneo nel suo partito. Già, proprio così: nel suo partito. Lui, l'uomo delle svolte, il socialista lombardiano che ha rianimato i comunisti che non volevano ammainare la loro bandiera, lui che in nome della non violenza e del rapporto con i movimenti ha portato al governo Rifondazione archiviando, con lo stalinismo, una certa visione del comunismo, ora tenterà l'ultima svolta.
Questa situazione a Fausto non piace per niente. E sabato parlerà, eccome: «Sarà meno discreto del solito», dicono i suoi. I numeri non ci sono. Ma la politica non è solo matematica, è anche suggestione, elemento evocativo, che in un'assemblea può diventare riflesso condizionato: carisma, appunto. Questa l'ultima sfida di Fausto. Sbatterà in faccia alla platea il rischio dell'estinzione della sinistra: «La sconfitta è di tali dimensioni che la ricerca delle sue cause è un'operazione di prima grandezza» ha ripetuto più volte alla redazione della sua rivista. Dirà che un ciclo si è chiuso: la sinistra è minoritaria in Italia e in Europa, e da una sconfitta così non si esce con le scorciatoie, come l'unità dei comunisti o rallentando la costruzione di un soggetto unitario e plurale come vuole Ferrero. È la stessa idea di sinistra - per Bertinotti - che è entrata in discussione: sia la terza via sia l'altermondismo. Da qui si deve ripartire. Con chi? Diliberto è uscito sui giornali per il lambrusco, la Francescato per i fischi, Rifondazione vive l'attesa della notte dei lunghi coltelli di sabato: «Chissenefrega del Pdci e dei Verdi. Va ricostruita la sinistra con chi ci sta. E soprattutto bisogna parlare a quella sinistra diffusa nel paese che non è rappresentata da questo o quel partito» afferma Gianni. I bertinottiani lo strappo (politico) lo vogliono. Certo il partito non si può rompere: bisogna pagare gli stipendi, non si può litigare sul simbolo, ma la politica con la P maiuscola, dicono, è altro. In attesa del delegato di Cosenza.

l’Unità 24.7.08
Un colpo all’Università
di Fabio Mussi


La sorte dell’università italiana è segnata, allo stato dei fatti. Segnata da un decreto «finanziario», il 112 del 25 giugno, presentato da Tremonti e approvato in nove minuti dal Consiglio dei ministri, che mina una parte essenziale delle conquiste sociali e culturali di età repubblicana. Tre o quatto norme, quasi distrattamente gettate qua e là nel testo, bastano a cambiare radicalmente, in una direzione che sembrerebbe - sembrerebbe… - priva di senso, l’università e la ricerca scientifica. Fatto questo, non c’è più bisogno di portare in Parlamento alcunché. La cosa di cui mi pare ci sia ancora poca consapevolezza, nel campo di quello che fu il centrosinistra, è che patto costituzionale e patto sociale stanno, sotto la potente e debolmente contrastata spinta della destra, rovinando insieme.
Il decreto prevede innanzitutto un costante definanziamento per i prossimi cinque anni. Cinque. Sono gli anni in cui l’Italia dovrebbe onorare gli impegni presi a Lisbona: costruire lo «spazio europeo dell’università e della ricerca», portare gli investimenti al 4.5% del pil. Parlo naturalmente non di spesa, ma di investimenti.
Anche a prescindere dal valore assoluto, fuori da una logica di merce, della conoscenza, è noto che il principale fattore di produttività economica si chiama istruzione, formazione superiore, ricerca. Ci sono stime internazionali: ogni dollaro, o euro, che metti nella ricerca, ne produce tre. Gli obiettivi di Lisbona, che altri Paesi europei hanno già raggiunto, o fortemente avvicinato, sono per il nostro irraggiungibili: ci vorrebbero nei prossimi anni incrementi fino a 40 miliardi di euro l’anno. Scendere, assomiglia al suicidio di una nazione. Formazione superiore e ricerca sono assolutamente sottofinanziati: 0.8% sul pil l’Università, 1.1% la ricerca scientifica (era 1.4%anni fa). Lisbona no, ma almeno le medie europee, almeno le medie di area OCSE! Si tratta per l’Italia di una cifra intorno ai 10 miliardi di euro aggiuntivi. Non dimenticando che negli ultimi venti anni c’è stata nel mondo una impressionante crescita degli investimenti, di cui sono stati protagonisti Stati Uniti, Cina e India, a seguire l’Europa, ma una moltitudine ancora di Paesi di tutti i continenti. Spesa pubblica e privata: in Italia lo Stato ci mette un po’ meno degli altri Stati della Ue, le imprese italiane, mediamente, clamorosamente meno delle loro sorelle europee.
Nei venti mesi del governo Prodi questa è stata una questione molto combattuta. Lo dico per personale esperienza. Quando si decise, con il primo provvedimento finanziario del 2006, con il mio dissenso di ministro, il taglio dei consumi intermedi -che poteva valere intorno ai 100 milioni di euro, norma in extremis poi revocata, si accese un torrido dibattito pubblico, paginate di giornali. Ora Tremonti- Gelmini prevedono un taglio di circa 1.5 miliardi euro nel quinquennio, e si sono letti qua e là degli articoli (per esempio sull’Unità), rari Nantes nel mare magno di una informazione sempre più conformistica e d’intrattenimento, ma nessuna discussione pubblica all’altezza del problema che si apre. Il governo di centrosinistra, nelle sue due finanziarie, aveva stabilizzato la spesa, anzi l’aveva un po’ incrementata, accompagnandola con misure di serietà. Insufficienti? Insufficienti. Con la destra si scende d’un colpo sotto il livello di sopravvivenza. Si apre semplicemente una lotta darwiniana tra istituzioni universitarie e centri di ricerca. Di dove cominceranno i tagli? Certamente riguarderanno tanto la didattica quanto la ricerca, e saranno colpiti i più giovani. Vedo che ci sono gà atenei che dichiarano di non poter rispettare la norma dell’aumento delle borse di dottorato, che era garantito dal Fondo di finanziamento 2008. Lo stesso passaggio dalla biennalità alla triennalità degli scatti di carriera (che non ha nulla a che fare con la premialità del merito e dell’impegno) colpirà soprattutto i docenti e i ricercatori più giovani, all’inizio della carriera. Una cosa è sicura: aumenteranno fortemente le tasse. E così, per un certo numero di nonni che potranno comprare qualche pacco di pasta al supermercato con la social card , ci saranno milioni di nipoti le cui famiglie dovranno versare molto molto di più. Però, com’è noto, la destra non mette le mani in tasca dei cittadini, mai e per definizione…
Ma la trappola mortale per giovani, nel decreto del governo Berlusconi, è la norma che limita il turn over al 20% delle uscite. Abbiamo il corpo docente universitario più vecchio del mondo, organizzato in una struttura di ordinari, associati e ricercatori, bizzarra e altrove sconosciuta. In pochi anni, almeno la metà dei docenti in attività andrà in pensione. Una occasione importante di riequilibrio e di rinnovamento. Se ne entra solo uno ogni cinque che escono, si brucerà una generazione intera di giovani di talento, quelli stessi che già oggi a migliaia emigrano, senza essere compensati da loro coetanei che arrivano da altri Paesi. Si ridurrà drasticamente il corpo docente, senza ridurne significativamente l’età media. Nella legge che proibisce ai giornali di pubblicare certe notizie giudiziarie in loro possesso, sarebbe opportuno allora fare un emendamento: "Di qui in avanti è proibito, per decenza, scrivere e stampare la frase: fuga dei cervelli".
È evidente che tutta questa roba non ha niente a che fare con una strategia della qualità e di innalzamento degli standard del sistema universitario. E che le nuove norme creeranno un groviglio inestricabile di problemi. Sono sicuro che lo sa bene Giulio Tremonti, visore globale e autore della geniale irresistibile gag nella quale appaiono quali responsabili del mercatismo liberista l’Illuminismo, la Rivoluzione francese e il comunismo. Lo vede talmente bene che una soluzione l’ha trovata: le università possono trasformarsi in fondazioni di diritto privato. A parte il fatto che il trasferimento diretto dallo Stato è in Italia due punti sotto la media europea (documentazione presentata al Meeting di Londra sul "Processo di Bologna" nel giugno 2007), e già molte università , oltre al gettito tutt’altro che trascurabile delle tasse degli studenti, già attingono a rilevanti risorse autoprocurate. A parte il fatto che in Italia non ci sono né i Rockfeller che mettono soldi nelle Foundations, né i Guggenheim che li mettono nell’arte, né mecenati che elargiscono con liberalità alla scienza e alla cultura (anche lì. negli Usa, non sempre disinteressatamente, magari per comprarsi l’accesso a prestigiose ed esclusive università per i figli bighelloni).
Si capisce l’idea del governo di destra: privatizzare. E magari si muoverà di certo qualche privato (e magari qualche privato che prende molti soldi dallo Stato, magari un qualche otto per mille).
Il punto è che, con tutti gli innegabili guai dei grandi sistemi pubblici, l’eccellenza è pubblica: nella sanità, nella scuola, nell’università, nella ricerca.
Che qualità, merito ed efficienza siano una esclusiva del privato, non è un fatto, ma, come diceva Norman Mailer, un "fattoide", cioè una balla: Una balla di successo, ma una balla. Tutti i nostri sistemi sono misti, c’è il pubblico e c’è il privato. Quando relazioni sono pulite, questo è un valore. Ma se si smantella il pubblico -in quei territori che hanno a che fare per esempio con la salute, il patrimonio culturale e la conoscenza- non è il moderno che arriva, è il passato che torna. Come è tornato il passato remoto con il "Lodo Alfano", un pezzo di diritto medievale scagliato nel presente. Bisogna muoversi, ora.

l’Unità 24.7.08
L’appello dei professori
Decreto incostituzionale. Salviamo gli atenei


Prevedendo la trasformazione in fondazioni di fatto si privatizza il sistema

Il recente Decreto Legge 112/2008 è un documento inquietante, che può assestare il colpo di grazia al sistema universitario nazionale.
Non ci soffermiamo su una serie di prescrizioni pur di estrema gravità (ulteriore riduzione, in tre anni, del FFO per 500 milioni di euro; trasformazione in triennali degli scatti retributivi con conseguente riduzione delle già umilianti retribuzioni del personale universitario; riduzione drastica del turnover; regole inique per la determinazione degli accessi, etc.), che, tuttavia, non raggiungono il livello di insensatezza dei principi che dovrebbero configurare il nuovo modello di sistema.
Il decreto, prevedendo ipocritamente la “possibilità” della trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato e, dunque, la privatizzazione del sistema nelle sue espressioni più consolidate,configura una formazione sicuramente incostituzionale ed anticostituzionale. È, infatti, incostituzionale una configurazione sistematica che contrasti il dettato esplicito della Carta, lì dove prevede il carattere pubblico dell’istruzione, anche della istruzione superiore. È anticostituzionale una formazione che di fatto determina una triplice discriminazione.
Da un lato sono discriminate quelle sedi che, impossibilitate a trasformarsi in fondazioni di diritto privato, andrebbero a configurare, in un sistema a doppio livello di qualità, sedi di serie B; da un lato anche le sedi maggiori e potenzialmente trasformabili in fondazioni verrebbero discriminate in ragione della diversità strutturale delle zone in cui operano: zone ricche e zone povere. Infine una odiosa discriminazione riguarderebbe i giovani, a seconda delle loro condizioni economiche e sociali.
In altre parole, viene ipotizzata una effettiva, pur se surrettizia spaccatura del Paese nell’ottusa previsione di una costellazione di sedi capaci di realizzare un sottosistema di “isole felici”, intorno alle quali, in un mare melmoso, vivacchierebbero le sedi di serie B, nelle quali si spera che andrebbe scaricata ogni possibile contestazione, tra pochi fondi e scarsa qualità di formazione culturale e di preparazione professionale.
Il decreto è un esempio dell’inguaribile provincialismo capovolto italiano, che ritiene di accedere ai processi di modernizzazione e sviluppo , raccattando, con incultura, senza cognizioni approfondite, sistemi o parti di sistema operanti altrove, in Paesi di diversa strutturazione sociale, economica e culturale, dei quali, per altro, si ignorano le pur esistenti incongruenze e tensioni, coll’arrestarsi alla impalcatura formale di essi.
In conclusione il citato decreto rappresenta un consapevole o inconsapevole contributo alla definitiva dissoluzione della identità culturale nazionale, già, purtroppo, ridotta in condizioni precarie, esponendo ad ulteriori rischi la nostra identità statale.
Riteniamo che il mondo universitario non possa più tacere e invitiamo quanti hanno a cuore il destino delle nostre Università e, con esse, del nostro Paese, a reagire con forza e determinazione, respingendo strumentali ed ipocriti ideologismi da qualsiasi parte provengano e di qualsiasi colore, nell’interesse dei nostri giovani, cui è affidato, senza retorica, l’avvenire della nostra comunità nazionale.
Fulvio Tessitore, Michele Ciliberto, Edoardo Vesentini, Nicola Cabibbo, Giorgio Salvini, Margherita Hack, Giorgio Parisi, Cesare Segre, Annibale Mottana, Giancarlo Setti, Alessandro Pizzorusso, Cesare Vasoli, Giuseppe Giarrizzo, Salvatore Califano, Luigi Radicati di Brozolo, Natalino Irti, Girolamo Arnaldi, Luciano Canfora, Giovanni Chieffi, Fausto Zevi, Arnaldo Bagnasco, Fulvio Ricci, Enrico Iachello, Giovanni Azzone, Giovanni Polara, Enrico Berti, Massimo Firpo, Alfredo Stussi, Luciano Martini, Giuseppe Cambiano, Massimo Mori, Stefano Poggi, Luigi Ruggiu, Alfonso Iacono, Giorgio Melchiori, Walter Tega, Andrea Tagliapietra, Massimo Mugnai, Enrico Rambaldi, Filippo De Rossi, Franco Caputo, Maria Bonghi Iovino, Eva Cantarella, Franco Barbagallo, Giuseppe Da Prato, Giuseppe Cacciatore, Giuseppe Cantillo, Giuseppe Lissa, Enrico Nuzzo, Fabrizio Lomonaco, Edoardo Massimilla, Domenico Conte, Beatrice Centi, Davide Bigalli, Germana Ernst, Federico Vercellone, Pasquale Smiraglia, Alberto Burgio, Giovanni Busino.
G. Mazzacca, A.G. Nazzaro, G. Gialanella, G. Vitolo, L. Della Pietra, P. De Lucia, E. Sassi, F. Donadio, G. Bosio, F. Biasutti, G. Belgioioso, L. Bianchi, G. Canziani, G. Cavallo, A. Dini, L. Fonnesu, G. C. Garfagnini, A. Giugliano, M. L. Bianchi, M. Cambi, S. Nannini, R. Pettoello, N. Panichi, A. Montano, F. Piro, L. Punzo, V. Sorge, L. Repici, F. Trabattoni, M. Sanna, G. Magnano San Lio, R. Delle Donne, A. Lanzotti, S. Gerbino, M. Fabbricino, B. M. D’Ippolito, V. Cocco, G. Scalera, P. D’Amodio, R. Trabucco, A. Magli, V. Monti, I. Bovio, A. Albano, G. Pane, L. Lirer, E.C. Barbera, G. Marino, M. Tortorelli, S. Bassi, G. Rubinacci, A. De Luca, P. Zenga, C. Campanella, M. Valletrisco, M. R. Volpe, M. Stanco, D. Patella, L. Cicala, G. Corrado, A. Nunziante Cesaro, A. Piccolo, M. Avino, C. Schettini, R. Pititto, R. Giglio, F. Carbonara, F. Minichiello, L. Pica Ciamarra, F. Piscione, G. Ventre, M. Castellano, C. Buongiovanno, V. Varchetta, R. Mastroianni, A. Testa, R. Moro, R. Viscardi, P. Donadio, P. Fiore, F. Lizzi, S. Fazio, G. Maglio, R. Pasquino, G. P. Russo, A. Gentile, M. Martirano, P. Abrescia, C. De Vita, G. Florio, R. Di Meglio, G. Miano, G. Oliviero, P. Vairo, S. Miranda, R. Romagnuolo, G. Iannone, E. Filippone, R. Acquaviva, T. Spagniuolo Vigorita, G. de Felice, M. Lapegna, L. Costabile, F. Renduzzi, S. Patalano, M. Martorelli, D. Di Gironimo, F. Renno, S. Papa, A. Marzano, A. Tarallo, P. Franciosa, V. Martinelli, F. Fimiani.

l’Unità 24.7.08
De Luna: «Post fascisti? No, sono trasformisti»
di Bruno Gravagnuolo


L’INTERVISTA Parla lo storico dell’Università di Torino: «Ormai An mette insieme cose inconciliabili: Almirante e la Resistenza, il Msi e la democrazia repubblicana». Perché? «Vogliono legittimarsi al centro e nascondere la loro storia»

E adesso i post-fascisti si buttano a sinistra. O meglio un po’ a sinistra: al centro. Col recupero della destra nella Resistenza. E dunque delle radici monarchiche o repubblicane moderate del moto resistenziale. Che Alemanno ha proclamato di voler riabilitare, nel recarsi ieri l’altro al Museo di Via Tasso a Roma. Bizzarro recupero, sebbene inedito in questa forma, poiché si unisce al salvataggio della Resistenza vista come reazione popolare all’occupazione straniera. Laddove i post-fascisti sono figli della contro-Resistenza: del Msi post-saloino.
E figli di Almirante, al quale il sindaco di Roma ha riconfermato di voler dedicare una strada. Che succede? Fine del post-fascismo? Non ne è convinto Giovanni De Luna, storico contemporaneo a Torino, studioso della Lega e dell’antifascismo. Che anzi parla di «trasformismo». Di un tentativo An «di usare in modo disinvolto e imbarazzato la storia, come al supermarket, per farne l’uso richiesto dalle circostanze». E quali circostanze? «L’irresistibile pulsione verso il centro del sistema politico», replica De Luna. E ciò «del tutto in linea con una tendenza storica in Italia dal tempo di De Pretis, che coinvolse ieri la sinistra, e la coinvolge pure oggi». Già, ma perché «supermarket» e «imbarazzo» in An? «Intanto - spiega De Luna - mettono insieme cose troppo contrastanti: Almirante e la Resistenza!». E poi «perché sono gravati da zavorra e contorsioni, a differenza della Lega e di Fi, con cui vogliono fondersi e competere». Sì, ma il battage sulla «notte futurista» a Roma e i discorsi su Ezra Pound e il 1968? «Fumisterie. Mi preoccupa più il ruolo che An può assumere rispetto all’intolleranza e il razzismo. Qui si misura quel che davvero hanno in mente...». Quanto al resto, conclude lo storico, «le revisioni sono un’altra cosa, vanno fatte a partire da memorie distinte e senza trucchi o confusioni». E ben per questo lo studioso ha curato un volume edito da ManifestoLibri che uscirà in ottobre: La piuma e la montagna. Sui delitti senza giustizia degli anni ‘60 e ‘70 contro i militanti di sinistra, a cui fecero riscontro i delitti contro i «cuori neri». Intreccio da indagare appunto «senza trasformismi». Ma sentiamo De Luna.
Professor De Luna, Alemanno a Via Tasso rivaluta la Resistenza da destra, ma insiste su Via Almirante a Roma. Il tutto dopo aver esaltato Ezra Pound come padre del ‘68. Svolta o trasformismo nei post-fascisti di oggi?
«Si avverte in loro la fatica di ricostruire un albero genealogico dignitoso, e un rapporto con la storia non impiccato a Salò. I materiali che usano sono eterogenei, contraddittori e confusi. Il che ci fa dubitare delle loro reali intenzioni. Perché è impossibile tenere dentro la Resistenza, Ezra Pund e Almirante. È come se la destra francese o Chirac, avessero voluto conciliare Petain e De Gaulle. Bisogna scegliere. E però il vizio è tipico delle classi dirigenti italiane, che usano la storia come un grande supermarket, per comprare di volta articoli da usare nell’immediato».
Non c’è anche un elemento mistificatorio? Ad esempio nel Fini semipresidenzialista che esalta il Msi democratico, e condanna il comunismo in Italia?
«Il giudizio di Fini è radicalmente sbagliato sul piano storico, sul piano dei fatti. È persino ridicolo doverlo ricordare. Il Pci partecipa all’elaborazione della Carta Costituzionale, al momento più alto della democrazia italiana. Mentre il Msi nasce in chiave eversiva, fuori dal patto costituzionale, che gli italiani stringono nel 1946, all’insegna del motto: “mai più il fascismo”. E “non mai più il comunismo”. Sì, per riprendere il tema dell’inizio, penso che si tratti proprio di trasformismo. Ovvero di una marcia verso il centro, fenomeno tipico che ha sempre attraversato il sistema politico italiano. Le ali politiche radicali, o una parte di esse, hanno sempre avvertito l’attrazione fatale verso il centro. E quando devono negare le loro origini radicali, entrano in affanno. Perché sono costrette a elaborare una nuova identità, tramite materiali estremamente confusi. Da questo punto di vista la Lega è peculiare: ha dovuto inventarsi una tradizione celtica. E riti pagani inesistenti. Mentre An non può attingere alla guide del Touring, o al folklore delle sagre paesane. Così finisce col saccheggiare a modo suo la storia italiana. Peraltro senza rispetto nemmeno per la sua storia. Rivendicare infatti la democraticità del Msi significa privare di dignità la propria biografia...»
Almirante caldeggiava la soluzione cilena negli anni ‘70, fu antisemita e repubblichino, e diceva che fascista ce lo aveva scritto in fronte...
«Già, stanno irridendo la loro stessa storia, la propria identità. Ma non lo fanno solo loro, purtroppo. Francamente lo ha fatto anche la sinistra. Perché la pulsione verso il centro non riguarda solo la destra. E la storia dei “ragazzi di Salò” di Violante andava esattamente in questa direzione: garantirsi una legittimazione al centro».
Il trasformismo post-fascista non comincia già a Fiuggi nel 1995, quando Fini parlò di antifascismo come «momento necessario di passaggio» e non come «valore in positivo»?
«Ufficialmente comincia proprio allora. All’insegna del rifiuto di riconoscere nell’antifascismo ciò che storicamente è stato in Italia. E cioè: un contenuto positivo della democrazia italiana. Il vero “di più”, per una repubblica nata dalle ceneri del fascismo, e che non poteva accontentarsi di una democrazia normale. L’Italia nel ‘900 ha prodotto il fascismo. Perciò il “di più” era fatto di valori, minoranze eroiche, istituzioni, tensioni in positivo. Quanto al Pci “totalitario”, di cui parla sempre An, esso subì l’influsso di questo valore aggiunto, di questo paradigma. Di cui fu cofondatore e artefice. Il Pci fu dalla parte della democrazia. Fino a risultarne anche trasformato».
«Paradigma» è un insieme di valori egualitari, partecipativi, universalistici e garantistici?
«Sì, e con un imperativo categorico di fondo: mai più il fascismo. Mai più lo stato totalitario»
Il politologo Carlo Galli su «l’Unità» sostiene che An è ormai finita: corporativa e nelle mani di Berlusconi e Bossi. Ma l’ambizione di An non è quella di «riempire» Fi e sostituire un Cavaliere transitato al Qurinale?
«Concordo con lei. Il progetto di Fini e di An è quello. Dubito però che il progetto possa realizzarsi. An sottovaluta il dinamismo della Lega. E anche il carisma di Berlusconi, davvero irripetibile senza la sua persona. E poi sottostimano il loro stesso svuotamento, all’ombra delle istituzioni che vanno ad occupare. In fondo lo abbiamo già visto con Bertinotti. Chi sale sullo scranno più alto della Camera, e dimentica il partito che ha alle spalle, va incontro a brutte sorprese. Rifondazione comunista, priva dell’unico segretario in grado di conferirle credibilità, si è dissolta. L’ebbrezza istituzionale per An può essere fatale».
Finiranno divorati da Berlusconi? Anche culturalmente?
«Non lo so. Ma la fatica che fanno per reinventarsi una tradizione democratica, appartiene solo a loro. Il Cavaliere non ha questo problema, non deve costruirsi una geneaologia, né un rapporto virtuoso con la storia. La zavorra e l’impaccio ce li ha An. Lega e Forza Italia sono molto più sciolte e senza contorsioni. E questo problema alla fine rende An molto più fragile politicamente».
In conclusione, che uso fare dell’antifascismo? Anticaglia o radice ancora propulsiva?
«L’antifascismo è quello che è: un valore repubblicano. Valore chiave degli ordinamenti della Repubblica. Quando ci si pone il problema dell’inclusione, dei diritti, dell’allargamento dello spazio democratico, non si può prescindere da quel valore, che è alla base degli altri valori repubblicani. Insomma, dall’antifascismo non possiamo prescinderne».

l’Unità 24.7.08
Editoria 1 e 2 ottobre gli «Stati generali». Ieri annunciato il tema, con una ricerca Iard
Giovani & Cultura, Italia fanalino di coda della Ue


La cultura è un lusso? No, se si scommette sui giovani. Sarà in controtendenza con la linea dell’attuale governo - che in questi giorni decide il ritorno ai 14 anni per la scuola dell’obbligo - l’incontro promosso dall’Associazione Italiana degli Editori, l’1 e 2 ottobre a Roma, al San Michele. Il tema degli Stati Generali dell’Editoria edizione 2008 è infatti «Scommettere sui giovani». Cui l’Aie, nell’annunciarlo, fa seguire un commento: «perché sono già agli ultimi posti in Europa»... Appunto. Dalla ricerca affidata allo Iard e presentata ieri alla stampa, ecco i dati: i giovani italiani hanno minori competenze rispetto ai coetanei dei Paesi dell’Ue (comprensione linguistica, -6% rispetto ai ragazzi tedeschi, -7% rispetto a quelli del Regno Unito, -5% rispetto alla Francia; e valori non diversi nelle competenze scientifiche); si laureano meno (il 31,8% dei 20-29enni, contro il 34,7% della Spagna, il 55,9% del Regno Unito); leggono meno (al nostro 53,8% corrisponde il 66,0% della Francia o il 72,3% della Spagna); utilizzano meno le nuove tecnologie (l’accesso a Internet nelle famiglie italiane è del 43% a fronte del 67% del Regno Unito e del 71% della Germania) e, per finire, conseguenza diretta di tutto questo, hanno un tasso di disoccupazione giovanile che è tra i più alti in Europa (il 20,3% in Italia contro il 14,4% del Regno Unito, il 18,2% della Spagna, il 19,3% della Francia e l’11,1% della Germania, ecc.).
Naturalmente libro e lettura sono strumenti fondamentali per combattere questo drammatico gap. Su questo, l’Aie fornisce alcuni dati in merito alla «familiarità» con essi: le probabilità di essere lettori, per bambini e ragazzi tra i 6 e i 19 anni, sono 2,8 in più se leggono entrambi i genitori; 3,5 in più se si nasce in una famiglia con una biblioteca di oltre 200 libri; 1,7 in più se si nasce in una regione del Nord e 1,3 in più se si nasce in una famiglia con almeno un genitore laureato. In teoria è appunto in questo divario che dovrebbe intervenire il sistema scolastico pubblico. Al San Michele gli editori si confronteranno appunto con i ministri dell’Istruzione, dei Beni Culturali Bondi e delle Politiche Giovanili, nonché con il responsabile del Plan de Fomento spagnolo (l’equivalente spagnolo del Centro per il libro e la lettura)e con il project director del National Year of Reading inglese.

l’Unità Roma 24.7.08
Red Lazio: «Sì all’alleanza con sinistra e Udc»
Prima assemblea a Frascati dell’associazione promossa da D’Alema: obiettivo le regionali del 2010
di Cesare Buquicchio


«RED NON È UNA CORRENTE, anche perché - dice l’ex consigliere regionale Ds Tonino D’Annibale - ai tempi miei per una corrente non ti chiedevano certo 100 euro d’iscrizione...!». Così, declinando, ogni esponente a modo suo, la premessa che «Riformisti e Democratici» non è una corrente, ieri si è presentata nel Lazio l’associazione promossa da Massimo D’Alema. In una affollata sala di Villa Tuscolana a Frascati gli ex ministri Paolo De Castro, Livia Turco e Pierluigi Bersani, il presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, gli assessori regionali Claudio Mancini, Mario Di Carlo e Bruno Astorre, numerosi sindaci e consiglieri comunali.
La metafora più apprezzata è stata quella dell’affluente vigoroso (Red) che porta acqua al fiume (Pd) un po’ secco. L’intenzione, sottolineata anche da Bersani, è quella di andare rapidamente al tesseramento. E a quel punto contarsi. L’idea che viene avanzata è che il partito debba essere «leggero ma non liquido» e che debba servire da palestra o da scuola per una nuova classe politica che manca ancora al Pd. E chissà se il pensiero dei convenuti è andato alla vecchia scuola dei dirigenti del Partito Comunista Italiano alle Frattocchie, solo a poche curve di distanza dalla sala di Frascati dove si svolgeva la riunione di Red Lazio.
Ma ieri a presentarsi era la costola locale di Red, e così, il tema più caldo è stato quello della sfida elettorale per le regionali del 2010. «Ci troviamo nella seconda parte della legislatura della Regione Lazio e l'associazione può essere un mezzo da utilizzare, proprio, per la rielezione del presidente Marrazzo - ha detto Antonio Rugghia, deputato Pd -. Red Lazio potrà essere un punto di riferimento di tutti. Una sorta di agorà, dove poter riproporre al centro della discussione i principali temi politici, culturali, amministrativi e sociali». È toccato ad Alessandro Mazzoli, Presidente della Provincia di Viterbo, essere più esplicito ed invocare la necessità di andare alle elezioni l’allargando l’alleanza di centrosinistra da Rifondazione comunista all’Udc. Segnali forse confermati dalla presenza in sala dell’assessore regionale al Bilancio Nieri e del consigliere regionale dei Verdi Enrico Fontana.
(Ha collaborato Eleonora Mattia)

Corriere della Sera 24.7.08
Su «Aut Aut». Dibattito tra lo studioso italiano e l'americano Arnold I. Davidson. Metodi, obiettivi e pericoli nella lettura critica dei documenti
Ginzburg: il pre-giudizio aiuta la ricerca storica
«Se non si parte da una ipotesi si rischia di non capire nulla, bisogna saper imparare dal testo»
colloquio tra Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson


Pubblichiamo uno stralcio del dialogo tra Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson, sul tema «Il mestiere dello storico e la filosofia», contenuto nel numero in uscita della rivista «Aut Aut», edita dal Saggiatore e diretta da Pier Aldo Rovatti. In questa conversazione— organizzata dal festival «vicino/lontano» di Udine, lo storico italiano affronta con il suo interlocutore (studioso americano di Foucault e autore del saggio The Emergence of Sexuality,
Harvard University Press) i problemi cognitivi ed etici con cui si confronta la storiografia nel ricostruire il passato sulla base dei documenti.

Arnold I. Davidson: Il tema dello straniamento, vale a dire entrare in un'altra prospettiva per riesaminare la nostra e capirne i presupposti epistemologici, mostra molto bene il ruolo di un certo tipo di pratica all'interno della storia, ma anche all'interno della filosofia. Lo straniamento ci consente di mettere in risalto la nostra prospettiva, e poi di esaminare, di discutere e di accettare in modo più conscio, oppure di rifiutare, la prospettiva altrui. Carlo Ginzburg ha insistito tantissimo sull'aspetto cognitivo della prospettiva. Il fatto che abbiamo tutti una prospettiva, che c'è sempre una prospettiva particolare, locale, non esclude che possiamo discutere le nostre prospettive, dibattere filosoficamente. Non si va dalla prospettiva particolare al relativismo assoluto: certo, c'è una prospettiva, ma si può argomentare intorno ad essa per valutare qualcosa che di solito non vediamo. Quindi la prospettiva ha questo aspetto conoscitivo.
Ma lo straniamento non è la sola posta in gioco, perché c'è anche una posta in gioco morale ed etica. Io penso sinceramente che lo storico non possa e non debba evitare nella sua scrittura, sempre, una prospettiva di valutazione; non soltanto di cognizione, ma di valutazione. Ogni frase scritta da uno storico implica una prospettiva di valutazione, per cui il problema è come mettere insieme il lavoro storico e la necessità di una prospettiva di valutazione. L'idea che il sapere sia sempre prospettico è un'idea fondamentale. Tuttavia, il problema per Ginzburg è che la prospettiva non si riduce a un rapporto di forza, non è soltanto politica: c'è un aspetto conoscitivo, ma c'è anche un altro aspetto che riguarda la prospettiva di valutazione.
La prospettiva di valutazione ha un ruolo nella storia che è molto diverso da quello che assume in un trattato di filosofia morale, dove troviamo i concetti classici di bene, male, giustizia, ingiustizia. Si tratta sempre di un giudizio, per così dire, che viene pronunciato dalla cattedra – questo è il bene, questo è il male – e implica il tentativo di giustificare con l'argomentazione filosofica il giudizio morale. Ma chi esprime un giudizio morale di questo tipo in un libro di storia perde un certo compito della storia, che non è quello di emettere giudizi morali di genere filosofico, anche se il giudizio morale non si può evitare.
Il problema allora è questo: cosa fa uno storico, che non può evitare impliciti giudizi etici, morali, quando questi giudizi sono al centro di un dibattito? Come può giustificare, non l'indagine storica in quanto tale, cioè i fatti, la descrizione degli eventi – perché per la prospettiva cognitiva c'è un legame con la verità che in un certo senso controlla e regola la prospettiva, che dice questo è vero, questo non lo è. C'è, insomma, un modello di verità che regola la prospettiva. Ma nel caso della moralità, qual è il quadro di regolazione? E qual è il rapporto tra la prospettiva conoscitiva, al centro del lavoro di Ginzburg, e la prospettiva di valutazione, dove c'entrano la filosofia morale e la politica?
Carlo Ginzburg: Bisogna superare l'idea illusoria che il rapporto con i testi o con le persone sia facile: la trasparenza è un inganno. Il primo aiuto forse ci viene dalla nozione di straniamento, che è stata evocata prima: un atteggiamento che ci fa guardare a un testo come a qualcosa di opaco. È un atteggiamento che può essere spontaneo; più spesso, è il frutto di una tecnica deliberata: non capire un testo come premessa per capirlo meglio, non capire una persona come premessa per capirla meglio. Diffido profondamente delle metodologie che trapassano i testi come un coltello taglia il burro. La loro apparente potenza è illusoria.
In realtà l'interprete trova solo se stesso.
La stessa cosa succede con le persone. L'idea che tutti si capiscano è illusoria. Al contrario, il fraintendimento, la difficoltà di comprensione fa parte dei rapporti normali, anche fra persone che appartengono alla stessa cultura. Questo sforzo, quindi, è necessario e passa attraverso il riconoscimento dell'opacità. Cosa dice questo testo? Cosa mi dice questa persona? Perché fa così? Io credo che domande di questo tipo debbano essere continuamente poste. Quindi bisogna autoeducarsi a farsi domande: nei confronti dei testi, per chi fa questo mestiere; nei confronti delle persone, per chiunque – perché questo fa parte del mestiere di vivere.
Ora cerco di rispondere alla domanda che mi ha posto Arnold Davidson. Direi che, anche se ammettiamo che prospettiva cognitiva e giudizio morale siano intrecciati, nel momento in cui si fa il mestiere di storico, meno si parla di morale meglio è. Ma credo che nell'idea di prospettiva ci sia anche la prospettiva morale. Nel libro del grande storico dell'arte Ernst Gombrich Arte e illusione, l'autore evoca un aneddoto: all'inizio dell'Ottocento un gruppo di pittori va nella campagna romana a dipingere lo stesso luogo e ne vengono fuori molti quadri diversi. Come mai? Ognuno di loro si accostava allo stesso paesaggio non solo con un bagaglio tecnico, ma con qualcosa che era legato alla propria formazione. In questa specie di griglia, in questo filtro mentale entrano, io credo, anche i valori morali. Bisogna sottolineare da un lato la diversità; dall'altro, la traducibilità.
Il lavoro che facciamo di fronte a un testo è di interpretarlo, e cioè, anzitutto, di tradurlo. Possiamo dire allora che c'è un conflitto fra giudizio morale e prospettiva cognitiva? Io credo di no, a patto di ammettere che la prospettiva cognitiva non è mai neutra, sebbene sia traducibile. Molti elementi entrano nella prospettiva cognitiva, inclusi gli elementi morali, politici ecc. Tutti devono, per quanto è possibile, entrare a far parte della consapevolezza. Dobbiamo diventare consapevoli dei nostri pre-giudizi. Stacco pre-giudizi, perché siamo abituati a dare alla parola pregiudizio una connotazione negativa: mentre qualche forma di pre-giudizio, cioè di giudizio anticipato, è auspicabile, come sa bene chi studia testi. Se non si parte da un'ipotesi non si capisce nulla. Certo, dobbiamo evitare di imporre il nostro pre-giudizio. Dobbiamo essere disposti a imparare dal testo.
Davidson: Vorrei ritornare sullo straniamento, perché il problema principale sta nel fatto che è difficile da attuare. È un esercizio, una pratica, una tecnica difficile, dato che non si può stare sempre nell'atteggiamento dello straniamento.
C'è però una cosa più profonda: la prospettiva cognitiva è anche una prospettiva di valutazione. A questo proposito, leggendo un testo del grande storico italiano Arnaldo Momigliano, mi ha colpito il suo atteggiamento opposto. Egli dice: «O possediamo una fede religiosa o morale, indipendente dalla storia, che ci permette di emettere giudizi sugli avvenimenti storici, oppure dobbiamo lasciare perdere il giudizio morale. Proprio perché la storia ci insegna quanti codici morali ha avuto l'umanità, non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia». Su quest'ultima affermazione sono d'accordo: non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia. Tuttavia l'atteggiamento di Momigliano è che c'è un'opposizione fra la prospettiva morale, che per lui è astorica, e la storia in quanto tale. Se rifiutiamo questo presunto punto di vista, per così dire, dell'eternità, fuori della storia, bisogna trovare un giudizio morale all'interno della storia, che non si può derivare dalla storia, ma che è comunque all'interno della storia. Qui, però, c'è un problema, perché Carlo rifiuta l'idea che il giudizio morale sia soltanto un giudizio che viene da un rapporto di forza. Se il giudizio morale è immanente alla storia, qual è la base, il fondamento del giudizio morale che non si riduce alla storia, ma che è immanente alla storia? Dove si trova il punto di appoggio per quel difficile tipo di giudizio?
Ginzburg: Mi fa molto piacere che Arnold abbia citato Momigliano, una delle persone che hanno contato di più nella mia formazione. Ora, provo a immaginare di proseguire una delle discussioni che ho avuto con lui. Che cosa direi? Direi che a mio parere la frase citata da Davidson forse non tiene abbastanza conto del punto di vista dell'osservatore. Se ci accostiamo alla varietà di comportamenti morali partendo dall'osservatore, troviamo, paradossalmente, una via che ci può portare verso l'oggettività. In che senso? Dobbiamo distinguere tra il linguaggio dell'attore e il linguaggio dell'osservatore. Tener presente questa distinzione è utile, perché troppo spesso gli storici si comportano come ventriloqui, facendo parlare gli attori con la propria voce. Ma non credo che si debba scegliere tra i due livelli di analisi: entrambi sono necessari. Dobbiamo cercare di ascoltare i valori degli altri, anche quelli che ci appaiono dei disvalori; ma non possiamo non partire dai valori nostri, nei cui confronti un atteggiamento di assoluto distacco è impossibile, perché questo c'impedirebbe di vivere.
L'osservatore è legato a una prospettiva locale: è un uomo o una donna, appartiene a un ambiente sociale, a una comunità linguistica. Ma obiettività e investimento emotivo, politico, morale non sono incompatibili: si tratta di stabilire un rapporto tra loro. L'oggettività può emergere solo da quest'intreccio di domande e risposte.

Repubblica 24.7.08
La vera storia dei templari
Un saggio di simonetta Cerrini mette a confronto diverse fonti
Monaci, guerrieri e un po' maghi
di Susanna Nierenstein


La loro fu una rivoluzione: cavalieri antieroici frati antiascetici tolsero ai chierici il monopolio del sacro. Usarono la lingua volgare per aprire al popolo, non disdegnarono strani riti
La liturgia del giovedì santo: versato sull´altare del vino, poi veniva leccato
Non costruirono una memoria collettiva: e questo permise il nascere della leggenda

Monaci con licenza di uccidere nati tra il 1105 e il 1113, cavalieri armati eppure sottoposti al voto di povertà, castità e obbedienza al papa fin dal 1129, anno del Concilio di Troyes, guardiani della Terrasanta travolta dalle Crociate ma diffusi in tutto l´antico continente (in Italia avevano oltre 150 "case"), tanto pauperisti quanto straordinari accumulatori di ricchezze: sono questo e molto altro i Templari, cancellati dalla storia, ma non dalla leggenda, con il processo farsa per eresia che gli fece intentare il re francese Filippo il Bello e il successivo rogo che il 18 marzo 1314, sull´isola della Senna, davanti ai Giardini Reali, arse l´ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay, insieme a Geoffroy de Charny, precettore di Normandia. Combattenti mistici e potenti entrati in un mito che li ha visti in possesso del Santo Graal piuttosto che di fantastici segreti sull´Arca della Santa Alleanza con le tavole della legge consegnate da Dio a Mosè, o ancora custodi di sapienze su alcune verità riguardanti Gesù e di tesori ancora ricercati, piuttosto che detentori di un potere trasversale in grado di dominare il mondo o al contrario di una trasparenza etica diamantina destinata alle Rivoluzioni di tutti i tempi.
La Militia Salomonica Templi (titolo che deriva dalla Spianata del Tempio di Salomone, dove Baldovino II destinò a Gerusalemme la dimora dei Templari), al di là del templarismo nato e prosperato dal XIV secolo ai giorni nostri, ha però una storia vera. Ed è sulle loro origini reali che Simonetta Cerrini vuole indagare, mettendo sotto il microscopio e comparando i testi fondatori dell´ordine e della regola, nove manoscritti in latino e lingua d´oïl, tra cui uno rintracciato a Praga e studiato per la prima volta. Ne è nato un libro La rivoluzione dei templari. Una storia perduta del XII secolo (Mondadori, pagg. 238, euro 18,50).
Professoressa Cerrini, perché definisce rivoluzionaria l´intuizione di Ugo de Païens da cui nacquero i Templari?
«Perché la società del dodicesimo secolo, era divisa in una classe di oratores (la struttura ecclesiastica che gestiva il potere spirituale), in una di bellatores, laici e combattenti (che in un contesto guerriero come quello medievale erano l´equivalente dell´autorità civile, ovvero imperatori, re, nobiltà) e i laboratores, laici che costituivano il popolo senza diritti né autorità, dunque artigiani, servi, contadini. I Templari distruggono questo quadro».
In che senso?
«Sostengono da laici di essere anche chierici, laici combattenti con un´autonomia sul sacro. Alle origini, la Chiesa cristiana non prevedeva una divisione così forte come quella del XII secolo. Pensi agli imperatori, erano laici con una evidente autorità religiosa: Carlo Magno arrivò a cambiare la formulazione del "Credo". Più in generale la liturgia, le scelte teologiche e pastorali non erano affidate solo alla gerarchia ecclesiastica. Poi invece, con la Riforma gregoriana, i chierici si costituiscono parte a sé e si appropriano dell´intero potere spirituale, escludendone imperatore, re, nobili e scegliendo anche una maggior devozione e purezza, come col celibato, che fino ad allora non c´era. Dall´altra parte, il monopolio della guerra è dei laici, che diventano ben poca cosa rispetto a prima, e sono il mero braccio armato del potere spirituale. Ugo de Païens nella sua lettera manifesto rivoluziona ogni concetto e dice: noi Templari non siamo il braccio armato della Chiesa, siamo i suoi piedi, sorreggiamo il suo intero corpo ("Pes tangit terram, sed totum corpus portat") e ne facciamo parte».
E qual è il significato che lei vede in questa definizione?
«Significa che Ugo seppe uscire dallo stato di inferiorità in cui l´alto clero aveva messo il laico bellator, rivendicando la condizione più bassa, quella dei laboratores, dei poveri, uno stato attraverso cui passeranno anche religiosi come San Francesco d´Assisi e i suoi frati minori, e donne come Giovanna d´Arco».
Sembra palese anche il desiderio di tornare a un passato pregregoriano, senza separazione tra poteri spirituali e laici.
«In parte, ma Ugo non guarda a imperatori e re, quanto alla piccola nobiltà. In un certo senso "proletarizza" la regalità sacra. Ugo rivendica il valore degli umili. E apre anche alle donne. Crea una società intera dove trovavano posto mogli, suore, frati sposati o a termine, una società religiosa più ampia, dove il laico non è totalmente assoggettato al chierico».
Quali sono le circostanze storiche che generano i Templari?
«Dopo l´anno 1000, il mondo riprende a muoversi e vede nascere, come racconta splendidamente Le Goff, quello delle città, delle università, delle grandi cattedrali. Si assiste a un movimento popolare che esce dalla passività delle paure millenaristiche. In questo contesto non vedo le Crociate come guerre di conquista: lo dimostra il fatto che, dopo la vittoria, i combattenti tornano a casa e lasciano così sguarnito il territorio, che perciò ha bisogno di guardie armate: è da questa necessità che prendono vita i Templari».
Era più forte la loro natura religiosa o militare?
«Quella religiosa. Un dato che cambiò anche le regole militari: prima non esistevano eserciti fissi, mentre l´input monastico fece nascere la prima armata permanente. Anche la disciplina rigorosa copiò quella dell´ordine religioso».
Lei sottolinea l´importanza della lingua scelta per molti dei loro documenti, il francese antico, non il latino. Ci vuole spiegare meglio?
«Sì. Scelgono la lingua parlata, non esattamente langue d´oïl, perché ricca di apporti catalani, inglesi, fiamminghi, tedeschi, ungheresi. Una decisione importante perché fino ad allora alla spiritualità era riservato il latino, non esistevano trattati teologici in lingua volgare. Ugo così volle dare un accesso molto più largo a testi sacri importanti».
Chi furono i primi templari, nobili diseredati, religiosi fanatici?
«Né diseredati, né fanatici. Piccola nobiltà, ma nei Templari troviamo anche signori di rango, come nel 1125 il conte di Champagne, un altro Ugo, nei cui territori si svolgerà il Concilio di Troyes che ratificò l´ordine. Ma l´entrata dei grandi aristocratici non cambiava il livello di vita o i poteri della confraternita, che del resto non fu un luogo di upgrading sociale, almeno finché non divenne ricca e potente».
Antieroismo e antiascetismo qualificano i doveri del Templare: questo è quanto le è risultato dalla lettura dei manoscritti. Il contrario dell´immagine di guerriero sacro che ce ne siamo fatti.
«Me ne sono sorpresa anch´io. Ma il gruppo poneva binari attenti all´individuo che entrava: i laici novelli monaci tendevano a rendere eccessiva la tensione spirituale, cercavano l´ascesi, l´eremitaggio, il digiuno... ed ecco che la regola imponeva il riposo, e il mangiare a due a due sullo stesso piatto perché vi fosse un controllo reciproco. In quanto all´antieroismo, era vietata ogni forma di largesse e di vanteria: non a caso non esistono memorie delle loro gesta».
Lei individua una formula per la guarigione dei cavalli leggendo un foglio con la lampada di Wood (raggi ultravioletti). Qui sì che sembra di essere in un film sui Templari: eccoci all´uso di pratiche magico religiose. Fino a che punto si estendeva quest´aspetto inquietante e misterioso?
«Non ho trovato solo quella. Descrivo anche la liturgia del giovedì santo, dove veniva versato del vino sull´altare e poi leccato: si trova negli statuti dei templari, e, come mi ha fatto notare Barbara Frale, era una pratica seguita a Cipro dai cristiani orientali. Oppure potrei citare le reliquie con le teste di santi che possedevano. Il fatto è che in Terra Santa c´era una vita religiosa che altrove sarebbe stata giudicata eretica, abitudini e credo condivisi da religioni diverse, come il pellegrinaggio al convento greco-melchita di Nostra Signora di Saydnaya, vicino a Damasco, fatto da pellegrini cristiani, Templari ed anche musulmani».
Dunque niente eresie?
«Ma no! Il processo voluto da Filippo il Bello fu costruito su un castello di accuse di magia e eresia preparate in realtà per Bonifacio VIII: Clemente V scelse di insabbiarle e sacrificare l´ordine del Tempio».
Perché i Templari sono diventati un mito?
«Resta un mistero: certo, l´eredità ideale del Tempio non era rivendicata da nessuno; dopo la loro scomparsa era libera e i Templari non avevano neppure costruito una memoria collettiva con cui fare i conti. Comunque le recenti scoperte storiche e filologiche ci stanno restituendo dei Templari curiosamente simili ai Templari della leggenda. Templari laici, ma religiosi; Templari colti che desiderano divulgare testi escatologici facendoli tradurre in lingua volgare; Templari che praticano riti magico-religiosi; Templari che frequentano intellettuali; Templari che sono pronti a condividere liturgie e devozioni religiose con i cristiani d´Oriente (lo scisma con la Chiesa latina è del 1054), ma anche con i musulmani. La vera storia dei Templari si sta rivelando interessante come la leggenda».

Repubblica 24.7.08
Esma, la regina zingara "Vi canto la cultura Rom"
Il mio è un popolo sfortunato la cui vita è stata resa migliore proprio dalla musica. Grazie alle canzoni i Rom sono più forti
di Anna Bandettini


«So tutto quello che sta accadendo in Italia al popolo Rom e sono infelice. Per questo ho un messaggio per il vostro governo: per favore, ministri, educate i Rom invece di cacciarli, perché un popolo educato è una ricchezza per un paese. Un popolo educato sarà un popolo di buoni lavoratori e buoni cittadini: lasciate dunque che i Rom si inseriscano nella vostra società. Vedrete che è gente buona e pacifica». Chi parla è una regina. La Regina degli Zingari, come dal ‘76 è conosciuta Esma Redzepova, la più popolare cantante Rom del mondo, una bella rubiconda signora, nata in Macedonia, la cui strepitosa voce cambiò 52 anni fa un destino di povertà e sottomissione. Quindicimila concerti in 83 paesi, 586 brani, dischi di platino e d´oro, Esma oltre a diffondere la musica Rom macedone, ha cresciuto 47 bambini ed è ambasciatrice della cultura Rom nel mondo, impegnata a promuovere l´importanza delle relazioni interetniche. E´ quello che farà domani nella Chiesa di S. Francesco di Cividale del Friuli per l´unico suo concerto italiano, ospite del Mittelfest diretto da Moni Ovadia.
Signora Redzepova come ci si sente a cantare in un paese che considera il suo popolo un problema per la sicurezza?
«Sono infelice, per questo ho fatto l´appello. So che arriverà ai politici e spero che mi ascoltino. Io porto l´esempio della Macedonia, il paese dove sono nata e dove in parlamento siedono ben due Rom. Lì i bambini Rom hanno la scuola della scuola dell´obbligo, come tutti. Ma la scuola impartisce loro anche due ore di lezioni settimanali di lingua Rom per non sradicarli dalla loro cultura. Ci sono due tv in lingua Rom. E un comune, quello di Shuto Orizari dove il 95 per cento della popolazione è Rom, lo è anche il sindaco».
E lei che infanzia ha avuto?
«Sono nata a Skopie in una famiglia Rom povera ma fiera. Eravamo sei figli e mio padre era un lustrascarpe. Aveva perso la gamba destra durante la seconda guerra mondiale e perciò lo aiutavo io ogni giorno per trovare un buon posto nella piazza principale del centro città dove puliva le scarpe».
La musica?
«Mi piaceva cantare, così a 11 anni, il mio professore Stevo Teodosievski che poi sarebbe diventato mio marito, andò da mio padre e gli disse che si sarebbe preso cura di me fino al 18esimo anno per farmi studiare musica. "Diventerai una cantante famosa in tutto il mondo" mi diceva. Così è stato».
Perché ama definirsi zingara?
«Zingara è il vostro modo per definire i Rom e io sono fiera di esserlo. Rom significa popolo. Rom vuol dire uomo, romi donna e Rom è il popolo. Che c´è di più bello? Rappresento sia la cultura macedone che quella Rom. Nel concerto la prima parte è dedicata alla musica macedone, la seconda alla musica Rom».
Dia una definizione della musica Rom?
«E´ musica che viene dall´anima di un popolo che non è stato fortunato. Sono canzoni che parlano d´amore, amore materno, amore tra amanti. La musica ha reso migliore la vita dei Rom. E ne ha fatto un popolo forte».

Agenzia Radicale on line 24.7.08
Un Bertinotti "marziano" presenta le sue "alternative per il socialismo"
di Giuseppe Talarico


Dopo le recenti elezioni politiche, che hanno segnato il trionfo della destra in Italia, la riflessione a sinistra, sulle cause di una sconfitta di proporzioni così ampie e vaste, inizia a maturare e a produrre analisi degne di essere prese in considerazione. La rivista "Alternative Per Il Socialismo", presentata a Roma il 21 luglio al teatro Eliseo, della quale Fausto Bertinotti è direttore, costituisce un valido e necessario strumento di riflessione, per capire quanto avviene politicamente e culturalmente nella società italiana; così come sono importantissime le fondazioni create da altri esponenti politici. Tuttavia, ascoltandolo mentre esponeva le sue argomentazioni, rivolte ad individuare le ragioni della sconfitta sia della sinistra antagonista sia di quella riformista, ho, in alcuni momenti, provato stupore e disagio.
Per Fausto Bertinotti, che, dopo la sconfitta elettorale vuole essere un semplice militante del suo partito, la destra italiana è riuscita a raccogliere un ampio consenso nel Paese, poiché si è posta in sintonia con il processo di modernizzazione, i cui effetti si stanno dispiegando nella società italiana da moltissimo tempo. A causa della modernizzazione neo liberista, è nato in Italia, sempre secondo l'ex presidente della Camera dei Deputati, un individualismo mercantile, destinato a dare forma a stili di vita e a un sentire diffuso tra i cittadini, rispetto ai quali la sinistra è una esigua minoranza. Inoltre, l'esperienza deludente del secondo governo Prodi, ha finito con l'accentuare e determinare la distanza tra la maggioranza dei cittadini e i principali partiti della sinistra italiana. Occorre tenere presente che il capitalismo contemporaneo, con la sua vocazione universale a causa della globalizzazione, rischia di condurre l'umanità sulla soglia dell'autodistruzione, poiché fagocita e distrugge risorse, per tenere in vita un modello di sviluppo che non è più sostenibile. Il capitalismo contemporaneo genera e produce sfruttamento, oppressione, alienazione, danni ambientali, rischi gravissimi per la sorte ed il destino dell'umanità.
Questa, in sintesi, l'analisi di Fausto Bertinotti che, rispondendo alle osservazioni e alle domande delle allieve del professore Massimo Fagioli, noto psicanalista, ha, durante la presentazione della sua rivista al piccolo teatro Eliseo, espresso giudizi lusinghieri verso il movimento delle femministe, ricordandone i meriti storici, ed ha esaltato la funzione politica assolta dal movimento operario nella storia italiana ed europea.
Per Bertinotti, occorre elaborare un pensiero critico, sicché diventi di nuovo credibile una proposta politica tesa a restituire un senso ed un significato culturale ad una prospettiva di trasformazione della società e dell'economia. Soltanto così potrà ritornare ad assumere un valore culturale e politico l'idea di favorire la liberazione umana da ogni forma di oppressione, evitando di subire un ordine costituito, in cui non è possibile riconoscersi, per chiunque creda nella eguaglianza umana.
Secondo Bertinotti, lo stato borghese ha imprigionato il movimento operaio, che, per questa ragione, non è stato sufficientemente rivoluzionario. Occorre recuperare la categoria elaborata da Gramsci, quella dell'egemonia delle forze rivoluzionarie, se si vuole superare la crisi che ha investito la sinistra antagonista italiana.
Ad un certo punto, mentre Bertinotti sviluppava le sue argomentazioni, per la verità esposte con grande eleganza intellettuale e politica, mi sono chiesto se per caso si è dimenticato che il muro di Berlino è caduto il 1989; che la socialdemocrazia e la cultura riformista hanno prodotto lo stato sociale attraverso cui è stato umanizzato il capitalismo internazionale, grazie anche al pensiero di Keynes; che il marxismo ha generato miseria e infelicità, laddove si è tentato di tradurlo nella costruzione di una nuova società.
Sia per Biagio de Giovanni, autore del libro Dopo Il Comunismo, sia per Barbara Spinelli, che nel 2001 ha pubblicato un saggio sui totalitarismi intitolato il Sonno della Memoria, nella storia del novecento ci sono state due liberazioni: la prima, nel 1945, con la sconfitta del nazi-fascismo, la seconda, con la capitolazione del comunismo nell'Europa orientale, nel 1989.
Bertinotti, come molti altri intellettuali italiani, continua demagogicamente a ignorare quelle che, con linguaggio colto, vengono chiamate le repliche della storia. Certamente, visti i tanti incidenti mortali che si verificano nel mondo del lavoro, occorre rinnovare ogni sforzo per migliorare le condizioni di sicurezza nei luoghi dove gli operari, lavorando duramente, producono ricchezza; così come è giusto pretendere un nuovo stato sociale, per combattere l'esclusione e la precarietà. Ma è ammissibile, culturalmente prima che politicamente, il riferimento a pensatori come Marx e Gramsci, nell'èra della globalizzazione, mentre si affacciano all'orizzonte le nuove potenze asiatiche come l'India e la Cina?
A Bertinotti, che fa buone letture, cita Bauman e Durkheimer, sfugge la circostanza che l'epoca delle grandi narrazioni ideologiche appartiene al passato e che la stessa storia del comunismo, tragica e grandiosa al tempo stesso, deve essere consegnata alla storia del novecento, oramai definitivamente conclusa ed esaurita.
Nella sua analisi non ho notato il minimo accenno alle ragioni del declino italiano, che tanto preoccupa gli italiani, né al modo con cui restituire vitalità al nostro Paese, la cui linfa vitale pare essersi fortemente indebolita. Come Marco Pannella sostiene da anni, la vera rivoluzione, di cui il paese ha bisogno, è rappresentata da riforme efficaci, con cui rendere moderna l'Italia, non di progetti politici astratti, i quali si nutrono di visionarie narrazioni ideologiche distanti dall'epoca in cui viviamo.
A Bertinotti, in ogni caso, bisogna riconoscere il merito di provenire dal movimento operaio, con il quale ha condiviso lotte e momenti fondamentali della storia italiana, dal quale non riceve più, forse perché le sue analisi suonano oramai superate dalla cultura contemporanea, l'attenzione di un tempo.
Nel suo ultimo intervento al teatro Eliseo, l'ex presidente della Camera ha dichiarato, destando sentimenti di stupore nel mio animo, che gli intellettuali italiani non si sono mai occupati seriamente dello sfruttamento degli operai, poiché sono stati influenzati dal pensiero di Benedetto Croce e dalla corrente filosofica dell'idealismo. Dinanzi a questa perentoria affermazione, mi chiedo sconcertato: un uomo colto ed un fine intellettuale come Bertinotti, come mai ignora la figura di Pier Paolo Pasolini?
Riformisti di tutta Italia, laici, socialisti e liberali, unitevi per salvare il Paese dal baratro dove sta per precipitare!

Il Messaggero 24.7.08
Prc va a congresso, Vendola favorito
Ma la linea della costituente di sinistra è congelata. Risultato incertissimo
di cla.sa.


ROMA - Nicki Vendola è in vantaggio. Sarà costretto a congelare, almeno per un anno, la «costituente di sinistra» - che è il cuore della sua mozione - ma resta il favorito nella corsa alla segreteria di Rifondazione comunista. Ha due opzioni vincenti: affrontare lo scontro con il 47,3% della sua mozione e tentare di strappare, nel comitato politico di domenica, i pochi voti (o anche solo le astensioni) mancanti per l’elezione; oppure concordare con gli oppositori interni un compromesso fino alle europee 2009 e, pur nell’ambito di una gestione unitaria, far valere la maggioranza relativa.
Quello che inizia oggi a Chianciano è comunque un congresso dall’esito incertissimo. Tanto che nessuno si sente di escludere del tutto l’ipotesi opposta: un successo di Paolo Ferrero, qualora riuscisse a riunire le quattro mozioni anti-Vendola attorno ad un documento politico, o una terza soluzione. E, se allo stato appare meno probabile di qualche giorno fa lo scenario di una scissione, lo si deve solo all’estremo equilibrio del congresso. Dove la mozione Ferrero-Grassi ha raggiunto quota 40,2% e le altre tre mozioni si sono divise il restante (ma decisivo) 12,5%. In questo contesto nessuno intende mollare la presa sul Prc. Anche perché il congresso di Chianciano avrà inesorabilmente un carattere transitorio. E la partita di ritorno si giocherà dopo le europee.
La tesi di Vendola è rilanciare, in forme nuove, il progetto di una forza unitaria della sinistra. A Vendola guardano con speranza la Sinistra democratica e i Verdi. Anche il Pd, innanzitutto Massimo D’Alema, ha lanciato segnali di interesse. Il 50,1% però non è stato raggiunto. E le mozioni antagoniste hanno il loro comune denominatore proprio nel rifiuto della «costituente della sinistra». Vendola ha cercato la sponda di Claudio Grassi, che è il leader degli ex-cossuttiani rimasti nel Prc e che controlla un terzo dei delegati della mozione Ferrero. La sua componente non condivide le idee movimentiste, nettamente prevalenti tra gli avversari di Vendola. Vuole un partito strutturato. Vendola è pronto ad un’alleanza fondata sull’impegno a presentare Rifondazione alle europee con il proprio simbolo. A Grassi potrebbe anche bastare: Pdci, Verdi e Sd sarebbero costretti a scegliere tra una improbabile (per la soglia di sbarramento) corsa solitaria e una confluenza (nel Pd o nel Prc).
Alla griglia di partenza del congresso, comunque, le mozioni si presentano formalmente compatte. La linea ufficiale di Ferrero e Grassi è quella di tentare una composizione delle quattro mozioni sul no alla costituente, il no alla segreteria Vendola, il no ad un nuovo centrosinistra con il Pd, l’impegno ad una opposizione «sociale» al governo. Il problema è cosa succederà quando, prevedilmente, fallirà l’intesa a quattro. Qualcuno si domanda anche cosa succederà a Chianciano quando, sabato mattina, Fausto Bertinotti parlerà da semplice delegato: per la metà anti-Vendola del congresso è l’artefice primo della sconfitta elettorale e che potrebbe riservargli anche l’onta dei fischi.

Corriere del Mezzogiorno 24.7.08
Oggi il via al congresso nazionale di Chianciano
La volata di Nichi per Rifondazione
di Rosanna Lampugnani


ROMA — Oggi pomeriggio si aprirà a Chianciano il congresso di Rifondazione comunista: un appuntamento cruciale per il governatore pugliese che ha messo in gioco il proprio destino candidandosi alla guida di un partito «espulso» dal Parlamento italiano nello scorso aprile e che ambisce ad essere perno del rilancio della sinistra. Questa, in sostanza, la linea che Nichi Vendola illustrerà ai congressisti, i quali domenica eleggeranno il comitato politico nazionale che, a sua volta, eleggerà la direzione, il segretario e il tesoriere. Vendola, come è noto, pensa ad un partito di lotta e di governo come si sarebbe detto una volta - ma esclude che alleanze possano essere intrecciate con «questo Pd». Il suo antagonista è l'ex ministro Paolo Ferrero, «duro e puro» - per usare un'altra espressione d'antan - impegnato soprattutto a non far scomparire il Prc, anche se in un soggetto più vasto. Vendola nella città termale porta il successo ottenuto nei congressi pugliesi (quelli provinciali e di sezione; il regionale si farà entro il 28 ottobre), dove ha conquistato il 68% dei consensi, mentre Ferrero si è dovuto accontentare del 29% e le altre correnti minori del 3%. Vendola ha vinto soprattutto in provincia di Foggia e Brindisi (85%), mentre Ferrero ha raggiunto il 52% nella federazione di Taranto ed ha prevalso di 20 voti in quella della Bat.
A Chianciano i delegati pugliesi saranno 42: 11 di Foggia, 9 di Bari, 8 di Brindisi, 6 di Lecce, 5 di Taranto, 3 della Bat, tutti determinanti, ovviamente, per la vittoria di Vendola o di Ferrero. Al momento è il pugliese in vantaggio, con il 47,3% dei voti, sette punti in più del diretto antagonista. C'è chi dice che avrebbe la vittoria in tasca, anche se con un margine ristretto, perchè avrebbe raccolto, intorno al proprio nome, il consenso di alcuni dei tre gruppi minori. «In questo momento l'interlocuzione è a 360˚», spiega chi segue passo passo le mosse di Vendola per conquistare la leadership del Prc. Nel caso in cui dovesse vincere, i riflessi politici in Puglia sarebbero profondi. In attesa di conoscere i nuovi meccanismi elettorali per le europee (il ministro Roberto Calderoli ha annunciato che le linee guida saranno pronte prima delle vacanze estive) si può ipotizzare che Vendola-segretario resterà alla guida della Regione e che si candiderà alle europee, per confermare il ruolo di leader di partito. Eletto avrà 3 mesi per optare tra Regione e Bruxelles, cioè entro settembre. Nel caso di dimissioni dalla presidenza della Puglia il suo vice Sandro Frisullo reggerebbe le sorti della Regione, in attesa del voto, la cui data è sempre fissata dal governo. Si ricandiderà Vendola? «Escluso: non potrà mai fare contemporaneamente il segretario nazionale di Rifondazione e il governatore. Nessuno lo voterebbe per un incarico a mezzadria», spiegano nei palazzi romani. I giochi, quindi, sono tutti aperti.

mercoledì 23 luglio 2008

Liberazione 23.7.08
Se chiudono il manifesto e Liberazione...
di Piero Sansonetti



La manovra economica che è stata votata in blocco - senza emendamenti - lunedì sera alla Camera, e che ora andrà al Senato, conteneva una norma che taglia - e praticamente azzera - i finanziamenti ai giornali politici. Questa norma può essere corretta dal Senato, oppure lasciata così com'è. Se sarà lasciata così com'è provocherà la chiusura - nel giro di un paio di mesi al massimo, ma forse anche prima - di alcune decine di testate giornalistiche, tra le quali il manifesto , L'Unità , Liberazione , il Secolo , la Padania , Europa , Avvenire . Alcuni di questi giornali sono sostenuti da gruppi editoriali privati potenti e ricchi, altri da partiti robusti e in grado di finanziare, altri ancora per vivere contano soltanto sulle proprie forze, sulle vendite, sul finanziamento pubblico. Se si chiude il rubinetto del finanziamento pubblico e si stabilisce che è giusto che il diritto ad informare sia riservato a chi possiede i capitali necessari, almeno due di questi giornali, e cioè il manifesto e Liberazione , dovranno dichiarare fallimento e sparire dalla circolazione. Con la conseguenza che l'Italia - unico paese in Europa a non disporre di una rappresentanza parlamentare della sinistra tradizionale (socialista, o comunista, o ambientalista) si troverà anche senza giornali di sinistra. E paradossalmente questa scomparsa dei giornali di sinistra - che dal 1945 sono presenti senza interruzione, e per molti anni anche in gran numero, nelle edicole - sarebbe la conseguenza diretta di una legge dello Stato. Cioè potremmo dire, senza alcuna forzatura, che la stampa di sinistra, la stampa di opposizione, è stata chiusa per legge.
Questa legge non prevede tagli indiscriminati all'editoria, ma tagli miratissimi: si annulla il finanziamento ai giornali di partito e si mantiene intatto il finanziamento ai grandi giornali. Per capirci bene, qualche cifra: il manifesto e Liberazione , attualmente, ricevono dallo Stato un finanziamento che complessivamente arriva a circa 7 milioni all'anno (tra tutti e due, naturalmente). Il Corriere della Sera - che è un giornale largamente in attivo, e che dispone di sconfinate risorse pubblicitarie - riceve ogni anno circa 13 milioni di Euro. Il Sole 24 ore , quotidiano di Confindustria - che distribuisce svariati milioni di utili ai suoi azionisti - riceve 17 milioni di finanziamento. Tutti questi finanziamenti alla grande impresa non vengono tagliati. 
I fatti sono questi. Se non ci saranno correzioni, la nostra condanna a morte è segnata. Non so se poi si potrà dire con leggerezza che l'Italia comunque resta un paese libero, che in ogni caso qui la democrazia è padrona. E siccome noi siamo convinti che l'Italia sia davvero un paese libero, siamo anche convinti che il Senato cambierà la legge approvata alla Camera.