venerdì 25 luglio 2008

Repubblica 25.7.08
L’ex leader alle assise sceglie un posto defilato, mentre il partito sembra cercare un futuro anche rinnegando il suo capo carismatico
Bertinotti, da profeta a delegato semplice "È giusto che io mi sieda là, in settima fila"
Per ora mantiene il riserbo. "Quello che ho da dire lo dirò quando salirò sul palco"
Un momento che pensava diverso per un partito che cerca di salvarsi dall’estinzione
di Sebastiano Messina


CHIANCIANO - L´uomo che aveva portato Rifondazione a conquistare la poltrona più alta di Montecitorio, e che da un giorno all´altro si è ritrovato a essere l´ex leader di un partito extraparlamentare, siede oggi in settima fila, con il passi da delegato semplice che gli pende sulla cravatta a strisce colorate («Sembra un arcobaleno», mormora un delegato con irriverente perfidia). Fausto Bertinotti sa bene che in questo partito che per dodici anni lo ha acclamato, osannato e perfino venerato oggi sono in tanti ad avercela con lui. Non gli perdonano la più amara delle sconfitte, quella che ha portato Rifondazione dal sogno del sorpasso a sinistra all´incubo dell´espulsione dal Parlamento.
Ognuno gli addebita una colpa diversa, si capisce. Non doveva entrare nel governo. Doveva chiedere più ministeri. Doveva mollare subito Prodi. Doveva restare alla guida del partito. Non doveva farsi eleggere alla presidenza della Camera. Non doveva dare l´idea che Rifondazione stesse per sciogliersi.
Ha sbagliato qui, ha sbagliato là. Come un figlio diciottenne che ha bisogno di uscire dall´ombra del padre, rinnegando quell´autorità che nella fragilità dell´adolescenza gli aveva fatto da scudo, da guscio e da faro, così oggi il diciassettenne partito che fu bertinottiano oggi cerca il suo futuro rinnegando almeno un po´ l´uomo che ne è stato il capo carismatico, il profeta mediatico, il simbolo vivente più che il segretario. Lui lo sa, conosce i suoi figli e li lascia fare. Per questo si siede in settima fila, lontano dalle poltroncine riservate ai Vendola, ai Ferrero, ai Giordano e agli ospiti più importanti. «Siediti qui, Fausto!» gli dice Vendola abbracciandolo. Ma lui ha già deciso: «No, non è giusto che io mi sieda là».
E dunque, col suo cartellino blu da delegato semplice, resta nella sua settima fila, vicino all´ex capogruppo Gennaro Migliore, il quarantenne napoletano che - non è un mistero - lui avrebbe voluto come suo successore. Ma le cose sono andate come sono andate, e oggi tutti e due tifano per il cinquantenne Vendola, il governatore pugliese dall´eloquio seducente che riesce a infilare nel suo discorso al congresso il bisogno di interrogarsi, da comunisti, «sui nostri corpi sessuati e sulla grammatica degli amori». I giornalisti lo avvistano, ma lui li stoppa subito: «Non sono io a dover declinare le attese, faccio il semplice delegato».
Sì, d´accordo, ma Rifondazione. «Quello che ho da dire lo dirò quando interverrò dal palco», ribatte con un sorriso che non ammette repliche. Se ne riparla domani, dunque.
Naturalmente, anche stavolta è il più elegante di tutti, con il suo abito di cotone beige, la camicia avorio, i mocassini sfoderati e gli occhiali tartarugati appoggiati sulla fronte. Tra l´indice e il pollice della mano sinistra tiene un sigaro spento, perfettamente tranciato a metà, che ogni tanto appoggia alla bocca per sentirne almeno l´aroma. Si alza per baciare Chiara Ingrao (interprete d´eccezione per gli ospiti stranieri), domandandole sottovoce: «Come sta papà?». Si risiede per ascoltare Vendola, ma c´è un gran viavai davanti alla settima fila. Lui stringe mani, sorride, bacia, ascolta e ogni tanto aspira il suo sigaro spento.
Ma anche il cameraman, dopo averlo inquadrato, vuole stringergli la mano. Certo, caro, grazie, auguri.
Se l´era immaginato in modo assai diverso, questo momento. Avrebbe voluto tracciare la rotta di una grande forza di sinistra, e invece si trova tra chi cerca una via di scampo all´estinzione del comunismo, dopo che la sinistra è passata - come ricorda qualcuno dal palco, senza pietà - dai tre milioni e mezzo di voti del 2006 al milione scarso del 2008, in un partito che si è fatto risucchiare nel gorgo dei vecchi vizi democristiani, quello della lotta per il potere fatta di congressi taroccati e di tessere annullate.
Non batte ciglio, Bertinotti, quando Vendola dà la colpa della sconfitta alle «intemperanze improduttive della sinistra radicale», ma inarca un sopracciglio quando Maurizio Acerbo - primo firmatario della mozione Ferrero, quella dei suoi avversari - scandisce che «oggi non servono più le televendite». Ce l´aveva con lui, che predicava il comunismo a «Porta a porta»? Forse sì e forse no. E´ lo stesso Acerbo a togliere il dubbio, un minuto dopo, rompendo il tabù degli umori antibertinottiani. «Ho letto cose assurde, che una parte dei nostri compagni avrebbero fischiato Fausto Bertinotti qui al congresso... Ebbene, io sono entrato in questo partito perché ho creduto nel progetto di Bertinotti e se oggi mi ritrovo in un´altra mozione è la dimostrazione che, forse, questo partito ha fatto un po´ di strada». Non la penso più come te, insomma, ma ti sarò sempre grato per quello che hai fatto. Bertinotti si mette il sigaro fra i denti, sorridendo, e gli batte le mani. Non avrebbe potuto ricevere un complimento migliore, dal portavoce dei suoi figli più disubbidienti.

l’Unità 25.7.08
Abbracci e fischi prima del duello
A Chianciano il congresso dei separati in casa


Un abbraccio tra i «duellanti» Vendola e Ferrero, e una selva di fischi per il messaggio del presidente della Camera Fini. Il Congresso di Rifondazione comunista entra nel vivo con la presentazione delle 5 mozioni. Secondo Vendola «bisogna costruire una vasta mobilitazione permanente, plurale, civile e sociale alle destre». Ferrero ribadisce che «Rifondazione deve costruire un’opposizione di sinistra come fece tra il 2001 e il 2006».
Le tante mani che battono al ritmo di «Bella Ciao» versione Modena City Ramblers e i fischi all’indirizzo di Fini e Schifani (molti più per Fini). Oltre a una scarsissima dose di nostalgia per il governo Prodi, nonostante oggi Rifondazione stia decisamente peggio di sei mesi fa. Questi i tre punti chiave che uniscono la platea double face del congresso di Chianciano, che per il resto si divide in modo quasi militare: parla Vendola e applaudono i suoi, parla Maurizio Acerbo, primo firmatario della mozione di Paolo Ferrero e applaudono esclusivamente i suoi. Non ci sono applausi «bipartisan» in questa pancia di Rifondazione divisa quasi a metà, separati in casa si potrebbe dire. Ma la notizia è che non volano gli stracci, e neppure i fischi reciproci. Unica piccola eccezione, quando sul maxischermo appare la foto di Bertinotti con il comandante partigiano Giovanni Pesce: cinque o sei fischi sparuti, subito cancellati dagli applausi e dalla musica di De Gregori. Per il resto, nessuna sorpresa: quando parla il principale esponente della mozione avversa, gli altri tacciono rigorosamente. E ascoltano. Anche sul banco della presidenza, dove siedono rappresentanti della varie mozioni scelti col Cencelli, va in onda la stessa scena: ognuno applaude il suo. Si fa notare solo un’anziana signora vendoliana vestita di rosso, che alla fine del discorso di Acerbo si agita sulla sedia e grida: «Adesso basta, la devi finire, tempo scaduto!».
Ma alla fine la prima giornata di un congresso che molti delegati giudicano «duro, anche un po’ violento», fila via piuttosto liscia. I rancori non sono superati, ma piuttosto metabolizzati: sono lì, ma non scatenano le reazioni di pancia. Con chi stanno i delegati lo capisci alle prime parole: «partito sociale», versus «processo costituente», Ferrero contro Vendola, i seguaci parlano a memoria. Ma complice anche l’abbraccio pubblico tra i due big, si fa strada qualche velato ottimismo sulla tenuta di quella che tutti chiamano la «comunità», cioè il partito. «Mi sa che staremo tutti insieme ancora un po’ di tempo», si lascia andare Gaetano Cataldo, 27 anni, delegato di Bari e vendoliano. «In fondo in Rifondazione ci sono state sempre idee molto diverse, tanti che come me non sono mai stati comunisti, eppure siamo arrivati fino qua. Ci tiene insieme l’idea di cambiare il mondo, o almeno di rifondare un pensiero critico». Stefano Galvani, cinquantenne romano, mozione Ferrero, è d’accordo: «Sono ancora di più i punti che ci uniscono da quelli che ci dividono». Per esempio? «Ci unisce l’idea di non rassegnarci al neoliberismo, che anche in forme temperate produce solitudine e sfruttamento». «C’è un clima più disteso rispetto a prima di arrivare a Chianciano», rincara un altro ragazzo. Quasi tutti ammettono che Rifondazione, in questi mesi di congresso, si è un po’ isolata dalla realtà, «chiusa sul proprio ombelico», come spiega il veneziano Sebastiano Borisio. «Mentre i campi rom andavano a fuoco noi stavamo chiusi a litigare tra noi, a cercare un colpevole della sconfitta», si sfoga Antonio Delli Fiori, 30enne di Brindisi. Eppure molti non ne fanno un dramma. «Quando una famiglia subisce una ferita, un lutto così grande è normale che si chiuda un po’ in se stessa», spiega Daniele Licheri, giovane delegato vendoliano di Pescara. E aggiunge: «Meglio un congresso duro come il nostro delle primarie plebiscitarie del Pd». «Lontani dalla gente? È successo molto prima del congresso, purtroppo», dice Tonia Guerra, 40enne ferreriana, che sulla questione morale non fa sconti a Vendola: «Ci dice che siamo giustizialisti? Figuriamoci, ma garantista è chi vuole una giustizia uguale per il premier e per i bimbi rom; per questo siamo andati a piazza Navona. Se pensare che chi ha il potere deve dare il buon esempio e non farsi leggi ad personam è giustizialismo, vuol dire che le parole non hanno più senso».
Un altro punto chiave è l’allergia al leaderismo, che contagia anche i vendoliani, in fondo quelli che un leader carismatico ce l’avrebbero pure. Nemmeno loro si sbilanciano sull’elezione di Nichi a segretario. Dice Sonia Pellizzari, 30enne: «Io vorrei che fosse eletto, ma come controfigura di un’idea, una sinistra al passo con il ventunesimo secolo. Il leader è un concetto che lasciamo volentieri al Pd», rincara un altro ragazzo. C’è aria di tregua, o almeno di pace armata tra i delegati. Alberto Gentilini di Udine la spiega così: «La ragione è che siamo tutti in attesa, è un congresso aperto e non ci sono certezze».

l’Unità 25.7.08
Vendola cerca l’accordo. E potrebbe trovarlo
Evita di pronunciare l’aborrita parola «costituente». Grassi apprezza, Ferrero attacca
di Simone Collini


Il governatore della Puglia è netto: non voglio sciogliere il partito. Poi avverte: non si ceda a giustizialismo e antipolitica

«IO NON HO IL PROBLEMA di fare il segretario. Ho il problema di evitare che Rifondazione comunista finisca in uno spicchio di minoritarismo, a rimorchio di culture che non sono di sinistra, come il giustizialismo e l’antipolitica». Nichi Vendola si sfoga dietro il Palamontepaschi, dopo che è già intervenuto dal palco e che dopo di lui ha parlato Maurizio Acerbo per la mozione Ferrero-Grassi. Il congresso del Prc si è aperto ma la «matassa», per usare le parole del governatore della Puglia, è ancora «ingarbugliata». A Chianciano i 650 delegati sono arrivati senza sapere quale strada imboccherà il loro partito, e se a guidarli sarà Vendola o un segretario su cui riusciranno a convergere tutte e quattro le altre mozioni. Solo domenica pomeriggio si capirà come andrà a finire. Mai come in questo caso gli interventi dal palco saranno soltanto preparativi per il gioco vero, prima nella commissione politica e poi si nel Comitato nazionale - al quale spetta la scelta del segretario - che si insedia subito dopo la fine del congresso.
Ecco perché Vendola, che nei congressi di circolo ha incassato il 47,3%, dal palco lancia alcuni chiari messaggi. Il primo, non pronunciando mai l’espressione «costituente di sinistra». Il secondo, dicendo con enfasi: «Non voglio sciogliere il mio partito». Il terzo, criticando il Pd per la «velleità di autosufficienza». Messaggi a Claudio Grassi e ai suoi delegati. La componente Essere comunisti è infatti sì contro la costituente di sinistra e un rapporto di subalternità rispetto al Pd, ma al contrario della componente che fa capo a Paolo Ferrero non è attratta dal modello di partito sociale a cui aspira l’ex ministro. Col quale Vendola ha scambiato un abbraccio all’inizio dei lavori - sotto lo sguardo di Fausto Bertinotti, seduto in settima fila - ma col quale non pensa di poter stringere un accordo. «Bisogna tornare nella società, non fuggendo dalla politica - ha detto il governatore pugliese - anzi criticando in radice qualunque sciagurata ipotesi di autonomia del social». E criticando anche, dopo che Acerbo aveva rivendicato la partecipazione alla manifestazione di piazza Navona, la tentazione di cedere alle sirene del giustizialismo («opposto del comunismo») e dell’antipolitica («getta semi di frutti che vengono poi raccolti dalla destra»).
Il messaggio è arrivato a destinazione. Grassi ha commentato positivamente le parole di Vendola sull’opposizione al governo e ha chiesto più chiarezza sul rilancio del partito e sulla presentazione alle europee con il simbolo del Prc. Non è un’apertura esplicita - e non a caso il coordinatore di Essere comunisti ha deciso di intervenire solo domani pomeriggio - ma non è neanche la chiusura di Ferrero, che non ha risparmiato dure critiche a Vendola: per il linguaggio del governatore pugliese («non servono giochi verbali che nessuno capisce») e per un passaggio sulla sconfitta del governo Prodi addebitata anche alle «intemperanze improduttive della sinistra radicale»: Ferrero si è sentito chiamato in causa e ha lamentato il fatto che «per la prima volta assistiamo a un attacco da destra dentro Rifondazione».
Parole che non impensieriscono Vendola. Tra i sostenitori della sua mozione si fanno i calcoli sul voto dei 250 membri del Comitato politico. Basterebbe che gli esponenti della mozione Pegolo-Giannini (favorevoli alla costituente dei comunisti proposta dal Pdci) si astengano per far scendere il quorum a 230, e la mozione Vendola 116 membri in quell’organismo li ha. Ma sono calcoli che potrebbero essere superflui, perché nell’area Essere comunisti si fa strada l’idea che sia sbagliato mettere veti sul segretario. Per non parlare del fatto che ieri sera i delegati vicini a Ferrero e quelli vicini a Grassi si sono incontrati in due riunioni separate. La frenata sulla costituente di Vendola sembra insomma aver funzionato. E se Claudio Fava (Sd) lamenta l’«arretramento netto», non è detto che una volta segretario Vendola non insista sulla necessità di «rifondare una grande sinistra di popolo». Che vuol dire? Il governatore pugliese (nelle parole del quale Goffredo Bettini vede «spunti di innovazione e ricerca») la mette giù così, dietro il Palamontepaschi: «Una disseminazione di cantieri, un programma, un sogno. Non mi interessano le formule, mi interessa il concetto».

l’Unità 25.7.08
Quanto pesano le cinque mozioni


Al via il settimo congresso nazionale del Prc, a Chianciano terme.
I lavori, trasmessi in diretta su Nessuno tv, si sono aperti con la lettura dei risultati dei congressi territoriali. Dopo l'approvazione formale della regolarità del percorso congressuale, è stata data lettura dei risultati ufficiali.
Sono 650 i delegati.
Mozione 1 candidato segretario è Paolo Ferrero, ex ministro del governo Prodi: 262 delegati pari a 17.542 voti (40,28%).
Mozione 2 il candidato è Nichi Vendola, presidente della regione Puglia, 307 delegati pari a 20.598 voti (47,3%).
Mozione 3 presentata da Pegolo e Giannini, 50 delegati.
Mozione 4 presentata da Claudio Bellotti, 21 delegati.
Mozione 5 di Walter De Cesaris, 10 delegati.

Corriere della Sera 25.7.08
A congresso Ferrero rinuncia alla sfida e sceglie una linea «dipietrista». Pochi applausi e qualche fischio a Bertinotti
Vendola unico candidato leader. Ma il Prc resta spaccato


CHIANCIANO — Strano congresso, quello di Rifondazione comunista. Il candidato alla segreteria è uno solo, Nichi Vendola, giacché il suo concorrente, l'ex ministro Paolo Ferrero, non si è candidato. E il vincitore, salvo sorprese al momento imprevedibili, è sempre lui, il governatore della Puglia, nonostante non abbia la maggioranza assoluta, perché Ferrero ha perso un pezzo per strada, quel Claudio Grassi (ex cossuttiano)che a sera dice che non deve esserci «un veto» su Vendola.
Non è uno scontro di leadership, questo congresso che certifica il declino di quella di Bertinotti, a cui viene riservato un tiepido applauso condito con qualche fischio. Quel che è interessante è la mutazione genetica del Prc. Diviso tra chi (Ferrero e i suoi sostenitori) si affida al dipietrismo e non offre nessuna sponda al Pd, e chi (Vendola e gli altri dirigenti di quella componente) dice no al giustizialismo, non chiude la porta al Partito Democratico e vuole dimostrare che la sinistra, questa volta, è in grado di governare. Questa Rifondazione spaccata quasi a metà non si unisce neanche sui fischi a Fini, che invia un messaggio. In compenso l'applauso a Togliatti, che appare in un video, è più bipartisan.
Dunque Ferrero sceglie Di Pietro: «Esiste o no una questione morale?». E l'ex deputato Maurizio Acerbo che illustra la sua mozione è ancora più esplicito: «Abbiamo fatto bene ad andare a piazza Navona». Sul Pd, poi, c'è un muro di sbarramento. Non va bene in nessuna versione, neanche nella «variante D'Alema», dice Ferrero. Di più, Acerbo dal palco si rivolge a Bettini, che siede in prima fila, per chiedere conto a lui e al Partito Democratico di Ottaviano Del Turco. Nei dintorni dell'altra metà di Rifondazione il clima è ben diverso. Gennaro Migliore storce il naso di fronte al dipietrismo e dice: «Io sono garantista ». Vendola è netto: «Per me il no al giustizialismo è una pregiudiziale. La questione morale? Berlinguer e Togliatti non c'entrano un cavolo. Il giustizialismo è l'opposto del comunismo». E dal palco spiega che è per la questione sociale che bisogna «scendere in piazza: non c'è bisogno di volgarità ma di politica».
Anche sul rapporto con il Pd la differenza è marcata: per Vendola «la contesa deve essere senza scontri né anatemi». La linea non è quella di Acerbo che chiede di «battere questo Partito Democratico». Anche perché, ironizza Vendola, «che dovremmo fare, uscire dalla giunta in Emilia Romagna? ». Piuttosto bisognerebbe riflettere su «certe intemperanze improduttive della sinistra radicale» della scorsa stagione del governo prodiano. Non è un caso se Bettini non nasconde le sue preferenze: «Meglio Vendola». E allora sarà pur vero, come dice Bertinotti, che «quel che importa è che vinca Nichi, perché poi la linea politica si aggiusta e si modifica ». Ma è anche vero che ieri, a Chianciano, c'erano due Prc.
M.T.M.

Repubblica 25.7.08
Rifondazione, al congresso è subito scontro
Vendola in pole position per la leadership. La mozione Ferrero si spacca
Scintille tra i due antagonisti anche su Di Pietro. La platea fischia Fini e Schifani
di Umberto Rosso


CHIANCIANO - Vendola apre. Ferrero alza il tiro. E Nichi si arrabbia, «non sono disposto ai pasticci». Però nel tormentato gioco dell´oca del Prc qualcosa si muove. Perché se nella prima giornata di congresso fra i due carissimi nemici è sempre muro contro muro, la mozione dell´ex ministro rischia di perdere il pezzo guidato da Claudio Grassi, che annuncia «non si possono mettere veti su Vendola segretario». Finisce così che in nottata i delegati di Ferrero e quelli di Grassi si riuniscono separatamente. Esultano le truppe bertinottiane, dopo la spaccatura nel fronte avversario, «Nichi è ad un passo dalla conquista della leadership». Salta anche la conferenza stampa che Ferrero puntava a convocare per rispondere a Vendola che in sostanza al partito propone: proverò a fare il segretario di tutti, con un accordo di programma di un anno, e poi liberi tutti. Non cita più la costituente della sinistra, bestia nera dei suoi avversari interni, con disappunto però di Claudio Fava, leader di Sd. Grassi dà lo stop alla conferenza stampa, «ma siamo matti, una controrelazione fuori dal palco non mi sta bene».
Dunque, baci e abbracci a beneficio delle telecamere ma, dietro le quinte, è gelo vero fra il governatore e l´ex ministro. Che si arrabbia quando il presidente della Puglia scomunica il liberismo del Pd ma anche le «intemperanze improduttive della sinistra radicale». Ferrero ci vede un siluro al suo ruolo nel governo Prodi, e quando il candidato segretario finisce di parlare sibila un velenoso «è la prima volta che qualcuno di Rifondazione mi attacca da destra per come ho fatto il ministro». E la polemica tracima e si allarga a Di Pietro, piazza Navona e il giustizialismo. «Guarda tu - mastica amaro Vendola - se ci dobbiamo ridurre a finire a rimorchio di Tonino. Ma che c´entra lui con il comunismo? Uno che vuol prendere le impronte ai bimbi rom». L´accusa a Ferrero insomma è di voler viaggiare al seguito dell´ondata antipolitica dell´ex pm. Quegli altri però rivendicano. Lo fa Maurizio Acerbo, portavoce della mozione I, «ebbene sì, a piazza Navona ci siamo andati e abbiamo fatto bene», e poi prende di mira Goffredo Bettini che in prima fila ascolta, unico politico non Cosa rossa venuto al congresso. «Al coordinatore del Pd chiediamo: dopo l´arresto di Del Turco, esiste anche per voi una questione morale?». Franco Giordano, segretario dimissionario, è deluso, «schemi vecchi, con cadute di stile». Bettini nasconde l´imbarazzo dietro un sorriso, poi spiegherà «le distanze politiche col Prc restano grandi, però stiamo a vedere». Ma ci pensa Ferrero a rilanciare il feeling con Di Pietro, «una questione morale in questo paese esiste o no, ce lo dica Vendola», con una successiva stoccata a quella che, secondo l´ex ministro, sarebbe la strada immaginata dai bertinottiani: un rapporto con il Pd de-veltronizzato. «Una variabile D´Alema nel Pd non esiste - sostiene Ferrero - sul terreno sociale la sua linea è la stessa di Veltroni, subalterna agli interessi dei padroni».
I 650 delegati fanno il tifo e si dividono. Si ritrovano uniti nei fischi a Fini e Schifani che hanno spedito messaggi di buon lavoro ai congressisti, anche perché i saluti arrivano dopo l´omaggio alla memoria del comandante partigiano Giovanni Pesce, che nel video sfila accanto a Palmiro Togliatti. E qui, invece, sono grandi applausi. Bipartisan.

il Riformista 25.7.08
Rifondazione al via le assise
Bella ciao e falce e martello al congresso
la nuova sinistra di Vendola è rosso antico
di Alessandro De Angelis


Chianciano. Parte Bella ciao , mentre il maxischermo proietta le immagini che ricordano Giovanni Pesce, comandante partigiano e gappista durante la guerra di Spagna. Un applauso - quasi liberatorio - rompe il caos calmo che ha segnato la prima giornata del congresso di Rifondazione iniziato ieri a Chianciano. Tutti in piedi, poi, quando compare un'altra figura storica della Resistenza, Enrico Boldrini, il mitico comandante Bulow. Il gran finale sono i fischi al messaggio di saluto mandato dal presidente della Camera Fini. Qualcuno urla: «Ora e sempre resistenza». Bertinotti, seduto tra i delegati, è di ghiaccio. 
Rifondazione è allo sbando. Si potrebbe dire: abbiamo un grande futuro alle spalle. Ma anche il genere nostalgia è sottotono. Basta respirare l'aria - quasi da vacanze termali - nel parco di fronte al Palamontepaschi dove si svolge l'assise comunista. Il caos c'è: quelli di Ferrero parlano di un congresso che ricorda la peggiore Dc. «Si rende conto che Vendola ha vinto grazie alle tessere di Eboli, Castellamare di Stabia, Portici?» dice un delegato di Mantova. Un suo compagno aggiunge: «A Cosenza la Sinistra arcobaleno ha preso 2.600 voti. Sa quanti sono stati gli iscritti a Rifondazione? 2.900. E lì ha stravinto Vendola». Ma il caos del lutto (post sconfitta) è calmo: nessuno parla di scissione, anzi si respira, tra i militanti, la voglia di restare assieme. Arrivano i dirigenti, nell'indifferenza dei più: Folena, abbronzatissimo e scarpe da barca, se la ride. Giordano stringe qualche mano, ma cammina solitario. Tortorella è di scuola: giacca, cravatta e una sola battuta: «Speriamo bene». Migliore, in versione "vasa vasa", dispensa baci alle delegate campane. Ferrero si vede quando incrocia Bertinotti e nemmeno si salutano. 
La star - inseguita dai taccuini - è Claudio Grassi. Arriva col codazzo, ha il sorriso adrenalinico di chi si sta giocando una partita poker. È lui che può determinare l'esito del congresso: ex cossuttiano, sta con Ferrero ma non ne condivide le parole d'ordine come «partito sociale», che tanto piace agli ex di Democrazia proletaria. Parla la lingua del Pci, da cui viene: Vendola non gli piace, ma lo considera il meno peggio di tutti. Con i suoi potrebbe dargli la maggioranza ma vuole svuotargli la linea. Nichi lo sa. I fedelissimi del governatore ostentano i muscoli: «Al comitato politico di domenica una parte si asterrà perché vuole andare con Diliberto. A quel punto eleggiamo Nichi a maggioranza» dicono. Ma Vendola prova a mediare.
Quando prende la parola si capisce che vuole volare altissimo. Dipinge scenari apocalittici: «Non abbiamo perso solo le elezioni. Abbiamo perso un intero abbecedario civile, un universo di simboli, persino la cognizione di ciò che è giusto e ingiusto». Sceglie il terreno di scontro: «La solitudine operaia è il prodotto finale della scientifica frantumazione di corpi sociali che crepano di liberismo. È la solitudine di chi trova più consolazione nella cocaina che nel sindacato». Parla di destra come di «una gigantesca fabbrica di paure». Punta l'indice sul governo Prodi: «Tra governo e paese reale c'è stato un cortocircuito». Indica la mission del suo partito: «Bisogna costruire una vasta e ricca mobilitazione permanente, una opposizione plurale, civile e sociale alle destre. È il primo compito di Rifondazione». Nei fatti Vendola stende un tappeto rosso a Grassi. Non nomina mai la costituente di sinistra che era il cuore della sua mozione. Attacca il Pd: «Si è congedato da destra dalle culture politiche del Novecento». Ma lascia uno spiraglio: «Nessuno sconto, nessun anatema». Torna di moda anche il comunismo che qualche tempo fa - dentro Rifondazione - era stato declassato a «tendenza culturale»: «Il comunismo - dice Vendola - è un cammino impervio che dovremmo imparare a seminare senza la fretta di guadagnare il raccolto». Rassicura sulla falce e martello: «Io non voglio sciogliere il mio partito. Voglio che viva, ma perché viva deve essere fedele al suo nome. Fedele al compito di rifondare se stesso, un'idea del mondo, una pratica di trasformazione». Praticamente: indietro tutta.
Si riparte così: falce e martello alle prossime europee e parole d'ordine antiche. A microfoni spenti i vendoliani la mettono in prosa: «Portiamo a casa il segretario, poi si vede». Bettini, in prima fila, incassa il risultato. Rispetto a D'Alema che su Vendola aveva scommesso, eccome, afferma: «Ci sono distanze molto grandi sia sulla lettura delle ragioni della sconfitta sia sulle prospettive da dare alle forze progressiste e democratiche». Ma un cuneo, nella mozione Ferrero, Vendola forse l'ha insinuato. L'ex ministro lo boccia tout court: «Non vedo svolte di linea politica». Più sfumato Grassi: «Ho apprezzato che non abbia parlato della costituente. Mancano però parole chiare sul rilancio di Rifondazione». Da oggi, si tratta. Il goodbye Lenin è rimandato.

l’Unità 25.7.08
L’allarme di Amnesty: l’Italia discrimina i rom
Il ministro dell’Interno: tutto falso. Ma in Europa Barrot attende il rapporto di Maroni


AMNESTY INTERNATIONAL ha inviato una lettera ai ministri europei dell’Interno e della Giustizia, riuniti ieri a Bruxelles, per condannare «gli atti di discriminazione nei confronti delle comunità rom in Italia, culminati nella raccolta di informazioni sull’origine etnica e la religione, nonché in quella delle impronte digitali, anche di minori».
Nicolas Beger, direttore dell’Ufficio di Amnesty International presso l’Unione europea condanna la scelta dei censimenti: anche avendo esteso la raccolta delle impronte a tutta la popolazione italiana a partire dal 2010 «non cambia nulla se nel frattempo il censimento dei rom continua». Impronte, ma non solo. L’allarme di Amnesty tira in ballo anche le responsabilità della politica: «L’azione delle autorità si è sviluppata in un clima di virulenta retorica anti-rom da parte di esponenti politici nazionali e locali. Raramente gli autori sono stati chiamati a rispondere delle proprie dichiarazioni xenofobe, le quali hanno contribuito ad alimentare e legittimare atti di violenza da parte dei cittadini». Conclude Beger: «Dobbiamo essere chiari: stiamo assistendo a una caccia alle streghe presentata come una serie di “misure di sicurezza”. Quello che è certo è che ora in Italia c’è un effettivo problema di sicurezza: quella dei rom». Per questo Amnesty chiede, tra le altre cose di «riesaminare lo stato d’emergenza e gli atti e le misure derivanti dalla sua adozione, per garantirne la compatibilità col diritto internazionale ed europeo».
La denuncia non scuote il ministro dell’Interno Roberto Maroni, a Bruxelles con i colleghi europei, usa le vie spicce: «È tutto falso. Avete letto l’ordinanza? Si parla di Rom? Si parla di impronte digitali? No. Allora di cosa stiamo parlando? È ora di finirla con le falsità».
Gianni Pittella, presidente della delegazione italiana nel Pse, chiarisce: «Grazie alla nostra azione che ha condotto ad un duro richiamo del Parlamento europeo, ora nelle circolari emanate ieri dal Viminale non si parla più di impronte per i minori di 6 anni se non in casi eccezionali, e per tutti i minori di 14 anni viene prevista la necessità di autorizzazione della procura e del Tribunale dei minori». Intanto il commissario Ue alla Giustizia, libertà e sicurezza, Jacques Barrot, ha ribadito che entro la fine del mese attende il rapporto del ministro dell’Interno italiano.
Intanto ieri è iniziata da Roma la visita degli esperti dell’Osce nei campi rom del nostro Paese. Andrzej Mirga, consigliere anziano per le tematiche rom, ha chiarito: «L’obiettivo della visita consiste nella volontà di lavorare insieme con le autorità italiane per porre le linee guida con cui affrontare la questione della sicurezza in linea con le raccomandazioni europee».

l’Unità 25.7.08
Università. Protestano i rettori: «Così peggiora la ricerca e si impedisce l’accesso in ruolo ai giovani»


«Il Paese deve sapere che con tale misura, se mantenuta e non modificata, si determinerà una condizione finanziaria del tutto incontrollabile e ingestibile, con effetti dirompenti per gli atenei». Queste il duro giudizio della Assemblea della Conferenza dei rettori (Crui) sulla manovra finanziaria predisposta dal Governo e appena votato dalla Camera dei Deputati.
In una nota diffusa al termine della riunione, la Crui «ribadisce la valutazione fortemente negativà al provvedimento». «Il decreto 112 - si legge in una nota - renderà sempre più difficile l'ingresso nei ruoli di giovani di valore; peggiorerà il livello di funzionalità delle Università, anche come conseguenza dell'ulteriore mortificazione delle condizioni retributive del personale tecnico e amministrativo; diventerà sempre più difficile se non impossibile reggere alla concorrenza/collaborazione in atto a livello internazionale; si annullerà di fatto il fondamento stesso dell'autonomia universitaria, come definita negli anni '90, basata sulla gestione responsabile dei budget». I rettori affrontano anche il tema della trasformazione degli Atenei in fondazioni: «D'altra parte evidente che, in un simile contesto, perde qualsiasi credibilità anche la proposta, che andrebbe in ogni caso ben altrimenti approfondita e verificata nelle sue implicazioni e nella sua effettiva attuabilità, di trasformare le università in fondazioni».

l’Unità 25.7.08
Stupidi nazi, il vostro idolo è ebreo!
di Alberto Crespi


Il ragazzo si esibisce e conquista le falangi naziste. Poi lui capirà cosa devono aspettarsi gli ebrei e proverà a convincerli inutilmente
Il film del grande regista è del 2000 Ci sono voluti otto anni per trovare una distribuzione. Non è
il suo migliore ma...

PRIMEFILM È di Herzog e basterebbe. Ma «Invincibile» è insieme una pagina di storia molto triste e un monito per quanti non vogliono ascoltare le cassandre. Torniamo in Germania, tra camicie grige e un ragazzo fortissimo che diventa il loro modello...

Ci saranno stati davvero, negli shtetl ebrei dell’Europa centrale, dei profeti inascoltati che all’alba degli anni 30 arringavano le folle gridando: «Stiamo attenti, fratelli, perché quelli ci odiano e ci metteranno nei forni». Ci saranno stati, e saranno stati presi per matti. Qualche anno fa un film come Train de vie ha raccontato una storia simile, ma trattandosi di una fiaba avveniva il miracolo: lo scemo del paese veniva ascoltato e gli ebrei, travestiti da tedeschi, montavano tutti su un treno che li portava verso la salvezza. Invece Zishe Breitbart, il protagonista del film Invincibile di Werner Herzog, è un personaggio storico e come tale non viene creduto. Il suo destino è quello delle Cassandre: morire giovane, e lasciare il proprio popolo nei guai.
Invincibile è un film che Werner Herzog, il grande regista tedesco di Aguirre e di Fitzcarraldo, ha diretto nel 2000. L’anno successivo, il 2001, venne presentato alla Mostra di Venezia, ma il Lido non fu passaporto sufficiente per una tempestiva distribuzione in Italia. Esce oggi, in piena estate, distribuito dalla Ripley. Non è il capolavoro di Herzog, che da un po’ di anni è assai più convincente quando dirige documentari, piuttosto che nei film di finzione. Ma merita un’occhiata per la storia che racconta. Storia che andiamo, ora, a riassumere.
Nella Germania a cavallo fra il 1932 e il 1933, mentre il nazismo uscito vincitore dalle elezioni si insedia e comincia a «macinare», un giovanotto grande come una montagna arriva a Berlino da un villaggio ai confini con la Polonia. Si chiama Zishe Breitbart, è il fabbro del paese, ha poco più di vent’anni ed è dotato di forza sovrumana. Al paesello, è diventato famoso atterrando il forzuto di un circo in tournée. A Berlino lo aspetta il leggendario Erik Jan Hanussen, un bizzarro impresario e illusionista che sogna di fondare, sotto l’egida del Fuhrer, il Ministero delle Arti Occulte. Sotto la guida di Hanussen, Zishe comincia ad esibirsi nei locali di Berlino davanti a gruppi adoranti di SA. Diventa ben presto la «bestia bionda» per eccellenza, un novello Sigfrido, il prototipo del maschio ariano che il nazismo si accinge ad imporre come modello a tutta la gioventù del Reich millenario. Questa è la storia del film, ed è Storia, con la «s» maiuscola. Sia Zishe che Hanussen sono personaggi autentici (il secondo era già stato immortalato, nel film omonimo, dall’ungherese Istvan Szabo: lo interpretava Klaus Maria Brandauer). Piccolo dettaglio: sia il forzuto che il veggente erano ebrei.
Il vero nome di Hanussen era Steinschneider. Questi due campioni della propaganda hitleriana appartenevano al popolo che Hitler voleva distruggere. Hanussen, che era pappa e ciccia con i nazisti e che grazie alle sue conoscenze aveva potuto «predire» l’incendio del Reichstag, venne assassinato all’inizio del 1933: sapeva troppe cose, oltre ad essere un ebreo. Zishe, invece, fu - come dicevamo - un profeta inascoltato. Nel film lo vediamo tornare al suo villaggio e ammonire gli anziani sui pericoli che corrono; ma quelli lo deridono. Figurarsi se i tedeschi ce l’hanno con noi, gli dicono: semmai è dai russi che dobbiamo guardarci. Nel film, Zishe muore in modo stupido: di tetano, per una banalissima ferita che si infligge da solo durante una prova di forza. La sua parola rimane lettera morta: nel giro di pochi anni si farà carne e sangue, e sappiamo bene come.
Lo Zishe di Herzog ricorda molto un altro «idiota saggio» del suo cinema, il misterioso Kaspar Hauser dell’Enigma, uno dei suoi film più belli. Sono folli che sembrano sbucare all’improvviso da un’altra dimensione, portatori di un verbo che l’umanità non è ancora pronta a capire. Peccato che il film non abbia quella forza e quel mistero. Forse avrete notato che, raccontandovi la trama, vi abbiamo svelato l’identità ebrea di Zishe e del suo mentore solo nell’ultima riga del capoverso. Come diceva Godard, il racconto di una trama è il gesto critico primario, implica già un giudizio sul film. Herzog non può che dichiarare l’ebraismo dei personaggi fin dalla prima inquadratura, che vede Zishe sfottuto in una locanda da alcuni «gentili» molto maleducati e molto rozzi. In fondo il problema del film è tutto lì: il suo fascino sta nell’enunciazione del suo assunto, e lo svolgimento non può che risultare inferiore. Ciò non toglie che il film sia, anche oggi, un grande monito: siamo ancora circondati da Cassandre e forse, a volte, sarebbe bene ascoltarle, se non altro perché sotto le mura di Troia i coturnati achei, con i loro cavalli di legno traditori, sono sempre in agguato.
Zishe è il culturista finlandese Jouko Ahola, un non attore che non ha il pathos di altri «dilettanti» herzoghiani. Hanussen è l’inglese Tim Roth. Il film più «tedesco» degli ultimi anni ha attori che vengono da mezza Europa. Un segno dei tempi che non sempre è sinonimo di grande cinema.

l’Unità 25.7.08
Pianeta Terra, 49 luoghi dove il boia colpisce ancora
di Elena Doni


La punizione di uccidere chi ha ucciso è incomparabilmente più grande del delitto stesso
L’omicidio in base a una sentenza è incomparabilmente più atroce che non l’omicidio del malfattore
L’idiota, Fëdor Mikhailovic Dostoevskij

IL RAPPORTO Col premio all’«abolizionista» Prodi, ecco le cifre per il 2007: decresce il numero dei Paesi ma, macabro paradosso, aumentano le esecuzioni. Cina in testa. E, in Iran e Arabia, cresce la spettacolarizzazione di questa barbarie

È spaventoso constatare quanto è facile in tanti paesi perdere la vita, senza colpa o per una piccola colpa, per mano del governo o del potere religioso. Può succedere nei democraticissimi Stati Uniti come nel paradiso tropicale delle Bahamas o nella culla di una civiltà millenaria come l’Egitto. Può succedere, per l’esattezza, in 49 stati: a volte dopo un regolamentare processo nel quale l’imputato ha avuto modo di difendersi ma – come sanno tutti gli appassionati di cinema che hanno visto magari le tre versioni de La parola ai giurati – questo non esclude affatto che si verifichino errori giudiziari anche in America. Succede molto più spesso in paesi che hanno governi autoritari o dove la religione, alleata coi governi, impone di punire con la morte quelle che ai nostri occhi europei, invece, sono trasgressioni e non crimini: l’adulterio, l’omosessualità, la bestemmia.
E fa paura vedere quanto poco vale la vita umana agli occhi del potere, quanto irregolari sono i processi, quanto poco osservate sono le procedute, quanto crudeli sono le detenzioni e quanto oscena è la spettacolarizzazione delle sentenze capitali.
Salvo poi scoprire che in Uzbekistan, paese asiatico niente affatto lodevole dal punto di vista del rispetto dei diritti umani, un sondaggio ha stabilito che il 92% della popolazione è contrarissimo alla pena di morte.
L’occasione per fare il punto della situazione è stata la presentazione del Rapporto 2008 sulla pena di morte nel mondo e la consegna a Romano Prodi del premio «L’abolizionista dell’anno». L’uno curato, l’altro promosso da Nessuno tocchi Caino. Il premio è stato conferito a Prodi perché nel dicembre scorso da presidente del Consiglio, ha portato al successo all’Assemblea Generale dell’Onu la Risoluzione per la moratoria delle esecuzioni capitali. «Non è stato solo merito mio – si è schermito Prodi – è stato un successo ottenuto facendo un gioco di squadra al quale molti hanno partecipato. Al Palazzo di vetro avevamo avuto delusioni in passato – causate, ebbene sì, anche da alcuni paesi europei – questa volta invece c’è stata una notevole ampiezza di consensi. Quello per una moratoria generale della pena di morte è un cammino irreversibile».
Un filo di speranza viene anche dalle cifre: i paesi che mantengono la pena capitale sono oggi 49, mentre nel 2006 erano 51 e nel 2005 ben 54. Ciò nonostante è aumentato il numero delle esecuzioni capitali nel mondo: sono state almeno 5.851 nel 2007, 216 più dell’anno precedente.
Cifre forse sottostimate perché molti paesi non forniscono dati ufficiali e in alcuni casi il numero dei condannati a morte è addirittura segreto di Stato. I tre paesi che con più frequenza fanno lavorare il boia sono Cina, Iran e Arabia Saudita. Per la Cina il rapporto di Nessuno tocchi Caino parla di almeno 5000 sentenze eseguite, forse un migliaio meno dell’anno precedente, prima che venisse attribuito alla Corte Suprema del Popolo il potere esclusivo di approvare le condanne a morte. Una decisione che probabilmente ha indotto i tribunali cinesi a una maggiore prudenza nell’emettere sentenze capitali.
Secondo in questa orribile classifica è l’Iran, dove almeno 355 persone sono state messe a morte nel 2007, mentre nel 2008 le esecuzioni di cui si è avuto notizia sono state 127. Le ultime tre sono state eseguite pochissimi giorni fa (la notizia è del 23 luglio): tre uomini sono state impiccati per uno stupro avvenuto tre anni fa. In Iran vengono puniti con la pena di morte l’omicidio, lo stupro, la rapina a mano armata, il traffico di droga e l’adulterio. Con la lapidazione, in quest’ultimo caso. Contro questa pena crudele si batte una coraggiosa minoranza guidata da una giornalista iraniana, Asieh Amini che nel 2006, insieme con un gruppo di avvocati, ha lanciato la campagna «Mai più lapidazione». Coraggiosi, quelli che si battono per l’abolizione di questa pratica arcaica, perché sanno a cosa vanno incontro: nel marzo 2007 Asieh Amini e l’avvocata Shadi Sadr erano tra le 33 persone arrestate per aver preso parte a una marcia di protesta, con l’accusa di «azioni contro la sicurezza dello Stato».
Le 166 esecuzioni avvenute nel 2007 in Arabia Saudita (il numero più alto al mondo in rapporto alla popolazione), nei cortili fuori le moschee più frequentate dopo la preghiera del venerdì, riguardavano per i due terzi immigrati poveri provenienti dal Medio Oriente, dall’Asia e dall’Africa. Tra i condannati erano almeno tre minorenni, incluso un quindicenne per un reato commesso quando aveva 13 anni.
Sia in Iran che in Arabia Saudita c’è addirittura una spettacolarizzazione della pena capitale: con forte gradimento della folla, si dice. Dalle rare fotografie che circolano sul web si vede da qualche giorno una decapitazione alla Mecca: un uomo inginocchiato, mani e piedi legati, e dietro di lui il boia con la scimitarra alzata. Altre fotografie arrivano dall’Iran e mostrano donne conficcate in una buca fino al punto vita o alle spalle, che piegano la testa sotto una grandine di pietre. Che secondo il codice penale iraniano non devono essere così grandi da uccidere con uno o due colpi ma non così piccole «da non poter essere definite pietre».
In attesa di una sentenza d’appello, che si spera commuterà quella di primo grado, è da qualche mese un giovane afghano, studente di giornalismo, Sayed Perwiz Kambakhsh, condannato a morte per blasfemia con l’accusa di aver diffuso un testo tratto da internet sui diritti delle donne. La battaglia per la salvezza di Kambakhsh è condotta dal fratello Sayed Yaqub Ibrahimi, giornalista, che è stato di recente nel nostro paese, invitato dall’Unione Cronisti Italiani: è probabile che l’accusa e l’arresto di Sayed Perwiz siano una vendetta trasversale contro di lui, che aveva svelato traffici illeciti di un signore della guerra.
Lo stesso Ibrahimi si rende conto di quanto è difficile aiutare il fratello. Da una parte l’attenzione internazionale e le raccolte di firme per la salvezza di Kambakhsh sono importanti, dall’altra, in Afghanistan come in molti altri paesi dove è in vigore la pena capitale, bisogna stare attenti a non compiere azioni che, se percepite come indebita ingerenza, non fanno altro che rafforzare i conservatori. E la pena di morte.

l’Unità 25.7.08
Quando la vita si fa crudele dittatura
di Sergio Bartolommei, Dipartimento di Filosofia, Università di Pisa, Consulta di Bioetica, Pisa


Sono giorni concitati e drammatici per le cronache bioetiche del nostro Paese. Al Nord un corpo che aveva ospitato una persona di nome Eluana Englaro, scomparsa insieme alla sua coscienza 16 anni fa dopo un incidente stradale, sta per essere trasferito da una casa di cura a un Hospice dopo che sarà stato disattivato il sondino naso-gastrico che lo alimenta artificialmente. Con l’esaurirsi delle funzioni dell’involucro corporeo, alla morte biografica di Eluana - la morte della possibilità di raccontarsi, di mettersi in relazione e di dare un senso alla sua propria vita - seguirà così anche quella organica e anagrafica. Solo allora, e grazie a due storiche sentenze giudiziarie, si avrà il riconoscimento delle sue volontà: quelle che aveva espresso quando, ignara della sua sorte futura, era capace di pronunciarsi su cosa per lei sarebbe stata dignità del vivere e del morire nell’ipotesi di poter piombare un giorno nel buio dello stato vegetativo permanente (SVP) in cui purtroppo poi le accadde effettivamente di entrare.
Al Sud un neonato di tre mesi, Davide Marasco, nato il 28 aprile scorso a Foggia e protagonista di un caso assurto alle cronache nazionali, è morto dopo essere stato sottoposto a rianimazione e dialisi forzate nel tentativo di farlo sopravvivere. Davide era affetto da sindrome di Potter e presentava un quadro clinico caratterizzato da mancanza dei reni, inadeguato sviluppo degli ureteri, della vescica e dei polmoni, malformazioni intestinali e rettali.
Sia lo SVP che la sopravvivenza di neonati colpiti da patologie incompatibili con la vita sono, paradossalmente, nuove condizioni del morire rese possibili dall’avvento delle tecnologie di rianimazione e sostegno vitale. Fino a qualche decennio fa il corso ’naturale’ delle cose avrebbe portato alla morte quasi istantanea i protagonisti di queste due tragiche vicende. Oggi il loro destino dipende in gran parte dalle nostre decisioni e dalla nostra responsabilità.
Sia nel caso di Eluana che in quello di Davide si è optato per soluzioni vitalistiche, pensando che il miglior interesse dei due fosse di prolungarla, la vita, il più possibile, in nome della sua sacralità. Il paternalismo medico è venuto in soccorso del vitalismo. Nel caso della Englaro si sono moltiplicate anche in queste ultime ore una serie di (irrispettose) pressioni - politiche, accademiche, religiose - affinché il padre-tutore non la faccia morire come ella desiderava e come due Tribunali della Repubblica hanno giudicato lecito autorizzare a fare.
Nel caso di Davide è bastato che i genitori manifestassero una titubanza nel dare il consenso alle cure intensive che subito il bimbo è stato sottratto alla loro potestà e affidato al primario degli Ospedali Riuniti di Foggia per essere sottoposto a rianimazione e dialisi. Prigionieri forse dell’alone positivo e di mistero che circonda la parola "vita", si fatica a misurarsi con l’idea che ci siano situazioni in cui vivere è un disvalore o un’oppressione, o perché il vivere è ridotto alle sofferenze e agli accanimenti di quella che non è terapia ma devastante e coatta sperimentazione medica (Davide), o perché le condizioni della vita sono divenute radicalmente incompatibili con le idee di dignità personale nutrite nel corso dell’esistenza cosciente (Eluana).
È difficile però scalfire lo zelo dei vitalisti. Essi non si accorgono che l’astratta ideologia cui aderiscono - "la Vita è sacra" - può rivelarsi crudele nelle situazioni in cui, applicandola con fanatica coerenza, genera solo una inutile e penosa sospensione del morire. Incapace in questi casi di garantire un miglioramento delle condizioni di salute, il vitalismo si rivela spesso veicolo dei danni provocati da un interventismo medico fine a se stesso. Ciò che fa apparire l’uno e l’altro “giusti” è che sembrano la soluzione più semplice e ovvia, optando per la quale sembra di essere meno in gioco con le nostre responsabilità.

Corriere della Sera 25.7.08
Il biologo Edoardo Boncinelli interpreta alcuni passi dell'opera alla luce delle teorie evoluzionistiche e delle scoperte più recenti
Embriologia celeste. Come Dante intuì lo sviluppo dell'uomo
Il mondo poetico della Divina Commedia sorprende per la coerenza scientifica
di Edoardo Boncinelli


Verso la fine del decimo canto del Purgatorio la poesia di Dante si eleva d'un balzo a vette vertiginose di potenza espressiva e immaginativa. «O superbi cristian», esclama il poeta rivolto ad alcuni peccatori che stanno espiando la loro cattiva condotta sulla terra, ma apostrofando in realtà tutto il genere umano, «non v'accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l'angelica farfalla?» In una sorta di embriologia celeste, Dante crede di individuare nell'aspetto di ciascuno di noi una fase del nostro sviluppo biologico- spirituale: il corpo con il quale abbiamo vissuto e viviamo tutta la vita non rappresenta altro che una sorta di nostro stato larvale. Da questa larva («verme») si svilupperà dopo la morte una sorta di celeste «farfalla», che svolerà al cospetto del Creatore, per ricevere il premio o la punizione meritati in vita: «l'angelica farfalla» dice il poeta infatti «che vola a la giustizia sanza schermi».
Il nostro sente la necessità di ribadire subito dopo tale concetto, poiché prosegue chiedendosi di che cosa mai noi uomini meniamo tanto vanto, essendo «quasi entomata in difetto, / sì come vermo in cui formazion falla ». Saremmo per lui quindi solo insetti («entomata » alla greca, ma con un po' di fantasia) ancora non completati («in difetto»), cioè una sorta di larva («vermo») nella quale è ancora assente («falla») la maturazione finale.
Un'immagine stupenda e indimenticabile, questa, presente alla mia mente fino dai tempi della scuola media, per merito della professoressa di allora, religiosissima e amante della poesia, che ce la citò come esempio di grande poesia e di sublime creatività. Di tale immagine non mi sono potuto non ricordare quando, più di trent'anni dopo, mi sono occupato attivamente dei geni che controllano lo sviluppo del corpo, che sono incredibilmente gli stessi sia per il nostro che per quello degli insetti! Tutta la storia della scoperta dei geni «architetto», quelli che controllano la disposizione delle varie parti del corpo nello sviluppo di tutti gli animali che hanno una testa e una coda, dalle meduse in su, è cominciata proprio con un insetto, il moscerino dell'aceto Drosophila melanogaster.
E' stato questo piccolo insetto infatti che ci ha permesso di scoprirli. Ed è stata la susseguente scoperta che gli stessi geni controllano anche lo sviluppo embrionale di tutti i vertebrati, compresi i mammiferi e l'uomo, che ci ha fatto toccare con mano la straordinaria unità dei viventi, anche superiore a quello che poteva intravedere la grande fantasia poetica di Dante. Tutti stentarono a credere, nel 1985, che la meccanica molecolare del nostro sviluppo embrionale fosse essenzialmente la stessa di quella di un piccolo insetto, o di un vermetto elementare costituito di mille cellule in tutto, ma è così.
Questo non è l'unico passo della Commedia in cui Dante si occupa di sviluppo. Per esempio, sempre nel Purgatorio, nel XXV canto, il sommo poeta espone le teorie allora correnti su come si forma il nostro corpo e come questo si incontri poi con il nostro intelletto e la nostra anima. Dice Dante, per bocca del poeta Stazio, che il sangue più perfetto dell'uomo, quello che si trova nel centro del cuore e che non va a giro nelle vene, «prende nel core a tutte membra umane / virtute informativa » e comincia a trasformarsi in seme. Poi «ancor digesto», cioè maturato, il sangue-seme «scende ov'è più bello / tacer che dire; e quindi poscia geme / sovr'altrui sangue in natural vasello».
«Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme», e a seguito dell'unione dei due sangui, quello maschile e quello femminile, «comincia ad operare / coagulando prima, e poi avviva / ciò che per sua matera fé constare». L'anima vegetativa che ne deriva «imprende» poi «ad organar le posse ond'è semente» (meravigliosa espressione!), come in una pianta, ma molto più che in una pianta, perché quella è «in tanto differente, / che questa è in via e quella è già a riva». Come dire che mentre lo sviluppo della pianta arriva solo fino a un certo punto, quello dell'uomo va molto oltre. «Or si spiega, or si distende» tutta la forza informativa primigenia del seme che riesce così a organizzare con precisione ed efficienza le diverse parti del corpo con le loro funzioni.
Il bello, ovviamente, deve ancora venire. «Ma come d'animal divegna fante, / non vedi tu ancor», dice infatti Stazio a Dante, chiaramente riferendosi al passaggio del nascituro da un puro stato animale-vegetativo a uno pienamente umano. Ciò avviene perché «sì tosto come al feto / l'articular del cerebro è perfetto, // lo motor primo a lui si volge lieto / sovra tant'arte di natura, e spira / spirito novo, di vertù repleto, // che ciò che trova attivo quivi, tira / in sua sustanzia, e fassi un'alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira ». Non appena il cervello è sufficientemente sbozzato, il Signore rivolge lo sguardo a questo nuovo corpo, allietandosi per il compimento di tanta meraviglia («si volge lieto sovra tant'arte di natura») e vi infonde («spira ») l'anima («spirito nuovo, di vertù repleto »). Questa attrae, attiva e assimila a sé («tira in sua sustanzia») tutto ciò che trova «e fassi un'alma sola». Questa anima adesso, finalmente unificata con tutte le altre facoltà materiali, intellettuali e spirituali, «vive» pienamente e acquista infine la facoltà di riflettere su se stessa («sé in sé rigira»). Nasce così anche la coscienza di sé. Lo sviluppo si è completato e il nuovo essere ha la possibilità, almeno potenziale, di andare autonomamente per il mondo.
Dante è grande per la sua sensibilità, per le sue capacità espressive, per la grande fantasia delle sue costruzioni, per la sua dottrina e sommamente per la capacità di fondere tutto questo in un corpo poetico vivente. Con capacità e impegno. Fino al punto da edificare tutto un mondo poetico parallelo a quello reale, ma non disgiunto da quello e dalle sue complicazioni.
In questa impresa, il quotidiano bruco diviene veramente angelica farfalla.

Corriere della Sera 25.7.08
Festival a Ravenna. Il Divino Alighieri e la sua modernità


Poesia, musica e danza. L'arte per riflettere sulla visione, perché l'uomo si perde se non impara a vedere meglio se stesso e la vita. Torna con questo scopo «Dante09», il festival per tipi danteschi diretto da Davide Rondoni, in programma a Ravenna dal 3 al 7 settembre. Cinque appuntamenti in piazza del Popolo per riscoprire l'attualità del grande poeta. Nella terza edizione, nomi noti della cultura e dello spettacolo analizzeranno la Visione nell'arte, nella teologia e nella bellezza femminile quale fonte ispiratrice. Non mancheranno momenti di riflessione sulla genetica nel dibattito «Sorprendere l'inizio della vita» (venerdì 5, ore 18, piazza del Popolo). Scienza, bioetica e diritto saranno al centro delle riflessioni di Edoardo Boncinelli, editorialista del «Corriere della Sera» e professore di Biologia e Genetica dell'università Vita-Salute San Raffaele di Milano, e di Eleonora Porcu, docente all'università di Bologna.

Repubblica 25.7.08
Quei libri dati alle fiamme
Germania, un volume ricorda i 94 scrittori ebrei cancellati nel ‘33
Tornano gli autori bruciati dai nazisti
di Paola Sorge


Nei roghi finirono firme come Mann Joseph Roth Remarque, Zweig ma anche nomi che Hitler riuscì a far dimenticare Ecco le loro storie
Degli intellettuali perseguitati molti emigrarono ma non riuscirono più a scrivere
Tra loro Armin T. Wegner: lo si credeva morto e invece visse fino al 1978 a Positano

Tutto doveva esser fatto rapidamente, con la velocità del vento. L´ordine perentorio di bruciare gli scritti di autori ebrei «in occasione della vergognosa campagna diffamatoria del mondo ebraico contro la Germania», non proveniva da Goebbels o da Hitler, ma dal novello ufficio stampa e propaganda dell´associazione studentesca tedesca che in meno di un mese, dal 12 aprile al 10 maggio del 1933, organizzò alacremente e sistematicamente il rogo dei libri proibiti non solo a Berlino ma in ogni città universitaria della Germania. Gli studenti dovevano innanzitutto «ripulire» i propri scaffali, quelli di parenti e conoscenti e poi quelli di tutte le librerie possibili; il rogo sulle pubbliche piazze doveva essere reclamizzato e promosso a dovere, possibilmente con testi di propaganda «contro il distruttivo spirito ebraico» redatti da scrittori compiacenti. Non mancava nemmeno una sorta di manifesto studentesco con 12 tesi aberranti tra cui quella che recitava: «L´ebreo che scrive in tedesco, mente».
Ed infine ecco le fiamme alte 10, 12 metri che la notte di mercoledì 10 maggio illuminarono l´Opernplatz a Berlino, gremita di folla che assisteva allo spettacolo. E nessuno che protestava. C´era Goebbels attorniato dalle SA in soprabito chiaro che contemplò a lungo l´incendio e poi annunciò «la fine dell´epoca di un eccessivo intellettualismo ebreo». Erich Kaestner vide i suoi libri gettati alle fiamme mentre qualcuno faceva il suo nome e urlava «contro la decadenza e il degrado morale!» e che da allora, da beniamino del pubblico divenne «persona non gradita». Kaestner fu uno dei pochi scrittori della lista nera che rimase in patria come «cronista», forse perché gli mancava il coraggio di emigrare. Altri si tolsero la vita o vennero uccisi in un lager, oppure andarono all´estero, il più delle volte senza mezzi e senza possibilità di pubblicare le loro opere. E quando dopo la fine della guerra tornarono in patria, non trovarono la Germania di prima, non si sentirono più «a casa»: il pubblico li aveva irrimediabilmente dimenticati.
Eppure nella Repubblica di Weimar avevano tutti goduto di una notevole notorietà. Ernst Glaeser, ad esempio, con Classe 1902, un ritratto della sua generazione ancor oggi più che godibile, aveva suscitato l´entusiasmo di Hemingway; Edlef Koeppen era diventato notissimo nel ‘28 con il suo romanzo Bollettino di guerra; un certo seguito lo avevano avuto anche gli anarchici ribelli come Rudolf Geist che scrisse migliaia di pagine e alla fine andò di porta in porta a vendere cartoline con le sue poesie; c´erano i comunisti «di cuore», senza la tessera di partito ma sempre dalla parte dei deboli e degli oppressi come Oskar Maria Graf o come Egon Erwin Kisch, straordinario reporter e corrispondente di guerra che andò in esilio in Messico e morì nel ‘48; grande risonanza avevano avuto i cronisti della cultura ebraica in Germania come Georg Hermann, ucciso a Auschwitz nel ‘43 e biografi di talento come Franz Blei, re dei caffè viennesi, autore di quel Bestiarum Literaricum definito da Kafka «la letteratura mondiale in mutande».
La loro storia e quella di tutti i 94 scrittori tedeschi i cui libri furono dati alle fiamme 75 anni fa, assieme a quelli di 37 autori stranieri, sono raccontate in un libro prezioso, per molti versi stupefacente: Il libro dei libri bruciati (Volker Weidermann: Das Buch der verbrannten Buecher, ed. Kiepenheuer & Witsch, pagg. 255) Stupefacente perché l´appassionata e appassionante ricerca fatta dall´autore del volume su internet e nelle librerie antiquarie ha portato alla scoperta di opere di notevole valore da allora dimenticate a causa del rogo dei libri. Prezioso perché contiene le storie inedite, spesso tragiche e inquietanti di tutti gli intellettuali perseguitati dal regime nazista e perché rende giustizia agli scrittori dimenticati o ignorati ai quali viene dato molto più spazio che a quelli celebri. Senza questo libro l´obiettivo dei nazisti di cancellare per sempre dalla memoria i nomi di tanti autori ebrei sarebbe stato quasi raggiunto, osserva giustamente l´autore del libro nella sua introduzione.
«Non si faccia illusioni. L´inferno è al governo», scrisse Josef Roth già nel febbraio del ‘33 all´amico Stefan Zweig che faticava a credere di essere diventato uno degli scrittori più odiati in Germania. I suoi libri erano stati dati alle fiamme assieme a quelli di Werfel, di Schnitzel, di Wassermann, di Klaus Mann, ma lui, lo scrittore di lingua tedesca più letto nel mondo, era convinto di essere stato scambiato con Arnold Zweig, comunista militante odiato dal regime. Cercò compromessi, sperò che la follia collettiva avesse termine rapidamente. Roth al contrario aveva capito immediatamente che la loro vita professionale e materiale era annientata. Alla fine entrambi andarono in esilio e entrambi vi persero la vita: Roth morì in un ospedale di Parigi nel ‘39, Zweig tre anni dopo si tolse la vita in Brasile.
Coinvolgenti e di estremo interesse sono le storie di tutti gli scrittori sinora dimenticati a causa del rogo: sconcertante quella di Armin T. Wegner che dopo la guerra era stato dato per morto e che invece visse sino al 1978 a Positano dove si era trasferito nel ‘36. Autore di un avventuroso e fascinoso libro di viaggi, Al crocevia dei mondi del 1930, moralista e nemico della guerra, scrisse nell´aprile del ‘33 una lettera aperta a Hitler in cui con incredibile ingenuità spiegava al Führer perché la Germania avesse bisogno degli ebrei e perché gli ebrei amassero tanto la Germania. In realtà non aveva nessuna voglia di lasciare la sua patria: «Andar via è come morire» ripeteva. Ma la Gestapo lo mise in carcere, lo torturò, lo mandò nel lager di Oranienburg da dove riuscì a fuggire. A Positano stava ogni giorno alla scrivania davanti a una pila di fogli bianchi. Non riuscì mai più a scrivere un rigo.
Con il grandioso romanzo satirico Solneman l´invisibile del 1914, tenuto in gran conto da Thomas Mann, lo scrittore Alexander Moritz Frey riscosse il suo primo grande successo; ebbe però per sua disgrazia, anche un altro ammiratore, Adolf Hitler, suo compagno di reggimento nella prima guerra mondiale. Il futuro Führer mostrava molto interesse per le sue opere e cercò inutilmente di mettersi in contatto con lui, ma Frey lo evitava accuratamente: lui era rigorosamente contro ogni odio di razza, contro ogni fanatismo, contro i militari. «Voglio, voglio, voglio dire la verità, voglio dire: i militari e la guerra sono la più ridicola, vergognosa, stupida cattiveria del mondo», afferma alla fine del racconto delle sue esperienze di guerra, uscito nel ‘29 e giudicato dai critici addirittura superiore al celebre All´ovest niente di nuovo di Remarque. Nel ‘33 le SA gli distrussero casa e Frey lasciò la Germania senza soldi, senza la possibilità di pubblicare i suoi lavori, senza più cittadinanza; in Svizzera trovò il sostegno e l´aiuto di Thomas Mann. Morì a Basilea nel 1957, povero e dimenticato.
Certamente il più fortunato di tutti fu Erich Maria Remarque. La notte del rogo lui, che si trovava al sicuro in Ticino, sentì per radio, con lo scrittore Emil Ludwig, il crepitio delle fiamme e i discorsi esaltati dei gerarchi nazisti. Era stato uno dei primi a emigrare: il 29 gennaio, alla vigilia della presa di potere di Hitler, aveva fatto una corsa non stop, a bordo della sua Lancia, da Berlino a Porto Ronco. Sapeva bene di essere il nemico numero uno dei nazisti a causa del suo celeberrimo romanzo che prometteva «la verità sulla guerra». All´ovest niente di nuovo - il libro tedesco di maggior successo del XX secolo, 20 milioni di copie vendute, da cui trassero il film - , dopo aver dato adito a una serie di infiammati dibattiti, era stato boicottato in tutti i modi dai nazisti: parlava di miseria infinita, di noia, di mancanza di senso della prima guerra mondiale, della morte ben poco eroica dei soldati. Un libro più che pericoloso per i seguaci di Hitler che non riuscirono a impedirne lo strepitoso successo.
Remarque scelse il silenzio, si dichiarò estraneo alla politica, ma intanto continuava a scrivere sul destino degli emigranti e sui campi di concentramento anche durante il suo leggendario soggiorno negli Stati Uniti dove divenne uno degli scrittori e sceneggiatori più amati dagli americani. Nonostante questo, chi legge i suoi diari scopre un uomo irrimediabilmente depresso e pieno di paure. Paura della scrivania, del lavoro, della solitudine.

Repubblica 25.7.08
Un saggio sull’amore nel ‘700
Cicisbei. Lui, lei e il cavalier servente
di Benedetta Craveri


Accompagnare assiduamente una donna sposata era una pratica diffusa. Specchio di un costume e di una morale
Un prodotto della società d’Antico Regime, che scompare nell’800
Un’indagine che investe il tema dell’identità nazionale italiana
Parini, Goldoni e Alfieri criticano aspramente il fenomeno

«Non vi ho parlato dei cicisbei. È la cosa più ridicola che un popolo stupido abbia potuto inventare: sono degli innamorati senza speranza, delle vittime che sacrificano la loro libertà alla dama che hanno scelto». Il popolo stupido di cui Montesquieu, in visita nella penisola nel 1728, si prendeva gioco era ovviamente quello italiano, ma il grande pensatore francese che si preparava a scrivere L´Esprit des lois non era certo il solo viaggiatore straniero a ravvisare nel cicisbeismo un tratto distintivo del costume del nostro paese. E numerosi erano anche gli italiani - pensiamo a scrittori come Parini, Goldoni, Alfieri, o pittori come Pietro Longhi o Giandomenico Tiepolo - che nel corso del secolo avrebbero stigmatizzato il fenomeno. Ma ammesso e non concesso che esso costituisse davvero una anomalia italiana in che cosa consisteva esattamente e quali erano le ragioni che le avevano consentito di mettere radice nel Bel Paese e prosperarvi per tutto il Settecento?
A questi interrogativi si propone oggi di rispondere, sul filo di una ricerca storica attenta a studiare tanto la realtà del costume quanto le sue rappresentazioni, l´importante studio di Roberto Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia (Laterza, pagg. 361, euro 20). Una ricerca di carattere necessariamente indiziario poiché ha per oggetto una relazione di coppia - quella della dama e del suo cicisbeo - che si svolgeva alla luce del sole e su cui le testimonianze e i commenti abbondano, ma la cui natura intima e privata rimaneva invece accuratamente occultata, costringendo lo storico a procedere per ipotesi.
Neologismo entrato in uso nel primo decennio del Settecento, il termine cicisbeo designava infatti l´accompagnatore ufficiale di una dama sposata di cui fungeva, con il pieno assenso del marito, da cavalier servente. Il suo compito consisteva nel passare con lei molte ore al giorno, nello scortarla al teatro, al ballo, in società, nel dimostrarle fedeltà, nel prodigarsi in tutti i modi per risultarle gradito, ma questo "servizio" doveva essere improntato alla più assoluta castità o, quantomeno, lasciarlo credere. Ora è vero che nelle società d´Antico Regime il matrimonio aristocratico non presupponeva un´intesa sentimentale e consentiva ai coniugi di condurre una vita indipendente; è vero che già un secolo prima la civiltà francese aveva fatto della galanteria un obbligo mondano, come è ugualmente vero che "questa delicata simulazione dell´amore" poteva servire da schermo a sentimenti più reali, ma solo in Italia questi vari fattori si erano saldati in un rapporto istituzionale che implicava ufficialità e durata.
Bizzocchi mostra bene come a determinare questa "eccezione" italiana siano state ragioni economiche, sociali e culturali di diversa natura, riconducibili tutte allo specifico contesto storico della penisola. La prima novità del suo studio è proprio quella di mostrare, sulla base di una ampia documentazione, il carattere nazionale del cicisbeismo, solitamente considerato una peculiarità veneziana e genovese. E se per tutto il corso del Settecento l´usanza si diffondeva nelle maggiori città italiane ciò era dovuto in primo luogo alla sua capacità di conciliare l´esigenza di rinnovamento che accomunava le élites del paese agli imperativi della tradizione.
Il cicisbeismo si spiega senza dubbio alla luce di una nuova volontà di libertà della società italiana che si apre progressivamente alla cultura dei Lumi e, ispirandosi al modello francese, inaugura una socievolezza, una "conversazione" come si diceva allora per metonimia, incentrata sulla presenza femminile. Ma questa rivoluzione che apriva improvvisamente al gentil sesso le porte del carcere domestico era troppo radicale per non richiedere degli accorgimenti. A differenza di quanto avveniva in Francia dove le dame del bel mondo sfarfalleggiavano anche sole da un salotto all´altro, le loro sorelle italiane non potevano uscire di casa senza la scorta di un accompagnatore che, scelto con il beneplacito del marito, aveva il compito di vigilare su di loro. Di qui, rileva Bizzochi, quella "doppia anima del cicisbeismo, fra controllo e libertà", che avrebbe dato origine a un compromesso destinato a indignare i benpensanti - "e tuto xe causa la libertà", commenta sconsolato un personaggio dei Rusteghi di Goldoni! - fino ad assurgere, nella Histoire des Républiques italiennes du moyen âge (1807-1818) dell´illustre storico ginevrino Sismondi, a simbolo del lassismo e della decadenza morale degli italiani.
Eppure, come ben spiega Bizzocchi, la pratica del cicisbeismo non assolveva solo alle nuove esigenze del gentil sesso. Era anche una risposta al problema del celibato maschile che nel ceto nobiliare poteva riguardare anche il cinquanta per cento degli uomini adulti. Finalizzata a preservare l´integrità del patrimonio familiare a favore del figlio primogenito, la norma del maggiorascato metteva in effetti in circolazione molti giovani senza prospettive matrimoniali per i quali il cicisbeismo fungeva da utile surrogato, consentendo loro di intrattenere una relazione femminile privilegiata, di trovare accoglienza in una casa ospitale, di ricoprire un ruolo riconosciuto in società. E se, all´interno dell´ambito domestico della dama che era chiamato a servire, il cicisbeo svolgeva un compito sussidiario a quello del marito, questo legame consentiva altresì, alla stregua dei veri e propri matrimoni, ad allargare la cerchia delle solidarietà e delle relazioni interfamiliari in vista di una più ampia strategia sociale su scala cittadina.
La parte più interessante del libro è, tuttavia, quella che si propone di indagare la natura della relazione privata che si dissimulava dietro i comportamenti rigidamente codificati di una commedia mondana di cui gli stessi osservatori contemporanei denunciavano l´ipocrisia. In effetti, come escludere una possibilità di coinvolgimento affettivo, sentimentale, erotico, da parte di uomini e donne abituati a passare gran parte della loro vita insieme? Bizzochi cerca di trovare una risposta analizzando, sulla falsariga di un nutrito corpus di testi autobiografici e di carteggi editi ed inediti, alcuni casi di cicisbeismo a Bergamo, Venezia, Lucca, Firenze, Milano, Torino. Nelle storie che egli ricostruisce ci imbattiamo in personalità celebri come Alfieri, Beccaria, i fratelli Verri, o in figure femminili di cui non avevamo notizia ma che appartengono a famiglie importanti.
Autentiche tranches de vie che ci coinvolgono come romanzi - straordinaria quella di Pietro Verri nel ruolo di cicisbeo innamorato -, gli episodi passati al vaglio da Bizzocchi mostrano bene come il cicisbeismo potesse all´occorrenza aprirsi a tutte le esperienze della vita - l´amore, il dono di sé, la gelosia, la fedeltà, il tradimento, l´abbandono. E se nessuna di queste storie ci fornisce la prova provata dell´esistenza di una relazione sessuale, ciò dimostra che il sentimento del pudore era, all´epoca, molto diverso dal nostro.
Il cicisbeismo sarebbe scomparso con la fine della società d´Antico Regime e l´Ottocento avrebbe perseguito un idea dell´amore e del matrimonio incompatibili con il pittoresco compromesso raggiunto da un´Italia provinciale e arretrata eppure desiderosa di recuperare il tempo perduto. Ma non sarebbero state certo le donne a beneficare del cambiamento.

il Riformista 25.7.08
Padellaro vs. il Colle, Colombo con lui Invece Concita...



Non un semplice disagio. Ma «il nostro forte disagio». In questi termini, nel suo editoriale di ieri, Antonio Padellaro ha riassunto lo stato d'animo dell'Unità di fronte alla firma apposta dal capo dello Stato in calce al lodo Alfano. La promulgazione non è andata proprio giù al giornale di Gramsci, avaro di pacche sulla spalla del Fassino tirato in ballo da Tavaroli, prodigo di denunce nei confronti di Giorgio Napolitano. Già, denunce. Perché, sostiene Padellaro, la promulgazione del lodo Alfano ha dato il via libera a una norma che rende quattro cittadini «più uguali degli altri». Quando promulga una legge il presidente della Repubblica «non esprime un'opinione personale», ma significa che «ne ha verificato la legittimità costituzionale». E il lodo Alfano, secondo il Colle, «corrisponde ai rilievi formulati dalla corte costituzionale nel 2004, quella che sancì l'incostituzionalità» del lodo Schifani. Segue appello: «Se ci rivolgiamo a Napolitano è perché in questi difficili anni ha saputo esercitare la sua alta funzione in modo ineccepibile», ma sappiamo che sono numerosi gli italiani che giudicano il lodo come un grave strappo al principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge».
«Sto col direttore». Fin qui Padellaro. E Furio Colombo? «Fermi restando i sentimenti di stima e amicizia che mi legano a questo capo dello Stato - dice l'ex direttore - ci sono delle cose che vanno dette chiaramente. Quindi, sono perfettamente d'accordo con i rilievi mossi da Padellaro nel suo editoriale». Anche l'ipotesi referendaria sollevata da Di Pietro non lascia indifferente il deputato del Pd: «Lasciare che siano i cittadini a decidere non fa mai male». 
L'imbarazzo del Pd. Visto che disagio genera ulteriore disagio, dentro il Pd l'editoriale dell'Unità qualche imbarazzo l'ha creato. Non a caso Walter Veltroni, in un attimo di pausa dagli attacchi alla legge votata dal centrodestra, è intervenuto nella querelle. Giusto per mettere a verbale la sua convinzione che «il presidente Napolitano in tutta la vicenda ha svolto con il consueto equilibrio il suo compito in una fase certamente non facile». E la firma alla legge? «Un atto dovuto», ha chiarito il segretario. Un messaggio alla suocera (Di Pietro) perché anche la nuora (Padellaro) intendesse. Morale? Le ultime uscite dell'Unità sono piaciute poco allo stato maggiore del partito. Che aspetta, con un mix tra timore e trepidazione, il cambio della guardia. Un autorevole dirigente del Pd cui non fa difetto l'ironia, dopo aver letto l'editoriale di Padellaro di ieri, se la rideva citando il titolo della rubrica della De Gregorio sul settimanale femminile di Repubblica: «Invece, Concita...». 
Quella vecchia raccolta. Nella redazione del quotidiano, che si era stretta attorno al direttore dopo l'intervista di Concita De Gregorio a "Prima comunicazione", qualche mugugno del giorno dopo per l'editoriale di Padellaro sul Colle c'è stato. Non a caso, proprio ieri, qualcuno ha tirato fuori una storia. Pare che tempo fa l'Unità avesse intenzione di raccogliere in un volumetto tutti gli articoli pubblicati da Napolitano sul giornale che fu di Gramsci. Non se ne fece nulla proprio perché dal Quirinale lasciarono cadere la proposta.

il Riformista Lettere 25.7.08
Scomuniche


Caro direttore, un mio vecchio compagno di scuola teneva appesa in salotto la scomunica del nonno, reo di aver assistito, in altri tempi, a una irriverente rappresentazione teatrale in quel di Rimini. Il fatto mi è tornato in mente leggendo dei provvedimenti che monsignor Nosiglia, vescovo di Vicenza, prenderà nei confronti di chi assisterà alle illecite celebrazioni di Sguotti e Milingo. Ringrazio, tramite il Riformista, il vescovo per la possibilità, di questi tempi rara, di farsi scomunicare, ma mi chiedo come sia tecnicamente possibile oggi prendere un tale provvedimento senza calpestare la privacy o l'articolo 19 della Costituzione. Escludendo l'auto-denuncia presso la curia, faranno pedinare i presenti dalle guardie svizzere?

Roberto Martina e-mail

giovedì 24 luglio 2008

l’Unità 24.7.08
Vendola: no a un «partitino» giustizialista di duri e puri
di Andrea Carugati


Presidente Vendola, che giudizio dà della discussione in Rifondazione di questi mesi? Non crede sia stato un dibattito lontano dalla vita reale, anche dei vostri elettori?
«C’è stata una nevrotica separazione dalla realtà, un avvitamento in una contesa intestina che talvolta ha superato i limiti della ragionevolezza. Però c’è anche un altro elemento: 40mila persone che, sfidando la calura, hanno discusso appassionatamente nei circoli anche dopo il trauma di aprile. È un segno di vitalità, una forte domanda di buona politica a cui purtroppo noi gruppi dirigenti rispondiamo in modo fragile perché siamo parte del problema, parte di una crisi ideale e culturale della sinistra».
È possibile che al congresso di Chianciano il Prc esca da tutto questo?
«Sarà possibile se il congresso sarà un pezzo del processo per rifondare Rifondazione, per rimettere in piedi una comunità: un cantiere per lenire le ferite del partito e fare tutti un passo avanti. Ma per farlo bisogna che ci liberiamo da sindromi come l’idea che ci sia qualcuno che vuole sfasciare il partito. Io sono l’ultimo rimasto del gruppo che ha fondato il Prc e per me è stato molto doloroso essere indicato come il suo dissolutore. Si è manipolata la mia mozione per attribuirle disegni che non c’erano: un’esplosione dei risentimenti e veleni, anche da parte di compagni che ho sempre considerato fratelli. Ma ormai questo è alle nostre spalle».
La sua mozione ha vinto ma non ha la maggioranza assoluta. L’ipotesi che il Prc vada alle europee con il suo simbolo può essere un modo per allargare la sua maggioranza, magari al gruppo di Grassi?
«In Europa Rifondazione ha dato vita alla Sinistra europea e ci sta con il suo simbolo: è un processo contrario a una trincea identitaria. Ci sono ancora in gioco variabili importanti, come la legge elettorale e lo sbarramento: ma io credo che il Prc debba proseguire in questo percorso con il suo simbolo. Non è un arretramento».
C’è però il tema del processo costituente a sinistra da lei proposto. I suoi avversari dicono che, con il 47%, il suo progetto è stato bocciato.
«La politica dice che abbiamo la maggioranza relativa: questo ci chiede di sentire la responsabilità di offrire a tutti un percorso che consenta la salvezza della nostra comunità, che ha vissuto un rischio di dissoluzione, e consenta a una parte più larga del partito di riconoscersi in un governo unitario».
Anche con Ferrero?
«Non si tratta di smussare dissensi strategici che ci sono. Sento una grande distanza culturale con Paolo Ferrero, perché avverto in lui il retaggio del minoritarismo di vecchie culture che invocavano l’apologia del sociale, di ciò che sta in basso, persino flirtando con il giustizialismo e l’antipolitica. Non sono solo sensibilità personali, ma differenze strategiche. Con altri compagni le differenze sono più attenuate. Il punto è: lavoriamo a un piccolo partito di duri e puri o per un Prc come pilastro di una sinistra di popolo?».
Gli incontri con le altre mozioni che lei ha proposto in questi giorni hanno dato risultati?
«Ci hanno aiutato a portare la discussione fuori dal livello delle contumelie. Abbiamo riportato la discussione alla politica e questo ha esorcizzato i fantasmi di scissione o di autodissoluzione. Oggi possiamo andare a Chianciano disarmati dai risentimenti, e rimetterci tutti in cammino per far fronte alla tempesta sociale che sta arrivando. Rifondazione non vuol dire restaurazione: il partito esiste se è la fabbrica di una sinistra più larga, non se è culto identitario o nostalgia».
Sarebbe disponibile a un passo indietro dalla segreteria se questo servisse per trovare una maggioranza più larga alla guida del Prc?
«Sono sempre disponibile a fare un passo avanti per il bene della mia comunità, non indietro. La mia era l’unica mozione che conteneva l’indicazione di un segretario ed è stata votata da 21mila persone: non c’era mai stata un’indicazione così larga, dunque non è una questione di persone ma di democrazia».
È disposto a farsi eleggere segretario solo dai suoi delegati?
«Il segretario è figlio dell’opzione politica su cui si costruisce il governo del partito. Non vogliamo soluzioni pasticciate, ma coraggiose e unitarie».
Come valuta l’esito dei congressi di Pdci e Verdi alla luce del processo costituente a sinistra?
«Lo dico con molto rispetto, ma mi sono parsi ancora più nevrotici del nostro, un rendiconto tutto interno ai gruppi dirigenti e molto aspro, nei Verdi, o scisso dalla realtà nel caso del Pdci. Questo ci fa capire quanto sia profonda la crisi di una sinistra alternativa, per questo il processo costituente deve ricostruire dalle radici, in un panorama di desertificazione a sinistra».
E il rapporto con il Pd?
«Dobbiamo giocare fino in fondo la nostra autonomia e la nostra divaricazione strategica dal Pd e contemporaneamente lavorare con pazienza per rendere largo e forte il fronte delle opposizioni. Il diluvio di aprile ha cancellato l’idea della separazione consensuale. Dove sarà possibile bisogna pensare ad alleanze col Pd: in Emilia Romagna e in Puglia, ad esempio, sarebbe folle immaginare una rottura. Governo e opposizione non sono totem, ma prospettive da affrontare in modo laico».

l’Unità 24.7.08
Prc, i primi diciassette anni
Le contraddizioni continue di una Rifondazione resistente


Nasce come movimento e una volta diventato partito conosce una seconda giovinezza nel rapporto con i movimenti, tanto leaderistico a uno sguardo esterno quanto percorso al suo interno da forze antileader. Nato per tenere uniti tutti i comunisti ha dato vita, tra una scissione e l’altra, a una decina di più o meno fortunate sigle anticapitaliste. Rifondazione comunista è un partito dalle forti contraddizioni. Rispetto alle quali è anche poca cosa che oggi, dopo un voto che ha fatto registrare il minimo storico e che ne ha decretato la scomparsa dal Parlamento, vada a un congresso divisa in 5 mozioni e senza aver scongiurato il rischio scissione.
La storia del Prc è una storia di separazioni, quella del Pdci nel ’98 è solo la più consistente e quelle del Partito comunista dei lavoratori di Ferrando e della Sinistra critica di Turigliatto sono solo le più recenti. Ma non è per la nascita dell’Iniziativa comunista nel ’94 o dei Comunisti unitari nel ’95, e poi via via nel fiorire di sigle varie, che i consensi elettorali vengono a mancare. Le percentuali salgono o scendono - dall’8,5% delle politiche del ’96 (Camera) al 4,3% delle europee del ’99, dal 7,4% delle politiche 2006 (Senato) al 3% delle ultime elezioni - perché la storia del Prc è anche fatta di scelte azzardate, che premiano e fanno pagare: far cadere un governo progressista nell’autunno ’98 pur sapendo che questo avrebbe aperto la strada alle destre e poi far parte, nel 2006, di un governo del quale era chiaro il marchio riformista moderato. Separazioni e scelte azzardate. E però la fine più volte presagita non è mai arrivata, perché quelle contraddizioni Rifondazione le ha cavalcate, spesso ricorrendo a quella giocata che piace tanto a Fausto Bertinotti, «la mossa del cavallo». Che però non può riuscire sempre, non riesce a tutti, non riesce da tutte le posizioni, soprattutto da quelle istituzionali.
Così al congresso che si apre oggi a Chianciano a pesare saranno vecchie e nuove contraddizioni, amplificate da una sconfitta che non ha precedenti e da una campagna congressuale lacerante, che ha coinvolto 45mila dei 92mila iscritti e che in gran parte è stata combattuta sulla regolarità dei nuovi tesseramenti e dell’applicazione delle norme statutarie. Come verranno gestite si saprà soltanto domenica quando, a congresso chiuso, si riuniranno i 250 membri del Comitato politico (i delegati sono 650) per eleggere il nuovo segretario. Se, come sembrava negli ultimi giorni, Nichi Vendola riuscirà a stringere con Claudio Grassi un accordo politico (nella migliore delle ipotesi) o programmatico (il minimo indispensabile) basato sulla presentazione alle europee del simbolo del Prc ma senza rinunciare all’avvio di un processo costituente della sinistra, il governatore pugliese sarà eletto. Se invece, come sembra nelle ultime ore, Paolo Ferrero riuscirà a mantenere saldo l’accordo con Essere comunisti per il rilancio del Prc come «partito sociale», saranno possibili due subordinate. La prima: Ferrero riesce a coalizzare attorno a un nome alternativo a Vendola la sua e le altre tre mozioni e porta a casa la segreteria col 53% dei voti (la mozione Vendola ha il 47%). La seconda: non tutti i delegati anti-vendola si mettono d’accordo (la terza mozione, Pegolo-Giannini, guarda con interesse alla costituente comunista del Pdci di Diliberto) e il governatore pugliese diventa segretario con la maggioranza semplice.
Contraddittorio per il Prc è stato il rapporto con il leader, Fausto Bertinotti. Quando il partito viene fondato, nel dicembre ’91, per iniziativa del Movimento della Rifondazione comunista che all’ultimo congresso del Pci si oppone alla svolta della Bolognina di Occhetto e alla nascita del Pds, Bertinotti non c’è. C’è Nichi Vendola, con Sergio Garavini e gli altri. E ci entrano poco dopo quelli di Democrazia proletaria, come Paolo Ferrero e Giovanni Russo Spena. L’allora sindacalista della Cgil, con una trentina di colleghi, arriva due anni dopo, abbandonata polemicamente la Quercia. Armando Cossutta lo vuole segretario, l’incarico gli viene affidato nel gennaio ’94. Marco Rizzo sostiene nel suo libro Perché ancora comunisti che «si iscrisse a Rifondazione direttamente da segretario». E però Bertinotti è un segretario amato dai suoi, che per 12 anni riesce a governare un partito e a fargli accettare decisioni inattese - come il rapporto col movimento no-global inaugurato col G8 di Genova del 2001, l’adesione alla Sinistra europea nel 2004, la rottura con lo stalinismo al congresso di Rimini del 2002, la svolta della nonviolenza a quello di Venezia del 2005 - nonostante abbia al suo interno una minoranza forte di quasi il 25% dei consensi come è quella di Grassi e almeno tre minoranze trotzkiste; un segretario accusato di frequentare troppo i salotti e che però riesce a portarsi dietro iscritti ed elettori da una posizione a quella opposta senza troppi scossoni o autocritiche.
Contraddittorio è anche il rapporto del Prc con le forze progressiste e col governo, rispetto al quale ha sperimentato tutte le formule: il «patto di desistenza» con l’Ulivo nel ’96 e l’appoggio esterno al primo esescutivo Prodi; la decisione di correre da solo, nel 2001; l’adesione all’Unione per le politiche del 2006 e l’entrata al governo con il Prodi II. Ogni scelta ha portato più o meno rapidamente a esiti negativi, calamitato critiche, suscitato polemiche. L’appoggio esterno finisce nell’autunno del ’98 con il voto contrario del Prc alla Finanziaria e la caduta di Prodi per un voto. Le politiche del 2001 finiscono con la vittoria del centrodestra guidato da Berlusconi («non capisco perché deve ringraziare milioni e milioni di persone quando basterebbe ringraziarne una sola, Fausto Bertinotti», disse in tv Nanni Moretti pochi giorni dopo il voto).
L’esperienza dell’Unione, dopo un biennio di distinguo, astensioni e voti contrari in Consiglio dei ministri, manifestazioni in piazza e difficoltà sempre maggiori a far votare in Aula i parlamentari secondo le decisioni prese dagli organismi dirigenti, finisce con la crisi del secondo governo Prodi innescata dai centristi Mastella e Dini e con le elezioni anticipate che riducono Rifondazione comunista a una forza extraparlamentare. Poco sopra il 3% insieme a Verdi, Pdci e Sd nella Sinistra arcobaleno guidata dal loro ex segretario Bertinotti. Colpa della campagna sul «voto utile» portata avanti dal Pd, sostengono gli esponenti del Prc. Ma ha pesato anche l’essere in balia di due spinte, contraddittorie: ottenere risultati ma non rimpere con il governo. E per Vendola l’Arcobaleno è stato percepito come un puro cartello elettorale, quando il processo di unificazione a sinistra deve avere un’altra profondità. Per Ferrero, che pure è stato ministro, Rifondazione ha sbagliato a entrare in un governo dagli equilibri così sfavorevoli e ora deve ripartire dal sociale e trascurare il rapporto con le altre forze politiche. Ne discuteranno al congresso, il primo dopo 14 anni senza Bertinotti segretario. Per il suo intervento, sabato, c’è molta attesa. Per quel che dirà e per l’accoglienza che riceverà. E poco importa se anche questa è una contraddizione.

Repubblica 24.7.08
Punti per l´intesa
"Io non faccio passi indietro mi candido e salvo la sinistra"
Vendola e il congresso: serve un patto per rifiatare
di Umberto Rosso


Propongo un accordo al partito: ripartire dal Prc, simbolo alle Europee e opposizione larga

ROMA - «Un passo indietro? Diciamo che nella mia vita non ne ho mai fatti, e quindi non ci sono abituato. Passi avanti, semmai. Quelli sì. Ero e resto candidato alla segreteria di Rifondazione. Non è in discussione. Questo partito voglio salvarlo, insieme alla sinistra».
Il congresso si apre oggi, governatore Nichi Vendola, ma Ferrero continua a sparargli contro: non ha conquistato la maggioranza, non può guidare un Prc così spaccato.
«Il 52 per cento del partito non condivide la mia mozione, ma se la mettiamo così il 60 per cento è contro quella di Ferrero, il 90 per cento non ha votato Giannini... E allora, che si fa, fermi tutti? Una maggioranza, pure se relativa, l´ho portata a casa. Non si può governare un partito solo "contro", con i "no". Invece i miei avversarsi mi ricordano tanto il Montale di Ossi di Seppia: "Codesto solo possiamo dirti, ciò che non siamo ciò che non vogliamo"».
Resta il problema dei numeri...
«Il punto è invertire la deriva dissolutiva che ci ha investito, uscire da tutti i simbolismi. Noi non siamo stati all´altezza di una sconfitta che non è stata solo politica ma ha rotto al nostro interno vincoli di fraternità. Di fronte ad un compito simile, certo, è difficile immaginare un partito guidato da una maggioranza ristretta».
Sta lanciando una mediazione, mano tesa ai rivali?
«Proporrò al congresso un forte accordo di programma, una piattaforma di alcuni punti su cui trovare una maggioranza. Anche con un orizzonte temporale limitato».
Limitato quanto?
«Diciamo un anno: il tempo per riprendere fiato, per rimettere in sesto Rifondazione. Per restituirle il piacere della convivenza, riannodare e riaprire i cantieri dell´innovazione culturale che hanno sempre accompagnato la vita del nostro partito».
I punti per un accordo?
«Tre. Rifondazione come forza-chiave per un processo di rigenerazione della sinistra. E´ una condizione necessaria, anche se non sufficiente».
La "rigenerazione" prende il posto della "costituente" della sinistra. Questione di vocabolario o concessione politica a Ferrero e compagni?
«Nessuno di noi, con la costituente, intendeva mascherare lo scioglimento del Prc. E questa nostra proposta ha politicamente vinto il congresso. Se, come credo, su tutto il dibattito ha pesato la paura, allora esorcizziamola. Andiamo alla sostanza delle cose. La sinistra è mille cantieri, non ci sono modelli da imitare».
Secondo punto per la trattativa da aprire a Chianciano.
«Prc come struttura portante dell´esperienza della Sinistra europea, che nelle prossime elezioni avrà un momento importante di verifica».
Significa che alle elezioni europee Rifondazione si presenterà con il proprio simbolo?
«Penso di sì, ma senza mettere il carro davanti ai buoi. Bisogna vedere che legge elettorale ci sarà, che tipo di sbarramento. In ogni caso, anche qui non si tratta di tornare indietro, perché il processo della Sinistra Europea è aperto da tempo, ci stiamo dentro, rappresenta la nostra bussola».
Terzo e ultimo punto di programma.
«Come costruire un fronte di larga opposizione al governo. Il ribellismo plebeo non serve a nulla, se non si mette al centro la questione del lavoro. La destra vince perché convince».
Quindi, confronto aperto con il Pd?
«In politica non ci sono dogmi da proclamare, che fanno dell´opposizione o del governo dei feticci. Ho paura di una sorta di metafisica dell´opposizione, mentre bisogna entrare nella carne viva di chi governa per rendere efficace la battaglia. L´autonomia dal Pd, la divaricazione strategica con quel partito, sono come postulati. Ma noi dobbiamo sempre fare politica, che vive anche in un confronto aspro col Pd».
Fronte largo di opposizione anche con Di Pietro?
«La battaglia per la legalità è autentica se legata alla lotta alla xenofobia e razzismo. Ma sulla sicurezza Di Pietro è ideologicamente trasversale ai due poli, e i diritti dei cittadini non si possono svendere per qualche voto in più».
Dica la verità: con la sua proposta punta a rompere le alleanze interne, ad attirare i voti di Grassi o magari di Giannini...
«Io non faccio il furbo, io mi rivolto a tutto il congresso. E non faccio il presidenzialista, come mi accusa Russo Spena, semmai sono il presidente della Regione Puglia. Non vorrei, con criteri simili, che mi dessero pure del nichilista, visto che mi chiamo Nichi».

Corriere della Sera 23,7,08
Il governatore della Puglia «Pronto a discutere di federalismo. Una resa? No, un attacco»
Vendola: voglio vedere il gioco leghista
di Gian Guido Vecchi


MILANO — «Certo che vado a vedere il gioco! Non sto qui a dire: c'è stata la riforma del Titolo V, è nel programma di governo, ormai lo dobbiamo fare per forza, quindi mi faccio il segno della croce e speriamo bene di limitare i danni. Eh no...». Nichi Vendola, presidente della Puglia nonché leader in pectore di Rifondazione comunista, non ha problemi a sedersi al tavolo con il ministro leghista Roberto Calderoli: «Siamo una grande regione d'Europa, la parte del Continente che si tuffa nel Mediterraneo e vuole essere moderna. Il Sud deve avere ambizioni e pensieri lunghi. Raccogliere e anzi lanciare la sfida.
Perciò io la accetto: prendiamo in mano la bandiera contro sprechi, parassitismo, corruzione, lentezze burocratiche, dipendenza delle burocrazie dalla politica eccetera. E ciascuno faccia fino in fondo la sua parte».
Presidente, Calderoli dice di aver ricevuto da lei «ampi assensi » sul federalismo. Vero?
«Probabile che si riferisse a un mio intervento all'Aspen. Dicevo che il federalismo non si può fare con il calcolatore».
E cioè?
«Non ha senso che ad ogni ipotesi ciascuno passi subito alla simulazione, al calcolo di vantaggi e svantaggi. O il federalismo diventa una sfida molto alta, oppure non si va da nessuna parte. Tanto più nel momento in cui c'è la percezione di una crisi economica durissima che si sta abbattendo sul Paese: una riforma di scarsa ambizione politica e culturale sarebbe travolta».
Ora Calderoli dice che il suo progetto è un'altra cosa rispetto al modello lombardo...
«Il testo lombardo per noi del Sud era una provocazione, aveva il profumo della secessione fiscale. Vedremo cosa ci sarà presentato. Però, certo, sgomberare il campo da quell'ipotesi significa passare dalla provocazione alla discussione politica, e a me va bene. Si cambia tavolo e questo tavolo, dal mio punto di vista, è utile ».
Dice di esser pronto a sedersi al tavolo con Calderoli. Non teme che nel suo partito possano contestarla?
«Ma io non propongo una resa. Sto proponendo di giocare all'attacco. Per esempio, dirò a Tremonti che non può credere di parlare con noi di federalismo e insieme commissariare le Regioni rastrellando i fondi della spesa comunitaria. Il federalismo comporta coerenza. Una griglia di valutazione meritocratica nella pubblica amministrazione è una bella sfida che riguarda la storia della nostra burocrazia e la sua subalternità al potere. Ma Brunetta non vada a caccia di capri espiatori e fantasmi: si cominci dai dirigenti... Tutti abbiamo bisogno di elevare la discussione».
Già, ma in che modo?
«Per il Mezzogiorno può essere un'occasione straordinaria di mettere a tema la "questione meridionale". Di guardare con spietatezza a noi stessi ma anche raccontare i nostri talenti e successi. Arriverà il momento in cui si guarderà quanto si è investito in infrastrutture a Nord e a Sud... La leva fiscale non può essere l'unico parametro. La Puglia, ad esempio, consuma meno del 20 per cento dell'energia che produce. Oltre l'80 lo dà al Paese. Esiste un livello in cui questo ingrediente sia valutato come merita? E ancora: la spesa pubblica...».
Bel problema...
«Sì, ma non se può parlare con formule esoteriche e ridondanti. Magari indicando la voragine nella spesa sanitaria, come se non fosse sottoposta all'aumento dei costi delle tecnologie, del personale... Il rischio è una logica dei tagli che non riduce né gli sprechi né la corruzione, ma diritti e servizi».
Pone delle condizioni?
«Dei tabù, piuttosto: unitarietà del sistema scolastico, sanitario, socio-assistenziale, dei trasporti pubblici locali. I diritti alla salute, alla scuola o l'assistenza sono universali, velocità diverse sarebbero inconcepibili, l'inizio della dissoluzione del Paese. Su questi faremmo le barricate».
E la polemica di Bossi sugli insegnanti meridionali?
«Appunto: è il Sud che anche in questo caso si fa carico di accrescere la ricchezza del Nord...».
Quindi?
«C'è bisogno di una discussione seria. Puntiamo all'idea difficilissima di una nuova convivenza, di un patto per il futuro del-l'Italia. Responsabilizzazione dei territori e solidarietà nazionale sono le due gambe su cui il federalismo può camminare. E l'invocazione di un livello più alto non è una clausola di stile. Compromessi al ribasso sarebbero spazzati via».
La sfida
«Accetto la sfida, però ciascuno deve fare fino in fondo la sua parte»

l’Unità 23.7.08
Ferrero: «La costituente è chiusa ora ricostruiamo il partito»
di Luca Sebastiani


«Non è un problema di analisi logica. È un problema politico». Paolo Ferrero, firmatario della mozione 1 al Congresso di Rifondazione che si apre domani, ha le idee chiare sul futuro della Sinistra. E del Prc. Per questo preferisce non addentrarsi nelle distinzioni grammaticali che Nichi Vendola, firmatario della mozione 2, ha utilizzato per tentare di aprire ad una parte dei sostenitori della mozione dell’ex ministro della Solidarietà sociale. «Per me - dice Ferrero - costituente e processo costituente sono esattamente la stessa cosa». Invece la priorità è «il rilancio del partito», ergo «la costituente è chiusa». Più chiaro di così.
Indubbiamente le posizioni tra le due mozioni arrivate in testa al voto degli iscritti restano ancora lontane e domani, molto probabilmente, a Chianciano la platea dei delegati sarà divisa in due. I sostenitori del governatore della Puglia (che ha raccolto il 47,3% dei voti) da una parte e quelli dell’ex ministro (40,3%) dall’altra.
Ferrero, Nichi Vendola ha detto che vuole incontrare i rappresentanti delle altre quattro mozioni per ricostruire l’unità di Rifondazione. Lo ha già visto?
«Non ancora, molto probabilmente lo vedrò domani (ndr oggi)».
Però sembra che Vendola abbia dialogato con Claudio Grassi, firmatario della sua mozione...
«Non voglio trasformare il congresso in una specie di telenovela. Preferisco attenermi alle notizie ufficiali. E vedo che Claudio ha respinto al mittente le aperture. La nostra mozione resta compatta».
Cosa pensa di questa sorta di «bilaterali» lanciati dalla mozione della maggioranza relativa?
«Noi pensiamo che la sede più opportuna per il confronto sia la Commissione politica del congresso. Crediamo che sia un luogo più trasparente, per il semplice fatto che vi siedono tutte le mozioni».
In molti hanno evocato un congresso della doppia platea, con voi da una parte e vendoliani dall’altra...
«Indubbiamente è stato un congresso molto combattuto, ma spero si riescano a trovare degli elementi di ascolto reciproco. Del resto anche durante le discussioni nei circoli, qui e là, questi elementi si sono trovati».
Quindi esclude lo spettro della scissione?
«Nessuno ne ha mai parlato, quindi credo che non si possa prendere in considerazione».
Quali sono i margini di ricomposizione?
«Questi si verificheranno nella commissione politica dove noi proporremo una gestione unitaria, di tutte le mozioni, e cercheremo una convergenza sui nostri punti prioritari».
E il segretario?
«Quello viene dopo, prima dobbiamo definire una linea politica».
Quali sono i punti qualificanti della vostra mozione?
«Per prima cosa ripartire da Rifondazione, la costituente è chiusa».
Andrete alle europee insieme ai Comunisti italiani come ha chiesto Diliberto?
«Credo che dovremmo andare alle elezioni col nostro simbolo, non credo sia il caso in questo contesto andare col Pdci. Dobbiamo rifondare il partito attraverso la ricostruzione della sua utilità sociale. E per mettere il sociale al centro abbiamo bisogno della nostra autonomia. Anche dal Pd che ha scelto la strada sbagliata. Per uscire dalla crisi bisogna scavare in basso a sinistra, il contrario d quello che fanno i democratici».
Che vuol dire scavare in basso?
«Ricostruire il conflitto tra il basso e l’alto perché l’alternativa è tra il conflitto di classe e la lotta tra poveri».
Cioè?
«Nella crisi della globalizzazione la destra rischia di essere egemone proponendo la guerra tra i poveri, cioè gestendo le paure dei cittadini e mettendoli gli uni contro gli altri. Una volta è colpa dei cinesi, un’altra dell’immigrato, un’altra ancora dello zingaro».
E come si fa opposizione?
«Appunto, ricostruendo il conflitto tra chi sta in basso e chi sta in alto. Non solo sui luoghi di lavoro, ma in un senso molto più ampio. Per chiedere gli asili, le scuole, etc. Solo così usciremo dalla crisi che ci ha travolto dopo l’esperienza del Governo Prodi».
Un'esperienza fallimentare?
«Sui punti fondamentali per i quali la gente ci aveva votato, non siamo riusciti a dare risposte concrete. Chi non arrivava a fine mese nel 2006 continua a non arrivarci ora. Chi era precario lo è restato. Tra le altre cose non abbiamo risolto il conflitto d’interessi. È anche questa mancanza che ci ha travolto».

il Riformista 24.7.08
Rifondazione. Al via oggi il congresso a Chianciano
Nichi senza numeri si affida al delegato di Cosenza
di Alessandro De Angelis


Il delegato del Prc di Cosenza Fausto Bertinotti interverrà sabato mattina, da semplice militante: «Non parlerò più di dieci minuti» ha assicurato. Ormai Fausto vive un'altra fase, umana e politica. Che forse, per chi viene da una certa storia, è un po' la stessa cosa: la rivista Alternative per il socialismo , il lavoro di preparazione della sua Fondazione, i libri. È lontano, anzi lontanissimo dai veleni che animeranno il congresso di Rifondazione che inizia oggi a Chianciano. La mozione Vendola ha ottenuto il 47 per cento dei voti, quella di Ferrero il 40, le altre tre di comunisti, più o meno irriducibili, il resto. Ma la quadra ancora non c'è: né sulla linea né sul segretario. Ancora ieri è stata una giornata di incontri, tra i vendoliani e i rappresentanti delle altre mozioni, per arrivare con una «proposta unitaria» in vista del comitato politico di domenica. Se Vendola vorrà guidare un partito non a pezzi dovrà modificare la linea. Il punto è: di quanto. Negli ultimi tempi Nichi ha ammorbidito le sue parole d'ordine: la «costituente» è diventata «processo costituente», di «nuovo centrosinistra» si parla sempre meno. L'obiettivo è rassicurare chi vede lo scioglimento del partito come fumo negli occhi. Nello specifico: Claudio Grassi, che ieri si è mostrato compatto con Ferrero ma che - almeno così dicono ambienti della sua mozione - a determinate condizioni potrebbe sganciarsi con la sua pattuglia di delegati e garantire la maggioranza a Vendola. I bertinottiani puri sono scettici: si può rallentare il processo - ad esempio presentandosi col proprio simbolo alle europee - ma mettere in discussione la costruzione di una nuova sinistra, questo no: «Grassi vuole comunistizzare il percorso. Gli va bene Vendola ma vuole eleggerlo con un'altra linea. Ma la nostra proposta non si può annacquare» dice Gianni, vicinissimo a Bertinotti. Oggi si presentano le mozioni: aprirà Vendola poi Acerbo (non Ferrero), a seguire gli altri. Ma la battaglia, come nelle migliori tradizioni è nei comitati politici da cui uscirà il documento finale.
L'alta politica, quella non c'è. E - nonostante Vendola - a più di un bertinottiano manca Fausto. Un dirigente di rango vicino a Bertinotti spiega: «Nichi è bravo ma ha un limite. Non è ancora sintonizzato sulla lunghezza d'onda necessaria. Un conto è fare il capopopolo un conto è fare il segretario dopo la sconfitta. Ancora non si cala nel ruolo del dirigente». E così - paradossalmente ma non troppo - più di Nichi la differenza potrebbe farla proprio il delegato di Cosenza. L'ultima battaglia di Bertinotti presenta una novità, e non da poco. Per la prima volta Fausto parlerà quasi come corpo estraneo nel suo partito. Già, proprio così: nel suo partito. Lui, l'uomo delle svolte, il socialista lombardiano che ha rianimato i comunisti che non volevano ammainare la loro bandiera, lui che in nome della non violenza e del rapporto con i movimenti ha portato al governo Rifondazione archiviando, con lo stalinismo, una certa visione del comunismo, ora tenterà l'ultima svolta.
Questa situazione a Fausto non piace per niente. E sabato parlerà, eccome: «Sarà meno discreto del solito», dicono i suoi. I numeri non ci sono. Ma la politica non è solo matematica, è anche suggestione, elemento evocativo, che in un'assemblea può diventare riflesso condizionato: carisma, appunto. Questa l'ultima sfida di Fausto. Sbatterà in faccia alla platea il rischio dell'estinzione della sinistra: «La sconfitta è di tali dimensioni che la ricerca delle sue cause è un'operazione di prima grandezza» ha ripetuto più volte alla redazione della sua rivista. Dirà che un ciclo si è chiuso: la sinistra è minoritaria in Italia e in Europa, e da una sconfitta così non si esce con le scorciatoie, come l'unità dei comunisti o rallentando la costruzione di un soggetto unitario e plurale come vuole Ferrero. È la stessa idea di sinistra - per Bertinotti - che è entrata in discussione: sia la terza via sia l'altermondismo. Da qui si deve ripartire. Con chi? Diliberto è uscito sui giornali per il lambrusco, la Francescato per i fischi, Rifondazione vive l'attesa della notte dei lunghi coltelli di sabato: «Chissenefrega del Pdci e dei Verdi. Va ricostruita la sinistra con chi ci sta. E soprattutto bisogna parlare a quella sinistra diffusa nel paese che non è rappresentata da questo o quel partito» afferma Gianni. I bertinottiani lo strappo (politico) lo vogliono. Certo il partito non si può rompere: bisogna pagare gli stipendi, non si può litigare sul simbolo, ma la politica con la P maiuscola, dicono, è altro. In attesa del delegato di Cosenza.

l’Unità 24.7.08
Un colpo all’Università
di Fabio Mussi


La sorte dell’università italiana è segnata, allo stato dei fatti. Segnata da un decreto «finanziario», il 112 del 25 giugno, presentato da Tremonti e approvato in nove minuti dal Consiglio dei ministri, che mina una parte essenziale delle conquiste sociali e culturali di età repubblicana. Tre o quatto norme, quasi distrattamente gettate qua e là nel testo, bastano a cambiare radicalmente, in una direzione che sembrerebbe - sembrerebbe… - priva di senso, l’università e la ricerca scientifica. Fatto questo, non c’è più bisogno di portare in Parlamento alcunché. La cosa di cui mi pare ci sia ancora poca consapevolezza, nel campo di quello che fu il centrosinistra, è che patto costituzionale e patto sociale stanno, sotto la potente e debolmente contrastata spinta della destra, rovinando insieme.
Il decreto prevede innanzitutto un costante definanziamento per i prossimi cinque anni. Cinque. Sono gli anni in cui l’Italia dovrebbe onorare gli impegni presi a Lisbona: costruire lo «spazio europeo dell’università e della ricerca», portare gli investimenti al 4.5% del pil. Parlo naturalmente non di spesa, ma di investimenti.
Anche a prescindere dal valore assoluto, fuori da una logica di merce, della conoscenza, è noto che il principale fattore di produttività economica si chiama istruzione, formazione superiore, ricerca. Ci sono stime internazionali: ogni dollaro, o euro, che metti nella ricerca, ne produce tre. Gli obiettivi di Lisbona, che altri Paesi europei hanno già raggiunto, o fortemente avvicinato, sono per il nostro irraggiungibili: ci vorrebbero nei prossimi anni incrementi fino a 40 miliardi di euro l’anno. Scendere, assomiglia al suicidio di una nazione. Formazione superiore e ricerca sono assolutamente sottofinanziati: 0.8% sul pil l’Università, 1.1% la ricerca scientifica (era 1.4%anni fa). Lisbona no, ma almeno le medie europee, almeno le medie di area OCSE! Si tratta per l’Italia di una cifra intorno ai 10 miliardi di euro aggiuntivi. Non dimenticando che negli ultimi venti anni c’è stata nel mondo una impressionante crescita degli investimenti, di cui sono stati protagonisti Stati Uniti, Cina e India, a seguire l’Europa, ma una moltitudine ancora di Paesi di tutti i continenti. Spesa pubblica e privata: in Italia lo Stato ci mette un po’ meno degli altri Stati della Ue, le imprese italiane, mediamente, clamorosamente meno delle loro sorelle europee.
Nei venti mesi del governo Prodi questa è stata una questione molto combattuta. Lo dico per personale esperienza. Quando si decise, con il primo provvedimento finanziario del 2006, con il mio dissenso di ministro, il taglio dei consumi intermedi -che poteva valere intorno ai 100 milioni di euro, norma in extremis poi revocata, si accese un torrido dibattito pubblico, paginate di giornali. Ora Tremonti- Gelmini prevedono un taglio di circa 1.5 miliardi euro nel quinquennio, e si sono letti qua e là degli articoli (per esempio sull’Unità), rari Nantes nel mare magno di una informazione sempre più conformistica e d’intrattenimento, ma nessuna discussione pubblica all’altezza del problema che si apre. Il governo di centrosinistra, nelle sue due finanziarie, aveva stabilizzato la spesa, anzi l’aveva un po’ incrementata, accompagnandola con misure di serietà. Insufficienti? Insufficienti. Con la destra si scende d’un colpo sotto il livello di sopravvivenza. Si apre semplicemente una lotta darwiniana tra istituzioni universitarie e centri di ricerca. Di dove cominceranno i tagli? Certamente riguarderanno tanto la didattica quanto la ricerca, e saranno colpiti i più giovani. Vedo che ci sono gà atenei che dichiarano di non poter rispettare la norma dell’aumento delle borse di dottorato, che era garantito dal Fondo di finanziamento 2008. Lo stesso passaggio dalla biennalità alla triennalità degli scatti di carriera (che non ha nulla a che fare con la premialità del merito e dell’impegno) colpirà soprattutto i docenti e i ricercatori più giovani, all’inizio della carriera. Una cosa è sicura: aumenteranno fortemente le tasse. E così, per un certo numero di nonni che potranno comprare qualche pacco di pasta al supermercato con la social card , ci saranno milioni di nipoti le cui famiglie dovranno versare molto molto di più. Però, com’è noto, la destra non mette le mani in tasca dei cittadini, mai e per definizione…
Ma la trappola mortale per giovani, nel decreto del governo Berlusconi, è la norma che limita il turn over al 20% delle uscite. Abbiamo il corpo docente universitario più vecchio del mondo, organizzato in una struttura di ordinari, associati e ricercatori, bizzarra e altrove sconosciuta. In pochi anni, almeno la metà dei docenti in attività andrà in pensione. Una occasione importante di riequilibrio e di rinnovamento. Se ne entra solo uno ogni cinque che escono, si brucerà una generazione intera di giovani di talento, quelli stessi che già oggi a migliaia emigrano, senza essere compensati da loro coetanei che arrivano da altri Paesi. Si ridurrà drasticamente il corpo docente, senza ridurne significativamente l’età media. Nella legge che proibisce ai giornali di pubblicare certe notizie giudiziarie in loro possesso, sarebbe opportuno allora fare un emendamento: "Di qui in avanti è proibito, per decenza, scrivere e stampare la frase: fuga dei cervelli".
È evidente che tutta questa roba non ha niente a che fare con una strategia della qualità e di innalzamento degli standard del sistema universitario. E che le nuove norme creeranno un groviglio inestricabile di problemi. Sono sicuro che lo sa bene Giulio Tremonti, visore globale e autore della geniale irresistibile gag nella quale appaiono quali responsabili del mercatismo liberista l’Illuminismo, la Rivoluzione francese e il comunismo. Lo vede talmente bene che una soluzione l’ha trovata: le università possono trasformarsi in fondazioni di diritto privato. A parte il fatto che il trasferimento diretto dallo Stato è in Italia due punti sotto la media europea (documentazione presentata al Meeting di Londra sul "Processo di Bologna" nel giugno 2007), e già molte università , oltre al gettito tutt’altro che trascurabile delle tasse degli studenti, già attingono a rilevanti risorse autoprocurate. A parte il fatto che in Italia non ci sono né i Rockfeller che mettono soldi nelle Foundations, né i Guggenheim che li mettono nell’arte, né mecenati che elargiscono con liberalità alla scienza e alla cultura (anche lì. negli Usa, non sempre disinteressatamente, magari per comprarsi l’accesso a prestigiose ed esclusive università per i figli bighelloni).
Si capisce l’idea del governo di destra: privatizzare. E magari si muoverà di certo qualche privato (e magari qualche privato che prende molti soldi dallo Stato, magari un qualche otto per mille).
Il punto è che, con tutti gli innegabili guai dei grandi sistemi pubblici, l’eccellenza è pubblica: nella sanità, nella scuola, nell’università, nella ricerca.
Che qualità, merito ed efficienza siano una esclusiva del privato, non è un fatto, ma, come diceva Norman Mailer, un "fattoide", cioè una balla: Una balla di successo, ma una balla. Tutti i nostri sistemi sono misti, c’è il pubblico e c’è il privato. Quando relazioni sono pulite, questo è un valore. Ma se si smantella il pubblico -in quei territori che hanno a che fare per esempio con la salute, il patrimonio culturale e la conoscenza- non è il moderno che arriva, è il passato che torna. Come è tornato il passato remoto con il "Lodo Alfano", un pezzo di diritto medievale scagliato nel presente. Bisogna muoversi, ora.

l’Unità 24.7.08
L’appello dei professori
Decreto incostituzionale. Salviamo gli atenei


Prevedendo la trasformazione in fondazioni di fatto si privatizza il sistema

Il recente Decreto Legge 112/2008 è un documento inquietante, che può assestare il colpo di grazia al sistema universitario nazionale.
Non ci soffermiamo su una serie di prescrizioni pur di estrema gravità (ulteriore riduzione, in tre anni, del FFO per 500 milioni di euro; trasformazione in triennali degli scatti retributivi con conseguente riduzione delle già umilianti retribuzioni del personale universitario; riduzione drastica del turnover; regole inique per la determinazione degli accessi, etc.), che, tuttavia, non raggiungono il livello di insensatezza dei principi che dovrebbero configurare il nuovo modello di sistema.
Il decreto, prevedendo ipocritamente la “possibilità” della trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato e, dunque, la privatizzazione del sistema nelle sue espressioni più consolidate,configura una formazione sicuramente incostituzionale ed anticostituzionale. È, infatti, incostituzionale una configurazione sistematica che contrasti il dettato esplicito della Carta, lì dove prevede il carattere pubblico dell’istruzione, anche della istruzione superiore. È anticostituzionale una formazione che di fatto determina una triplice discriminazione.
Da un lato sono discriminate quelle sedi che, impossibilitate a trasformarsi in fondazioni di diritto privato, andrebbero a configurare, in un sistema a doppio livello di qualità, sedi di serie B; da un lato anche le sedi maggiori e potenzialmente trasformabili in fondazioni verrebbero discriminate in ragione della diversità strutturale delle zone in cui operano: zone ricche e zone povere. Infine una odiosa discriminazione riguarderebbe i giovani, a seconda delle loro condizioni economiche e sociali.
In altre parole, viene ipotizzata una effettiva, pur se surrettizia spaccatura del Paese nell’ottusa previsione di una costellazione di sedi capaci di realizzare un sottosistema di “isole felici”, intorno alle quali, in un mare melmoso, vivacchierebbero le sedi di serie B, nelle quali si spera che andrebbe scaricata ogni possibile contestazione, tra pochi fondi e scarsa qualità di formazione culturale e di preparazione professionale.
Il decreto è un esempio dell’inguaribile provincialismo capovolto italiano, che ritiene di accedere ai processi di modernizzazione e sviluppo , raccattando, con incultura, senza cognizioni approfondite, sistemi o parti di sistema operanti altrove, in Paesi di diversa strutturazione sociale, economica e culturale, dei quali, per altro, si ignorano le pur esistenti incongruenze e tensioni, coll’arrestarsi alla impalcatura formale di essi.
In conclusione il citato decreto rappresenta un consapevole o inconsapevole contributo alla definitiva dissoluzione della identità culturale nazionale, già, purtroppo, ridotta in condizioni precarie, esponendo ad ulteriori rischi la nostra identità statale.
Riteniamo che il mondo universitario non possa più tacere e invitiamo quanti hanno a cuore il destino delle nostre Università e, con esse, del nostro Paese, a reagire con forza e determinazione, respingendo strumentali ed ipocriti ideologismi da qualsiasi parte provengano e di qualsiasi colore, nell’interesse dei nostri giovani, cui è affidato, senza retorica, l’avvenire della nostra comunità nazionale.
Fulvio Tessitore, Michele Ciliberto, Edoardo Vesentini, Nicola Cabibbo, Giorgio Salvini, Margherita Hack, Giorgio Parisi, Cesare Segre, Annibale Mottana, Giancarlo Setti, Alessandro Pizzorusso, Cesare Vasoli, Giuseppe Giarrizzo, Salvatore Califano, Luigi Radicati di Brozolo, Natalino Irti, Girolamo Arnaldi, Luciano Canfora, Giovanni Chieffi, Fausto Zevi, Arnaldo Bagnasco, Fulvio Ricci, Enrico Iachello, Giovanni Azzone, Giovanni Polara, Enrico Berti, Massimo Firpo, Alfredo Stussi, Luciano Martini, Giuseppe Cambiano, Massimo Mori, Stefano Poggi, Luigi Ruggiu, Alfonso Iacono, Giorgio Melchiori, Walter Tega, Andrea Tagliapietra, Massimo Mugnai, Enrico Rambaldi, Filippo De Rossi, Franco Caputo, Maria Bonghi Iovino, Eva Cantarella, Franco Barbagallo, Giuseppe Da Prato, Giuseppe Cacciatore, Giuseppe Cantillo, Giuseppe Lissa, Enrico Nuzzo, Fabrizio Lomonaco, Edoardo Massimilla, Domenico Conte, Beatrice Centi, Davide Bigalli, Germana Ernst, Federico Vercellone, Pasquale Smiraglia, Alberto Burgio, Giovanni Busino.
G. Mazzacca, A.G. Nazzaro, G. Gialanella, G. Vitolo, L. Della Pietra, P. De Lucia, E. Sassi, F. Donadio, G. Bosio, F. Biasutti, G. Belgioioso, L. Bianchi, G. Canziani, G. Cavallo, A. Dini, L. Fonnesu, G. C. Garfagnini, A. Giugliano, M. L. Bianchi, M. Cambi, S. Nannini, R. Pettoello, N. Panichi, A. Montano, F. Piro, L. Punzo, V. Sorge, L. Repici, F. Trabattoni, M. Sanna, G. Magnano San Lio, R. Delle Donne, A. Lanzotti, S. Gerbino, M. Fabbricino, B. M. D’Ippolito, V. Cocco, G. Scalera, P. D’Amodio, R. Trabucco, A. Magli, V. Monti, I. Bovio, A. Albano, G. Pane, L. Lirer, E.C. Barbera, G. Marino, M. Tortorelli, S. Bassi, G. Rubinacci, A. De Luca, P. Zenga, C. Campanella, M. Valletrisco, M. R. Volpe, M. Stanco, D. Patella, L. Cicala, G. Corrado, A. Nunziante Cesaro, A. Piccolo, M. Avino, C. Schettini, R. Pititto, R. Giglio, F. Carbonara, F. Minichiello, L. Pica Ciamarra, F. Piscione, G. Ventre, M. Castellano, C. Buongiovanno, V. Varchetta, R. Mastroianni, A. Testa, R. Moro, R. Viscardi, P. Donadio, P. Fiore, F. Lizzi, S. Fazio, G. Maglio, R. Pasquino, G. P. Russo, A. Gentile, M. Martirano, P. Abrescia, C. De Vita, G. Florio, R. Di Meglio, G. Miano, G. Oliviero, P. Vairo, S. Miranda, R. Romagnuolo, G. Iannone, E. Filippone, R. Acquaviva, T. Spagniuolo Vigorita, G. de Felice, M. Lapegna, L. Costabile, F. Renduzzi, S. Patalano, M. Martorelli, D. Di Gironimo, F. Renno, S. Papa, A. Marzano, A. Tarallo, P. Franciosa, V. Martinelli, F. Fimiani.

l’Unità 24.7.08
De Luna: «Post fascisti? No, sono trasformisti»
di Bruno Gravagnuolo


L’INTERVISTA Parla lo storico dell’Università di Torino: «Ormai An mette insieme cose inconciliabili: Almirante e la Resistenza, il Msi e la democrazia repubblicana». Perché? «Vogliono legittimarsi al centro e nascondere la loro storia»

E adesso i post-fascisti si buttano a sinistra. O meglio un po’ a sinistra: al centro. Col recupero della destra nella Resistenza. E dunque delle radici monarchiche o repubblicane moderate del moto resistenziale. Che Alemanno ha proclamato di voler riabilitare, nel recarsi ieri l’altro al Museo di Via Tasso a Roma. Bizzarro recupero, sebbene inedito in questa forma, poiché si unisce al salvataggio della Resistenza vista come reazione popolare all’occupazione straniera. Laddove i post-fascisti sono figli della contro-Resistenza: del Msi post-saloino.
E figli di Almirante, al quale il sindaco di Roma ha riconfermato di voler dedicare una strada. Che succede? Fine del post-fascismo? Non ne è convinto Giovanni De Luna, storico contemporaneo a Torino, studioso della Lega e dell’antifascismo. Che anzi parla di «trasformismo». Di un tentativo An «di usare in modo disinvolto e imbarazzato la storia, come al supermarket, per farne l’uso richiesto dalle circostanze». E quali circostanze? «L’irresistibile pulsione verso il centro del sistema politico», replica De Luna. E ciò «del tutto in linea con una tendenza storica in Italia dal tempo di De Pretis, che coinvolse ieri la sinistra, e la coinvolge pure oggi». Già, ma perché «supermarket» e «imbarazzo» in An? «Intanto - spiega De Luna - mettono insieme cose troppo contrastanti: Almirante e la Resistenza!». E poi «perché sono gravati da zavorra e contorsioni, a differenza della Lega e di Fi, con cui vogliono fondersi e competere». Sì, ma il battage sulla «notte futurista» a Roma e i discorsi su Ezra Pound e il 1968? «Fumisterie. Mi preoccupa più il ruolo che An può assumere rispetto all’intolleranza e il razzismo. Qui si misura quel che davvero hanno in mente...». Quanto al resto, conclude lo storico, «le revisioni sono un’altra cosa, vanno fatte a partire da memorie distinte e senza trucchi o confusioni». E ben per questo lo studioso ha curato un volume edito da ManifestoLibri che uscirà in ottobre: La piuma e la montagna. Sui delitti senza giustizia degli anni ‘60 e ‘70 contro i militanti di sinistra, a cui fecero riscontro i delitti contro i «cuori neri». Intreccio da indagare appunto «senza trasformismi». Ma sentiamo De Luna.
Professor De Luna, Alemanno a Via Tasso rivaluta la Resistenza da destra, ma insiste su Via Almirante a Roma. Il tutto dopo aver esaltato Ezra Pound come padre del ‘68. Svolta o trasformismo nei post-fascisti di oggi?
«Si avverte in loro la fatica di ricostruire un albero genealogico dignitoso, e un rapporto con la storia non impiccato a Salò. I materiali che usano sono eterogenei, contraddittori e confusi. Il che ci fa dubitare delle loro reali intenzioni. Perché è impossibile tenere dentro la Resistenza, Ezra Pund e Almirante. È come se la destra francese o Chirac, avessero voluto conciliare Petain e De Gaulle. Bisogna scegliere. E però il vizio è tipico delle classi dirigenti italiane, che usano la storia come un grande supermarket, per comprare di volta articoli da usare nell’immediato».
Non c’è anche un elemento mistificatorio? Ad esempio nel Fini semipresidenzialista che esalta il Msi democratico, e condanna il comunismo in Italia?
«Il giudizio di Fini è radicalmente sbagliato sul piano storico, sul piano dei fatti. È persino ridicolo doverlo ricordare. Il Pci partecipa all’elaborazione della Carta Costituzionale, al momento più alto della democrazia italiana. Mentre il Msi nasce in chiave eversiva, fuori dal patto costituzionale, che gli italiani stringono nel 1946, all’insegna del motto: “mai più il fascismo”. E “non mai più il comunismo”. Sì, per riprendere il tema dell’inizio, penso che si tratti proprio di trasformismo. Ovvero di una marcia verso il centro, fenomeno tipico che ha sempre attraversato il sistema politico italiano. Le ali politiche radicali, o una parte di esse, hanno sempre avvertito l’attrazione fatale verso il centro. E quando devono negare le loro origini radicali, entrano in affanno. Perché sono costrette a elaborare una nuova identità, tramite materiali estremamente confusi. Da questo punto di vista la Lega è peculiare: ha dovuto inventarsi una tradizione celtica. E riti pagani inesistenti. Mentre An non può attingere alla guide del Touring, o al folklore delle sagre paesane. Così finisce col saccheggiare a modo suo la storia italiana. Peraltro senza rispetto nemmeno per la sua storia. Rivendicare infatti la democraticità del Msi significa privare di dignità la propria biografia...»
Almirante caldeggiava la soluzione cilena negli anni ‘70, fu antisemita e repubblichino, e diceva che fascista ce lo aveva scritto in fronte...
«Già, stanno irridendo la loro stessa storia, la propria identità. Ma non lo fanno solo loro, purtroppo. Francamente lo ha fatto anche la sinistra. Perché la pulsione verso il centro non riguarda solo la destra. E la storia dei “ragazzi di Salò” di Violante andava esattamente in questa direzione: garantirsi una legittimazione al centro».
Il trasformismo post-fascista non comincia già a Fiuggi nel 1995, quando Fini parlò di antifascismo come «momento necessario di passaggio» e non come «valore in positivo»?
«Ufficialmente comincia proprio allora. All’insegna del rifiuto di riconoscere nell’antifascismo ciò che storicamente è stato in Italia. E cioè: un contenuto positivo della democrazia italiana. Il vero “di più”, per una repubblica nata dalle ceneri del fascismo, e che non poteva accontentarsi di una democrazia normale. L’Italia nel ‘900 ha prodotto il fascismo. Perciò il “di più” era fatto di valori, minoranze eroiche, istituzioni, tensioni in positivo. Quanto al Pci “totalitario”, di cui parla sempre An, esso subì l’influsso di questo valore aggiunto, di questo paradigma. Di cui fu cofondatore e artefice. Il Pci fu dalla parte della democrazia. Fino a risultarne anche trasformato».
«Paradigma» è un insieme di valori egualitari, partecipativi, universalistici e garantistici?
«Sì, e con un imperativo categorico di fondo: mai più il fascismo. Mai più lo stato totalitario»
Il politologo Carlo Galli su «l’Unità» sostiene che An è ormai finita: corporativa e nelle mani di Berlusconi e Bossi. Ma l’ambizione di An non è quella di «riempire» Fi e sostituire un Cavaliere transitato al Qurinale?
«Concordo con lei. Il progetto di Fini e di An è quello. Dubito però che il progetto possa realizzarsi. An sottovaluta il dinamismo della Lega. E anche il carisma di Berlusconi, davvero irripetibile senza la sua persona. E poi sottostimano il loro stesso svuotamento, all’ombra delle istituzioni che vanno ad occupare. In fondo lo abbiamo già visto con Bertinotti. Chi sale sullo scranno più alto della Camera, e dimentica il partito che ha alle spalle, va incontro a brutte sorprese. Rifondazione comunista, priva dell’unico segretario in grado di conferirle credibilità, si è dissolta. L’ebbrezza istituzionale per An può essere fatale».
Finiranno divorati da Berlusconi? Anche culturalmente?
«Non lo so. Ma la fatica che fanno per reinventarsi una tradizione democratica, appartiene solo a loro. Il Cavaliere non ha questo problema, non deve costruirsi una geneaologia, né un rapporto virtuoso con la storia. La zavorra e l’impaccio ce li ha An. Lega e Forza Italia sono molto più sciolte e senza contorsioni. E questo problema alla fine rende An molto più fragile politicamente».
In conclusione, che uso fare dell’antifascismo? Anticaglia o radice ancora propulsiva?
«L’antifascismo è quello che è: un valore repubblicano. Valore chiave degli ordinamenti della Repubblica. Quando ci si pone il problema dell’inclusione, dei diritti, dell’allargamento dello spazio democratico, non si può prescindere da quel valore, che è alla base degli altri valori repubblicani. Insomma, dall’antifascismo non possiamo prescinderne».

l’Unità 24.7.08
Editoria 1 e 2 ottobre gli «Stati generali». Ieri annunciato il tema, con una ricerca Iard
Giovani & Cultura, Italia fanalino di coda della Ue


La cultura è un lusso? No, se si scommette sui giovani. Sarà in controtendenza con la linea dell’attuale governo - che in questi giorni decide il ritorno ai 14 anni per la scuola dell’obbligo - l’incontro promosso dall’Associazione Italiana degli Editori, l’1 e 2 ottobre a Roma, al San Michele. Il tema degli Stati Generali dell’Editoria edizione 2008 è infatti «Scommettere sui giovani». Cui l’Aie, nell’annunciarlo, fa seguire un commento: «perché sono già agli ultimi posti in Europa»... Appunto. Dalla ricerca affidata allo Iard e presentata ieri alla stampa, ecco i dati: i giovani italiani hanno minori competenze rispetto ai coetanei dei Paesi dell’Ue (comprensione linguistica, -6% rispetto ai ragazzi tedeschi, -7% rispetto a quelli del Regno Unito, -5% rispetto alla Francia; e valori non diversi nelle competenze scientifiche); si laureano meno (il 31,8% dei 20-29enni, contro il 34,7% della Spagna, il 55,9% del Regno Unito); leggono meno (al nostro 53,8% corrisponde il 66,0% della Francia o il 72,3% della Spagna); utilizzano meno le nuove tecnologie (l’accesso a Internet nelle famiglie italiane è del 43% a fronte del 67% del Regno Unito e del 71% della Germania) e, per finire, conseguenza diretta di tutto questo, hanno un tasso di disoccupazione giovanile che è tra i più alti in Europa (il 20,3% in Italia contro il 14,4% del Regno Unito, il 18,2% della Spagna, il 19,3% della Francia e l’11,1% della Germania, ecc.).
Naturalmente libro e lettura sono strumenti fondamentali per combattere questo drammatico gap. Su questo, l’Aie fornisce alcuni dati in merito alla «familiarità» con essi: le probabilità di essere lettori, per bambini e ragazzi tra i 6 e i 19 anni, sono 2,8 in più se leggono entrambi i genitori; 3,5 in più se si nasce in una famiglia con una biblioteca di oltre 200 libri; 1,7 in più se si nasce in una regione del Nord e 1,3 in più se si nasce in una famiglia con almeno un genitore laureato. In teoria è appunto in questo divario che dovrebbe intervenire il sistema scolastico pubblico. Al San Michele gli editori si confronteranno appunto con i ministri dell’Istruzione, dei Beni Culturali Bondi e delle Politiche Giovanili, nonché con il responsabile del Plan de Fomento spagnolo (l’equivalente spagnolo del Centro per il libro e la lettura)e con il project director del National Year of Reading inglese.

l’Unità Roma 24.7.08
Red Lazio: «Sì all’alleanza con sinistra e Udc»
Prima assemblea a Frascati dell’associazione promossa da D’Alema: obiettivo le regionali del 2010
di Cesare Buquicchio


«RED NON È UNA CORRENTE, anche perché - dice l’ex consigliere regionale Ds Tonino D’Annibale - ai tempi miei per una corrente non ti chiedevano certo 100 euro d’iscrizione...!». Così, declinando, ogni esponente a modo suo, la premessa che «Riformisti e Democratici» non è una corrente, ieri si è presentata nel Lazio l’associazione promossa da Massimo D’Alema. In una affollata sala di Villa Tuscolana a Frascati gli ex ministri Paolo De Castro, Livia Turco e Pierluigi Bersani, il presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, gli assessori regionali Claudio Mancini, Mario Di Carlo e Bruno Astorre, numerosi sindaci e consiglieri comunali.
La metafora più apprezzata è stata quella dell’affluente vigoroso (Red) che porta acqua al fiume (Pd) un po’ secco. L’intenzione, sottolineata anche da Bersani, è quella di andare rapidamente al tesseramento. E a quel punto contarsi. L’idea che viene avanzata è che il partito debba essere «leggero ma non liquido» e che debba servire da palestra o da scuola per una nuova classe politica che manca ancora al Pd. E chissà se il pensiero dei convenuti è andato alla vecchia scuola dei dirigenti del Partito Comunista Italiano alle Frattocchie, solo a poche curve di distanza dalla sala di Frascati dove si svolgeva la riunione di Red Lazio.
Ma ieri a presentarsi era la costola locale di Red, e così, il tema più caldo è stato quello della sfida elettorale per le regionali del 2010. «Ci troviamo nella seconda parte della legislatura della Regione Lazio e l'associazione può essere un mezzo da utilizzare, proprio, per la rielezione del presidente Marrazzo - ha detto Antonio Rugghia, deputato Pd -. Red Lazio potrà essere un punto di riferimento di tutti. Una sorta di agorà, dove poter riproporre al centro della discussione i principali temi politici, culturali, amministrativi e sociali». È toccato ad Alessandro Mazzoli, Presidente della Provincia di Viterbo, essere più esplicito ed invocare la necessità di andare alle elezioni l’allargando l’alleanza di centrosinistra da Rifondazione comunista all’Udc. Segnali forse confermati dalla presenza in sala dell’assessore regionale al Bilancio Nieri e del consigliere regionale dei Verdi Enrico Fontana.
(Ha collaborato Eleonora Mattia)

Corriere della Sera 24.7.08
Su «Aut Aut». Dibattito tra lo studioso italiano e l'americano Arnold I. Davidson. Metodi, obiettivi e pericoli nella lettura critica dei documenti
Ginzburg: il pre-giudizio aiuta la ricerca storica
«Se non si parte da una ipotesi si rischia di non capire nulla, bisogna saper imparare dal testo»
colloquio tra Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson


Pubblichiamo uno stralcio del dialogo tra Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson, sul tema «Il mestiere dello storico e la filosofia», contenuto nel numero in uscita della rivista «Aut Aut», edita dal Saggiatore e diretta da Pier Aldo Rovatti. In questa conversazione— organizzata dal festival «vicino/lontano» di Udine, lo storico italiano affronta con il suo interlocutore (studioso americano di Foucault e autore del saggio The Emergence of Sexuality,
Harvard University Press) i problemi cognitivi ed etici con cui si confronta la storiografia nel ricostruire il passato sulla base dei documenti.

Arnold I. Davidson: Il tema dello straniamento, vale a dire entrare in un'altra prospettiva per riesaminare la nostra e capirne i presupposti epistemologici, mostra molto bene il ruolo di un certo tipo di pratica all'interno della storia, ma anche all'interno della filosofia. Lo straniamento ci consente di mettere in risalto la nostra prospettiva, e poi di esaminare, di discutere e di accettare in modo più conscio, oppure di rifiutare, la prospettiva altrui. Carlo Ginzburg ha insistito tantissimo sull'aspetto cognitivo della prospettiva. Il fatto che abbiamo tutti una prospettiva, che c'è sempre una prospettiva particolare, locale, non esclude che possiamo discutere le nostre prospettive, dibattere filosoficamente. Non si va dalla prospettiva particolare al relativismo assoluto: certo, c'è una prospettiva, ma si può argomentare intorno ad essa per valutare qualcosa che di solito non vediamo. Quindi la prospettiva ha questo aspetto conoscitivo.
Ma lo straniamento non è la sola posta in gioco, perché c'è anche una posta in gioco morale ed etica. Io penso sinceramente che lo storico non possa e non debba evitare nella sua scrittura, sempre, una prospettiva di valutazione; non soltanto di cognizione, ma di valutazione. Ogni frase scritta da uno storico implica una prospettiva di valutazione, per cui il problema è come mettere insieme il lavoro storico e la necessità di una prospettiva di valutazione. L'idea che il sapere sia sempre prospettico è un'idea fondamentale. Tuttavia, il problema per Ginzburg è che la prospettiva non si riduce a un rapporto di forza, non è soltanto politica: c'è un aspetto conoscitivo, ma c'è anche un altro aspetto che riguarda la prospettiva di valutazione.
La prospettiva di valutazione ha un ruolo nella storia che è molto diverso da quello che assume in un trattato di filosofia morale, dove troviamo i concetti classici di bene, male, giustizia, ingiustizia. Si tratta sempre di un giudizio, per così dire, che viene pronunciato dalla cattedra – questo è il bene, questo è il male – e implica il tentativo di giustificare con l'argomentazione filosofica il giudizio morale. Ma chi esprime un giudizio morale di questo tipo in un libro di storia perde un certo compito della storia, che non è quello di emettere giudizi morali di genere filosofico, anche se il giudizio morale non si può evitare.
Il problema allora è questo: cosa fa uno storico, che non può evitare impliciti giudizi etici, morali, quando questi giudizi sono al centro di un dibattito? Come può giustificare, non l'indagine storica in quanto tale, cioè i fatti, la descrizione degli eventi – perché per la prospettiva cognitiva c'è un legame con la verità che in un certo senso controlla e regola la prospettiva, che dice questo è vero, questo non lo è. C'è, insomma, un modello di verità che regola la prospettiva. Ma nel caso della moralità, qual è il quadro di regolazione? E qual è il rapporto tra la prospettiva conoscitiva, al centro del lavoro di Ginzburg, e la prospettiva di valutazione, dove c'entrano la filosofia morale e la politica?
Carlo Ginzburg: Bisogna superare l'idea illusoria che il rapporto con i testi o con le persone sia facile: la trasparenza è un inganno. Il primo aiuto forse ci viene dalla nozione di straniamento, che è stata evocata prima: un atteggiamento che ci fa guardare a un testo come a qualcosa di opaco. È un atteggiamento che può essere spontaneo; più spesso, è il frutto di una tecnica deliberata: non capire un testo come premessa per capirlo meglio, non capire una persona come premessa per capirla meglio. Diffido profondamente delle metodologie che trapassano i testi come un coltello taglia il burro. La loro apparente potenza è illusoria.
In realtà l'interprete trova solo se stesso.
La stessa cosa succede con le persone. L'idea che tutti si capiscano è illusoria. Al contrario, il fraintendimento, la difficoltà di comprensione fa parte dei rapporti normali, anche fra persone che appartengono alla stessa cultura. Questo sforzo, quindi, è necessario e passa attraverso il riconoscimento dell'opacità. Cosa dice questo testo? Cosa mi dice questa persona? Perché fa così? Io credo che domande di questo tipo debbano essere continuamente poste. Quindi bisogna autoeducarsi a farsi domande: nei confronti dei testi, per chi fa questo mestiere; nei confronti delle persone, per chiunque – perché questo fa parte del mestiere di vivere.
Ora cerco di rispondere alla domanda che mi ha posto Arnold Davidson. Direi che, anche se ammettiamo che prospettiva cognitiva e giudizio morale siano intrecciati, nel momento in cui si fa il mestiere di storico, meno si parla di morale meglio è. Ma credo che nell'idea di prospettiva ci sia anche la prospettiva morale. Nel libro del grande storico dell'arte Ernst Gombrich Arte e illusione, l'autore evoca un aneddoto: all'inizio dell'Ottocento un gruppo di pittori va nella campagna romana a dipingere lo stesso luogo e ne vengono fuori molti quadri diversi. Come mai? Ognuno di loro si accostava allo stesso paesaggio non solo con un bagaglio tecnico, ma con qualcosa che era legato alla propria formazione. In questa specie di griglia, in questo filtro mentale entrano, io credo, anche i valori morali. Bisogna sottolineare da un lato la diversità; dall'altro, la traducibilità.
Il lavoro che facciamo di fronte a un testo è di interpretarlo, e cioè, anzitutto, di tradurlo. Possiamo dire allora che c'è un conflitto fra giudizio morale e prospettiva cognitiva? Io credo di no, a patto di ammettere che la prospettiva cognitiva non è mai neutra, sebbene sia traducibile. Molti elementi entrano nella prospettiva cognitiva, inclusi gli elementi morali, politici ecc. Tutti devono, per quanto è possibile, entrare a far parte della consapevolezza. Dobbiamo diventare consapevoli dei nostri pre-giudizi. Stacco pre-giudizi, perché siamo abituati a dare alla parola pregiudizio una connotazione negativa: mentre qualche forma di pre-giudizio, cioè di giudizio anticipato, è auspicabile, come sa bene chi studia testi. Se non si parte da un'ipotesi non si capisce nulla. Certo, dobbiamo evitare di imporre il nostro pre-giudizio. Dobbiamo essere disposti a imparare dal testo.
Davidson: Vorrei ritornare sullo straniamento, perché il problema principale sta nel fatto che è difficile da attuare. È un esercizio, una pratica, una tecnica difficile, dato che non si può stare sempre nell'atteggiamento dello straniamento.
C'è però una cosa più profonda: la prospettiva cognitiva è anche una prospettiva di valutazione. A questo proposito, leggendo un testo del grande storico italiano Arnaldo Momigliano, mi ha colpito il suo atteggiamento opposto. Egli dice: «O possediamo una fede religiosa o morale, indipendente dalla storia, che ci permette di emettere giudizi sugli avvenimenti storici, oppure dobbiamo lasciare perdere il giudizio morale. Proprio perché la storia ci insegna quanti codici morali ha avuto l'umanità, non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia». Su quest'ultima affermazione sono d'accordo: non possiamo derivare il giudizio morale dalla storia. Tuttavia l'atteggiamento di Momigliano è che c'è un'opposizione fra la prospettiva morale, che per lui è astorica, e la storia in quanto tale. Se rifiutiamo questo presunto punto di vista, per così dire, dell'eternità, fuori della storia, bisogna trovare un giudizio morale all'interno della storia, che non si può derivare dalla storia, ma che è comunque all'interno della storia. Qui, però, c'è un problema, perché Carlo rifiuta l'idea che il giudizio morale sia soltanto un giudizio che viene da un rapporto di forza. Se il giudizio morale è immanente alla storia, qual è la base, il fondamento del giudizio morale che non si riduce alla storia, ma che è immanente alla storia? Dove si trova il punto di appoggio per quel difficile tipo di giudizio?
Ginzburg: Mi fa molto piacere che Arnold abbia citato Momigliano, una delle persone che hanno contato di più nella mia formazione. Ora, provo a immaginare di proseguire una delle discussioni che ho avuto con lui. Che cosa direi? Direi che a mio parere la frase citata da Davidson forse non tiene abbastanza conto del punto di vista dell'osservatore. Se ci accostiamo alla varietà di comportamenti morali partendo dall'osservatore, troviamo, paradossalmente, una via che ci può portare verso l'oggettività. In che senso? Dobbiamo distinguere tra il linguaggio dell'attore e il linguaggio dell'osservatore. Tener presente questa distinzione è utile, perché troppo spesso gli storici si comportano come ventriloqui, facendo parlare gli attori con la propria voce. Ma non credo che si debba scegliere tra i due livelli di analisi: entrambi sono necessari. Dobbiamo cercare di ascoltare i valori degli altri, anche quelli che ci appaiono dei disvalori; ma non possiamo non partire dai valori nostri, nei cui confronti un atteggiamento di assoluto distacco è impossibile, perché questo c'impedirebbe di vivere.
L'osservatore è legato a una prospettiva locale: è un uomo o una donna, appartiene a un ambiente sociale, a una comunità linguistica. Ma obiettività e investimento emotivo, politico, morale non sono incompatibili: si tratta di stabilire un rapporto tra loro. L'oggettività può emergere solo da quest'intreccio di domande e risposte.

Repubblica 24.7.08
La vera storia dei templari
Un saggio di simonetta Cerrini mette a confronto diverse fonti
Monaci, guerrieri e un po' maghi
di Susanna Nierenstein


La loro fu una rivoluzione: cavalieri antieroici frati antiascetici tolsero ai chierici il monopolio del sacro. Usarono la lingua volgare per aprire al popolo, non disdegnarono strani riti
La liturgia del giovedì santo: versato sull´altare del vino, poi veniva leccato
Non costruirono una memoria collettiva: e questo permise il nascere della leggenda

Monaci con licenza di uccidere nati tra il 1105 e il 1113, cavalieri armati eppure sottoposti al voto di povertà, castità e obbedienza al papa fin dal 1129, anno del Concilio di Troyes, guardiani della Terrasanta travolta dalle Crociate ma diffusi in tutto l´antico continente (in Italia avevano oltre 150 "case"), tanto pauperisti quanto straordinari accumulatori di ricchezze: sono questo e molto altro i Templari, cancellati dalla storia, ma non dalla leggenda, con il processo farsa per eresia che gli fece intentare il re francese Filippo il Bello e il successivo rogo che il 18 marzo 1314, sull´isola della Senna, davanti ai Giardini Reali, arse l´ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay, insieme a Geoffroy de Charny, precettore di Normandia. Combattenti mistici e potenti entrati in un mito che li ha visti in possesso del Santo Graal piuttosto che di fantastici segreti sull´Arca della Santa Alleanza con le tavole della legge consegnate da Dio a Mosè, o ancora custodi di sapienze su alcune verità riguardanti Gesù e di tesori ancora ricercati, piuttosto che detentori di un potere trasversale in grado di dominare il mondo o al contrario di una trasparenza etica diamantina destinata alle Rivoluzioni di tutti i tempi.
La Militia Salomonica Templi (titolo che deriva dalla Spianata del Tempio di Salomone, dove Baldovino II destinò a Gerusalemme la dimora dei Templari), al di là del templarismo nato e prosperato dal XIV secolo ai giorni nostri, ha però una storia vera. Ed è sulle loro origini reali che Simonetta Cerrini vuole indagare, mettendo sotto il microscopio e comparando i testi fondatori dell´ordine e della regola, nove manoscritti in latino e lingua d´oïl, tra cui uno rintracciato a Praga e studiato per la prima volta. Ne è nato un libro La rivoluzione dei templari. Una storia perduta del XII secolo (Mondadori, pagg. 238, euro 18,50).
Professoressa Cerrini, perché definisce rivoluzionaria l´intuizione di Ugo de Païens da cui nacquero i Templari?
«Perché la società del dodicesimo secolo, era divisa in una classe di oratores (la struttura ecclesiastica che gestiva il potere spirituale), in una di bellatores, laici e combattenti (che in un contesto guerriero come quello medievale erano l´equivalente dell´autorità civile, ovvero imperatori, re, nobiltà) e i laboratores, laici che costituivano il popolo senza diritti né autorità, dunque artigiani, servi, contadini. I Templari distruggono questo quadro».
In che senso?
«Sostengono da laici di essere anche chierici, laici combattenti con un´autonomia sul sacro. Alle origini, la Chiesa cristiana non prevedeva una divisione così forte come quella del XII secolo. Pensi agli imperatori, erano laici con una evidente autorità religiosa: Carlo Magno arrivò a cambiare la formulazione del "Credo". Più in generale la liturgia, le scelte teologiche e pastorali non erano affidate solo alla gerarchia ecclesiastica. Poi invece, con la Riforma gregoriana, i chierici si costituiscono parte a sé e si appropriano dell´intero potere spirituale, escludendone imperatore, re, nobili e scegliendo anche una maggior devozione e purezza, come col celibato, che fino ad allora non c´era. Dall´altra parte, il monopolio della guerra è dei laici, che diventano ben poca cosa rispetto a prima, e sono il mero braccio armato del potere spirituale. Ugo de Païens nella sua lettera manifesto rivoluziona ogni concetto e dice: noi Templari non siamo il braccio armato della Chiesa, siamo i suoi piedi, sorreggiamo il suo intero corpo ("Pes tangit terram, sed totum corpus portat") e ne facciamo parte».
E qual è il significato che lei vede in questa definizione?
«Significa che Ugo seppe uscire dallo stato di inferiorità in cui l´alto clero aveva messo il laico bellator, rivendicando la condizione più bassa, quella dei laboratores, dei poveri, uno stato attraverso cui passeranno anche religiosi come San Francesco d´Assisi e i suoi frati minori, e donne come Giovanna d´Arco».
Sembra palese anche il desiderio di tornare a un passato pregregoriano, senza separazione tra poteri spirituali e laici.
«In parte, ma Ugo non guarda a imperatori e re, quanto alla piccola nobiltà. In un certo senso "proletarizza" la regalità sacra. Ugo rivendica il valore degli umili. E apre anche alle donne. Crea una società intera dove trovavano posto mogli, suore, frati sposati o a termine, una società religiosa più ampia, dove il laico non è totalmente assoggettato al chierico».
Quali sono le circostanze storiche che generano i Templari?
«Dopo l´anno 1000, il mondo riprende a muoversi e vede nascere, come racconta splendidamente Le Goff, quello delle città, delle università, delle grandi cattedrali. Si assiste a un movimento popolare che esce dalla passività delle paure millenaristiche. In questo contesto non vedo le Crociate come guerre di conquista: lo dimostra il fatto che, dopo la vittoria, i combattenti tornano a casa e lasciano così sguarnito il territorio, che perciò ha bisogno di guardie armate: è da questa necessità che prendono vita i Templari».
Era più forte la loro natura religiosa o militare?
«Quella religiosa. Un dato che cambiò anche le regole militari: prima non esistevano eserciti fissi, mentre l´input monastico fece nascere la prima armata permanente. Anche la disciplina rigorosa copiò quella dell´ordine religioso».
Lei sottolinea l´importanza della lingua scelta per molti dei loro documenti, il francese antico, non il latino. Ci vuole spiegare meglio?
«Sì. Scelgono la lingua parlata, non esattamente langue d´oïl, perché ricca di apporti catalani, inglesi, fiamminghi, tedeschi, ungheresi. Una decisione importante perché fino ad allora alla spiritualità era riservato il latino, non esistevano trattati teologici in lingua volgare. Ugo così volle dare un accesso molto più largo a testi sacri importanti».
Chi furono i primi templari, nobili diseredati, religiosi fanatici?
«Né diseredati, né fanatici. Piccola nobiltà, ma nei Templari troviamo anche signori di rango, come nel 1125 il conte di Champagne, un altro Ugo, nei cui territori si svolgerà il Concilio di Troyes che ratificò l´ordine. Ma l´entrata dei grandi aristocratici non cambiava il livello di vita o i poteri della confraternita, che del resto non fu un luogo di upgrading sociale, almeno finché non divenne ricca e potente».
Antieroismo e antiascetismo qualificano i doveri del Templare: questo è quanto le è risultato dalla lettura dei manoscritti. Il contrario dell´immagine di guerriero sacro che ce ne siamo fatti.
«Me ne sono sorpresa anch´io. Ma il gruppo poneva binari attenti all´individuo che entrava: i laici novelli monaci tendevano a rendere eccessiva la tensione spirituale, cercavano l´ascesi, l´eremitaggio, il digiuno... ed ecco che la regola imponeva il riposo, e il mangiare a due a due sullo stesso piatto perché vi fosse un controllo reciproco. In quanto all´antieroismo, era vietata ogni forma di largesse e di vanteria: non a caso non esistono memorie delle loro gesta».
Lei individua una formula per la guarigione dei cavalli leggendo un foglio con la lampada di Wood (raggi ultravioletti). Qui sì che sembra di essere in un film sui Templari: eccoci all´uso di pratiche magico religiose. Fino a che punto si estendeva quest´aspetto inquietante e misterioso?
«Non ho trovato solo quella. Descrivo anche la liturgia del giovedì santo, dove veniva versato del vino sull´altare e poi leccato: si trova negli statuti dei templari, e, come mi ha fatto notare Barbara Frale, era una pratica seguita a Cipro dai cristiani orientali. Oppure potrei citare le reliquie con le teste di santi che possedevano. Il fatto è che in Terra Santa c´era una vita religiosa che altrove sarebbe stata giudicata eretica, abitudini e credo condivisi da religioni diverse, come il pellegrinaggio al convento greco-melchita di Nostra Signora di Saydnaya, vicino a Damasco, fatto da pellegrini cristiani, Templari ed anche musulmani».
Dunque niente eresie?
«Ma no! Il processo voluto da Filippo il Bello fu costruito su un castello di accuse di magia e eresia preparate in realtà per Bonifacio VIII: Clemente V scelse di insabbiarle e sacrificare l´ordine del Tempio».
Perché i Templari sono diventati un mito?
«Resta un mistero: certo, l´eredità ideale del Tempio non era rivendicata da nessuno; dopo la loro scomparsa era libera e i Templari non avevano neppure costruito una memoria collettiva con cui fare i conti. Comunque le recenti scoperte storiche e filologiche ci stanno restituendo dei Templari curiosamente simili ai Templari della leggenda. Templari laici, ma religiosi; Templari colti che desiderano divulgare testi escatologici facendoli tradurre in lingua volgare; Templari che praticano riti magico-religiosi; Templari che frequentano intellettuali; Templari che sono pronti a condividere liturgie e devozioni religiose con i cristiani d´Oriente (lo scisma con la Chiesa latina è del 1054), ma anche con i musulmani. La vera storia dei Templari si sta rivelando interessante come la leggenda».

Repubblica 24.7.08
Esma, la regina zingara "Vi canto la cultura Rom"
Il mio è un popolo sfortunato la cui vita è stata resa migliore proprio dalla musica. Grazie alle canzoni i Rom sono più forti
di Anna Bandettini


«So tutto quello che sta accadendo in Italia al popolo Rom e sono infelice. Per questo ho un messaggio per il vostro governo: per favore, ministri, educate i Rom invece di cacciarli, perché un popolo educato è una ricchezza per un paese. Un popolo educato sarà un popolo di buoni lavoratori e buoni cittadini: lasciate dunque che i Rom si inseriscano nella vostra società. Vedrete che è gente buona e pacifica». Chi parla è una regina. La Regina degli Zingari, come dal ‘76 è conosciuta Esma Redzepova, la più popolare cantante Rom del mondo, una bella rubiconda signora, nata in Macedonia, la cui strepitosa voce cambiò 52 anni fa un destino di povertà e sottomissione. Quindicimila concerti in 83 paesi, 586 brani, dischi di platino e d´oro, Esma oltre a diffondere la musica Rom macedone, ha cresciuto 47 bambini ed è ambasciatrice della cultura Rom nel mondo, impegnata a promuovere l´importanza delle relazioni interetniche. E´ quello che farà domani nella Chiesa di S. Francesco di Cividale del Friuli per l´unico suo concerto italiano, ospite del Mittelfest diretto da Moni Ovadia.
Signora Redzepova come ci si sente a cantare in un paese che considera il suo popolo un problema per la sicurezza?
«Sono infelice, per questo ho fatto l´appello. So che arriverà ai politici e spero che mi ascoltino. Io porto l´esempio della Macedonia, il paese dove sono nata e dove in parlamento siedono ben due Rom. Lì i bambini Rom hanno la scuola della scuola dell´obbligo, come tutti. Ma la scuola impartisce loro anche due ore di lezioni settimanali di lingua Rom per non sradicarli dalla loro cultura. Ci sono due tv in lingua Rom. E un comune, quello di Shuto Orizari dove il 95 per cento della popolazione è Rom, lo è anche il sindaco».
E lei che infanzia ha avuto?
«Sono nata a Skopie in una famiglia Rom povera ma fiera. Eravamo sei figli e mio padre era un lustrascarpe. Aveva perso la gamba destra durante la seconda guerra mondiale e perciò lo aiutavo io ogni giorno per trovare un buon posto nella piazza principale del centro città dove puliva le scarpe».
La musica?
«Mi piaceva cantare, così a 11 anni, il mio professore Stevo Teodosievski che poi sarebbe diventato mio marito, andò da mio padre e gli disse che si sarebbe preso cura di me fino al 18esimo anno per farmi studiare musica. "Diventerai una cantante famosa in tutto il mondo" mi diceva. Così è stato».
Perché ama definirsi zingara?
«Zingara è il vostro modo per definire i Rom e io sono fiera di esserlo. Rom significa popolo. Rom vuol dire uomo, romi donna e Rom è il popolo. Che c´è di più bello? Rappresento sia la cultura macedone che quella Rom. Nel concerto la prima parte è dedicata alla musica macedone, la seconda alla musica Rom».
Dia una definizione della musica Rom?
«E´ musica che viene dall´anima di un popolo che non è stato fortunato. Sono canzoni che parlano d´amore, amore materno, amore tra amanti. La musica ha reso migliore la vita dei Rom. E ne ha fatto un popolo forte».

Agenzia Radicale on line 24.7.08
Un Bertinotti "marziano" presenta le sue "alternative per il socialismo"
di Giuseppe Talarico


Dopo le recenti elezioni politiche, che hanno segnato il trionfo della destra in Italia, la riflessione a sinistra, sulle cause di una sconfitta di proporzioni così ampie e vaste, inizia a maturare e a produrre analisi degne di essere prese in considerazione. La rivista "Alternative Per Il Socialismo", presentata a Roma il 21 luglio al teatro Eliseo, della quale Fausto Bertinotti è direttore, costituisce un valido e necessario strumento di riflessione, per capire quanto avviene politicamente e culturalmente nella società italiana; così come sono importantissime le fondazioni create da altri esponenti politici. Tuttavia, ascoltandolo mentre esponeva le sue argomentazioni, rivolte ad individuare le ragioni della sconfitta sia della sinistra antagonista sia di quella riformista, ho, in alcuni momenti, provato stupore e disagio.
Per Fausto Bertinotti, che, dopo la sconfitta elettorale vuole essere un semplice militante del suo partito, la destra italiana è riuscita a raccogliere un ampio consenso nel Paese, poiché si è posta in sintonia con il processo di modernizzazione, i cui effetti si stanno dispiegando nella società italiana da moltissimo tempo. A causa della modernizzazione neo liberista, è nato in Italia, sempre secondo l'ex presidente della Camera dei Deputati, un individualismo mercantile, destinato a dare forma a stili di vita e a un sentire diffuso tra i cittadini, rispetto ai quali la sinistra è una esigua minoranza. Inoltre, l'esperienza deludente del secondo governo Prodi, ha finito con l'accentuare e determinare la distanza tra la maggioranza dei cittadini e i principali partiti della sinistra italiana. Occorre tenere presente che il capitalismo contemporaneo, con la sua vocazione universale a causa della globalizzazione, rischia di condurre l'umanità sulla soglia dell'autodistruzione, poiché fagocita e distrugge risorse, per tenere in vita un modello di sviluppo che non è più sostenibile. Il capitalismo contemporaneo genera e produce sfruttamento, oppressione, alienazione, danni ambientali, rischi gravissimi per la sorte ed il destino dell'umanità.
Questa, in sintesi, l'analisi di Fausto Bertinotti che, rispondendo alle osservazioni e alle domande delle allieve del professore Massimo Fagioli, noto psicanalista, ha, durante la presentazione della sua rivista al piccolo teatro Eliseo, espresso giudizi lusinghieri verso il movimento delle femministe, ricordandone i meriti storici, ed ha esaltato la funzione politica assolta dal movimento operario nella storia italiana ed europea.
Per Bertinotti, occorre elaborare un pensiero critico, sicché diventi di nuovo credibile una proposta politica tesa a restituire un senso ed un significato culturale ad una prospettiva di trasformazione della società e dell'economia. Soltanto così potrà ritornare ad assumere un valore culturale e politico l'idea di favorire la liberazione umana da ogni forma di oppressione, evitando di subire un ordine costituito, in cui non è possibile riconoscersi, per chiunque creda nella eguaglianza umana.
Secondo Bertinotti, lo stato borghese ha imprigionato il movimento operaio, che, per questa ragione, non è stato sufficientemente rivoluzionario. Occorre recuperare la categoria elaborata da Gramsci, quella dell'egemonia delle forze rivoluzionarie, se si vuole superare la crisi che ha investito la sinistra antagonista italiana.
Ad un certo punto, mentre Bertinotti sviluppava le sue argomentazioni, per la verità esposte con grande eleganza intellettuale e politica, mi sono chiesto se per caso si è dimenticato che il muro di Berlino è caduto il 1989; che la socialdemocrazia e la cultura riformista hanno prodotto lo stato sociale attraverso cui è stato umanizzato il capitalismo internazionale, grazie anche al pensiero di Keynes; che il marxismo ha generato miseria e infelicità, laddove si è tentato di tradurlo nella costruzione di una nuova società.
Sia per Biagio de Giovanni, autore del libro Dopo Il Comunismo, sia per Barbara Spinelli, che nel 2001 ha pubblicato un saggio sui totalitarismi intitolato il Sonno della Memoria, nella storia del novecento ci sono state due liberazioni: la prima, nel 1945, con la sconfitta del nazi-fascismo, la seconda, con la capitolazione del comunismo nell'Europa orientale, nel 1989.
Bertinotti, come molti altri intellettuali italiani, continua demagogicamente a ignorare quelle che, con linguaggio colto, vengono chiamate le repliche della storia. Certamente, visti i tanti incidenti mortali che si verificano nel mondo del lavoro, occorre rinnovare ogni sforzo per migliorare le condizioni di sicurezza nei luoghi dove gli operari, lavorando duramente, producono ricchezza; così come è giusto pretendere un nuovo stato sociale, per combattere l'esclusione e la precarietà. Ma è ammissibile, culturalmente prima che politicamente, il riferimento a pensatori come Marx e Gramsci, nell'èra della globalizzazione, mentre si affacciano all'orizzonte le nuove potenze asiatiche come l'India e la Cina?
A Bertinotti, che fa buone letture, cita Bauman e Durkheimer, sfugge la circostanza che l'epoca delle grandi narrazioni ideologiche appartiene al passato e che la stessa storia del comunismo, tragica e grandiosa al tempo stesso, deve essere consegnata alla storia del novecento, oramai definitivamente conclusa ed esaurita.
Nella sua analisi non ho notato il minimo accenno alle ragioni del declino italiano, che tanto preoccupa gli italiani, né al modo con cui restituire vitalità al nostro Paese, la cui linfa vitale pare essersi fortemente indebolita. Come Marco Pannella sostiene da anni, la vera rivoluzione, di cui il paese ha bisogno, è rappresentata da riforme efficaci, con cui rendere moderna l'Italia, non di progetti politici astratti, i quali si nutrono di visionarie narrazioni ideologiche distanti dall'epoca in cui viviamo.
A Bertinotti, in ogni caso, bisogna riconoscere il merito di provenire dal movimento operaio, con il quale ha condiviso lotte e momenti fondamentali della storia italiana, dal quale non riceve più, forse perché le sue analisi suonano oramai superate dalla cultura contemporanea, l'attenzione di un tempo.
Nel suo ultimo intervento al teatro Eliseo, l'ex presidente della Camera ha dichiarato, destando sentimenti di stupore nel mio animo, che gli intellettuali italiani non si sono mai occupati seriamente dello sfruttamento degli operai, poiché sono stati influenzati dal pensiero di Benedetto Croce e dalla corrente filosofica dell'idealismo. Dinanzi a questa perentoria affermazione, mi chiedo sconcertato: un uomo colto ed un fine intellettuale come Bertinotti, come mai ignora la figura di Pier Paolo Pasolini?
Riformisti di tutta Italia, laici, socialisti e liberali, unitevi per salvare il Paese dal baratro dove sta per precipitare!

Il Messaggero 24.7.08
Prc va a congresso, Vendola favorito
Ma la linea della costituente di sinistra è congelata. Risultato incertissimo
di cla.sa.


ROMA - Nicki Vendola è in vantaggio. Sarà costretto a congelare, almeno per un anno, la «costituente di sinistra» - che è il cuore della sua mozione - ma resta il favorito nella corsa alla segreteria di Rifondazione comunista. Ha due opzioni vincenti: affrontare lo scontro con il 47,3% della sua mozione e tentare di strappare, nel comitato politico di domenica, i pochi voti (o anche solo le astensioni) mancanti per l’elezione; oppure concordare con gli oppositori interni un compromesso fino alle europee 2009 e, pur nell’ambito di una gestione unitaria, far valere la maggioranza relativa.
Quello che inizia oggi a Chianciano è comunque un congresso dall’esito incertissimo. Tanto che nessuno si sente di escludere del tutto l’ipotesi opposta: un successo di Paolo Ferrero, qualora riuscisse a riunire le quattro mozioni anti-Vendola attorno ad un documento politico, o una terza soluzione. E, se allo stato appare meno probabile di qualche giorno fa lo scenario di una scissione, lo si deve solo all’estremo equilibrio del congresso. Dove la mozione Ferrero-Grassi ha raggiunto quota 40,2% e le altre tre mozioni si sono divise il restante (ma decisivo) 12,5%. In questo contesto nessuno intende mollare la presa sul Prc. Anche perché il congresso di Chianciano avrà inesorabilmente un carattere transitorio. E la partita di ritorno si giocherà dopo le europee.
La tesi di Vendola è rilanciare, in forme nuove, il progetto di una forza unitaria della sinistra. A Vendola guardano con speranza la Sinistra democratica e i Verdi. Anche il Pd, innanzitutto Massimo D’Alema, ha lanciato segnali di interesse. Il 50,1% però non è stato raggiunto. E le mozioni antagoniste hanno il loro comune denominatore proprio nel rifiuto della «costituente della sinistra». Vendola ha cercato la sponda di Claudio Grassi, che è il leader degli ex-cossuttiani rimasti nel Prc e che controlla un terzo dei delegati della mozione Ferrero. La sua componente non condivide le idee movimentiste, nettamente prevalenti tra gli avversari di Vendola. Vuole un partito strutturato. Vendola è pronto ad un’alleanza fondata sull’impegno a presentare Rifondazione alle europee con il proprio simbolo. A Grassi potrebbe anche bastare: Pdci, Verdi e Sd sarebbero costretti a scegliere tra una improbabile (per la soglia di sbarramento) corsa solitaria e una confluenza (nel Pd o nel Prc).
Alla griglia di partenza del congresso, comunque, le mozioni si presentano formalmente compatte. La linea ufficiale di Ferrero e Grassi è quella di tentare una composizione delle quattro mozioni sul no alla costituente, il no alla segreteria Vendola, il no ad un nuovo centrosinistra con il Pd, l’impegno ad una opposizione «sociale» al governo. Il problema è cosa succederà quando, prevedilmente, fallirà l’intesa a quattro. Qualcuno si domanda anche cosa succederà a Chianciano quando, sabato mattina, Fausto Bertinotti parlerà da semplice delegato: per la metà anti-Vendola del congresso è l’artefice primo della sconfitta elettorale e che potrebbe riservargli anche l’onta dei fischi.

Corriere del Mezzogiorno 24.7.08
Oggi il via al congresso nazionale di Chianciano
La volata di Nichi per Rifondazione
di Rosanna Lampugnani


ROMA — Oggi pomeriggio si aprirà a Chianciano il congresso di Rifondazione comunista: un appuntamento cruciale per il governatore pugliese che ha messo in gioco il proprio destino candidandosi alla guida di un partito «espulso» dal Parlamento italiano nello scorso aprile e che ambisce ad essere perno del rilancio della sinistra. Questa, in sostanza, la linea che Nichi Vendola illustrerà ai congressisti, i quali domenica eleggeranno il comitato politico nazionale che, a sua volta, eleggerà la direzione, il segretario e il tesoriere. Vendola, come è noto, pensa ad un partito di lotta e di governo come si sarebbe detto una volta - ma esclude che alleanze possano essere intrecciate con «questo Pd». Il suo antagonista è l'ex ministro Paolo Ferrero, «duro e puro» - per usare un'altra espressione d'antan - impegnato soprattutto a non far scomparire il Prc, anche se in un soggetto più vasto. Vendola nella città termale porta il successo ottenuto nei congressi pugliesi (quelli provinciali e di sezione; il regionale si farà entro il 28 ottobre), dove ha conquistato il 68% dei consensi, mentre Ferrero si è dovuto accontentare del 29% e le altre correnti minori del 3%. Vendola ha vinto soprattutto in provincia di Foggia e Brindisi (85%), mentre Ferrero ha raggiunto il 52% nella federazione di Taranto ed ha prevalso di 20 voti in quella della Bat.
A Chianciano i delegati pugliesi saranno 42: 11 di Foggia, 9 di Bari, 8 di Brindisi, 6 di Lecce, 5 di Taranto, 3 della Bat, tutti determinanti, ovviamente, per la vittoria di Vendola o di Ferrero. Al momento è il pugliese in vantaggio, con il 47,3% dei voti, sette punti in più del diretto antagonista. C'è chi dice che avrebbe la vittoria in tasca, anche se con un margine ristretto, perchè avrebbe raccolto, intorno al proprio nome, il consenso di alcuni dei tre gruppi minori. «In questo momento l'interlocuzione è a 360˚», spiega chi segue passo passo le mosse di Vendola per conquistare la leadership del Prc. Nel caso in cui dovesse vincere, i riflessi politici in Puglia sarebbero profondi. In attesa di conoscere i nuovi meccanismi elettorali per le europee (il ministro Roberto Calderoli ha annunciato che le linee guida saranno pronte prima delle vacanze estive) si può ipotizzare che Vendola-segretario resterà alla guida della Regione e che si candiderà alle europee, per confermare il ruolo di leader di partito. Eletto avrà 3 mesi per optare tra Regione e Bruxelles, cioè entro settembre. Nel caso di dimissioni dalla presidenza della Puglia il suo vice Sandro Frisullo reggerebbe le sorti della Regione, in attesa del voto, la cui data è sempre fissata dal governo. Si ricandiderà Vendola? «Escluso: non potrà mai fare contemporaneamente il segretario nazionale di Rifondazione e il governatore. Nessuno lo voterebbe per un incarico a mezzadria», spiegano nei palazzi romani. I giochi, quindi, sono tutti aperti.