L’ex leader alle assise sceglie un posto defilato, mentre il partito sembra cercare un futuro anche rinnegando il suo capo carismatico
Bertinotti, da profeta a delegato semplice "È giusto che io mi sieda là, in settima fila"
Per ora mantiene il riserbo. "Quello che ho da dire lo dirò quando salirò sul palco"
Un momento che pensava diverso per un partito che cerca di salvarsi dall’estinzione
di Sebastiano Messina
CHIANCIANO - L´uomo che aveva portato Rifondazione a conquistare la poltrona più alta di Montecitorio, e che da un giorno all´altro si è ritrovato a essere l´ex leader di un partito extraparlamentare, siede oggi in settima fila, con il passi da delegato semplice che gli pende sulla cravatta a strisce colorate («Sembra un arcobaleno», mormora un delegato con irriverente perfidia). Fausto Bertinotti sa bene che in questo partito che per dodici anni lo ha acclamato, osannato e perfino venerato oggi sono in tanti ad avercela con lui. Non gli perdonano la più amara delle sconfitte, quella che ha portato Rifondazione dal sogno del sorpasso a sinistra all´incubo dell´espulsione dal Parlamento.
Ognuno gli addebita una colpa diversa, si capisce. Non doveva entrare nel governo. Doveva chiedere più ministeri. Doveva mollare subito Prodi. Doveva restare alla guida del partito. Non doveva farsi eleggere alla presidenza della Camera. Non doveva dare l´idea che Rifondazione stesse per sciogliersi.
Ha sbagliato qui, ha sbagliato là. Come un figlio diciottenne che ha bisogno di uscire dall´ombra del padre, rinnegando quell´autorità che nella fragilità dell´adolescenza gli aveva fatto da scudo, da guscio e da faro, così oggi il diciassettenne partito che fu bertinottiano oggi cerca il suo futuro rinnegando almeno un po´ l´uomo che ne è stato il capo carismatico, il profeta mediatico, il simbolo vivente più che il segretario. Lui lo sa, conosce i suoi figli e li lascia fare. Per questo si siede in settima fila, lontano dalle poltroncine riservate ai Vendola, ai Ferrero, ai Giordano e agli ospiti più importanti. «Siediti qui, Fausto!» gli dice Vendola abbracciandolo. Ma lui ha già deciso: «No, non è giusto che io mi sieda là».
E dunque, col suo cartellino blu da delegato semplice, resta nella sua settima fila, vicino all´ex capogruppo Gennaro Migliore, il quarantenne napoletano che - non è un mistero - lui avrebbe voluto come suo successore. Ma le cose sono andate come sono andate, e oggi tutti e due tifano per il cinquantenne Vendola, il governatore pugliese dall´eloquio seducente che riesce a infilare nel suo discorso al congresso il bisogno di interrogarsi, da comunisti, «sui nostri corpi sessuati e sulla grammatica degli amori». I giornalisti lo avvistano, ma lui li stoppa subito: «Non sono io a dover declinare le attese, faccio il semplice delegato».
Sì, d´accordo, ma Rifondazione. «Quello che ho da dire lo dirò quando interverrò dal palco», ribatte con un sorriso che non ammette repliche. Se ne riparla domani, dunque.
Naturalmente, anche stavolta è il più elegante di tutti, con il suo abito di cotone beige, la camicia avorio, i mocassini sfoderati e gli occhiali tartarugati appoggiati sulla fronte. Tra l´indice e il pollice della mano sinistra tiene un sigaro spento, perfettamente tranciato a metà, che ogni tanto appoggia alla bocca per sentirne almeno l´aroma. Si alza per baciare Chiara Ingrao (interprete d´eccezione per gli ospiti stranieri), domandandole sottovoce: «Come sta papà?». Si risiede per ascoltare Vendola, ma c´è un gran viavai davanti alla settima fila. Lui stringe mani, sorride, bacia, ascolta e ogni tanto aspira il suo sigaro spento.
Ma anche il cameraman, dopo averlo inquadrato, vuole stringergli la mano. Certo, caro, grazie, auguri.
Se l´era immaginato in modo assai diverso, questo momento. Avrebbe voluto tracciare la rotta di una grande forza di sinistra, e invece si trova tra chi cerca una via di scampo all´estinzione del comunismo, dopo che la sinistra è passata - come ricorda qualcuno dal palco, senza pietà - dai tre milioni e mezzo di voti del 2006 al milione scarso del 2008, in un partito che si è fatto risucchiare nel gorgo dei vecchi vizi democristiani, quello della lotta per il potere fatta di congressi taroccati e di tessere annullate.
Non batte ciglio, Bertinotti, quando Vendola dà la colpa della sconfitta alle «intemperanze improduttive della sinistra radicale», ma inarca un sopracciglio quando Maurizio Acerbo - primo firmatario della mozione Ferrero, quella dei suoi avversari - scandisce che «oggi non servono più le televendite». Ce l´aveva con lui, che predicava il comunismo a «Porta a porta»? Forse sì e forse no. E´ lo stesso Acerbo a togliere il dubbio, un minuto dopo, rompendo il tabù degli umori antibertinottiani. «Ho letto cose assurde, che una parte dei nostri compagni avrebbero fischiato Fausto Bertinotti qui al congresso... Ebbene, io sono entrato in questo partito perché ho creduto nel progetto di Bertinotti e se oggi mi ritrovo in un´altra mozione è la dimostrazione che, forse, questo partito ha fatto un po´ di strada». Non la penso più come te, insomma, ma ti sarò sempre grato per quello che hai fatto. Bertinotti si mette il sigaro fra i denti, sorridendo, e gli batte le mani. Non avrebbe potuto ricevere un complimento migliore, dal portavoce dei suoi figli più disubbidienti.
l’Unità 25.7.08
Abbracci e fischi prima del duello
A Chianciano il congresso dei separati in casa
Un abbraccio tra i «duellanti» Vendola e Ferrero, e una selva di fischi per il messaggio del presidente della Camera Fini. Il Congresso di Rifondazione comunista entra nel vivo con la presentazione delle 5 mozioni. Secondo Vendola «bisogna costruire una vasta mobilitazione permanente, plurale, civile e sociale alle destre». Ferrero ribadisce che «Rifondazione deve costruire un’opposizione di sinistra come fece tra il 2001 e il 2006».
Le tante mani che battono al ritmo di «Bella Ciao» versione Modena City Ramblers e i fischi all’indirizzo di Fini e Schifani (molti più per Fini). Oltre a una scarsissima dose di nostalgia per il governo Prodi, nonostante oggi Rifondazione stia decisamente peggio di sei mesi fa. Questi i tre punti chiave che uniscono la platea double face del congresso di Chianciano, che per il resto si divide in modo quasi militare: parla Vendola e applaudono i suoi, parla Maurizio Acerbo, primo firmatario della mozione di Paolo Ferrero e applaudono esclusivamente i suoi. Non ci sono applausi «bipartisan» in questa pancia di Rifondazione divisa quasi a metà, separati in casa si potrebbe dire. Ma la notizia è che non volano gli stracci, e neppure i fischi reciproci. Unica piccola eccezione, quando sul maxischermo appare la foto di Bertinotti con il comandante partigiano Giovanni Pesce: cinque o sei fischi sparuti, subito cancellati dagli applausi e dalla musica di De Gregori. Per il resto, nessuna sorpresa: quando parla il principale esponente della mozione avversa, gli altri tacciono rigorosamente. E ascoltano. Anche sul banco della presidenza, dove siedono rappresentanti della varie mozioni scelti col Cencelli, va in onda la stessa scena: ognuno applaude il suo. Si fa notare solo un’anziana signora vendoliana vestita di rosso, che alla fine del discorso di Acerbo si agita sulla sedia e grida: «Adesso basta, la devi finire, tempo scaduto!».
Ma alla fine la prima giornata di un congresso che molti delegati giudicano «duro, anche un po’ violento», fila via piuttosto liscia. I rancori non sono superati, ma piuttosto metabolizzati: sono lì, ma non scatenano le reazioni di pancia. Con chi stanno i delegati lo capisci alle prime parole: «partito sociale», versus «processo costituente», Ferrero contro Vendola, i seguaci parlano a memoria. Ma complice anche l’abbraccio pubblico tra i due big, si fa strada qualche velato ottimismo sulla tenuta di quella che tutti chiamano la «comunità», cioè il partito. «Mi sa che staremo tutti insieme ancora un po’ di tempo», si lascia andare Gaetano Cataldo, 27 anni, delegato di Bari e vendoliano. «In fondo in Rifondazione ci sono state sempre idee molto diverse, tanti che come me non sono mai stati comunisti, eppure siamo arrivati fino qua. Ci tiene insieme l’idea di cambiare il mondo, o almeno di rifondare un pensiero critico». Stefano Galvani, cinquantenne romano, mozione Ferrero, è d’accordo: «Sono ancora di più i punti che ci uniscono da quelli che ci dividono». Per esempio? «Ci unisce l’idea di non rassegnarci al neoliberismo, che anche in forme temperate produce solitudine e sfruttamento». «C’è un clima più disteso rispetto a prima di arrivare a Chianciano», rincara un altro ragazzo. Quasi tutti ammettono che Rifondazione, in questi mesi di congresso, si è un po’ isolata dalla realtà, «chiusa sul proprio ombelico», come spiega il veneziano Sebastiano Borisio. «Mentre i campi rom andavano a fuoco noi stavamo chiusi a litigare tra noi, a cercare un colpevole della sconfitta», si sfoga Antonio Delli Fiori, 30enne di Brindisi. Eppure molti non ne fanno un dramma. «Quando una famiglia subisce una ferita, un lutto così grande è normale che si chiuda un po’ in se stessa», spiega Daniele Licheri, giovane delegato vendoliano di Pescara. E aggiunge: «Meglio un congresso duro come il nostro delle primarie plebiscitarie del Pd». «Lontani dalla gente? È successo molto prima del congresso, purtroppo», dice Tonia Guerra, 40enne ferreriana, che sulla questione morale non fa sconti a Vendola: «Ci dice che siamo giustizialisti? Figuriamoci, ma garantista è chi vuole una giustizia uguale per il premier e per i bimbi rom; per questo siamo andati a piazza Navona. Se pensare che chi ha il potere deve dare il buon esempio e non farsi leggi ad personam è giustizialismo, vuol dire che le parole non hanno più senso».
Un altro punto chiave è l’allergia al leaderismo, che contagia anche i vendoliani, in fondo quelli che un leader carismatico ce l’avrebbero pure. Nemmeno loro si sbilanciano sull’elezione di Nichi a segretario. Dice Sonia Pellizzari, 30enne: «Io vorrei che fosse eletto, ma come controfigura di un’idea, una sinistra al passo con il ventunesimo secolo. Il leader è un concetto che lasciamo volentieri al Pd», rincara un altro ragazzo. C’è aria di tregua, o almeno di pace armata tra i delegati. Alberto Gentilini di Udine la spiega così: «La ragione è che siamo tutti in attesa, è un congresso aperto e non ci sono certezze».
l’Unità 25.7.08
Vendola cerca l’accordo. E potrebbe trovarlo
Evita di pronunciare l’aborrita parola «costituente». Grassi apprezza, Ferrero attacca
di Simone Collini
Il governatore della Puglia è netto: non voglio sciogliere il partito. Poi avverte: non si ceda a giustizialismo e antipolitica
«IO NON HO IL PROBLEMA di fare il segretario. Ho il problema di evitare che Rifondazione comunista finisca in uno spicchio di minoritarismo, a rimorchio di culture che non sono di sinistra, come il giustizialismo e l’antipolitica». Nichi Vendola si sfoga dietro il Palamontepaschi, dopo che è già intervenuto dal palco e che dopo di lui ha parlato Maurizio Acerbo per la mozione Ferrero-Grassi. Il congresso del Prc si è aperto ma la «matassa», per usare le parole del governatore della Puglia, è ancora «ingarbugliata». A Chianciano i 650 delegati sono arrivati senza sapere quale strada imboccherà il loro partito, e se a guidarli sarà Vendola o un segretario su cui riusciranno a convergere tutte e quattro le altre mozioni. Solo domenica pomeriggio si capirà come andrà a finire. Mai come in questo caso gli interventi dal palco saranno soltanto preparativi per il gioco vero, prima nella commissione politica e poi si nel Comitato nazionale - al quale spetta la scelta del segretario - che si insedia subito dopo la fine del congresso.
Ecco perché Vendola, che nei congressi di circolo ha incassato il 47,3%, dal palco lancia alcuni chiari messaggi. Il primo, non pronunciando mai l’espressione «costituente di sinistra». Il secondo, dicendo con enfasi: «Non voglio sciogliere il mio partito». Il terzo, criticando il Pd per la «velleità di autosufficienza». Messaggi a Claudio Grassi e ai suoi delegati. La componente Essere comunisti è infatti sì contro la costituente di sinistra e un rapporto di subalternità rispetto al Pd, ma al contrario della componente che fa capo a Paolo Ferrero non è attratta dal modello di partito sociale a cui aspira l’ex ministro. Col quale Vendola ha scambiato un abbraccio all’inizio dei lavori - sotto lo sguardo di Fausto Bertinotti, seduto in settima fila - ma col quale non pensa di poter stringere un accordo. «Bisogna tornare nella società, non fuggendo dalla politica - ha detto il governatore pugliese - anzi criticando in radice qualunque sciagurata ipotesi di autonomia del social». E criticando anche, dopo che Acerbo aveva rivendicato la partecipazione alla manifestazione di piazza Navona, la tentazione di cedere alle sirene del giustizialismo («opposto del comunismo») e dell’antipolitica («getta semi di frutti che vengono poi raccolti dalla destra»).
Il messaggio è arrivato a destinazione. Grassi ha commentato positivamente le parole di Vendola sull’opposizione al governo e ha chiesto più chiarezza sul rilancio del partito e sulla presentazione alle europee con il simbolo del Prc. Non è un’apertura esplicita - e non a caso il coordinatore di Essere comunisti ha deciso di intervenire solo domani pomeriggio - ma non è neanche la chiusura di Ferrero, che non ha risparmiato dure critiche a Vendola: per il linguaggio del governatore pugliese («non servono giochi verbali che nessuno capisce») e per un passaggio sulla sconfitta del governo Prodi addebitata anche alle «intemperanze improduttive della sinistra radicale»: Ferrero si è sentito chiamato in causa e ha lamentato il fatto che «per la prima volta assistiamo a un attacco da destra dentro Rifondazione».
Parole che non impensieriscono Vendola. Tra i sostenitori della sua mozione si fanno i calcoli sul voto dei 250 membri del Comitato politico. Basterebbe che gli esponenti della mozione Pegolo-Giannini (favorevoli alla costituente dei comunisti proposta dal Pdci) si astengano per far scendere il quorum a 230, e la mozione Vendola 116 membri in quell’organismo li ha. Ma sono calcoli che potrebbero essere superflui, perché nell’area Essere comunisti si fa strada l’idea che sia sbagliato mettere veti sul segretario. Per non parlare del fatto che ieri sera i delegati vicini a Ferrero e quelli vicini a Grassi si sono incontrati in due riunioni separate. La frenata sulla costituente di Vendola sembra insomma aver funzionato. E se Claudio Fava (Sd) lamenta l’«arretramento netto», non è detto che una volta segretario Vendola non insista sulla necessità di «rifondare una grande sinistra di popolo». Che vuol dire? Il governatore pugliese (nelle parole del quale Goffredo Bettini vede «spunti di innovazione e ricerca») la mette giù così, dietro il Palamontepaschi: «Una disseminazione di cantieri, un programma, un sogno. Non mi interessano le formule, mi interessa il concetto».
l’Unità 25.7.08
Quanto pesano le cinque mozioni
Al via il settimo congresso nazionale del Prc, a Chianciano terme.
I lavori, trasmessi in diretta su Nessuno tv, si sono aperti con la lettura dei risultati dei congressi territoriali. Dopo l'approvazione formale della regolarità del percorso congressuale, è stata data lettura dei risultati ufficiali.
Sono 650 i delegati.
Mozione 1 candidato segretario è Paolo Ferrero, ex ministro del governo Prodi: 262 delegati pari a 17.542 voti (40,28%).
Mozione 2 il candidato è Nichi Vendola, presidente della regione Puglia, 307 delegati pari a 20.598 voti (47,3%).
Mozione 3 presentata da Pegolo e Giannini, 50 delegati.
Mozione 4 presentata da Claudio Bellotti, 21 delegati.
Mozione 5 di Walter De Cesaris, 10 delegati.
Corriere della Sera 25.7.08
A congresso Ferrero rinuncia alla sfida e sceglie una linea «dipietrista». Pochi applausi e qualche fischio a Bertinotti
Vendola unico candidato leader. Ma il Prc resta spaccato
CHIANCIANO — Strano congresso, quello di Rifondazione comunista. Il candidato alla segreteria è uno solo, Nichi Vendola, giacché il suo concorrente, l'ex ministro Paolo Ferrero, non si è candidato. E il vincitore, salvo sorprese al momento imprevedibili, è sempre lui, il governatore della Puglia, nonostante non abbia la maggioranza assoluta, perché Ferrero ha perso un pezzo per strada, quel Claudio Grassi (ex cossuttiano)che a sera dice che non deve esserci «un veto» su Vendola.
Non è uno scontro di leadership, questo congresso che certifica il declino di quella di Bertinotti, a cui viene riservato un tiepido applauso condito con qualche fischio. Quel che è interessante è la mutazione genetica del Prc. Diviso tra chi (Ferrero e i suoi sostenitori) si affida al dipietrismo e non offre nessuna sponda al Pd, e chi (Vendola e gli altri dirigenti di quella componente) dice no al giustizialismo, non chiude la porta al Partito Democratico e vuole dimostrare che la sinistra, questa volta, è in grado di governare. Questa Rifondazione spaccata quasi a metà non si unisce neanche sui fischi a Fini, che invia un messaggio. In compenso l'applauso a Togliatti, che appare in un video, è più bipartisan.
Dunque Ferrero sceglie Di Pietro: «Esiste o no una questione morale?». E l'ex deputato Maurizio Acerbo che illustra la sua mozione è ancora più esplicito: «Abbiamo fatto bene ad andare a piazza Navona». Sul Pd, poi, c'è un muro di sbarramento. Non va bene in nessuna versione, neanche nella «variante D'Alema», dice Ferrero. Di più, Acerbo dal palco si rivolge a Bettini, che siede in prima fila, per chiedere conto a lui e al Partito Democratico di Ottaviano Del Turco. Nei dintorni dell'altra metà di Rifondazione il clima è ben diverso. Gennaro Migliore storce il naso di fronte al dipietrismo e dice: «Io sono garantista ». Vendola è netto: «Per me il no al giustizialismo è una pregiudiziale. La questione morale? Berlinguer e Togliatti non c'entrano un cavolo. Il giustizialismo è l'opposto del comunismo». E dal palco spiega che è per la questione sociale che bisogna «scendere in piazza: non c'è bisogno di volgarità ma di politica».
Anche sul rapporto con il Pd la differenza è marcata: per Vendola «la contesa deve essere senza scontri né anatemi». La linea non è quella di Acerbo che chiede di «battere questo Partito Democratico». Anche perché, ironizza Vendola, «che dovremmo fare, uscire dalla giunta in Emilia Romagna? ». Piuttosto bisognerebbe riflettere su «certe intemperanze improduttive della sinistra radicale» della scorsa stagione del governo prodiano. Non è un caso se Bettini non nasconde le sue preferenze: «Meglio Vendola». E allora sarà pur vero, come dice Bertinotti, che «quel che importa è che vinca Nichi, perché poi la linea politica si aggiusta e si modifica ». Ma è anche vero che ieri, a Chianciano, c'erano due Prc.
M.T.M.
Repubblica 25.7.08
Rifondazione, al congresso è subito scontro
Vendola in pole position per la leadership. La mozione Ferrero si spacca
Scintille tra i due antagonisti anche su Di Pietro. La platea fischia Fini e Schifani
di Umberto Rosso
CHIANCIANO - Vendola apre. Ferrero alza il tiro. E Nichi si arrabbia, «non sono disposto ai pasticci». Però nel tormentato gioco dell´oca del Prc qualcosa si muove. Perché se nella prima giornata di congresso fra i due carissimi nemici è sempre muro contro muro, la mozione dell´ex ministro rischia di perdere il pezzo guidato da Claudio Grassi, che annuncia «non si possono mettere veti su Vendola segretario». Finisce così che in nottata i delegati di Ferrero e quelli di Grassi si riuniscono separatamente. Esultano le truppe bertinottiane, dopo la spaccatura nel fronte avversario, «Nichi è ad un passo dalla conquista della leadership». Salta anche la conferenza stampa che Ferrero puntava a convocare per rispondere a Vendola che in sostanza al partito propone: proverò a fare il segretario di tutti, con un accordo di programma di un anno, e poi liberi tutti. Non cita più la costituente della sinistra, bestia nera dei suoi avversari interni, con disappunto però di Claudio Fava, leader di Sd. Grassi dà lo stop alla conferenza stampa, «ma siamo matti, una controrelazione fuori dal palco non mi sta bene».
Dunque, baci e abbracci a beneficio delle telecamere ma, dietro le quinte, è gelo vero fra il governatore e l´ex ministro. Che si arrabbia quando il presidente della Puglia scomunica il liberismo del Pd ma anche le «intemperanze improduttive della sinistra radicale». Ferrero ci vede un siluro al suo ruolo nel governo Prodi, e quando il candidato segretario finisce di parlare sibila un velenoso «è la prima volta che qualcuno di Rifondazione mi attacca da destra per come ho fatto il ministro». E la polemica tracima e si allarga a Di Pietro, piazza Navona e il giustizialismo. «Guarda tu - mastica amaro Vendola - se ci dobbiamo ridurre a finire a rimorchio di Tonino. Ma che c´entra lui con il comunismo? Uno che vuol prendere le impronte ai bimbi rom». L´accusa a Ferrero insomma è di voler viaggiare al seguito dell´ondata antipolitica dell´ex pm. Quegli altri però rivendicano. Lo fa Maurizio Acerbo, portavoce della mozione I, «ebbene sì, a piazza Navona ci siamo andati e abbiamo fatto bene», e poi prende di mira Goffredo Bettini che in prima fila ascolta, unico politico non Cosa rossa venuto al congresso. «Al coordinatore del Pd chiediamo: dopo l´arresto di Del Turco, esiste anche per voi una questione morale?». Franco Giordano, segretario dimissionario, è deluso, «schemi vecchi, con cadute di stile». Bettini nasconde l´imbarazzo dietro un sorriso, poi spiegherà «le distanze politiche col Prc restano grandi, però stiamo a vedere». Ma ci pensa Ferrero a rilanciare il feeling con Di Pietro, «una questione morale in questo paese esiste o no, ce lo dica Vendola», con una successiva stoccata a quella che, secondo l´ex ministro, sarebbe la strada immaginata dai bertinottiani: un rapporto con il Pd de-veltronizzato. «Una variabile D´Alema nel Pd non esiste - sostiene Ferrero - sul terreno sociale la sua linea è la stessa di Veltroni, subalterna agli interessi dei padroni».
I 650 delegati fanno il tifo e si dividono. Si ritrovano uniti nei fischi a Fini e Schifani che hanno spedito messaggi di buon lavoro ai congressisti, anche perché i saluti arrivano dopo l´omaggio alla memoria del comandante partigiano Giovanni Pesce, che nel video sfila accanto a Palmiro Togliatti. E qui, invece, sono grandi applausi. Bipartisan.
il Riformista 25.7.08
Rifondazione al via le assise
Bella ciao e falce e martello al congresso
la nuova sinistra di Vendola è rosso antico
di Alessandro De Angelis
Chianciano. Parte Bella ciao , mentre il maxischermo proietta le immagini che ricordano Giovanni Pesce, comandante partigiano e gappista durante la guerra di Spagna. Un applauso - quasi liberatorio - rompe il caos calmo che ha segnato la prima giornata del congresso di Rifondazione iniziato ieri a Chianciano. Tutti in piedi, poi, quando compare un'altra figura storica della Resistenza, Enrico Boldrini, il mitico comandante Bulow. Il gran finale sono i fischi al messaggio di saluto mandato dal presidente della Camera Fini. Qualcuno urla: «Ora e sempre resistenza». Bertinotti, seduto tra i delegati, è di ghiaccio. Rifondazione è allo sbando. Si potrebbe dire: abbiamo un grande futuro alle spalle. Ma anche il genere nostalgia è sottotono. Basta respirare l'aria - quasi da vacanze termali - nel parco di fronte al Palamontepaschi dove si svolge l'assise comunista. Il caos c'è: quelli di Ferrero parlano di un congresso che ricorda la peggiore Dc. «Si rende conto che Vendola ha vinto grazie alle tessere di Eboli, Castellamare di Stabia, Portici?» dice un delegato di Mantova. Un suo compagno aggiunge: «A Cosenza la Sinistra arcobaleno ha preso 2.600 voti. Sa quanti sono stati gli iscritti a Rifondazione? 2.900. E lì ha stravinto Vendola». Ma il caos del lutto (post sconfitta) è calmo: nessuno parla di scissione, anzi si respira, tra i militanti, la voglia di restare assieme. Arrivano i dirigenti, nell'indifferenza dei più: Folena, abbronzatissimo e scarpe da barca, se la ride. Giordano stringe qualche mano, ma cammina solitario. Tortorella è di scuola: giacca, cravatta e una sola battuta: «Speriamo bene». Migliore, in versione "vasa vasa", dispensa baci alle delegate campane. Ferrero si vede quando incrocia Bertinotti e nemmeno si salutano. La star - inseguita dai taccuini - è Claudio Grassi. Arriva col codazzo, ha il sorriso adrenalinico di chi si sta giocando una partita poker. È lui che può determinare l'esito del congresso: ex cossuttiano, sta con Ferrero ma non ne condivide le parole d'ordine come «partito sociale», che tanto piace agli ex di Democrazia proletaria. Parla la lingua del Pci, da cui viene: Vendola non gli piace, ma lo considera il meno peggio di tutti. Con i suoi potrebbe dargli la maggioranza ma vuole svuotargli la linea. Nichi lo sa. I fedelissimi del governatore ostentano i muscoli: «Al comitato politico di domenica una parte si asterrà perché vuole andare con Diliberto. A quel punto eleggiamo Nichi a maggioranza» dicono. Ma Vendola prova a mediare. Quando prende la parola si capisce che vuole volare altissimo. Dipinge scenari apocalittici: «Non abbiamo perso solo le elezioni. Abbiamo perso un intero abbecedario civile, un universo di simboli, persino la cognizione di ciò che è giusto e ingiusto». Sceglie il terreno di scontro: «La solitudine operaia è il prodotto finale della scientifica frantumazione di corpi sociali che crepano di liberismo. È la solitudine di chi trova più consolazione nella cocaina che nel sindacato». Parla di destra come di «una gigantesca fabbrica di paure». Punta l'indice sul governo Prodi: «Tra governo e paese reale c'è stato un cortocircuito». Indica la mission del suo partito: «Bisogna costruire una vasta e ricca mobilitazione permanente, una opposizione plurale, civile e sociale alle destre. È il primo compito di Rifondazione». Nei fatti Vendola stende un tappeto rosso a Grassi. Non nomina mai la costituente di sinistra che era il cuore della sua mozione. Attacca il Pd: «Si è congedato da destra dalle culture politiche del Novecento». Ma lascia uno spiraglio: «Nessuno sconto, nessun anatema». Torna di moda anche il comunismo che qualche tempo fa - dentro Rifondazione - era stato declassato a «tendenza culturale»: «Il comunismo - dice Vendola - è un cammino impervio che dovremmo imparare a seminare senza la fretta di guadagnare il raccolto». Rassicura sulla falce e martello: «Io non voglio sciogliere il mio partito. Voglio che viva, ma perché viva deve essere fedele al suo nome. Fedele al compito di rifondare se stesso, un'idea del mondo, una pratica di trasformazione». Praticamente: indietro tutta. Si riparte così: falce e martello alle prossime europee e parole d'ordine antiche. A microfoni spenti i vendoliani la mettono in prosa: «Portiamo a casa il segretario, poi si vede». Bettini, in prima fila, incassa il risultato. Rispetto a D'Alema che su Vendola aveva scommesso, eccome, afferma: «Ci sono distanze molto grandi sia sulla lettura delle ragioni della sconfitta sia sulle prospettive da dare alle forze progressiste e democratiche». Ma un cuneo, nella mozione Ferrero, Vendola forse l'ha insinuato. L'ex ministro lo boccia tout court: «Non vedo svolte di linea politica». Più sfumato Grassi: «Ho apprezzato che non abbia parlato della costituente. Mancano però parole chiare sul rilancio di Rifondazione». Da oggi, si tratta. Il goodbye Lenin è rimandato.
l’Unità 25.7.08
L’allarme di Amnesty: l’Italia discrimina i rom
Il ministro dell’Interno: tutto falso. Ma in Europa Barrot attende il rapporto di Maroni
AMNESTY INTERNATIONAL ha inviato una lettera ai ministri europei dell’Interno e della Giustizia, riuniti ieri a Bruxelles, per condannare «gli atti di discriminazione nei confronti delle comunità rom in Italia, culminati nella raccolta di informazioni sull’origine etnica e la religione, nonché in quella delle impronte digitali, anche di minori».
Nicolas Beger, direttore dell’Ufficio di Amnesty International presso l’Unione europea condanna la scelta dei censimenti: anche avendo esteso la raccolta delle impronte a tutta la popolazione italiana a partire dal 2010 «non cambia nulla se nel frattempo il censimento dei rom continua». Impronte, ma non solo. L’allarme di Amnesty tira in ballo anche le responsabilità della politica: «L’azione delle autorità si è sviluppata in un clima di virulenta retorica anti-rom da parte di esponenti politici nazionali e locali. Raramente gli autori sono stati chiamati a rispondere delle proprie dichiarazioni xenofobe, le quali hanno contribuito ad alimentare e legittimare atti di violenza da parte dei cittadini». Conclude Beger: «Dobbiamo essere chiari: stiamo assistendo a una caccia alle streghe presentata come una serie di “misure di sicurezza”. Quello che è certo è che ora in Italia c’è un effettivo problema di sicurezza: quella dei rom». Per questo Amnesty chiede, tra le altre cose di «riesaminare lo stato d’emergenza e gli atti e le misure derivanti dalla sua adozione, per garantirne la compatibilità col diritto internazionale ed europeo».
La denuncia non scuote il ministro dell’Interno Roberto Maroni, a Bruxelles con i colleghi europei, usa le vie spicce: «È tutto falso. Avete letto l’ordinanza? Si parla di Rom? Si parla di impronte digitali? No. Allora di cosa stiamo parlando? È ora di finirla con le falsità».
Gianni Pittella, presidente della delegazione italiana nel Pse, chiarisce: «Grazie alla nostra azione che ha condotto ad un duro richiamo del Parlamento europeo, ora nelle circolari emanate ieri dal Viminale non si parla più di impronte per i minori di 6 anni se non in casi eccezionali, e per tutti i minori di 14 anni viene prevista la necessità di autorizzazione della procura e del Tribunale dei minori». Intanto il commissario Ue alla Giustizia, libertà e sicurezza, Jacques Barrot, ha ribadito che entro la fine del mese attende il rapporto del ministro dell’Interno italiano.
Intanto ieri è iniziata da Roma la visita degli esperti dell’Osce nei campi rom del nostro Paese. Andrzej Mirga, consigliere anziano per le tematiche rom, ha chiarito: «L’obiettivo della visita consiste nella volontà di lavorare insieme con le autorità italiane per porre le linee guida con cui affrontare la questione della sicurezza in linea con le raccomandazioni europee».
l’Unità 25.7.08
Università. Protestano i rettori: «Così peggiora la ricerca e si impedisce l’accesso in ruolo ai giovani»
«Il Paese deve sapere che con tale misura, se mantenuta e non modificata, si determinerà una condizione finanziaria del tutto incontrollabile e ingestibile, con effetti dirompenti per gli atenei». Queste il duro giudizio della Assemblea della Conferenza dei rettori (Crui) sulla manovra finanziaria predisposta dal Governo e appena votato dalla Camera dei Deputati.
In una nota diffusa al termine della riunione, la Crui «ribadisce la valutazione fortemente negativà al provvedimento». «Il decreto 112 - si legge in una nota - renderà sempre più difficile l'ingresso nei ruoli di giovani di valore; peggiorerà il livello di funzionalità delle Università, anche come conseguenza dell'ulteriore mortificazione delle condizioni retributive del personale tecnico e amministrativo; diventerà sempre più difficile se non impossibile reggere alla concorrenza/collaborazione in atto a livello internazionale; si annullerà di fatto il fondamento stesso dell'autonomia universitaria, come definita negli anni '90, basata sulla gestione responsabile dei budget». I rettori affrontano anche il tema della trasformazione degli Atenei in fondazioni: «D'altra parte evidente che, in un simile contesto, perde qualsiasi credibilità anche la proposta, che andrebbe in ogni caso ben altrimenti approfondita e verificata nelle sue implicazioni e nella sua effettiva attuabilità, di trasformare le università in fondazioni».
l’Unità 25.7.08
Stupidi nazi, il vostro idolo è ebreo!
di Alberto Crespi
Il ragazzo si esibisce e conquista le falangi naziste. Poi lui capirà cosa devono aspettarsi gli ebrei e proverà a convincerli inutilmente
Il film del grande regista è del 2000 Ci sono voluti otto anni per trovare una distribuzione. Non è
il suo migliore ma...
PRIMEFILM È di Herzog e basterebbe. Ma «Invincibile» è insieme una pagina di storia molto triste e un monito per quanti non vogliono ascoltare le cassandre. Torniamo in Germania, tra camicie grige e un ragazzo fortissimo che diventa il loro modello...
Ci saranno stati davvero, negli shtetl ebrei dell’Europa centrale, dei profeti inascoltati che all’alba degli anni 30 arringavano le folle gridando: «Stiamo attenti, fratelli, perché quelli ci odiano e ci metteranno nei forni». Ci saranno stati, e saranno stati presi per matti. Qualche anno fa un film come Train de vie ha raccontato una storia simile, ma trattandosi di una fiaba avveniva il miracolo: lo scemo del paese veniva ascoltato e gli ebrei, travestiti da tedeschi, montavano tutti su un treno che li portava verso la salvezza. Invece Zishe Breitbart, il protagonista del film Invincibile di Werner Herzog, è un personaggio storico e come tale non viene creduto. Il suo destino è quello delle Cassandre: morire giovane, e lasciare il proprio popolo nei guai.
Invincibile è un film che Werner Herzog, il grande regista tedesco di Aguirre e di Fitzcarraldo, ha diretto nel 2000. L’anno successivo, il 2001, venne presentato alla Mostra di Venezia, ma il Lido non fu passaporto sufficiente per una tempestiva distribuzione in Italia. Esce oggi, in piena estate, distribuito dalla Ripley. Non è il capolavoro di Herzog, che da un po’ di anni è assai più convincente quando dirige documentari, piuttosto che nei film di finzione. Ma merita un’occhiata per la storia che racconta. Storia che andiamo, ora, a riassumere.
Nella Germania a cavallo fra il 1932 e il 1933, mentre il nazismo uscito vincitore dalle elezioni si insedia e comincia a «macinare», un giovanotto grande come una montagna arriva a Berlino da un villaggio ai confini con la Polonia. Si chiama Zishe Breitbart, è il fabbro del paese, ha poco più di vent’anni ed è dotato di forza sovrumana. Al paesello, è diventato famoso atterrando il forzuto di un circo in tournée. A Berlino lo aspetta il leggendario Erik Jan Hanussen, un bizzarro impresario e illusionista che sogna di fondare, sotto l’egida del Fuhrer, il Ministero delle Arti Occulte. Sotto la guida di Hanussen, Zishe comincia ad esibirsi nei locali di Berlino davanti a gruppi adoranti di SA. Diventa ben presto la «bestia bionda» per eccellenza, un novello Sigfrido, il prototipo del maschio ariano che il nazismo si accinge ad imporre come modello a tutta la gioventù del Reich millenario. Questa è la storia del film, ed è Storia, con la «s» maiuscola. Sia Zishe che Hanussen sono personaggi autentici (il secondo era già stato immortalato, nel film omonimo, dall’ungherese Istvan Szabo: lo interpretava Klaus Maria Brandauer). Piccolo dettaglio: sia il forzuto che il veggente erano ebrei.
Il vero nome di Hanussen era Steinschneider. Questi due campioni della propaganda hitleriana appartenevano al popolo che Hitler voleva distruggere. Hanussen, che era pappa e ciccia con i nazisti e che grazie alle sue conoscenze aveva potuto «predire» l’incendio del Reichstag, venne assassinato all’inizio del 1933: sapeva troppe cose, oltre ad essere un ebreo. Zishe, invece, fu - come dicevamo - un profeta inascoltato. Nel film lo vediamo tornare al suo villaggio e ammonire gli anziani sui pericoli che corrono; ma quelli lo deridono. Figurarsi se i tedeschi ce l’hanno con noi, gli dicono: semmai è dai russi che dobbiamo guardarci. Nel film, Zishe muore in modo stupido: di tetano, per una banalissima ferita che si infligge da solo durante una prova di forza. La sua parola rimane lettera morta: nel giro di pochi anni si farà carne e sangue, e sappiamo bene come.
Lo Zishe di Herzog ricorda molto un altro «idiota saggio» del suo cinema, il misterioso Kaspar Hauser dell’Enigma, uno dei suoi film più belli. Sono folli che sembrano sbucare all’improvviso da un’altra dimensione, portatori di un verbo che l’umanità non è ancora pronta a capire. Peccato che il film non abbia quella forza e quel mistero. Forse avrete notato che, raccontandovi la trama, vi abbiamo svelato l’identità ebrea di Zishe e del suo mentore solo nell’ultima riga del capoverso. Come diceva Godard, il racconto di una trama è il gesto critico primario, implica già un giudizio sul film. Herzog non può che dichiarare l’ebraismo dei personaggi fin dalla prima inquadratura, che vede Zishe sfottuto in una locanda da alcuni «gentili» molto maleducati e molto rozzi. In fondo il problema del film è tutto lì: il suo fascino sta nell’enunciazione del suo assunto, e lo svolgimento non può che risultare inferiore. Ciò non toglie che il film sia, anche oggi, un grande monito: siamo ancora circondati da Cassandre e forse, a volte, sarebbe bene ascoltarle, se non altro perché sotto le mura di Troia i coturnati achei, con i loro cavalli di legno traditori, sono sempre in agguato.
Zishe è il culturista finlandese Jouko Ahola, un non attore che non ha il pathos di altri «dilettanti» herzoghiani. Hanussen è l’inglese Tim Roth. Il film più «tedesco» degli ultimi anni ha attori che vengono da mezza Europa. Un segno dei tempi che non sempre è sinonimo di grande cinema.
l’Unità 25.7.08
Pianeta Terra, 49 luoghi dove il boia colpisce ancora
di Elena Doni
La punizione di uccidere chi ha ucciso è incomparabilmente più grande del delitto stesso
L’omicidio in base a una sentenza è incomparabilmente più atroce che non l’omicidio del malfattore
L’idiota, Fëdor Mikhailovic Dostoevskij
IL RAPPORTO Col premio all’«abolizionista» Prodi, ecco le cifre per il 2007: decresce il numero dei Paesi ma, macabro paradosso, aumentano le esecuzioni. Cina in testa. E, in Iran e Arabia, cresce la spettacolarizzazione di questa barbarie
È spaventoso constatare quanto è facile in tanti paesi perdere la vita, senza colpa o per una piccola colpa, per mano del governo o del potere religioso. Può succedere nei democraticissimi Stati Uniti come nel paradiso tropicale delle Bahamas o nella culla di una civiltà millenaria come l’Egitto. Può succedere, per l’esattezza, in 49 stati: a volte dopo un regolamentare processo nel quale l’imputato ha avuto modo di difendersi ma – come sanno tutti gli appassionati di cinema che hanno visto magari le tre versioni de La parola ai giurati – questo non esclude affatto che si verifichino errori giudiziari anche in America. Succede molto più spesso in paesi che hanno governi autoritari o dove la religione, alleata coi governi, impone di punire con la morte quelle che ai nostri occhi europei, invece, sono trasgressioni e non crimini: l’adulterio, l’omosessualità, la bestemmia.
E fa paura vedere quanto poco vale la vita umana agli occhi del potere, quanto irregolari sono i processi, quanto poco osservate sono le procedute, quanto crudeli sono le detenzioni e quanto oscena è la spettacolarizzazione delle sentenze capitali.
Salvo poi scoprire che in Uzbekistan, paese asiatico niente affatto lodevole dal punto di vista del rispetto dei diritti umani, un sondaggio ha stabilito che il 92% della popolazione è contrarissimo alla pena di morte.
L’occasione per fare il punto della situazione è stata la presentazione del Rapporto 2008 sulla pena di morte nel mondo e la consegna a Romano Prodi del premio «L’abolizionista dell’anno». L’uno curato, l’altro promosso da Nessuno tocchi Caino. Il premio è stato conferito a Prodi perché nel dicembre scorso da presidente del Consiglio, ha portato al successo all’Assemblea Generale dell’Onu la Risoluzione per la moratoria delle esecuzioni capitali. «Non è stato solo merito mio – si è schermito Prodi – è stato un successo ottenuto facendo un gioco di squadra al quale molti hanno partecipato. Al Palazzo di vetro avevamo avuto delusioni in passato – causate, ebbene sì, anche da alcuni paesi europei – questa volta invece c’è stata una notevole ampiezza di consensi. Quello per una moratoria generale della pena di morte è un cammino irreversibile».
Un filo di speranza viene anche dalle cifre: i paesi che mantengono la pena capitale sono oggi 49, mentre nel 2006 erano 51 e nel 2005 ben 54. Ciò nonostante è aumentato il numero delle esecuzioni capitali nel mondo: sono state almeno 5.851 nel 2007, 216 più dell’anno precedente.
Cifre forse sottostimate perché molti paesi non forniscono dati ufficiali e in alcuni casi il numero dei condannati a morte è addirittura segreto di Stato. I tre paesi che con più frequenza fanno lavorare il boia sono Cina, Iran e Arabia Saudita. Per la Cina il rapporto di Nessuno tocchi Caino parla di almeno 5000 sentenze eseguite, forse un migliaio meno dell’anno precedente, prima che venisse attribuito alla Corte Suprema del Popolo il potere esclusivo di approvare le condanne a morte. Una decisione che probabilmente ha indotto i tribunali cinesi a una maggiore prudenza nell’emettere sentenze capitali.
Secondo in questa orribile classifica è l’Iran, dove almeno 355 persone sono state messe a morte nel 2007, mentre nel 2008 le esecuzioni di cui si è avuto notizia sono state 127. Le ultime tre sono state eseguite pochissimi giorni fa (la notizia è del 23 luglio): tre uomini sono state impiccati per uno stupro avvenuto tre anni fa. In Iran vengono puniti con la pena di morte l’omicidio, lo stupro, la rapina a mano armata, il traffico di droga e l’adulterio. Con la lapidazione, in quest’ultimo caso. Contro questa pena crudele si batte una coraggiosa minoranza guidata da una giornalista iraniana, Asieh Amini che nel 2006, insieme con un gruppo di avvocati, ha lanciato la campagna «Mai più lapidazione». Coraggiosi, quelli che si battono per l’abolizione di questa pratica arcaica, perché sanno a cosa vanno incontro: nel marzo 2007 Asieh Amini e l’avvocata Shadi Sadr erano tra le 33 persone arrestate per aver preso parte a una marcia di protesta, con l’accusa di «azioni contro la sicurezza dello Stato».
Le 166 esecuzioni avvenute nel 2007 in Arabia Saudita (il numero più alto al mondo in rapporto alla popolazione), nei cortili fuori le moschee più frequentate dopo la preghiera del venerdì, riguardavano per i due terzi immigrati poveri provenienti dal Medio Oriente, dall’Asia e dall’Africa. Tra i condannati erano almeno tre minorenni, incluso un quindicenne per un reato commesso quando aveva 13 anni.
Sia in Iran che in Arabia Saudita c’è addirittura una spettacolarizzazione della pena capitale: con forte gradimento della folla, si dice. Dalle rare fotografie che circolano sul web si vede da qualche giorno una decapitazione alla Mecca: un uomo inginocchiato, mani e piedi legati, e dietro di lui il boia con la scimitarra alzata. Altre fotografie arrivano dall’Iran e mostrano donne conficcate in una buca fino al punto vita o alle spalle, che piegano la testa sotto una grandine di pietre. Che secondo il codice penale iraniano non devono essere così grandi da uccidere con uno o due colpi ma non così piccole «da non poter essere definite pietre».
In attesa di una sentenza d’appello, che si spera commuterà quella di primo grado, è da qualche mese un giovane afghano, studente di giornalismo, Sayed Perwiz Kambakhsh, condannato a morte per blasfemia con l’accusa di aver diffuso un testo tratto da internet sui diritti delle donne. La battaglia per la salvezza di Kambakhsh è condotta dal fratello Sayed Yaqub Ibrahimi, giornalista, che è stato di recente nel nostro paese, invitato dall’Unione Cronisti Italiani: è probabile che l’accusa e l’arresto di Sayed Perwiz siano una vendetta trasversale contro di lui, che aveva svelato traffici illeciti di un signore della guerra.
Lo stesso Ibrahimi si rende conto di quanto è difficile aiutare il fratello. Da una parte l’attenzione internazionale e le raccolte di firme per la salvezza di Kambakhsh sono importanti, dall’altra, in Afghanistan come in molti altri paesi dove è in vigore la pena capitale, bisogna stare attenti a non compiere azioni che, se percepite come indebita ingerenza, non fanno altro che rafforzare i conservatori. E la pena di morte.
l’Unità 25.7.08
Quando la vita si fa crudele dittatura
di Sergio Bartolommei, Dipartimento di Filosofia, Università di Pisa, Consulta di Bioetica, Pisa
Sono giorni concitati e drammatici per le cronache bioetiche del nostro Paese. Al Nord un corpo che aveva ospitato una persona di nome Eluana Englaro, scomparsa insieme alla sua coscienza 16 anni fa dopo un incidente stradale, sta per essere trasferito da una casa di cura a un Hospice dopo che sarà stato disattivato il sondino naso-gastrico che lo alimenta artificialmente. Con l’esaurirsi delle funzioni dell’involucro corporeo, alla morte biografica di Eluana - la morte della possibilità di raccontarsi, di mettersi in relazione e di dare un senso alla sua propria vita - seguirà così anche quella organica e anagrafica. Solo allora, e grazie a due storiche sentenze giudiziarie, si avrà il riconoscimento delle sue volontà: quelle che aveva espresso quando, ignara della sua sorte futura, era capace di pronunciarsi su cosa per lei sarebbe stata dignità del vivere e del morire nell’ipotesi di poter piombare un giorno nel buio dello stato vegetativo permanente (SVP) in cui purtroppo poi le accadde effettivamente di entrare.
Al Sud un neonato di tre mesi, Davide Marasco, nato il 28 aprile scorso a Foggia e protagonista di un caso assurto alle cronache nazionali, è morto dopo essere stato sottoposto a rianimazione e dialisi forzate nel tentativo di farlo sopravvivere. Davide era affetto da sindrome di Potter e presentava un quadro clinico caratterizzato da mancanza dei reni, inadeguato sviluppo degli ureteri, della vescica e dei polmoni, malformazioni intestinali e rettali.
Sia lo SVP che la sopravvivenza di neonati colpiti da patologie incompatibili con la vita sono, paradossalmente, nuove condizioni del morire rese possibili dall’avvento delle tecnologie di rianimazione e sostegno vitale. Fino a qualche decennio fa il corso ’naturale’ delle cose avrebbe portato alla morte quasi istantanea i protagonisti di queste due tragiche vicende. Oggi il loro destino dipende in gran parte dalle nostre decisioni e dalla nostra responsabilità.
Sia nel caso di Eluana che in quello di Davide si è optato per soluzioni vitalistiche, pensando che il miglior interesse dei due fosse di prolungarla, la vita, il più possibile, in nome della sua sacralità. Il paternalismo medico è venuto in soccorso del vitalismo. Nel caso della Englaro si sono moltiplicate anche in queste ultime ore una serie di (irrispettose) pressioni - politiche, accademiche, religiose - affinché il padre-tutore non la faccia morire come ella desiderava e come due Tribunali della Repubblica hanno giudicato lecito autorizzare a fare.
Nel caso di Davide è bastato che i genitori manifestassero una titubanza nel dare il consenso alle cure intensive che subito il bimbo è stato sottratto alla loro potestà e affidato al primario degli Ospedali Riuniti di Foggia per essere sottoposto a rianimazione e dialisi. Prigionieri forse dell’alone positivo e di mistero che circonda la parola "vita", si fatica a misurarsi con l’idea che ci siano situazioni in cui vivere è un disvalore o un’oppressione, o perché il vivere è ridotto alle sofferenze e agli accanimenti di quella che non è terapia ma devastante e coatta sperimentazione medica (Davide), o perché le condizioni della vita sono divenute radicalmente incompatibili con le idee di dignità personale nutrite nel corso dell’esistenza cosciente (Eluana).
È difficile però scalfire lo zelo dei vitalisti. Essi non si accorgono che l’astratta ideologia cui aderiscono - "la Vita è sacra" - può rivelarsi crudele nelle situazioni in cui, applicandola con fanatica coerenza, genera solo una inutile e penosa sospensione del morire. Incapace in questi casi di garantire un miglioramento delle condizioni di salute, il vitalismo si rivela spesso veicolo dei danni provocati da un interventismo medico fine a se stesso. Ciò che fa apparire l’uno e l’altro “giusti” è che sembrano la soluzione più semplice e ovvia, optando per la quale sembra di essere meno in gioco con le nostre responsabilità.
Corriere della Sera 25.7.08
Il biologo Edoardo Boncinelli interpreta alcuni passi dell'opera alla luce delle teorie evoluzionistiche e delle scoperte più recenti
Embriologia celeste. Come Dante intuì lo sviluppo dell'uomo
Il mondo poetico della Divina Commedia sorprende per la coerenza scientifica
di Edoardo Boncinelli
Verso la fine del decimo canto del Purgatorio la poesia di Dante si eleva d'un balzo a vette vertiginose di potenza espressiva e immaginativa. «O superbi cristian», esclama il poeta rivolto ad alcuni peccatori che stanno espiando la loro cattiva condotta sulla terra, ma apostrofando in realtà tutto il genere umano, «non v'accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l'angelica farfalla?» In una sorta di embriologia celeste, Dante crede di individuare nell'aspetto di ciascuno di noi una fase del nostro sviluppo biologico- spirituale: il corpo con il quale abbiamo vissuto e viviamo tutta la vita non rappresenta altro che una sorta di nostro stato larvale. Da questa larva («verme») si svilupperà dopo la morte una sorta di celeste «farfalla», che svolerà al cospetto del Creatore, per ricevere il premio o la punizione meritati in vita: «l'angelica farfalla» dice il poeta infatti «che vola a la giustizia sanza schermi».
Il nostro sente la necessità di ribadire subito dopo tale concetto, poiché prosegue chiedendosi di che cosa mai noi uomini meniamo tanto vanto, essendo «quasi entomata in difetto, / sì come vermo in cui formazion falla ». Saremmo per lui quindi solo insetti («entomata » alla greca, ma con un po' di fantasia) ancora non completati («in difetto»), cioè una sorta di larva («vermo») nella quale è ancora assente («falla») la maturazione finale.
Un'immagine stupenda e indimenticabile, questa, presente alla mia mente fino dai tempi della scuola media, per merito della professoressa di allora, religiosissima e amante della poesia, che ce la citò come esempio di grande poesia e di sublime creatività. Di tale immagine non mi sono potuto non ricordare quando, più di trent'anni dopo, mi sono occupato attivamente dei geni che controllano lo sviluppo del corpo, che sono incredibilmente gli stessi sia per il nostro che per quello degli insetti! Tutta la storia della scoperta dei geni «architetto», quelli che controllano la disposizione delle varie parti del corpo nello sviluppo di tutti gli animali che hanno una testa e una coda, dalle meduse in su, è cominciata proprio con un insetto, il moscerino dell'aceto Drosophila melanogaster.
E' stato questo piccolo insetto infatti che ci ha permesso di scoprirli. Ed è stata la susseguente scoperta che gli stessi geni controllano anche lo sviluppo embrionale di tutti i vertebrati, compresi i mammiferi e l'uomo, che ci ha fatto toccare con mano la straordinaria unità dei viventi, anche superiore a quello che poteva intravedere la grande fantasia poetica di Dante. Tutti stentarono a credere, nel 1985, che la meccanica molecolare del nostro sviluppo embrionale fosse essenzialmente la stessa di quella di un piccolo insetto, o di un vermetto elementare costituito di mille cellule in tutto, ma è così.
Questo non è l'unico passo della Commedia in cui Dante si occupa di sviluppo. Per esempio, sempre nel Purgatorio, nel XXV canto, il sommo poeta espone le teorie allora correnti su come si forma il nostro corpo e come questo si incontri poi con il nostro intelletto e la nostra anima. Dice Dante, per bocca del poeta Stazio, che il sangue più perfetto dell'uomo, quello che si trova nel centro del cuore e che non va a giro nelle vene, «prende nel core a tutte membra umane / virtute informativa » e comincia a trasformarsi in seme. Poi «ancor digesto», cioè maturato, il sangue-seme «scende ov'è più bello / tacer che dire; e quindi poscia geme / sovr'altrui sangue in natural vasello».
«Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme», e a seguito dell'unione dei due sangui, quello maschile e quello femminile, «comincia ad operare / coagulando prima, e poi avviva / ciò che per sua matera fé constare». L'anima vegetativa che ne deriva «imprende» poi «ad organar le posse ond'è semente» (meravigliosa espressione!), come in una pianta, ma molto più che in una pianta, perché quella è «in tanto differente, / che questa è in via e quella è già a riva». Come dire che mentre lo sviluppo della pianta arriva solo fino a un certo punto, quello dell'uomo va molto oltre. «Or si spiega, or si distende» tutta la forza informativa primigenia del seme che riesce così a organizzare con precisione ed efficienza le diverse parti del corpo con le loro funzioni.
Il bello, ovviamente, deve ancora venire. «Ma come d'animal divegna fante, / non vedi tu ancor», dice infatti Stazio a Dante, chiaramente riferendosi al passaggio del nascituro da un puro stato animale-vegetativo a uno pienamente umano. Ciò avviene perché «sì tosto come al feto / l'articular del cerebro è perfetto, // lo motor primo a lui si volge lieto / sovra tant'arte di natura, e spira / spirito novo, di vertù repleto, // che ciò che trova attivo quivi, tira / in sua sustanzia, e fassi un'alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira ». Non appena il cervello è sufficientemente sbozzato, il Signore rivolge lo sguardo a questo nuovo corpo, allietandosi per il compimento di tanta meraviglia («si volge lieto sovra tant'arte di natura») e vi infonde («spira ») l'anima («spirito nuovo, di vertù repleto »). Questa attrae, attiva e assimila a sé («tira in sua sustanzia») tutto ciò che trova «e fassi un'alma sola». Questa anima adesso, finalmente unificata con tutte le altre facoltà materiali, intellettuali e spirituali, «vive» pienamente e acquista infine la facoltà di riflettere su se stessa («sé in sé rigira»). Nasce così anche la coscienza di sé. Lo sviluppo si è completato e il nuovo essere ha la possibilità, almeno potenziale, di andare autonomamente per il mondo.
Dante è grande per la sua sensibilità, per le sue capacità espressive, per la grande fantasia delle sue costruzioni, per la sua dottrina e sommamente per la capacità di fondere tutto questo in un corpo poetico vivente. Con capacità e impegno. Fino al punto da edificare tutto un mondo poetico parallelo a quello reale, ma non disgiunto da quello e dalle sue complicazioni.
In questa impresa, il quotidiano bruco diviene veramente angelica farfalla.
Corriere della Sera 25.7.08
Festival a Ravenna. Il Divino Alighieri e la sua modernità
Poesia, musica e danza. L'arte per riflettere sulla visione, perché l'uomo si perde se non impara a vedere meglio se stesso e la vita. Torna con questo scopo «Dante09», il festival per tipi danteschi diretto da Davide Rondoni, in programma a Ravenna dal 3 al 7 settembre. Cinque appuntamenti in piazza del Popolo per riscoprire l'attualità del grande poeta. Nella terza edizione, nomi noti della cultura e dello spettacolo analizzeranno la Visione nell'arte, nella teologia e nella bellezza femminile quale fonte ispiratrice. Non mancheranno momenti di riflessione sulla genetica nel dibattito «Sorprendere l'inizio della vita» (venerdì 5, ore 18, piazza del Popolo). Scienza, bioetica e diritto saranno al centro delle riflessioni di Edoardo Boncinelli, editorialista del «Corriere della Sera» e professore di Biologia e Genetica dell'università Vita-Salute San Raffaele di Milano, e di Eleonora Porcu, docente all'università di Bologna.
Repubblica 25.7.08
Quei libri dati alle fiamme
Germania, un volume ricorda i 94 scrittori ebrei cancellati nel ‘33
Tornano gli autori bruciati dai nazisti
di Paola Sorge
Nei roghi finirono firme come Mann Joseph Roth Remarque, Zweig ma anche nomi che Hitler riuscì a far dimenticare Ecco le loro storie
Degli intellettuali perseguitati molti emigrarono ma non riuscirono più a scrivere
Tra loro Armin T. Wegner: lo si credeva morto e invece visse fino al 1978 a Positano
Tutto doveva esser fatto rapidamente, con la velocità del vento. L´ordine perentorio di bruciare gli scritti di autori ebrei «in occasione della vergognosa campagna diffamatoria del mondo ebraico contro la Germania», non proveniva da Goebbels o da Hitler, ma dal novello ufficio stampa e propaganda dell´associazione studentesca tedesca che in meno di un mese, dal 12 aprile al 10 maggio del 1933, organizzò alacremente e sistematicamente il rogo dei libri proibiti non solo a Berlino ma in ogni città universitaria della Germania. Gli studenti dovevano innanzitutto «ripulire» i propri scaffali, quelli di parenti e conoscenti e poi quelli di tutte le librerie possibili; il rogo sulle pubbliche piazze doveva essere reclamizzato e promosso a dovere, possibilmente con testi di propaganda «contro il distruttivo spirito ebraico» redatti da scrittori compiacenti. Non mancava nemmeno una sorta di manifesto studentesco con 12 tesi aberranti tra cui quella che recitava: «L´ebreo che scrive in tedesco, mente».
Ed infine ecco le fiamme alte 10, 12 metri che la notte di mercoledì 10 maggio illuminarono l´Opernplatz a Berlino, gremita di folla che assisteva allo spettacolo. E nessuno che protestava. C´era Goebbels attorniato dalle SA in soprabito chiaro che contemplò a lungo l´incendio e poi annunciò «la fine dell´epoca di un eccessivo intellettualismo ebreo». Erich Kaestner vide i suoi libri gettati alle fiamme mentre qualcuno faceva il suo nome e urlava «contro la decadenza e il degrado morale!» e che da allora, da beniamino del pubblico divenne «persona non gradita». Kaestner fu uno dei pochi scrittori della lista nera che rimase in patria come «cronista», forse perché gli mancava il coraggio di emigrare. Altri si tolsero la vita o vennero uccisi in un lager, oppure andarono all´estero, il più delle volte senza mezzi e senza possibilità di pubblicare le loro opere. E quando dopo la fine della guerra tornarono in patria, non trovarono la Germania di prima, non si sentirono più «a casa»: il pubblico li aveva irrimediabilmente dimenticati.
Eppure nella Repubblica di Weimar avevano tutti goduto di una notevole notorietà. Ernst Glaeser, ad esempio, con Classe 1902, un ritratto della sua generazione ancor oggi più che godibile, aveva suscitato l´entusiasmo di Hemingway; Edlef Koeppen era diventato notissimo nel ‘28 con il suo romanzo Bollettino di guerra; un certo seguito lo avevano avuto anche gli anarchici ribelli come Rudolf Geist che scrisse migliaia di pagine e alla fine andò di porta in porta a vendere cartoline con le sue poesie; c´erano i comunisti «di cuore», senza la tessera di partito ma sempre dalla parte dei deboli e degli oppressi come Oskar Maria Graf o come Egon Erwin Kisch, straordinario reporter e corrispondente di guerra che andò in esilio in Messico e morì nel ‘48; grande risonanza avevano avuto i cronisti della cultura ebraica in Germania come Georg Hermann, ucciso a Auschwitz nel ‘43 e biografi di talento come Franz Blei, re dei caffè viennesi, autore di quel Bestiarum Literaricum definito da Kafka «la letteratura mondiale in mutande».
La loro storia e quella di tutti i 94 scrittori tedeschi i cui libri furono dati alle fiamme 75 anni fa, assieme a quelli di 37 autori stranieri, sono raccontate in un libro prezioso, per molti versi stupefacente: Il libro dei libri bruciati (Volker Weidermann: Das Buch der verbrannten Buecher, ed. Kiepenheuer & Witsch, pagg. 255) Stupefacente perché l´appassionata e appassionante ricerca fatta dall´autore del volume su internet e nelle librerie antiquarie ha portato alla scoperta di opere di notevole valore da allora dimenticate a causa del rogo dei libri. Prezioso perché contiene le storie inedite, spesso tragiche e inquietanti di tutti gli intellettuali perseguitati dal regime nazista e perché rende giustizia agli scrittori dimenticati o ignorati ai quali viene dato molto più spazio che a quelli celebri. Senza questo libro l´obiettivo dei nazisti di cancellare per sempre dalla memoria i nomi di tanti autori ebrei sarebbe stato quasi raggiunto, osserva giustamente l´autore del libro nella sua introduzione.
«Non si faccia illusioni. L´inferno è al governo», scrisse Josef Roth già nel febbraio del ‘33 all´amico Stefan Zweig che faticava a credere di essere diventato uno degli scrittori più odiati in Germania. I suoi libri erano stati dati alle fiamme assieme a quelli di Werfel, di Schnitzel, di Wassermann, di Klaus Mann, ma lui, lo scrittore di lingua tedesca più letto nel mondo, era convinto di essere stato scambiato con Arnold Zweig, comunista militante odiato dal regime. Cercò compromessi, sperò che la follia collettiva avesse termine rapidamente. Roth al contrario aveva capito immediatamente che la loro vita professionale e materiale era annientata. Alla fine entrambi andarono in esilio e entrambi vi persero la vita: Roth morì in un ospedale di Parigi nel ‘39, Zweig tre anni dopo si tolse la vita in Brasile.
Coinvolgenti e di estremo interesse sono le storie di tutti gli scrittori sinora dimenticati a causa del rogo: sconcertante quella di Armin T. Wegner che dopo la guerra era stato dato per morto e che invece visse sino al 1978 a Positano dove si era trasferito nel ‘36. Autore di un avventuroso e fascinoso libro di viaggi, Al crocevia dei mondi del 1930, moralista e nemico della guerra, scrisse nell´aprile del ‘33 una lettera aperta a Hitler in cui con incredibile ingenuità spiegava al Führer perché la Germania avesse bisogno degli ebrei e perché gli ebrei amassero tanto la Germania. In realtà non aveva nessuna voglia di lasciare la sua patria: «Andar via è come morire» ripeteva. Ma la Gestapo lo mise in carcere, lo torturò, lo mandò nel lager di Oranienburg da dove riuscì a fuggire. A Positano stava ogni giorno alla scrivania davanti a una pila di fogli bianchi. Non riuscì mai più a scrivere un rigo.
Con il grandioso romanzo satirico Solneman l´invisibile del 1914, tenuto in gran conto da Thomas Mann, lo scrittore Alexander Moritz Frey riscosse il suo primo grande successo; ebbe però per sua disgrazia, anche un altro ammiratore, Adolf Hitler, suo compagno di reggimento nella prima guerra mondiale. Il futuro Führer mostrava molto interesse per le sue opere e cercò inutilmente di mettersi in contatto con lui, ma Frey lo evitava accuratamente: lui era rigorosamente contro ogni odio di razza, contro ogni fanatismo, contro i militari. «Voglio, voglio, voglio dire la verità, voglio dire: i militari e la guerra sono la più ridicola, vergognosa, stupida cattiveria del mondo», afferma alla fine del racconto delle sue esperienze di guerra, uscito nel ‘29 e giudicato dai critici addirittura superiore al celebre All´ovest niente di nuovo di Remarque. Nel ‘33 le SA gli distrussero casa e Frey lasciò la Germania senza soldi, senza la possibilità di pubblicare i suoi lavori, senza più cittadinanza; in Svizzera trovò il sostegno e l´aiuto di Thomas Mann. Morì a Basilea nel 1957, povero e dimenticato.
Certamente il più fortunato di tutti fu Erich Maria Remarque. La notte del rogo lui, che si trovava al sicuro in Ticino, sentì per radio, con lo scrittore Emil Ludwig, il crepitio delle fiamme e i discorsi esaltati dei gerarchi nazisti. Era stato uno dei primi a emigrare: il 29 gennaio, alla vigilia della presa di potere di Hitler, aveva fatto una corsa non stop, a bordo della sua Lancia, da Berlino a Porto Ronco. Sapeva bene di essere il nemico numero uno dei nazisti a causa del suo celeberrimo romanzo che prometteva «la verità sulla guerra». All´ovest niente di nuovo - il libro tedesco di maggior successo del XX secolo, 20 milioni di copie vendute, da cui trassero il film - , dopo aver dato adito a una serie di infiammati dibattiti, era stato boicottato in tutti i modi dai nazisti: parlava di miseria infinita, di noia, di mancanza di senso della prima guerra mondiale, della morte ben poco eroica dei soldati. Un libro più che pericoloso per i seguaci di Hitler che non riuscirono a impedirne lo strepitoso successo.
Remarque scelse il silenzio, si dichiarò estraneo alla politica, ma intanto continuava a scrivere sul destino degli emigranti e sui campi di concentramento anche durante il suo leggendario soggiorno negli Stati Uniti dove divenne uno degli scrittori e sceneggiatori più amati dagli americani. Nonostante questo, chi legge i suoi diari scopre un uomo irrimediabilmente depresso e pieno di paure. Paura della scrivania, del lavoro, della solitudine.
Repubblica 25.7.08
Un saggio sull’amore nel ‘700
Cicisbei. Lui, lei e il cavalier servente
di Benedetta Craveri
Accompagnare assiduamente una donna sposata era una pratica diffusa. Specchio di un costume e di una morale
Un prodotto della società d’Antico Regime, che scompare nell’800
Un’indagine che investe il tema dell’identità nazionale italiana
Parini, Goldoni e Alfieri criticano aspramente il fenomeno
«Non vi ho parlato dei cicisbei. È la cosa più ridicola che un popolo stupido abbia potuto inventare: sono degli innamorati senza speranza, delle vittime che sacrificano la loro libertà alla dama che hanno scelto». Il popolo stupido di cui Montesquieu, in visita nella penisola nel 1728, si prendeva gioco era ovviamente quello italiano, ma il grande pensatore francese che si preparava a scrivere L´Esprit des lois non era certo il solo viaggiatore straniero a ravvisare nel cicisbeismo un tratto distintivo del costume del nostro paese. E numerosi erano anche gli italiani - pensiamo a scrittori come Parini, Goldoni, Alfieri, o pittori come Pietro Longhi o Giandomenico Tiepolo - che nel corso del secolo avrebbero stigmatizzato il fenomeno. Ma ammesso e non concesso che esso costituisse davvero una anomalia italiana in che cosa consisteva esattamente e quali erano le ragioni che le avevano consentito di mettere radice nel Bel Paese e prosperarvi per tutto il Settecento?
A questi interrogativi si propone oggi di rispondere, sul filo di una ricerca storica attenta a studiare tanto la realtà del costume quanto le sue rappresentazioni, l´importante studio di Roberto Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia (Laterza, pagg. 361, euro 20). Una ricerca di carattere necessariamente indiziario poiché ha per oggetto una relazione di coppia - quella della dama e del suo cicisbeo - che si svolgeva alla luce del sole e su cui le testimonianze e i commenti abbondano, ma la cui natura intima e privata rimaneva invece accuratamente occultata, costringendo lo storico a procedere per ipotesi.
Neologismo entrato in uso nel primo decennio del Settecento, il termine cicisbeo designava infatti l´accompagnatore ufficiale di una dama sposata di cui fungeva, con il pieno assenso del marito, da cavalier servente. Il suo compito consisteva nel passare con lei molte ore al giorno, nello scortarla al teatro, al ballo, in società, nel dimostrarle fedeltà, nel prodigarsi in tutti i modi per risultarle gradito, ma questo "servizio" doveva essere improntato alla più assoluta castità o, quantomeno, lasciarlo credere. Ora è vero che nelle società d´Antico Regime il matrimonio aristocratico non presupponeva un´intesa sentimentale e consentiva ai coniugi di condurre una vita indipendente; è vero che già un secolo prima la civiltà francese aveva fatto della galanteria un obbligo mondano, come è ugualmente vero che "questa delicata simulazione dell´amore" poteva servire da schermo a sentimenti più reali, ma solo in Italia questi vari fattori si erano saldati in un rapporto istituzionale che implicava ufficialità e durata.
Bizzocchi mostra bene come a determinare questa "eccezione" italiana siano state ragioni economiche, sociali e culturali di diversa natura, riconducibili tutte allo specifico contesto storico della penisola. La prima novità del suo studio è proprio quella di mostrare, sulla base di una ampia documentazione, il carattere nazionale del cicisbeismo, solitamente considerato una peculiarità veneziana e genovese. E se per tutto il corso del Settecento l´usanza si diffondeva nelle maggiori città italiane ciò era dovuto in primo luogo alla sua capacità di conciliare l´esigenza di rinnovamento che accomunava le élites del paese agli imperativi della tradizione.
Il cicisbeismo si spiega senza dubbio alla luce di una nuova volontà di libertà della società italiana che si apre progressivamente alla cultura dei Lumi e, ispirandosi al modello francese, inaugura una socievolezza, una "conversazione" come si diceva allora per metonimia, incentrata sulla presenza femminile. Ma questa rivoluzione che apriva improvvisamente al gentil sesso le porte del carcere domestico era troppo radicale per non richiedere degli accorgimenti. A differenza di quanto avveniva in Francia dove le dame del bel mondo sfarfalleggiavano anche sole da un salotto all´altro, le loro sorelle italiane non potevano uscire di casa senza la scorta di un accompagnatore che, scelto con il beneplacito del marito, aveva il compito di vigilare su di loro. Di qui, rileva Bizzochi, quella "doppia anima del cicisbeismo, fra controllo e libertà", che avrebbe dato origine a un compromesso destinato a indignare i benpensanti - "e tuto xe causa la libertà", commenta sconsolato un personaggio dei Rusteghi di Goldoni! - fino ad assurgere, nella Histoire des Républiques italiennes du moyen âge (1807-1818) dell´illustre storico ginevrino Sismondi, a simbolo del lassismo e della decadenza morale degli italiani.
Eppure, come ben spiega Bizzocchi, la pratica del cicisbeismo non assolveva solo alle nuove esigenze del gentil sesso. Era anche una risposta al problema del celibato maschile che nel ceto nobiliare poteva riguardare anche il cinquanta per cento degli uomini adulti. Finalizzata a preservare l´integrità del patrimonio familiare a favore del figlio primogenito, la norma del maggiorascato metteva in effetti in circolazione molti giovani senza prospettive matrimoniali per i quali il cicisbeismo fungeva da utile surrogato, consentendo loro di intrattenere una relazione femminile privilegiata, di trovare accoglienza in una casa ospitale, di ricoprire un ruolo riconosciuto in società. E se, all´interno dell´ambito domestico della dama che era chiamato a servire, il cicisbeo svolgeva un compito sussidiario a quello del marito, questo legame consentiva altresì, alla stregua dei veri e propri matrimoni, ad allargare la cerchia delle solidarietà e delle relazioni interfamiliari in vista di una più ampia strategia sociale su scala cittadina.
La parte più interessante del libro è, tuttavia, quella che si propone di indagare la natura della relazione privata che si dissimulava dietro i comportamenti rigidamente codificati di una commedia mondana di cui gli stessi osservatori contemporanei denunciavano l´ipocrisia. In effetti, come escludere una possibilità di coinvolgimento affettivo, sentimentale, erotico, da parte di uomini e donne abituati a passare gran parte della loro vita insieme? Bizzochi cerca di trovare una risposta analizzando, sulla falsariga di un nutrito corpus di testi autobiografici e di carteggi editi ed inediti, alcuni casi di cicisbeismo a Bergamo, Venezia, Lucca, Firenze, Milano, Torino. Nelle storie che egli ricostruisce ci imbattiamo in personalità celebri come Alfieri, Beccaria, i fratelli Verri, o in figure femminili di cui non avevamo notizia ma che appartengono a famiglie importanti.
Autentiche tranches de vie che ci coinvolgono come romanzi - straordinaria quella di Pietro Verri nel ruolo di cicisbeo innamorato -, gli episodi passati al vaglio da Bizzocchi mostrano bene come il cicisbeismo potesse all´occorrenza aprirsi a tutte le esperienze della vita - l´amore, il dono di sé, la gelosia, la fedeltà, il tradimento, l´abbandono. E se nessuna di queste storie ci fornisce la prova provata dell´esistenza di una relazione sessuale, ciò dimostra che il sentimento del pudore era, all´epoca, molto diverso dal nostro.
Il cicisbeismo sarebbe scomparso con la fine della società d´Antico Regime e l´Ottocento avrebbe perseguito un idea dell´amore e del matrimonio incompatibili con il pittoresco compromesso raggiunto da un´Italia provinciale e arretrata eppure desiderosa di recuperare il tempo perduto. Ma non sarebbero state certo le donne a beneficare del cambiamento.
il Riformista 25.7.08
Padellaro vs. il Colle, Colombo con lui Invece Concita...
Non un semplice disagio. Ma «il nostro forte disagio». In questi termini, nel suo editoriale di ieri, Antonio Padellaro ha riassunto lo stato d'animo dell'Unità di fronte alla firma apposta dal capo dello Stato in calce al lodo Alfano. La promulgazione non è andata proprio giù al giornale di Gramsci, avaro di pacche sulla spalla del Fassino tirato in ballo da Tavaroli, prodigo di denunce nei confronti di Giorgio Napolitano. Già, denunce. Perché, sostiene Padellaro, la promulgazione del lodo Alfano ha dato il via libera a una norma che rende quattro cittadini «più uguali degli altri». Quando promulga una legge il presidente della Repubblica «non esprime un'opinione personale», ma significa che «ne ha verificato la legittimità costituzionale». E il lodo Alfano, secondo il Colle, «corrisponde ai rilievi formulati dalla corte costituzionale nel 2004, quella che sancì l'incostituzionalità» del lodo Schifani. Segue appello: «Se ci rivolgiamo a Napolitano è perché in questi difficili anni ha saputo esercitare la sua alta funzione in modo ineccepibile», ma sappiamo che sono numerosi gli italiani che giudicano il lodo come un grave strappo al principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge». «Sto col direttore». Fin qui Padellaro. E Furio Colombo? «Fermi restando i sentimenti di stima e amicizia che mi legano a questo capo dello Stato - dice l'ex direttore - ci sono delle cose che vanno dette chiaramente. Quindi, sono perfettamente d'accordo con i rilievi mossi da Padellaro nel suo editoriale». Anche l'ipotesi referendaria sollevata da Di Pietro non lascia indifferente il deputato del Pd: «Lasciare che siano i cittadini a decidere non fa mai male». L'imbarazzo del Pd. Visto che disagio genera ulteriore disagio, dentro il Pd l'editoriale dell'Unità qualche imbarazzo l'ha creato. Non a caso Walter Veltroni, in un attimo di pausa dagli attacchi alla legge votata dal centrodestra, è intervenuto nella querelle. Giusto per mettere a verbale la sua convinzione che «il presidente Napolitano in tutta la vicenda ha svolto con il consueto equilibrio il suo compito in una fase certamente non facile». E la firma alla legge? «Un atto dovuto», ha chiarito il segretario. Un messaggio alla suocera (Di Pietro) perché anche la nuora (Padellaro) intendesse. Morale? Le ultime uscite dell'Unità sono piaciute poco allo stato maggiore del partito. Che aspetta, con un mix tra timore e trepidazione, il cambio della guardia. Un autorevole dirigente del Pd cui non fa difetto l'ironia, dopo aver letto l'editoriale di Padellaro di ieri, se la rideva citando il titolo della rubrica della De Gregorio sul settimanale femminile di Repubblica: «Invece, Concita...». Quella vecchia raccolta. Nella redazione del quotidiano, che si era stretta attorno al direttore dopo l'intervista di Concita De Gregorio a "Prima comunicazione", qualche mugugno del giorno dopo per l'editoriale di Padellaro sul Colle c'è stato. Non a caso, proprio ieri, qualcuno ha tirato fuori una storia. Pare che tempo fa l'Unità avesse intenzione di raccogliere in un volumetto tutti gli articoli pubblicati da Napolitano sul giornale che fu di Gramsci. Non se ne fece nulla proprio perché dal Quirinale lasciarono cadere la proposta.
il Riformista Lettere 25.7.08
Scomuniche
Caro direttore, un mio vecchio compagno di scuola teneva appesa in salotto la scomunica del nonno, reo di aver assistito, in altri tempi, a una irriverente rappresentazione teatrale in quel di Rimini. Il fatto mi è tornato in mente leggendo dei provvedimenti che monsignor Nosiglia, vescovo di Vicenza, prenderà nei confronti di chi assisterà alle illecite celebrazioni di Sguotti e Milingo. Ringrazio, tramite il Riformista, il vescovo per la possibilità, di questi tempi rara, di farsi scomunicare, ma mi chiedo come sia tecnicamente possibile oggi prendere un tale provvedimento senza calpestare la privacy o l'articolo 19 della Costituzione. Escludendo l'auto-denuncia presso la curia, faranno pedinare i presenti dalle guardie svizzere?
Roberto Martina e-mail