domenica 27 luglio 2008

l’Unità 27.7.08
Bertinotti fa l’ultimo appello. Invano
A vuoto l’appello di Bertinotti. Prc, sfida all’ultimo delegato
di Simone Collini


Applausi e lacrime per l’ex segretario
«Il processo costituente non può essere un assemblaggio...»
Fallisce il tentativo di ricomposizione. Metà platea canta Bandiera rossa, l’altra metà tace

Tutti uniti nella standing ovation a Fausto Bertinotti, ma per il resto Rifondazione comunista è drammaticamente spaccata a metà. Oggi si va alla conta per la scelta del segretario: si decide per pochi voti e potrebbero essere determinanti le alleanze che Paolo Ferrero sta realizzando con le altre minoranze del partito. Nel suo intervento l’ex ministro ha invitato i delegati ad una scelta chiara e netta: o la sua linea, o quella dell’avversario Vendola, che ha ottenuto la maggioranza (ma solo relativa) dei delegati.
Applauditissimo, Fausto Bertinotti lancia l’appello a «ricominciare dal basso». Parole dure verso il Pd («non ha i fondamenti per l’opposizione») e ancor più per Di Pietro: «La sua è una cultura di destra». E conclude: «L’opposizione non può che essere costruita da sinistra».

BERTINOTTI che unisce, ma solo nella commozione e gli applausi. Ferrero che divide anche su Bandiera Rossa e Bella Ciao. Oggi si chiude il congresso di Rifondazione comunista e ancora è tutt’altro che chiaro qual è la linea politica che il partito porterà avanti nei prossimi mesi e chi sarà il segretario. Bertinotti, intervenendo da «semplice delegato», tenta di ricompattare le diverse anime offrendo come terreno di mediazione un’autocritica sulla Sinistra arcobaleno e l’accantonamento per il futuro di processi analoghi: «Sono state sconfitte tutte le ipotesi di unità a sinistra, quella del superamento di Rifondazione come quella della federazione», dice dal palco, «chi pensa a un processo costituente deve dire chiaramente che tutt’altro è il cammino rispetto a quelli che abbiamo conosciuto, altri i protagonisti, diversa la meta, anche nell’organizzazione delle forme della politica. Questo processo costituente non può sembrare un assemblaggio di forze». Una mano tesa ai sostenitori della mozione Ferrero-Grassi e alle altre tre mozioni contrarie alla costituente di sinistra proposta dalla mozione Vendola. E infatti tutta la platea applaude questi passaggi, come quelli sulle ragioni di proclamare oggi uno sciopero generale, sulla necessità di «ripartire dal basso» e di «ricostruire un nuovo movimento operaio», sull’inensistenza di un’opposizione di sinistra perché «il Pd non ha i fondamenti per essere partito di opposizione» e perché «Di Pietro e in generale le culture populiste non sono di sinistra ma di destra». E poco importa se l’ex presidente della Camera lancia anche dei moniti a chi sostiene (mozione Ferrero-Grassi) la linea del rilancio del Prc come forza autonoma facendo notare che la ritrovata forza dei partiti di sinistra sudamericani come il Pt di Lula è dovuta alla continua ricerca dell’«innovazione», al fatto che «non sono ossessivamente tornati sui loro passi» e che «la forza dell’antagonismo non può durare se rimane minoritaria» e deve invece aspirare ad avere una «vocazione maggioritaria».
Quando finisce di parlare, tutti i delegati sono in piedi ad applaudire. Scende dal palco, si abbraccia con Vendola, con Giordano, con tutti gli altri che gli vanno incontro, poi torna su perché l’applauso non si smorza e lui vuole ringraziare: «Per tutto quello che mi avete dato in questi anni». Poi è di nuovo in mezzo alla calca, giù in platea, mentre in molti si asciugano le lacrime. A un certo punto sale anche su una sedia per salutare col braccio e l’applauso si fa ancora più forte. Per dieci lunghi minuti così, con le divisioni che scompaiono e le lacerazioni delle ultime settimane che sembrano consegnate al passato. Il dibattito va avanti, ma tutta l’attenzione a questo punto è sulla Commissione politica. Le parole di Bertinotti sono un punto da cui ripartire, si dice, l’organismo può trovare un accordo su un documento politico unitario che preveda la presentazione alle europee con il simbolo del Prc, l’accantonamento della costituente di sinistra e il rilancio del partito.
Passano le ore e l’accordo non si trova. Poi interviene Ferrero e si fa chiaro che l’unità è solo quella delle emozioni, della riconoscenza per chi ha fatto molto in passato per il partito ma oggi non è riuscito né a compattare politicamente né a spostare consensi sulla candidatura a segretario di Vendola. L’ex ministro difende la scelta di aver partecipato alla manifestazione di piazza Navona, invoca una «svolta a sinistra» e la necessità di «ricostruire un limpido conflitto di classe», dice che «non c’è possibilità di fare alleanze col Pd, rispetto al quale dobbiamo essere concorrenziali» e critica la linea decisa al congresso di Venezia: «Abbiamo sbagliato analisi dei rapporti di forza, abbiamo pensato che dal governo potessimo cambiare quelle cose che non siamo riusciti a fare nella società». Bertinotti si agita sulla sedia, ricordando con Salvatore Bonadonna che gli sta accanto che l’ex ministro questa linea a Venezia l’ha appoggiata. Ma è quando Ferrero finisce di parlare che l’ex leader della Camera si fa ancora più scuro in volto, e poi si porta anche una mano alla fronte, coprendosi gli occhi. Lo fa quando metà della platea, mentre Ferrero scende dal palco, inizia a intonare Bandiera Rossa. L’altra metà è zitta e immobile. Di là tutti in piedi, pugni chiusi tenuti bene in alto. Di qua silenzio. Sul palco Gennaro Migliore, in attesa di poter prendere la parola. Di là attaccano con Bella Ciao. Di qua facce sempre più scure. La spaccatura c’è tutta. La Commissione politica riprende i lavori dopo l’intervento di Claudio Grassi, che lancia un appello a «Nichi» e «Paolo»: «Parlatevi. Divisa in due Rifondazione non esisterà più». Ma i margini di manovra sono ormai ridotti al minimo. Tutto si gioca nel Comitato politico nazionale che si riunisce questo pomeriggio. E che decide con votazione segreta chi dovrà guidare il partito. I tentativi di trovare l’accordo su un documento politico unitario tra la mozione Vendola e quella Ferrero-Grassi, che hanno preso rispettivamente il 47 e il 40 per cento dei consensi, vanno a vuoto fino a sera. A meno che il miracolo non sia riuscito nella notte, oggi si andrà alla conta. Che sarà all’ultimo voto. A Vendola mancano una decina di voti per farcela. La sua è l’unica candidatura. Ferrero, lasciando il Palamontepaschi, dice con un sorriso: "Per ora sì".

l’Unità 27.7.08
Il governatore ha 113 voti. L’ex ministro 123


Il Parlamentino del Prc che oggi deciderà il vincitore del congresso e il futuro del partito, in base all’intesa raggiunta nella commissione politica, è composto da 240 membri, così suddivisi tra le varie mozioni in base ai voti dei congressi dei circoli: la mozione 1 (Ferrero) ha 97 delegati, la mozione 2 (Vendola) ha 113 delegati, la mozione 3 (Pegolo-Giannini) ne ha 18, la mozione 4 (Bellotti) con 8 delegati, la mozione 5 (De Cesaris) ha 4 delegati. Visto che la mozione 5 si è schierata per l’astensione, il numero dei votanti è di 233 e quindi per raggiungere la maggioranza bisogna superare quota 118.

l’Unità 27.7.08
Le trattative. «Abbiamo vinto, accordiamoci con Nichi»
Ma Ferrero: «Ho i numeri, vado alla conta»
di Andrea Carugati


Grassi fino all’ultimo cerca di evitare lo strappo
I «vendoliani»: così il partito non c’è più

La svolta arriva nella notte tra venerdì e sabato, in una stanza dell'Hotel Ambasciatori di Chianciano. Si riuniscono tutti i capi della mozione uno, quella di Paolo Ferrero, e il tentativo di Claudio Grassi il mediatore di convincere l'ex ministro a trovare una sintesi con Nichi Vendola si scontra contro un muro. «Paolo, se vai allo scontro il Prc si sfascia, e poi come farai a governare il partito con i trotzkisti?», dice Grassi. «In fondo l'ipotesi di superare Rifondazione e di dar vita a un nuovo partito è stata accantonata, abbiamo vinto, troviamo un accordo con Nichi».
L'ex ministro non si muove di un millimetro: «Io vado alla conta, abbiamo i numeri». Seguono interventi di uomini vicini a Grassi, tra cui Burgio, che sostengono la linea di Ferrero. E il mediatore si arrende: «Se ti candidi io ti seguo, non spacco la mozione». Ferrero dunque vince tra i suoi, all'una di notte incontra i giornalisti sulla terrazza dell'Ambasciatori ed è soddisfatto. Nel frattempo è andato avanti anche il lavoro diplomatico con i capi delle mozioni minori, il gruppo dell'Ernesto (mozione 3) e i trotzkisti di Falce e martello (mozione 4) , che saranno decisivi per l'eventuale incoronazione di Ferrero a leader. Fosco Giannini, ex senatore ribelle e tra i leader della terza mozione, si fa vedere sulla terrazza, parla stretto con Ferrero, si capisce che è disponibile a un'intesa. Purchè nel Documento politico finale si faccia almeno cenno a uno dei cavalli di battaglia del suo gruppo, e cioè l'unità di tutti i comunisti, a partire dal Pdci. Non è necessario che si facciano liste comuni già alle europee («Non siamo così rozzi», dice Giannini «ma dovranno essere liste comuniste a anticapitaliste») ma insomma che si vada in quella direzione. I trotzkisti fanno sapere che se si tratta di «spostare il Prc a sinistra noi ci siamo». Insomma, sommando il 40,3% di Ferrero e Grassi, il 7,7% di Giannini e il 3,2% di Falce e martello si arriva a superare il 50%, mentre Vendola resterebbe inchiodato al suo 47,3%. Tradotto nei numeri del comitato politico nazionale, che sarà eletto oggi e dovrà esprimere il segretario significa questo: 240 membri, 113 voti per Vendola, 123 per Ferrero e 4 astenuti della mozione 5. Sempre che il totale non cambi, visto che gli uomini di Ferrero stanno spingendo per alzare il numero dei componenti e rendere più difficile la strada per eventuali franchi tiratori nella nuova maggioranza.
Tutti uniti contro Nichi, contro l'idea della costituente di sinistra e contro il Pd, dunque. Ma con che futuro? Ferrero è consapevole che sarà difficile guidare il partito con una maggioranza così risicata e composita. E così propone una gestione unitaria ai vendoliani, ma sulla sua linea, che viene respinta al mittente: «Se vai alla conta e vinci poi il partito te lo governi da solo», dicono gli uomini del governatore pugliese. E aggiungono: «Se vince Ferrero Rifondazione non esiste più, noi non faremo la scissione ma partiremo subito con la costituente di sinistra». Ferrero alza gli occhi al cielo: «Non credo che ci sarà la scissione, e comunque dove andrebbero con Mussi e Fava? Forse in vacanza… ».
Ferrero è un carro armato, ma anche nella sua probabile e composita maggioranza le acque non sono poi così tranquille: «Sarà una roba come l'Unione, solo che stavolta Prodi lo fa Ferrero e io farò il Ferrero», sorride Leonardo Masella, capogruppo Prc nel consiglio regionale dell'Emilia Romagna ed esponente della terza mozione. «Di certo noi in autunno partiremo con la costituente dei comunisti», annuncia. Insomma, le obiezioni di Grassi sulla tenuta del nuovo gruppo dirigente mostrano già qualche consistenza. Dagli uomini più vicini a Ferrero si spiega che la cosa importante è che il partito esca con una linea chiara, svolta e sinistra, rilancio del partito con il suo simbolo, no a un nuovocentrosinistra col Pd, poi il resto verrà piano piano. In fondo loro sono arrivati qui a Chianciano come gli sconfitti, e stanno ribaltando le sorti di un congresso già perso, almeno sulla carta.
Ferrero non parla mai della sua candidatura, dal palco non dice una parola, spiega che «prima viene la linea politica» ma è chiaro che oggi pomeriggio, quando si riunirà il comitato politico, dovrà uscire allo scoperto. Gli uomini di Vendola le stanno provando tutte per trovare la sintesi su un documento comune, anche rinunciando a un caposaldo della loro battaglia congressuale come il processo costitutente a sinistra. Ma su un punto non molleranno: il nome di Vendola come segretario. Per Ferrero è fumo negli occhi, dunque oggi, a meno di un miracolo, si andrà alla conta. I numeri ce li ha l'ex ministro, ma il voto è segreto. La suspence non è ancora finita.

Corriere della Sera 27.7.08
Rifondazione. A colpi di Bandiera rossa
Fausto e il deserto politico
di Paolo Franchi


Nelle ore in cui Berlusconi assicura che il suo governo fa cose di sinistra, e in un certo senso della sinistra fa le veci, Rifondazione è a congresso.

Anche i suoi più feroci critici tributano al «delegato di Cosenza» Fausto Bertinotti un'ovazione quando constata amaro che la sinistra non c'è più, e va ricostruita dalle fondamenta. Sarà una coincidenza, ma colpisce lo stesso. Se non altro perché testimonia che il concetto stesso di sinistra, prima ancora che il consenso elettorale e la forza organizzata della sinistra medesima, si è fatto così vago e impalpabile da conferire una qualche legittimità non solo, come è ovvio, all'affermazione di Bertinotti, ma pure, paradossalmente, a quella di Berlusconi. Che è propaganda, certo, ma non soltanto propaganda. C'è stato, in Italia, un tempo - il tempo della democrazia bloccata - in cui la Dc poteva proclamarsi, e con qualche ragione, «alternativa a se stessa», dal momento che il Pci, per la sua collocazione internazionale, non era in grado di candidarsi a sostituirla al governo, e si regolava di conseguenza. Dalla caduta del Muro, e dalla fine del Pci, sono passati quasi vent'anni, non c'è condizionamento internazionale che tenga, la nostra non è più una democrazia bloccata. Ma Berlusconi può proclamarsi ugualmente alternativa a se stesso. In ragione non del fattore K, ma di qualcosa di più profondo ancora: il deserto politico e culturale in cui vagano i suoi competitori. Moderati riformisti o radicali che siano.
Per restare alla sinistra. Se questa suona come una parola vuota, o come semplice riferimento all'autobiografia individuale e collettiva di una parte (certo non piccola, ma nemmeno maggioritaria) del Paese, nulla osta a che il presidente del Consiglio, senza incontrare particolari reazioni, possa presentare come misure «di sinistra » l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, la Robin tax o la social card per gli indigenti. Se a tenere insieme nel profondo il mondo della sinistra e del centrosinistra non ci sono un'idea di Paese, una visione, un'intuizione del mondo diverse e alternative rispetto a quelle della destra e del centrodestra, ma solo l'antiberlusconismo, non ci vuol molto a capire perché il richiamo della foresta del dipietrismo, che ovunque sarebbe considerato, per quello che è, un fenomeno di destra, condiziona così pesantemente non solo il Partito democratico, ma anche la sinistra cosiddetta radicale, che pure, tra le sue numerose e gravi responsabilità, non porta quella di aver prestato orecchio alle sirene del giustizialismo. E si potrebbe continuare a lungo.
E' evidente che la questione principale riguarda il Pd e la sua vocazione maggioritaria, proclamata ambiziosamente, sì, ma senza preoccuparsi troppo di stabilire su che cosa dovrebbe fondarsi e trovare riscontro nella maggioranza degli italiani, e rimasta a vagare nell'aria (Benedetto Croce avrebbe detto: come un caciocavallo appeso) dopo la sconfitta di aprile. Ma c'è anche, eccome, il problema di una sinistra- sinistra, che è ancora, nonostante tutto, qualcosa di più profondo e radicato di quanto dica il disastroso risultato elettorale.
Nel giorno della commossa cerimonia degli addii dalla politica attiva, Bertinotti la esorta a ripartire dal basso, a incamminarsi in una sorta di lunga marcia in tutti i luoghi possibili del conflitto per costruire, nel ventunesimo secolo, qualcosa di simile a quello che fu, nel ventesimo, il movimento operaio. E' come dire, per l'oggi, che la prima se non l'unica cosa da fare è dare un taglio netto alla logica dei partitini e degli stati maggiori che nemmeno si accorgono di non avere più delle truppe alle spalle. Un appello accorato e persino lodevole, al di là del massimalismo verbale di cui è intessuto. Peccato che la platea congressuale cui è rivolto, quella di Rifondazione comunista, sia (al pari di tutte le altre platee congressuali dell'ex Sinistra Arcobaleno) poco incline a raccoglierne la sostanza. Dovrebbe ragionare con umiltà e passione insieme sui perché di una sconfitta storica e su quale mai possa essere la porta stretta da attraversare per mettere mano alla costruzione, in Italia, di una sinistra larga e plurale. Preferisce invece esercitarsi nel gioco delle mozioni, dei regolamenti di conti interni e delle possibili o impossibili mediazioni, come se fosse avvenuto qualcosa di grave, sì, ma non di gravissimo e, forse, di irreparabile.
Si capisce l'amarezza del direttore di Liberazione,
Piero Sansonetti. Faccia o no cose di sinistra, Berlusconi può stare tranquillo. C'è grande disordine sotto il cielo. Ma la situazione non è affatto eccellente.

Corriere della Sera 27.7.08
Ovazione a Bertinotti Prc, si va alla conta su Vendola e Ferrero
L'ex leader: il Pd non è un partito di opposizione
Quindici minuti di applausi all'ex presidente della Camera, ma fallisce il tentativo di trovare una mediazione tra le mozioni
di Maria Teresa Meli


CHIANCIANO — E' l'ovazione più sentita, la più forte: per un quarto d'ora la platea del congresso di Rifondazione, in piedi, si spella le mani per Fausto Bertinotti. L'ex (?) leader del Prc cerca di dare ancora una volta la linea al partito e una mano a Nichi Vendola: «Non dobbiamo ritornare in un rifugio: una forza antagonista non deve essere minoritaria, ma deve avere una vocazione maggioritaria».
Il messaggio è rivolto a Paolo Ferrero e ai suoi. Ma siccome l'ex presidente della Camera vuole aiutare Vendola nella sua impresa ammette gli insuccessi: «L'ipotesi della sinistra unita è stata sconfitta». E attacca il Pd, che in questa sala è più odiato del Pdl di Silvio Berlusconi: «Non ha i fondamenti di un partito d'opposizione».
Bertinotti finisce di parlare e gli applausi che riceve illudono tanti: forse è possibile una soluzione unitaria. «Dovrebbe fare lui il segretario», sorride Giovanni Russo Spena, alleato di Ferrero. Ma la tregua non c'è: i convogli sono partiti e rischiano di scontrarsi. Lo si vede nel pomeriggio, quando interviene l'ex ministro Ferrero in nome della difesa del partito identitario.
Appena termina, una parte del congresso intona l'inno: «Bandiera rossa» e pugni chiusi accompagnano la sua uscita. E' la fotografia plastica della spaccatura di Rifondazione, quella platea divisa a metà. Ma è quando inizia a parlare l'ex capogruppo Gennaro Migliore che il clima si incattivisce. Chiede al partito «coraggio politico», e dal fondo della sala un gruppetto inveisce contro di lui. Rischia perciò di restare inascoltato l'appello di Claudio Grassi: «Se il partito si divide muore».
In serata la foto finale è quella di un partito di separati in casa. Ferrero che si candiderà oggi, nel comitato politico che elegge il segretario, è in vantaggio di una decina di voti su Vendola. Ma resta l'incognita dello scrutinio segreto. Tant'è vero che Ferrero ora vuole rompere l'accordo raggiunto sul numero di componenti del comitato politico: vuole allargarlo per aumentare il suo vantaggio.

Fausto Bertinotti, 68 anni, inizia la sua carriera nella CGIL, nel '64, come segretario dei tessili. Dal '67 segretario della Camera del lavoro di Novara diventa negli Anni 80 segretario piemontese
L'attività sindacale occupa Bertinotti fino al 1993, quando su invito di Cossutta entra nel Partito della Rifondazione Comunista
Al vertice del Prc dal '94 (sopra, con Cossutta), entra nel governo Prodi del '96, e dopo una serie di attriti, Bertinotti nega la fiducia alla Finanziaria del '98 e il governo cade. Cossutta e Diliberto fondano il partito dei Comunisti italiani
Dalle fabbriche piemontesi a Montecitorio: è con il secondo governo Prodi, nel 2006, che Fausto Bertinotti diventa presidente della Camera

Corriere della Sera 27.7.08
Dietro le quinte E Fausto avverte lo sfidante Nichi: vogliono farti passare per traditore
Bandiera rossa, cantano solo i fan dell'ex ministro
di Maria Teresa Meli


CHIANCIANO — L'eco di Bandiera Rossa si è spento da poco quando Fausto Bertinotti prende da parte Nichi Vendola. «Hai capito quello che stanno facendo? Ti vogliono far passare come un traditore del comunismo. Lo fanno per conquistare gli indecisi. Mandano questo messaggio: chi vota Nichi tradisce il comunismo ».
Già, è questa l'operazione che ha messo in moto Paolo Ferrero. L'ex presidente della Camera l'ha capito subito, appena ha assistito allo show dei pugni chiusi e dell'inno. «Se un pezzo di Rifondazione comunista canta «Bandiera rossa» contro l'altro pezzo, vuol dire che di fatto si sente un altro partito»: confida Bertinotti a un compagno che gli siede vicino in platea.
Il comunismo, la fedeltà al partito e al passato diventano le armi con cui combattere contro il «governatore » della Puglia. Per questa ragione l'ex capogruppo Gennaro Migliore tenta di contrastare subito questa tattica ricordando a Paolo Ferrero che «le parole di quell'inno sono di tutti noi, non di una sola parte».
Può sembrare surreale, nel 2008, il congresso di un partito in cui si litiga su chi è o non è un comunista doc. Come può apparire strano che uno dei due contendenti, l'ex ministro Ferrero, non si candidi davanti alla platea congressuale, ma nel chiuso della stanza del comitato politico. Ma tant'è. Questa è la liturgia del Prc o, almeno, di una sua parte.
Non bisogna però credere che i sostenitori di Ferrero siano tutti come questo signore dall'aria seria e i vestiti sobri. A caldeggiare la candidatura dell'ex ministro della Solidarietà sociale c'è anche un personaggio come Nunzio D'Erme, salito agli onori delle cronache per aver portato, quando era consigliere comunale di Roma, del letame sotto casa Berlusconi. Anche lui sta con Ferrero e spiega il perché alla sua maniera: «E' meglio di Vendola, no? Pure se a me non è che frega un c... So' ubriaco e sto qui solo perché mi pagano l'albergo».
Variegato, il mondo di Rifondazione comunista. C'è l'ex deputato nonché ex bertinottiano Ramon Mantovani, per esempio, che sostiene Ferrero e che quasi non saluta più gran parte dei suoi avversari interni. C'è l'ex cossuttiano Claudio Grassi che tenta di conciliare l'inconciliabile pur di non dividere il partito e implora: «Ferrero e Vendola, parlatevi ». E c'è Fosco Giannini, capo di una delle cinque mozioni congressuali, che per sostenere Ferrero chiede in cambio la costituzione di un pci versione bonsai formato da Rifondazione e dai comunisti italiani di Oliviero Diliberto. In platea, ogni tanto, Bertinotti scuote il capo, fa spallucce, sospira: l'aveva pensato diverso, il suo partito.
Ma, com'è ovvio, in un congresso non si vince solo in nome dell'intangibilità dell'ortodossia comunista. Per questa ragione si apre per tutta la giornata la caccia ai voti. Ferrero tenta di rafforzare il suo vantaggio, Vendola di convincere quella manciata di delegati che lo separano dal vincitore in pectore. E oggi, comunque andrà a finire, chiunque vinca, se lo scontro non verrà scongiurato all'ultimo momento, vi saranno due partiti in uno. A meno di una scissione, naturalmente. Ma se Vendola perde i suoi non se ne andranno. Resteranno nel partito. Non è il caso di divorziare quando la famiglia della sinistra è così mal messa...

Repubblica 27.7.08
"Abbiamo fallito, ripartiamo dagli operai"
Ovazione, lacrime e baci per Bertinotti. "Il Pd non può fare l’opposizione"
Il Pd non ha i fondamenti per fare opposizione e Di Pietro appartiene a una cultura di destra
Dobbiamo creare le condizioni per uno sciopero generale, il banco di prova per l´opposizione
Come diceva Marx, il movimento va ben oltre. La sinistra non ha nulla da perdere se non le catene
Il risultato elettorale ci dice che sono state sconfitte tutte le ipotesi di unità a sinistra
Dopo il discorso l´ex leader si leva un sassolino dalla scarpa: "I fischi? Non li ho sentiti"
di Sebastiano Messina


CHIANCIANO - Mai, nella storia della sinistra italiana, un delegato di Cosenza era stato accolto al congresso da una standing ovation di otto minuti. Un´ovazione che sembra interminabile, otto minuti durante i quali un intero partito si mette in fila per abbracciarlo, baciarlo, stringergli la mano, strappargli un autografo o dirgli, semplicemente, «ti vogliamo bene», come fa la compagna Laura quando arriva il suo turno. D´altra parte, non era mai successo che a Cosenza mandassero al congresso del partito un delegato come il compagno Fausto Bertinotti.
Cose che capitano una sola volta, come il discorso di 24 minuti col quale l´ex leader di Rifondazione comunista oggi ha catturato, conquistato e sedotto tutti, ma proprio tutti i 630 delegati radunati sotto il tendone capitalista del Palamontepaschi, circondato da arzilli pensionati col bicchiere in mano in pellegrinaggio verso la fontana miracolosa che risana il fegato. Un discorso abilissimo, l´unico che potesse ricompattare almeno per 24 minuti le anime divise da cento rancori che si contendono la guida di un partito ormai extraparlamentare. Un discorso così efficace che lascia a bocca aperta persino l´ex dissidente Marco Ferrando, oggi capo di un suo partitino dello zero virgola, al quale si deve il commento più acido: «Il fatto che Rifondazione acclami l´uomo che l´ha distrutta dà la misura plastica della sua crisi irreversibile». Bertinotti, in realtà, ha cercato di dimostrare l´esatto contrario. Ha ammesso fino in fondo la sconfitta che ha espulso il suo partito da quel Parlamento che lui presiedeva, fino a tre mesi fa. E ha offerto ai suoi compagni una rotta per uscire dal gorgo della sparizione, o almeno per provarci.
Per il suo intervento dal palco, il delegato di Cosenza ha rinunciato all´abito beige per una giacca a righe bianche e blu su una polo Lacoste. Aspetta pazientemente che venga il suo turno, seduto in settima fila. Poi, a mezzogiorno e mezzo, si avvia finalmente al microfono, mentre tutta la sala si alza in piedi per applaudirlo.
Lui arriva subito al dunque. Perché, si domanda, abbiamo perso così duramente? Perché la cultura di sinistra è diventata minoritaria. «Quando un operaio di Brescia prende la tessera della Fiom ma vota per la Lega, non è uno sciocco o uno stupido. Lo fa per una convenienza attesa. Allora, o noi siamo in grado di disgregare quella convenienza e di crearne una nuova, o quello continuerà a votare Lega». Certo, commenta, dobbiamo fare i conti col sindacato «che è un problema gigantesco». Ma quello di cui abbiamo bisogno è «un´opposizione di sinistra». Che oggi manca. «Il Partito democratico non ha i fondamenti per essere un partito d´opposizione. E Di Pietro, e in generale la cultura populista, possono anche apparire ma non sono di sinistra, anzi sono una cultura di destra». Dunque tocca a Rifondazione. Ma come? Ricostituendo «un nuovo movimento operaio». Lavorando a «un grande sciopero generale».
E qui Bertinotti compie il suo capolavoro, trasformando la sconfitta del 14 aprile nella chiave per aprire la porta di un nuovo luminoso futuro. Sì, ammette a voce alta, «abbiamo fallito l´esperienza della sinistra alternativa». «E siccome sono, come sempre, onesto, non ho difficoltà a riconoscere che bisogna andare oltre. Uno deve saper imparare dalle sconfitte». Ferrero, dal suo posto, annuisce soddisfatto. Ma l´ex segretario non ha finito.
«Adesso però non buttiamo il bambino con l´acqua sporca. Più che un assemblaggio di pezzi bisogna riprendere la politica degli avi». La politica degli avi? Già, quella che aveva i suoi luoghi «nelle case del popolo, nelle leghe». Riprendiamo il contatto con la realtà, con la gente. Impariamo dalle esperienze dei partiti socialisti sudamericani, che dopo essere stati sconfitti hanno ricominciato daccapo, «però innovando». E la vera innovazione, per Rifondazione, deve essere quella di conquistare «una vocazione maggioritaria», perché «una forza antagonista non può resistere a lungo se è una forza minoritaria».
La platea applaude per la ventesima volta. Il tempo per il delegato di Cosenza è scaduto da un pezzo, anche se nessuno si azzarderebbe mai a picchiettare il microfono per ricordarglielo. Ma il compagno Fausto guarda l´orologio (un Rado in ceramica fumé) e decide che è arrivato il momento di chiudere. «La nostra parola è di nuovo la parola liberazione» scandisce, e si allontana dal microfono, mentre tutti si alzano in piedi, applaudendo. E´ solo l´inizio del suo congedo. Lui manda un bacio. Si inchina ai compagni. Mette la mano sul cuore, come per dire: vi porto tutti qui dentro. L´intera presidenza del congresso si mette in fila per abbracciarlo, e lui li stringe tutti. Quando ha finito, torna al microfono, ha ancora un´ultima cosa da dire: «Grazie per tutto quello che mi avete dato in questi anni. Grazie di cuore. Vi voglio bene». E qui la voce gli si incrina per la commozione, lui si asciuga rapido due lacrime che gli sono scappate e affronta la lunga traversata della sala. Poi, quando finalmente guadagna l´uscita, si gira verso i cronisti che gli chiedono un ultimo commento e si toglie, con un sorriso, un sassolino dalla scarpa: «L´unica cosa che ho da dirvi è che i fischi io non li ho sentiti».

Repubblica 27.7.08
Bertinotti e Grassi spingono per l´accordo: una spaccatura profonda potrebbe essere la fine del Prc
Parla Ferrero e parte Bandiera Rossa lotta all´ultimo voto per la leadership
di Umberto Rosso


CHIANCIANO - Caccia al voto. Sei, pochi maledetti e subito farebbero la felicità di Nichi Vendola, sei franchi tiratori strappati a Ferrero nel segreto dell´urna per conquistare domani notte la segreteria. Ma siccome qua nessuno è fesso, ecco la contromossa subito partorita nei corridoi del congresso: alzare d´ufficio il plenum del parlamentino chiamato all´elezione, portando da 240 a 260 il numero dei componenti del Comitato politico nazionale. Alzando l´asticella fino al limite che, secondo gli anti-bertinottiani, il governatore della Puglia non potrà mai scavalcare. Risultato, in questo caso: domenica notte sulla poltrona di nuovo segretario si siede l´ex ministro della Solidarietà sociale del governo Prodi. I pontieri sono ancora all´opera, ma quanto è difficile ricucire in questo settimo congresso di Rifondazione, veleni e veline, sul quale come una maledizione pesa un´ombra da tanti evocata: potrebbe essere l´ultimo. Non c´è posto per due Rifondazioni sotto lo stesso tetto. Ci ha provato Bertinotti, spostando più in avanti le lancette del confronto. Ci ha provato Claudio Grassi con l´appello ai due, «Nichi e Paolo, parlatevi, un accordo si può trovare, se no Rifondazione muore». Si fanno, disfanno, rifanno documenti di compromesso nelle riunioni-fiume fra le componenti ma regolarmente il castello si affloscia quando si tocca il tasto fatale, «ma chi gestisce la linea e fa il segretario?». Vendola non molla. Ferrero nemmeno. Va alla tribuna e accende i cuori dei suoi invocando il ritorno ad una «limpida lotta di classe», a Marx, al comunismo che resiste, e che non può avere niente a che fare con il Pd e con la tentazione di un nuovo centrosinistra. Ma anche referendum sociali contro la legge 30. E sono cori Bandiera rossa, Bella Ciao, pugni chiusi, comunismo-comunismo. Bertinotti scuote la testa, «quando un pezzo del partito arriva ad usare Bandiera rossa contro un altro pezzo, vuol dire che si sente già fuori». Sulla carta l´ex ministro potrebbe farcela. Mettendo insieme tutte le altre quattro mozioni (la sua ha 97 voti, quella dell´Ernesto 18, i trotzkisti 8, la frangia ex bertinottiana 4; la mozione Vendola ha conquistato invece la maggioranza relativa con 113 voti). Ogni pezzetto del mosaico però avanza richieste. Giannini vorrebbe la costituente comunista con Diliberto. I trotzkisti pretendono che il partito diserti tutte le prossime competizioni elettorali, «e voglio proprio vedere - se la ride Francesco Forgione, ex presidente dell´Antimafia - come farà Ferrero a non presentare le liste, già in Abruzzo». Temono, i bertinottiani, il ritorno al passato, l´involuzione, l´arroccamento e la fine di un partito che con la linea Ferrero rimetta insieme i Turigliatto, i Cannavò, i Ferrando, duri e puri e perdenti. Ma l´arroccamento non ci sarà, garantisce Russo Spena, l´ex capo dei senatori, «e del resto anch´io non mi sentirei tranquillo da una segreteria di Nichi non vincolata ad una linea politica precisa». Vendola che, con una punta di veleno ricorda Ramon Mantovani, neanche starebbe più nel partito se in passato si fosse usata anche con lui la mano forte: baciò il rospo del governo Dini, nel ‘95, ma non venne espulso.

l’Unità 27.7.08
LA STRATEGIA
Criminalizzare, censire ed espellere:
il progetto Maroni e l’escalation della destra


È ministro dell’Interno da pochi mesi eppure l’escalation di Maroni sull’immigrazione è stata costante. Obiettivo: censire, espellere, criminalizzare. Sul filo del razzismo, e anche oltre. Dall’idea del reato di clandestinità alle impronte digitali all’etnia nomade e ai piccoli rom al di sotto dei 14 anni. Alla fine di questo lungo giro che ha portato alla dichiarazione dello stato d’emergenza, come per i terremoti e le catastrofi ambientali, alla fine delle contrattazioni, il ministro Maroni è arrivato con provvedimenti come l’aggravante del reato in caso di clandestinità e le espulsioni più facili. Ma anche il carcere per chi affitta le case ai clandestini.

La questione rom
Da subito nel mirino soprattutto per quanto riguarda la gestione dei campi. È il 28 maggio quando Maroni convoca al Viminale una riunite con sindaci e prefetti. L’ordine è quello di smantellare in tre regioni - Lazio, Lombardia e Campania - i campi nomadi. Ai prefetti poteri per delocalizzare i campi rom, individuando tutte le misure necessarie, anche in deroga alle leggi vigenti. Ma è la questione impronte a tenere banco. Prima dello smantellamento c’è il censimento e prima ancora del censimento il riconoscimento, cioè la schedatura. Maroni chiede che ogni nomade, bambini compresi, vengano fotografati e vengano loro prese le impronte. È la rivolta. E anche l’imbarazzo di alcuni all’interno del Pdl. Il primo a ribellarsi - tra le istituzioni - è il prefetto di Roma Carlo Mosca. Il prefetto dice no, ufficialmente. Dice: «Non farò prendere le impronte digitali ai bambini rom. Così come non si prendono le impronte digitali per il passaporto ai minori italiani così non si vede il motivo per cui bisogna farlo con i bambini rom». Anche la Commissione Ue interviene e dice che non è possibile prendere impronte digitali ai rom, secondo le regole europee. Maroni però non è pago e il 29 giugno dichiara: «Le polemiche sull’identificazione dei bambini rom attraverso le impronte digitali sono totalmente infondate, frutto di ignoranza e pregiudizio politico. Non mi faranno retrocedere neanche di un millimetro è solo ipocrisia».

I nuovi Cpt
Quasi contemporaneamente il ministro Maroni cova un altro progetto. Moltiplicare i Cpt, i centri di accoglienza permanente per gli immigrati clandestini. Anzi li vuole chiamare Cie, cioè centri di identificazione ed espulsione. C’è un disegno di legge che dice che il tempo di permanenza in queste strutture si allunga dagli attuali 60 giorni a 18 mesi. Questo - insieme all’idea dell’introduzione del reato di immigrazione clandestina - comporta l’esigenza di nuovi Centri. Maroni ne enumera 10 e presenta anche i conti: serviranno 600 milioni di euro per avere un Centro a regione. Ad ospitare i nuovi Centri saranno 10 caserme dismesse dall’Esercito.

Reato di clandestinità
L’idea prende meglio forma: serve creare il reato di clandestinità. «La sinistra italiana ci rompe le palle - spiega Maroni - . Se una cosa la facciamo noi, non va bene, se la fanno gli altri invece va bene». Il reato di immigrazione clandestina, dice, c’è in Francia, Inghilterra e Germania. Arriva il no delle opposizioni, del Vaticano e dell’Alto commissario per i diritti umani, Louise Arbour. Berlusconi frena, interviene Bossi: «Per adesso lasciamo il reato. L’importante è raggiungere l’espulsione». Maroni insiste: «La tolleranza zero si realizzerà. Il reato di immigrazione clandestina resterà e non temo le critiche di opposizione, pm e Chiesa». Nel decreto sicurezza, alla fine, il reato passa come aggravante. Cioè le pene vengono aumentate di un terzo se a commettere i reati sono immigrati clandestini.

Le badanti
Si profila però un problema badanti, e Moroni diventa inflessibile: «Le badanti restano fuori dal reato di immigrazione clandestina, anche se non ci saranno sanatorie». Tale inflessibilità resta anche quando i ministri Sacconi e Carfagna mettono a punto una bozza di emendamento al decreto sicurezza che dà la via libera all’assunzione delle straniere irregolari che già lavorano e si occupano di assistere anziani e disabili. Bozza su cui il titolare del Viminale è del tutto contrario.

Espulsioni
Obiettivo espulsioni. Maroni ci riprova nel decreto sicurezza con l’emendamento che dice: se il magistrato non dà entro 48 ore l’ok alla richiesta di espulsione fatta dalle forze di polizia, scatta il silenzio-assenso, cioè l’espulsione diventa immediatamente operativa. Ma nel decreto approvato il 23 luglio passano queste norme: si ampliano i casi di espulsione su ordine del giudice per gli stranieri condannati. Sarà espulso chi è condannato a più di due anni di reclusione (prima era 10 anni). Obbligatorio l’arresto dell’autore, anche se non c’è flagranza, e si procede con rito direttissimo.

l’Unità 27.7.08
Due bimbe rom, un sabato di luglio
Rosetta Loy


Questa foto in apparenza anonima
accorpa in sé, involontariamente
non solo la storia di due morti
per annegamento, ma ci svela
una realtà spaventosa, qualcosa
che non vorremmo mai avere visto

Vorrei parlare della fotografia di due coppie di piedi e di un uomo e una donna seduti un poco defilati sullo sfondo.
Veniamo da un secolo, il Novecento, che ci ha abituato a cercare nel particolare la chiave per accedere alla verità nascosta sotto ineccepibili apparenze. Il primo a insegnarcelo è stato forse lo svizzero Morellini che riuscì a scoprire molti falsi in pittura attraverso l’analisi di particolari insignificanti: l’unghia di un mignolo, un ciuffo di capelli, l’ala di un fringuello. Il disegno di una pantofola. Ma ce l’hanno insegnato anche Conan Doyle e Sherlock Holmes sempre con la lente di ingrandimento a cercare quello che sfugge a occhio nudo.
L
a fotografia di cui voglio parlare è stata scattata una mattina di sole sulla spiaggia di Torrevegata vicino a Napoli, un sabato di luglio. La prima cosa che colpisce in questa fotografia sono quattro piedi che fuoriescono da due teli da spiaggia, uno verdolino e l’altro a disegni bianchi e blu. Quattro piedi divaricati. Forti. Ma anche morbidi, con ancora delle rotondità infantili. Piedi con la pianta rivolta al sole. Accanto un giovanotto in shorts blu e maglietta bianca ha il cellulare all’orecchio, probabilmente sollecita qualcuno a portare via i due corpi distesi sotto i teli. Ma lui è marginale alla foto. Centrali sono i piedi e la coppia in secondo piano, sullo sfondo. Sono un uomo e una donna seduti sulla sabbia a ridosso di una bassa scogliera formata da alcuni massi e ciottoli levigati dal mare. La donna tiene le mani intrecciate mollemente intorno alle ginocchia , è in costume da bagno e ha un cappellino in testa, appare graziosa e rilassata, la grossa borsa da spiaggia azzurra a distanza di braccio. Accanto a lei è seduto l’uomo con le gambe appena più allungate e un cappellino probabilmente celeste.
Questa fotografia in apparenza anonima e casuale assume a un tratto un significato agghiacciante. Accorpa in sé, involontariamente, non solo la storia di due morti per annegamento in un sabato di sole sulla spiaggia di Torregaveta ma ci svela nei suoi particolari meno appariscenti una realtà spaventosa, qualcosa che non vorremmo mai avere visto e mai vedere: Noi. Una realtà al limite della nausea. E non sono i corpi delle due bambine coperti dai teli da spiaggia, due teli trovati al momento per velare pudicamente la morte, ma i loro piedi che i teli non arrivano a coprire, ancora infantili ma anche densi, piedi che vanno, abituati a camminare. Eppure sempre e ancora piedi di bambini che si offrono allo sguardo in primo piano come se non fosse poi così importante nasconderli per coprire l’inguardabile della morte. Ma l’obbiettivo che li inquadra cattura sullo sfondo qualcosa che non ha niente a che vedere con quei piedi : la coppia venuta a trascorrere una meritata giornata di mare e sole, l’acqua e i panini, la frutta lavata al fresco nel borsone accanto. Una coppia che ci rappresenta in maniera da manuale; e così adesso quei piedi gridano, urlano, pesano come piombo.
Quattro ragazzine venute a vendere tartarughe e braccialettini ai bagnanti del weekend di luglio. Sporche e impacchettate in vestiti lunghi, stracciosi, che subito le identificano come le infime degli infimi. Tredici, quattordici, dodici, undici anni. Ragazzine che a un tratto non ne possono più di quel caldo insopportabile e entrano in mare. Prima i piedi e i cavalloni che si sciolgono sulle gambe in un apoteosi di schiuma, e subito si ritraggono in un risucchio. Il resto si sa, ancora qualche passo e a un tratto un cavallone più alto degli altri gli si schianta addosso mentre il risucchio si tira appresso le gambe, quei vestiti che le imprigionano come corde, i piedi scivolano sul fondo loro annaspano per tenersi a ritte, vanno giù, poi ritornano su, poi ancora giù, qualcuno a un certo punto se ne accorge. Due le salvano, per le due più piccole è invece troppo tardi.
Ma lo scompiglio creato dalla tragica fine del loro goffo bagno si placa in fretta, noi abbiamo ripreso a goderci la nostra meritata giornata di vacanza, accanto la grossa borsa con i vari generi di conforto. Fra poco faremo un tuffo, magari stando un poco più attenti. Se non fosse per la visione di quei piedi così spaventosamente simili, identici a quando avevamo dodici o tredici anni, gli alluci e le piante appena rigonfie, le caviglie ancora morbide. Dei piedi che ci raccontano di come il nostro cuore sia diventato un sasso, la nostra testa una calcolatrice dotata di una mirabolante serie di tasti. La nostra anima? chissà dove .
Questo ci dicono quei piedi e la serena coppia sullo sfondo.

l’Unità 27.7.08
Caso Eluana, in Parlamento una mozione che calpesta le regole
di Vannino Chiti


La prossima settimana il Senato e forse anche la Camera affronteranno con una mozione il caso di Eluana.
Voglio esprimere prima di tutto la vicinanza al padre, il rispetto per una prova così drammatica come quella che ha dovuto e deve affrontare. Mi ha colpito la dignità di quest’uomo.
La vicenda di Eluana nel merito non si presta a decisioni facili. Ho letto le valutazioni di tanti costituzionalisti ed esperti: il loro giudizio non è univoco e le differenze non sono coincidenti con le scansioni determinate dalle convinzioni ideali o dalle appartenenze politiche.
Se si ritiene che Eluana sia artificialmente tenuta in vita, allora saremmo di fronte ad un caso di accanimento terapeutico, che può essere rifiutato: del resto proprio chi si appella alla fede religiosa più di altri fa riferimento a leggi di natura che non possono essere forzate ad arbitrio dell’uomo.
Se si assume invece come punto di vista il dovere di assicurare l’alimentazione - cibo e bevande - allora la collettività non può in alcun modo farle mancare ad Eluana.
Difficile, almeno per me, farsi un’idea della decisione giusta o semplicemente più giusta. Certo non si è di fronte ad un caso come quello di Welby. Di sicuro, come già avvenne negli Usa per Terry Schiavo, morire per fame e sete produce un’agonia lenta, lunga, inumana.
Non su questo comunque sono chiamate a pronunciarsi le Camere. La mozione sottoposta alla nostra attenzione segna, di fronte ad un immenso dramma umano, la pochezza, il cinismo, la lontananza di una politica che nasconde dietro strumentalizzazioni ideologiche o freddi tatticismi la sua incapacità di farsi carico realmente dei problemi della vita nella sua concretezza.
La mozione a mio giudizio è improponibile. Non si è mai visto una Camera impegnare se stessa anziché il Governo. Né si può sollevare conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale riguardo ad una sentenza non definitiva della Cassazione. Non si tratta soltanto di spreco di risorse pubbliche, in un momento nel quale è richiesto alla politica estremo rigore, sobrietà, senso di responsabilità. È ancor più il prestigio delle istituzioni che viene meno, quando le regole vengono calpestate, il rapporto tra i diversi poteri sacrificato a calcoli di politica contingente.
Le regole invece si rispettano fino a quando non siano state cambiate. In caso contrario la democrazia si svuota e impoverisce.
Il dovere che oggi le Camere dovrebbero avvertire come primario è quello di aprire un confronto serio e approfondito per una legge sul testamento ideologico: consentire ad ognuno di noi, se lo vuole, di lasciare scritte le sue volontà sulle cure accettabili in drammatiche situazioni che ci potranno riguardare; prevedere per i medici una funzione non puramente notarile perché le conoscenze si modificano e possono essersi evolute tra il momento in cui si esprime una volontà e le circostanze che ne chiamano in causa l’attuazione.
Un tale equilibrio è possibile ed è questo il compito del Parlamento e di una politica seria.
La missione dei medici è quella di aiutare la vita e di sconfiggere nei limiti del possibile il dolore. Anche la politica deve far proprio il valore della vita, rendendola inseparabile, sempre, dalla dignità della persona.
Sono i ritardi della politica, per prevalente responsabilità della destra, ad aver determinato per il nostro Paese la mancanza di una legge che altre nazioni avanzate hanno: una legge di civiltà, non di abbandono di persone, delle famiglie, degli stessi medici.
In questo impegno, senza pregiudiziali e senza certezze assolute di cui nessuno è detentore, è giusto mettere passione e competenza.
Personalmente non intendo partecipare al voto: in questo caso non per libertà di coscienza ma per manifestare dissenso nei confronti di una mozione che secondo me calpesta regole, procedure parlamentari e non sa calarsi nel dramma di una difficile vicenda umana.

l’Unità 27.7.08
Storia di Faiza e del suo Burqa
di Luigi Manconi Andrea Boraschi


Faiza Silmi è una donna di 32 anni che vive in Francia da 8. Sposata, tre figli nati lì, parla correntemente la lingua locale e vive, a suo dire, come ogni altra donna in quel paese. Vorrebbe diventare francese, prendere la nazionalità e godere di tutti i diritti di cittadinanza lì riconosciuti. E, nonostante su di lei non gravi alcuna accusa, non si sia mai macchiata di illeciti o di reati e le sue abitudini di vita non minaccino o ledano alcuno, quella donna non può diventare cittadina francese. Per via del suo credo e dei comportamenti che - così lei ritiene - da quello le sono imposti. Perché Faiza indossa il burqa. Così una sentenza del Consiglio di Stato francese ha ribadito, pochi giorni or sono, la decisione già assunta alcune settimane prima: "difetto di assimilazione", questa la motivazione della sentenza. Faiza, secondo i giudici, "ha adottato, in nome di una pratica radicale della sua religione, un comportamento sociale incompatibile con i valori della società francese, con particolare riferimento all’uguaglianza dei sessi". È la prima volta che in quel paese viene negata la cittadinanza sulla scorta di valutazioni riferibili all’appartenenza religiosa; in precedenza era stata negata solo in caso di sospetta militanza in gruppi fondamentalisti o in caso di aperto schieramento in favore del radicalismo islamico.
È certamente ipotizzabile che nel giudizio abbia pesato la controversa legge sulla laicità in vigore da qualche anno, che vieta l’ostensione di simboli religiosi in luoghi pubblici. Faiza si è presentata ai colloqui con i funzionari che hanno istruito il suo dossier sempre indossando l’abito al centro della contestazione; e ha sostenuto di aver spontaneamente aderito a una lettura particolarmente rigorosa del Corano, che le imporrebbe di indossare il velo integrale. Il rifiuto della cittadinanza viene inoltre motivato sottolineando la condizione di sottomissione al genere maschile che sembra contraddistinguere la vita di quella giovane donna. In conclusione, ella "non ha alcuna idea della laicità e del diritto di voto, le sue dichiarazioni rivelano la non adesione a valori fondamentali della società francese". Del caso si è interessato anche il New York Times. Perché l’identità Faiza, dalle dichiarazioni poi rilasciate, sembrerebbe non coincidere, almeno non perfettamente, con quel modello regressivo di femminilità islamica descritto dalla sentenza della Corte di Stato. Eccola allora rivelare di non aver mai indossato il burqa prima della sua venuta in Francia: e di farlo "per abitudine più che per convinzione religiosa", per assecondare il marito. Dal quale, però, si dice ampiamente autonoma: "Mio marito non m’impone proprio nulla. Ho un’auto mia, esco a fare shopping da sola e sono libera di andare e venire a mio piacimento. Per il resto, ho cura dei miei figli e non ho commesso alcun reato. L’unica mia colpa è quella di essere musulmana praticante e ortodossa". E, conclude, "Mai avrei pensato di venire esclusa sulla base del mio abbigliamento". Insomma: difficile dire se Faiza sia una donna libera, consapevole dei suoi diritti e delle sue prerogative, o, altrimenti, una persona oppressa da un’interpretazione aberrante di un dato religioso, che la relega in una condizione di soggezione nei confronti del mondo maschile. E, in fin dei conti - non per amore del paradosso - la cosa è secondaria ai fini del nostro ragionamento. Non solo: la materia è, insieme, così cruciale e così scivolosa che non ci sentiamo di prender partito in un senso o in un altro; assai più importante è discuterne e approfondirne i molteplici significati. La notizia è stata accolta con favore dal ministro francese Fadela Amara, di origine algerina: perché, così si è espressa, "Il burqa è una prigione, una camicia di forza. Non è un simbolo religioso, ma il simbolo visibile di un progetto politico totalitario che alimenta la disuguaglianza dei sessi e porta in sé la totale mancanza di democrazia". Vorremmo saperne un po’ di più, in materia: ma non stentiamo a crederle ed esprimiamo convintamente pari ostilità verso la valenza simbolico-sociale di quell’indumento. Il problema, però, è un altro.
Faiza ha tutti i requisiti giuridici per ottenere la cittadinanza francese. La valutazione che è stata fatta della sua persona, invocando laicità, è tutt’altro che laica. Ovvero, a quella donna sono stati negati diritti e garanzie in virtù di ciò che si presuppone della sua vita relazionale e della sua convinzione religiosa. Quindi a partire da giudizi che intervengono nella sfera privata della sua vita: uno spazio esistenziale - fatto di orientamenti, sentimenti, condotte, preferenze, convinzioni - al quale dovrebbe rimanere estraneo ogni controllo da parte di un’autorità pubblica. E dal quale, invece, non ha ritenuto di doversi chiamare fuori il Consiglio di Stato.
Si può negare la cittadinanza a una persona per le forme in cui interpreta il suo credo religioso, quando quelle forme non rappresentano una minaccia per alcuno? O perché le sue dichiarazioni rivelano la non adesione ai valori civili di uno stato? Le motivazioni della sentenza formulata dal Consiglio appaiono più che mai rivelatorie: "difetto di assimilazione". E rinviano a un preciso paradigma, quello "assimilazionista", che trae ispirazione, principalmente, da una preoccupazione di difesa della propria civiltà. "Assimilare", in questa cornice, vuol dire chiedere agli immigrati, in cambio del diritto a beneficiare di una qualche integrazione, di rinunciare a una porzione consistente della propria identità per aderire alle regole (e non di rado all’ethos) della civiltà occidentale. In questo caso, l’identità dell’immigrato si trasforma, con l’interdizione dei suoi aspetti meno secolarizzati, in "cittadinanza" nel più blando senso giuridico-territoriale, riducendosi a pura fruizione di diritti formali. Incapace di ricevere e comprendere comportamenti "altri", la società "assimilazionista" si limita a contenerli, reprimerli o bandirli. Operazione legittima, questa, fin quando si facciano rispettare leggi non invasive della sfera individuale e non intrusive rispetto alla dimensione culturale, religiosa, esistenziale dello straniero; assai criticabile quando una non meglio precisata "coscienza laica" impone - attraverso la legge francese prima ricordata - il divieto di indossare non solo il burqa, ma anche il velo (che pure lascia scoperto il volto) alle donne musulmane.
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it

l’Unità 27.7.08
Da ieri sera è montata al Poetto: 30 metri per 15 con tanto di abside
L’ultima tentazione da spiaggia:
ecco servita la chiesa gonfiabile
di Davide Madeddu


Dopo i raduni di preghiera al palazzetto dello sport, nella diocesi di Cagliari arriva la chiesa gonfiabile e in spiaggia. Giusto per non passare inosservati. Se poi tra bagnasciuga e battigia c’è chi indossa ancora boxer o costume da bagno poco importa.
Perché «se i fedeli non vengono in chiesa, è bene andare a cercarli». E don Emanuele Mameli, parroco a Cagliari i fedeli li va a cercare direttamente in spiaggia. Con la chiesa gonfiabile sistemata da ieri alle 23 nella spiaggia del Poetto. Tra barettini e spettacoli, passatempo e goliardate, nella spiaggia dei centomila è spuntata la chiesa gonfiabile. Una struttura nera e fucsia lunga 30 metri e larga 15 con tanto di abside spaziosa.
Chiesa che, come chiarisce il giovane sacerdote, non «ospita la celebrazione della messa ma solo chi vuole pregare. E a chi sta dentro si può aggiungere qualche altro». Perché, aggiunge don Emanuele, che dall’anno scorso si occupa della «missione cittadina», «se i fedeli non vengono in chiesa bisogna andare a cercarli» . Dove? «Nelle piazze, nei luoghi del divertimento, d’altronde si tratta di un’iniziativa nazionale che solo per un giorno tocca Cagliari».
Per la precisione nella spiaggia del Poetto e in un’area che vive quasi 20 ore al giorno conosciuta da tutti con il nome di «quinta fermata».
Ad allestire il tutto, il gruppo di evangelizzazione «Sentinelle del mattino» che mette in piedi iniziative analoghe in quasi tutti i centri d’Italia. Campagna promozionale alla ricerca di fedeli anche sulle spiagge. Esagerazione o estremismo? Nemmeno per sogno, a sentire don Mameli. Che dice «è una luce nella notte, perché mai si dovrebbe pensare a una polemica o strumentalizzazione? È un momento di preghiera, anche tra i giovani e chi si diverte, eppoi... bisogna stare al passo coi tempi, e quindi far conoscere agli altri ciò che si fa e cosa sia l’evangelizzazione».
Non è la prima volta che nella diocesi di Cagliari le celebrazioni varcano la soglia delle chiese tradizionali. È cronaca degli anni scorsi, ma i due eventi non sono collegati tra loro: la predicazione degli Apostoli di Maria al Palazzetto dello sport. Ossia il movimento di preghiera fondato da don Massimiliano Pusceddu, prete di professione e pugile per passione (con pugno da ko «per aiutare le missioni in Africa») che riusciva a riunire negli spalti del palazzetto di Cagliari migliaia di fedeli. Tutti a sentire le prediche del prete pugile, lo stesso che - come scrive anche nel suo sito internet www.gliapostolidimaria.it - ha fondato il movimento di preghiera, e che, pur non potendo contare sulla chiesa gonfiabile, viaggia a colpi di volantini e scritte sui muri e su qualche sovrapassaggio. Giusto per non passare e inosservati. Come dire, il nuovo marketing in nome del Signore.

l’Unità Roma 27.7.08
Musica o poesia? Leonard Cohen
Lo straordinario autore canadese domani in concerto all’Auditorium
di Federico Fiume


È UNO DEI GRANDI EVENTI della stagione il concerto che Leonard Cohen terrà stasera alla cavea dell’auditorium, accompagnato da un ensemble di altissimo livello formato da Roscoe Beck (basso e voci, direzione musicale), Neil Larsen (tastiere, stru-
menti a fiato), Bob Metzger (chitarre e voci), Javier Mas (chitarre acustiche), Christine Wu (Violino, viola, violoncello e tastiere), Rafael Gayol (batteria e percussioni) e Dino Soldo (tastiera, sassofoni e voci). Il settantatreenne autore di "Suzanne", "I’m Your Man" "Famous Blue Raincoat" e tante altre canzoni entrate nella storia della miglior musica d’autore mondiale, ha la statura di un vero e proprio monumento del novecento in campo musicale ma non solo.
Cohen è anche un apprezzato scrittore, un poeta raffinato le cui parole hanno segnato il cuore di più di una generazione. Capace di cantare l’amore e l’erotismo come nessun altro, ma anche di parlare del mondo che lo circonda con sguardo lucido e personale e di toccare temi spirituali, è stato a lungo fuori dal circuito musicale, dedicandosi alla meditazione in un tempio buddista nel corso della seconda metà degli anni ’90. Il suo libro di poesie del 2006 "Book of Longing" ha ispirato al compositore Philip Glass un ciclo di canzoni raccolto in un doppio cd che vede anche la presenza di Cohen, in veste stavolta non di cantante ma di speaker delle sue stesse poesie. Il 10 marzo 2008 Leonard Cohen è entrato ufficialmente nella Rock and Roll Hall of Fame ed ha annunciato il suo ritorno in tour dopo 15 anni.
Un percorso mondiale partito da Toronto, la città che lo ha visto nascere come musicista e scrittore e del quale l’Auditorium Parco della Musica ospita stasera in esclusiva la preziosa tappa romana. Preziosa davvero, in termini artistici e anche economici, considerato il prezzo dei biglietti che, come per Bjork, oscilla fra i 60 e i 120.
Ore 21 Cavea dell’Auditorium

Corriere della Sera 27.7.08
Il caso Proteste dei lettori. La Armeni: ora Vladimir sta esagerando
Luxuria all'Isola, «rivolta» su Liberazione L'ex deputata: difenderò i diritti degli indios
di Lorenzo Salvia


ROMA — Ieri il problema erano i diritti della popolazione garufina. Scriveva il Collettivo Italia Centro America che lì in Honduras le misure di sicurezza per L'Isola dei famosi impediscono agli indigeni di pescare. E da quelle parti pescare non è un passatempo da riccastri ma un modo per sopravvivere. Oggi Paola Nardi da Vicenza abbandona il metodo etnografico: «E chi se ne frega! Guadagnerà l'equivalente di 300 anni di lavoro di un operaio che votando Rifondazione magari ha fatto eleggere proprio lei». Sarà anche spaccata a metà tra la mozione Vendola e quella Ferrero ma su un punto la base di Rifondazione comunista è unita come un sol uomo: Vladimir Luxuria al reality di Simona Ventura non ci deve andare. Sono giorni che la questione campeggia sulle pagine di Liberazione. E sono giorni che in redazione arrivano decine di lettere contro la decisione dell'ex onorevole che a settembre se la vedrà all'ultima nomination con Antonio Cabrini e Giucas Casella. Oggi il quotidiano del partito pubblica una piccola parte di quelle lettere. Andrea Tanucci dice che non vuole avere la tessera dello stesso partito di un partecipante all'Isola, il «punto massimo della tv spazzatura », secondo un altro lettore. Tutti contrari, qualcuno anche in modo pesante. Luxuria mantiene la calma: «Reazioni come queste le avevo messe in conto. Figuriamoci se, con la mia storia, posso criminalizzare il dissenso». Dice che tra una prova di sopravvivenza e l'altra farà politica: «L'accordo con la Ventura — spiega — è che io possa parlare di tutto. Magari anche dei diritti della popolazione garufina, su cui in effetti non ero informata». La politica in un reality? La stessa spiegazione che dà Angela Azzaro, il caporedattore di Liberazione che oggi si prende la briga di rispondere alle lettere di protesta: «Sono proprio quelle trasmissioni che formano il consenso e stabiliscono un contatto diretto con quei cittadini che ci hanno voltato le spalle». Se le elezioni sono andate male tante vale buttarsi dalla Ventura. «Vladimir può fare quello che vuole — commenta la giornalista Ritanna Armeni — ma dire che va lì per difendere la causa comunista mi sembra esagerato». «Lei — aggiunge l'ex parlamentare Rina Gagliardi — viene dallo spettacolo. Dov'è il problema?».

Corriere della Sera 27.7.08
CHIESE NEL MONDO ISLAMICO RECIPROCITÀ E TOLLERANZA
Risponde Sergio Romano


C'è una pecca nel suo ragionamento sulla necessità di una moschea a Milano: quantunque da non credente a cui non importa niente che ci siano o meno chiese o moschee, non avrei obiezioni da fare sulla presenza sul suolo italiano di moschee, che già ci sono del resto, se vi fossero chiese cristiane in Arabia Saudita, poniamo, o in altri Paesi dell'area musulmana.
Questo per un principio di reciprocità che lei ben conosce, e che, se lo si ignora, invalida qualsiasi altro ragionamento.
Antonio Benazzo

Caro Benazzo,
Esistono chiese cattoliche in tutti i Paesi musulmani della costa meridionale del Mediterraneo e in alcuni di essi vi sono diocesi vescovili e nunzi o legati apostolici. In Iran vi sono chiese, preti, un nunzio apostolico a Teheran (Mons. Angelo Mottola) e un Vicario generale dei latini a Ispahan (Il salesiano Francesco Pirisi). La presenza cattolica nel Golfo Persico è più recente. Nel Dubai la chiesa di Santa Maria è stata inaugurata dal Primo ministro sceicco Sheikh Rashid bin Saeed Al Maktoum nel 1967 e considerevolmente ampliata nel 1980. Sempre nel Dubai, a Jebel Ali , vi è la Chiesa di San Francesco d'Assisi, inaugurata nel novembre 2001. In Qatar esiste una vecchia parrocchia intitolata nel 2003 a Nostra Signora del Rosario che 30 giorni, la rivista di Giulio Andreotti, ha descritto in un servizio giornalistico qualche tempo fa. Questi insediamenti cattolici dipendono dal Vicariato Apostolico del-l'Arabia che ha sede a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, ed è responsabile per i Paesi della penisola Araba: Bahrain, Oman, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Yemen. Un altro Vicariato Apostolico, nato da una costola di quello per l'Arabia, esiste nel Kuwait.
Non vi sono invece né chiese né istituzioni cattoliche in Arabia Saudita. Interrogati sulle ragioni di questa mancanza, i rappresentanti del Regno rispondono generalmente che non vi sono moschee nella Città del Vaticano e aggiungono che tutta la terra dove sorgono i due maggiori luoghi santi dell'Islam (la Mecca e la Medina) è una «Santa Sede». La questione, in realtà, è un po' più complicata. Dopo aver estromesso gli Hussein dalla penisola araba, Ibn el Saud e i suoi discendenti divennero Sceriffi della Mecca e custodi dei Luoghi Santi. Sono i signori del regno, ma esercitano il loro potere sulla base di un patto con i seguaci di Mohammed Ibn Abd al Wahhab, un teologo «controriformatore», paladino del più scrupoloso rigore islamico, vissuto nella seconda metà del XVIII secolo. Quel patto religioso è il titolo di legittimità del regno dei Saud, la ragione stessa della sua esistenza. E l'osservanza del patto è divenuta ancora più necessaria e costrittiva quando Ibn el Saud, per sfruttare l'immensa ricchezza petrolifera del Paese, strinse rapporti speciali con gli Stati Uniti in occasione del suo storico incontro con il presidente Roosevelt su un incrociatore americano negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale. Gli imam wahhabiti tollerano questo rapporto con l'«infedele», ma esigono che il regno venga governato secondo i criteri della più stretta ortodossia islamica. E' questa la ragione per cui gli Stati Uniti e, più generalmente, i Paesi occidentali hanno rinunciato a esigere dai Saud l'applicazione del principio di reciprocità. L'ultimo sovrano è un prudente riformatore che ha cercato di allargare le maglie dell'ortodossia, ma non può mettere in discussione il principale titolo di legittimità del suo regno.
Dovremmo forse rispondere al rigore islamico dell'Arabia Saudita vietando la costruzione di moschee in Italia? Se adottassimo questa linea puniremmo anzitutto i cittadini di Paesi che non proibiscono ai nostri connazionali la professione della loro fede religiosa. E mancheremmo, in secondo luogo, a un principio che è il principale titolo di legittimità delle democrazie: la tolleranza.

Corriere della Sera 27.7.08
Il confronto Ginzburg-Davidson
Ma lo storico vive dentro la storia
di Giuseppe Galasso


Che c'è di nuovo?, chiederei, per dire con schiettezza, come più che mai si conviene per il rispetto dovuto agli interlocutori, la mia reazione al dibattito fra Carlo Ginzburg e Arnold J. Davidson, moderatore Pier Aldo Rovatti, per la rivista Aut Aut (il Saggiatore), su «Il mestiere dello storico e la filosofia», ampiamente riportato dal Corriere di giovedì scorso. I problemi storici e storiografici di cui vi si parla sono pur quelli sui quali si è arrovellata la riflessione europea dai tempi ormai lontani del positivismo. E questo, per la verità, non basta. Quel che Ginzburg definisce pre-giudizio (staccando i due termini), e che precisa poi essere l'ipotesi di lavoro da cui lo storico non può non partire, è una condizione del lavoro scientifico nota almeno dai tempi di Galilei (e, sia detto per inciso, l'ipotesi di lavoro non è un «giudizio » preesistente; è, semmai, un «giudizio», a voler proprio usare questo termine, qui incongruo, provvisorio e soggetto a continue riformulazioni in corso d'opera).
Allo stesso modo, l'insistere sul rapporto tra cognizione e valutazione nel lavoro dello storico mi richiama la regola che giornalisti saccenti insegnano come propria del loro mestiere: distinguere fatti e commenti. Come se il modo di presentare i fatti non contenesse in sé fatalmente un giudizio. I giornali francesi del marzo 1815 parlavano del ritorno di Napoleone dall'Elba definendolo via via il mostro, l'usurpatore e, infine, l'imperatore. È una novità? E lo «straniamento» teorizzato per lo studioso rispetto ai testi? Sarebbe «un atteggiamento che ci fa guardare a un testo come a qualcosa di opaco». Traduco per quanto capisco: diffidare della lettera e del significato immediato del testo e mantenerne sempre attivo un vaglio critico. E che cosa, dai tempi almeno di Lorenzo Valla, fa e insegna a fare la filologia, della quale si parla anche qui, ma che non è nata ieri, e neppure l'altro ieri? Ginzburg dice bene che nel lavoro storiografico «meno si parla di morale meglio è». Ha ragione, ma va intesa qui per morale il pregiudizio (pregiudizio qui in senso proprio) moralistico. Lo storico che fa il proprio mestiere è sempre un uomo intero, totus homo, e non può resecare da sé una parte, e metterla… da parte: ora mi spoglio delle mie opinioni, idee, sensibilità in fatto di morale, e valuto le cose prescindendone. In realtà, lo storico subisce il condizionamento storico che subiscono tutti, uomini e cose, vivendo nella storia, e fuori del quale non sono neppure pensabili, e Ginzburg dice cose giuste al riguardo, ma nella scia, mi pare, anche qui, di idee non recenti. E la dialettica del distante/ vicino nel lavoro storico, non s'intende più presto e meglio se assorbita nel problema della cosiddetta «contemporaneità della storia»?
Tralascio, comunque, altri punti (tra cui quello della «traducibilità », ossia il problema di identificare e interpretare il senso di ciò che leggiamo o ascoltiamo, su cui Ginzburg svolge considerazioni fra le sue migliori qui) e vengo al punto sottostante, mi pare, alla natura dei problemi discussi: il punto della verità che nel lavoro storico — si dice — traspare o non traspare per spie e indizi, è implicita o esplicita, pura o non pura, oggettiva o soggettiva. Ma nel lavoro storico la verità è anch'essa un dato storico. Si forma nel dibattito assiduo e dialettico degli studi e delle discipline che li coltivano, e di tutta la vita morale e culturale dell'uomo nel corso del tempo. Non è mai una verità definitiva, una prigione da cui non si possa più evadere. Certo, la nostra verità sulla storia romana è più complessa, profonda e attendibile di quella di Livio o di Tacito, che tuttavia resta per sempre la loro verità, della quale anche noi viviamo e senza la quale, o dimenticandola, neppure la verità nostra sarebbe nata e si manterrebbe.
Relativismo? Non vi sarebbe nulla di male, ma non è questo. Un autore a me molto caro lo disse come meglio non si potrebbe: «Il concetto della verità come storia modera l'orgoglio del presente ed apre le speranze dell'avvenire; e sostituisce alla disperata coscienza di strappare il velo a ciò che sempre sfugge e si cela, la coscienza del sempre possedere ciò che sempre si arricchisce » nel succedersi delle umane vicende ed esperienze.
Filologia e morale sono essenziali nel ricostruire gli eventi passati

Corriere della Sera Salute 27.7.08
Genetica Fa discutere il manifesto di 18 grandi scienziati dell'università Usa di Stanford
Nel Dna non c'è la razza
«Nella variabilità genetica umana, le differenze razziali non hanno alcuna base scientifica»
di Franca Porciani


Dibattiti Fa discutere la presa di posizione molto decisa di 18 grandi scienziati, tra i quali Luca Cavalli Sforza
Bocciate le razze all'esame del Dna
Dall'Università di Stanford un manifesto contro i pregiudizi «genetici»

I geni stanno diventando le icone più potenti della nostra società; sembra che tutto dipenda dai quei minuscoli frammenti di Dna distribuiti sui 46 cromosomi di cui ognuno di noi è dotato. Un'icona pericolosa se non viene smitizzata, o quanto meno governata, perché potenziale pretesto di derive razziste.
Ne è convinto un gruppo di esperti della Stanford University che dopo una serie di incontri, (il primo nel 2003) ha messo nero su bianco dieci enunciati ( riportati qui accanto),
ovvero un ma-nifesto, un elenco di certezze che dovrebbero mettere al riparo da un uso in senso razzista delle informazioni genetiche che si vanno via via accumulando. Fra i 18 firmatari, nomi importanti del mondo accademico americano, come il biologo Marcus Feldman e Barbara Koenig, bioeticista della Mayo Clinic, ma fra tutti spicca Luca Cavalli- Sforza, scienziato di fama mondiale per le sue ricerche sulla genetica delle popolazioni e sulle migrazioni umane che dopo tanti anni passati alla Stanford University ora rientra definitivamente a Milano (in programma un insegnamento all'Università di Pavia, la città dove studiò). Punto centrale il primo: l'idea che la variabilità genetica umana permetta di configurare l'esistenza delle razze non ha alcuna base scientifica. E su questa scia si ribadisce che i concetti di razza e di etnia hanno una matrice esclusivamente socio-politica e che nell'albero genealogico di un individuo le informazioni genetiche ci dicono poco se non sono accompagnate da altre di tipo culturale, affettivo, comportamentale. Un manifesto per molti versi simile a quello degli scienziati antirazzisti 2008 presentato pochi giorni fa a San Rossore (anche questo in dieci enunciati) ma assai più lapidario.
«D'altro canto il manifesto della Stanford University rispecchia le tensioni razziali che ancora oggi esistono negli Stati Uniti e la paura che la genetica possa porgere il fianco a nuove discriminazioni» commenta Alberto Piazza, direttore del dipartimento di genetica, biologia e biochimica della facoltà di medicina dell'Università di Torino, che insieme a Marcello Buiatti, Guido Barbujani e Rita Levi Montalcini - e altri ricercatori - ha firmato il manifesto di San Rossore. «L'uguaglianza non ha niente a che fare con la omogeneità genetica e questo documento, rigido fino alla semplificazione, lo esprime bene; non si può non condividerlo » commenta Giuseppe Biamonti, direttore dell'istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia.
Più critico Luigi Naldini, condirettore dell'Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica di Milano: «La paura di una deriva razzista porta a enfatizzare l'origine sociopolitica delle etnie fino a vedere solo quella. Ma sotto il profilo scientifico le cose sono più complesse: esistono gruppi di popolazione che per motivi storici, ad esempio in seguito all'isolamento e ai matrimoni fra parenti, sono molto omogenei sotto il profilo genetico e noi sappiamo quante informazioni utili, ad esempio sulla suscettibilità alle malattie, ci dà lo studio delle loro caratteristiche. Non credo che si possa combattere una ideologia razzista con un'operazione altrettanto ideologica che nega il valore del patrimonio genetico nella storia dell'uomo».

Corriere della Sera Salute 27.7.08
Scienza ed etnie
Il dibattito americano e l'evoluzione del razzismo secondo lo storico Francesco Cassata
«C'è una nuova insidia: l'assolutismo culturale»
di Antonio Carioti


«Il dibattito sul valore scientifico del concetto di razza si è sviluppato negli Stati Uniti da molti anni, a partire dalle quattro dichiarazioni emesse dall'Unesco tra il 1950 e il '67, che costituirono la piattaforma ideologica della lotta alla segregazione razziale e suscitarono forti reazioni ostili da parte di alcuni scienziati». Lo storico Francesco Cassata ha scritto per l'editore Bollati Boringhieri libri come Molti, sani e forti, sull'eugenetica in Italia, e il più recente Le due scienze, sui riflessi del caso Lysenko nel nostro Paese.
A suo avviso, il manifesto di Stanford «va inserito nella polemica che vede influenti settori del mondo scientifico americano rivendicare la validità di categorie razziali, usando le differenze nel quoziente d'intelligenza medio riscontrabili fra le etnie per attaccare le politiche di Welfare in favore dei più poveri. Si tratta degli stessi argomenti ripresi di recente dal premio Nobel James Watson, ma che sono già stati confutati da tempo, attraverso studi che hanno dimostrato l'assoluta inadeguatezza del quoziente d'intelligenza come strumento per misurare le capacità mentali e classificare le popolazioni».
Insomma, secondo Cassata, «il manifesto di Stanford è utile, perché ribadisce che le differenze genetiche vanno riferite agli individui e non ai popoli, sbarrando la strada a ogni deriva etnicizzante della genomica. Inoltre richiama l'esigenza di far conoscere la storia della biologia: specie del suo "lato oscuro", che in passato ha legittimato il razzismo».
Proprio da questo punto di vista è assai carente, secondo Cassata, la dichiarazione antirazzista di San Rossore: «Il testo è speculare al manifesto razzista uscito nel 1938, come se fosse ancora urgente contrastare quelle posizioni, mentre ignora le radici antiche che il mito ariano aveva anche in Italia e la questione dell'impunità di cui godettero i firmatari del 1938, studiosi cui ancora oggi sono intitolati musei, strade e premi scientifici. Inoltre il manifesto non considera che oggi il razzismo ha cambiato volto: non si richiama più a categorie biologiche, ma alle culture e alle loro differenze, che tende ad assolutizzare. Non ha molto senso oggi l'indignazione retrospettiva verso le idee razziste degli anni Trenta, quando un altro tipo di razzismo, più sottile e insidioso, trova spazio sui media e anche in sede politica».

Corriere della Sera Salute 27.7.08
Biblioterapia Un «trattamento» da mettere in valigia
Il dottore mi ha prescritto un libro
Pagine scelte, contro i nostri disagi
di Rita Proto


I libri sono miniere, in cui ciascuno di noi, se vuole, può trovare la nota cui accordare il proprio cuore
Ma che cos'è questa strana cura?. «La biblioterapia è una vera e propria terapia: "prescrivere" un libro — spiega Rosa Mininno, psicologa e psicoterapeuta, curatrice di www.biblioterapia. it, il primo sito del genere in Italia — aiuta la persona sofferente a riflettere su di sé, a potenziare le capacità cognitive ed emotive sviluppando risorse empatiche, acquisendo conoscenze ed elaborando strategie di gestione del disagio».
«Io ho cominciato più di 10 anni fa — conferma Andrea Bolognesi, psichiatra — a "prescrivere" libri, al posto o insieme ai farmaci, a pazienti in situazioni di disagio esistenziale, lieve depressione, o che soffrivano di crisi tipica delle età di "passaggio": adolescenza, menopausa, vecchiaia».
Ma perché leggere fa bene? «I romanzi, — risponde Bolognesi — specie i grandi della letteratura classica, sono miniere dove ognuno può trovare la nota cui accordare il suo cuore. Nella lettura dei romanzi entra in gioco l'identificazione coi personaggi. Questo meccanismo permette di "guardarsi dentro" senza auto-inganni, grazie a quella dose di indulgenza/ complicità che, attraverso il personaggio, ci fa accettare nostri difetti, errori o conflitti. Nella lettura dei saggi invece, se davvero "centrati" sul problema del paziente, scatta un meccanismo di chiarificazione/illuminazione che fa esclamare: "Ma è stato scritto proprio per me!". E questo aiuta a superare le naturali resistenze che, all'inizio, si frappongono tra terapeuta e paziente».
E ci sono libri per ogni tipo di disagio. «Come non consigliare Madame Bovary, o Anna Karenina, o Casa di bambola a donne tormentate dal desiderio di evasione e riscatto? — dice Bolognesi —. Ai genitori possessivi, suggerirei il capitolo "I Figli" tratto dal Profeta di Gibran e ad adolescenti afflitti da incomunicabilità col padre proporrei Lettera al padre di Kafka. Ai depressi indicherei Bartebly, lo scrivano di Melville, e Oblomov di Goncarov, due personaggi che rappresentano, meglio di qualsiasi trattato di psichiatria, il prototipo di chi lascia scorrere la vita guardandola dalla finestra. Confrontandosi con loro, il depresso apatico può scuotersi e ritornare ad essere attivo, con un meccanismo "omeopatico". Con meccanismo opposto può invece agire il Circolo Pickwick di Dickens, che dona buon umore anche ai più sfiduciati. Ai manager stressati, propongo Le memorie di Marco Aurelio e Le lettere a Lucilio di Seneca: la loro pacata saggezza potrà aiutare a capire il valore del "soffermarsi" su di sé con coraggio. E agli ansiosi ipocondriaci indico Il male oscuro di Giuseppe Berto o il bellissimo racconto Il sentiero nel bosco di Adalbert Stifter perché possano rendersi conto di quante energie dilapidano concentrandosi sulla loro nevrosi».

Corriere della Sera Salute 27.7.08
Anche un romanzo può salvare la vita
di Claudio Mencacci
Primario psichiatra Fatebenefratelli, Milano


Ci sono romanzi che salvano la vita. Ognuno può avere il suo. Servono per riflettere, per ritrovare l'eco dei propri problemi e delle proprie sofferenze. La lettura di un libro ci permette di sentire sapori, odori di altri luoghi e altri tempi. Di vivere timori e paure, ansie e rancori o gioie e amori che per alcuni istanti diventano nostri. I libri della Blixen, di Roth ( Il lamento di Portnoy), di Yehoshua ( Il divorzio tardivo), di Oz ( La scatola nera), di Amado o di Marquez o della Mastretta ci accompagnano in territori poco conosciuti, ci portano fin dove possiamo o, meglio, dove vogliamo arrivare, cosa che dipende da quanto vogliamo conoscere di noi. Ci sono libri che consolano e libri che fanno compagnia e si sa che chi ama la letteratura ha una marcia in più per sopravvivere e per affrontare il dialogo con se stesso e, quando necessario, anche un percorso di cura. Un percorso di cura può anche avvalersi di letture di poeti e artisti, che, sollevati dal peso di statuti e paradigmi scientifici, hanno descritto l'uomo e il mondo attraverso analisi stupefacenti dei sentimenti e delle emozioni. E penso ad autori come Singer ( Lo schiavo), o Hesse ( La cura), o Mann ( La montagna incantata), o la Woolf ( Sulla malattia).
I libri ci offrono l'opportunità di comprendere come tante sensazioni e tante incertezze, che a volte ci proiettano in una profonda solitudine, sono simili a quelle che vivono i protagonisti di storie struggenti. La capacità di romanzi, come Opinioni di un Clown di Boll, di rispecchiare le nostre ansie e paure, ci permette di avvicinarci ad esse con maggiore fiducia, di sentire che da qualche parte del mondo qualcuno ha vissuto in sintonia con noi.
Ogni buon libro è un viaggio ed ogni viaggio è qualcosa che assomiglia ad una piccola cura per la nostra mente inquieta.
Marcia in più. Chi ama la letteratura ha una marcia in più per vivere e anche per affrontare un percorso di cura

Corriere della Sera Salute 27.7.08
In ospedale
Letture guidate e di gruppo


«La biblioterapia— spiega la dottoressa Rosa Mininno — nasce negli anni 30 negli Stati Uniti, grazie allo psichiatra William Menninger. Da allora si sono succeduti diversi studi. Vorrei citarne uno in particolare; pubblicato nel 1995 sul Journal of Counsulting and Clinical,
ha confermato che la biblioterapia è efficace nell'alleviare i sintomi depressivi, i disturbi d'ansia e sessuali».
Lo psicologo Raymond Mar, della York University di Toronto, recentemente ha condotto altri studi dai quali è emerso che le persone che hanno appena letto un racconto rispondono in modo migliore ad un test sulle interazioni sociali, rispetto alle persone di un altro gruppo che partecipava all'esperimento e che aveva invece letto un articolo su una rivista».
Diverse strutture sanitarie italiane applicano la biblioterapia.
«Si tratta — precisa l'esperta — di percorsi di lettura guidata, fatta ad alta voce nelle sale comuni dei reparti. I libri vengono scelti dal terapeuta e sono legati al disturbo psichico o alla patologia dei pazienti. Si possono poi consigliare libri-testimonianza, scritti da persone che raccontano il loro percorso di guarigione».

Repubblica 27.7.08
Per secoli uno stereotipo razzista ha descritto i cinesi come un popolo fisicamente inferiore Ora le Olimpiadi sono l´occasione del riscatto
Il Grande Malato vuole il podio
di Federico Rampini


Nel 1860, quando le Guerre dell´Oppio si concludono con l´ingresso delle truppe inglesi nel Palazzo d´Estate, la Cina è in ginocchio. Un declino che sarà spiegato in chiave razzista: i cinesi popolo inferiore. Da qui nasce quella voglia di rivincita che trasformerà i Giochi di Pechino in una battaglia per il dominio del medagliere
È un antefatto essenziale per capire il vero significato delle Olimpiadi cinesi. Il 18 ottobre 1860 le truppe britanniche della First Division, agli ordini del generale Sir John Michel, invadono il Palazzo d´Estate di Pechino. La sontuosa dimora dell´imperatore Xianfeng viene saccheggiata e incendiata. È l´atto finale delle Guerre dell´Oppio: iniziate nel 1839, si concludono con la disfatta ignominiosa dell´Impero Celeste. La dinastia Qing è moribonda, la Cina è in ginocchio. L´umiliante Trattato di Pechino apre le sue città alla penetrazione delle potenze coloniali d´Occidente. La débacle militare assume una portata molto più ampia. Se dai tempi di Marco Polo a quelli di Matteo Ricci, per quattro secoli, la Cina aveva proiettato su di noi un´immagine maestosa e opulenta, nel 1860 è marchiata come un gigante in decomposizione.

Il declino politico ed economico viene enfatizzato fino ad attribuirgli spiegazioni etnico-razziali. È l´anno in cui Charles Darwin pubblica L´origine della specie. Nell´evoluzionismo sociale gli orientali vengono presto classificati come un popolo inferiore. Oggi quella fase è sbiadita nella nostra memoria. I cinesi non l´hanno dimenticata.
Qingguo Jia è un illustre accademico con un curriculum cosmopolita: appena cinquantenne, ha collezionato incarichi alla Brookings Institution, alle università di San Diego in California e di Sidney in Australia. Oggi è rettore della facoltà di Politica Internazionale all´università di Pechino; nonché membro del partito comunista e deputato al Congresso Nazionale del Popolo. Per lui è evidente il nesso tra quella storia lontana e le Olimpiadi che si aprono qui l´8 agosto. «Il simbolismo politico dei Giochi - mi dice Qingguo - è davvero potente. A partire dalla metà dell´Ottocento con le Guerre dell´Oppio la Cina vide crollare la fiducia in se stessa. Nello scontro con l´Occidente il verdetto era chiaro: eravamo una nazione debole e arretrata. Anche fisicamente. In Europa e in America in quegli anni entrò nell´uso corrente un espressione: The Sick Man of Asia. La Cina era identificata come il Grande Malato. Quel termine si riferiva al nostro declino come civiltà, ma l´immagine prese ben presto un senso corporale, biologico. Da quel momento i ceti più avanzati ebbero l´aspirazione di far rinascere il paese, di costruire una Cina forte, prospera, rispettata. E anche la nostra capacità di rivaleggiare con l´uomo bianco nel vigore atletico, sul terreno sportivo, divenne il banco di prova per una rivincita generale».
La ricostruzione del professor Qingguo è accurata. Se andiamo a riscoprire la vignettistica che illustrava la stampa popolare in Europa e in America dalla fine dell´Ottocento al primo Novecento, troviamo il cinese raffigurato come un essere brutto, piccolo, gracile: i tratti di un sottouomo. Quelle caricature vengono rievocate in un bel saggio appena uscito in Italia, ad opera degli orientalisti Pietro Angelini e Germana Mamone (Il podio celeste. Storia dell´educazione fisica e dello sport in Cina, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri). Ecco la loro descrizione sull´archetipo del cinese visto dagli occidentali: «Completamente disabituato all´azione, timido esangue mandarino dalle lunghe vesti e dal codino. Emaciato, spesso effeminato, avvolto in lunghe vesti che lo imprigionavano in brevi e rigidi movimenti, resi ancor più cerimoniosi dall´etichetta confuciana e dalle lunghe maniche che sconfinavano oltre le braccia a impedire qualsiasi contatto con la cruda materia». Peggio ancora le donne: povere storpie dagli arti rattrappiti per la feroce tradizione della fasciatura dei piedi. Negli Stati Uniti il disprezzo verso l´asiatico è accentuato dall´immigrazione di massa dei manovali cinesi che a metà dell´Ottocento costruiscono la ferrovia tra la East Coast e la California: semischiavi, dal rango sociale appena un gradino sopra quello dei neri. Sono ghettizzati nelle luride Chinatown, spesso colpiti da quarantene sanitarie perché accusati di diffondere immonde epidemie come la peste bubbonica di San Francisco nell´anno 1900.
Proprio in occasione di una Olimpiade sessant´anni fa sembra confermarsi il nesso tra la decadenza politica della loro nazione e l´inconsistenza atletica dei «piccoli gialli». Nel 1948 i Giochi si svolgono a Londra. La Cina è devastata dalla guerra civile; il governo nazionalfascista del Kuomindang invia trentadue atleti. Nessuno passa le eliminatorie, sono tutti fuori al primo turno. Colmo della vergogna, la delegazione olimpica cinese resta senza soldi e deve fare una colletta tra gli inglesi per potersi pagare il viaggio di ritorno a casa.
La guerra civile si conclude nel 1949 con la vittoria dei comunisti e la fondazione della Repubblica Popolare. Il presidente Mao Zedong ha già costruito una leggenda: l´epopea della Lunga Marcia, la guerriglia partigiana, è il mito fondatore di una rinascita dell´orgoglio nazionale. Da quando prende il potere, in parallelo con il culto della personalità avviene una rivalutazione politica del corpo, della fisicità cinese. Tutti i dittatori hanno venerato il vigore atletico. Mussolini esibiva bicipiti e torso nudo nella raccolta del grano; Hitler esaltava la superiorità genetica della razza ariana e volle i Giochi di Berlino nel 1936 come un´apoteosi del Terzo Reich; l´Unione sovietica allevò con metodi massacranti generazioni di campioni per prolungare al campo sportivo la sfida della Guerra Fredda. Ma per la Repubblica Popolare era in gioco molto di più: doveva affrancarsi dal complesso d´inferiorità verso l´uomo bianco, vincere una paura viscerale, cancellare il secolo delle umiliazioni. Dopo il 1949 Mao avvia la fondazione delle Università dello Sport e impone l´educazione fisica di massa. Le gare di ginnastica tra i bambini diventano un rito importante nelle scuole, immortalato dal documentario di Michelangelo Antonioni Chung Kuo-Cina.
Il corpo del leader in persona si carica di messaggi politici. Nel febbraio 1956 le nuotate di Mao nel fiume Yangze preannunciano il Grande balzo in avanti, la politica industriale con cui la Cina aspira a superare la produzione d´acciaio dell´Inghilterra (l´odiata potenza ex-imperiale colpevole dello "stupro" del Palazzo d´Estate). Il 16 luglio 1966 un´altra nuotata di Mao nello Yangze serve a lanciare la Rivoluzione culturale. L´esibizione della forza fisica ha una funzione decisiva perché Mao è reduce da un periodo di appannamento del suo potere; l´ala moderata del partito ha cercato di giubilarlo, confinandolo a un ruolo di padre della patria puramente cerimoniale. Per riprendere il comando, scatenando le giovani Guardie rosse in un decennio di eccessi radicali, Mao vuole dimostrare al paese di essere nel pieno della forma. Su quella nuotata nasce una mitologia: la versione ufficiale gli attribuisce una traversata controcorrente di quindici chilometri in un´ora. Nei manifesti della propaganda di partito il Mao nuotatore appare come un colosso, un Superman. Con quelle tonificanti bracciate nell´acqua fredda Mao demolisce virtualmente l´immagine della Cina "grande malata".
Un anno dopo alla stessa data, il 16 luglio 1967, nello stesso punto dove si è tuffato lui cinquantamila cinesi si immergono nello Yangze; altri milioni li imitano nei fiumi e laghi di tutto il paese. A quell´epoca però Mao diffida dello sport agonistico. La corsa alle medaglie, la ricerca della gloria individuale, è in contraddizione con l´egualitarismo della Rivoluzione culturale. Le Guardie rosse denunciano il «feticismo dei trofei», molti atleti cinesi sono deportati nei campi di lavoro. Ma il tabù della forza fisica è stato espugnato. Malgrado la censura cominciano a circolare clandestinamente i film del filone kung-fu, la produzione di serie-B nata a Hong Kong di cui Bruce Lee è il divo più popolare: la riscoperta delle antiche arti marziali serve a smentire il pregiudizio sulla debolezza dei cinesi.
Lo sport fa la sua irruzione nella politica estera della Repubblica Popolare il 14 aprile 1971: su invito del premier Zhou Enlai arriva a Pechino la nazionale americana di ping-pong. Le partite amichevoli con la nazionale cinese sono il segnale che è iniziato il disgelo tra le due potenze. Entra negli annali della storia il termine «diplomazia del ping pong». Nello stesso periodo si infittiscono i colloqui segreti tra Zhou Enlai e il segretario di Stato americano Henry Kissinger per riallacciare le relazioni diplomatiche interrotte dalla rivoluzione. Quando il presidente Richard Nixon arriva a Pechino il 21 febbraio 1972, anche lui e Mao si esibiscono al tavolo del ping-pong. Da quel momento per lo sport cinese è una escalation inarrestabile. Mentre la Repubblica Popolare riconquista dignità e uno status da superpotenza, i suoi atleti vengono proiettati in una funzione strategica per l´immagine cinese nel mondo.
Oggi lo sport in Cina è considerato alla stregua del servizio militare: il supremo dono di se stessi alla patria. Gli ex atleti a riposo vengono spesso designati come "tuiyi", lo stesso termine indica i reduci, i militari in pensione. Giovedì scorso il presidente della Repubblica e segretario generale del partito comunista, Hu Jintao, ha passato in rassegna gli atleti olimpici con la stessa solennità con cui visita le truppe dell´Esercito Popolare di Liberazione. «Mantenete il vostro sangue freddo - ha detto Hu - e portate al paese dei risultati eccellenti in questi Giochi». Il presidente si è soffermato davanti al cestista Yao Ming, che di recente ha avuto un problema alla caviglia: «L´intera nazione è preoccupata per il tuo piede, Yao».
Si sa qual è l´obiettivo sportivo che la Cina si è fissata in questi Giochi: togliere all´America la supremazia nel medagliere, per la prima volta nella storia. Basterà quello per voltar pagina definitivamente, cancellare il 1860, superare per sempre il ricordo delle umiliazioni subite? Tutto era stato pianificato perché queste Olimpiadi irradiassero verso il mondo intero l´immagine di una Cina sicura di sé, una potenza tranquilla e benevola. La stessa architettura maestosa delle grandi opere olimpiche - l´aeroporto-dragone, lo stadio Nido d´Uccello, l´arco di trionfo della tv di Stato - è un proclama ideologico, la vetrina di una metropoli che si candida a essere la capitale globale del Ventunesimo secolo. Secondo l´ultimo sondaggio del Pew Research Institute (non manipolato dal regime) i cinesi sono il popolo più ottimista del mondo.
Poi però i piani olimpici sono inciampati in una catena di incidenti: la rivolta del Tibet, le contestazioni contro la fiaccola a Londra, Parigi, San Francisco. Nella sua reazione rabbiosa - con punte di nazionalismo xenofobo - la Cina ha scoperto di colpo una crepa, una fragilità che voleva nascondere. Il professor Qingguo Jia, pur essendo un esponente della nomenclatura, è disposto ad ammetterlo: «Non siamo abituati ad essere criticati quotidianamente dal resto del mondo, come lo è l´America». Susan Shirk, ex vicesegretario di Stato nell´Amministrazione Clinton e oggi direttrice del centro studi asiatici all´università di San Diego, ha pubblicato un saggio intitolato Cina, la superpotenza fragile. La Shirk confida un aneddoto emblematico: «Di fronte a quel titolo i miei colleghi americani mi chiedono: perché mai la Cina sarebbe fragile? I cinesi invece scuotono la testa e obiettano: noi non siamo ancora una superpotenza». In questo scarto di percezione - che nessun medagliere d´oro può curare - c´è tutta l´ambiguità con cui vivremo, noi e loro, le Olimpiadi di Pechino.

Repubblica 27.7.08
Il vecchio mix sport & politica per la gloria dei nuovi mandarini
di Giorgio Bocca


l´uso dello sport a fini politici è antico quanto i giochi che si celebravano per celebrare un potente, come quelli di Alessandro Magno a Babilonia. Gli atleti più forti dell´Ellade venivano assoldati e pagati per vincere le Olimpiadi dai principi e dai tiranni della Magna Grecia. Sibari o Siracusa festeggiavano le loro vittorie nella corsa o nel lancio del disco, Pindaro gli dedicava le sue odi, per l´appunto pindariche, come fossero degli dei.
Io, ragazzo negli anni del Duce, pagai il mio tributo atletico alle glorie di una federazione fascista, quella di Cuneo, prestandomi a una miserevole traversata a nuoto del Mar Piccolo di Taranto, in un´acqua sporca di nafta e di meduse, dove fummo tuffati dall´alto di una nave e presto ripescati dalle barche di soccorso per rituffarci vicino all´arrivo sotto il ponte girevole.
i l tutto con la connivenza degli organizzatori che volevano far sapere a Roma la partecipazione massiccia della gioventù fascista, centinaia di giovani arrivati da tutte le province italiane, compresa quella di Cuneo priva di mare.
Ma la prova scoperta e un po´ ridicola dell´uso dello sport a fini politici la ebbi, sempre a Cuneo, alla vigilia dei campionati mondiali di calcio poi vinti a Parigi dall´Italia di Vittorio Pozzo. Il quale non era un fascista ma un uomo d´ordine, ex ufficiale degli alpini. Così, un mattino che stavo in piazza Vittorio, dai portici di corso Nizza mi vedo uscire gli azzurri con in testa Monzeglio, sì il terzino della Roma che giocava a calcio con i figli di Mussolini, e magari anche il Duce si univa al gruppo che correva dietro un pallone. Che fanno gli azzurri? Dove li conduce il commissario tecnico? Attraversano la piazza e svoltano in via Boves verso i giardini pubblici dove c´è la statua del milite ignoto, il milite ignoto minuscolo dei giardini pubblici di provincia in metallo macchiato dal verderame. Tutti sugli attenti e Pozzo e Monzeglio depongono una corona di alloro, e noi muti a osservare il rito un po´ funebre per poi accompagnare la squadra che fa fianco destr come in caserma, in diagonale per piazza Vittorio e poi su al campo Monviso per l´allenamento del mattino.
Ero ormai un uomo fatto quando un uso spericolato dello sport per la politica mi coinvolse in Giappone alle Olimpiadi del ´64. Stavo nella tribuna stampa, proprio sotto quella d´onore su cui aveva preso posto l´imperatore Hirohito, e quando ci fu la sfilata di apertura e passò la squadra americana con bandiera a stelle e strisce annotai sul mio taccuino: «Ma guarda come gira il mondo, quell´ometto in tribuna li avrebbe sterminati tutti, questi americani, e adesso sono loro a rendergli omaggio». Le agenzie di stampa ripresero la mia corrispondenza, e i giornali nipponici mi dedicarono una minaccia di morte fattami da una associazione di ex combattenti del Sol Levante. Presa molto sul serio dai burocrati sportivi del Coni che mi costrinsero a scrivere una lettera di scuse all´imperatore-dio.
Ho seguito altre Olimpiadi nei cinegiornali, come quella di Berlino, nel 1936, dove Hitler assisteva alle gare avendo al fianco il maresciallo Goering, e ricordo la volta che si voltò con dispetto e uscì dallo stadio perché aveva vinto, dopo i cento metri, anche il salto in lungo Jesse Owens, «un negro», battendo i campioni germanici di razza ariana. Lì conobbi anche la Riefenstahl, la regista morta centenaria di recente. Allora era la protetta di Goebbels, il ministro-propaganda, e girava dei documentari in cui gli atleti tedeschi sembravano appena usciti dal Walhalla, che è il loro paradiso.
La commistione tra politica e sport è inevitabile in tutte le dittature in cui la propaganda ingenua ma irresistibile impone di far vedere che chi abita in un paese privo di libertà si consola però vincendo corse e lanci. Quelli che esagerarono furono i tedeschi della Germania Est, una fetta della grande Germania: pochi soldi, non molti milioni di abitanti, ma detentori di tutti i record, sempre primi nelle gare, specie le femminili, a cui mandavano anche le atlete con la barba e il sesso incerto, anni dopo operate nelle cliniche di Casablanca. Proibito sollevare dei dubbi sul loro sesso, le burocrazie sportive di tutti i paesi, compresa la nostra, non lo tolleravano, anche loro avrebbero voluto poter chiudere un occhio sulle evidenze virili delle campionesse.
Poi ci fu, alle Olimpiadi di Città del Messico, lo scandalo degli atleti afro-americani che salutarono il pubblico a pugno chiuso come quelli del movimento antirazzista Black Panthers, cosa che entusiasmò la nostra Oriana Fallaci. L´uso della politica nello sport, nelle Olimpiadi in particolare, corre sempre il rischio dell´ipocrisia e della retorica. A quelle australiane venne messa in vetrina in tutti i modi Cathy Freeman, una quattrocentista aborigena che vinse l´oro e fu mostrata al mondo, in modo direi incauto, come campione di un popolo che sopravvive nelle riserve. E alle prossime cinesi assisteremo al trionfo atletico dei campioni di casa, selezionati tra un miliardo di persone e costretti ad allenamenti forzati. Per la gloria dei nuovi mandarini.