mercoledì 30 luglio 2008

l’Unità 30.7.08
«L’Italia viola i diritti umani degli immigrati»
Il Consiglio d’Europa boccia le misure del governo: raid violenti contro i rom, nel Paese rischio xenofobia
di Paolo Soldini

UN ALTRO CEFFONE che il gabinetto Berlusconi, con il suo ineffabile titolare dell'Interno, si vede arrivare dall'Europa, dopo le perentorie richieste di «spiegazioni» della Commissione Ue e la durissima bocciatura del Parlamento europeo, alla quale si so-
no associati anche una novantina di deputati del Ppe. Il Consiglio d'Europa non è una istituzione dell'Unione (ancorché il nostro presidente del Consiglio lo confonda spesso e volentieri con il Consiglio europeo, che invece lo è). Fu creato nel ‘49, per promuovere la democrazia e i diritti dell'uomo, ha sede a Strasburgo, ne fanno parte tutti gli stati europei eccetto la Bielorussia per evidenti deficit di democrazia; anche quelli che, come la Svizzera, la Norvegia, l'Islanda, la Turchia e i Balcani occidentali non fanno parte dell'Unione. Ha uno strumento giuridico di grande prestigio, la Corte europea dei Diritti dell'Uomo e una autorità politica e morale che nessuno mette in discussione. A parte il nostro Roberto Maroni, il quale ieri si è detto «indignato» per le «falsità» propalate nel rapporto, inconsapevole della circostanza che se riservasse la propria indignazione alle falsità che ha cercato lui di propinarci per settimane in fatto di schedature di bimbi rom, nomadi e «sicurezza» farebbe un bel regalo a noi tutti e a se medesimo.
Il ceffone, oltretutto, il governo Berlusconi se l'è proprio andato a cercare. Risulta infatti che il draft (la brutta copia) del suo rapporto, frutto di un viaggio in Italia compiuto il 19 e il 20 giugno e delle relazioni di numerosi osservatori, il commissario Hammarberg lo abbia consegnato al Rappresentante permanente italiano presso il Consiglio, ambasciatore Pietro Lonardo, già il 1° luglio, nella speranza che in un mese gli interlocutori romani trovassero il modo di correggere almeno le magagne più evidenti. Manco per idea. Il governo italiano si è limitato a fornire 18 paginette di «commenti» in cui, a mezze verità e a bugie intere, respinge tutte le critiche. Ma che razzismo, xenofobia, abusi o violenze della polizia: il governo di Roma si è mosso sempre nel massimo rispetto del diritto internazionale e delle direttive europee. Pure, per dirne una, quando ha messo su un aereo e scaricato in patria un tunisino che si sapeva sarebbe stato torturato (infatti lo stanno torturando). Pure, per dirne un'altra, quando ha fatto abbattere le baracche di molti campi nomadi senza minimamente curarsi della sorte dei loro abitanti, bimbi e neonati compresi. Pure quando uomini politici di governo, giornali, tv hanno incitato apertamente a «cacciare i rom che sono tutti potenzialmente criminali» e quando polizia e carabinieri hanno fatto ben poco per prevenire gli incendi dei campi a Ponticelli e nulla per perseguirne i responsabili (oppure per quei roghi c'è qualcuno in galera e non ce lo hanno detto?).
Hammarberg è uno svedese mite, con un degnissimo curriculum nel campo della difesa dei diritti umani in varie parti del pianeta. Ma alcune delle cose che ha visto in Italia, e quelle che gli hanno riferito i suoi collaboratori, gli son parse davvero fuori dai criteri del mondo civile. Sono «estremamente preoccupato», ha detto, per gli atti di violenza compiuti «senza che vi fosse una effettiva protezione da parte delle forze dell'ordine, che a loro volta hanno condotto raid violenti contro gli insediamenti». Sulla parola “raid”, che ha suscitato le proteste di Maroni, il portavoce di Hammarberg in serata ha specificato: «Non c’è nessun insulto verso la polizia, il commissario non afferma che la polizia abbia compiuto raid con delle molotov o contro i rom, il rapporto fa riferimento a una serie di episodi di sgombero forzato di alcuni campi, rispetto ai quali il commissario è preoccupato».
«L'approvazione, diretta o indiretta, di questi atti da parte di certe forze politiche, singoli politici e alcuni media - ha aggiunto Hammarberg nel rapporto- è inquietante», perché evoca «l'evidente rischio di far collegare il senso di insicurezza a un gruppo specifico della popolazione e di indurre nell'opinione pubblica l'identificazione tra criminali e stranieri». Un governo responsabile dovrebbe far di tutto per evitare questo rischio e invece le misure prese recentemente come l'aggravante per clandestinità, aberrante per il diritto internazionale, l'intenzione di rendere la stessa clandestinità reato e in generale le misure del pacchetto sicurezza incoraggiano ulteriormente «la violenza e l'incitazione all'odio contro gli stranieri». Bastano questi pochi cenni di un rapporto che è molto lungo e articolato per sottolineare il clamoroso senso politico del documento. Ma anche sul piano pratico, le accuse di Hammarberg avranno conseguenze rilevanti. La relazione servirà come base giuridica per una pioggia di denunce che arriveranno alla Corte, dove l'Italia deve prepararsi a conquistare un altro record negativo dopo quello, già detenuto, delle condanne per la lentezza della giustizia. Sempre più isolati, sempre più tristemente diversi dal resto d'Europa. Ancora grazie, ministro Maroni.

l’Unità 30.7.08
Maroni in difesa: sui nostri poliziotti solo falsità
Poi via libera allo spot dell’esercito nelle città
di Maristella Iervasi

Maroni affonda se stesso. Arriva in Parlamento per relazionare - costretto dall’opposizione - sull’estensione dello stato d’emergenza per l’immigrazione da 3 Regioni a tutto il territorio nazionale. Una giornataccia per il ministro leghista dell’Interno: cominciata con la «batosta» del Consiglio d’Europa sulle misure dell’Italia per nomadi e le violenze della polizia nei campi Rom, e finita - nei fatti - con la certificazione alla Camera del fallimento delle politiche migratorie e della stessa Bossi-Fini. E a poco è servito il via libera definitivo in mattinata per i 3mila militari - in mimetica quelli chiamati a vigilare su siti sensibili e centri di accoglienza per immigrati; in divisa d'ordinanza, ma senza mitra, quelli che pattuglieranno le strade assieme a poliziotti e carabinieri - che da lunedì saranno nelle città. Il provvedimento è stato bocciato come ennesimo spot tanto dall’opposizione quanto dai sindacati.
Una seduta annunciata «calda» quella a Montecitorio. «Fascista, fascista» è stato il grido del centrosinistra al ministro, mentre dalla maggioranza si infervorava e dai banchi leghisti «volavano» insulti pesanti, in particolare contro il deputato ed ex direttore de l’Unità, Furio Colombo, «colpevole» di essere un «paladino» dei Rom.
Ma andiamo con ordine. Alle 15 è di scena il diritto-dovere dell’opposizione di ascoltare il governo per chiarire le ragioni della scelta sullo stato d’emergenza. Che Maroni spiega così: «Nel primo semestre 2008 le persone sbarcate in Sicilia, Calabria, Puglia e Sardegna sono state 10.611, mentre erano 5.380 nello stesso periodo del 2007. Appare evidente la situazione di eccezionale pressione migratoria, tale da estendere su tutto il territorio nazionale lo stato di emergenza che il governo Prodi aveva dichiarato per sole tre Regioni. Se questo trend sarà confermato - ha ipotizzato il ministro - si arriverà a circa 30 mila arrivi entro la fine dell’anno». Vale a dire: nonostante la faccia feroce di Maroni e Co., gli sbarchi quasi triplicano. Poi la difesa dalle accuse del Consiglio d’Europa sui rom: «Respingo con indignazione - ha detto Maroni -. Raid violenti della polizia? È una falsità clamorosa, la polizia non ha mai fatto simili azioni. Il commissario europeo presenti al riguardo casi concreti e documentati, se ci riesce...». La claque leghista non cessa di tacere.
Poi la parola passa a Marco Minniti, ministro ombra dell’Interno: «Altro che proroga dello stato d’emergenza! La verità è che stata decisa l’estensione del provvedimento perchè negli anni passati il tanto vituperato governo Prodi aveva ridotto il fenomeno mentre ora gli sbarchi si prevede che saranno triplicati. Non oso immaginare cosa sarebbe successo se questo lo avesse detto un governo di centrosinistra». Minniti invita dunque il ministro «a fermare» la sua politica che «sta generando solo paura nel paese» senza risolvere il problema. Perchè - sottolinea il deputato piddì - «non basta la faccia cattiva e una dichiarazione roboante dell’onorevole Cota a fermare chi ha fatto chilometri nel deserto. Ci state isolando dall’Europa, il Parlamento europeo ci censura, il Consiglio d’Europa ci critica, ma noi andiamo avanti con un riflesso autistico: come se tutto quello che viene fatto fosse sempre giusto. Ma senza Europa - ha ammonito Minniti - non si va da nessuna parte. Voi non conoscete il principio dell’equilibrio tra integrazione e sicurezza: per questo mandate un messaggio sbagliato».
Non va per il sottile Massimo Donati, capogruppo dell’Idv: «Ministro, Gentilini l’avrebbe impalato al pennone più alto del municipio. Vada a Treviso a spiegare che non avete fatto niente sul tema dell’immigrazione. Parlate con lingua biforcuta ma se lei fosse andato a Treviso a giustificare questo provvedimento con le parole che ha detto oggi a noi...». Tranchant anche Livia Turco, capogruppo del Pd in commissione Affari sociali: «Maroni non è riuscito a spiegare nè le ragioni dello stato di emergenza, nè come intende portare avanti gli accordi bilaterali per limitare gli arrivi migratori. Non sa cosa fare con gli 800mila immigrati che hanno fatto domanda di lavoro e rischiano di finire in clandestinità. Maroni - conclude - autocertifica il fallimento della Bossi-Fini e delle politiche del suo governo».

l’Unità 30.7.08
Napoli, i disperati-ribelli della Cattedrale:
«Ci sono frange politiche che soffiano sul razzismo»
di Enrico Fierro

Davanti all'albergo una bimba dalla pelle bianca come il latte e i capelli biondi come il grano maturo, fa i capricci: non vuole andare con la mamma. Bionda pure lei e dalla pelle candida. Vuole restare con papi, un papà dalla pelle nera come il carbone. Che si chiama Mark, viene dal Burkina Faso è un immigrato regolare e tira su quella sua famiglia embrione di una spontanea e naturale multirazzialità spaccandosi le mani e la schiena nei cantieri dell'edilizia. Mark è uno dei cento e passa immigrati sfollati del «T1», il palazzo di Pianura andato alle fiamme venerdì scorso, insomma, è uno di quelli che dopo tre notti passate all'addiaccio hanno deciso di «occupare» pacificamente la Cattedrale. L'albergo è una delle «sistemazioni» provvisorie trovate dal Comune. Siamo in via Giuseppe Pica, zona Mercato, a «Napoli Ferrovia», per capirci. Qui - come nel bel romanzo di Ermanno Rea - razze e destini si mescolano da decenni. L'area pullula di bancarelle abusivissime di senegalesi che vendono griffe false, cinesine dagli stranissimi capelli color rame (dice che è la moda del momento nella comunità) che vendono di tutto, banchetti di una Napoli truffaldina che fu col gioco delle tre tavolette (incredibile! C'è ancora chi abbocca). Nei vicoli depositi, gestiti da italiani, per la vendita all'ingrosso di falsi, un supermarket che vende solo cibi russi, un altro destinato agli stomaci forti dei cinesi, due night, uno russo e uno africano, di fronte la macelleria araba, vari venditori di kebab, un centro religioso e una infinità di phone-center. Li hanno sistemati in questa parte della città, i ribelli della Cattedrale.
Davanti al vecchio albergo, Mark parla arabo con gli altri sfollati, inglese con alcuni suoi connazionali, napoletano con il proprietario. Sono arrivati in 65, lunedì notte, in tutta fretta, alcuni hanno smarrito i loro documenti. «Qua le cose le dobbiamo fare in regola - dice uno dei gestori dell'albergo - per noi queste famiglie possono stare tutto il tempo che vogliono, ma con i documenti. Noi lavoriamo molto col ministero dell'Interno, ospitiamo i poliziotti che vengono da fuori». E infatti nella piccola hall un gruppo di agenti (divisa dei reparti Mobili) sfoglia i quotidiani con le foto e le notizie degli «scontri» davanti alla cattedrale. Uno strano destino ha voluto che immigrati e poliziotti finissero sotto lo stesso tetto. Mark ride quando glielo facciamo notare. L'albergo fornisce anche i pasti per gli altri sfollati ospitati altrove. «Pasta con la zucca, formaggio e verdura per secondo, frutta e acqua minerale». Il proprietario dell'albergo ci illustra il menu e ci invita a visitare la cucina. È pulita, non si sentono cattivi odori, il cuoco è all'opera anche per preparare il pranzo per gli ospiti dell'albergo. «Poliziotti e immigrati mangeranno la stessa cosa, dottò leggete il menu: pennette con la panna, costolette di maiale, ma solo per gli italiani perché gli altri non la mangiano per motivi religiosi, carote e frutta». Il clima è disteso e allora c'è il tempo per farsi raccontare cosa è successo davvero venerdì in quel palazzo di Pianura dove gli immigrati pagavano regolari affitti agli italiani. Il dubbio è che qualcuno abbia appiccato il fuoco. No, non è un episodio di razzismo, ma l'opera «di uno che non stava bene con la testa», è la versione degli sfollati. E poi ci parlano della gente del posto, della loro meraviglia quando dal palazzo sono spuntati decine e decine di africani. «Non ci vedevano mai - dice ridendo Mark - perché uscivamo all'alba per lavorare e tornavamo la sera tardi». E ci dicono delle famiglie bianche che nel vedere i bambini dormire per strada si sono ribellate, sono scese giù in strada a portare latte e biscotti e chi ha potuto ha offerto il proprio letto a quelle «creature» infreddolite e spaventate. «Napoli non è razzista - dice sicuro di sé Jamal Qaddorah, della Cgil - la gente semplice di questa città pratica da anni l'integrazione sociale. Il problema viene da quelle forze politiche che soffiano sul fuoco dell'intolleranza». È accaduto l'altra sera nel quartiere Montesanto, dove era stata individuata una scuola abbandonata per ospitare gli sfollati. Hanno fatto le barricate, minacciato scontri, qualcuno ha lanciato anche bottiglie molotov. È accaduto davanti alla Cattedrale. Gli immigrati ti raccontano di un funzionario responsabile dei reparti Mobili «piuttosto eccitato», che agitava un megafono e ripeteva in continuazione che quella non era una manifestazione autorizzata, che ha ordinato la carica mentre dall'interno della chiesa agenti della Digos trattavano e mediavano. I sindacati denunceranno questo atteggiamento, dicono che anche Guglielmo Epifani si sia fatto sentire dal ministro Maroni. Ma ora qualcuno soffia sul fuoco a Scampia. È bastato che si diffondesse la voce che gli immigrati potevano essere ospitati in una struttura del Comune per scatenare la protesta. I soliti motorini, le solite urla, la solita indignazione organizzata. Gli sfollati di Pianura, però, non andranno nel quartiere delle Vele, il Comune sta sistemando una sua struttura nella zona di Poggioreale. Perché a Napoli gli immigrati non sono ospiti. «Ieri li ho incontrati - ha detto il sindaco Rosa Russo Iervolino - e gli ho detto, voi siete dei cittadini del mondo e in quanto tali questa che è la casa dei cittadini italiani è anche casa vostra. Vi chiediamo scusa per le intolleranze che sono state dimostrate nei vostri confronti».

l’Unità 30.7.08
Il Paese dove gli ultimi sono sempre più ultimi
di di Roberto Cotroneo

I SALARI che non aumentano da 15 anni. Un paese incattivito e senza valori, governato da persone che non rispettano le regole - Berlusconi innanzitutto, ma anche Bossi - né i valori comuni su cui la Repubblica ha posto le sue fondamenta. Ma la furbizia e la ricchezza. È così che si rischia di diventare razzisti e ignoranti

La norma sul precariato è contro gli ultimi, quelli che un lavoro non riescono a trovarlo, quelli che non possono comprarsi una casa, che non hanno accesso ai mutui, che non possono progettare nulla, che non hanno la possibilità di pensare a un futuro che non sia un futuro a termine, come i loro contratti di lavoro, come i loro salari miserandi, come le loro vite sospese, in un vuoto che non possono riempire.
Le impronte digitali per i Rom, inclusi i bambini, è qualcosa di terrificante. Messo a punto senza vergogna per un paese che non ha protestato abbastanza, perché non è mai abbastanza protestare su una schedatura di adulti e bambini solo perché di etnia diversa. E che ci rende, davanti all'Europa, un paese allo stesso tempo ridicolo e inquietante. E con gli immigrati siamo allo stato di emergenza. Il ministro Maroni, che si annuncia come il peggior ministro dell'Interno di questo dopoguerra, parla di emergenza, e di stato di allerta. Ma la situazione è sempre la stessa, e questo è solo un modo per tenere buono un paese che è diventato razzista, cattivo e per nulla solidale. Un paese di pochi privilegiati, e di molti che devono subire discriminazioni sempre più forti.
Intanto ieri si è rovesciato un altro gommone a sud di Lampedusa, sembrano sei i morti, e pochi giorni fa sono morti anche due bambini. Ma tutto scivola nell'indifferenza, e ci stiamo preparando, come un paese sudamericano, come un Venezuela qualunque, a sopportare l'esercito nelle città per garantire l'ordine pubblico. A vedere i militari per strada, come li vedi a Caracas. Peccato che Caracas è la città più violenta del mondo. Ma ora la vigilanza e l'emergenza sull'immigrazione diventa un caso nazionale. Mille soldati sono destinati a controllare i centri immigrati. Metteranno il filo spinato? Faranno le ronde? Che ordini avranno? E perché questa decisione? Non sarà una bella sensazione vedere i militari per strada.
Ma cosa possiamo pretendere di più da questa classe dirigente? Andiamo avanti perché l'albero della vergogna si infittisce sempre di più. Il consiglio d'Europa ce lo ha detto chiaro. E una fredda nota di agenzia dice testualmente: «Il Commissario per i Diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, si dice "estremamente preoccupato" per il pacchetto sicurezza e la dichiarazione dello stato d'emergenza per l'afflusso di cittadini extracomunitari da parte del Governo italiano. È quanto si legge in un comunicato diffuso sul sito del Commissario per i diritti dell'uomo».
Il ministro leghista Maroni si indigna. Si dichiara sdegnato. Ma intanto dobbiamo incassare lo sdegno della civile Europa. E non è finita. Ieri si è consumata la sceneggiata tragica delle pensioni. Prima vogliono tagliare le pensioni sociali, poi si correggono e dicono che no, che la norma riguarda solo gli extracomunitari. E non le casalinghe e quelli che hanno meno di dieci anni di contributi. Che non si preoccupassero. Verrà corretta, che poi saranno gli estracomunitari a pagare, che cosa ce ne importa. Noi gli prendiamo le impronte digitali, schediamo i bambini, li controlliamo con l'esercito, incassiamo l'imbarazzo e il disprezzo della civile Europa, e abbiamo ancora il coraggio di protestare. Come hanno fatto gli immigrati africani nel duomo di Napoli. Una protesta dentro una chiesa, che da sempre è sempre stato un luogo di accoglienza, ma che in questo caso, ha generato l'immediata reazione dell'esercito in tenuta antisommossa. Per contrastare immigrati che dentro una chiesa chiedevano una casa.
Un paese che vuole che gli ultimi siano gli ultimi, sempre e comunque: questo siamo diventati? Sarebbe facile dire che è tutta demagogia, che è un modo del governo per fare una propaganda banale soprattutto sull'ordine pubblico, in vista del disastro sociale ed economico che ci attende in autunno. Sarebbe facile dire che la rabbia di avere dei salari che non aumentano - di fatto - da quindici anni, contro un costo della vita e un aumento dei prezzi che non ha paragoni nel resto d'Europa, può essere ingenuamente contenuta con misure roboanti, e prive di concretezza. Ma questa è una interpretazione sbagliata.
Non è questo il punto. Una parte di questo paese, quella che si riconosce nel centro destra, quella che vota Lega Nord, quella che gravita attorno ad Alleanza Nazionale, quella che vede in Berlusconi il modello di riferimento umano e politico, oltre che imprenditoriale, è cambiata. Cambiata in peggio. È in caduta libera. Senza più vincoli etici, religiosi e culturali. Immorale e ignorante. È un paese che emargina, è un paese che non ha più gli strumenti culturali per capire quello che gli succede attorno, è un paese che non sa adattarsi alla complessità. È un paese rimbecillito da valori inutili, che vede nei modelli di riferimento che lo governano, dei modelli positivi: machismo, intolleranza, razzismo, culto della ricchezza, l'idea che vincono i più ricchi, i più furbi, i più disinvolti, senza rispettare le regole. Perché sono governati da persone che non rispettano le regole. Berlusconi per primo. Bossi per secondo, e tutti gli altri a seguire. Gente che non rispetta i valori comuni su cui è stato fondato questo paese. Veri eversori dello spirito della Costituzione e della convivenza civile.
Il razzismo era qualcosa che eravamo riusciti a non sentire sulla nostra pelle neppure, ed è tutto dire, quando furono varate le leggi razziali del 1938. In tutte le case italiane, ognuno di noi conserva un racconto, una memoria, di un parente, di un vicino, di qualcuno che si oppose, che aiutò, e soprattutto di un paese che non capiva. Eppure accadde quello che accade. Le impronte digitali ai bambini non sono una manovra diversiva per accettare sacrifici per questo autunno; precarizzare i giovani non è un modo per mantenere i privilegi di quelli che precari non sono; abolire o ridimensionare le pensioni sociali non è un modo per distrarre il ceto medio da quello che gli sarà chiesto tra qualche mese; e mandare i militari nei centri per immigrati non è una furba trovata per dire a quelli che non arrivano alla fine del mese: vedete, vi diamo la sicurezza. Sono il risultato di qualcosa che è cambiato nella testa della gente, sono il frutto di un paese irriconoscibile, di gente cattiva, ignorante, egoista, spietata. I totalitarismi iniziano sempre da dettagli marginali, da piccoli segni che nessuno voleva vedere. E non siamo immuni da nulla. L'opposizione della sinistra sarà certamente vigorosa, ma non basta la politica se manca una cultura comune, una cultura che faccia uscire questo paese da una secca di pochezza e di ignoranza. L'ignoranza di gente come Bossi che vuole professori del nord, nelle scuole del nord, per i bambini del nord, l'ignoranza che in una città come Roma, appena arrivata una giunta di centro destra, ha già spento le luci sul patrimonio culturale di questa città. Cancellando un lavoro di anni, che ha trasformato Roma nella città più importante, sotto l'aspetto culturale, d'Europa. L'ignoranza di inventarsi anziché le notti bianche, le notti futuriste. L'ignoranza di pensare che la crescita di un paese non possa che essere economica, e non per tutti, ma sempre per i più furbi e i più ricchi. Siamo caduti in basso e gli ultimi non saranno i primi dalle nostre parti, ma rimarranno ultimi, ultimissimi. Per una classe di governo che ora dovrebbe vergognarsi.
www.robertocotroneo.net

l’Unità 30.7.08
«Rifondazione per la sinistra» non perde tempo, fissa l’agenda per settembre
Riunione a Roma con Giordano. Vendola: «La sconfitta del congresso mi dà più libertà di movimento e meno vincoli»
di Simone Collini

NICHI VENDOLA l’aveva detto dal palco di Chianciano: «Do appuntamento a tutti i compagni della mozione due nell’area politico-culturale Rifondazione per la sinistra». Non si è perso tempo. Nella sala Libertini di viale del Policlinico, sede del Prc, ieri si sono riuniti Franco Giordano, Gennaro Migliore e tutti gli altri sostenitori della costituente di sinistra usciti sconfitti dal congresso di Rifondazione comunista. Si è deciso di dar vita immediatamente all’operazione, fissando per il 27 settembre un’assemblea nazionale alla quale saranno invitate forze politiche (non solo quelle confluite nell’Arcobaleno) associazioni e singole personalità. L’appuntamento verrà preparato con assemblee su tutto il territorio perché la strategia dell’«autonomia» messa a punto da Vendola prevede una battaglia interna al partito per mantenere saldo il fronte (e anzi, attraverso nuovi tesseramenti, «rovesciare gli equilibri») e una campagna esterna tesa a lanciare la costituente con modalità diverse da quelle sperimentate con l’Arcobaleno. E se quello che è mancato allora è stato un approccio anche culturale e di formazione, un ruolo di primo piano su questo terreno lo giocherà la fondazione a cui darà vita in autunno Fausto Bertinotti. Ieri l’ex presidente della Camera ha discusso con gli altri redattori del prossimo numero di “Alternative per il socialismo”: si è concordato sul fatto che nella rivista questa stagione dei congressi non debba occupare che un minimo spazio.
In questa situazione, il mantenimento del tesoriere da parte dei bertinottiani può essere d’aiuto. E il fatto di aver perso il congresso con il 47,3% anziché averlo vinto con il 50% più uno, inizia a pensare Vendola, può addirittura essere un vantaggio. «La sconfitta del congresso in realtà mi dà più forza, più libertà di movimento e meno vincoli», rifletteva ieri il governatore pugliese nel suo ufficio sul lungomare di Bari. I sostenitori della sua mozione entreranno neli organismi dirigenti ma non nella segreteria, e pazienza se veramente Paolo Ferrero continuerà a proporre la gestione unitaria facendo anche tenere una sedia vuota nell’organismo di gestione politica.
Dopo una giornata dedicata alla riflessione, Vendola dice che «Ferrero ha costruito la più brutta vittoria della sua vita, io la più bella sconfitta della mia vita»: «Noi volevamo il partito della ricerca, dell’innovazione, non degli slogan e delle catacombe». Vendola, che pensa di ricandidarsi alle regionali del 2010, dice anche di sentirsi «il leader di questo partito»: «Poi ci sono quelli che non riempiono il pianerottolo di casa». La sconfitta brucia, ma dietro lo sfogo c’è lo sguardo sul futuro. Anche perché Vendola sa che Ferrero è sorretto da una maggioranza fatta di quattro minoranze messe assieme, che è a rischio sia che si parli del simbolo con cui andare alle europee (l’area Pegolo-Giannini, 7,7%, vuole correre insieme al Pdci) che della permanenza o meno nelle giunte locali (i trotzkisti, 3,2%, vogliono rompere ovunque). E sa anche che Ferrero avrà difficoltà a farsi ascoltare nei territori dove a guidare il partito sono segretari a lui contrari. Come già si è visto ieri: dopo che è stata letta una lettera in cui Ferrero chiedeva un incontro prima di assumere decisioni, il comitato politico del Prc della Calabria ha approvato un documento con cui conferma l’ingresso nella giunta Loiero. Cioè quello che Ferrero non voleva. Ma il potere decisionale, da statuto, è nelle mani dei segretari regionali.

l’Unità 30.7.08
Procreazione. Firenze rinvia la legge 40 alla Consulta

Procreazione, ora la palla - o la «patata bollente», che dir si voglia - passa alla Corte Costituzionale. Con l'ordinanza emessa dal giudice civile di Firenze Isabella Mariani, infatti, la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita incassa una sonora bocciatura e viene rinviata alla Consulta per un giudizio di costituzionalità proprio su quelli che sono i suoi punti più controversi, ovvero il cuore della legge stessa: primo tra tutti, il limite di tre embrioni producibili e l'obbligatorietà di impianto, senza possibilità di revoca del consenso da parte della donna, una volta che l'ovulo è stato fecondato. Ad essere «contestato» è inoltre il protocollo unico di trattamento cui il medico deve uniformarsi per tutte le pazienti, senza poter considerare la specificità di ogni singolo caso. Tanto che il giudice ritiene si crei un «grave nocumento alla salute della donna».
Spetterà ora alla Corte, sulla base del ricorso presentato da una coppia milanese con problemi di sterilità, come spiega l'avvocato Gianni Baldini, loro legale di fiducia, decidere se le parti più importanti della legge sono o meno in contrasto con la Carta Costituzionale. Quattro i punti «bocciati» dall'ordinanza: il limite dei tre embrioni producibili, l'obbligo del loro impianto contemporaneo in utero, il divieto di crioconservazione degli embrioni e l'irrevocabilità del consenso della paziente.
«Se l'orientamento della Suprema Corte si manterrà coerente con tutte le pronunce precedenti - ha commentato il legale - il conto alla rovescia per la legge potrebbe essere più che una semplice speranza». Nel ricorso, ha inoltre spiegato Baldini, «si chiede anche alla Corte una pronuncia che faccia chiarezza circa la totale ammissibilità della diagnosi genetica preimpianto dell'embrione in particolari casi, poichè, la sua previsione da parte delle linee guida emanate dall'ex ministro Livia Turco, lascia comunque delle zone d'ombra».

l’Unità 30.7.08
La Cassazione: «La Franzoni uccise con razionale lucidità»
Cogne, depositate le motivazioni della sentenza: da escludere che sia stato un estraneo, forse un capriccio di Samuele il movente
di Luigina Venturelli

FINALE Nessun altro aveva il tempo di uccidere il piccolo Samuele. Nessuno se non la madre Annamaria Franzoni, che nel mattino del 30 gennaio 2002 uccise
il figlio di 3 anni con «razionale lucidità». Per questo la Cassazione ha respinto il ricorso della donna, chiudendo così definitivamente il sipario sull’omicidio di Cogne.
Ieri, infatti, i giudici hanno depositato la sentenza dello scorso 21 maggio, con cui confermarono la condanna a sedici anni di reclusione, insieme ad oltre cinquanta pagine di motivazioni per spiegare il movente, gli indizi di colpevolezza, l’arma mancante e l’assenza di «vizio di mente» con cui fu compiuto il delitto a più alta copertura mediatica della cronaca nera italiana.
Sarebbe stato un semplice capriccio del bambino a spingere la Franzoni ad uccidere: anche se non è stato possibile per la Suprema Corte individuare con «certezza» la «causale od occasione che originò il gesto criminoso», si suppone che la donna abbia agito in preda ad uno «stato passionale» momentaneo. Secondo i giudici, la madre era, senza motivi concreti, preoccupata «per la normalità ed il regolare sviluppo di Samuele, tanto da avere manifestato il presagio di una sua possibile morte prematura».
Subito dopo il fatto, Annamaria ha «nascosto» le prove: ha eliminato, pulendola, l’arma del delitto, ha riportato gli zoccoli al piano superiore «con l’avvertenza di non lasciare tracce di calpestio lungo il percorso» e ha nascosto la maglia del pigiama sotto il piumone. Poi, durante la telefonata al 118, non ha descritto appropriatamente le condizioni del figlio.
Da cui la conclusione della Cassazione: non si tratta di gesti da routine quotidiana, quindi sono il «sintomo di non interrotto contatto con la realtà e inalterata coscienza di sè e delle proprie azioni».
Viceversa, per un estraneo sarebbe stato impossibile entrare nella casa di Cogne e uccidere Samuele: troppo breve il lasso di tempo in cui Annamaria uscì dalla casa per accompagnare Davide allo scuolabus. Esclusa anche la responsabilità del marito, non resta che un’«unica realistica e necessitata alternativa residuale», ovvero «la responsabilità della sola persona presente in casa nelle fasi antecedenti la chiamata dei soccorsi».
Inoltre l’arma del delitto (probabilmente un oggetto tagliente con manico) non è mai stata ritrovata, né la famiglia Lorenzi ha mai denunciato la scomparsa di alcun oggetto: circostanze che hanno indotto i giudici «a considerare ancor più implausibile l’ipotesi della responsabilità di un estraneo».
Una lunga serie di motivazioni che hanno convinto la Suprema Corte a non concedere sconti ad Annamaria Franzoni. Anche se il legale della donna, Paolo Chicco, ha annunciato che non lascerà «nulla di intentato per fare sì che la verità storica prevalga sulla verità processuale», la Cassazione ha messo la parola fine sulla triste vicenda di Cogne. Non senza un’annotazione per il circo mediatico che si è scatenato intorno ad essa: la sentenza conferma che l’attenzione al caso della Franzoni da parte di tv e giornali non ha danneggiato la donna.
Anzi, avrebbe aiutato a rendere le indagini ancora più approfondite: «Il segnalato interesse mediatico in larga parte ricercato, propiziato e utilizzato dalla stessa interessata, ha dato inusitato impulso ad iniziative processuali della difesa e degli stessi organi giudicanti, favorendo il massimo approfondimento di ogni aspetto del giudizio».

l’Unità 30.7.08
All’armi siam trans-fascisti!
di Bruno Gravagnuolo

Transfascismo Che sta per trasformismo e post-fascismo. Superamento dialettico dei due termini nel tertium datur di Alemanno. Che mette insieme Almirante e la Resistenza, Ezra Pound e il ‘68. Era precisa e tagliente la denuncia dello storico Giovanni De Luna, nell’intervista su l’Unità di giovedì scorso. Ma loro, i «post-trans», zitti e muti sul Secolo. E nemmeno un Lanna a controbattere. A replicare con uno straccio di argomento. Che so, magari con la solita solfa delle ideologie del ‘900 da superare, degli steccati da abbattere. Solfa in voga anche a sinistra. Niente! Segno che a loro sta bene così. Talché è assodato. Quelli di An sono ormai una forza di complemento: vampirizzati dal Cavaliere. Mossi dall’illusione di surrogarlo e «riempirlo», all’ombra del semipresidenzialismo. Ma finiranno loro svuotati, metabolizzati. Dall’unico vero post-fascista e anti-antifascista di questa Italia arci-italiana di destra. Indovinate chi?
Il disneyano Zakaria Lamenta un’«Italia Disneyland», il politologo Fareed Zakarias, già direttore di Foreign Affairs. Ma sul Corsera di ieri, sgomitola una valanga di sciocchezze. Tipo: «Poteri esecutivi al premier come in Inghilterra». Balle, il premier inglese si regge sulla sua maggioranza e non ha poteri esecutivi. Poi: «Guerra in Iraq non negativa». Comico, basti pensare alla carneficina in atto, ad Al Quaida e alla crescita dell’integralismo, Iran incluso. Infine: «Iran innocuo, anche Nasser voleva cancellare Israele». Già, e per questo ci fu la guerra dei sei giorni! Ma come fa uno studioso tanto accreditato a dire tali e tante sciocchezze? Il disneyano è lui...
Tutti addosso a l’Unità Con Macaluso in testa, che si straccia le vesti e si sente offeso a livello personale. E perché? Perché ha osato lanciare una supplica, sì una «supplica»!, a Napolitano a farsi interprete delle preoccupazioni di chi sente la Costituzione sotto tiro. Un piccolo grido, educato, rispettoso... ha scatenato l’ira e l’indignazione dei tanti «Conte Zio» della repubblica. Con titoloni e commenti allarmati. Già, l’ordine regni Varsavia, dopo la spartizione della Polonia. E non un grido si levi e nemmeno un sussurro...

l’Unità 30.7.08
Sinistra: il popolo c’è, i partiti no
di Giuseppe Tamburrano

Visto a distanza di giorni, il congresso di Rifondazione rivela più nettamente le macerie, il contorno del disastro. Che è, dopo il terremoto elettorale, la seconda scossa, quella più grave, quella che distrugge le fondamenta sulle quale si poteva sperare di ricostruire.
Vi sono stati, in quel congresso, una serie di paradossi che illustrano il dramma. Ne cito alcuni. Il più “pittoresco”: gli inni “sacri” - Bandiera rossa e Bella ciao - intonati da metà del congresso quasi a dileggio dell’altra metà. Il più importante discorso, pronunciato da leader “carismatico” è stato accolto con dieci minuti di applausi: torna, acclamato, Bertinotti? No, se ne va: con una scarica di fucileria, a salve. Chi vince? Colui che si è opposto alla linea della maggioranza e conseguentemente prevale, essendo stata l’alternativa? No: il vincitore ha rappresentato e sostenuto al governo la politica sconfitta alle elezioni. E - quel che è ancora più incredibile - prevale non già con una proposta che rappresenti, nella sostanza, il ritorno alle posizioni di sinistra “vera”, appannate dalla collaborazione nel governo Prodi, ma con una piattaforma che esce dall'orbita tradizionale della sinistra per avvicinarsi a quella della protesta giustizialista di Di Pietro, che con la sinistra, moderata o estremista, non ha niente a che fare.
La minoranza - quasi la metà dei delegati - resta nel partito. A che fare? Il dissenso con la maggioranza non è né tattico né strategico, è ideologico: ciò vuol dire l’incomunicabilità e una coabitazione paralizzante e dunque probabilmente transitoria.
Gli altri partiti a sinistra del Pd sono dei fantasmi: i socialisti, la sinistra democratica, i comunisti italiani, i verdi. È dunque difficile immaginare che questa sinistra - già così divisa nel suo interno - possa recuperare gli oltre 2.500.000 voti persi il 13-14 aprile.
Quella sconfitta elettorale non è stata un'eclisse ma - lo vediamo oggi - un tramonto.
Dove andranno gli elettori già persi e quelli che non risponderanno all’appello nelle prossime elezioni europee? Si riveleranno non già voti in “libera uscita” passati provvisoriamente al Pd come voti utili contro Berlusconi e pronti a tornare a casa. È probabile che conteremo altre defezioni verso Di Pietro, verso l’astensione e quant’altro.
Considerazioni queste che ci portano al Pd. Nessuno si illuda che la crisi di Rifondazione possa giovare a questo partito. Il quale ha dichiarato di essere riformista, ma non di sinistra. Dunque non ha “titoli” verso l’universo di Rifondazione: del resto l’ala di Rifondazione più disponibile potenzialmente ha escluso - sia Bertinotti che Vendola - ogni dialogo con Veltroni.
Non vi sarà dunque uno stimolo da sinistra verso il Pd. E non vi sarà una sinistra con cui dialogare come aveva immaginato D’Alema. Vi sarà una variegata opposizione populista che cercherà di incalzare il Pd sul tema dell’antiberlusconismo.
La crisi della sinistra ha un effetto centrifugo nel Pd. Poiché il dialogo con quella parte non è possibile, si rafforza la tendenza a dialogare verso il centro: al Convegno di Todi vanno insieme Rutelli e Casini.
E per finire, la crisi della sinistra radicale creerà certamente problemi seri nelle giunte locali.
La conclusione più amara è che l’Italia, una volta il Paese caratterizzato da una sinistra - socialisti e comunisti più o meno uniti - molto forte, oggi è il Paese in cui non vi è più né la sinistra tout court. Ed è contemporaneamente il Paese europeo nel quale i problemi sociali - i salari, le pensioni, il lavoro, il reddito delle famiglie - sono i più acuti. Vi è il popolo di sinistra, non partiti che ne rappresentano le esigenze traducendole in un progetto di riforma.
Pennellata finale: sparisce la sinistra non perché il suo antagonista storico, il capitalismo, trionfa, ma nel momento in cui mercatismo e globalizzazione sono in grande difficoltà.
Vi era una volta il socialismo, grande movimento politico, sociale, culturale che voleva cambiare il mondo e che fu protagonista della storia. Poi si divise su come costruire il nuovo mondo tra riformisti e massimalisti-comunisti. E poi non seppe aggiornarsi: e declinò. Oggi un mondo più giusto è una grande esigenza globale, e forse non è più utopia grazie soprattutto alla tecnica. Ma non ci sono i partiti, i movimenti, gli intellettuali.
Socialismo riformista e socialismo massimalista sono morti. Evviva il socialismo.

martedì 29 luglio 2008

l'Unità 29.7.08
Claudio Fava. Il leader di Sinistra democratica dopo il congresso Prc: nessuno può stare da solo a meno che non sia per vanità
«Bandiera Rossa? È come fare la guardia al proprio museo»
di Eduardo Di Blasi


I simboli e i canti della nuova maggioranza di Chianciano: «Sono solamente una fuga dalla politica»
«Da parte nostra deve esserci la volontà di riorganizzare la sinistra
Il nuovo progetto deve partire subito o è già finito»

Il Congresso di Rifondazione, spiega il portavoce di Sd Claudio Fava, ha fatto chiarezza. Non tanto per la vittoria di Paolo Ferrero quanto perché, dall’altro lato «prende ancora più forza e più urgenza la necessità di organizzare a sinistra un incontro tra storie, culture, sensibilità, linguaggi, che hanno scelto la sinistra non come museo ma come luogo di trasformazione del presente, laboratorio politico». Parla alla minoranza di Nichi Vendola, ma non solo. «Bandiera Rossa non è una scelta politica, è una fuga dalla politica. Da questa parte può e deve esserci l’idea di un sinistra che riorganizza profondamente sè stessa».
I congressi di luglio hanno visto tutti i partiti stringersi attorno alla propria idea forza...
«L’idea forza di un partito è tale quando produce anche effetti sul piano elettorale. Con il voto di aprile gli elettori ci dicono che non si sentono rappresentati da partiti ridotti a segmenti brevi, minuti, autoreferenziali, e che vogliono una sinistra che sia capace di rappresentarli spostando in avanti il ragionamento sulle identità. Credo che il congresso di Rifondazione, in questo senso, aiuti ad una maggiore verità nel dibattito politico. Tra chi sceglie Bandiera Rossa e chi sceglie di riorganizzare la sinistra in un campo molto più vasto e inclusivo».
Il tempo che avete a disposizione non sembra molto.
«O questo progetto parte subito, o questo laboratorio comincia a riempirsi di contenuti, oppure ricadiamo nel politicismo, nel tatticismo, nell’analisi delle convenienze. Noi siamo stati seppelliti dalle nostre contabilità elettorali e dai nostri tatticismi. E dovremo sentire un po’ più il cuore della nostra comunità che ci dice “mai più ciascuno a guardia del proprio museo”. Tutto questo va fatto subito».
Un’occasione?
«Io penso all’Abruzzo come un primo appuntamento non solo elettorale ma anche politico. La giunta in Abruzzo è scivolata rumorosamente sulla sovrapposizione tra ceto politico e potere locale. Su un tema tragico e fondamentale come la Sanità, che da diritto pubblico diventa profitto privato, è scivolata manifestando l’assoluta assenza di un’etica civile nella politica. E quindi non si tratta solo di scegliere il primo appuntamento elettorale».
Il problema abruzzese tiene dentro anche il timore di riconsegnare la Regione al centrodestra. Di Pietro è intenzionato ad andare da solo...
«Nessuno può stare in campo da solo. A meno che non scelga di stare in campo soltanto per vanità personale. Il centrosinistra può riorganizzarsi in Abruzzo, ma deve riorganizzarsi a partire da un azzeramento di tutte le gerarchie pregresse. Il centrosinistra in Abruzzo, più che altrove, non può avere padroni di casa e ospiti. Questo vale per il Pd come per Di Pietro».
Uno dei temi della sinistra che ha vinto il congresso del Prc è quello di spostare il “conflitto”...
«Il limite di questo gruppo dirigente del Prc è che assume il conflitto come parola onnivora, singolare, capace di rinchiudere dentro di sè una realtà sempre più complessa. Noi parliamo di “conflitti”. Questo è un tempo in cui la politica si deve fare carico di questa complessità e deve assumersi la rappresentanza di tutti i conflitti, non solo del conflitto più ortodosso, più tradizionale, che è il conflitto di classe. Questa è una lettura semplicistica, consolatoria, ma inadeguata a leggere il Paese reale».
L’obiettivo di Sd era quello di tenere insieme la Sinistra, a distanza di un anno e più dall’ultimo congresso dei Ds a che punto è la notte?
«Il punto più cupo è stato il 14 aprile. Da quel voto abbiamo ricevuto una lezione che ci chiede di riorganizzare la sinistra su di un piano di verità, di innovazione, di critica del presente e del passato, di capacità di rischio, di fantasia politica, di inclusività. Alla fine di quest’anno possiamo dire che sappiamo cosa non dobbiamo fare».

l'Unità 29.7.08
Restare o lasciare? Il rebus dei governi locali
Il nuovo segretario di Rifondazione: nella giunta calabrese non si entri. Il segretario regionale (vendoliano) lo farà
di Simone Collini


LE CONTRADDIZIONI in seno al popolo di Rifondazione comunista vengono già alla luce. Le prime si chiamano: giunte locali. Nel senso: la fine della «collaborazione organica con il Pd» decisa al congresso che ha eletto Paolo Ferrero segretario avrà ripercussioni sulle amministrazioni comunali, provinciali e regionali guidate da alleanze di centrosinistra? Il fatto che abbia vinto «chi ha avuto le posizioni più estreme, più lontane da una cultura riformista», come dice Walter Veltroni, non necessariamente significa che il Prc uscirà da tutte le giunte locali in cui è presente. È vero che Nicola Latorre sostiene che dopo Chianciano si pone «un problema serio rispetto alle esperienze di governo locale». Ma l’idea di rompere ovunque col Pd non attraversa minimamente la testa di Ferrero. E infatti, quando la voce inizia a circolare, il neosegretario smentisce: «Si tratta solo di uno dei tanti, ennesimi, veleni che hanno tentato di non far concludere in modo legittimo, sereno e positivo il congresso». Piuttosto, Ferrero avrà il suo bel daffare nel far rispettare le decisioni prese a livello nazionale in territori dove le segreterie locali sono saldamente nelle mani dei vendoliani (vedi il caso Calabria). E non meno difficile, per Ferrero, sarà dover gestire una maggioranza in cui convivono assessori insieme a consiglieri che fino all’altro ieri ne avevano chiesto le dimissioni (vedi il caso della provincia di Milano). Difficoltà con cui il nuovo segretario dovrà fare i conti, prima ancora che ragionare sulle alleanze per le amministrative della prossima primavera. Avendo tra l’altro contro, in ogni caso, una minoranza che ha il 47%.
Il nodo della giunta regionale calabrese è venuto alla luce appena spenti i riflettori del Palamontepaschi. Ferrero non ha fatto in tempo a dire che rientrare nel governo guidato da Loiero «è una cosa pessima politicamente e moralmente» che il segretario Pino Scarpelli ha mandato a dire che gli organismi dirigenti locali sono pronti a far entrare un assessore in quota Prc. La decisione, ufficialmente, verrà presa al Comitato politico regionale che si riunisce oggi, ma intanto Scarpelli, che al congresso ha sostenuto la mozione Vendola, lancia un messaggio: «È cambiata la giunta, la visione politica e il modo di fare squadra. Inoltre abbiamo posto al centro del dibattito l’approvazione del bilancio delle politiche socio-sanitarie, ricevendo l’assicurazione che la nostra base è quella che la giunta vuole approvare. Se c’è questo ritorno politico per i calabresi non può essere l’esito del congresso ad inficiare il nostro percorso».
Il fatto è, dice con una certa ironia Marco Ferrando, che «non si può chiedere l’autocritica degli altri». Il segretario del Partito comunista dei lavoratori, che il congresso di Chianciano se l’è seguito tutto e che le dinamiche del Prc le conosce bene (è uscito dal partito nel 2006 dopo aver guidato per anni la principale minoranza trotzkista), punta il dito contro «gli assessori legati a Ferrero nella giunta para-leghista di Penati a Milano, nella giunta abruzzese travolta dagli scandali, nella giunta liberista toscana, nella giunta di Burlando in Liguria». E domanda: «È questa la svolta?». Ferrando non cita a caso. L’assessore all’Istruzione della provincia di Milano, Sandro Barzaghi, ha con Ferrero un legame che dura da vent’anni, da quando erano insieme, nella stessa corrente, in Democrazia proletaria. La componente trotzkista che fa capo al milanese Claudio Bellotti, Falce e martello, ne ha più volte chiesto le dimissioni per far uscire il Prc da una giunta considerata condannabile sul piano delle politiche sulla sicurazza e sull’immigrazione. Ora i due stanno nella stessa maggioranza. Non è l’unico caso.
Nella mozione con cui Bellotti è andato al congresso, e che con il suo 3,2% è determinante per tenere in piedi la linea Ferrero, si chiede di «rompere quelle alleanze locali che tuttora vedono il nostro partito coinvolto in amministrazioni regionali e comunali responsabili di privatizzazioni, liberalizzazioni, precarizzazione». Questioni che riguardano Milano come la giunta regionale ligure (dove è assessore all’Ambiente Franco Zunino, ferreriano) e in quella toscana, dove il Prc è rientrato grazie a un’operazione in cui ha avuto un ruolo di primo piano la ferreriana Roberta Fantozzi e che ha portato alla nomina di assessore alla Casa Eugenio Baronti, ex Democrazia proletaria. Lascerà la Regione? È quello che da mesi gli chiedono i cosiddetti «autoconvocati», esponenti Prc che a Chianciano sono arrivati sostenendo la mozione Pegolo-Giannini (7,7%). È quello che non vogliono gli aderenti a Essere comunisti, che in Toscana hanno un peso considerevole e che a livello nazionale hanno consentito alla mozione Ferrero-Grassi di incassare il 40%. Il nuovo segretario dice che sulle giunte si valuterà «caso per caso». In ogni caso non sarà facile.

l'Unità 29.7.08
La coabitazione dei vendoliani e le «tentazioni» del Pd


Se la porta di Rifondazione si chiude, e ieri Veltroni ha mandato un messaggio chiaro al nuovo segretario del Prc, per il Pd si aprono tuttavia nuovi scenari a sinistra. Se la vittoria di Ferrero segna la fine di un possibile riavvicinamento tra ex alleati, rende «il quadro più chiaro» e non esclude possibili rimescolamenti secondo un possibile effetto-domino che ruota intorno a due punti cardine: che farà ora Sd? E, soprattutto, Nichi Vendola? Se la vittoria dell’ex ministro non fa gioire i piani alti del Nazareno, alcune fonti vicine al segretaro Pd spiegano che non tutto è perduto. Difficile - è il ragionamento - che nel Prc regga a lungo la coabitazione tra il «radicalismo» ferreriano e la linea più governativa di Vendola. E allora bisogna attendere gli sviluppi. Ma già qualche segnale arriva. Oggi a Roma ci sarà la prima riunione dell’area dei vendoliani «Rifondazione per la sinistra», a cui parteciperà anche Franco Giordano. Insomma, la riorganizzazione è iniziata. E il fatto che i bertinottiani possono mantenere la tesoreria (l’offerta di Ferrero è stata accettata perché il tesoriere non fa parte della segreteria) non è di poca cosa.
Il Pd non teme terremoti nelle giunte locali. Al Nazareno si spiega infatti che non sono pervenuti segnali di possibili «frantumazioni» delle alleanze locali con il Prc a seguito dell'elezione di Ferrero. Ma certo, il problema si porrà per il futuro: e qui la linea di Veltroni e del partito resta quella di sempre. Cioè, alleanze solo su base porgrammatica, ma senza pregiudiziali nei confronti di nessuno. E, dunque, si vedrà caso per caso. Il primo banco di prova sarà l’Abruzzo, chiamato in novembre a sostituire il dimissionario Ottaviano Del Turco.
Insomma, di fronte alla vittoria della linea «no al dialogo con il Pd», Veltroni non poteva restare zitto e far finta di nulla, senza prendere una posizione chiara nei confronti della scelta fatta da Rifondazione che certo «preoccupa» i vertici del Nazareno. Non era un mistero, fa osservare una fonte vicina al leader Pd, che «preferivamo vincesse Vendola. Prendiamo atto che così non è stato e che si è consumata una scelta che porta il Prc lontano anni luce dal Pd». E se non esiste più l’interlocutore Prc, il Pd torna a guardare a Sd, ai Verdi e ai socialisti. Ma sempre senza rinnegare la vocazione maggioritaria. L'elezione di Ferrero «chiarisce» il quadro anche per Sd: avanti con il progetto della Costituente della sinistra. Senza sbattere la porta al Pd, che però deve ben guardarsi dal fare alleanze con l'Udc «e abbandonare la deriva centrista». Sd non nasconde di riporre speranze in Vendola, in attesa delle sue future mosse. Anche se, non negano nella Sinistra democratica, ora «la strada della Costituente della sinistra si fa più in salita». Ma già sabato prossimo, alla festa di Sd vicino Napoli, si inizierà a delineare meglio il nuovo quadro: si confronteranno in un faccia a faccia proprio Fava, Vendola e Francescato.

l'Unità 29.7.08
Liberazione.Non l’editoriale, ma un’intervista a Ferrero. Parità di spazio per Vendola


Al governatore rimane la tesoreria
Oggi prima riunione di «Rifondazione per la sinistra«

Oggi Liberazione apre con un’intervista a Ferrero. Ma all’incirca lo stesso spazio il giornale del Prc lo dedica a Vendola. E l’editoriale di Piero Sansonetti non sarà sul congresso di Chianciano. Non volete schierarvi? «Il giornale mi pare sufficientemente schierato», risponde sorridendo il direttore. Che già nelle scorse settimane era finito nel mirino della nuova maggioranza. «Non chiederemo la testa di Sansonetti», dicono ora gli uomini di Ferrero. «Figuriamoci se vogliamo offrire argomenti per farci accusare di stalinismo». Sarà, ma già alla vigilia del congresso Claudio Grassi, mostrandosi possibilista sull’incarico di segretario a Vendola, aveva fatto notare che sono tanti i possibili contrappesi: «I membri della segreteria, il giornale...». Oggi non c’è una gestione unitaria di cui tener conto. E al di là del fatto che Liberazione non sia uscita ieri («costava troppo l’edizione straordinaria», spiega Sansonetti) a Ferrero non è piaciuto troppo essere intervistato insieme a Vendola.

Corriere della Sera 29.7.08
Veltroni-Ferrero, scoppia il caso delle giunte locali
Il leader del Partito democratico: in ogni realtà locale si deciderà sulla base del programma
di M. Gu.


ROMA — La vittoria di Paolo Ferrero al congresso di Chianciano ha suggellato la rottura e adesso Pd e Rifondazione, come due sposi sull'orlo dei divorzio, sono alla restituzione dei regali. Che fare nelle giunte di comuni, province e regioni? Uscire o restare? Il nuovo segretario di Rifondazione valuterà «caso per caso». E ieri— al termine della presentazione con Anna Serafini di una proposta di legge per istituire un Garante nazionale per l'infanzia e l'adolescenza — è toccato a Walter Veltroni aprire una riflessione sulle alleanze.
«In ogni realtà locale si deciderà sulla base del programma», ha detto il segretario dopo aver inviato a Ferrero gelidi auguri di buon lavoro: «Ha vinto chi ha avuto le posizioni più estreme, più lontane da una cultura riformista». La speranza di ricostruire un centrosinistra largo, che Massimo D'Alema aveva coltivato in sintonia con Nichi Vendola, è morta e sepolta. Eppure Veltroni non intende tuffarsi tra le braccia di Casini: «No, noi pensiamo a noi stessi... La cosa peggiore che possiamo fare è metterci dentro al gioco dell'oca delle alleanze. Si sceglierà in base ai contenuti e nessuno mi farà passare i prossimi mesi a dire un giorno Udc e un giorno Idv».
Goffredo Bettini respinge gli «estremismi inconcludenti» di Ferrero e Di Pietro e invita ad attendere il momento giusto per uscire dalla solitudine come «stato di necessità». Ai dirigenti del Pd il braccio destro di Veltroni chiede di smantellare le «correnti ossificate» e ai magistrati chiede di fare il proprio dovere. «Ma il rinnovamento non deve essere affidato alle procure — avverte, mettendo in guardia dall'uso "politico e selvaggio" della giustizia —. Una riforma della vita pubblica o la fa la politica o non la fa nessuno ».

Corriere della Sera 29.7.08
Pietrangeli, Asor Rosa e Armeni con lui. Maselli: no, meglio il nuovo leader
Prc, gli intellettuali restano con Nichi
di Fabrizio Roncone


Citto Maselli. Il regista dice di Fausto Bertinotti: «Sono sgomento per le sue volgari recriminazioni. Una mancanza di stile assoluta»

ROMA — L'idea era questa: andare a sentire gli intellettuali di area rifondarola. Farci due chiacchiere subito, a caldo, dandogli appena una notte per ripensare meglio al tragico congresso di Chianciano. L'idea era buona, purtroppo però qui ormai non si prende più di sorpresa alcun compagno. Per capirci: Paolo Pietrangeli, regista e soprattutto leggendario cantautore, icona di intere generazioni gruppettare con la sua «Contessa» — ( Compagni dai campi e dalle officine/ prendete la falce e portate il martello/ scendete giù in piazza e picchiate con quello/ scendete giù in piazza e affossate il sistema...) — ebbene Pietrangeli domenica pomeriggio, capita l'antifona, in attesa che Ferrero fosse proclamato vincitore, già se ne stava seduto a gambe larghe e pipa storta tra i denti. Cupo. Grigio. Amareggiato.
E non è, ecco, che il giorno dopo il suo umore sia granché mutato. «L'esperienza politica di Rifondazione, così come ce l'eravamo immaginata, subisce una frenata che, temo, sarà definitiva». Quindi? «Non credo ci sarà una scissione. Però la discussione che seguirà, beh, sarà a dir poco aspra». Lei, Pietrangeli, sta con Ferrero o con... «Sto con Vendola. Per ragioni politiche, e d'affetto».
C'è da dire che i comunisti, anche i più colti, anche i più scaltri e avvertiti, nei momenti più tosti, sanno essere all'altezza dello loro fama di militanti: possono essere delusi, ma non mollano.
Prendete la Ritanna Armeni, giornalista e intellettuale di stretta osservanza bertinottiana. Sentite cosa dice: «La verità è che, a Chianciano, i vincenti hanno vinto male, e i perdenti hanno perso bene». Quindi? «Quindi c'è, io credo, ancora partita». Si spieghi. «Quello che s'è stretto attorno a Ferrero è un gruppo di dirigenti rispettabile, ma con un limite enorme: ciascuno sta lì con le sue idee, e spesso sono idee molto distanti... Intorno a Nichi Vendola, invece, ha perso, e di misura, un vero, credibile gruppo dirigente ». Lei pensa che... «Penso che i Giordano, i Migliore, e persino certi giovani come Nicola Fratoianni possano avere una prospettiva». Quindi, per lei, l'esperienza di Rifondazione non volge al termine? «No. Il partito è diviso in due. Perché mai dovremmo pensare a una scissione?».
Potremmo pensarci perché, ad esempio, è un destino che ipotizza il professor Alberto Asor Rosa. «Ormai ci troviamo innanzi a due partiti diversi, con prospettive diverse: io credo che all'orizzonte si stagli una inevitabile divisione». Rifondazione muore? «Decede l'esperienza politica di Rifondazione ». E Ferrero? «Le dirò: sabato mattina ero al congresso, per ascoltare Bertinotti. Ebbene sono rimasto colpito dalla generale atmosfera di odio... Detto questo, recriminare sulle modalità della vittoria di Ferrero è comico: esse sono state determinate dal gioco democratico, con le minoranze che si sono coalizzate cercando di teorizzare la possibile sopravvivenza di un'idea di comunismo nel ventunesimo secolo...». Lei è scettico. «Io provo simpatia per Vendola. Per la sua ragionevolezza politica, minata purtroppo, in sede congressuale, dalla veemente sponsorizzazione di Bertinotti, il principale responsabile dell'ultima, terrificante sconfitta elettorale».
A proposito dell'ex líder máximo.
«Sono sgomento per le sue volgari recriminazioni. Una mancanza di stile assoluta». Chi è che parla? Tenetevi: è il regista Citto Maselli. Mille serate in salotto con Bertinotti e sua moglie Lella e ora compagno di mozione del valdese Paolo Ferrero. Che, dicono, non ami però troppo il cachemire.

Repubblica 29.7.08
Il day after di Rifondazione Veltroni: "Vince l´estremismo"
Il leader Pd: era giusto correre da soli. Delusa Sd
Bettini: è irrealistico chiederci ora se unirci all´Udc o a Ferrero
di Goffredo De Marchis


ROMA - Dal congresso di Rifondazione esce una conferma. «Auguri a Ferrero, ma oggi si capisce meglio la bontà della scelta di andare liberi, della vocazione maggioritaria del Pd», commenta Walter Veltroni. Dopo settimane di discussione sulle alleanze che bisognava fare prima del voto e sul dialogo a sinistra da instaurare dopo la sconfitta, settimane in cui la "solitudine" del Pd è stata criticata in molte sedi, il segretario del Partito democratico si toglie qualche piccola soddisfazione. «Al congresso di Prc ha vinto chi ha le posizioni più estreme, più lontane da una cultura riformista». Quindi più distanti dal Pd. «Le posizioni dialoganti sono state sconfitte», insiste Veltroni. Che adesso può rilanciare in pieno la sua linea sui rapporti con le altre forze del centrosinistra e con l´opposizione in generale: «L´unica strada sono le alleanze programmatiche». E sui programmi un partito del 33 per cento, com´è ovvio, ha molte più carte da giocare nell´imporre la sua linea e le sue leadership agli eventuali alleati.
Ecco perché l´esito sorprendente del confronto dentro Rifondazione, l´insuccesso di Nichi Vendola non può e non deve spostare subito lo sguardo sulla possibile alleanza con l´Udc di Pier Ferdinando Casini. «Non farò mai questo gioco dell´oca, non voglio passare i prossimi mesi a dire un giorno Udc e l´altro Italia dei Valori. Noi pensiamo a noi stessi, non agli altri. Nei territori e a livello nazionale si deciderà in base ai progetti di governo», avverte Veltroni. Per il quale a questo punto diventa più semplice anche la questione della legge elettorale per le Europee. Il piano del Pd prevedeva una soglia di sbarramento al 3 per cento, una "cifra" di cortesia e di attenzione verso il mondo della sinistra radicale che avrebbe faticato ad andare oltre. Ma il Polo propone il 5 e Roberto Calderoli ha proposto la via di mezzo al 4 per cento. Questo potrebbe diventare il punto d´intesa alla ripresa dei lavori parlamentari, in ottobre. Ma il Pd non può dimenticare la mappa delle tantissime giunte in cui governa con Prc. Uno strappo di Ferrero a livello locale può costare caro ai democratici.
Il Pd non vuole chiudersi, semmai punta a giocare la partita di posizioni di forza. Non sarà sempre facile. Per esempio, in Abruzzo dopo l´arresto di Ottaviano Del Turco e le sue dimissioni, si torna a votare in novembre. A Pescara ieri è andato Casini per dire che ora nella regione l´»Udc è centrale», «punta a raddoppiare i consensi» e che il «centrosinistra ha governato male». Dice il leader dell´Udc: «Ora avvieremo un lavoro molto serio per capire con quale alleanza l´Abruzzo esce dal pantano». Il Pd da giorni sta seguendo la pista di un´intesa con i centristi in Abruzzo. In quella regione Prc non ha molti consensi, ma è anche vero che i democratici sono alleati con Di Pietro. Insomma, ci vuole cautela. Goffredo Bettini, che ieri ha presentato con Nicola Zingaretti "Democratici in rete", associazione vicina alle posizioni veltroniane, frena: «Nessuno vuole andare da solo. Ma noi vogliamo rinnovare la politica in tutto il campo democratico. Perciò è irrealistico - dice il coordinatore del Pd - e addirittura accademico porci oggi la domanda se ci uniamo all´Udc o a Rifondazione».
La vittoria di Ferrero ha spiazzato anche gli altri partiti della sinistra, tutti fuori dal Parlamento. Con Vendola potevano sperare in una Costituente e in una corsa uniti alle Europee. Così il potere di attrazione del Partito democratico nei confronti dei Verdi e Sinistra democratica potrebbe crescere. Ma con la Rifondazione uscita da Chianciano è quasi impossibile dialogare. Spiega Claudio Fava, coordinatore di Sd: «Ci sembra di aver fatto un passo indietro e non per Ferrero come persona, ma per il ritorno ad un partito minoritario dalla bandiera rossa. Noi non siamo per una sinistra che si arrocca, ma che sia pronta a rinnovarsi». Oggi quella galassia, più di ieri, è costretta a guardare a Veltroni: «Chiediamo al Pd di fare una scelta e cioè se vuole spostarsi ancora più al centro, aprendo all´Udc di Cuffaro, o scegliere la sinistra».

Repubblica 29.7.08
Alla provincia di Milano la crisi col Pd è vicina e così a Parma e a Reggio Emilia. E alle amministrative si ridiscute tutto
Alleanze a rischio nelle giunte locali in Abruzzo il Prc punta su Di Pietro
In primavera saranno chiamati alle urne 4200 comuni e due terzi delle province
Il partito ha assessori nelle 13 regioni guidate dal centrosinistra esclusa la Calabria
di Luciano Nigro


ROMA - In Abruzzo, dove si voterà in autunno e dove comanda Maurizio Acerbo, primo firmatario della mozione Ferrero, Rifondazione comunista si prepara a correre «da sola» alle elezioni regionali, nel senso che non lo farà con il Pd. Anzi, quasi certamente si sperimenterà qui, sulla "questione morale", la prima alleanza tra dipietristi e comunisti. A Milano è ormai questione di ore: in settembre la falce e martello si appresta a staccare la spina alla giunta e questo porterà il presidente pd Filippo Penati dritto dritto alle urne. A Parma il congresso ha già votato per l´uscita dal governo provinciale, l´assessore però resiste e non è da escludere che alla fine sarà lui ad abbandonare il partito. A Reggio Emilia, del resto, sta già succedendo: l´assessore ai lavori pubblici Carla Colzi, intende lasciare Ferrero dopo che le redini del gruppo consiliare sono state tolte a un suo compagno vendoliano e affidate alla maggioranza.
La scossa di Chianciano e la vittoria di quella che Walter Veltroni non esita a definire la componente «più estremista e lontana da noi» aprono crepe in diverse parti d´Italia dove il Prc, nonostante tutto, governa da anni con il centrosinistra. L´interrogativo non è solo se le giunte reggeranno all´urto della componente più radicale di Rifondazione: «E´ falso che vogliamo rompere in tutti i governi locali – minimizza Ferrero mentre in Italia ci si chiede quante amministrazioni salteranno nei prossimi mesi - noi valuteremo caso per caso». La domanda è se ci saranno le condizioni per un´alleanza e se Veltroni vorrà ancora farlo con "questo" Prc in primavera, quando saranno chiamati alle urne 4200 comuni e due terzi delle province italiane. Questione non piccola perché il Prc oggi governa quasi ovunque con il Pd.
Proprio così, i casi di rottura sono stati finora eccezioni, non la norma. In tanti ricordano gli scontri sulla sicurezza del sindaco Sergio Cofferati con i comunisti bolognesi, passati all´opposizione (ma solo in Comune) mentre il loro assessore e un presidente di quartiere hanno abbandonato il partito. Qualcuno rammenterà analoghe rotture a Venezia con Massimo Cacciari e a Firenze con Leonardo Domenici. Ma, appunto, si tratta di casi. Il Prc è al governo in quasi tutte le giunte di centrosinistra. Da Torino a Genova, da Milano alla via Emilia, fino a Bari, Reggio Calabria e Napoli dove, nonostante le richieste ripetute di una parte del Prc di uscire dai governi locali dopo lo scandalo della «monnezza», i suoi uomini sono rimasti in Comune, in Provincia e in Regione. Il Prc ha assessori in tutte le 13 Regioni guidate dal centrosinistra. Tutte tranne la Calabria: qui è in maggioranza, ma il partito, schierato con Vendola, vuole riprendere il posto in giunta. Ferrero si oppone. Al congresso ha chiesto i compagni calabresi di non rientrare al governo con Agazio Loriero. Ma proprio oggi il comitato politico regionale è chiamato dal segretario calabrese Pino Scarpelli a dare il semaforo verde e ad aprire un nuovo conflitto con Roma.

Repubblica 29.7.08
"Per Comuni e Regioni valuteremo caso per caso"
Non è all´ordine del giorno la rimozione di Sansonetti, ma ruolo e linea politica di Liberazione devono essere ridiscussi
di Umberto Rosso


ROMA - Segretario Ferrero, si sente un estremista, come l´accusa Veltroni?
«È una critica sbagliata. Rifiuto l´immagine di una Rifondazione settaria e che si arrocca. Il punto è un nodo drammatico da sciogliere, che del resto anche il Pd ha di fronte: la grande crescita del disagio sociale. Secondo noi, o la sinistra rilancia un conflitto di classe oppure si scatena la guerra fra i poveri. È estremismo questo?».
Vendola e i bertinottiani ci credono poco: Ferrero, dicono, fa opposizione non al governo ma al governo-ombra del Pd.
«Sciocchezze. I nostri avversari sono le destre, Berlusconi, la Confindustria».
Al Pd però porte chiuse.
«Rivendichiamo l´autonomia. Che vuol dire anche smetterla di lamentarsi per quel che fa o non fa Veltroni. Non è che per cinque anni si può fare opposizione con questa litania. In poche parole, Rifondazione deve prendere l´iniziativa. E l´unità della sinistra va costruita nel fare, a partire dall´opposizione sociale. Rovesciando il processo della Sinistra arcobaleno, che era solo aggregazione di ceto politico».
Però lanciate la verifica degli accordi di centrosinistra nelle giunte locali.
«Verifica è una parola che non mi piace, politologia. Parliamo di una maggiore attenzione a quel che succede negli enti locali».
Insomma, volete rompere o no?
«Altra balla messa in giro. Nel nostro documento politico non si dice questo ma che è finita la stagione per cui, meccanicamente, si traducono le intese nazionali a livello locale».
Questo per il futuro. E per le giunte in carica?
«Mettiamola così: si deve vedere che una giunta di centrodestra è diversa da una di centrosinistra con noi dentro».
E si vede?
«In qualche caso sì, in qualche caso no. Che so, sull´immigrazione si vede a Torino con Chiamparino ma non a Firenze con Dominici, dove infatti non ci siamo. A Milano c´è un´approfondita discussione in corso. In Calabria, con tutti gli inquisiti che siedono in consiglio comunale, sono contrario al rientro. E se potessi tornare indietro, oggi non direi più di sì a scatola chiusa per Roma a Rutelli».
Lo sa che, anche per questo, l´accusano di trasformismo? L´ex ministro di Prodi che predica il fuggi fuggi dal governo.
«Rispedisco al mittente. Ho fatto mea culpa, ho riconosciuto pubblicamente l´errore. Abbiamo sbagliato a stare nel governo Prodi, non lo rifarei. Trasformista è chi invece non ammette mai le responsabilità. In questo caso, aggiungo, non solo del governo ma di tutta la maggioranza. I Dico li abbiamo presentati, ma finirono insabbiati in Parlamento. E la tassazione delle rendite finanziarie, fatta da Visco, marcì alle Camere».
Mai più perciò una sinistra di governo?
«La scelta vale nel contesto attuale, dati i rapporti di forza e la linea del Pd. E mi sorprende lo scandalo per questa presunta strada estremista imboccata dal congresso. Guardate che per Rifondazione la stranezza è l´altra, entrare al governo, non certo tenersene fuori: è stato così per 17 anni».
Bertinotti è sconcertato: il virus del dipietrismo si fa largo nel Prc.
«Accuse sopra le righe. A Piazza Navona c´erano anche Fava, i Verdi, Diliberto, e tanta gente. Mancavano solo i bertinottiani».
Adesso, segretario, cadranno teste nel partito?
«Il mio primo atto è stata la riconferma del tesoriere, bertinottiano. Proporrò una gestione unitaria, un congresso serve a definire la linea ma il partito è di tutti».
Anche «Liberazione» sarà di tutti, il direttore Piero Sansonetti resta?
«Una «Liberazione» di tutti io proprio me la auguro, perché finora il giornale è stato molto sbilanciato. Rimuovere il direttore? Altra leggenda metropolitana. Non è all´ordine del giorno, non mi pongo il problema. Sono, invece, per discutere del ruolo del giornale e della sua linea politica».
Ma come si fa a guidare un partito con otto voti di scarto, con una maggioranza che Vendola bolla come un cartello informe?
«Nichi proprio sbaglia. Le quattro mozioni hanno trovato l´intesa su una linea politica precisa. E di questa sarò il garante, non sono più il candidato della prima mozione ma del progetto uscito da Chianciano. Dico di più. Se fosse stata un´accozzaglia, non mi sarei presentato. E Vendola avrebbe avuto il buon diritto di guidare il partito».
Alle elezioni insieme a Diliberto?
«Ha deciso il congresso, ci presentiamo con il nostro simbolo e gli eletti andranno esclusivamente al gruppo della Gue. Niente adesioni dei nostri parlamentari a partiti del socialismo europeo. Chianciano ha deciso così, ma le aperture ad altre forze e diversi soggetti comunisti saranno le più ampie possibili».

il Il Riformista 29.7.08
Cosa resta del bertinottismo
di Peppino Caldarola


Come in un film western alternativo, nella guerra di Rifondazione hanno vinto i cattivi. A Bertinotti sarà venuta in mente, nelle ore finali del congresso di Rifondazione, la citazione di Paolo di Tarso che aveva fatto intervenendo al Cc del Pci dopo la Bolognina (vado a memoria): «Siamo in questo mondo ma non siamo di questo mondo». Nella frattura fra il leader e il suo partito, infatti, non c'è solo la politica, c'è ben più. C'è una rottura morale e quasi antropologica. I commenti di Vendola e Giordano, lo stupore della mite Graziella Mascia appartengono allo stesso genere di considerazione.
L'accusa ai vincitori è bruciante: plebeismo. Hanno aperto gli occhi e si sono trovati di fronte a un'immagine mostruosa. Bertinotti aveva tentato, con il ritorno a Marx, di evocare una radice comune, ma in comune le due anime di Rifondazione hanno poco. Cerchiamo di capire perché e di capire, alla luce di quel che è accaduto, che cos'è stato il bertinottismo e dove può andare.
Quegli altri, i vincitori, non vanno da nessuna parte. Da Lenin a Di Pietro. Rifondazione nasce dalla scissione del Pci morente. La guida la destra del partito, la destra burocratica e filosovietica non quella migliorista, che aveva in Armando Cossutta il suo mentore. Negli anni successivi il partito neo-comunista si costruisce per aggregazione di anime diverse che restano diverse. C'è un'area che viene dal Pci ma che del Pci criticava il riformismo (all'epoca parola dannata). C'è un area che viene da ciò che resta dei più parolai gruppi extra-parlamentari, tipo Avanguardia operaia. A questa componente a mano a mano si aggiungono estremismi di ogni tipo, al confine o appena dentro l'Autonomia e i Centri sociali. Infine ci sono i sindacalisti. Prima il timido Garavini, poi l'esplosivo Bertinotti, militante del Pci mai comunista.
Il partito che nasce e che abbiamo conosciuto in questi anni non c'entra nulla col Pci. Tanto meno quello scissionista di Diliberto. Non fosse altro che per quell'obiettivo del comunismo che il Pci aveva lasciato sempre sullo sfondo fino a cancellarlo negli ultimi anni di vita.
Via via che la crisi della sinistra lascia orfani, apolidi e transfughi, Rifondazione si struttura come un Lego impazzito e sghembo. Un intellettuale alla guida di una organizzazione che va per conto suo. L'intellettuale che guida il partito ha un uso di mondo che il "suo" mondo non apprezza, ma che non può denunciare perché senza Bertinotti Rifondazione non esiste. Il "patto scellerato" fra il vertice e la base assicura una convivenza lunga. Bertinotti e i suoi ragazzi hanno la rappresentanza esterna, il partito interno coltiva i suoi miti alternativi. Non poteva durare a lungo. Anzi è durato troppo. 
Le strade hanno cominciato a divaricarsi quando l'imprenditore Bertinotti ha deciso di mettere a reddito il suo capitale. Comunismo? Non esageriamo. Dittatura del proletariato? Non scherziamo, ora serve democrazia e non violenza. Nell'ultimo periodo il pensiero di Bertinotti si era fatto più intrigante. Oltre il comunsmo, c'era il socialismo e nel socialismo c'era il lombardismo delle riforme di struttura, il massimo di socialismo di governo. Bertinotti approda qui e lascia intendere di aver voglia di proseguire. I suoi lo seguono, Rifondazione raggiunge l'apice: la presidenza della Camera, la guida della regione Puglia, un ministro. Quest'ultimo fa il furbetto e un po' governa un po' strizza l'occhio a chi sta fuori. Anche a lui si deve la fine di Prodi. A lui si deve la fine di Bertinotti. Ora è pronto per Di Pietro.
La fine del bertinottismo è la conclusione di una avventura senza popolo. Un fenomeno elitario, che il corpaccione comunista ha utilizzato senza accettarlo fino ad espellerlo nel momento della sconfitta. Una sconfitta elettorale che per i vincitori del congresso, sono strani questi nuovi comunisti!, è arrivata come manna dal cielo.
Il futuro si presenta carico di nubi. Bertinotti sparirà dall'iconografia comunista e saranno i socialisti a recuperare il suo contributo analitico e forse una parte della sua eredità. Vendola e Giordano fra pochi mesi dovranno scegliere fra una morte lenta o la morte nel Pd. I vincitori del congresso scompariranno. Un'altra storia della sinistra sta finendo. Forse il muro di Berlino sta cadendo del tutto solo ora. Chissà perché Veltroni e i veltroniani sono così contenti. Ha vinto solo Berlusconi. Il problema è capire che fine farà questa sinistra che non vuole governare, che ama Di Pietro, i cui elettori stanno andando verso la Lega. Ovvero il problema è che fine faremo noi quando queste schegge impazzite si fermeranno, probabilmente nel posto peggiore. 
Peppino Caldarola


il Riformista 29.7.08
Rifondazione. Agitato anche il post-congresso
Vendola vara subito la corrente
Parte la guerra delle giunte locali
di Alessandro De Angelis


Che dentro Rifondazione ormai convivano due fazioni, non è una novità. Ma che già si comportino come due partiti, questo sì, eccome. I vendoliani, nel day after della sconfitta, preparano la loro guerra di posizione. La corrente, annunciata al congresso dal governatore della Puglia, prenderà forma a settembre. E assomiglia a un vero e proprio partito. Oggi si riunirà un gruppo ristretto con Giordano, Migliore, i colonnelli bertinottiani per mettere a punto la road map. Se ne parlerà anche nel pomeriggio alla riunione di redazione della rivista bertinottiana Alternative per il socialismo . Parola d'ordine: «autonomia politica e comunicativa». Per intendersi: modello Red. Il sito della mozione sarà trasformato a breve nel sito della corrente, in attesa di capire cosa accadrà di Liberazione . Dove, secondo voci di corridoio, la direzione di Sansonetti rischia grosso. Fonti a lui vicine lo descrivono sereno: «Non è facile far fuori un direttore. Il giornale ha un suo consiglio di amministrazione, è quello che decide. Noi proviamo a resistere». Ma i nervi sono a fior di pelle: sembra che il neosegretario non abbia gradito affatto la scelta di Sansonetti di intervistare sul numero in edicola oggi sia lui che Vendola. Pare che Ferrero abbia negato la disponibilità, per poi accettare solo dopo una chiamata chiarificatrice del direttore.
L'area programmatica - guai a parlare di corrente - di Vendola&Co se non è un partito, poco ci manca. Il ragionamento che fanno a freddo gli uomini di Nichi suona più o meno così: abbiamo perso ma governiamo la metà del partito. Di più: se avessimo vinto con una scelta al ribasso sulla nostra proposta saremmo stati in un pantano. Quindi: mani libere. La Red bertinottiana si chiamerà "Rifondazione per la sinistra" e, di fatto, si muoverà autonomamente rispetto a Ferrero. Dentro il partito per evitare di perdere pezzi. E, soprattutto, fuori per non restare isolati. L'ex segretario Franco Giordano non usa mezzi termini: «Quella corte dei miracoli che ha preso in mano il partito è più preoccupata di fare opposizione al governo ombra che a Berlusconi. Noi vogliamo invece fare opposizione a Berlusconi e parlare a quella sinistra diffusa che non si riconosce in nessun partito». In agenda il dialogo con Sd, verdi e comunisti che ci stanno. E col Pd, cui Vendola vuole mostrare un volto credibile. Anche per mantenere un canale con i dalemiani e non dare l'alibi per sganciarsi a Veltroni. Che ieri, su Rifondazione, ci è andato giù duro: «Hanno vinto le posizioni più estreme». E ha rimandato sine die la questione delle alleanze.
Come se non bastasse, i vendoliani non hanno alcuna intenzione di uscire dalle giunte locali. Anzi, in Calabria - dove il partito è uscito in nome della "questione morale" - dicono: «Ci sono le condizioni per rientrare. E visto che si decide a livello regionale rientriamo». Di tutt'altro avviso Russo Spena: «Non basta la decisione del comitato calabrese. È una questione nazionale» afferma. L'ex capogruppo al Senato però getta acqua sul fuoco: «Non vogliamo aprire crisi ovunque. Come sempre abbiamo fatto verificheremo l'azione delle giunte rispetto ai nostri programmi». Oltre alla Calabria, zoccolo duro di Vendola, l'insoddisfazione cresce sulla giunta Penati e in Toscana, dove però gli assessori sono targati Ferrero. Ma la prossima battaglia all'arma bianca è sull'Aspromonte, dove il partito rischia una spaccatura. L'ennesima.


il Riformista 29.7.08
«L'Unità cambia e nessuno ci informa»
di 
Tommaso Labate



«Sinceramente non capisco perché l' Unità di Antonio Padellaro sia considerato un giornale che non va bene al punto da richiedere un cambio di direzione. A me nessuno, né dentro né fuori il Pd, ha mai detto cose del tipo "Dovremmo modificare un po' il quotidiano", oppure "Andiamo a prendere un caffè e affrontiamo il tema del rinnovamento dell'Unità ". Niente: a nessuno è venuto in mente di avvisarci dei cambiamenti in vista. Eppure penso che anche a Padellaro avrebbe fatto piacere una discussione del genere...».
Parlando con il Riformista , Furio Colombo affronta per la prima volta il tema dell'imminente cambio della guardia alla guida dell'Unità. Antonio Padellaro lascia, Concita De Gregorio arriva.
L'ex direttore del quotidiano fondato da Gramsci, prima di esprimersi, fa una sola premessa: «Dirò quello che penso senza problemi. Spero soltanto che quest'intervista non esca con un titolo tipo "Colombo: adesso basta, me ne vado"...».
Andiamo con ordine. Colombo, secondo lei all' Unità serviva un cambio di direzione? 
«Non confondiamo i ruoli. La risposta a questa domanda spetta al nuovo azionista di maggioranza, non a me». 
Cambiamo domanda allora. Lei è contento dei cambiamenti in vista all' Unità? 
«Chi lavora con così tanta passione a un quotidiano ha l'impressione che quel giornale sia buono. Parlo di me ma penso anche a Marco Travaglio, Moni Ovadia, Maurizio Chierici, Rosetta Loy... Per carità, nei giornali c'è sempre qualcosa da cambiare. Ma questo non vuol dire che dobbiamo buttare via tutto quello che c'è. Altrimenti l'avremmo già fatto noi, non crede?»
La sua sembra una difesa a spada tratta di Padellaro. 
«Anni fa, quando i rapporti con la precedente proprietà erano molto tesi, la mia battaglia non era finalizzata a difendere me stesso ma a garantire Padellaro come mio successore. La nostra stima nei confronti di Antonio è immutata». 
Forse dopo qualche anno serviva un ricambio, non trova? 
«Riceviamo un sacco di e-mail di gradimento e le vendite vanno molto bene». 
Resta il fatto che si cambierà. 
«Io non voglio parlare di questo. Sarebbe come stare al capezzale di qualcuno che non è ancora morto». 
Come si spiega però le proteste della redazione dopo l'intervista di Concita De Gregorio a Prima comunicazione ? 
«Erano un atto dovuto. Comunque io credo che la De Gregorio sia stata usata. Non credo fosse sua intenzione dire quelle cose del giornale. È una brava giornalista, caduta nella trappola di chi voleva parlare male dell'Unità . Prima comunicazione è un giornale di pubblicitari. E i pubblicitari rappresentano le grandi braccia di Berlusconi e del berlusconismo. Non a caso sono anni che quel giornale attacca gratuitamente l'Unità ».
Sembra indignato, Colombo. O sbaglio? 
«Più che indignato resto a bocca aperta quando sento e leggo che alcuni ex direttori dell'Unità danno dei giudizi tremendi su Padellaro e sul sottoscritto. Ma di che cosa parlano? Alcuni di loro obbedivano ciecamente al partito mentre a noi è toccato far resuscitare un giornale morto. Lo sa che cos'era l'Unità quando siamo arrivati? Stanze deserte e piene di cartacce. Noi l'abbiamo fatto rinascere, quel giornale, con pazienza e umiltà».
Si riferisce alle opinioni di molti ex direttori (raccolte dal Corsera ) sulle critiche che Padellaro ha rivolto al Quirinale? 
«Mi stupisce che tutti si siano messi in corsa per dare torto a Padellaro. C'è Reichlin, che comunque scrive ancora per l'Unità ... Non credo poi che Petruccioli volesse essere severo con noi, d'altronde non lo è nemmeno con l'azienda che guida. E poi Caldarola, che è stato poco affettuoso. Poco male, quando noi difendiamo i diritti civili lo facciamo anche perché Caldarola possa dire la sua come meglio crede».
Arriviamo al dunque: lei rimarrà all' Unità anche dopo il cambio della direzione? 
«Ancora non è avvenuto nulla per cui non ho alcuna ragione di fare annunci. Io per ora mi trovo bene con Travaglio, Ovadia, Chierici, Loy e molti altri ancora... Attraverserò quel ponte quando ci saremo arrivati. Non mi pare giusto dare giudizi sull'Unità "di Concita De Gregorio" visto che non so come sarà. Comunque sia, l'ho letta e apprezzata per i suoi articoli su Repubblica . Mi sembra un'ottima giornalista. Non la conoscevo di persona finché non l'ho vista alla presentazione di un libro, tempo fa...».
Ma lei come ha saputo dell'ipotesi di cambiare direttore al quotidiano? 
«Tempo fa Veltroni ha detto al Corriere della sera che sarebbe stata una buona idea avere un direttore donna. Giustissimo, in teoria. Ma quando Berlusconi ha ripetuto che "in teoria" il dottor Letta sarebbe stato un ottimo presidente della Repubblica, noi abbiamo risposto che un capo dello Stato c'era già, Giorgio Napolitano. La stessa cosa vale, anche se in piccolo, anche per l'Unità . Che un direttore ce l'aveva già, Antonio Padellaro».
Che vuol dire, onorevole? Nessuno l'aveva avvertita in anticipo dei grandi cambiamenti? 
«Spesso, purtroppo, il Pd ha una curiosa vocazione verticale. Quello che succede all'ultimo piano non viene fatto sapere a chi sta al piano terra. Ripeto: a me nessuno, né dentro né fuori il Pd, aveva mai detto cose del tipo "Dovremmo modificare un po' il quotidiano", oppure "Andiamo a prendere un caffè e affrontiamo il tema del rinnovamento dell'Unità ". Niente. Poi ho scoperto che c'era addirittura da cambiare il direttore. Quando i vecchi Ds erano irritati nei confronti del giornale che dirigevo, pensavo che ci fosse qualcosa in loro che io, che non sono mai stato dei Ds, non capivo. Il Pd però lo conosco. Eppure...».
Scusi, non potrebbe essere stata una scelta autonoma del nuovo editore? 
«Prendiamo per buona questa sua ipotesi. Ma anche qui c'è un problema. Io so che Soru è un imprenditore di successo ed è il governatore della Sardegna. Immagino che, quando prende le sue decisioni, si confronti con i suoi collaboratori. Altrimenti non avrebbe avuto tanto successo, no? Eppure questa volta non l'ha fatto. Per lo meno, io non ne sapevo niente».
In ogni caso cambiare direttore è una scelta legittima di ogni editore, non trova? 
«Certo che lo è. Solo che sarebbe stato bello parlarne tutti insieme. Credo che anche Padellaro avrebbe trovato divertente un dibattito del genere. Ecco perché in tutta questa storia ci metto un elemento di nostalgia. La nostalgia di cui parlava Monica Vitti nell'Eclissi : la speranza di qualcosa che non è accaduto».

il Riformista 29.7.08
Il dibattito su Luxuria all'isola dei famosi, la rinascita di Democrazia proletaria


Vladimir dalla Ventura

Caro direttore, sinceramente poco mi appassiona la partecipazione di Luxuria all'«Isola dei famosi» e neppure capisco, se non per un fatto di solidarietà, le dichiarazioni dell'amico Aurelio Mancuso nel decretare che Arcigay sarà a fianco di Luxuria in «un reality brillante e impegnativo». Immagino e spero che Arcigay abbia ben e più altro da fare per la comunità glbt, fermo restando l'affetto loro e mio per Vladimir. Per questo e altro fa male quel che ha scritto sul Riformista di ieri Luca Mastrantonio. Fa male a chi da anni si batte per una nuova civiltà italiana di accoglienza sui diritti omosessuali; fa male alla comprensione dei tanti che non comprendono, se non per meri scopi commerciali, la partecipazione di Luxuria al reality della Ventura. Fa male Luxuria a spiegarci dei perché e dei per come ha deciso di andare in Honduras a favore di qualcuno o qualcosa che non trarrà favori dalla sua e altrui partecipazione. Sbagliato tirare in ballo la politica. Sbagliato tirare in ballo il movimento omosessuale o transgender per quel che è una pura rappresentazione catodica e un programma che ha il solo scopo del successo e dell'attrazione degli sponsor. L'esperienza parlamentare a marchio glbt è stato un disastro, è inutile girarci intorno, sempre escludendo la magnifica opera parlamentare di Franco Grillini. E gli altri? Le altre? Oggi, Paola Concia, sola, ha il gravoso compito di rappresentarci e dio e lei sanno quanta difficoltà esiste in questa rappresentanza e con questo Parlamento. È incredibile il silenzio calato sui diritti omosessuali, sulle battaglie che oramai viaggiano in ordine sparso e a targhe alterne tra le tante generose volontà dei tanti movimenti glbt. Tutto è diventato difficile e pesante, senza più l'ipotesi di poter cambiare in meglio la cultura e la democrazia di questo Paese. E se il cambiamento culturale, come afferma Mancuso, passa anche da un reality come «L'Isola», ben venga, ma dubito che si tratti di cultura, al massimo si dà un taglio al tabagismo o si risolvono problemi di adipe. Forse, nostro malgrado, Mastrantonio ha ragione: siamo tutti dei piccoli berluscones senza la faccia tosta di sdoganarci come tali. Sempre più spesso il successo o la visibilità mal si coniuga con gli interessi generali delle persone. E il rischio da un po' di tempo incombe anche sugli omosessuali. Luxuria ha deciso di proseguire la strada che più le appartiene, quella della visibilità radiotelevisiva; ha tutto il diritto a farlo, ci mancherebbe. Certo, mi sembra eccessivo far passare la politica e i movimenti omosessuali, il Parlamento e tutto il resto per la cruna dell'ago dei naufraghi. Piacerebbe, e tanto, che la partecipazione di Luxuria possa «aiutarci concretamente a vincere le nostre battaglie di promozione della dignità e dei diritti delle persone glbt», come scrive Mancuso. Mi si conceda il diritto di dubitarne, almeno di un miracolo. E a credere ai miracoli, non si fa peccato.

Mario Cirrito e-mail



E se tornasse Dp?

Caro direttore, forse Fausto Bertinotti e i suoi sono stati travolti da troppe (anche felici) ambiguità, da troppe contraddizioni. E forse con Paolo Ferrero rinasce per certi versi Democrazia proletaria. Del resto anni fa a Chieti, in occasione di un incontro sul '68, Giovanni Russo Spena evocava lo spirito della Prima Internazionale, aspettando un novello Marx. Peccato che i telegiornali, intenti a mostrare la spaccatura del partito, non abbiano presentato una breve biografia del nuovo segretario di Rifondazione.

Danilo Di Matteo Chieti


Il Foglio 28.7.08
Pugno chiuso, pugno vuoto
Il Prc dall’antagonismo ministeriale alla mussoliniana nostalgia del futuro


La maggiore formazione della sinistra “antagonista” italiana ha adeguato la sua linea politica e il suo gruppo dirigente alla condizione extraparlamentare nella quale si trova per effetto della scelta degli elettori. E’ abbastanza naturale che siano i dirigenti che hanno iniziato da lì, cioè dal movimentismo contestatore degli anni Settanta, quelli che si trovano più a loro agio nella nuova condizione, rispetto a quelli che vengono da grandi organizzazioni “istituzionali” come il Pci o la Cgil. D’altra parte sono stati questi ultimi a guidare Rifondazione nella rovinosa utopia di un antagonismo sociale capace di determinare, spostandolo progressivamente a sinistra, l’asse di un governo a forte connotazione tecnocratica. La rigenerazione identitaria vagheggiata da Paolo Ferrero, che saluta i suoi sostenitori col pugno chiuso, infatti, non è più utopistica della visione di uno sciopero generale politico palingenetico, fatta balenare nel discorso di Fausto Bertinotti. Vagheggiare il ritorno a un passato identificato sommariamante attraverso una simbologia obsoleta, peraltro, non è più irrealistico che dipingere un futuro altrettanto se non ancora più improbabile. In ogni caso l’equivoco dell’antagonismo ministeriale, manifestamente fallito, non si poteva facilmente sostituire con quello dell’antagonismo regionale e comunale. Può darsi che l’ala di Rifondazione che è stata sconfitta di misura al congresso da una coalizione maggioritaria piuttosto composita riesca a riconquistare il controllo del partito oppure che la coabitazione tra le due componenti non regga nel tempo. Quel che pare ormai irreversibile è la rottura del già esilissimo filo di continuità che legava Rifondazione alle esperienze della sinistra istituzionale. Del partito brezneviano che nacque dalla rottura del Pci non c’è più traccia, anche ovviamente perché manca il referente sovietico, di quello pansindacalista bertinottiano nemmeno. Restano gli epigoni di Democrazia proletaria, eredi designati di tutte le sconfitte.

Il Foglio 29.7.08
Dopo la sconfitta al Congresso di Rifondazione comunista. Ritratto del governatore della Puglia
Tutta colpa del Nichinismo
Poeta, politico, gay, comunista e cattolico. Un casino? No, Vendola
di Stefano Di Michele
Dal Foglio del 2 luglio 2005:


“C’era una volta una piccola bocca che ripeteva la filastrocca di una gattina color albicocca che miagolava in una bicocca dove viveva una fata un po’ tocca che raccontava la storia bislacca di una bambina che sta sulla rocca e che ripete la mia filastrocca nata un po’ allocca e cresciuta barocca…”.
Nichi Vendola

"Sono un fifone nato”, ripete Nichi. “Da bambino ero buono e pieno di paure: pauroso di tutto”. E dunque bene si capisce il parapiglia, quella notte di vent’anni fa, in quella casa a pianterreno, zona Talenti, periferia est della capitale. Qui vivevano insieme Vendola, appunto, e Franco Giordano, attuale capogruppo di Rifondazione comunista a Montecitorio. Anni un po’ scombinati, senza capo né coda, dell’antica Fgci che si preparava a uscire di scena. Nichi e Franco si conoscono da una vita, nati persino lo stesso giorno, il 26 agosto. Franco un anno prima. Quando a 18 anni Giordano era segretario della Fgci di Bari, Vendola guidava i giovani comunisti (quelli che c’erano) nella natia Terlizzi. La casa di Talenti, poi, era una casa che funzionava con i suoi ritmi e i suoi tempi, mica roba di ordinario accasamento. “Una specie di comunità – ricorda Giordano – non sapevi chi veniva la sera, te ne accorgevi solo la mattina dopo”. E qui si verifica il fatto che bene racconta delle paure vendoliane. Sera d’estate. Giordano dorme nella sua stanza con la porta finestra aperta. Nell’altra, Vendola legge. Di colpo, nel cuore della notte, il futuro capogruppo si sveglia con una strana sensazione. “Intorno e sopra al mio letto, in tutta la camera, c’erano forse trenta gatti. Comincio a urlare: Nichi! Nichi!”. Che si affaccia sulla porta, vede l’amico con gli occhi sbarrati e la folla di felini e rientra di corsa, chiudendosi dentro a chiave per maggior sicurezza. L’unico conforto che Giordano ebbe, nel momento del panico, fu Nichi che dietro la porta sbarrata consigliava: “Franco, abbaia! Franco, abbaia!”. E Franco, fissando i mici, abbaiava: “Bau! Bau!”. I quali mici, fissando Franco, per niente spaventati e piuttosto perplessi, non mostravano intenzione di voler abbandonare il campo. Se ne uscirono con comodo, a loro piacere e a insindacabile convenienza. Franco corse verso la porta: “Nichi, se ne sono andati!”. Ma Nichi, rivoluzionario però prudente, non si decideva ad aprire. “Restò chiuso a chiave per ore, per paura che qualche gatto passasse di là”, rievoca Giordano.
Ma Nichi è pure coraggioso. Come quella volta, ed è un quarto di secolo fa, che dal palco del congresso della Fgci annunciò pubblicamente: “Compagni, sono omosessuale!”. Stupore prima, ovazione poi, da parte delle giovani avanguardie rivoluzionarie. “E in sala c’è anche il mio fidanzato!”. Ohhh, e nuova ovazione. Nichi scende in trionfo dal palco, e la prima persona che incontra lì sotto è proprio il suo amico Franco Giordano. Corre ad abbracciarlo, lo stringe forte, lo bacia (sulle guance). I fotografi sono scatenati. In mezzo al parapiglia, Franco sorride e si macera nel dubbio: “Oddio, adesso che penseranno, che sono io il fidanzato di Nichi? Mica per pregiudizio, ovviamente, ma la mia storia è un’altra”. Fu comunque infine compiutamente accertato che il compagno Giordano di Vendola era amico, amico intimo, ma certo non fidanzato. Non erano tempi, anche a sinistra, in cui dichiararsi omosessuale. Non erano, i comunisti, meno bacchettoni dei democristiani. Non avevano, molti, forse meno pregiudizi dei fascisti. Ha ricordato Vendola, nel bel libro intervista con Cosimo Rossi, “Nikita”, che “dentro Botteghe Oscure, tolta la palese intolleranza di Giancarlo Pajetta, non ho incrociato che curiosità o grande affetto e grande solidarietà”, ma è pur vero che molto scompiglio sollevò nel partito un’incauta intervista del giovane figiciotto, che segnalava la possibile valenza rivoluzionaria del, diciamolo come si dice, pompino. Alessandro Natta, allora segretario del Pci, quasi rischiò un mancamento. Pietro Folena e il solito Giordano parecchio ci misero a “calmare le acque”, mentre in pieno Comitato politico nazionale Marisa Rodano intimò ai possibili omosessuali vaganti nel suo orizzonte: “Se uno di questi mettesse le mani su uno dei miei nipotini gli darei subito una sberla”. O quella volta a Mosca, quando sempre Folena e Giordano erano pronti a denunciare al mondo che le autorità sovietiche avevano “fermato il compagno Vendola in quanto omosessuale”, e invece Vendola, ricorda qualcuno sorridendo, era forse solo stato preso da momentanea passione “per un compagno olandese della delegazione”. Ma pure, a Nichi piace più dire che è omosessuale piuttosto che gay, “non amo dare un’immagine variopinta, pirotecnica. Dichiararsi non è pettegolezzo, è carne, fatica, sangue, dolore, emarginazione, offese, violenza”. Senza esagerare. Gli chiesero: se dovesse rinascere, rinascerebbe Pasolini? E lui, saggiamente: “No, perché non vorrei morire ammazzato al lido di Ostia”. Ha scritto Francesco Merlo: “Vendola è il primo masaniello delicato e persino un poco effeminato della storia d’Italia… Persino la sua omosessualità è rassicurante perché mai scandalosa né provocatoria, non è un luogo di vizio e di morbosità ma di dolcezze romantiche e di solidarietà leale”.
“L’omosessualità è un pezzo del mio scisma dalle due chiese. E’ stato il mio scisma dalla chiesa comunista e dalla chiesa cattolica. Perché le due chiese hanno avuto in comune il registro della doppia verità… La doppiezza è stata per me un muro di gomma. Un luogo proibito. Per ragioni che non so spiegare e che, forse, hanno bisogno di essere spiegate dal mio psicanalista o dal mio psichiatra. Non so” (Vendola in “Nikita”, intervista a Cosimo Rossi).
E qui entrano in campo le componenti essenziali di quello che possiamo chiamare il Nichinismo, quella strana creatura che ha conquistato il levante, un po’ Nichi e un po’ comunismo, un po’ visione bracciantile e un po’ orecchino, un po’ prete e un po’ gay, un po’ lacrime e un po’ versi alati, la grande famiglia e pure il fidanzato. I più vendoliani, i cultori più entusiasti, dicono che lì in terra di Bari il centrodestra cominciò a perdere e il Nichinismo cominciò ad affermarsi quando il corteo del Gay Pride attraversò i vicoli della città vecchia nel 2001, con Nichi alla testa, e le vecchie popolane lanciavano petali di fiori dalle finestre “come quando passa il Santo”, e invece passavano checche e froci e transessuali, profano tanto e sacro forse niente, pur se nell’epica del Nichinismo quel profano quasi sacro si fa. E figurarsi che Fini aveva invitato i baresi a sbarrare le porte, e qualche anno dopo il cauto e garbato Alfredo Mantovano addirittura gridava nei comizi che le mamme di Puglia dovevano scegliere se volevano un figlio come Fitto o un figlio come Vendola, e forse diceva tra un democristiano e un comunista, e magari pensava tra un figo eterosessuale e un ricchione con l’orecchino. Perché era il senso, l’ovvio, quasi il naturale e certo l’opportuno politicamente. E in fondo, pur se espresso con toni più politicamente corretti, questo rimuginavano dentro di loro alcuni del centrosinistra quando Vendola vinse le primarie. Per poi, come annotò Francesco Merlo su Repubblica, scoprire che “gli apparati del centrosinistra sono molto più indietro delle mamme pugliesi”. Nichi le due chiese, di cui pure lamenta la doppiezza, le ha frequentate entrambe, entrambe amate, e poi entrambe cercate (o ricercate) quando sembravano sfuggire. Quando era ancora bambino da scuola elementare, Pietro Ingrao andò a comiziare a Terlizzi, e lì passò la mano sul capo del giovane Nikita: “Preparati a diventare un buon comunista”. E come una chiesa, così simile alla Chiesa di cui parleremo più avanti, Vendola vedeva e oggi rammenta il Pci. Tutto dall’altra parte si rimanda, e lì si specchiava. Entra per la prima volta a Botteghe Oscure, “persino con più trepidazione della prima volta che ho messo piede a San Pietro”, e “vidi da vicino non una nomenclatura, ma un conclave”. E i riti, i movimenti, la scenografia possono raccontare tanto una cosa quanto l’altra: “Vedevo la solennità dell’incedere di Nilde Iotti, le irritazioni di Luciano Lama, il silenzio pensoso di Paolo Bufalini, l’iracondia ballerina di Alessandro Natta, la riflessività petrosa e scavata di Pietro Ingrao, l’intelligenza scattante di Gerardo Chiaromonte… Un monastero in cui scorreva il sangue, non per una battuta a Porta a porta, scrivendo un libro intero che era la risposta a un altro libro intero; in cui un libro di storia del paesaggio agrario era un momento della durissima lotta politica”. Così era, così doveva restare. “Nel partito sono stato trasgressivo e dissidente, volevo cambiare tutto, ma senza ucciderlo”.
Prima delle Federazione giovanile comunista, Nichi aveva frequentato la parrocchia. Ha raccontato a Cosimo Rossi: “Sono stato nella Chiesa, nell’Azione cattolica, ho fatto il chierichetto. Ma l’associazionismo cattolico era troppo segnato dal machismo sportivo per me. Non mi piaceva quasi nulla: il ping pong, il calcio, il calcetto… Della vita associativa cattolica proprio non mi piaceva lo spirito di competizione che c’era, mi pareva che fosse sempre una gara”. Componente essenziale del Nichinismo è in ogni modo il rito, la cerimonia, certe movenze che all’infinito si ripetono, come certi personaggi dell’immaginario che lo sostiene. “Mi piaceva fare il chierichetto, questo sì. Servire la messa era una cosa che mi dava una discreta soddisfazione. Era quella fase della mia giovane esistenza in cui pensavo di poter ispirare la vita a san Domenico Savio”. Questo san Domenico è morto giovanetto, e la mirabile santità della sua esistenza ispirava Nichi, e magari più lo ispirava la sottile seduzione del suo sguardo. “Forse ero un po’ innamorato, non lo so. Mi piaceva l’immagine di quel giovane santo di cui oggi non ricordo più niente se non quel volto efebico a cui volevo ispirarmi”. Dice persino Nichi: “Sono un estremista religioso, prima che un estremista politico”. Perché poi “c’è un problema di identità culturale: il mio ambiente che è un ambiente cattolico, una culla cattolica. Diciamo che è proprio un indicatore di un alfabeto sociale”.
Se sul telefonino Vendola ha la solita e abusata e noiosa icona del Che, ogni estimatore del Nichinismo sa che il barbuto comandante non serve a niente. E infatti Nichi, nella sua camera di Terlizzi – dove da presidente della Puglia torna la sera a dormire, e a volte mamma Tonia fa trovare i cavatelli con i ceci, con “piccole olive salate, che spezzano il dolce del cece” – c’è il ritratto di Giuseppe Di Vittorio, e infatti era dai tempi di Di Vittorio che qualcuno non parlava più di braccianti, mentre Nichi e il Nichinismo si nutrono emotivamente di ciò che di quel mondo resta, e dei personaggi che quel mondo ha generato. “Il comunismo io l’ho incontrato, e avevo i calzoni corti, tra i braccianti e i vecchi compagni di Terlizzi”. E quindi è tutto un popolarsi del sindacalista Ciccillo, di “Marietta ‘dalle pezze vecchie’ che fu una vera e propria pasionaria e capopopolo, di Fabiola, “che mi dava sempre un goccio di Martini”, e di don Peppino Matteucci, “che era stato garibaldino alla fine dell’Ottocento. Poi era diventato prete. Infine, si era spretato per fuggire con donna Teresa”, e del carrettiere “che si fermava con mio padre e mio zio: erano comunisti, gente semplice”. Quelli che lo conoscono, dicono che Nichi ha la lacrima facile, il ciglio bagnato, il singhiozzo poco trattenuto. “Si commuove davvero – garantisce Peppino Caldarola, deputato diessino di Bari – è uomo di forti commozioni. E insieme una versione abbastanza originale del populismo, con una capacità di dialogo senza precedenti”. Il Nichinismo richiede la memoria di queste facce, di piccoli eventi che ricompongono un mondo. E insieme, lo stesso Nichinismo è luogo dove il culto della famiglia è massimo, dove l’aggrovigliarsi e l’attorcigliarsi di nonni e zii, fratelli e cugini, nipoti e amici pare infinito, quaranta o cinquanta persone che vanno in vacanza, e affittano quattro o cinque appartamenti, “e il rito delle tombolate durava mezzo anno”. E infatti della famiglia Vendola parla quasi più che del comunismo. Persino quando confessò la sua omosessualità – e aveva pure portato qualche fidanzatina a casa, “il mio immaginario era costruito sul maschile, ma la mia curiosità innata mi portava a tuffarmi sul maschile” – persino allora dalla famiglia poteva venire il peggio, “è stata il terminale degli uomori fobici del tessuto comunitario”, ma poi anche il meglio (o qualcosa di meglio): “Ma è stata – come dire? – articolata nel suo sforzo. Il luogo più protettivo resta quello materno, che è quello più predisposto, anche per ragioni sacrificali, alla comprensione. Non fu una storia facile. Fu una storia molto complessa”. E la mamma di Nichi, del Nichinismo vera e propria icona, ora racconta tranquillamente ai giornali: “Noi non abbiamo mai fatto domande, non abbiamo mai pensato nulla. Siamo stati proprio scemi, perché il nostro ragazzo soffriva e aveva bisogno del nostro affetto”. E Nichi racconta che lui la famiglia l’ha sempre vissuta come un romanzo di Marquez o di Isabel Allende, come una grande epopea, “come una storia di storie, di voci. E la parola è sempre stato il tema fondamentale della mia educazione… Mio padre, ad esempio, ci ha sempre impedito di imparare il dialetto. Mio padre e mia madre parlavano in dialetto di nascosto dai figli”. E così, “sulla sfondo della mia infanzia c’è un mondo un po’ deamicisiano: una vita domestica abbastanza giocosa, abbastanza timorosa delle cose di strada, delle villanie”, c’è appunto il babbo comunista fervente e pure fervente religioso della Madonna di Sovereto.
Il Nichinismo ha memoria. Fa storia con le sue piccole memorie. Vendola era un bambino solitario, ha raccontato a Rossi, “soprattutto perché avevo maturato un forte senso di diversità dai miei coetanei per un fatto: non sopporto che torturino le lucertole. Ho un trauma assoluto quando vedo… che dico quando vedo, quando immagino che possano mettere una miccetta in bocca a una lucertola per farla esplodere”. E quella ferocia che spinge Nichi sul balcone, fa la sua tenda da indiano di Terlizzi con gli asciugamani del bagno. Questa faccenda degli animali Vendola racconta che se l’è portata dentro per tutta la vita. A tre anni, una notte lo portarono di corsa a Bari: vedeva tutte le cose intorno che si animavano e prendevano forme di animali. Poi successe di nuovo, tanti anni dopo, mentre attraversava in macchina un bosco: “Improvvisamente i colori intorno a me sono come sfumati, si sono ovattati completamente i rumori, e ho sentito la voce di mio padre di quarant’anni prima che diceva: Nikita, Nikita, Nikita… Stai tranquillo, Nikita, è papà. Le ombre di quelle foglie si sono animate esattamente come quando avevo tre anni: tutto ha cominciato ad animarsi, a prendere forma di animali…”.
Fu deputato per la prima volta nel ’92, l’onorevole Vendola. Il Nichinismo era molto là da venire. E i compagni di Rifondazione ricordano ancora la battuta che fece Lucio Magri: “Dopo la prima grande unificazione, quando gli operai di Torino hanno eletto loro deputato il meridionale Antonio Gramsci, ora siamo alla seconda grande unificazione, con i braccianti meridionali che eleggono loro rappresentante in Parlamento un omosessuale”. Ora, tanti anni dopo, il diessino Caldarola, che pure sulla sua candidatura non pochi dubbi aveva, scrive: “Magia di un nome. Se dici ‘Nichi’ in Puglia, tutti sanno di chi parli. La magia di un nome o di un soprannome fa storia a sé. Nessuno avrebbe scommesso una lira su Doroteo Arango Arambula se non avesse deciso di chiamarsi Pancho Villa”. E nientemeno il Secolo d’Italia, recensendo un suo libro di poesie, gli attribuisce “il leopardiano pensiero poetante”. Ma Caldarola ha ragione: il nome è (quasi) tutto. Senza nome non avremmo oggi il Nichinismo che sale dalla Puglia. E senza Nichi, forse Fitto ce l’avrebbe fatta (e sarebbe ancora il figliolo ideale per le mamme pugliesi).
Componente essenziale del Nichinismo è la religiosità. Non i passaggi in chiesa e la pratica da chierichetto. C’è che come niente, Nichi prende a parlare della croce, di Dio, della fede. Persino al congresso del partito, per quasi un’ora e mezzo, “ho potuto parlare del Dio che danza la vita e che è il Dio dei miei pensieri notturni”. E’ un altro confine che il Nichinismo ha spostato in avanti, questo della religione. Non che altri politici (di questi tempi, poi) mostrino un certo ritegno ad affrontare l’argomento, ma è una questione di accenti e di aggettivi che rendono il discorso di Vendola, del comunista Vendola, dell’omosessuale Vendola, diverso. Un fervore a volte predicatorio, intenso spesso. Gli amici dicono che è la sua anima di poeta, i dubbiosi che pure ci sono nella sinistra che lo circonda, preferiscono non approfondire. Fino a poco tempo fa, ancora sognava di studiare teologia, adesso ha preso a tuffarsi persino nelle pagine di don Giussani. Ha esagerato (ma senza ammettere di aver esagerato): “La miglior lettura per un comunista è la Bibbia”. Raramente riesce a trattenere una citazione dell’Ecclesiaste, “fuggi amore mio come la gazzella sul monte degli aromi”. In un’intervista ha quasi elevato a preghiera: “Il fascino e la follia della croce, cioè la verità del mistero dell’incarnazione, il figlio del Dio vivente, la sua sofferenza, la regalità capovolta, un re con una corona che è fatta di spine, un trono che è un legno incrociato, un trionfo che è un’agonia, una morte: trovo che tutto questo parli all’uomo moderno, che lo turbi, lo provochi”. Forse il Nichinismo avrebbe preso corpo persino senza il comunismo, persino con maschia eterosessualità, persino senza il poetare. Ma non senza don Tonino Bello. Fu del vescovo di Molfetta che Vendola si fece discepolo, che seguì nella Sarajevo sventrata dalla guerra. Lo costrinse a vincere molte sue paure. Sulla sua tomba è andato appena eletto governatore della Puglia. E quando parla di Bello, sempre Nichi si commuove. “Evocava magie celesti. Non so come facesse”. E in uno scritto indirizzato al vescovo scomparso: “In tutta sincerità, non ho ancora fatto pace con la tua morte”.
C’è un prima e un dopo. C’è Nichi Vendola e poi il Nichinismo. Quando guarda fuori dalla finestra del suo ufficio di governatore, sul lungomare Nazario Sauro, a volte ripensa alla casa romana, a Campo de’ Fiori, e un lungo giro che lo ha riportato a Terlizzi, a casa. E il governare non è sempre reso più facile dal poetare, e le durezze della quotidiana amministrazione in due mesi qualche segno hanno lasciato. Qualche antica amicizia che forse si è persa, rotture politiche, tensioni con i partiti. Ambizioni umane, troppo umane. Come gli assessorati. E la polemica sui centri per gli immigrati. E adesso la nomina di un no global alla guida dell’acquedotto pugliese, “mi considero soprattutto un militante dell’acqua”.
Se sopravviverà al sogno che ora deve farsi realtà, ai giorni straordinari in cui pure “lu Santu Lazzaru” si spendeva per Nichi in campagna elettorale, a quando l’orecchino fu da altri messo al lobo in segno di solidarietà (mentre prudentemente Casini mandava in dono un paio di gemelli a forma di falce e martello), e su Internet il nuovo governatore diventava “Niki Trek, The First Generation”, ecco, allora si vedrà se il Nichinismo ha un futuro. Ha preso la comunione da Ruini, ha salutato il Papa, “uno dei teologi più acuti, più raffinati e dal pensiero più potente”, poi del Papa si è lamentato per la sua posizione sulle unioni gay, “parole che ricordavano i canonisti seicenteschi ‘turpe at iniqua luxuria’. Che peccato”. Ma tutto questo, in fondo, poco importa. Mantenere il sogno, questo è il difficile. Se sarà solo governatorato quotidiano, vita breve avrà il Nichinismo.
Dicono quelli che lo incontrano a Bari, che a volte Nichi dà l’impressione di voler essere come altrove. Dicono che è un po’ affaticato: per la prima volta forse costretto a non valicare “un limite di imponderabile anarchia nei miei sentimenti e nel mio modo di relazionarmi”. Il Nichinismo, ovviamente, non può fare a meno di Nichi. E i nichinisti sono ancora su un terreno indefinito. Tutto può essere sorpresa, come quando con Giordano andò a salutare dei partigiani, e mentre stringevano la mano a un anziano, questa rimase nelle loro, di mani. “Restituiscila!”, urlava Nichi a Franco fissando l’arto artificiale. Ma mica l’imbarazzo si supera così facilmente. Ogni sorpresa è possibile, quindi. Come questa. Dice Caldarola: “Forse non gli fa piacere se lo dico, ma Nichi piace moltissimo alle donne pugliesi. Se lo mangiano con gli occhi. E poi mormorano: peccato…”.

Repubblica 29.7.08
Stress. La parola inglese più usata in Giappone
di Renata Pisu


Tra i termini stranieri è il più conosciuto dalla gente, lo utilizza abitualmente il 98,5% della popolazione Così, tra superlavoro e alto tasso di suicidi, un sondaggio rivela la vera anima della moderna società nipponica
L´obiettivo era sondare lo stato di salute della lingua Il risultato sta dando da riflettere

L´Agenzia per gli Affari culturale di Tokyo ha appena concluso un sondaggio per conoscere quale fosse la parola straniera più conosciuta in Giappone, e ha scoperto che è "stress". La conosce e la usa abitualmente il 98,5 per cento della popolazione.
Stupore e meraviglia dei ricercatori che erano partiti con l´intenzione di sondare lo stato di salute della lingua giapponese e che sono invece saltati subito alla conclusione della catastrofe sociale in quanto, secondo loro, l´elevata percentuale di persone che conoscono il significato di questo termine «è il riflesso dello stato in cui versa la società nipponica, in cui sempre più individui si sentono stressati». Ma non è una novità, hanno subito puntualizzato decine e decine di commentatori sociali, categoria di intellettuali tipica del Giappone che sulla stampa e in popolarissime rubriche televisive si dedica a sviscerare il tema che più appassiona il pubblico giapponese e cioè: «Chi siamo? Perché siamo diversi dagli altri? Cosa ha di speciale l´individuo nipponico?». E giù teorie, giù risposte, paragoni, apprezzamenti positivi sulla «Nostra Unicità» e, di tanto intanto, critiche più o meno larvate per un sistema che, secondo molti di questi esperti, sta ormai facendo acqua.
Infatti, quando quattro anni fa si scoprì che i circa trentamila suicidi all´anno tra i maschi adulti in età lavorativa (furono 31mila nel 2001) incidevano negativamente sul Pil, il Prodotto Interno Lordo, si svolsero inchieste e sondaggi per tentare di correre ai ripari e individuare quali potessero essere le cause che spingono una persona a dire "Non ce la faccio più". Ebbene, si giunse alla conclusione che la causa principale era, come sempre, lo stress, che in giapponese si pronuncia "suturesu".
Come decine e decine di parole anglosassoni ormai di uso quotidiano in giapponese, vengono pronunciate aggiungendo suoni vocalici all´alluvione di consonanti dell´inglese: "building", per esempio, diventa "biro"; "department" diventa "depato", "bread" è "bredu" e così via, al punto che si potrebbe sostenere una semplice conversazione in giappinglese senza conoscere il giapponese.
Ma questo non desta nessuna preoccupazione, i giapponesi non sono fanatici della purezza linguistica, il tasto che invece duole è sempre quello dello stress: stress da eccessivo lavoro fino a qualche anno fa, stress per la mancanza di lavoro e l´aumento della disoccupazione oggi. Ma il mito dell´efficienza condiziona persino chi non ha niente da fare, come i pre-pensionati e i precari, i quali non vogliono che la loro condizione sia nota. Così continuano a correre, a darsi da fare. Per finta, per apparire. Di recente un sociologo ha osservato: «In un posto folle come Tokyo, anche i barboni che dormono dentro gli scatoloni di cartone nei sottopassaggi della metropolitana sono stressati dal flusso incessante di passeggeri che si affrettano. Ma perché noi giapponesi corriamo sempre? Perché non ci concediamo ma il ritmo lento di una passeggiata?». Già, perché? C´è chi sostiene che il "male oscuro" che i giapponesi efficientisti fino al midollo insistono a chiamare "stress" in realtà sia una semplice-si fa per dire - depressione. Tipica delle società industriali ormai stramature.

Repubblica 29.7.08
Dai fondali del Mediterraneo il più grande bastimento greco
Il relitto era stato individuato da due sub nel 1988. Ora verrà restaurato in Gran Bretagna
Nell'insediamento archeologico di Bosco Littorio nascerà un museo della navigazione
di Luigi Bignami


È in buono stato di conservazione lo scafo di 2.550 anni fa recuperato ieri al largo di Gela, in Sicilia Si tratta di un esemplare raro, realizzato con una tecnica arcaica: i legni sono legati con corde vegetali

Gela. Era adagiata da 2.550 anni sui fondali argillosi di fronte a Gela. Oggi, grazie a una delicata operazione di recupero, è tornata alla luce in tutta la sua imponenza per raccontarci pagine di una storia antichissima. Si tratta di un´imbarcazione greca (tra le più grandi recuperate nel Mediterraneo) carica di mercanzie che circa 500 anni prima di Cristo era in procinto di approdare a Gela, un passaggio obbligato per tutto il commercio navale del Mediterraneo di allora, ma affondò a soli 800 metri dalla costa. Una tempesta la travolse e la affondò velocemente.
È rimasta lì per 25 secoli, poi nel 1988 due appassionati di subacquea, Gino Morteo e Gianni Occhipinti, la scoprirono e la segnalarono alla soprintendenza. Anni di lavoro in mare, con diverse operazioni di recupero, hanno finalmente permesso di portare in superficie la parte più imponente della barca, composta dalla ruota di poppa e dalla chiglia. Queste parti, nell´insieme lunghe 11 metri, con quelle già recuperate fanno immaginare che l´imbarcazione fosse lunga ventuno metri e larga otto. Era una nave da trasporto a propulsione mista, remi e vela. Insieme alla nave sono stati recuperati numerosi reperti archeologici, come vasi di provenienza ateniese e due rarissimi askoi con dipinti rossi. «Sulla base dei rinvenimenti ceramici - spiega la soprintendente ai beni culturali e ambientali di Caltanissetta, Rosalba Panvini - si potrebbe tentare di ricostruire alcune tappe del viaggio della nave, che dovette fare scalo nel porto di Atene e poi in uno del Peloponneso. Da lì, deve aver attraversato il Canale d´Otranto e puntato verso la Sicilia per approdare a Gela, dove non arrivò mai».
L´imbarcazione giaceva su un fondale di cinque metri di profondità ed è stata recuperata con l´impiego del pontone "Vincenzo Casentino" dell´Eni sul quale era stata posizionata una gru da 200 tonnellate. È stata la gru a sollevare dal mare una grande cesta metallica contenente il reperto, trasportato al porto di Gela e da qui all´emporio greco-arcaico di Bosco Littorio, dove il relitto è stato immerso in una grande vasca con acqua dolce per essere desalinizzato. Presto l´imbarcazione verrà trasportata e restaurata nel laboratorio Mary Rose Archaeological Services, nell´Hampshire inglese. Lì si trovano anche gli altri pezzi lignei recuperati nel 2003, nell´attesa di tornare a Gela dove si sta lavorando al progetto per creare il Museo della navigazione a Bosco Littorio. «Il lavoro, al di là dell´aspetto spettacolare, è di grande importanza dal punto di vista scientifico, mai una nave di 2.500 anni era stata ripescata in così buono stato», afferma Panvini. «Si tratta di un´operazione eccezionale - commenta Antonello Antinoro, assessore regionale ai Beni culturali - che deve spronarci a continuare. Presto recupereremo un´altra nave del genere che abbiamo da poco individuato».
L´imbarcazione appena riportata in superficie era del tipo "cucita", un metodo di costruzione molto antico. Era un´imbarcazione a scafo portante, costruita unendo tavole di fasciame con corde fatte passare attraverso fori e bloccate con spinotti di legno. Nell´area mediterranea gli esempi di "navi cucite" sono rari anche se diluiti nel tempo, con testimonianze che arrivano fino all´età medievale. Tra i più noti vi sono lo scafo della stessa epoca della nave di Gela, forse di origine etrusca, localizzato vicino all´isola del Giglio, in Toscana, e la nave greca del Bon Porté, sulla costa meridionale della Francia, assegnabile alla seconda metà del VI secolo avanti Cristo.

Repubblica 29.7.08
Werther e Bovary
Le ideologie dell'amore
di Antonio Gnoli


Dalle creature di Goethe e Flaubert sono nati due "ismi" tanto forti quanto estremi e paradossali
Nel suicidio Emma pone fine all´idea che si possa impunemente desiderare
Il wertherismo nelle sue pose romantiche divenne una moda un atteggiamento

Ma poi sarà vero che l´amore è quella passione un po´ folle e dissipativa che ci mette fuori dalle regole e crea una condizione speciale alla quale neppure il più incallito tra i cinici è disposto a rinunciare? L´argomento verrà affrontato durante il festival di Cervia dedicato al tema "Con il cuore e con la mente" che aprirà oggi e andrà avanti fino a domenica. Provate a sfogliare quei due romanzi che hanno fatto dell´amore il più estremo dei sentimenti. Più della paura. Più dell´odio. Più dell´arroganza. Ne I dolori del giovane Werther e in Madame Bovary - settant´anni circa separano i due capolavori - Goethe e Flaubert ci offrono una visione paradossale dell´amore. Creano involontariamente due modelli unici, e assistono, quasi sgomenti, alla loro attuazione. Starei per dire alla loro banalizzazione. Werther e Bovary diventano due "ismi" che poco hanno a che spartire con la politica e molto con la psicologia delle masse. Ecco. Se c´è una possibile incubazione della mentalità collettiva questa deve molto a Goethe e Flaubert.
La forza degli "ismi" , in genere, è nell´ideologia che li pervade, nel caso di wertherismo e bovarismo è nella loro impoliticità ante litteram: essi sovvertono un ordine senza tuttavia cambiarlo realmente. Fanno costume, tendenza, moda, ma non ethos. La loro forza non è tanto nei sentimenti che evocano ma nella persuasione retorica che trasforma il gesto in calco e imitazione. Quanti Werther ha messo al mondo Goethe? Il romanzo fu scritto in pochi mesi nel 1774. Quelle pagine volevano soddisfare una domanda che in fondo era già nell´aria: si può amare una donna, promessa a un altro, sapendo che la parola data, l´onore, la tradizione la condurranno fatalmente al matrimonio? È ciò che accadrà a Werther che si rifugia in una piccola cittadina di provincia e qui conosce Lotte, una giovane della quale si innamora perdutamente. La ragazza è promessa ad Albert, un ottuso e placido funzionario che finirà per sposare. Dunque l´amore anticonformista che Werther nutre per Lotte è destinato a infrangersi contro le leggi e la morale. È una sconfitta che spingerà il nostro eroe al suicidio.
Quel gesto mise in moto un´immensa retorica che dalle pagine goethiane dilagò nella vita. Il wertherismo, nelle sue pose romantiche, divenne un atteggiamento, un gesto, una moda. Il frack azzurrino, i pantaloni e il panciotto gialli che Werther indossa al cospetto della donna amata, diventano una sorta di uniforme del cuore. Quell´abito sgargiante e tenue a un tempo, non privo di bizzarria cromatica, si impose tra le giovani generazioni. Non solo in Germania, ma in tutta Europa, si creò improvvisamente un piccolo esercito del cuore: tamburini che svegliavano le passioni marciando al ritmo del sospiro, dell´esaltazione, della tragedia.
E quante Emme Bovary hanno invaso il campo dell´amore dopo il capolavoro flaubertiano? Lo scrittore non poteva immaginare che tra le pieghe di quel sublime feuilleton - apparso a puntate sulla Revue de Paris nel 1856 - si nascondesse un´eroina in grado di dettare uno stile e una psicologia. Ma quando all´incirca un secolo fa Jules de Gaultier coniò il termine bovarismo, immaginando con ciò stesso di illuminare una parte almeno dell´animo umano, sia maschile che femminile, il dado era tratto. La povera Emma resuscitava per reincarnarsi nelle palpitanti donne che offrivano il loro corpo alla trasgressione.
De Gaultier prese Bovary e ne fece un sostantivo universale. Ai suoi occhi bovarismo era una caduta dell´immaginario nelle rudezze del reale. Lo definì come «la facoltà concessa al soggetto di concepirsi diverso da ciò che è». Ma in quella proiezione desiderante vide soprattutto un disturbo della personalità, una caduta esistenziale, il fallimento che si nasconde dietro ogni segreta e abominevole ambizione.
A differenza di Werther, Emma è una donna ambiziosa. L´amore più che offrirlo, sembra pretenderlo. Emma Rouault si ciba di letture avventurose, di romanzi amorosi e sublimi, che ricordano vagamente l´atteggiamento di don Chisciotte davanti ai codici cavallereschi. Emma è una sognatrice che va in sposa a un medico la cui professione non rende meno scialba la sua intelligenza. Charles Bovary è bonario e ottuso, accomodante e innocuo. Per quanto la professione di medico lo sollevi al di sopra di gran parte di coloro che cura egli non ambisce alla differenza. Rappresenta una sorta di grado zero della scala sociale, senza il quale non potrebbe costituirsi il percorso di Emma. E´ solo perché Charles non ha inconscio che Emma può scatenare il proprio flusso onirico. È attratta dal bel mondo, dalla conversazione brillante e da quelle figure, che mutuate dalle sue letture, rappresentano modelli d´amore.
Dal punto di vista di Charles, Emma appare una donna realizzata. Ha una figlia, Berthe (che non ama particolarmente), vive un discreto benessere sociale e gode di un certo credito nel paesino di Yonville, i cui abitanti la considerano attraente, fortunata, colta, compassionevole. Sfugge ai più il motivo che la tormenta: la noia. È un sentimento sul quale crescono ambizione e sensualità. Due bellimbusti le attraversano la strada. Sono Rodolphe e Léon, con i quali, in tempi diversi, Emma stringe duetti d´amore. L´autentico che con slancio quasi mistico cerca in loro, si scontra con l´inautenticità che la clandestinità di un gesto, di un pensiero di una scelta impone. Emma è pur sempre un adultera esposta al fuoco del pettegolezzo. Come è diversa da Lotte che Goethe avvolge nell´ambiguità. Essa è a un tempo ordinatamente rassegnata al ruolo di moglie e oscuramente incline all´altro. Lotte è solo un´Emma non ancora dispiegata, non ancora cosciente della propria potenza dissipativa. A leggerne i furtivi comportamenti si intuisce che è l´accessorio che Werther pone al centro della scena per meglio esaltare se stesso. È un narcisismo mascherato da disperazione quello che prorompe dal cuore di Werther. Si direbbe che il suo slancio cerchi come punto di approdo non la semplice conquista di Lotte, ma uno spazio ultimo e definitivo che solo la morte può predisporre.
Il gesto temerario e insensato del suicidio riveste un significato strategico: si muore non già per protesta o per sconforto, ma per allontanarsi dal disordine del mondo. Quel luogo insopportabile, improvvisamente si spoglia dei caratteri caotici e aggressivi. Viene meno il soggetto perturbante. Un ordine, per quanto infelice, è ristabilito. Come lo si realizza? Werther intuisce che la posta in gioco non è la vita, ma ciò che la vita mette in moto nel momento in cui la si sacrifica. La decisione di suicidarsi non è presa nel segreto del cuore. Destina un´ultima lettera nella quale spiega a Lotte gli effetti di quel gesto. Si immola nel nome di un amore impossibile e nel farlo pone le premesse per legare a sé in modo definitivo quell´apparente oggetto del desiderio che la morte renderà invisibile.
Lo slancio febbrile, la sofferenza acuta, la solitudine profonda, il corteo di passioni romantiche che lo guidano verso la fine cercata non lo conducono dunque a un semplice nulla nel quale lasciarsi inghiottire, ma a un luogo - un Aldilà - dove potersi rincontrare con Lotte. Quell´Aldilà non richiama alcuna tentazione teologica, è il fantasma che un narcisista di talento proietta fuori di sé. È come se Werther dicesse a Lotte: c´è un piano (quello del luogo comune) sul quale non ci incontreremo mai; ce ne è un altro dove il cuore è sovrano, lì «noi saremo! Noi ci rivedremo». Con ogni evidenza si tratta di un differimento. Per trionfare in futuro Werther deve perdere nell´immediato. Affinché insomma la macchina retorica del wertherismo dia i frutti sperati, occorre che il protagonista (e prototipo) si congiunga con il dato drammatico, si sacrifichi realmente. Le pistole che con una scusa chiede in prestito ad Albert e con le quali si suicida (armi toccate da Lotte e dunque feticizzate e purificate) sono lo strumento per far coincidere Assoluto e Amore.
Anche Emma, è noto, ricorrerà al suicidio. Gesto preceduto dalla rovina: la reputazione che scema, i debiti che la travolgono, gli amori che fuggono. È un crescendo di emotività che mette a dura prova i suoi già fragili nervi. Ma davvero essa soffre di questa condizione che l´abbassa e l´umilia? A cosa le servirebbe un´onorabilità senza prospettive, un riconoscimento senza identità? Nella quiete di Yonville, Emma si vive come una figura opaca, intristita dalle attenzioni di Charles. Il medico è un uomo senza desideri, interamente appagato nella placida convergenza di cecità e candore. Egli ama, è vero, ma come si amerebbe una reliquia. La devozione per Emma ha qualcosa di superstizioso. Tanto Charles è l´uomo giusto nel posto sbagliato, quanto Rodolphe e Léon sono gli uomini sbagliati nel posto giusto. Ma che importa? Solo nella compromissione, nel dilatare della vergogna Emma ritrova l´ardore del rischio, la felicità di un gesto che insieme la spinge alla rovina e al trionfo. Ma gli amanti non parlano lo stesso linguaggio dell´eroina flaubertiana: sono pavidi, deboli, ipocriti, narcisisti. Sono infinitamente meno interessanti di Charles. Ma Emma li ha scelti per la loro immensa distanza da Charles. Li ha scelti perché un amore non ha mai nulla da donare veramente. Un amore, Emma ne è oscuramente consapevole, minaccia le regole stesse del desiderio.
La sola legge alla quale il desiderio può rispondere è il desiderio stesso. Se Emma si desse dei limiti finirebbe col negare ciò che la tiene in vita e che la spinge a rompere con Yonville. Lo spazio dell´amore nel quale si trova a suo agio non è anche lo spazio dell´altro. Quello di Rodolphe, di Léon e di Charles, per intenderci. Essi sono veri e propri fraintendimenti amorosi, e per questo corrispondono a una condizione più alta che la Bovary non può dichiarare: nell´amore si è sempre soli. Consegnato a questa segreta condanna lo spazio dell´amore non ha nulla di reale, è solo una metafora di tutto quanto Emma ha già vissuto attraverso i libri.
Per la nevrotica Madame Bovary - afflitta dalla noia e dal pianto, dal furore e dalla malinconia, la morte è un territorio che più che l´espiazione rappresenta l´estremo rilancio di ciò che essa è stata: la fragile e perdente scommessa che l´amore trionfi sulle convenzioni. Nel suicidarsi Emma pone fine all´idea che un soggetto possa impunemente desiderare. La lenta dissolvenza - tra i dolori causati dall´arsenico che si procura in casa del farmacista Homais - non restaura un ordine che in realtà non è mai stato minacciato né infranto. Colloca semplicemente questa eroina del nulla nel punto più esterno della storia, il solo a partire dal quale il racconto diviene possibile.

Repubblica 29.7.08
Villaggio blog. Le nuove forme del dialogo
Una camera con vista sul mondo
di Marino Niola


È molto più che un sistema di comunicazione Rivela nuovi spazi collettivi in una società che li ha ridotti
Un po´ circolo, un po´ palcoscenico, un po´ piazza, un po´ sezione di partito
Non dà vita a una comunità senza luogo. È l´idea di luogo che ne esce trasformata

«Dovessi spiegarti che cos´è il mio blog ti direi che è un luogo, riscaldato d´inverno ed areato d´estate, con un indirizzo e una buca delle lettere, finestre per guardarci dentro se passi nei pressi ed una porta aperta per entrare se ti andrà. L´insieme dei blog che leggiamo e di quelli che ci leggono è un villaggio particolarmente salubre fatto di abitanti che si siano scelti fra loro e non paracadutati lì dal caso». Parola di blogger.
È evidente che il blog è molto più di un sistema di comunicazione. È un angolo di mondo, avrebbe detto Herder. O una forma di vita, per dirla con Wittgenstein. In entrambi i casi uno spazio di condivisione simbolica caratterizzato dai suoi usi, costumi, sensibilità, abitudini, codici sedimentati - ma prima ancora creati - e da un linguaggio comune. I blog sono a tutti gli effetti le nuove forme di vita prodotte dalla rete, degli autentici angoli di mondo virtuale.
Certo che il blog è un luogo di confronto e di scambio di idee, informazioni, pareri, servizi, ma è anche di più, molto di più. Questa forma di diario in rete - il termine è la contrazione di web e di log che significa appunto diario ma anche traccia - sta dando vita a una nuova cartografia sociale. Fatta di punti di aggregazione fondati sulla circolazione delle opinioni. Qualcuno li considera un po´ come la versione immateriale dello Speaker´s Corner, letteralmente angolo dell´oratore, di Hyde Park a Londra, dove chiunque può montare su una cassetta di legno a mo´ di palco e predicare sul mondo in assoluta libertà. Occupando un angolo di spazio pubblico per dire la sua. Quella minuscola cassetta garantisce una sorta di extraterritorialità che consente a ciascuno di dire fino in fondo tutto ciò che pensa. A ben vedere il blog è proprio una occupazione di immaginario pubblico, una sorta di tribuna virtuale. E contribuisce a rivelare la forma dei nuovi spazi collettivi di una società che ha profondamente mutato le sue categorie spaziali e sta passando dalle divisioni alle condivisioni, dai luoghi tradizionali - territori fisici delimitati, confinati, sul modello delle nazioni - agli iperluoghi immateriali che ridisegnano le mappe del presente.
Nuovo luogo della condivisione pubblica in un tempo caratterizzato dalla scomparsa progressiva dello spazio pubblico tradizionale: un po´ circolo, un po´ palcoscenico, un po´ salotto, un po´ sezione di partito, un po´ piazza, un po´ caffè. I diari in rete rappresentano modi diversi di sentirsi comunità. Non più comunità locali, e localistiche, basate sulla prossimità geografica, residenziale, cittadina, ma su forme inedite di appartenenza.
Ecco perché il blog non è solo uno strumento del comunicare, ma è una potente metafora del nostro presente in rapida trasformazione e un simbolo anticipatore del nostro futuro. A farne un mito d´oggi è proprio la sua capacità di dirci qualcosa di profondo su noi stessi, di mostrarci con estrema lungimiranza ciò che stiamo per diventare anche se ancora non lo sappiamo con precisione. Nei grandi cambiamenti epocali il mito, la metafora, il simbolo si assumono proprio il compito di lanciare dei ponti verso quelle sponde del reale che ancora non vediamo ma, appunto, intravediamo. Anche se abbiamo già cominciato a viverci dentro istintivamente. In questo senso i comportamenti del popolo dei blog ci aiutano a cogliere quanto stiano di fatto mutando le stesse categorie di identità e di appartenenza: sempre meno materiali, sostanziali, fisse e sempre più fluttuanti, mobili, convenzionali. E come sia cambiata la stessa nozione di luogo di cui viene oggi revocato in questione il fondamento primo, ovvero l´idea di confine naturale, in favore di quella di confine digitale. Il blog anticipa una realtà che non è più quella del paese, della città, del quartiere, della classe d´età, della famiglia, della parrocchia, del circolo. I bloggers si rappresentano come una comunità di persone che si scelgono liberamente e su scala planetaria. E in questa dimensione extraterritoriale intessono un nuovo legame sociale.
Comunità senza luogo? Niente affatto. È la vecchia nozione di luogo ad essere inadeguata. E assieme a lei quella apparentemente nuova di non-luogo che della prima non è che la figlia degenere. Perché è fondata su una idea pesante, solida, ottocentesca del luogo e della persona. Un´idea che ha l´immobile solidità del ferro e non la mutevole fluidità dei cristalli liquidi. In realtà a costituire il tessuto spaziale, ieri come oggi, sono sempre le relazioni, mai semplicemente le persone fisiche. E oggi le relazioni sono sempre meno incarnate, sempre meno materializzate, ma non per questo scompaiono.
La liquidità della rete è la vera materia sottile della trama sociale contemporanea, e perfino di quella spaziale se è vero che oggi l´iperconnessione è il principio vitale che circola come sangue nel corpo del villaggio globale. I cosiddetti non-luoghi sono in realtà più-che-luoghi, super-luoghi, sono luoghi all´ennesima potenza, acceleratori di contatti, incroci ad alta densità, moltiplicatori di collegamenti tra bande larghe di umanità. È questa la cartografia wi-fi della nuova territorialità, la cosmografia del presente di cui Internet è il dio e Google è il primo motore immobile. Una rivoluzione recente ma che sta già cambiando il vocabolario dell´essere: dal to be al to google e, sopratutto, al to blog.
Non a caso bloggare è diventato un verbo. Il terzo ausiliare per chi è in cerca di casa, di lavoro, di visibilità, di posizione insomma. È la terra promessa degli homeless digitali, la nuova frontiera dei migranti interinali in cerca di hot spots, di porte wireless, di ambienti interconnessi. Un nuovo paesaggio fatto di camere con vista sul web. Proprio così una blogger definisce il suo miniappartamento virtuale. O un villaggio di villette monofamiliari dove si lascia sempre aperta la porta di casa perché chi ne ha voglia possa entrare a prendere un caffè. Altro che fine del legame sociale. La blogosfera è la traduzione della mitologia comunitaria nella lingua del web, la declinazione immateriale della società faccia a faccia: la nostalgia del paese a misura d´uomo in un download.
Frequentare i blog serve, fra l´altro, a smontare molti dei luoghi comuni sugli effetti nefasti della digitalizzazione della realtà e sull´apocalisse culturale che essa comporterebbe. Fine della lettura, tramonto dell´italiano, declino dello spirito collettivo. In realtà questo sguardo luttuoso sul cambiamento lamenta sempre la scomparsa delle vecchie forme e proprio per questo fa fatica a riconoscere l´intelligenza del presente.
A parte quelli specializzati, espressamente attrezzati a luoghi di cultura, palestre di discussione critica, gabinetti di lettura, atelier di scrittura, i blog sono in generale delle officine stilistiche e retoriche in continua attività, dove la capacità di persuasione e l´estetizzazione della comunicazione hanno spesso un ruolo fondamentale. «Qui sul blog è tutta un´altra cosa. Scrivo in modo molto diverso da come scriverei su un diario. Le persone che mi conoscono commentano e dicono la loro, e i pensieri pubblicati sono molto più profondi». Per quanto diversi fra loro, i blogger nascono dal linguaggio e vivono di linguaggio. Un regime democratico, dove ciascuno è opinionista nel libero mercato delle opinioni, senza gerarchie di posizione, senza ruoli, senza il peso dell´autorità. Dove ognuno è quel che scrive, dove tutti hanno pari facoltà d´interlocuzione. È la nuova utopia della libertà e dell´eguaglianza. Compensazione simbolica al malessere attuale della democrazia in carne e ossa.