venerdì 1 agosto 2008

l’Unità 1.8.08
Europee. Oggi la bozza Calderoli al Consiglio dei ministri


È un testo di mediazione quello che arriverà oggi in Consiglio dei Ministri. Roberto Calderoli e Umberto Bossi hanno lavorato di lima, tenuto conto delle posizioni dei piccoli e delle opposizioni, e alla fine hanno preparato una bozza di riforma elettorale per lo scrutinio europeo che dovrebbe trovare un’accoglienza favorevole. Almeno per quanto riguarda la questione dello sbarramento, previsto al 4%. Perché invece su liste bloccate e preferenze, le posizioni sono ancora lontane. Soprattutto con Berlusconi che non ha mai nascosto la propria avversione per la scelta del candidato e la propensione, invece, per il porcellum.
Quello di oggi si preannuncia comunque come una discussione preliminare, visto che poi l’eventuale disegno di legge dovrebbe essere lasciato al dibattimento in Aula per trovare larghe intese e, soprattutto, per non irrigidire le differenze interne alla maggioranza.
La bozza Calderoli prevede la soglia al 4%, l’aumento fino a dieci delle circoscrizioni, il tetto a tre liste per le candidature multiple e una preferenza. Se lo sbarramento dovrebbe avere largo consenso, visto che si tratta di una mediazione tra il 5% proposto dal Pdl e il 3% del Pd, per la preferenza si preannuncia una maggioranza trasversale. Contro le liste bloccate sul modello della legge elettorale italiana si sono già pronunciati il Pd, l’Udc e buona parte di An.
Ma mentre sullo sbarramento alza la voce il piccolo Movimento delle autonomie che mette in guardia il premier, la vera grana riguarda la questione di genere. Il Pd, infatti, aveva presentato un proprio progetto di legge che prevedeva la doppia preferenza con l’obbligo di alternanza, un uomo una donna. «Cosa intende fare la ministra Mara Carfagna - ha chiesto la ministra ombra Vittoria Franco - per garantire la rappresentanza di genere?».

l’Unità 1.8.08
Il presidente romeno Basescu smentisce Berlusconi in diretta tv
«Non approviamo le misure sulla sicurezza»
di Maristella Iervasi


Bambini vestiti a festa ed emozionatissimi più degli adulti. Ma nell’unico tavolone all’ombra, neppure uno striscione di benvenuto. Neppure un caffè. Solo decine di bottigliette d’acqua congelata. È stato accolto così dai suoi concittadini, il presidente romeno Silvio Traian Basescu. La comunità romena e rom del campo di via Candoni, alla periferia ovest di Roma nel quartiere Magliana Vecchia (460 persone, la metà minori, che convivono insieme ad altri 200 bosniaci), era già pronta fin dalla sera prima. «È una giornata speciale, arriva per la prima volta nel campo il nostro presidente: lui sa cosa deve fare per noi - dicono in coro Michele, Ottaviano e Alessandro dai loro container -. Lui sa cosa chiedere a Berlusconi e Maroni. Lui sa che l’Italia ci discrimina. Lui sa che vogliono le impronte dei nostri bambini... Noi abbiamo fiducia in Basescu e lo ascolteremo, poi semmai faremo le nostre domande». E così è. Con i giornalisti e cineoperatori «in prigione» sotto lo stretto controllo dell’Interpol rumena, comincia la visita. Mentre il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, arriva sul filo del cerimoniale di Basescu evitando la figuraccia istituzionale.
Papi, 5 anni, ripete a squarciagola «Basescu, Basescu»: non parla l’italiano però lo comprende. Patrizia, di un anno più grande, ripete a mo’ di canzoncina quello che vorrebbe dire al presidente: «Vedi lassù quegli alberi anneriti? Hanno dato fuoco gli italiani», ma si emoziona e tace. Parla per tutti Bambalau, il coordinatore del campo di via Candoni: «Sappiamo presidente, che vuole collaborare con il governo italiano. Sui comportamenti della gente italiana non mi esprimo perchè mi vergogno - sottolinea -. Noi vogliamo l’integrazione e chiediamo lavoro. Se guadagnassimo tutti e bene potremmo anche tornare in Romania».
Basescu stringe mani e fa un breve sopralluogo nel campo. Tutto è ordinato e pulito. Entra nel container dove abita Cassandra, 11 anni, che ha messo in bella mostra un orsetto, un coniglio e qualche bambola. Poi ritorna al centro del campo e comincia il suo discorso: «So che avete qualche problema - dice ai suoi concittadini - e sono qui per dirvi che non vi abbandoneremo. Quel che vedo in questo campo mi incoraggia, la collaborazione con le autorità italiane può continuare. Quello che non siamo riusciti a risolvere a casa - ammette -, l’integrazione della minoranza Rom in Romania, sarà risolto insieme con Roma. Dobbiamo trovare le soluzioni per i posti di lavoro, il soggiorno. I bambini devono andare a scuola. Tutti. Capiamo gran parte delle misure sulla sicurezza prese dal governo italiano, ma non possiamo essere d’accordo a un trattamento che è al di là delle norme Ue. Voi siete comunitari, siete cittadini europei. Dovete comportarvi come tali e la scolarizzazione è essenziale: l’etnia rom non ha opportunità se non manda i figli a scuola». E sul rispetto delle leggi, avverte: «La Romania non farà scudo per quelli che trasgrediscono, non li proteggerà».
Nessun riferimento, dunque, alla pesante presa di posizione del Consiglio d’Europa sui nomadi, nessun accenno al «caso» impronte e discriminazioni. Poi un pranzo di lavoro con Silvio Berlusconi e una conferenza stampa. Risultato: Basescu fa in un primo momento il cerchiobottista e Berlusconi sfodera la strategia del sorriso e si vanta di chiamarsi Silvio, proprio come il presidente romeno. «Cittadini rumeni discriminati in Italia? Sono preoccupazioni irreali create da certi ambienti e che non ci appartengono», dice Basescu all’inizio. «Dal governo italiano semplici misure di sicurezza per proteggere i suoi cittadini ma non sono norme contro i cittadini romeni». Poi, più avanti, colpo di scena, smentisce in diretta tv Berlusconi e ribadisce l’opposto: «Il governo romeno non approva, ripeto non approva, parte o gran parte delle misure sulla sicurezza». E sulla schedatura dei bimbi rom, il capo di Stato romeno pronuncia frasi che vogliono suonare come un altolà: «Le impronte ai bambini - precisa il premier romeno - saranno prese con l’autorizzazione dei genitori, del tutore legale o alla presenza di un giudice nei casi in cui non esista un documento di identità».
Berlusconi fa il padrone di casa e, con imbarazzo, cerca di garantire: «Non c’è nessun trattamento di disparità tra i cittadini italiani e quelli romeni: godono degli stessi diritti europei. Sottoporre i bambini rom all’identificazione con le impronte digitali non è una misura restrittiva, serve per garantire ai bambini di andare a scuola, di andarci veramente». Quanto alle relazioni dell’Europa e alla sonora batosta del Consiglio d’Europa sulle misure per i nomadi, Berlusconi commenta: «Il parlamento europeo ha dato una risposta politica basata su una irrealtà. Una disinformazione assoluta». Prossimo appuntamento il 9 ottobre, con il vertice intergovernativo tra l’Italia e la Romania.

l’Unità 1.8.08
Editoria a rischio: sui giornali di partito si abbatte la scure
Via i contributi diretti: nel mirino ci sono 229 testate. Ma sono state mantenute le agevolazioni per i grandi gruppi
di Luca Sebastiani


Vita (Pd): iniziativa lesiva di un fondamento della democrazia qual è la libertà di informazione

Le cifre
229 SONO LE TESTATE no profit, cooperative e di partito che hanno accesso ai contributi diretti.
12 SONO I QUOTIDIANI organi di partito.
13 TRA QUOTIDIANI E PERIODICI VARI, sono le teste legate a movimenti politici
170 SONO I MILIONI che mancano all’appello già nell’anno in corso
187 SONO i MILIONI che la manovra taglia per gli anni 2009 e 2010

SEMPLIFICAZIONE È con questa tranquillizzante dicitura che il governo ha sentenziato la condanna a morte di una parte del mondo editoriale italiano. E come spesso accade per i provvedimenti concepiti con disinvoltura dal ministro dell’Economia Robin Tremonti Hood, è ovviamente della parte più debole dell’editoria italiana che si parla. Quella cooperativa, politica. Quella cioè che non riuscendo a vivere della raccolta pubblicitaria, vive grazie ai contributi diretti dello Stato in virtù del principio che l’esistenza di una stampa libera, indipendente e pluralistica sia uno dei pilastri della democrazia.
Per essere concreti. Se alla fine la finanziaria estiva del governo verrà approvata con la stessa fretta con cui è stata partorita, giornali come il Manifesto, Liberazione, Europa, L’Unità o Il Salvagente, Il Foglio, Libero, Il Secolo, La Padania avranno di fronte a sè giorni bui. In termini di bilancio e posti di lavoro.
Il tutto è contenuto nell’articolo 44 del decreto legge 122, intitolato «Semplificazione e riordino delle procedure di erogazione ai contributi all’editoria». A leggerlo, di riordini, pur reclamati da più parti, non se ne vede l’ombra. Come di semplificazioni del resto. A meno che per semplificazione non si voglia intendere il colpo di scure ceco e indifferenziato dei contributi diretti, quelli appunto di cui vive l’editoria cooperativa, non profit e di partito, 229 testate in tutto. Quella fetta d’informazione, cioè, la cui raccolta pubblicitaria arriva al 20 per cento dei ricavi quando va molto bene.
Il fabbisogno per il 2008 dell’editoria nel suo complesso è stata stimata intorno ai 589 milioni di euro, 190 per i contributi diretti e 399 per gli indiretti, agevolazioni fiscali, elettriche e satellitari. Quei contributi di cui godono principalmente le grandi testate come il Corriere della Sera, La Repubblica o Il Sole 24 ore. Quei quotidiani, cioè, che spesso hanno nei loro bilanci sostanziose raccolte pubblicitarie. Qualche volta superiori agli incassi delle vendite. La finanziaria del precedente governo aveva già previsto per il comparto uno stanziamento di 414 milioni, dunque già al di sotto del fabbisogno. Ma ora Tremonti ha fatto di meglio e ha sforbiciato da quella cifra 87 milioni nel 2009 e 100 nel 2010 solo sui contributi diretti «lasciando intonsi i 305 indiretti», come dice un preoccupato comunicato di Mediacoop.
Insomma, un attacco tale al diritto soggettivo ai contributi diretti, che anche la maggioranza ha mugugnato parecchio. All’inizio di luglio in Commissione Cultura alla Camera votò un emendamento con l’opposizione in cui si chiedeva di «escludere qualsiasi riduzione delle risorse destinate ai contributi diretti». Ma per ora non c’è stato niente da fare e ieri Alessio Butti, senatore del Pdl, ha confessato di non poter nascondere la sua «profonda delusione per i tagli apportati indiscriminatamente all'editoria». Così, ha detto, si «mettono seriamente nei guai decine di giornali venduti in edicola, che hanno migliaia di abbonati e occupano centinaia di giornalisti». Anche il senatore del Pd Vincenzo Vita durante la discussione ha definito quello che sta avvenendo come un «delitto perfetto». «Un’iniziativa - ha detto - lesiva di un fondamento della democrazia qual è la libertà di informazione».

l’Unità 1.8.08
Oggi il governo taglia i fondi a tutti i giornali considerati politici
Radio Londra
di Furio Colombo


Ha ragione Il manifesto a definire “misteriosa” Radio Radicale. Come spiegare una radio simile in un Paese che ha subito (e subisce da tempo) un pauroso blocco delle informazioni, nel Paese della Rai visiva e della Rai parlata, in cui una questione testamento biologico te la spiega un vescovo, una di sospetta finanza viene affidata al presunto imputato, il presidente dell’azienda di un vasto spionaggio telefonico viene intervistato per scagionare se stesso, l’immigrazione si chiama “sicurezza”, l’estate nelle città deserte “emergenza”, con pattuglioni di lancieri e granatieri fra turisti storditi, l’immondizia a tonnellate scompare quando ti dicono che è scomparsa, senza uno straccio di spiegazione e di prova, e la frase: «le impronte digitali fanno bene ai bambini» viene ripetuta come un fatto ovvio, che balza agli occhi, e le reti oscurano i raid nei campi nomadi (che però l’Europa, che ha altre radio e altre televisioni, vede bene), in un Paese così una radio che non apre le notizie con il Papa, ti racconta tutto delle sofferenze di Coscioni e di Welby (e del corpo di Welby abbandonato fuori dalla chiesa), fa parlare una parte e l’altra senza giro rituale e infinto di voci fisse, ti dà le dirette dei fatti veri, ti racconta la guerra in Iraq (la vera storia) e il tentativo di salvare la vita a Tareq Aziz, questa è senza dubbio una radio misteriosa. Diciamo: estranea alla prevalente cultura italiana.
Riceve, certo, contributi per esistere. Ma trasmette tutto da tutto rendendo trasparente un Paese opaco fatto di realtà sovrapposte e impenetrabili, un Paese con le finestre murate a cura di editori, partiti, caste, e interessi speciali.
Non è né gradevole né gentile, Radio Radicale, e non è neppure la cosa più bella del mondo. Personalmente, e professionalmente, mi manca una terza parte (tutte le notizie che segnano un giorno, ripetute più volte al giorno). Ma mi mancano perché penso al solo modello “perfetto” che conosco, la «National Public Radio» americana che quasi ogni giorno dispiace ai politici di potere non perché sia di sinistra (è appena un po’ liberal) ma perché non tace su nulla. Radio Radicale, per i miei gusti, è un poco di destra (è appena un po’ troppo “di mercato”) e come la PBS non nasconde nulla. Ma gli manca il grande notiziario.
Però come saprei di Israele e Medio Oriente e della Cambogia, di Cina e Tibet e Birmania, di sperdute e abbandonate minoranze nel mondo, senza Radio Radicale?
E come comincerebbe la giornata politica di molti italiani (va bene, parlo soprattutto di addetti ai lavori) senza «Stampa e regime», la celebre rassegna stampa mattutina di Radio Radicale?
* * *
D’altra parte il 31 luglio, mentre questa nota viene scritta, è anche il giorno in cui il governo “liberale” ha tagliato tutti i sostegni a tutti i giornali considerati “politici”, a cominciare da Libero e dal Foglio, fino a l’Unità.
Perché la questione è diversa da una normale decisione di un normale governo? Perché è presa dal titolare del più grande conflitto di interessi del mondo. Quale conflitto di interessi? Quello del proprietario di quasi tutto ciò che si vede e quasi tutto ciò che si legge, che abolisce - o tenta di abolire - anche la minima concorrenza.
La questione “sostenere o no la stampa di partito” specialmente in momenti difficili è grave e seria e degna di dibattito.
Il taglio di Berlusconi però finisce per apparire una museruola, una finestra murata in più.
Se fossi Radio Radicale - che viene preservata, credo, soprattutto grazie alle dirette dalla Camera, dal Senato e moltissimi eventi politici del Paese (a volte unica fonte di cose veramente dette) - inserirei subito nei programmi ore messe a disposizione dei giornali morenti e delle loro voci che potrebbero finire per sempre nel polpettone quotidiano Rai-Mediaset. In un mondo di regime (che - ti dicono a Radio Radicale - non comincia con Berlusconi, è più radicato e più antico) potrebbe essere un’idea di salvezza.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 1.8.08
Eluana, l’ingerenza dei deputati
E la Procura: stop alla sentenza
di Anna Tarquini


Dopo 16 anni «non è stata accertata con sufficiente oggettività l’irreversibilità dello stato vegetativo permanente di Eluana Englaro» e «non vi è certezza sul fatto che il paziente sia del tutto privo di consapevolezza». Con queste motivazioni la procura generale di Milano ha chiesto ufficialmente lo stop. Stop all’esecutività della sentenza dei giudici d’Appello che avevano autorizzato i tutori a staccare il sondino, e ricorso alla Cassazione perché dia un parere sulla sentenza milanese. Erano gli unici a poterlo fare, e lo hanno fatto poche ore dopo il sì della Camera al conflitto di attribuzione, cioè al ricorso alla Corte Costituzionale. Cosa accadrà è difficile dirlo ora. Potrebbe essere una corsa contro il tempo, potrebbe invece rivelarsi una ennesima sconfitta per la famiglia Englaro. L’avvocato degli Englaro ha commentato secco: «Motivazioni sconcertanti. Resisteremo».
Il ricorso del Pg è stato depositato ieri, ma non ancora la richiesta della sospensiva dell’esecutività della ordinanza. La Camera ci aveva messo appena mezz’ora a decidere che - sia la Cassazione, sia i giudici d’Appello - avevano scavalcato le prerogative del Parlamento con quella sentenza. Questo perché non essendoci una legge in Italia che disciplina il testamento biologico né tantomeno l’eutanasia - secondo il Pdl ma non solo - i giudici milanesi avevano creato un pericoloso precedente. Si sono riuniti alle 13.30 precise, alle 14.05 sul tabellone appariva l’esito del voto. Pochi interventi e tesi già note. Per il sì ha votato tutta la maggioranza di governo. Qualche astenuto, Italia dei Valori contraria.
Dopo lunga e travagliata discussione il Pd ha confermato la decisione di lasciare l’aula prima del voto. E questo non certo per ipotetici dissensi o condizioni poste dai teodem sulle questioni etiche. Semplicemente, come ha annunciato Zaccaria in aula, perché il Pd ritiene la richiesta di conflitto di attribuzione infondata. La Cassazione non si è sostituita al Parlamento, ha solo deciso - tra l’altro sulla base di una norma costituzionale, l’articolo 32 - che Eluana, in vita, si era espressa contro l’accanimento terapeutico.
La mediazione I cattolici del Pd hanno poi voluto chiarire: «Con una sofferta mediazione il Pd ha offerto un’importante manifestazione di unità e di compattezza non partecipando al voto sul conflitto di attribuzione». La nota è firmata da Paola Binetti, Bobba, Carra, Calgaro, Lusetti, Mosella, Ria e Andrea Sarubbi. «Depositeremo una nostra proposta di legge sul cosiddetto testamento biologico, per mettere in chiaro il nostro no deciso alla eutanasia».
Cosa accadrà? Solo il voto della Camera non avrebbe cambiato nulla per la famiglia Englaro. Non così il ricorso della Procura generale. «Questa è solo la politicizzazione del caso di Eluana Englaro. La sentenza c’è e non può essere né sospesa né annullata» aveva detto Franca Alessio, curatrice speciale della ragazza. «Per noi - ha invece spiegato l’avvocato Angiolini dopo il voto dell’aula -, la situazione oggi è uguale a ieri, e identica a tre settimane fa: la Corte d’Appello, come poi confermato dalla Cassazione, ha autorizzato il signor Englaro a porre fine alle sofferenze della figlia, ed è quello che farà quando lo riterrà opportuno, né prima né dopo».
La legge è chiara «Per interrompere una sentenza esecutiva come quella della Corte d’Appello ci vuole una richiesta esplicita di sospensione alla stessa Corte». Ora quella richiesta c’è e aveva visto bene il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi (Pdl), tra i firmatari della richiesta di ricorso alla Consulta, che poche ore prima aveva detto: «I tempi? Crediamo che saranno molto brevi proprio per l’importanza del caso».
Otto disegni di legge in Parlamento, dalla richiesta di regolamentare il testamento biologico alla legalizzazione dell’eutanasia. Quando un anno fa si era vicini a una sintesi possibile delle varie proposte, una sintesi di garanzia che preludeva alla discussione in Commissione Sanità prevista per maggio, intervenne la Cei con una nota secca. «Non riteniamo necessaria una legge specifica sul testamento biologico». Tutto si fermò. I casi Welby, Nuvoli, Englaro, tornarono nelle mani dei giudici. Ieri Antonello Soro, capogruppo del Pd alla Camera, ha scritto a Fini. Il vuoto legislativo attorno al «fine vita» va colmato al più presto. Serve che il «testamento biologico sia in tempi rapidi calendarizzato a Montecitorio.

l’Unità 1.8.08
Eluana, l’ultimo affronto
di Maurizio Mori*


Una cosa è certa: i coniugi Englaro non avrebbero mai immaginato di innescare un caso storico di proporzioni tanto grandi. Volevano rispetto e giustizia per la loro figlia, della cui volontà si sentono gelosi custodi. Mai avrebbero pensato di arrivare a sollevare addirittura un “conflitto d’attribuzione” tra poteri dello Stato, giungendo così a mettere in crisi i massimi vertici della vita sociale e giuridica del Paese. Invece è capitato. Ieri, a maggioranza, la Camera ha approvato la mozione del centro-destra che afferma che su certi temi fondamentali come quello di Eluana Englaro spetta al Parlamento dare una risposta attraverso specifiche leggi e non a Corti specifiche sia pure quella di Cassazione. Oggi, voto simile è scontato al Senato. Un bel successo, che merita una pausa di riflessione.
Dal punto di vista pratico, per la vicenda umana di Eluana, la decisione del Parlamento è pressoché irrilevante sia perché la soluzione del conflitto è demandata alla Corte Costituzionale la cui risposta non sarà immediata, sia perché non è detto che la risposta sarà quella attesa dalla maggioranza dei parlamentari. A ben vedere, quindi, quella della attuale maggioranza è solo una mossa propagandistica fatta per accontentare quei cattolici fautori dello strenuo vitalismo: è una mossa che rassicura i difensori della sacralità della vita, i quali sentono che ci si muove per loro “ai massimi livelli”! Ma è anche un po’ di fumo negli occhi, perché per ora non cambia nulla o comunque non si fa altro che rimandare la questione ad altra sede - senza così urtare la sensibilità di alcuno.
Colpisce, infatti, come non si siano elevate voci decise a netto sostegno della decisione dei giudici. Non so se ciò sia dipeso da condizionamenti mediatici (la stampa, salvo sporadiche eccezioni, è orientata in direzioni ben precise), ma poco rilievo è stato dato ad eventuali elogi dei giudici che nel caso hanno difeso la libertà dei cittadini - come vuole la Costituzione e gran parte dell’opinione pubblica. Qui c’è un altro punto da chiarire: vari sondaggi negli ultimi giorni hanno confermato che circa l’80% dei cittadini sostiene la decisione della Corte di Milano e la posizione del padre di Eluana, Beppino Englaro. Ma anche questa notizia è passata sotto silenzio. Anzi, a leggere i giornali sembra proprio l’opposto, e che l’iniziativa lanciata di cattolici e dai vitalisti della “bottiglia d’acqua per Eluana” sia andata alla grande, invece di essere stata un grande fiasco con pochissimi sostenitori. Lo stesso capita coi neurologi, che in gran parte stanno col Gruppo di studio di bioetica e cure palliative della Società Italiana di Neurologia, che ha fatto sapere di avere studiato il caso Englaro già anni fa e di apprezzare la sentenza della Corte di Milano.
Colpisce come le forze a favore dell’innovazione non abbiano dato voce alle esigenze di modernizzazione bioetica che premono e sono forti nel Paese. L’Italia è un Paese avanzato e non può continuare a vivere in base a criteri vitalisti dettati dalla sacralità della vita. Ci sono certi processi storici che non si possono imbrigliare con decisioni parlamentari, tanto più quando esse sono “di facciata” come quelle prese col conflitto d’attribuzione. Non sono un costituzionalista e comunque è difficile prevedere quale sarà la soluzione della Corte Costituzionale al riguardo. Ma devo dire di essere istintivamente sorpreso (e un po’ spaventato) da affermazioni del tipo: «Decidendo della morte di Eluana la Cassazione si è arrogata un potere del Parlamento». Si lascia così intendere che sarebbe il Parlamento ad avere il potere di decisione sulla vita e sulla morte dei cittadini! Discorsi di questo tipo mi sembrano assurdi, perché dimenticano che anche il Parlamento ha dei limiti di fronte ai quali fermarsi: i diritti civili dei cittadini. La vita e la morte dei cittadini non appartengono al Parlamento né a nessun altro se non ai titolari medesimi. E se è così, allora il conflitto d’attribuzione è ben poca cosa. Come poca cosa è il ricorso sospensivo della Procura di Milano, annunciato ieri sera, che allunga le sofferenze degli Englaro.
Le varie difficoltà e i ritardi frapposti col tempo verranno visti per quello che sono: opposizioni frutto di nostalgici della sacralità della vita che vivono un po’ fuori del tempo, in un passato ormai chiuso che tuttavia lascia in molti il profumo di momenti che furono.
* Presidente della Consulta di Bioetica Onlus, Professore di Bioetica Università di Torino

Corriere della Sera 1.8.08
Nel Pd. La vittoria di teodem e rutelliani «E ora la legge anti-eutanasia»
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — «Noi abbiamo tenuto duro: avevamo detto a chiare lettere che se il Pd avesse votato contro il conflitto, noi avremmo votato a favore». Paola Binetti, capofila dei teodem, (Bobba, Carra), cioè dei cattolici nel Partito democratico, e con loro i rutelliani (Calgaro, Lusetti, Mosella, Ria, Sarubbi) ieri mostravano grande soddisfazione. «Proprio a motivo del nostro atteggiamento — continua Binetti — già martedì scorso a Palazzo Madama era emerso nel nostro gruppo l'orientamento di non partecipare al voto». Della loro posizione si era fatto interprete e garante l'ex presidente del Senato, Franco Marini, e così, nel Pd, si è arrivati alla scelta del «non voto», nonostante il capogruppo alla Camera Soro abbia ribadito in Aula che sollevare il conflitto è sbagliato e che «non ce la si può prendere con i giudici ».
La linea dei teodem insomma è risultata vincente, mentre è rimasta nell'angolo quella della cattolica «adulta» e prodiana Bindi, l'ex ministro della Famiglia, che nell'ufficio di presidenza di Mon-tecitorio, mercoledì, si era apertamente dichiarata contraria a che ci si rivolgesse alla Corte Costituzionale. Anche se poi la Bindi, disciplinatamente, ieri in Aula, si è astenuta. «Oggi il Pd con una sofferta mediazione ha offerto una importante manifestazione di unità e di compattezza non partecipando al voto sul conflitto di attribuzione », hanno commentato i rutelliani. Ma hanno anche voluto subito mettere in evidenza che la nuova legge da tutti richiesta non potrà in ogni caso essere il lasciapassare per forme più o meno larvate di eutanasia, «inclusa la sospensione della nutrizione e della idratazione, che in nessun caso possono essere assimilate a qualsivoglia forma di accanimento terapeutico». «Il vuoto legislativo attorno al fine vita va colmato al più presto», ha scritto Soro al presidente della Camera Fini. Ma proprio per questo già ieri i teodem hanno depositato un loro progetto di legge alternativo a quello del collega di partito Ignazio Marino. Nel ddl della Binetti «ci sono altri due no altrettanto forti: no all'abbandono terapeutico e no all'accanimento terapeutico ». Viceversa «ci saranno anche tre sì chiari e decisi»: «alle cure palliative», «alla garanzia che la volontà del paziente sarà rispettata nei fatti e nelle intenzioni», «alla possibilità per il medico di fare obiezione di coscienza».
Quanto ad Eluana, per i parlamentari rutelliani del Pd «la sua vita appesa ad un sondino è la vera immagine della precarietà e non può che suscitare un profondo senso di smarrimento e un altrettanto profondo desiderio di tutelarla». Per questo, «nonostante tutta la comprensione e la compassione con cui partecipiamo alla vicenda della famiglia Englaro, vogliamo che Eluana viva, riaffermando che nessuno può assumersi la tragica responsabilità di togliere la vita ad un'altra persona ».

Repubblica 1.8.08
La fuga del Pd
di Miriam Mafai


Era lecito attendersi una posizione limpida ed equilibrata. A volte la prudenza rischia di apparire indifferenza

Dunque la Camera ha votato. E ha deciso di sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale contro la decisione della Corte di Cassazione che aveva finalmente consentito alla richiesta del padre di Eluana Englaro di sospendere l'alimentazione e l´idratazione forzata della figlia in stato vegetativo permanente da ormai sedici anni.
La Camera ha votato e il pg di Milano ha fatto ricorso contro la sentenza, dunque la povera Eluana dovrà ancora restare attaccata a quel sondino, invecchiare così nel buio profondo di una morte non ancora ufficialmente certificata.
Da più di dieci anni giacciono di fronte alla nostre assemblee elettive proposte di legge intitolate dal cosiddetto "testamento biologico" grazie al quale ognuno di noi avrebbe il diritto di decidere della fine della sua vita, quando e come e perché staccare quel sondino e quelle macchine che possono tenerti immobilizzato, per anni, in quello spazio di morte che non è più la morte naturale di una volta, ma l´orrore di una zona intermedia in cui è una macchina che pompa il sangue, ti alimenta artificialmente per un tempo che può durare per anni. Per Eluana sono passati già sedici anni.
L´orrore di questa condizione inumana non conta nulla di fronte al voto dei nostri parlamentari. Non conta nulla nemmeno la sentenza della Cassazione che finalmente aveva acceduto alla richiesta del padre di Eluana.
Non conta nulla nemmeno il fatto che le nostre assemblee elettive, non siano riuscite nel corso degli anni passati a esaminare ed approvare una delle molte proposte di legge sul "testamento biologico" che metterebbero ognuno di noi al riparo da questa violenza esercitata sui nostri corpi alla fine delle nostra vita.
Ma quello che più mi ha colpito nella seduta di ieri della Camera dei deputati, di fronte a quel voto, è stata il silenzio dei parlamentari del Partito Democratico.
Il loro rifiuto di assumere una posizione e di esprimersi con un sì o con un no. Il loro ripiegare su un´astensione che appare una fuga dalle responsabilità.
Il caso Englaro è di fronte alla pubblica opinione e alle assemblee legislative da quasi dieci anni. Non è certamente colpa del Partito Democratico se una legge equilibrata sul testamento biologico non è stata ancora discussa e approvata. Basterebbe ricordare a questo proposito l´instancabile azione svolta da uno scienziato come Ignazio Marino, eletto senatore nelle file del Pd.
Questa battaglia continuerà, penso, al Senato, dove è stata recentemente presentata una proposta di legge sottoscritta da cento senatori del Pd, dell´Italia dei Valori e del Pdl.
Ma ieri, alla Camera, il Partito Democratico ha preferito non prendere parte alla votazione. Non mi convince la spiegazione che ne è stata fornita in aula. Sappiamo tutti che convivono nel Pd sentimenti e parlamentari laici e cattolici. Sappiamo tutti che una mediazione tra queste diverse culture richiede attenzione, intelligenza e prudenza. Ma ci sono casi e momenti in cui la prudenza rischia di apparire indifferenza o pavidità.
Attorno al caso di Eluana Englaro, alla sua tragedia e a quella del padre, attorno a un caso drammatico che investe la coscienza di tutti noi, era lecito attendersi una posizione limpida ed equilibrata dei deputati del Partito Democratico. Non c´è stata. È una brutta giornata, questa, per chi crede nel Partito Democratico e nella laicità del nostro Stato.

il Riformista 1.8.08
Lo Stato va in crisi per Eluana
UN'ACCUSA GRAVE CHE MINA L'EQUILIBRIO ISTITUZIONALE
di Mario Ricciardi


C on il voto favorevole della Camera si mette in moto il procedimento che potrebbe portare la Corte Costituzionale a pronunciarsi sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato relativamente alle sentenze sul caso Englaro. Secondo i parlamentari del centro-destra, che chiedono il ricorso a questo strumento di tutela, i giudici hanno violato il confine tra interpretazione e produzione del diritto, arrogandosi di fatto il potere di fare le leggi. Un'accusa di straordinaria gravità che aprirebbe una crisi senza precedenti nei rapporti - per niente sereni - tra magistratura e parlamento.
Tuttavia, ci sono almeno due ragioni di perplessità sulla pretesa avanzata con il voto della Camera. In primo luogo, c'è un dubbio di natura concettuale. Secondo i parlamentari che hanno votato a favore, la Corte di Cassazione avrebbe «travalicato i limiti della funzione ad essa affidata dall'ordinamento, esercitando di fatto un potere legislativo in una materia non disciplinata dalla legge e ponendo a fondamento della sua decisione presupposti non ricavabili dall'ordinamento vigente, neppure mediante l'applicazione dei criteri ermeneutici». L'allusione è ai due principi che la Cassazione ha proposto come guida per le future decisioni in materia, che hanno orientato la successiva pronuncia della Corte di Appello di Milano che ha autorizzato la sospensione dell'alimentazione di Eluana Englaro. Come si ricorderà, la Corte di Cassazione aveva stabilito che tale sospensione è lecita quando «a) secondo un rigoroso apprezzamento clinico la condizione vegetativa sia irreversibile e non vi sia possibilità di recupero della coscienza; b) la richiesta sia espressiva, in base a elementi di prova chiari, univoci e convincenti, tratti dalle precedenti dichiarazioni del malato ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, della sua identità e del suo modo di concepire la dignità della persona». Si tratta di standard formulati in modo generale il cui scopo è suggerire una cornice interpretativa, alla luce del diritto vigente, per le corti di merito che dovessero trovarsi in futuro a decidere su casi simili. Un modo di orientare gli indirizzi della giurisdizione che la Cassazione esercita abitualmente, e che risponde a una ragionevole esigenza di uniformità nell'applicazione del diritto. Suggerire, non ordinare, perché in un ordinamento in cui i precedenti - anche quelli delle corti superiori - non sono in senso stretto fonte del diritto non è immaginabile che la Cassazione abbia inteso produrre norme da applicare immediatamente, senza ulteriore valutazione da parte dei giudici di merito. Ovviamente la sentenza della Cassazione sul caso Englaro è criticabile, come tutte le sentenze, e non si può escludere che essa sia in parte il frutto di un ragionamento fallace. Tuttavia, un'interpretazione poco convincente del diritto da parte di una Corte non è un attacco alle prerogative del parlamento. Gli effetti legali della sentenza rimangono infatti strettamente nell'ambito della questione che le è stata sottoposta, che è quella della legittimità di una sentenza di merito.
La Cassazione non ha legiferato surrettiziamente, i principi che ha formulato sono aperti a revisione da parte di sentenze future, che potrebbero modificarli radicalmente, ad esempio specificandone i contenuti alla luce di considerazioni ulteriori. Dal canto suo, il parlamento rimane nella pienezza dei poteri e può legiferare come e quando ritiene opportuno sull'interruzione dell'alimentazione di una persona in stato di coma vegetativo permanente, anche se c'è stata una sentenza della Corte di Cassazione. A questa perplessità concettuale sull'iniziativa del parlamento, se ne accompagna una che riguarda il "galateo" istituzionale. Ricorrere a uno strumento concepito per situazioni eccezionali per impedire l'esecutività di una sentenza che ripugna - a torto o a ragione - a una parte dell'elettorato, è una leggerezza grave, che potrebbe avere conseguenze serie per un equilibrio tra poteri costituzionali che è fragile da tempo. Sarebbe davvero triste se la vicenda di Eluana Englaro diventasse il pretesto per l'ennesimo sfregio ai principi dello stato di diritto.


il Riformista 1.8.08
Per restare unito il pd se ne sta zitto
Ora la Procura chiede di fermare la sentenza
di Alessandro Calvi


Corte Costituzionale e Corte di Cassazione. Entrambe potrebbero occuparsi molto presto, direttamente o indirettamente, del caso di Eluana Englaro. Si tratta della ragazza da oltre 16 anni in stato di coma vegetativo permanente sulla quale di recente si è pronunciata, sulla base di una sentenza della Cassazione, la corte di appello di Milano, autorizzando la sospensione dell'alimentazione forzata.
Ebbene, proprio contro quella sentenza della Cassazione si è mossa ieri la Camera che ha dato il suo via libera al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, chiedendo che la Corte Costituzionale stabilisca se la Cassazione abbia interferito o meno con le prerogative del legislatore. Lo stesso dovrebbe fare oggi il Senato. Se il Parlamento va al frontale con la Cassazione, la procura generale di Milano ha deciso di impugnare la sentenza della corte di appello, ricorrendo proprio in Cassazione. Insomma, un intreccio quasi inestricabile in cui rischia di finire stritolato Beppino Englaro, il papà di Eluana, che ieri, per bocca del legale di famiglia, aveva fatto sapere di voler andare avanti, dando esecuzione alla sentenza della corte di appello di Milano. Ora, però, l'iniziativa della procura generale potrebbe portare in linea teorica alla sospensione della esecutività di quella sentenza, effetto che invece l'iniziativa parlamentare non poteva avere.
Dunque, Beppino Englaro rischia, in un attimo, di vedersi sfuggire dalle mani ciò per cui aveva combattuto, in nome della figlia, per tanti anni ovvero, come ha spesso detto lui stesso, la possibilità di «liberarla». E comunque la pressione sulle sue spalle sta divenendo davvero forte. Quella della magistratura milanese, certo, ma anche quella della politica.
Ad aprire la strada alla possibilità di sollevare un conflitto di attribuzione tra Parlamento e Cassazione era stata una iniziativa del Pdl al Senato. Alla fine, però, complice il dibattito sulla manovra economica che si è preso la precedenza a Palazzo Madama, è arrivata prima la Camera che ha dato un via libera scontato ma anche sofferto. Che infatti Pd e Pdl debbano fare i conti con qualche smagliatura non è un segreto. A favore si è espresso il Pdl, seppure con qualche importante dissenso come quello di Benedetto Della Vedova - ex radicale come Quagliariello con il quale si è giocato quasi un derby. A favore anche Lega e Udc. Contro, invece, l'Idv. E contro sarebbero stati anche i radicali se non fossero stati impegnati a occupare le stanze della commissione di vigilanza sulla Rai. «Niente Aventino», era la richiesta al Pd. Invece, alla fine, Aventino è stato perché il Pd ha preferito non votare. La ragione l'ha spiegata ieri su queste pagine il vicepresidente del Senato, Vannino Chiti, sottolineando che il Pd non avrebbe partecipato al voto per non legittimare una «operazione politica cinica» e l'uso «strumentale di un dramma umano».
E così la giornata di ieri è terminata con un rimbalzo di notizie tra Parlamento e tribunali, tra Roma e Milano. E con il via libera a portare la decisione della Cassazione all'attenzione della Consulta. Soddisfatto, naturalmente, il Pdl. E soddisfatti anche i teodem del Pd per la «manifestazione di unità» data dal partito «non partecipando al voto». È una soddisfazione che porta con sé l'annuncio di una nuova proposta di legge sul testamento biologico che darà qualche grattacapo ai laici del partito. E, anche per questo, quella dei teodem è una soddisfazione che suona quasi come una beffa per il resto del Pd, costretto - anche per evitare di rendere pubbliche le divisioni al proprio interno - a ripiegare sulla strategia del silenzio, se non fosse per una lettera inviata da Antonello Soro a Gianfranco Fini per chiedere una sessione parlamentare dedicata al fine vita.
Oggi si replica in Senato. Non sono previste novità di rilievo se non un ordine del giorno del Pd che, nei contenuti, ricalca la lettera di Soro a Fini. Qualche mal di pancia potrebbe venire a galla nel centrodestra - anche qui ricalcando lo schema già andato in scena alla Camera - ma da quelle parti nessuno sembra agitarsi più di tanto. Il Pd, invece, non voterà, proprio come a Montecitorio. E ieri Donatella Poretti ha confermato lo marcamento radicale anche al Senato.
Insomma, si replica, con un Pd che ieri, se non ci fossero stati i radicali, per il timore di apparire diviso sarebbe rimasto in silenzio, trincerato dietro una posizione ufficiale che è quella di non legittimare l'operazione del Pdl. Si tratta di una posizione comprensibile e che fa perno sulla lettera di Soro a Fini e sull'ordine del giorno portato oggi in Senato per dimostrare che non è vero che il partito abbia perso la voce su temi così importanti. Ma è anche una posizione che, proprio nel chiedere che il Parlamento si attivi sul fine vita e nel negare che il non voto sia dovuto alle divisioni interne, non spiega come mai per ben due anni nella scorsa legislatura il Parlamento non sia stato in grado di farla quella legge. E allora il centrosinistra in Parlamento aveva la maggioranza.

il Riformista 1.8.08
Non ha partecipato al voto
Dietro l'assenza del Pd, forse un'apertura
di Gaetano Quagliariello


Ci sono vicende che riguardano il privatissimo dolore delle persone ma a causa delle loro conseguenze hanno una grande rilevanza pubblica e un'innegabile ricaduta sulla convivenza civile. Il caso di Eluana Englaro ne è un esempio emblematico.
Posto di fronte a queste situazioni, chi è investito della rappresentanza del popolo sovrano ha due strade davanti a sé. Può rispettare profondamente il dramma umano, senza per questo omettere di intervenire sulle conseguenze pubbliche che esso implica, esercitando così fino in fondo la propria responsabilità. Oppure si può trincerare dietro un rispetto formale e andare avanti, anche a costo di abdicare al proprio ruolo.
Leggendo quanto ha scritto ieri su queste pagine, mi sembra evidente che Vannino Chiti appartenga alla seconda scuola di pensiero. Non mi stupisce particolarmente. La scelta si comprende alla luce della storia politica e della tradizione culturale dalle quali Chiti proviene. Quel che invece trovo stupefacente è che chi manifesta questo tipo di approccio possa accusare di cinismo quanti hanno sempre distinto con rigore la dimensione privata del dramma umano di Eluana Englaro e le scelte dei singoli dalla dimensione pubblica che gli sviluppi giudiziari della vicenda hanno evidentemente e prepotentemente assunto.
Mi riferisco alla sentenza della Corte di Cassazione. In gioco non ci sono le convinzioni politiche o il credo religioso, e non c'è nemmeno l'opinione che ciascuno può nutrire sull'eutanasia, sulla vita e sulla morte o sulle dichiarazioni anticipate di volontà. In gioco c'è il fatto che sono stati ampiamente superati, su un tema delicatissimo, i normali confini della discrezionalità giudiziaria e della potestà interpretativa che certo spetta ai giudici.
La sentenza della Cassazione, infatti, non si è limitata - come avrebbe dovuto - a rispondere all'istanza di un cittadino rifacendosi, in assenza di una specifica legge di riferimento, alle norme e ai principi dell'ordinamento vigente e alle migliori pratiche mediche. Ha fatto molto di più: ha stabilito che la volontà del paziente in stato di incoscienza possa anche essere ricavata dal suo stile di vita. Ed è intervenuta in maniera assolutamente apodittica e assertiva sul punto sul quale il Parlamento si divide: se, cioè, alimentazione e idratazione artificiali debbano o meno essere considerate trattamenti sanitari. Ne risulta una sorta di ribaltamento dell'onore della prova: sviluppando in concreto il ragionamento della Cassazione, non sarebbe più il medico in scienza e coscienza a dover tenere conto di eventuali dichiarazioni pregresse del paziente non più in grado di esprimersi; al medico, in assenza di un cosiddetto consenso informato, sarebbe di fatto vietato alimentare, idratare e curare il malato!
È una sentenza abnorme, ancor più perché discostandosi dall'ordinamento vigente lede le prerogative parlamentari, cosa che al vicepresidente del Senato non dovrebbe sfuggire. Quanto alla "sfida" di porre alcuni paletti legislativi ai problemi relativi alla fine della vita, non sfuggirà al senatore Chiti che la scelta di elevare un conflitto di attribuzione per riappropriarsi degli spazi che la Costituzione assegna al legislatore è il necessario presupposto di un'assunzione di responsabilità che ci deve portare in tempi brevi a legiferare, affrontando il problema delle dichiarazioni anticipate di volontà nel più ampio contesto del "fine vita" per comprendere anche aspetti come l'accanimento terapeutico, le cure palliative e l'assistenza ai malati terminali. Tutto ciò per evitare due rischi contrapposti ma ugualmente preoccupanti: che la sentenza della Cassazione venga intesa come riferimento ineludibile per la giurisprudenza e traccia per il legislatore; o che venga considerata una sentenza come le altre, destinata ad essere smentita o confermata da successivi pronunciamenti in un far west in cui i vari casi vengono risolti non in base al diritto ma in base alle propensioni ideologiche e ai convincimenti filosofici di chi si trova a giudicare.
Di fronte a questo percorso non ci convincono le argomentazioni del senatore Chiti sul comportamento del Partito democratico. Se si è radicalmente contrari a una decisione, infatti, si vota coerentemente contro. Nella scelta del Pd di non partecipare al voto di oggi preferiamo vedere un'apertura, sebbene critica, alle ragioni di un'iniziativa che sarebbe giusto non valutare solo col criterio del successo o dell'insuccesso di fronte alla Corte Costituzionale, ma come viatico per una possibile collaborazione su un tema che non può lasciare nessuno indifferente.

l’Unità 1.8.08
Cammett, la fortuna di Gramsci in America
di Maria Luisa Righi


LA SCOMPARSA Addio al massimo studioso Usa del pensatore sardo. Interprete e divulgatore eccezionale delle «Lettere» e dei «Quaderni», fu artefice degli studi gramsciani in tutto il mondo

John Cammett è scomparso mercoledì scorso nella sua casa di New York. Nato nel 1927 era uno dei maggiori studiosi di Antonio Gramsci ed era stato un pioniere degli studi gramsciani nel mondo anglosassone. Quando pubblicò il suo primo articolo su Gramsci, cinquant’anni fa, dovette firmarlo con uno pseudonimo (Fred Hallett) per salvaguardare l’avvio della sua carriera accademica dagli strascichi del maccartismo. Il suo interesse per Gramsci era nato a Roma. Come raccontò lui stesso, agli inizi degli anni cinquanta, era stato licenziato per la sua attività sindacale nella fabbrica automobilistica di Detroit, dove aveva scelto di impiegarsi per svolgere lavoro politico. Aveva quindi ripreso gli studi sul Rinascimento italiano ed era venuto a Roma per approfondire le sue ricerche. Passando dalle Botteghe Oscure, rimase impressionato dall’imponenza della sede del partito comunista, situata oltre tutto in pieno centro e proprio alle spalle della Dc. «Negli Stati Uniti, - si disse - i comunisti sono pressoché clandestini, e qui in Italia riescono ad avere una sede così prestigiosa! Questo Pci deve avere qualcosa di particolare. Così mi misi a leggere gli scritti di Togliatti e ben presto incontrai Gramsci». Quando tornò negli Stati Uniti, chiese di cambiare la sua tesi di laurea, per affrontare il tema «Antonio Gramsci e il movimento dell’Ordine nuovo», grazie anche a un professore, come lo definiva lui, «veramente liberale», Shepard B. Clough, che lo incoraggiò «a perseguire una linea di ricerca che a quei tempi non era certo di moda».
La tesi discussa nel 1959 gli procurò, nel 1960, anche il premio per il miglior inedito dell’anno da parte della Society for Italian Historical Studies, istituzione di cui fu anche segretario. Grazie a una borsa di studio, Cammett tornò in Italia nel 1964. Era un anno cruciale per gli studi gramsciani: nei suoi ultimi anni di vita, Togliatti stesso aveva incoraggiato una «rivoluzione storiografica», favorendo la ricerca e la pubblicazione di nuova documentazione sulla storia del partito, e proprio nel 1964, uscirono l’antologia di Giansiro Ferrata e Niccolò Gallo, 2000 pagine di Gramsci (comprensiva di molti inediti, tra cui la famosa lettera del ‘26 al Cc del partito comunista russo), il rapporto di Athos Lisa del ’33 (apparso su Rinascita a cura di Franco Ferri), e si stava completando la nuova edizione delle Lettere dal carcere, che reintegrava i passi omessi nel 1947 e comprendeva 119 nuove lettere, (uscita l’anno successivo per Einaudi, a cura di Elsa Fubini e Sergio Caprioglio. Cammett frequentando assiduamente l’Istituto Gramsci poté accedere alla documentazione che veniva via via scoperta e ordinata, e ciò lo portò a «riscrivere per intero il manoscritto originale». Nel 1967, finalmente vide la luce il suo Antonio Gramsci and the Origins of Italian Communism, per i tipi della Stanford University Press. La ricerca si segnalava, non solo per essere il primo lavoro di ampio respiro sulla biografia del dirigente comunista in lingua inglese, ma anche per aver introdotto «non pochi elementi nuovi nel dibattito gramsciano», seguendo «con puntualità critica quella linea continua fra pensiero e azione» che caratterizzava l’esperienza politica e ideologica di Gramsci - come scrisse Domenico Zucàro, introducendo la traduzione italiana: Antonio Gramsci e le origini del comunismo italiano, (Mursia, 1974). Oggi Cammett è universalmente noto nel mondo degli studi gramsciani per aver dato il via, negli anni ’80, alla Bibliografia gramsciana, comprendente tutti gli scritti di e soprattutto su Gramsci. Propose infatti alla Fondazione Gramsci di occuparsi egli stesso di una nuova bibliografia, potendosi avvalere anche delle nuove risorse messe a disposizione dall’informatica, sia per la creazione di una banca dati che per l’accesso ai cataloghi elettronici delle biblioteche. Ma fondamentale furono anche i rapporti epistolari che John riuscì a intrattenere con studiosi di tutto il mondo, che condividendo l’amore per Gramsci, si sobbarcarono il compito di stilare bibliografie nazionali. Proposta accolta da Giuseppe Vacca, divenuto nel frattempo direttore dell’Istituto. Il risultato fu una prima bozza relativa agli anni 1922-1987, presentata per la prima volta al pubblico al convegno internazionale Gramsci nel mondo (Formia, 25-28 ottobre 1989). Il convegno, cui parteciparono studiosi, editori e traduttori di Gramsci provenienti da vari paesi europei, dagli Stati Uniti, dall’America Latina, dal mondo arabo, dalla Cina, dal Giappone, dal Sudafrica, fornì anche a Cammett l’occasione per trovare nuovi collaboratori per la bibliografia. La rete dei suoi corrispondenti già prefigurava quella International Gramsci Society, che Cammett propose di fondare proprio a Formia, insieme a Joseph A. Buttigieg e Frank Rosengarten, curatori delle edizioni statunitensi, rispettivamente, dei Quaderni e delle Lettere.
La mole di dati presentati contava solo di studi su Gramsci 6000 titoli, in 26 lingue, e destò grande meraviglia anche tra gli specialisti. L’elaborazione elettronica dei dati aveva consentito per la prima volta di compiere un’analisi quantitativa della fortuna di Gramsci per periodi, per tipologie di scritti, per lingue. La versione a stampa, relativa al periodo 1922-1988, uscita nel 1991, come «Annali della Fondazione Istituto Gramsci» contava già mille titoli in più e 28 lingue. Dopo quell’immane fatica, John era convinto di potersi limitare a pubblicare solo periodici aggiornamenti, ma non tenne conto della potenza della rete. Man mano che si facevano più numerose le banche dati, anche al di fuori dell’area statunitense, crescevano anche le informazioni su libri e saggi mai rilevati alle precedenti ricerche. Inoltre, dai primi anni Novanta, si registrò una ripresa significativa degli studi gramsciani, sia negli Stati Uniti, dopo l’avvio della traduzione dei Quaderni per la Columbia University Press, sia in Italia, stimolata dalle ricerche su Tatiana Schucht, dal recupero di nuova documentazione proveniente dagli archivi di Mosca, nonché dalla progettata Edizione nazionale degli scritti.
Così in pochi anni la mole di titoli cresceva a ritmi geometrici, e si dovette pubblicare un secondo volume, la Bibliografia gramsciana. Supplement updated to 1993, che raccoglieva 3428 nuovi titoli. Oggi, la Bibliografia gramsciana è un’opera aperta consultabile on line sul sito della Fondazione Istituto Gramsci (www.fondazionegramsci.org). Conta oramai oltre 17 mila titoli, in 40 lingue l’afrikaans, il bengalese, l’estone, il macedone, il Malayalam, l’occitano, l’albanese), e si pone come un riferimento imprescindibile per gli studiosi di Gramsci, che dobbiamo alla tenacia, alla passione e all’entusiasmo di un grande studioso. Grazie John.

l’Unità 1.8.08
Quando la maternità diventa un boomerang
di Adele Cambria


Le leggi che, in Europa, tutelano la maternità (non così negli Stati Uniti) sono un boomerang per il successo professionale delle donne, come ha dichiarato, creando scandalo, Nicole Brewer, responsabile della Commissione per le pari opportunità della Gran Bretagna? Forse la mia “antica” testimonianza al riguardo, potrà contribuire al discorso. E dunque: la prima gravidanza, nel remoto 1959, non mi creò nessun problema sul luogo di lavoro. Anzi, diventai giornalista professionista nella redazione del quotidiano il Giorno, ideato, fondato e diretto, a Milano, da Gaetano Baldacci, mentre ero incinta di quattro mesi e tutti lo sapevano. Semmai il problema fu che mi obbligarono, all’inizio del settimo mese, a smettere di lavorare, anche se stavo benissimo; ma la legge di tutela della maternità, mi spiegarono, lo esigeva. Così, un po’ malinconica, col mio pancione, trascorsi luglio e agosto sulla Riviera Ligure, a Nervi, guardando con invidia le mie coetanee che ballavano sulla già mitica «Rotonda sul mare», o andando a sentire i Platter’s in concerto («Only You»), ed arrabbiandomi un po’ perché non potevo scriverne. Ero, lo ammetto, molto attaccata al mio ruolo di cronista di costume - ma piangevo quando mi chiamavano “cronista mondana” - e le due o tre estati precedenti le avevo passate facendo chilometri sulle spiagge più alla moda o più popolari d’Italia, alla ricerca de «La Bella del Giorno», un concorso promozionale bandito dal mio quotidiano, in tutti i sensi modernizzatore rispetto alla seriosità dei quotidiani politici nazionali.
Nessun problema, dunque, per la prima gravidanza, i problemi semmai vennero dopo la nascita del bambino: non ebbi fortuna con le bambinaie, (che potevo permettermi), e la mia furia emancipatoria mi aveva ricondotto al giornale dopo 40 giorni. Non ero affatto una precaria, il posto di lavoro era garantito dalla legge a tutela della maternità, avrei potuto restare a casa anche un anno, ma una firma “giovane” e “femminile” (già allora ragionavo in questi termini) non sarebbe sparita per sempre? (Sarebbe stato pubblicato soltanto nel 1963 il bellissimo libro di Natalia Ginzsburg, «Le piccole virtù», in cui lei racconta che, mescolando il semolino col pomodoro per preparare la pappa ai figli, piangeva pensando che non avrebbe scritto mai più . Ma lei era una scrittrice, ed io una cronista!).
La soluzione - e per tutta la vita ne avrei avuto rimorso - fu quella di “deportare” il bambino da Milano a Reggio Calabria, dove mia madre l’avrebbe accudito per un anno. Intanto mi ero dimessa da il Giorno per solidarietà con Gaetano Baldacci, fatto fuori dall’accoppiata Segni/Malagodi, e mi ero trasferita a Roma, a Paese Sera. Era un giornale “povero”. «Noi non possiamo pagarla come nei giornali borghesi», mi aveva annunciato l’editore Terenzi, ed io: «Non importa, ma vorrei fare la cronista asessuata!» (Per dire che volevo uscire dalla gabbia dorata della cronaca mondana). Perciò, quando scoprii di aspettare un secondo figlio, sentii, ad intuito, che era meglio non dirlo, almeno nei primi mesi. Così, accudita dall’autista de L’Ora di Palermo, spaventatissimo dalle mie nausee, feci la traversata della Sicilia in macchina fino a Testa dell’Acqua, per intervistare un ergastolano liberato dopo trent’anni con l’ottima ragione che suo fratello - per il cui assassinio era stato condannato all’ergastolo - era vivo.
Furono due anni felici, quelli a Paese Sera, ebbi il secondo figlio senza che nessuno mi dicesse che ero obbligata a prendere il congedo preventivo di maternità, e tornai al giornale anche questa volta dopo 40 giorni. Ma fui invitata a dimettermi... Le ragioni c’erano tutte: il 27 ottobre 1962 era caduto, per un incidente tuttora misterioso, l’aereo di Enrico Mattei, e il Presidente dell’Eni era l’unico manager che desse la pubblicità anche a un quotidiano di sinistra, e, negli stessi giorni, il Paese Sera di Roma era stato “raddoppiato” da un analogo quotidiano del pomeriggio a Milano. Il mio direttore, Fausto Coen, mi disse che sarebbero stati costretti a fare 80 licenziamenti: «Lei ha avuto un bambino da poco - mi suggerì - potrà goderselo per un po’, ed è così brava che qualunque giornale borghese la assumerà...». Non gli dissi - non osai - che preferivo comunque stare a Paese Sera, e lui aggiunse la stoccata finale: «Io non posso licenziarla perché lei ha appena avuto un bambino ma, se non si dimette, saremo costretti a licenziare un padre di famiglia...».
Mi dimisi, ma senza risentimenti per il mio bravissimo Direttore, non era colpa sua, era colpa dell’aereo, era colpa di un mondo - cominciavo a capirlo - in cui l’emancipazione della donna consisteva, nel migliore dei casi, soltanto in una emarginazione collettivamente taciuta.
I giornali borghesi almeno erano più espliciti... Ne ebbi la prova qualche mese dopo, quando Alba De Cespedes mi introdusse come collaboratrice a la Stampa di Torino, dove lei, la grande scrittrice che aveva fatto la Resistenza, dirigeva «La pagina della donna». Non avevo un contratto ma lavoravo moltissimo, pubblicando anche 25, 26 articoli al mese, in tutte le pagine del quotidiano torinese (escluse quelle politiche e quelle sportive). Ero invitata anche, una volta al mese, alle riunioni col mitico Direttore, Giulio De Benedetti; ed ero anche l’unica, oltre a lui, a stare seduta, in quanto donna. Tutti gli altri, anche il povero Casalegno e lo storico Paolo Serini, in piedi. Un giorno - probabilmente perché Michele Tito, il capo della redazione romana, gli aveva trasmesso le mie richieste di regolarizzazione - Giulio De Benedetti mi si rivolse direttamente con queste parole: «Signora Cambria, lei ci tiene all’indipendenza del giornale su cui scrive?». «Certo che ci tengo!», risposi. «Allora deve capire: lei è giovane, è sposata, ha già due bambini... E se ne fa un altro, sarebbe a carico dell’azienda, che per questa ragione perderebbe un po’ della sua indipendenza...».

l’Unità 1.8.08
Prove tecniche di unione a sinistra


Parte la costituente: obiettivo, costruire un partito che cerca alleanze con il Pd per le prossime amministrative
Un appello per un percorso costituente della sinistra italiana: è stato presentato ieri a Firenze da cittadini appartenenti al mondo della politica (Sd e Pdci), del sindacato, della cultura, delle professioni, dell’associazionismo.
I promotori dell’appello chiedono di costruire un soggetto politico che unisca le forze della sinistra, che si allei col Pd fin dalle prossime amministrative e che renda partecipi i cittadini. Come si legge nel documento, «pur avendo posizioni critiche rispetto ad alcune delle scelte nelle varie giunte, è indispensabile mantenere alto il livello di confronto in primo luogo con il Pd, con una grande attenzione al mantenimento di un'alleanza nell'interesse della città».
Ma un altro punto qualificante è «rendere necessario che i cittadini, da subito, siano chiamati ad essere protagonisti delle scelte che porteranno alle elezioni amministrative e che i partiti della sinistra favoriscano questo percorso».
Lavoro, giovani, ambiente, diritti i temi di punta del documento, in cui non manca una «rielaborazione del lutto» sull’esperienza della Sinistra arcobaleno: «Quell’esperienza si è chiusa rimanendo a metà strada tra una federazione ed un accordo elettorale. Essa non può essere richiamata per liquidare l'ipotesi della costituente come fallimentare per tornare ad arroccarsi ognuno nella propria identità, magari più divisi di prima. La scomparsa della sinistra è possibile se tutti insieme non riusciremo a disegnare una prospettiva di speranza».
In cantiere fin da settembre una serie di iniziative per promuovere questo percorso costituente: politicamente, Sd parlerà con l’ala minoritaria e antidilibertiana del Pdci e con i vendoliani di Rifondazione comunista, in leggera minoranza nel partito. Ma in prima fila ci saranno anche settori della società civile.
Per ora in Toscana l’appello è stato sottoscritto, tra gli altri, da Antonio La Penna, docente della Scuola Normale di Pisa, Giorgio Bonsanti, docente universitario, Mario Ancillotti, musicista. Ma ci sono anche Mauro Faticanti, segretario Provinciale Fiom, Marco Montemagni, consigliere regionale Pdci, Alessia Petraglia, capogruppo Sd al Consiglio regionale, Anna Soldani, capogruppo Sd al Comune di Firenze. Non mancano operai, artisti, pensionati, esponenti dell’Arci e delle cooperative. Tommaso Galgani

Corriere della Sera 1.8.08
L'America e il mondo multipolare
Usa, fine dell'egemonia
di Francis Fukuyama


L 'opinionista del Newsweek, Fareed Zakaria, ha definito il mondo del futuro «un mondo post-americano».
Ho la forte impressione che le condizioni dell'economia globale stiano cambiando in modo drammatico. I presupposti sui quali era fondato il mondo della Guerra fredda, e questo lungo periodo di egemonia americana da allora, non basteranno più a guidare l'America nella realtà emergente.
Il primo, e più palese, cambiamento che gli Usa devono affrontare ha a che fare con l'evolversi di un mondo multipolare. Gli Stati Uniti restano la potenza dominante del pianeta, anche se il resto del mondo si affretta ad accorciare le distanze. Lo spostamento del potere in termini di forza economica è impressionante. Russia, Cina, India e gli Stati del Golfo Persico sono tutti in forte crescita, mentre l'America sprofonda nella recessione. Appare quindi evidente come il resto del mondo si sia sganciato dall'economia americana. La prova più eclatante del progressivo spostamento del potere sta, da una parte, nell'indebitamento degli Usa e, dall'altra, nelle riserve accumulate da molti Paesi nel resto del mondo. La Repubblica popolare cinese può contare su una riserva di 1,5 trilioni di dollari; la Russia, su 550 miliardi; la Corea del Sud, su 260 miliardi. E' inevitabile che affronteremo un mondo nel quale le scelte americane saranno sempre più limitate e vincolate.
L'evoluzione di un mondo economico multipolare è stata ampiamente studiata. Ciò che è cambiato nell'attuale assetto internazionale è che il mondo non è più dominato da Stati forti, ma da Stati deboli, talvolta addirittura fallimentari, dove i soliti strumenti del potere — in particolare, la forza militare — non funzionano più come una volta. Com'è nato un mondo di Stati deboli? La sua creazione è stata determinata dal coinvolgimento, nello sviluppo economico, di nuovi attori e gruppi sociali che precedentemente erano stati esclusi dal potere, come gli sciiti in Libano. E si estende anche al continente americano.
Un mondo di Stati deboli ha numerose ripercussioni per la potenza americana. Consideriamo questo fatto assai sconcertante: gli Stati Uniti spendono per la difesa quasi quanto tutto il resto del mondo messo assieme. Eppure sono trascorsi cinque anni e più dall'occupazione dell'Iraq, e fino a oggi non si è riusciti a pacificare completamente quel Paese. Il motivo va ricercato nel cambiamento del potere stesso. Stiamo cercando di utilizzare oggi, in un mondo di Stati deboli, il medesimo strumento — la forza militare — che abbiamo utilizzato nel mondo del secolo ventesimo, fatto di grandi potenze e Stati centralizzati. Non è più pensabile ricorrere al potere «duro» per creare istituzioni legittime sulle quali fondare una nazione.
Molte altre cose stanno accadendo nella politica internazionale, in reazione al predominio americano degli ultimi due decenni. Altri Paesi si stanno mobilitando contro gli Stati Uniti. Sono nate alleanze, come il Consiglio di cooperazione di Shanghai, con l'obiettivo esplicito di estromettere gli Stati Uniti dall' Asia dopo l'intervento militare in questa regione, successivamente all'11 settembre. L'America non è più in grado di chiamare a raccolta i suoi alleati democratici come avveniva in passato, e si è visto chiaramente in Iraq.
In breve, davanti ai nostri occhi c'è oggi un mondo che richiede abilità molto diverse. Se è giusto che l'America conservi la capacità di ricorrere, all'occorrenza, al potere «duro», non deve però dimenticare che esistono molti altri canali per proiettare quei valori e quelle istituzioni che assicureranno il perdurare della sua leadership nel mondo. Gli sforzi del governo Clinton nei Balcani, in Somalia e ad Haiti per contribuire alla creazione di nuove nazioni sono stati criticati come impegni da «assistente sociale». I detrattori sostengono che i veri uomini e i veri professionisti di politica estera non si abbassano a questi interventi, né si curano del potere «morbido », preferendo ricorrere al duro impatto della forza militare. Ma in realtà è bene che oggi la politica estera americana faccia leva sull'intervento sociale. Gli oppositori del potere americano nel mondo — i Fratelli musulmani, Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, Mahmoud Ahmadinejad in Iran, i leader populisti in Sud America — sono riusciti a raggiungere il potere perché offrono servizi sociali direttamente alle fasce più povere della popolazione.
Oggi le esigenze del ruolo di leadership per l'America appaiono pertanto assai diverse. E sollevano la questione: «L'America è davvero pronta ad affrontare un mondo nel quale non è più in grado di affermare la propria egemonia»?
Non credo che il declino americano sia inevitabile. Gli Stati Uniti possiedono enormi ricchezze di tecnologia, competitività e imprenditorialità; possono vantare un mercato del lavoro flessibile e istituzioni finanziarie fondamentalmente salde. I principali problemi attuali degli Stati Uniti sono quelli interni.
Esistono tre specifiche aree di debolezza alle quali gli Stati Uniti dovranno porre rimedio se vorranno superare gli scogli appena menzionati. Si tratta in primo luogo del calo di efficienza nel settore pubblico; secondo, di una certa pigrizia da parte degli americani quando si tratta di capire il mondo da una prospettiva che non sia quella degli Stati Uniti; terzo, di un sistema politico polarizzato che è diventato incapace persino di discutere le possibili soluzioni a questi problemi.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un numero assai deprimente di insuccessi politici dovuti all'incapacità dei funzionari pubblici nel programmare e attuare le politiche varate dal governo. Il caso più noto riguarda la mancata pianificazione dell'occupazione dell'Iraq e l'incapacità di affrontare la successiva, e imprevista, guerra civile. Negli ultimi anni sono state avviate due grandi riorganizzazioni del governo federale a Washington: la creazione del ministero della sicurezza nazionale e la riorganizzazione dei servizi segreti. Sorpresa: oggi gli americani dimostrano minori capacità in entrambe queste aree rispetto a prima della ristrutturazione.
Il secondo problema riguarda la pigrizia mentale americana per quel che attiene al mondo esterno. Dopo il lancio dello Sputnik, sul finire degli anni Cinquanta, gli Stati Uniti risposero alla sfida sovietica con massicci investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica, che furono segno di grande accortezza e riaffermarono la leadership americana. Dopo l'11 settembre, l'America avrebbe potuto reagire in modo analogo, lanciando grandi investimenti per capire meglio quelle parti del mondo assai complesse, e fino ad allora trascurate, come il Medio Oriente. E' un vero scandalo che nella nuova e mostruosa ambasciata americana a Bagdad solo pochissime persone parlino correntemente l'arabo. Il terzo punto concerne la situazione di stallo che mina il sistema politico americano. La polarizzazione ha fatto sparire ogni dibattito serio su come risolvere queste sfide di lungo termine. La Destra non osa parlare di nuove tasse per finanziare i servizi pubblici essenziali. La Sinistra non osa abbordare la questione della privatizzazione della previdenza sociale né dell'innalzamento dell'età pensionabile. Pertanto la cultura politica che si è venuta a creare, come risultato di queste politiche, si rivela incapace di prendere le decisioni necessarie.
Ho delineato alcune linee guida che consentiranno all'America di affrontare il futuro, ma nessuno potrà mai beneficiare di un' America chiusa su se stessa, incapace di attuare importanti politiche e troppo divisa per prendere decisioni cruciali. Tale atteggiamento rischia di danneggiare non solo gli americani, ma anche il resto del mondo.
© THE AMERICAN INTEREST, 2008 Distribuito da Global Viewpoint/Tribune Media Services, Inc. Traduzione di Rita Baldassarre

Corriere della Sera 1.8.08
Polemiche Negli inutili occhi residuali delle specie che vivono sottoterra un chiaro esempio di come funziona il meccanismo evolutivo
La salamandra salva Darwin
I rettili senza vista degli abissi: una smentita vivente del creazionismo
di Christopher Hitchens


Credenze illusorie. La fiducia nel progresso lineare o in un «disegno intelligente» impedisce di comprendere i tanti arretramenti della natura

Capita molto di rado che si abbia occasione di pensare qualcosa di nuovo su un soggetto familiare, figuriamoci poi concepire un'idea originale su un tema dibattuto, e così qualche sera fa, quando ho avuto una tale illuminazione, il mio primo istinto è stato quello di dubitare del mio primo istinto. Per dirla in breve, stavo guardando la fantastica serie televisiva
Planet Earth («Pianeta Terra»), che vanta riprese fotografiche di altissimo livello, e si parlava delle forme di vita esistenti nel sottosuolo. Le grotte e i fiumi sotterranei rappresentano forse l'ultima frontiera inesplorata e la portata stessa delle scoperte, in particolare in Messico e in Indonesia, appare stupefacente. Si sono viste varie creature che abitano questi abissi, nel buio più totale, e sotto l'obiettivo della telecamera ho notato che queste creature — specie le salamandre — possiedono quella che chiamerei una fisionomia tipica. In altre parole, come tutti gli animali sono dotate di musi, bocca e occhi disposti nel medesimo ordine. Ma gli occhi di queste creature sono evidenziati solamente da piccoli affossamenti, o rientranze. Mentre mi sforzavo di capire il significato di questa osservazione, la voce autorevole di David Attenborough spiegava quanti milioni di anni ci sono voluti perché questi abitanti del sottosuolo perdessero l'uso degli occhi di cui avevano un tempo goduto.
Se seguite anche voi l'incessante dibattito tra i sostenitori della teoria darwiniana della selezione naturale e i partigiani del creazionismo, o del «disegno intelligente », capirete immediatamente a che cosa voglia alludere. Il creazionista (definiamolo per quello che è e priviamolo del fastidioso attributo di intelligente) parla invariabilmente dell'occhio con toni sommessi. Come ha fatto, si chiede, un organo talmente complesso ad aver percorso il lungo e accidentato cammino dell'evoluzione per raggiungere la sua attuale e magnifica versatilità? Il problema era stato enunciato correttamente da Darwin stesso, nel paragrafo «Organi di estrema perfezione e complessità» della sua opera L'origine della specie:
«Supporre che l'occhio, con la sua impareggiabile capacità di regolare la messa a fuoco a distanze diverse, di consentire l'accesso di varie gradazioni di luminosità e di correggere le alterazioni sferiche e cromatiche, si sia formato grazie alla selezione naturale mi sembra, non ho timore di confessarlo, del tutto assurdo». I suoi difensori, tra cui Michael Shermer nel suo eccellente Perché Darwin è importante, si rifanno ai progressi scientifici post-darwiniani. Non si affidano a quella che potremmo chiamare «la cieca fatalità»: «Secondo quanto presuppone l'evoluzione, gli organismi moderni dovrebbero evidenziare una varietà di strutture morfologiche, dalla più semplice alla più complessa, che rispecchino un percorso evolutivo progressivo piuttosto che un atto di creazione istantanea. L'occhio umano, per esempio, è il risultato di un lungo e complicato cammino che risale a centinaia di milioni di anni fa. All'inizio forse si trattava di una semplice struttura dotata di qualche cellula fotosensibile, che forniva all'organismo le informazioni necessarie su importanti fonti di luminosità».
Non andare oltre, intima Ann Coulter nel suo ridicolo libro Senza Dio. «La domanda interessante non è: come ha fatto un occhio primitivo a trasformarsi in un occhio complesso? La domanda cruciale è piuttosto: da dove sono arrivate queste "cellule fotosensibili"?» Le salamandre di Planet Earth sembrano fornire a questo semplice profano una risposta sconvolgente a tale domanda. Gli esseri umani sono quasi programmati a pensare in termini di progresso e di curve graduali, ma sempre ascendenti, anche quando si trovano davanti all'evidenza che il passato serba tracce di grandi estinzioni di specie, tanto quanto di grandi nuovi sviluppi. Pertanto persino Shermer allude inconsciamente a un «percorso» evolutivo che punta verso il futuro. Ma che cosa si può dire delle creature che hanno fatto dietrofront, che hanno imboccato il senso opposto, passando da una vista complessa a una vista primitiva, fino a perdere del tutto l'uso degli occhi?
Se qualcuno trarrà beneficio da questa indagine, non saranno certamente la Coulter e i suoi seguaci al Discovery Institute dei creazionisti. Al massimo possono citare la Bibbia: «Il Signore ha dato e il Signore ha tolto». Mentre la probabilità che la cecità regressiva delle salamandre delle caverne sia un altro aspetto dell'evoluzione per selezione naturale sembra, a rifletterci, talmente palese da sfiorare la certezza matematica. Ho scritto al professor Richard Dawkins per chiedergli se mi fossi imbattuto nel germe di una nuova teoria, e ho ricevuto la seguente risposta: «Gli occhi vestigiali, per esempio, sono la prova certa che queste salamandre che vivono in ambienti sotterranei devono aver avuto antenati assai diversi da loro, in questo caso, dotati di occhi. Anche questa è evoluzione. Perché mai Dio avrebbe creato una salamandra con occhi vestigiali? Se avesse voluto creare salamandre cieche, perché non crearle prive di occhi? Perché dotarle invece di apparati oculari residuali che non servono a niente e che sembrano per l'appunto ereditati da antenati che vedevano? Forse la sua tesi ha sfumature diverse da questa, ma non penso di averla mai incontrata finora nelle pubblicazioni scientifiche».
Consiglio la lettura del capitolo sugli occhi e la loro ricca e varia genesi nel libro di Dawkins Alla conquista del Monte Improbabile (Mondadori); inoltre, del capitolo intitolato «La storia del pesce cieco delle caverne», nella sua raccolta epica Il racconto dell'Antenato (Mondadori). In quanto a me, non sono in grado di aggiungere nulla sulla formazione di cellule fotosensibili, strutture oculari primitive e cristallini, ma sono certo dell'utilità dialettica di affrontare gli argomenti convenzionali all'inverso, per così dire. Per esempio, alla vecchia domanda teista, «Perché esiste qualcosa, quando potrebbe non esistere nulla?», siamo oggi in grado di controbattere citando le scoperte del professor Lawrence Krauss e altri, riguardo la futura distruzione termica dell'universo, lo «spostamento verso il rosso» evidenziato dal telescopio spaziale Hubble che mostra l'effettivo aumento nella velocità di espansione dell'universo, e la futura collisione della nostra galassia con Andromeda, che già occhieggia nel cielo notturno. Occorre pertanto riformulare la domanda: «Perché il nostro breve "qualcosa" sarà ben presto rimpiazzato dal nulla?» Solo quando saremo riusciti a scrollarci di dosso la nostra innata fiducia nel progresso lineare e a prendere atto delle innumerevoli regressioni passate e future, solo allora potremo afferrare la crassa idiozia di quanti credono ciecamente alla divina provvidenza e al cosiddetto disegno divino.

© Christopher Hitchens, distribuito da The New York Syndicate (Traduzione di Rita Baldassarre)

Repubblica 1.8.08
La vecchia polemica che ha diviso Bertinotti e Ferrero
La sinistra alla ricerca del salotto perfetto
di Michele Serra


Gli strascichi del congresso di Rifondazione riaccendono la vecchia polemica sui "salotti", che i Bertinotti sono accusati di frequentare con troppa assiduità, e i Ferrero invece diserterebbero (preferiscono i tinelli? Le verande? Le soffitte? Le sale d´aspetto? I bovindo, vedi Paolo Conte?). Bisognerebbe che ognuno si mettesse la mano sulla coscienza. Nei salotti (delle zie, degli amici, di chiunque possieda "un alloggio", come dicono gli annunci immobiliari) ci si siede più o meno tutti.
Non essendo cosa consona, prima o dopo la cena, accalcarsi in piedi nel corridoio, o rinchiudersi nel cesso più di un paio di minuti.
E dunque sarebbe ora di stabilire, una volta per tutte, entro quali limiti un salotto sia una normale camera con divano, e quando invece diventi quel luogo di infamia e di scialo borghese assolutamente da evitare se si vuole essere un compagno che non sbaglia.
Intanto: quale metratura? Le tende di broccato, valgono una penalità? Il tavolino di cristallo? Lo schermo ultrapiatto, di quanti pollici, visto che anche la casalinga di Voghera e il delegato Fiom, con grande sacrifizio, ormai ne possiedono uno grande come un cinemascope? E il rinfresco, e le bibite, da quale soglia di lussuria in poi divengono un´offesa alla sobrietà militante? Malissimo il caviale, è ovvio, ma le uova di lompo? E tra i long drink, si può tracannare un Manhattan con fettina di leim infilzata sul bicchiere, o è meglio attenersi al bianchino da tranviere?
In mancanza di attente analisi, e tipologie opportunamente calibrate, è evidente che si brancola nel buio, e si rischia di finire diritti nella colonna infame dei salottieri di sinistra, ovviamente radical-chic non essendosi ancora trovato un sinonimo decente di questo generico epiteto, abusatissimo (il tema "descrivi un radical-chic" è oramai classico per ogni apprendista giornalista, un po´ come nei tempi andati, alle elementari, "una giornata che non dimenticherò mai").
Quando poi, finalmente, saranno censiti tutti i "salotti di sinistra", magari con apposita targhetta che avverta l´incauto ospite e lo metta in guardia fino dal pianerottolo, meglio ancora dall´androne con ficus di plastica davanti all´ascensore, rimarrà però irrisolto l´altro corno del dilemma. E i salotti di destra? Non esistono più? E se esistono, come mai non è infame frequentarli, e anzi ci si ingozza volentieri di gianduiotti, nei salotti di destra, senza che la coscienza rimorda?
E saranno ancora, i salotti di destra, in qualche modo apparentabili a quelli della mia infanzia, quando signore e signori molto compiti, molto educati, si disponevano secondo il decoro sociale dell´epoca, le signore da una parte a discutere di messinpiega e di quella poveretta di Soraya, i signori dall´altro lato che più o meno a bassa voce si raccontavano barzellette grasse (le stesse di Berlusconi adesso) e a voce più alta lamentavano l´imminente arrivo dei comunisti? Oppure saranno slittati, quei vecchi salotti della vecchia borghesia, verso la becera deriva dei tempi nuovi, con non solo i divani rifatti, ma anche le facce delle madame, e le porte aperte anche a certi brillanti giovanotti, e ragazze leggere, che una volta non avrebbero neppure potuto avvicinarsi ai centri storici, altro che ai salotti...
Infine, è molto più semplice e vantaggioso, a pensarci bene, essere di destra: si possono frequentare salotti anche lussuosissimi, anche sibariti, anche con donne scosciate, e nessuno il giorno dopo, a un congresso di partito, avrà mai niente da ridire. Perché se esistono i radical-chic, non esistono, almeno come categoria conosciuta, i reazionar-chic, e dunque fortunati i politici e i papaveri e i pavoni della destra di potere che possono tranquillamente stravaccarsi anche su tre o quattro divani a sera, con il rischio massimo di essere chiamati "dandy" anche se sputano i noccioletti delle olive nei vasi da fiori. Poi ci sarebbero i salotti di centro, ma per ora sfuggono a classificazioni riconoscibili e a giudizi.

il Riformista 1.8.08
Il marxismo nel salotto Angiolillo
di Mambo


Il Riformista con l'intervista di Alessandro De Angelis a Lella Bertinotti ha aperto un dibattito che sfiora i momenti più celebri degli scontri teorici nel movimento operaio. La signora Bertinotti, che con una certa classe non ha mai reagito in questi anni a quanti rappresentavano lei e suo marito, ma soprattutto lei, come prigioniera dei salotti romani, ha rivelato che uno di questi, a casa De Benedetti, era frequentato da Paolo Ferrero e la sua compagna. Niente di male. Una stoccatina da parte di una signora con uso di mondo contro un moralista della domenica. Invece no. La compagna di Ferrero si è adirata e ha rilasciato a Gianna Fregonara del "Corriere" una dichiarazione che rischia di farci scavare a fondo nel marxismo e nei suoi lati oscuri. Dice la signora che nei salotti ci si può stare a condizione che, una volta tornati a casa, la coppia si interroghi «sulla redistribuzione della ricchezza». Capito? Ti fai una birra dalla Angiolillo e poi te la prendi con le ingiustizie del mondo. Ma c'è un risvolto preoccupante nelle parole della signora. Che vuol dire interrogarsi sulla redistribuzione dopo una cena a casa dei ricchi? Un malintenzionato penserebbe, leggendo la frase letteralmente, che tornati a casa i due facciano un resoconto delle ricchezze che hanno visto. Non sarebbero andati a una cena, ma avrebbero fatto un sopralluogo. Oddio, vuoi vedere che si può andare nei salotti solo se si programma un esproprio proletario?


Repubblica 1.8.08
Un suo libro sul rapporto tra il filosofo tedesco e il cristianesimo
Jaspers di fronte al dio di Nietzsche
L´autore di "Così parlò Zaratustra" svela il movimento con cui il cristianesimo distrugge se stesso aprendo un vuoto che nessuno saprà come riempire
di Sergio Givone


Tramonta l´idealismo tedesco ed entra in scena Nietzsche: sarà un´apparizione grandiosa. Ma non è la dottrina dell´eterno ritorno o l´idea del superuomo a spiegare il caso-Nietzsche. I concetti che caratterizzano il suo pensiero sono per lo più iperboli filosofiche. Possono voler dire tutto, ma in realtà non dicono quasi niente. Fra non poche ambiguità e contraddizioni l´opera di Nietzsche porta alla luce ben altro: ossia il movimento attraverso cui il cristianesimo distrugge se stesso e apre un vuoto che nessuno saprà come riempire.
È quanto sostiene Karl Jaspers in un magnifico saggio scritto poco prima della guerra, ma pubblicato soltanto dopo, Nietzsche e il cristianesimo, ora tradotto e prefato da Giuseppe Dolei per Mariotti (pagg. 141, euro 14). Nietzsche, dice Jaspers, ci mette in guardia: il cristianesimo è la nostra provenienza e il nostro destino. Per superarlo bisogna farsi carico di ciò che ne resta e di ciò che ne ha rappresentato lo sviluppo storico.
Non serve contrapporre al cristianesimo una prospettiva di segno contrario. E affermare, per esempio: la verità è una sola, quella della scienza, dunque la fede non ha più ragion d´essere.
Uno stanco ritornello. Quando i contenuti della fede vengono ridotti a favole e a menzogne dei preti si ottiene soltanto di scacciare la superstizione con una nuova forma di superstizione. Invece l´autentico anticristianesimo vuole annientare il cristianesimo, non semplicemente «scrollarselo di dosso».
Alla scuola del grande ateismo moderno (da Spinoza a Feuerbach su su fino a Ivan Karamazov, «fratello di sangue») Nietzsche ha imparato che la battaglia contro il cristianesimo dev´essere condotta con armi cristiane. Solo chi è intellettualmente onesto può permettersi di dichiarare che la fede non è più credibile. Ma è stato il cristianesimo ad instillare nei cuori quel particolare tipo di morale che consiste nel volere la verità a tutti i costi.
La verità incondizionata, assoluta, non una parvenza di verità, e tanto meno una verità buona a consolare ma non a convincere. In un´ottica cristiana Dio non esita a mandare al diavolo i suoi teologi, così premurosi e falsi, e a informarli che solo Giobbe ha avuto il coraggio di dire la verità su di lui.
Per un verso Nietzsche usa i toni più duri e sprezzanti: «A chi oggi mi risulta ambiguo nei riguardi del cristianesimo non do neppure la mano: c´è un solo modo di essere onesti in proposito: un no assoluto». Per l´altro parla di una tensione spirituale la cui origine è cristiana: «Anche noi che oggi indaghiamo, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere il fuoco dall´incendio scatenato da una fede millenaria». Con Goethe Nietzsche ripete: solo Dio contro Dio, ci vuole Dio per far fuori Dio. La negazione e la soppressione del cristianesimo sono cosa del cristianesimo. Quel cristianesimo che costringe l´uomo ad aprire gli occhi sulla morte di Dio.
Che cosa rimane alla fine di questa tragedia più grande di qualsiasi tragedia del passato, anche se si tratta piuttosto di un naufragio, di un inabissarsi di ogni speranza e di ogni senso fin qui tenuti per certi? La risposta di Nietzsche è netta, inequivocabile: non resta più niente. O se si preferisce, resta il grande niente, resta il grande vuoto. Della cui vastità non abbiamo che una pallida idea, come dimostrano coloro, e sono i più, che vi si sono tranquillamente adattati, mentre altri, maggiormente consapevoli, continuano a porre domande.
Naturalmente è possibile tentar di colmare questa specie di sperdimento mentale o di vertigine con i detriti che il fiume della storia ha trascinato con sé. Tra di essi c´è per l´appunto la dottrina dell´eterno ritorno e l´idea del superuomo. Ma c´è anche la sostituzione del dio cristiano con Dioniso. Per non parlare del vagheggiamento d´un certo eroismo sublime, che dice sì alla vita così com´è, col suo carico di gioia e di sofferenza e indifferente al bene e al male. Cui segue però da parte di Nietzsche la confessione: «Sono l´opposto d´una natura eroica», immediatamente affiancata dal riconoscimento d´una certa affinità con Gesù, il mite predicatore delle beatitudini. Fino all´identificazione con la più improbabile delle divinità: Dioniso crocifisso.
Insomma, tutto e il contrario di tutto. Sembra che Nietzsche si diverta a fare le prove generali del fantastico spettacolo in allestimento per quando il mondo si sarà liberato dal cristianesimo. Per sé egli riserva la parte della stella danzante nel caos. Ma ci crede davvero? Non è lui il primo a sapere che la stella da cui viene un´ultima luce sul mondo è una stella ormai spenta? Qui Jaspers chiude con un avvertimento. Ed è che Nietzsche lancia «un grido micidiale» a coloro che si lasciano sedurre da lui e pretendono di portare avanti il suo pensiero, magari professandosi cristiani: «A questi uomini di oggi non voglio essere luce, da loro non voglio essere chiamato luce. Costoro, li voglio accecare: lampo della mia sapienza! Cavagli gli occhi!»

Repubblica 1.8.08
Goethe e Eckermann
Quelle conversazioni intessute d’armonia
di Pietro Citati


Sono uscite in una nuova edizione le memorie dei colloqui tra il grande scrittore tedesco negli ultimi anni di vita e il suo segretario, ricordi illuminati dall´infallibile forza della fedeltà
Ai salotti preferiva il piccolo studio dove poteva discorrere con la sua "stella polare
Quando il maestro morì si sentì in esilio. Ma poi lo sognò che diceva "Non sono morto"
Aveva trasformato la stanza in un piccolo zoo, con falchi, upupe, sparvieri, martore

Johann Peter Eckermann arrivò a Weimar nel giugno del l823, dopo aver percorso a piedi le strade polverose ed assolate che da Hannover conducevano nella Turingia. Pochi giorni dopo, venne invitato al Frauenplan, dove Goethe abitava. Salì l´ampia scala neoclassica, si aggirò tra i saloni illuminati, coperti di quadri e di stampe, ammirando i grandi busti di Giunone e di Antinoo e la copia delle Nozze Aldobrandini. Per la prima volta nella sua vita il modesto, poverissimo letterato sedeva accanto ai principi di questa terra: scrittori famosi, signore eleganti e pianiste alla moda che, come lui, raccoglievano nei loro taccuini le parole sublimi o insignificanti lasciate cadere dal nume di Weimar.
Ma Eckermann non amava gli splendori dei ricevimenti ufficiali; e preferiva raggiungere il piccolo studio presso il giardino, dove poteva discorrere da solo con la sua " infallibile stella polare". Sedeva vicino a Goethe in "tranquilla, amorevole conversazione". Con le ginocchia sfiorava le ginocchia di Goethe: i suoi occhi non si saziavano di guardare "quel volto robusto, bruno, pieno di rughe": le sue orecchie ascoltavano parole lente e posate, simili a quelle di un monarca carico d´anni; e si sentiva indicibilmente felice "come chi, dopo molte fatiche e lungo sperare, vede finalmente soddisfatti i suoi desideri più cari". Così, trascorsero quasi nove anni, durante i quali Eckermann rinunziò a vivere la propria esistenza. Candido, sensibile, infinitamente ricettivo, dotato di un´intelligenza calma e raccolta , si lasciò possedere da quell´immensa forza, che si agitava vicino a lui. La accolse nel suo spirito con una fedeltà devota e amorosa: ne assorbì le ultime, incomprensibili complessità; e persino il Faust II gli rivelò dei segreti che rimasero nascosti ad interpreti tanto più acuti e presuntuosi di lui (Johann Peter Eckermann, Conversazioni con Goethe negli ultimi anni della sua vita, a cura di Enrico Ganni, traduzione Alda Vigliani, prefazione Hans-Ulrich Treichel, Einaudi, pagg. 708, euro 85).
Quando Goethe morì, Eckermann rimase a Weimar. Continuò la sua solita vita. Catalogava le collezioni di Goethe: ordinava e preparava per la stampa, insieme a Riemer, i libri e gli scritti ancora inediti. Dava lezione di inglese al principe Carlo Alessandro: qualche volta era invitato a corte dal figlio di Carlo Augusto. Ma a Weimar, dopo che Goethe l´aveva lasciato, si sentiva in esilio. Tutta la forza, la gioia, l´amore e i desideri avevano abbandonato il suo spirito; e l´esistenza pesava su di lui come un incubo. Quasi solo, tristemente chiuso in sé stesso, si abbandonava alle proprie passioni infantili. Passeggiava tra le campagne e tra i boschi insieme a dei giovani amici: tirava con l´arco: studiava le mude delle capinere, dei merli gialli e dei rigogoli, gli strani costumi dei cuculi, il canto molle, malinconico, simile al suono del flauto, di certe allodole solitarie. Aveva trasformato sua stanza in un piccolo zoo, dove si aggiravano liberamente i giovani falchi, le upupe, gli sparvieri, un cane da caccia e una martora .
Passarono dei lunghi, intollerabili mesi, nei quali nessun ricordo aveva la forza di germogliare e di fiorire dentro di lui. Dopo giorni di abbandono e desolazione, Goethe gli apparve in sogno. Portava un cappotto scuro e aveva il volto fresco e colorito di chi vive all´aria aperta. "La gente pensa" gli disse Eckermann sorridendo "che Lei sia morto. Ma io ho sempre detto che non è vero; e ora con grandissima gioia vedo che avevo ragione. Non è vero, che Lei non è morto?" "Che sciocchi" rispondeva Goethe guardandolo ironicamente "morto? Perché mai dovrei essere morto? Sono stato in viaggio: ho veduto molti uomini e molti paesi. L´anno scorso ero in Svezia".
Consolato da questi sogni, durante il giorno Eckermann riusciva a scendere indisturbato nelle profondità della memoria. Il passato riaffiorava con i colori più freschi: vedeva di nuovo Goethe come se fosse vivo; e ascoltava il caro suono della sua voce . "In una giornata di sole, sedeva in carrozza accanto a me, con indosso la finanziera marrone e il berretto di panna azzurro, il mantello grigio chiaro posato sulle ginocchia. La carnagione abbronzata spirava salute, come l´aria fresca. Le sue parole intelligenti risuonavano all´intorno, coprendo il rumore delle ruote. Oppure mi rivedevo nel suo studio la sera, alla luce fievole della candela, lui seduto di fronte a me al tavolo, nella sua vestaglia di flanella bianca, la dolcezza d´animo di chi ha alle spalle una giornata ben trascorsa. Parlavamo di argomenti importanti ed elevati, e lui mi rivelava quanto di più nobile c´era nella sua natura; il mio spirito si infiammava al contatto con il suo. Tra noi regnava la più profonda armonia; mi porgeva la mano al di sopra del tavolo e io la stringevo. Poi magari afferravo il bicchiere colmo che mi stava davanti e bevevo alla sua salute senza dire una parola, mentre il mio sguardo riposava nei suoi occhi al di sopra del vino".
In quegli anni, quante altre persone cercarono di rievocare Goethe vivente! Grandi uomini di stato conservatori e oscuri studenti nazionalisti: geologi, filologi classici, storici, attori, violinisti, archeologi, astronomi, tenori e giuristi hegeliani: pittrici leziose e dame pettegole: gentiluomini russi ed inglesi: giornalisti francesi, ebrei di Boemia: Heine e Grillparzer, Mendelssohn e i fratelli Grimm, Schopenhauer, Alessandro Poerio e Mickiewicz – messaggeri di tutte le parti del mondo erano giunti a Weimar: avevano parlato con Goethe per qualche ora; e adesso risfogliavano i loro taccuini rielaborando antiche impressioni. Molti non avevano compreso nulla: qualcuno ricamava fantasticamente le parole di Goethe: qualche altro, che si era avvicinato "col batticuore e la testa cinta di nebbia", ricordava soltanto dei gesti senza importanza. Ma tutte queste testimonianze sono egualmente preziose. Il vecchio Goethe deve essere conosciuto così, attraverso mille echi e riflessi quasi anonimi, come se la sua forza preferisse manifestarsi e irradiarsi sopra tutti gli esseri umani.

il Riformista 1.8.08
Latorre: «Per ora inconciliabili con Ferrero»
«Lo dico da tempo, Vendola con noi»
di Alessandro De Angelis


«Ferrero ci dimostri dove vuole portare il partito». E ancora: «Le posizioni per ora sono inconciliabili». Nicola Latorre, vicecapogruppo dei senatori Pd, risponde al segretario di Rifondazione che su questo giornale aveva lanciato un appello a D'Alema: «Parliamo».
Senatore Latorre, cosa cambia, per voi, con la linea Ferrero? 
«Ho grande stima per Ferrero, ma la sua linea è un rifugiarsi in vecchi accampamenti, saccheggiati dalla storia, in cui non c'è più nulla. Nel paese esiste un'area a sinistra della sinistra riformista che non è un residuo del vecchio Pci, ma nella quale confluiscono culture che si inscrivono nel filone massimalista storicamente presente nella società italiana. Il tema della sua rappresentanza politica rimane».
Ferrero le dice: «parliamo». 
«Lo voglio dire in modo esplicito: il problema non è parlare con D'Alema. Ma è il rapporto tra Rifondazione e tutto il Pd, a partire dal suo segretario. Ferrero dice parliamo? E parliamo... Ma chi deve dimostrare dove vuole portare il suo partito è proprio Ferrero».
Niente alleanze, dunque? 
«Io sono convinto che la scelta fatta alle elezioni dal Pd era inevitabile. E Veltroni ha fatto bene a non allearsi con Rifondazione.
È stato un passaggio tattico inevitabile. Tuttavia ritenevo, e ritengo, che non bisogna dare a questo passaggio tattico un valore strategico. Nelle attuali condizioni considero sempre più complicata un'ipotesi di accordo politico e di governo nazionale con Rifondazione. Le posizioni sono inconciliabili».
Su quali punti? 
«Vedo che si tende ad assumere il conflitto sociale come una ideologia. Da qui ne deriva una incompatibilità tra i due termini: sinistra e governo. Su politica estera e politica economica poi, dentro Rifondazione, tornano vecchie parole d'ordine proprio nel momento in cui, su questi temi, si aprono nuovi scenari».
Quali? 
«Negli Stati Uniti pure i repubblicani rompono con il decennio Bush. E l'auspicabile successo di Obama può aprire una nuova fase nei rapporti transatlantici. Nella politica economica si sta facendo strada, in Europa, un'idea meno acritica della globalizzazione e di come si governa politicamente. Di fronte a questo Rifondazione ripropone vecchi slogan».
E le giunte? 
«Trasferire le logiche nazionali su questo livello sarebbe un grave errore. Naturalmente anche a livello locale le alleanze vanno verificate sulla base delle convergenze programmatiche».
Per il Pd, si apre uno spazio a sinistra? 
«C'è il rischio che si consolidi una sorta di bipolarismo imperfetto in cui uno dei due poli diventa una minoranza strutturale. Questo deve spingere noi del Pd a dedicarci di più a dare al nuovo partito un profilo politico e culturale, accelerando la costruzione della nuova sinistra nel paese. Voglio dire che partendo dal nostro profilo riformista dobbiamo essere in grado di dare risposte rilanciando alcuni valori: l'uguaglianza, intesa come pari opportunità, la solidarietà, il ragionare non come io ma come noi. Si tratta di valori che devono trovare slancio nella nuova sinistra che stiamo costruendo».
Sta invitando Vendola nel Pd? 
«Guardi, in un'intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno , in tempi non sospetti dissi che vedevo bene Vendola nel Pd. Se lo ripetessi ora potrei essere frainteso. E non vorrei esserlo».
Sulle riforme è nato il patto della spigola D'Alema-Fini? 
«Le colazioni sono un tratto caratteristico della vicenda politica italiana, sin dagli albori della Repubblica. Al netto di questo, c'è un dato oggettivo: la transizione del nostro sistema politico si chiude solo facendo le riforme. Il presidente Fini per la sua alta carica istituzionali, e l'onorevole D'Alema non fanno patti. I patti spettano ai partiti. Ma sono senz'altro personalità che possono dare impulso al corso delle riforme».
Da dove si parte? 
«Sul federalismo abbiamo una nostra proposta, messa a punto dai presidenti delle regioni e da Chiamparino. Sulle riforme costituzionali ripartiamo dalla bozza Violante».
E sulla legge elettorale? 
«Andremo al confronto tenendo conto che il nuovo bipolarismo italiano si va riassestando attorno a un numero più contenuto di partiti che non può essere costretto nei confini del bipartitismo. Se poi si consolida il Pd e decolla il progetto, ancora incerto, del Pdl, la bozza Bianco che si ispira al sistema tedesco diventa sempre di più la risposta adeguata».
Veltroni è d'accordo? 
«Guardi che la proposta che facciamo non mette in discussione in alcun modo il bipolarismo e la possibilità di conoscere prima le alleanze. Anzi le dirò di più: è l'unico sistema che consente alle forze politiche di presentarsi con i loro programmi e il loro volto. In definitiva di correre liberi, come dice Veltroni».
Che pensa della bozza Calderoli sulle europee? 
«Non vorrei affrontare la discussione come se fossimo al mercato del pesce: noi volevamo la soglia del tre, Berlusconi del cinque, e, alla fine lui ha proposto il quattro».
Affrontiamola diversamente. 
«Il punto è che il voto per il parlamento europeo non serve ad esprimere un governo, ma la rappresentanza. È ad essa che bisogna dare dignità. E allora non possiamo non dire che abbiamo bisogno, tutti, di dare valore alle istituzioni europee e di recuperare attorno ad esse consenso, come ci ha mostrato il recente voto irlandese. Quindi giudico come completamente sbagliato piegare questa riflessione a logiche di politica interna».
Quindi? 
«Non voglio dare numeri, ma per noi la soglia deve essere bassa. Ripeto: bassa. E quella del quattro per cento indicata da Calderoli è alta. Per il resto la proposta di Calderoli è accettabile, compreso l'aumento delle circoscrizioni».
Il Pd si è diviso sul referendum di Di Pietro sul lodo Alfano. 
«La linea su Di Pietro è assolutamente condivisa nel partito e ho molto apprezzato le dichiarazioni di Veltroni di oggi (ieri per chi legge, ndr ) sul referendum. Proprio nel momento in cui difendiamo la centralità del parlamento, non possiamo seppellirla utilizzando lo strumento referendario».