Nella notte del 2 agosto 1944 furono trucidati nel lager nazista dai due ai tremila zingari. «Nuova ondata d'odio»
L'accusa dei rom da Auschwitz: governo italiano razzista
Appello della comunità polacca e tedesca all'Europa: «Situazione senza precedenti»
di Mara Gergolet
L'appello
«E' ora che l'Europa cominci a trattare la nostra comunità come un partner di pieno diritto» Il ricordo Il capo della comunità rom polacca Kwiatkowski ad Auschwitz
L'eccidio Nella notte tra il 2 e il 3 agosto 1944 ad Auschwitz furono sterminati dai due ai tre mila rom mandati a morire nelle camere a gas del forno crematorio n.5.
Entro il 1945 ne vennero sterminati oltre mezzo milione
Deportati I rom furono deportati ad Auschwitz nel 1941, nel «campo per famiglie zingare». Un triangolo nero sul braccio indicava che erano «asociali»
BERLINO — Sono venuti a ricordare la notte dell'eccidio. Quando, tra il 2 e il 3 agosto 1944, dai due ai tremila rom — tutti quelli che erano rinchiusi nel campo di concentramento di Auschwitz — furono mandati a morire nelle camere a gas del forno crematorio n.5.
Rom polacchi e tedeschi insieme, ma anche i rappresentanti dei governi della Slovacchia, Polonia e Ungheria, l'ampia fascia dell'Europa centrale (Romania compresa) che è la patria d'origine di questa «minoranza» di 10 milioni di persone. E da Auschwitz — il luogo simbolo del loro sterminio, non meno che di quello degli ebrei — hanno lanciato accuse forse mai così dirette, «ufficiali» e dure all'Italia.
«Da quasi un anno, c'è in Italia una situazione senza precedenti nella storia dell'Europa dopo la fine della II guerra mondiale » dice il capo della comunità polacca, Roman Kwiatkowski. «Le autorità regionali e centrali si sono unite all'ondata d'odio alimentata dalla maggioranza dei media». Non basta: «Per la prima volta dalla fine della guerra, uno Stato si è attivamente impegnato in una politica di repressione e discriminazione nei confronti di una comunità nazionale ». Parla davanti a trecento persone. Uomini in vestiti scuri e, a volte, cappelli bianchi di paglia, qualche donna, pochi sopravvissuti, una decina di bambini. Depongono lumini e rose rosse, dove di solito si portano pietre.
Ad Auschwitz, si stima, morirono più di 20 mila rom. La tappa finale della persecuzione nazista che, ponendo «gli zingari» sul gradino infimo della scala umana, una razza più «degenere » di quella ebraica, fin dal 1935 cominciò a stivarli in ghetti ai margini delle città sorvegliati dalle SS e, poi, a sterilizzarli. Ad Auschwitz i rom e i sinti arrivano nel 1941, un triangolo nero sul braccio a segnalare che erano «asociali», le prime vittime per i disumani esperimenti del dottor Josef Mengele. Finché, il 2 agosto, i gerarchi decisero di liquidare il Zigeunerfamilienlager
e i suoi abitanti. Saranno oltre mezzo milione (ma alcuni storici sostengono un milione e mezzo) i rom sterminati dai nazisti entro il 1945.
Un attacco al governo italiano preparato e meditato, dopo le polemiche sulle impronte ai rom, le critiche dell'Ue e di organismi dei diritti umani come il Consiglio d'Europa. E concertato, perché dopo il polacco Kwiatkowski, parla anche il rappresentante dei tedeschi, Romani Rose. La politica italiana, dice, mira a colpire i rom di tutti i Paesi dell'Unione. Un appello all'Ue perché elabori una «politica comune ». «È l'ora — dice — che l'Europa cominci a trattare la nostra comunità come dei partner di pieno diritto».
l’Unità 3.8.08
Il caso Englaro
«Ho votato no, l’ho fatto per Eluana»
Intervista a Barbara Pollastrini di Maria Zegarelli
Pollastrini: «Il mio no per Eluana»
L’ex ministra non è uscita dall’aula come il resto del Pd. «Così ho espresso la mia vicinanza umana»
DISOBBEDIENZA Quando tutto il gruppo Pd è uscito dall’aula durante il voto per il conflitto di attribuzione sul caso di Eluana Englaro, lei è rimasta al suo posto. Non ce l’ha fatta. Ha votato no. «Non è stata una scelta in polemica con il mio partito».
Barbara Pollastrini, lei una disobbediente... Perché ha votato “no”?
«È la seconda volta in nove anni di esperienza parlamentare che dò un voto diverso dal mio gruppo. L’unico precedente riguardava la pace. L’altro giorno ho semplicemente fatto una scelta personale, avevo bisogno di esprimere anche in questo modo una vicinanza a Eluana e alla sua famiglia. Ma anche la ribellione a una destra che persino su temi etici e umani usa la forza dei numeri come una clava».
La decisione del Pd di uscire dall’aula ha creato polemiche. C’è stata o no una difficoltà a trovare l’accordo sul “no”?
«Non ho vissuto questo passaggio della discussione nei gruppi di Camera e Senato come una divisione al nostro interno. In questa vicenda non ci siamo tirati indietro. Ci sono stati l’intervento autorevole di Zaccaria e quello appassionato del professor Ignazio Marino. Al Senato è stato approvato un ordine del giorno in cui si chiede di discutere la legge sul testamento biologico. C’è stata una presa di posizione di Veltroni, la controrelazione alla Camera presentata dalla vicepresidente Rosy Bindi, la lettera del capogruppo Soro al presidente Fini... Il Pd è un grande partito anche per la ricchezza delle convinzioni e delle culture, è chiaro che il dibattito ogni volta è articolato, ma l’importante è arrivare ad un punto di sintesi alto».
Il problema sembra proprio questo. Sul testamento biologico il Pd ha due proposte: quella di Marino, sottoscritta da 101 senatori e quella di Baio Dossi, sottoscritta da 36 cattolici...
«Non è così, la divisione non è tra laici e cattolici perché molti cattolici hanno firmato e condividono la proposta di Ignazio Marino. Noi potremo diventare davvero un grande partito se riusciremo a trovare un profilo culturale robusto e il lavoro che ha portato al testo presentato da Marino va in questa direzione, è frutto di una ricerca e di un confronto approfonditi, propone una mediazione alta. Personalmente sento di dovere molto a Marino perché è sempre stato animato dalla volontà del dialogo e della contaminazione dei pensieri, non è mai caduto nella trappola degli antichi steccati tra laici e cattolici».
Rutelli dice che è più facile staccare la spina che prendersi cura e assistere continuamente i malati. Non le sembra una posizione chiara sul caso Englaro?
«Non mi permetto di dare valutazioni in segno di rispetto della famiglia Englaro. Penso che quando si tratta di temi che chiamano in causa principi, valori ed etica, non parliamo di un antico conflitto tra Guelfi e Ghibellini che appartiene alla storia, né parliamo di uno scontro tra laici e cattolici. Ci si confronta su come interpretare nel presente il grande tema dei diritti della persona nei momenti più drammatici della vita. Sarebbe banale se etichettassimo la discussione come uno scontro tra laici e cattolici, la politica quando discute di questi argomenti deve avere una bussola: mantenere uno sguardo laico, avendo come riferimento la Costituzione italiana, la Carta di Oviedo, le direttive e gli insegnamenti che ci arrivano dall’Europa. Chiediamoci, e lo dico alla destra, come mai in quasi tutti i paesi europei, negli Stati Uniti, in Australia si siano dati delle leggi molto simili alla proposta di Marino. Forse è davvero arrivato il momento di aprire un dibattito parlamentare serio e approfondito per dotarci di una legge».
L’italia nel 2008 ancora non ha una legge sulle coppie di fatto. Non c’è riuscita con il governo Prodi. Speranze con quello Berlusconi?
«Il programma del Pd ha un chiaro riferimento al riguardo e quello resta il nostro obiettivo. Combatteremo, alcuni di noi hanno già depositato delle proposte nelle commissioni competenti, ma con questa destra sarà difficile. Basta tornare con la mente al discorso di insediamento del premier: non è stato neanche richiamato alla lontana il tema dei diritti e doveri dei cittadini. Anche il termine “diritti umani” è stato solo sfiorato. Il ministero delle Pari Opportunità non si chiama più «dei Diritti e delle Pari Opportunità. Le parole hanno un forte valore anche simbolico, e questi tre fatti messi insieme rendono bene l’idea di come agisce questa destra. Dunque spetta a noi continuare la battaglia. Il Partito democratico è il partito che ha nel suo Dna la convinzione che non ci si debba arrestare mai per l’affermazione e l’allargamento dei diritti civili e umani. In una idea di democrazia il valore essenziale è quello della persona, cioè i suoi diritti e suoi doveri. Non ci sono dei diritti riconoscibili e altri no, dei doveri importanti e altri meno. I diritti delle coppie di fatto non sono meno importanti di altri».
l’Unità 3.8.08
Come può Eluana dividere uno Stato?
di Tania Groppi
Il drammatico caso della giovane Eluana non divide soltanto le coscienze (e i gruppi parlamentari). Ma anche i poteri dello Stato. E costituisce l’ennesima occasione per un attacco alla magistratura.
Per la prima volta nella storia della Repubblica, il Parlamento ha deciso di sollevare un conflitto tra poteri per difendere la propria sfera legislativa, ritenuta invasa dalla sentenza con cui la Corte di Cassazione (e poi, di conseguenza, la Corte d’Appello di Milano) ha ritenuto legittimo sospendere i trattamenti che permettono di mantenere Eluana Englaro artificialmente in vita.
La maggioranza parlamentare, con un colpo di fantasia degno di un prestigiatore, di fronte alla mancanza di una legge sulla fine della vita, anziché procedere speditamente ad approvarla (riprendendo il lavoro già svolto nelle precedenti legislature in materia di testamento biologico), ha deciso invece di attaccare il potere giudiziario, nella specie la sua massima e più autorevole espressione, la Corte di Cassazione. Criticando i contenuti della sentenza dell’ottobre 2007 (definita “frettolosa”) ma soprattutto accusandola di avere un contenuto sostanzialmente legislativo. La Corte di Cassazione si sarebbe trasformata indebitamente da interprete del diritto in creatore del diritto, si sarebbe fatta legislatore, violando il principio della separazione dei poteri.
La questione viene quindi sottoposta alla Corte Costituzionale, che dovrà decidere nei prossimi mesi. Una nuova tappa in una lunga e drammatica vicenda umana e giuridica.
Una tappa peraltro anche di un’altra ormai annosa storia, che travaglia la nostra democrazia ben più di quanto avvenga in altri paesi. Si è di fronte, infatti, all’ennesimo tentativo di piegare le ragioni del diritto a quelle della lotta politica, attraverso l’utilizzazione impropria di uno strumento giuridico, il conflitto di attribuzione, al fine di affermare una concezione del diritto dei rapporti tra i poteri alternativa a quella prevista dalla nostra Costituzione.
Sul piano strettamente giuridico, infatti, i precedenti della Corte Costituzionale portano dritti alla manifesta inammissibilità del conflitto, in camera di consiglio e con ordinanza, già in sede di prima delibazione.
Basta richiamare due aspetti. Prima di tutto, la carenza di interesse a ricorrere. Le Camere lamentano l’invasione di una competenza, quella a legiferare sulla fine della vita, che non hanno mai esercitato: la giurisprudenza costituzionale è costante nel richiedere una lesione della competenza “in concreto” affinché possa essere ammissibile il conflitto di attribuzione. Tale lesione non può ritenersi sussistere in un caso come il presente, nel quale per rimuovere l'effetto ritenuto invasivo il parlamento potrebbe semplicemente legiferare, colmando così esso stesso la lacuna.
In secondo luogo, inammissibilità della censura perché si denunciano “errores in iudicando”, ovvero il “cattivo uso” del potere giudiziario. Se accolta, trasformerebbe la Corte Costituzionale in un ulteriore grado di giudizio, attivabile ogni qualvolta il Parlamento non “gradisca” una interpretazione giudiziaria.
Ma c’è di più. Si tratta di un atto che disvela la radicale incomprensione (per non dire la negazione), da parte di questa maggioranza, per la forma di Stato in cui viviamo, quella della democrazia costituzionale. Che si traduce nella nostalgia giacobina per lo Stato legislativo, di cui gli interventi in aula e la stessa delibera di ricorrere sono impregnati. Quello che si vuole “restaurare”, come hanno messo in luce al Senato i relatori dell’opposizione, è lo Stato legislativo basato sulla centralità della legge, fonte suprema del diritto, rispetto alla quale i giudici altro non sono che “bouches de la loi”, chiamati ad applicarla meccanicamente attraverso i meccanismi del sillogismo giudiziario.
Si chiede alla Corte Costituzionale di mettere in atto una sorta di référé legislatif sul modello della costituzione francese del 1791, che implicava, a tutela della legge, il ricorso al Tribunal de Cassation «établi auprès du Corps législatif» per l’annullamento delle sentenze, proprio per impedire l’interpretazione della legge e per assicurare il prevalere della volontà del legislatore su quella dei giudici.
Questa è la separazione dei poteri che si vuole garantire, una separazione dei poteri estranea allo Stato costituzionale in cui viviamo, nel quale al vertice dell'ordinamento non si trova la legge, ma la costituzione e il patrimonio di diritti che essa garantisce ai singoli: una “dotazione di diritti” originaria, indipendente e protetta nei confronti della legge. Nello Stato costituzionale il ruolo del giudice, che lo vogliamo o no, che ne siamo consapevoli o no, non è quello di mero applicatore della legge: egli è chiamato a valutarne la costituzionalità e a dettare la regola del caso concreto, attraverso le tecniche del bilanciamento e l’applicazione diretta dei principi costituzionali. E ciò è tanto più vero quando, come nel caso che qui ci interessa, una legge approvata dal Parlamento non ci sia. Di fronte a questa lacuna, che chiamerei piuttosto “omissione del legislatore”, al fine di garantire i diritti non ci sono che due soluzioni: l’applicazione diretta dei principi costituzionali, con effetti inter partes, nel caso concreto, da parte dei giudici, oppure l’intervento, erga omnes, in funzione di supplenza del legislatore, da parte della Corte Costituzionale.
È stata la Corte stessa, con un orientamento costante nella sua giurisprudenza, ad incoraggiare l'attivismo interpretativo dei giudici, allo scopo, assai chiaro, di preservare la sfera del legislatore. L’alternativa, infatti, una sentenza additiva della Corte Costituzionale con conseguenze erga omnes e vincolante anche per il legislatore (tranne che per quello costituzionale) sarebbe assai più invasiva della pronuncia di un giudice comune, che resta circoscritta alle parti e lascia spazio a un futuro intervento legislativo ordinario.
Leggiamo correttamente, e non stravolgendola come è stato fatto dalla maggioranza nel corso dei lavori parlamentari la sentenza n. 347 del 1998 sulla fecondazione assistita. In assenza di una norma di legge, la Corte dichiarò inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Napoli, che le chiedeva una sentenza additiva, le chiedeva di “farsi legislatore”, affermando che «L’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore. Tuttavia, nell’attuale situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali».
Pertanto, invece di sollevare conflitti fasulli a meri scopi propagandistici contro un giudice (e che giudice! È la nostra Corte di Cassazione) che si è limitato a svolgere il suo ruolo costituzionale (garantire i diritti applicando i principi nel caso concreto), sarebbe invece bene che il Parlamento si interrogasse sulle ragioni del suo silenzio.
È davvero il legislatore intenzionato, sulle questioni eticamente sensibili, a tacere? A lasciare al potere giudiziario, sotto la pressione inarrestabile dei casi, la soluzione? Con i rischi in ciò insiti, non solo per il principio democratico, ma anche per quello di uguaglianza, dato che le soluzioni date dai giudici inevitabilmente determinano difformità e disuguaglianze. Oppure, anche nello Stato costituzionale, il Parlamento non ritiene sia giunta l’ora di riappropriarsi della sua funzione di attuare i principi costituzionali garantendo i diritti con effetti erga omnes, smentendo in tal modo chi lo vuole votato ad una inevitabile marginalizzazione? Non è attaccando il potere giudiziario, ma riprendendo il proprio ruolo istituzionale, che il Parlamento potrà difendere la sua potestà legislativa.
Repubblica 3.8.08
Il bene di vivere e il diritto di morire
di Eugenio Scalfari
QUANDO Emanuele Severino e Umberto Galimberti segnalarono l´irruzione della tecnica nel mondo dell´etica sembrò ai più che la questione avesse un contenuto esclusivamente filosofico e quindi astratto e di scarsa importanza pratica.
Se ne erano del resto già occupati scrittori e filosofi americani e, in Europa, tedeschi, inglesi, francesi, spagnoli, greci. Era insomma una questione posta dall´attualità e dall´evidenza: la tecnica, la "tecné", aveva conquistato una vera e propria egemonia che incideva nel mondo dei comportamenti sociali, determinava lo sviluppo dell´economia, accresceva ma al tempo stesso vulnerava i territori della libertà.
Le reazioni più preoccupate da quell´egemonia provennero dal campo religioso, sia di parte cristiana sia di parte islamica sia dalle numerose credenze asiatiche: le religioni denunciavano lo squilibrio tra il progresso tecnico e quello morale e vedevano la propria autorità sempre più insidiata dai progressi delle scienze che non ammettevano limiti alla ricerca né si preoccupavano che i risultati di volta in volta raggiunti fossero compatibili con le verità rivelate delle quali le religioni ritenevano di avere esclusiva rappresentanza.
La discussione investì tutte le culture e divenne tanto più intensa quanto più si avvicinava alla fine del secolo e del millennio, con l´inevitabile carica apocalittica che i grandi eventi portano con loro. Sul bordo del XXI secolo e del terzo millennio dell´era cristiana il tema era ormai chiaro in tutta la sua importanza. Non si trattava più soltanto dell´egemonia ma addirittura dell´avvenuto capovolgimento di dipendenza tra l´uomo e gli strumenti da lui creati: non erano più al suo servizio quegli strumenti, ma era l´uomo al servizio della "tecné", diventata ormai un´ideologia possessiva alla quale l´intero genere umano si era piegato e asservito.
Siamo ormai tutti "tecno-dipendenti" in ogni atto e momento della nostra vita e tutti in un modo o in un altro lavoriamo per accumulare nuovi saperi che accrescono il potere della tecnica a detrimento della nostra libertà.
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Ricordo queste vicende perché da allora, nei pochi anni trascorsi, il tema non è più soltanto filosofico, religioso, scientifico, ma ha fatto irruzione anche nella politica. Come ha rilevato Aldo Schiavone pochi giorni fa su questo giornale, ha messo in discussione due momenti topici dell´esistenza di ciascun essere umano: il momento della nascita e quello della morte, la nostra entrata e la nostra uscita dal mondo.I due eventi che dominano la nostra intera vita, l´alfa e l´omega delle nostre esistenze individuali, erano fino a poco fa al di fuori del nostro controllo. Ma ora non è più così poiché la tecnica se ne è impadronita: ha creato strumenti che consentono di determinare la nascita non solo secondo natura ma anche in laboratorio ed ha prolungato la vita anche oltre i limiti posti dalla natura.
Le religioni – e quella cattolica in particolare – hanno assunto un atteggiamento dogmatico e ideologico sul tema della vita, trasformandolo in una vera e propria ideologia. Per quanto riguarda la nascita la Chiesa ha rigorosamente vietato la contraccezione respingendo ogni strumento tecnico che potesse limitare le nascite; sul tema della morte al contrario la Chiesa difende il ricorso agli strumenti che la tecnica è in grado di fornire per prolungare artificialmente una pseudo-vita al di là dei limiti segnati dalla natura.
Questo duplice e contraddittorio atteggiamento che vieta la tecnica limitatrice di nascite non volute e invoca invece la tecnica capace di mantenere una vita artificiale, ha ideologizzato la discussione facendo irruzione nella politica, nei governi, nei parlamenti. Si è arrivati al punto di far votare dagli elettori e dai loro rappresentanti parlamentari questioni di estrema privatezza, con tutte le torsioni politiche ed etiche che queste intrusioni comportano nelle coscienze e nella libertà individuale. La privatezza della morte è diventata argomento pubblico non solo come indirizzo generale ma perfino nei casi specifici di questo e di quello. Di conseguenza, mettendo in discussione alcuni diritti fondamentali degli individui, anche la magistratura è stata chiamata in campo.
La discussione sui principi si è incattivita e imbarbarita. Attorno alle camere di rianimazione si svolgono polemiche interminabili; le Corti di giustizia emettono verdetti contrapposti e sentenze inaccettate. Nel caso attualmente aperto di Eluana Englaro le Camere sollevano addirittura conflitti di competenza tra potere legislativo e potere giudiziario. La Corte costituzionale è ora chiamata a sciogliere una questione a dir poco imponderabile, al solo dichiarato intento da parte della maggioranza di centrodestra di guadagnare qualche settimana o mese di tempo lasciando l´esistenza di una persona tecnicamente già morta da 16 anni, agganciata ad un tubo che le somministra sostanze capaci di ossigenarle il sangue, come si trattasse d´una pianta e non di una vita umana.
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La vita e la morte sono argomenti non decidibili o almeno così dovrebbe essere. Esperienze che segnano il carattere e la coscienza di ciascuno. Il nostro destino. La nostra dignità. La nostra libertà.Scendere da questo livello e discutere se abbia giudicato correttamente un Tribunale, una Procura, una Corte di cassazione; se una legge debba colmare il vuoto di legislazione e in che modo la sua precettistica debba essere formulata: tutto ciò immiserisce una questione che dovrebbe essere affidata alla volontà responsabile della persona interessata o ai suoi legali rappresentanti se l´interessato non è in condizione di intendere, di esprimersi, di volere.
Ma poiché questa è in una molteplicità dei casi lo stato di fatto, di esso bisognerà dunque discutere superando il disagio che ce ne deriva. Le domande che ci dobbiamo porre nel caso specifico di Eluana sono le seguenti: esiste una manifestazione chiara e recente di volontà dell´interessata? Se non esiste o è considerata remota ci sono persone validamente in grado di decidere per lei? Infine: su quali punti d´appoggio o principi si basa la sentenza della Suprema Corte che ha autorizzato il padre di Eluana a interrompere le cure e determinare l´arresto del cuore, pulsante in un corpo che è in coma da 16 anni con encefalogramma piatto e una vita non umana ma vegetale?
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Sappiamo che Eluana manifestò ripetutamente la sua volontà di non sopravvivere alla propria eventuale morte cerebrale. Lo fece ancor giovanissima, perfettamente sana e consapevole, in seguito alla traumatica esperienza di aver visto e assistito persona a lei cara che si trovava in condizioni di morte cerebrale cui per sua fortuna seguì di lì a poco quella cardiaca.I fautori ad oltranza dell´ideologia della vita obiettano che quelle manifestazioni di volontà siano remote rispetto al momento in cui Eluana entrò in coma e quindi "scadute", prive di legittima volontà. L´argomento a sostegno di questa tesi si appoggia alla considerazione che in una materia così delicata e privata si può cambiare parere fino ad un attimo prima dell´ultimo respiro. È vero, si può cambiare parere fino all´ultimo respiro se si è in condizioni di cambiar parere e di esprimerlo. Ma se si è già morti cerebralmente? L´espianto degli organi con i quali si salvano altre vite non avviene forse quando la morte cardiaca non è ancora avvenuta e gli organi sono ancora vitali se l´autorizzazione a disporne è già stata data e i se i parenti consentono?
Alla seconda domanda la risposta è netta: il padre e la famiglia di Eluana, che l´hanno assistita per sedici anni ed hanno raccolto una serie di evidenze cliniche sull´irreversibilità del suo stato, vogliono che la vita artificiale non prosegua e che cessi l´accanimento terapeutico. Esprimono in nome della propria figlia il rifiuto delle cure in atto; un rifiuto che è un diritto riconosciuto del malato o di chi lo rappresenta.
Infine la terza domanda: la validità della sentenza della Cassazione. La Suprema Corte è stata chiamata a giudicare sul diritto dell´interessata o di chi la rappresenta di rifiutare le cure. Non ha neppure avuto bisogno di fondare la sentenza sulle manifestazioni di volontà di Eluana di molti anni fa. Ha accertato, la Suprema Corte, l´inesistenza di una legislazione in materia e si è quindi rifatta, come è suo dovere prescritto in Costituzione, al diritto del malato, anch´esso riconosciuto in Costituzione, di rifiutare le cure.
Sentenza ineccepibile: in assenza di norme e in presenza di diritti costituzionalmente garantiti la Corte giudica in base ai principi dell´ordinamento giudiziario che riconosce il dovere del giudice di tutelare i diritti dei cittadini.
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Le Camere su istanza dei deputati e dei senatori di centrodestra, hanno voluto sollevare conflitto di competenza. Non spetta alla magistratura intervenire bensì al popolo sovrano e a chi lo rappresenta, di fornire una normativa che regoli la questione.Nessuno nega che spetti al potere legislativo legiferare e non certo alla magistratura, ma qui siamo in una situazione in cui il potere legislativo non ha legiferato provocando un vuoto nel quale solo alla magistratura incombe il dovere di tutelare diritti riconosciuti in Costituzione.
Non esiste dunque conflitto tra i due poteri. Quello giudiziario è intervenuto in difesa d´un diritto in mancanza di legislazione. Quando quel vuoto sarà riempito la magistratura disporrà di una legge e dovrà applicarla sempre che essa non sia in contrasto con i principi costituzionali.
Vedremo comunque quale sarà la sentenza della Corte costituzionale investita del problema.
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C´è stata polemica sul comportamento dei deputati e dei senatori del Partito democratico, che in entrambe le votazioni sul conflitto di competenza hanno preferito disertare l´aula anziché votare contro. Giustamente, a mio avviso, Miriam Mafai ha severamente criticato quella decisione. Penso tuttavia opportuno distinguere quanto è avvenuto alla Camera dei deputati da quanto è avvenuto in Senato.Alla Camera, come poi al Senato, i rappresentanti del Pd hanno espresso la loro opposizione al conflitto di competenza sollevato dalla maggioranza e si sono poi assentati dall´aula per non provocare crisi di coscienza tra i deputati cattolici aderenti al Pd.
Al Senato invece è stato presentato un ordine del giorno proposto da Luigi Zanda che stabiliva l´impegno a discutere ed approvare la normativa sul testamento biologico entro l´anno in corso. L´ordine del giorno è stato votato anche dai senatori di centrodestra e appoggiato dal presidente del Senato. L´astensione ha avuto dunque una contropartita abbastanza forte.
Duole tuttavia registrare che una parte di parlamentari democratici e cattolici ha presentato un disegno di legge sul testamento biologico difforme in alcune parti sostanziali da un altro analogo documento di legge presentato dallo stesso Partito democratico.
È evidente che queste differenze dovranno essere sanate prima dell´inizio del dibattito parlamentare. Il Pd su un argomento di questa importanza non può che avere una sola voce, ispirata alla laicità dello Stato oltreché alla tutela dei diritti del malato.
Ci sono molti problemi davanti al Pd che dovranno esser chiariti entro il prossimo autunno, ma sarebbe grave se questo tema non fosse considerato tra quelli prioritari. Dall´incontro tra laici e cattolici democratici è nato il Pd. La laicità è stato fin dall´inizio considerato il valore fondante. Questa è la prima prova concreta per saggiare la validità dell´incontro tra quelle due culture. Se la prova fallisse le conseguenze metterebbero in discussione l´esistenza stessa del partito.
l’Unità 3.8.08
Il muro
di Furio Colombo
Gli addetti lavorano svelti e senza molto disturbo o distrazioni. Dove c’era un passaggio per la giustizia, in modo che l’azione del giudice potesse intercettare il sospetto colpevole, adesso c’è il blocco di cemento del “lodo Alfano”. Tiene strettamente legati insieme colpevoli e innocenti. In questo modo i colpevoli sono salvi per sempre, come non avviene in nessun luogo del mondo democratico. Lo dimostrano le dimissioni del Primo ministro israeliano Olmert. È inseguito da un’inchiesta che non si è fermata mai (benché quel Paese sia in situazione di grande emergenza). Ma Olmert, non ha mai lamentato persecuzioni. E prima del processo si è dimesso senza tentare di coinvolgere nel suo destino le altre cariche dello Stato.
Ma - voi direte - l’Italia è la patria del diritto. Forse è per questo che, sfidando non solo il nostro diritto ma anche il diritto degli altri europei e degli altri esseri umani, si è provveduto a murare il percorso di civiltà o anche solo di media umanità che porta verso i cosiddetti campi nomadi, in modo da isolare bambini poveri senza diritti a cui vengono prese a piacimento le impronte digitali che violano ogni principio, ma aggiungendo il sarcasmo tipico del governare ottuso e totalitario. Invece de «Il lavoro rende liberi» adesso c’è scritto (e ripetuto ben oltre il ridicolo, persino dal premier italiano in pomposa conferenza stampa, lasciando un po’ indignati il collega rumeno e il commissario europeo Hammerberg) che «le impronte digitali fanno bene ai bambini». Come se, invece di essere forzati a premere, impotenti, il piccolo dito sul tampone, ricevessero una medicina. Maroni, non può sapere che sta ricreando, in tutto il suo squallore, il mondo dickensiano dei “poveri per sempre” o “poveri come razza” di Oliver Twist.
Berlusconi avrà scorso qualche sceneggiatura sul tema, sa che comunque fa “audience” (il solo tema a cui è sensibile, oltre alla sottomissione dei giudici).
E comunque ha bisogno di Bossi, Borghezio, dei leghisti peggiori, tipo Salvini con cane anti-negro al guinzaglio, tipo Cota, che invece offre il candore di non saper leggere le parole di Mameli (crede e dice alla Camera che l’Italia, e non la vittoria, è “schiava di Roma” nell’Inno che lui crede dei calciatori, e gli sfugge la metafora, seguendo l’esempio del futuro condottiero Renzo Bossi). E butta avanti la “sicurezza” presieduta dai militari come in Honduras. Lancieri e granatieri occuperanno le città italiane d’agosto e daranno man forte, insieme alla crisi di abbandono dell’Alitalia, alla fuga dei turisti. Nessuno decide di fare vacanza in un Paese in cui “la sicurezza” (parola codice per indicare il rigetto verso i Rom e gli immigrati in genere, quegli stessi immigrati che muoiono di fatica e di lavoro, ma senza pensione) diventa “emergenza” (parola gravissima, molto dannosa e mai spiegata) ed è necessaria l’azione continua e convulsa del ministro dell’Interno e del ministro della Difesa, i Graziani e i Badoglio della nuova Italia di destra, finalmente tornata libera di sognare il peggio. Del resto, la sapete l’ultima? Il sindaco leghista di Novara, Massimo Giordano, vieta gli assembramenti di più di tre persone, proprio come nell’Italia del 1933.
Di là dalla barriera un po’ folle di poliziotti senza paga e senza benzina e di soldati “ad arma corta” mandati a cercare nemici che non ci sono, nelle città vuote, si intravedono ospedali sul punto di chiudere (dalla Lombardia al Lazio) per i tagli della prodigiosa nuova Legge finanziaria che rifiuta di rimborsare le Regioni. Se sono ancora in funzione e ancora senza ticket, quegli ospedali sono infestati dalla nuova piaga della Sanità italiana: i medici obiettori. Sono medici che, di giorno, negano di essere obiettori per preservare l’inclita clientela della ricca pratica privata. Ma improvvisamente diventano obiettori di notte, al Pronto soccorso, a voce ben alta, preferibilmente di fronte alle suore, in modo che la coraggiosa dichiarazione giovi alla tanto attesa promozione a primario. Quando si tratta di negare l’iniezione anti-dolore alla donna povera che viene all’ospedale pubblico per partorire, quando si tratta di negare la pillola del giorno dopo o assistenza e indicazioni anticoncezionali a sciagurate ragazze che non solo non sono caste, ma non sono neanche ricche, i medici obiettori esibiscono tutta la loro fede e ubbidienza cristiana. Qualcuno deve pur insegnare a queste pazienti pretenziose che non sono a Copenaghen o a Lione, quando cercano assistenza in un ospedale pubblico italiano. Sono in territorio Vaticano. E in territorio Vaticano “partorirai nel dolore” (roba che ha a che fare col peccato originale) ma vivrai per sempre. Vedi la condanna del Parlamento italiano e della Procura generale di Milano che comandano a Eluana Englaro, la giovane donna in stato vegetativo da 16 anni, di restare legata ai sondini per sempre perché in questo Paese è proibito, per rifiuto di fare la legge, il testamento biologico. Ed è proibito morire con dignità perché non c’è la legge.
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Altri muri sono in corso di rapida costruzione a Sud e a Nord del Paese per impedire la libera circolazione della normalità e della media civiltà occidentale attraverso l’Italia. A Sud il separatista siciliano Lombardo, divenuto avventurosamente Presidente della Regione, ha dato il via alla spaccatura, pubblica e simbolica, di tutte le targhe di piazze e di vie che si riferiscono all’Unità d’Italia. Si spaccano davanti alle telecamere le targhe che indicano luoghi, celebrazioni o memorie di Garibaldi, dei Garibaldini, dell’impresa dei Mille, dei plebisciti che hanno votato l’Unità d’Italia, di eventi del Risorgimento italiano, di personaggi come Cavour.Al Nord sindaci xenofobi opportunamente dotati di poteri speciali di polizia che scardinano in ogni senso la norma costituzionale «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione», governano con cattiveria contro immigrati e Rom (anche se cittadini italiani) guidati dalle loro piccole menti senza storia, ispirati dalla grettezza, isolati persino dal contesto produttivo delle loro città dove le fabbriche cercano e chiedono nuovi lavoratori.
Hanno denominato il loro finto paese “Padania”, nei loro luoghi invocano la secessione, al punto di far giocare la loro “nazionale” di calcio nel campionato degli Stati non riconosciuti (che vuol dire ovviamente “non ancora riconosciuti, cioè non ancora liberati). Ma occupano a Roma vari ministeri, fra cui il ministero dell’Interno, realizzando per la prima volta l’operazione inversa: il partito secessionista occupa il Paese da cui dichiara di separarsi e impone a tutti gli altri italiani i suoi “valori”, inventati o recuperati nelle sottoculture locali. Dovreste ascoltarli a Roma, quando in Parlamento parlano e insultano in nome della Padania senza che il Presidente dell’Assemblea li interrompa per dire: «Scusi onorevole, ma lei è un deputato italiano e questo è il Parlamento italiano. In questo Parlamento nessuno ha mai detto, o anche solo discusso, che cosa sia la Padania». Indifferenti, questi secessionisti operano sul territorio per far apparire “emergenza” e allarmata richiesta di sicurezza il meno pericoloso Paese d’Europa (con l’eccezione, mai più citata, della criminalità organizzata e indisturbata che occupa tre regioni del Sud italiano, con solide filiali al Nord e le sue mattanze senza fine). E all’interno dello Stato praticano la crudeltà di privare gli immigrati di pensioni minime, anche se sono immigrati legali, anche se hanno lavorato come schiavi nella nuova civiltà padana.
Al Sud un muro isola e protegge il siciliano Lombardo, e nessuno sembra aver notato il ritorno (originariamente mafioso e fascista) del separatismo. È un muro di omertà giornalistica e di silenzio politico.
Al Nord la Lega si è ormai rivelata, come ci avverte con allarme l’Europa, il movimento secessionista più estremo, generatore di rancore, vendetta, razzismo. Non esita a dichiarare le sue intenzioni, letteralmente “di lotta e di governo”. Incassa, senza imbarazzo, autorevoli rimproveri per il grado estremo di volgarità, che è pronta a ripetere subito, contando sul fatto che le poche frasi o gesti o iniziative non apertamente offensive, non dichiaratamente minacciose della Lega Nord vengono subito salutate, più o meno da tutti, come grandiosi atti di civiltà.
Stampa e politica hanno già alzato un muro a protezione della Lega che - a quanto pare - interpreta sentimenti profondi degli italiani. Come il fascismo. Nel profondo, infatti, ci sono anche i sentimenti peggiori. Basta incoraggiarli, e alla fine avvelenano i pozzi del comportamento comune.
***
Il muro più alto, insopportabile per molti cittadini che non hanno altre fonti di informazione oltre la Tv, sono i media.La sera del 31 luglio il Presidente del Senato Schifani era seduto nello studio del TG 1, ore 20, per spiegare se stesso. Purtroppo non come istituzione dello Stato ma come esponente del partito di governo detto “Popolo delle libertà”. È un privilegio che altrove i titolari delle istituzioni non ricevono mai in quanto militanti politici. Persino il Presidente degli Stati Uniti - se chiede di parlare al Paese - deve dire perché.
Ronald Reagan, George Bush padre e Bill Clinton si sono visti rifiutare (Reagan tre volte) le reti unificate delle più importanti televisioni americane con questa risposta: «Il suo è un discorso politico, non presidenziale. Se vuole, lo trasmettiamo a pagamento».
Renato Schifani, Presidente del Senato in veste di voce di Berlusconi, si è sentito rivolgere questa domanda dal conduttore del Tg1: «Presidente Schifani, perché la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura non è uno scandalo?».
Ma sentite come inizia il suo servizio da Napoli, il giorno 1 agosto, Sky Tg 24, ore 14: «È tornato lo Stato. Con questo spirito il presidente del Consiglio arriva per la sesta volta a Napoli». Non un tentativo di dire al pubblico se e quale rapporto c’è tra quello spirito e la realtà, ovvero la differenza fra pubbliche relazioni, che celebrano, e giornalismo, che verifica.
Quando tocca a Berlusconi, ha questo da dire sul tanto invocato dialogo: «Per ora, da parte dell’opposizione, mancano rispetto e lealtà». Ha elencato, nell’ordine, le classiche virtù dei cani.
furiocolombo@unita.it
l’Unità 3.8.08
Agli ordini di Pinochet uccideva gli italiani
Giustizia in Italia per l’uomo di Pinochet
di Maurizio Chierici
Non è proprio una buona notizia, ma è una notizia che consola. Quando la memoria non muore e insiste per la verità, i colpevoli non hanno scampo. Il delitto politico o l’imbroglio della finanza corrotta alla fine non pagano. Ci sono voluti 35 anni ma uno degli assassini in doppiopetto del generale Pinochet finalmente è in carcere.
Alfonso Podlech Michaud è un signore elegante che apre il passaporto al poliziotto di Madrid, frontiera d’Europa per chi arriva dal Cile. Per Podlech, la moglie e due nipoti, la Spagna è solo il cambio d’aereo nel viaggio verso la vacanza di Praga.
A GIORNI SARÀ ESTRADATO in Italia Alfonso Podlech Michaud, procuratore militare del dittatore cileno nella città di Temuco. Tra le vittime della sua ferocia alcuni nostri connazionali emigrati. La moglie e figlia di uno di loro hanno raccolto prove a suo carico e dopo 35 anni finalmente la giustizia sta per trionfare
Ma il computer dice qualcosa e il poliziotto li fa accomodare in una stanza dalla porta chiusa. Podlech è inseguito dal mandato di cattura internazionale firmato dal procuratore romano Giancarlo Capaldo: fra le persone che ha fatto sparire, quattro italiani sono finiti in niente. Podlech ha 84 anni portati con la sicurezza di chi protesta sottovoce: «Sono un procuratore militare in pensione. Mi guardi bene. Voglio parlare con la mia ambasciata».
Gli agenti invece avvisano l’Audiencia Nacional, procura generale. Quando i sospetti affondano nella politica e il sospettato è solo di passaggio, a volte si lascia perdere per non sopportare impicci che finiscono in niente. Ma quel 29 luglio è di turno il procuratore Baltazar Garzòn, proprio il dottore che ha congelato il generale Pinochet nell’esilio rosa di Londra. Garzon dà un’accelerata: l’avvocato deve essere consegnato alla giustizia italiana. Non è necessaria una richiesta di estradizione, la sottintende l’ordine di cattura internazionale.
Forse Podlech arriva a Roma domani, forse a ferragosto. Intanto resta in carcere a Madrid mentre moglie e nipoti si nascondono a Praga. La signora non é tranquilla. Sospetta che «la mafia di chi difende i diritti umani stia tramando qualcosa contro di lei». Non solo perché seconda moglie del procuratore militare che inventava sedizioni inesistenti per far sparire chi non gradiva il regime; anche il suo passato nei servizi segreti di Pinochet magari nasconde qualche scheletro della Dina, polizia che organizzava le squadre della morte. Lei e il suo Alfonso si sono conosciuti così. Operazione Condor galeotta; è nata una famiglia di spie che organizzavano i killer.
Il racconto di due donne fa capire cosa è successo a Temuco, sud di Santiago, dopo l’11 settembre 1973 quando Pinochet fece morire il presidente Allende. All’università cattolica di Temuco insegnava Omar Venturelli Leonelli, sacerdote che aveva lasciato l’abito talare per fare il professore. Abbraccia la politica della solidarietà nelle file dei Cristiani per il Socialismo. La famiglia Venturelli viene dal modenese. Contadini con la piccola fortuna di un mulino nella colonia Capitan Pastene dove si raccolgono gli italiani sbarcati in Cile. Parlano solo il loro dialetto. Siciliani, veneti, liguri, piemontesi: lo spagnolo riunisce la babele. Omar ha studiato in seminario. Studiato come gli altri quattro fratelli che il padre ha preteso diventassero ingegneri e chirurghi. Alla Cattolica di Temuco l’ex sacerdote incontra un’insegnante, bella, giovane, stesso impegno sociale: Fresia Cea Villalobos. Si sposano, nasce una bambina. Quell’11 settembre ’93 Maria Paz ha tre anni.
Il giorno del golpe, lungo le strade di Temuco incollano manifesti con gli elenchi delle persone pericolose da catturare vive o morte. Anche Omar e Fresia diventano sovversivi da impacchettare. Omar si rifugia nel mulino del padre, e il padre lo convince a presentarsi ai carabineros. «È solo una formalità. Ti spieghi e torni in cattedra». Si spiega e sparisce.
Freisa viene arrestata; due giorni in caserma dove la sala mensa è trasformata nell’aula di un tribunale speciale. Si firmano le prime condanne a morte mentre passano i camerieri con piatti fumanti destinati al pranzo ufficiali, una porta in là. «Volevano farmi dire che ero comunista, quindi fuori dalla nuova legge imposta dai militari che avevano rovesciato la democrazia», racconta. Non era comunista ma assieme al marito appoggiava l’occupazione di terre abbandonate nei latifondi larghi come nazioni. Gli occupanti erano (e sono, poco è cambiato) indigeni mapuche: gli agrari li trattavano come animali. «Sei comunista e devi confessarlo». La trascinano nei corridoi davanti alle stanze di tortura. Escono uomini e donne disfatti. Signori in borghese di Patria Libertà - neonazisti cari a Pinochet, uno dei capi ha sposato Lucia Pinochet, figlia maggiore - vanno e vengono, armati. Portano via i prigionieri come pacchi. «Confessa, ti conviene. Altrimenti, guarda… ». Nel grande cortile rotolano dai camion degli agrari ragazzi massacrati. «Scappate, siete liberi», e i ragazzi provano a correre mentre i carabinieri si esercitano al tiro al piccione.
Nei corridoi della caserma si aggira l’avvocato Alfonso Podlech Michaud. Tuta mimetica, truppa d’assalto. Distribuisce ordini ripetendo: «Qui dentro da oggi comando io». Pinochet lo ha personalmente nominato procuratore militare. La delega riguarda anche l’ordine pubblico.
Omar intanto è sparito. Gli ultimi testimoni lo ricordano mentre legge la Bibbia ad alta voce o conforta i compagni di cella. Torna dagli interrogatori coperto di sangue. Freisa e la figlia riescono a fuggire in Italia. Prima Palermo, poi Bologna. Quando Maria Paz diventa maggiorenne e Pinochet lascia la Moneda, Freisa vuol portarla a Temuco. Ma Maria Paz non può andare: è ancora «clandestina». Sandro Pertini riceve madre e figlia. Il suo impegno permette il viaggio nel tempo ma anche nella rabbia. Perché -raccontano Freisa e Maria Paz- le gerarchie sociali non sono cambiate. Chi comandava, continua a comandare. Attorno al monumento che ricorda centinaia di ragazzi e padri di famiglia inghiottiti dalle squadre della morte, passeggiano i protagonisti di quei massacri. L’avvocato Podlech cammina con l’aria di dire: spostati che devo passare.
Gli anni della procura militare lo hanno reso miliardario. Le inchieste pretese dai parenti delle vittime hanno suggerito di sbriciolare le proprietà in una rete di società anonime, galassia dei prestanome. Grandi proprietari e autorità militari gli si rivolgono col riguardo dovuto a un piccolo padre della patria. Vent’anni di transizione e di democrazia non hanno cambiato una virgola. L’avvocato in tribunale nega di conoscere le donne violentate quand’erano ragazze nella caserma dove imperava. Il tribunale se ne lava le mani: impossibile procedere. Falso anche il documento che testimonia la «liberazione» di Omar Venturelli: «Il 4 ottobre 1973 è tornato in libertà ed è stato trattato bene».
Freisa si ristabilisce a Temuco: lavora contro la violenza alle donne e si impegna per scoprire la verità del passato. Maria Paz è ormai italiana. Quando arriva in Cile si commuove nell’abbracciare i fratelli del padre, ma li scopre diversi da come li immaginava: non pinochettisti, per carità, ma conservatori attenti agli equilibri che gli interessi professionali suggeriscono. Omar è morto e sepolto nel loro ricordo. Freisa e la figlia scavano fra i documenti; stringono i rapporti con le famiglie di altre vittime.
Un giorno si presentano coi risultati delle ricerche al giudice Capaldo, che emette l’ordine di cattura. Vale in ogni parte del mondo, ma in Cile non ne tengono conto. L’avvocato Podlech attraversa la frontiera come un angioletto. Anche gli Stati Uniti fanno finta di niente. Intoccabile fino a quando il 28 luglio mette piede in Europa e trova Garzon giudice di turno. Freisa Cea Villalobos è tornata a Bologna per curare una malattia. La lunga rincorsa non l’ha stancata: «Voglio vivere fino a quando un tribunale condannerà Podlech e tutti gli assassini come lui».
Corriere della Sera 3.8.08
Arrestato l'«inquisitore di Temuco» il carcere dove fu torturato Sepúlveda
di Alessandra Coppola
Fermato in Spagna, sarà trasferito a Roma. L'accusa: uccise un italo-cileno
Il procuratore militare Podlech era inseguito da un mandato di cattura italiano. E' stato bloccato dal nemico n. 1 della dittatura di Santiago, il giudice Garzón
ROMA — Il penultimo capitolo, quattro giorni fa, racconta di un pensionato cileno che in vacanza con la seconda moglie e due nipoti, destinazione Praga, ha la malaugurata idea di fare scalo a Madrid. Cullato dall'impunità di cui gode in patria, Alfonso Podlech Michaud, 73 anni, ex procuratore militare di Temuco, non ha dato peso a un mandato di cattura partito da Roma che da Natale insegue 140 responsabili del piano Condor (la cooperazione tra golpisti sudamericani negli anni Settanta per l'eliminazione dei dissidenti). E ha lasciato le frontiere «protette» del Cile per consegnarsi nella mani del nemico numero uno della dittatura di Santiago: quel Baltasar Garzón che nel '98 bloccò lo stesso Pinochet agli arresti a Londra e che — di turno all'Audiencia Nacional, appena rientrato dalle ferie — si è trovato sulla scrivania il dossier Podlech e ha firmato la detenzione. A giorni il trasferimento nel carcere romano di Regina Coeli.
Capitolo primo, trentacinque anni fa. L'11 settembre, il golpe di Pinochet appena consumato, Omar Venturelli e la moglie Fresia Cea sentono i propri nomi scanditi alla radio: hanno otto ore di tempo per presentarsi in caserma per una «registrazione». «Vado io per prima», dice Fresia. Omar resta in casa con la bimba di un anno e mezzo.
A essere convocati dalla voce dei militari sono in questa fase professori, intellettuali, studenti. Ex sacerdote sospeso «a divinis» dopo le battaglie per la terra agli indios, già dirigente dei Cristiani per il Socialismo, Omar insegna Pedagogia all'Università cattolica di Temuco. Nelle ore concitate che seguono la battaglia alla Moneda e il suicidio di Allende, i dettagli — e gli orrori — del regime non sono ancora nitidi. Fresia arriva in caserma, capisce che non si tratta di burocrazia, scappa. Non riesce a comunicare con Omar, che ha però intuito il pericolo e per due giorni si nasconde.
I comunicati radiofonici iniziano a cercarlo con maggiore insistenza, «vivo o morto». Finché il padre lo convince a consegnarsi. Italiano della provincia di Modena, pioniere della colonia di Capitan Pastene nel Sud del Cile, Roberto Venturelli è un uomo di destra, convinto della pericolosità del governo Allende e delle buone intenzioni di sicurezza e difesa della proprietà del nuovo regime. Ignaro dei metodi sanguinari, è lui stesso ad accompagnare il figlio in caserma. Non lo rivedrà mai più. Il 4 ottobre 1973 Podlech firma per Omar Venturelli l'Orden de Libertad n.52 con il quale si chiede il rilascio del professore. Una settimana dopo, un giovane militante di sinistra condotto in cella al passaggio in un corridoio sente la voce disperata di un uomo: «Mi chiamo Omar Venturelli, fate sapere che sto morendo». Desaparecido, come tremila altri.
Podlech in Cile ha esibito un documento che attesta la sua nomina a procuratore militare di Temuco solo nel marzo '74. E su questa carta in patria è stato scagionato. L'ordine 52, così come le testimonianza dei sopravvissuti — alcuni ascoltati anche a Roma dal pm Capaldo — indicherebbero invece che lui c'era da subito. Alla prigione sarebbe arrivato già la mattina dell'11 settembre, ore 8, per imporre il rilascio dei terroristi di destra di Patria y Libertad. Di lì si sarebbe installato nel carcere. «Era lui a dare l'ordine di torturare e spesso partecipava direttamente alle sessioni— racconta Fresia —. Testimoni dicono di averlo sentito chiamare i torturatori e, indicando i prigionieri, dire: "Ammorbiditeli un po', poi riportatemeli". Una ragazza, insegnante delle elementari, l'ha riconosciuto come l'uomo che le ha puntato una pistola alla tempia in una finta esecuzione».
Presente e attivo inquisitore, dunque, del carcere di Temuco e della caserma Tucapel, gli stessi luoghi dell'orrore per cui è passato proprio in quegli anni lo scrittore cileno Luis Sepúlveda. Per raccontare poi ne La frontiera scomparsa dei militari «che giravano la manovella del generatore elettrico», degli infermieri «che ci applicavano gli elettrodi all'ano, ai testicoli, alle gengive, alla lingua e poi ci auscultavano per decidere chi fingeva e chi era davvero svenuto sulla "griglia"».
L'ultimo capitolo di questa storia Fresia Cea vorrebbe adesso che a scriverlo fosse la giustizia italiana. «Il pm mi ha detto che spera di arrivare alla prima condanna già entro l'anno ». Appello a Napolitano: «Chieda alla presidente cilena Bachelet che si ricordi di noi vittime. Podlech a Madrid ha già ricevuto l'assistenza legale dello Stato. Anche io ne avrei avuto bisogno. Mi auguro che non finisca come Pinochet». Esattamente il precedente a cui guarda la difesa di Podlech, che ha già fatto richiesta di «immunità » sul modello dell'intricata vicenda che riportò l'ex dittatore da Londra a Santiago. Senza mai una condanna.
l’Unità 3.8.08
Casta. Rimborsi elettorali anche ai non eletti
ROMA L’onda lunga delle elezioni di aprile stravolge il budget dei partiti. Inattesi tracolli e grandi exploit segnano le tabelle dei rimborsi elettorali. Lega Nord e Italia dei Valori raddoppiano gli incassi. Quelli del Pd crescono più di quelli del Pdl. L’Udc limita i danni. E se l’Udeur di Mastella resta a quota zero, la Sinistra Arcobaleno si accontenta delle briciole: solo un quinto rispetto al 2006.
La torta da dividere sono i 100 milioni 618 mila 876 euro l’anno di rimborsi elettorali. Circa 503 milioni nell’intera legislatura. Alla ripartizione, deliberata questa settimana dagli uffici di presidenza dei due rami del Parlamento, partecipano tutti i partiti che hanno superato la soglia dell’1% alla Camera o il 5% in una Regione al Senato. Quattordici in tutto. Anche, quindi, alcune delle formazioni che non hanno eletto neanche un parlamentare (Sinistra Arcobaleno e La Destra, ad esempio). Qualcuno, come l’Udeur dell’ex ministro Clemente Mastella, non riceverà nessun rimborso per le politiche del 13 e 14 aprile. Ma continuerà, come altri 16 partiti, a incassare quelli maturati per le elezioni 2006. Una norma stabilisce infatti che prosegua «l’erogazione anche in caso di scioglimento delle Camere», fino a quello che avrebbe dovuto essere il termine naturale della legislatura, cioè il 2011. Per quest’anno, però, le somme stanziate sono state ridotte del 24,55%, tenendo conto di un taglio strutturale previsto dalla finanziaria 2007 e delle attuali disponibilità (il Tesoro al momento non ha accantonato l’intera somma). Dal 2002 i partiti hanno diritto a un euro per ogni voto ricevuto.
l’Unità 3.8.08
Stuprata una militare su tre, ma il Pentagono non vede
Shock al Congresso Usa, il 29% delle donne soldato subisce violenze e solo l’8% dei denunciati finisce davanti a una Corte
di ro.re.
New York. Uno shock per l’opinione pubblica e il Congresso i risultati di un’indagine condotta nel circuito della sanità militare Usa. Il 41% delle veterane curate nelle sue strutture risulta essere stata vittima di abusi sessuali. Il 29% delle donne denunciano di essere state stuprate durante il servizio militare. Jane Harman, deputata democratica della California, pensava di non aver capito bene. «Sono rimasta letteralmente a bocca aperta quando i medici mi hanno riferito queste cifre. Siamo davanti a una tragedia di proporzioni epidemiche. Oggi le donne arruolate nelle nostre Forze armate hanno molte più probabilità di essere violentate da un commilitone che di essere ammazzate dal fuoco nemico in Iraq». Le ultime statistiche del Pentagono indicano che sino al 24 luglio di quest’anno le donne perite nel conflitto iracheno sono 100 su un totale di oltre 4mila morti.
Salta fuori che su un totale di 2.212 denunce di violenza sessuale nel 2007, soltanto in 181 casi i responsabili sono stati deferiti alle Corti marziali. Si tratta dell’8% circa, contro il 40% dei casi che arriva nelle aule di giustizia nel mondo civile. I comandanti militari in altri 419 casi hanno imposto non meglio precisati «provvedimenti disciplinari». Una dizione che comprende tanto l’esonero quanto l’ammonimento verbale. Le cifre si riferiscono soltanto allo scorso anno. Un’analoga inchiesta, condotta dal General Account Office, l’organo del Congresso che svolge le funzioni della Corte dei conti in Italia, giunge a conclusioni ancora più allarmanti. Su 103 denunce di violenza sessuale raccolte dagli investigatori in 14 installazioni militari, 52 non erano state riportate nei canali della giustizia militare. Il fenomeno sarebbe quindi largamente sottostimato.
Il dottor Kaye Whintley massimo esperto del Pentagono in materia di abusi sessuali, citato in qualità di testimone davanti alla commissione d’inchiesta alla Camera, all’ultimo momento ha fatto sapere che non si sarebbe presentato. Ordini superiori giunti direttamente dal dipartimento alla Difesa. «Non so cosa stiano cercando di nascondere, ma non lo permetteremo. Questo comportamento è inaccettabile», è sbottato nel corso della seduta Henry Waxman, un altro deputato democratico. Al suo posto è stato mandato un ufficiale dell’Esercito, che ha letto una breve dichiarazione: «Il Pentagono prende estremamente sul serio le accuse che hanno per oggetto casi di violenza sessuale. Anche un singolo episodio rappresenta una violazione dei valori fondamentali per un soldato».
La commissione ha quindi ascoltato la deposizione di Mary Lauterbach, la madre di Maria, caporale dei Marine, uccisa nel dicembre scorso da un altro Marine che già l’aveva stuprata e messa incinta. La ragazza aveva vent’anni. «Mia figlia sarebbe ancora viva se il comando militare avesse preso sul serio le sue denunce». Per mesi invece i superiori hanno cercato di convincerla a lasciar perdere. Sinché lo stupratore l’ha messa a tacere per sempre.
l’Unità 3.8.08
Via all’appuntamento di Cortona con l’attore Usa che leggerà brani da Eliot e Poe in un recital in coppia con Gabriele Lavia
E Robert Redford sceglie la poesia per il «Tuscan Sun Festival»
di Elisabetta Torselli
Cortona (Ar). Robert Redford era la stella, ieri a Cortona, della presentazione dell’edizione 2008, la sesta, del Tuscan Sun Festival (dal 2 al 10 agosto). Il sempre affascinante attore e regista americano ha ovviamente calamitato su di sé la maggior parte delle domande, e ha risposto con garbo: certo che ama l’Italia, la Toscana è bellissima, del resto negli anni Cinquanta aveva studiato pittura a Firenze, è qui per leggere poesie di Eliot, Cummings e Edgar Allan Poe nel recital di poesia che divide a metà con Gabriele Lavia che invece leggerà Leopardi (l’8 agosto al teatro Signorelli, sede di quasi tutte le manifestazioni al chiuso), ma anche per accompagnare la moglie, la pittrice Sybille Szaggars, la cui personale si inaugurava appunto ieri. Ma Redford non ha davvero tolto la scena agli altri protagonisti del festival cortonese fondato dal suo amico Barrett Wissman, il presidente dell’IMG, agenzia leader nel management culturale che rappresenta molti degli artisti di questo festival, artisti emergenti come Danielle de Niese, soprano avvenente e lanciatissimo, protagonista con il giovane basso Vito Priante e con l’Orchestra Barocca di Venezia diretta da Andrea Marcon di un bel concerto haendeliano (oggi). Ricordiamo anche l’estrosa pianista venezuelana Gabriela Montero, che condisce i suoi concerti con strepitose improvvisazioni in stile jazz su temi musicali classici (suonerà Beethoven il 5 al Teatro Signorelli con l’orchestra del Festival di Verbier e un direttore importante, amico del festival, Antonio Pappano), artisti celebri già da molti anni come il violinista Joshua Bell (il 9 sempre al Signorelli con la giovane violoncellista Natasha Paremski e l’Orchestra da Camera di Mantova, e di nuovo il 10 per il concerto di chiusura). E Wissman ha anche un altro asso da calare: José Cura, che partecipa al Tuscan Sun Festival 2008 con un recital (il 4 agosto), con un gala operistico in compagnia del soprano Ana Maria Martinez (il 7 agosto), ma anche con la mostra fotografica Espontaneos, che illustra questa passione di sempre del celebre tenore argentino. Certo, è un festival diversissimo dagli altri festival italiani. Per certi aspetti è una vetrina dei «gioielli dell’IMG», senza ambizioni tematiche o di riscoperte o di progettazione culturale, ma, sembrerebbe, in uno spirito amichevole e di scambio reciproco fra artisti e pubblico, all’insegna di un’interdisciplinarietà abbastanza cordiale e vacanziera da prevedere anche stage di cucina, lezioni di yoga, naturalmente degustazioni di vini e formaggi... In ogni caso questo singolare (per l’Italia almeno) imprenditore della cultura sembra sinceramente affezionato alla sua creatura, e il sindaco di Cortona, Andrea Vignini, si dice disposto a scommettere che se il Tuscan Sun Festival (sostenuto dal Comune, dalla Provincia e dalla Regione, quest’anno per ca. 120.000 euro, ma non dal Ministero) ricevesse dalla mano pubblica quanto hanno a disposizione altri festiva italiani, forse Wissman sarebbe capace di fare una seconda Salisburgo. Chissà?
l’Unità 3.8.08
Una serata in memoria di Basaglia al Lagunamovies di Grado
Una serata nel segno di Basaglia (stasera, ore 21) a Grado, nell’ambito della rassegna «Lagunamovies 2008» giunta quest’anno alla sua quinta edizione. Titolo dell’appuntamento, «Un due trenta, liberi tutti», nel corso del quale si potranno vedere i preziosi filmati della cineteca del dipartimento di salute mentale di Trieste, per celebrare i trent’anni di riforma Basaglia. Sull’isola di Anfora – Porto Buso, a circa un’ora di navigazione da Grado, la serata si propone di ripercorrere la coraggiosa avventura di Franco Basaglia insieme a Massimo Cirri, ideatore e conduttore di Caterpillar-Radio2, Peppe Dell’Acqua, direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste, coordfinati dal nostro Toni Jop. In proiezione alcuni video storici dagli «archivi della de-istituzionalizzazione», il patrimonio di fotografie, video e materiali che hanno documentato la vita dell’ex Ospedale Psichiatrico di Trieste. Come Marco Cavallo, un video a cura di Geri Pozzar, che documenta la costruzione e l’uscita del cavallo Marco dall’allora ospedale psichiatrico di San Giovanni, nel 1973, commentata da Peppe Dell’Acqua e Giuliano Scabia. E come la produzione Rai, X DAY i grandi della Scienza del Novecento: Franco Basaglia (2002), per la regia di Enrico Agapito, su testi di Maria Grazia Giannichedda, che prende avvio dal primo Congresso di Psichiatria Sociale di Londra del 1964, in cui Franco Basaglia manifestò al mondo scientifico l’urgenza della distruzione dell’ospedale psichiatrico.
l’Unità Roma 3.8.08
L’energia zigana della Kocani
Con l’orchestra macedone tornano a Villa Ada i ritmi e le melodie dei Balcani
di Luca Del Fra
TZIGANI A partire dall’anno Mille dall’India centro settentrionale si spostarono verso l’Europa alcune popolazioni poi denominate zingari, zigani, o per usare un etnonimo, rom: giunto in Asia minore, alle porte del Vecchio continente, il percorso da queste
intrapreso si biforcò, da una parte verso l’Africa settentrionale e poi la penisola iberica, dall’altra seguendo i Balcani verso l’Europa centrale. Le tracce culturali lasciate da queste popolazioni sono piuttosto evidenti soprattutto nella musica: in Spagna nello spirito del flamenco e del «cante jondo», nell’Europa dell’Est in una scuola violinistica folclorica che ha però anche influenzato la musica colta. Tuttavia nei Balcani, in particolare tra Macedonia e Serbia, gli tzigani hanno sviluppato uno stile che si caratterizza invece per la presenza degli strumenti a fiato.
È da questo ceppo che si è sviluppata la Kocani Orchestra, che prende nome proprio dal piccolo villaggio, oggi nella Macedonia settentrionale, dove ha avuto origine e di quell’area geografica ripropone attraverso una profonda elaborazione i temi e i ritmi popolari. In questo senso il suo arrivo stasera a Villa Ada, a Roma incontra il Mondo risponde allo spirito della rassegna, e alla particolarità del luogo dove si tiene. Quella che propone la Kocani è, infatti, una musica da una prepotente ebbrezza ritmica, che trae origine spesso da ritmi usati nelle danze tradizionali femminili, chiamate «cocek», oppure in quelle collettive denominate «oro». Formule ritmiche che affondano le loro radici nella notte dei tempi probabilmente, che la Kocani non ripropone in senso “filologico”, ma le tratta invece come fossero materia viva, sfidandone la tenuta sul terreno sconnesso della contemporaneità.
Di qui la commistione, anche disinvolta e talvolta addirittura volutamente esilarante, con sapori musicali orientali e perfino latino americani, in direzione di un puzzle musicale dai tratti poco ortodossi e magari un po’ surreale.
www.villaada.org 06 41734712 22.00 Ingresso 8
Corriere della Sera 3.8.08
La spiegazione del «ritocco»: turbava i telespettatori
E Palazzo Chigi «velò» il seno alla Verità svelata del Tiepolo
ROMA — Le donne, a Palazzo Chigi, preferiscono vederle vestite. E non importa se quella che esibisce un seno — piccolo, tondo, pallido — se ne sta su una copia del celebre dipinto di Giamb attista Tiepolo (1696-1770): «La Verità svelata dal Tempo ». Il dipinto, che Silvio Berlusconi aveva scelto come nuovo sfondo per la sala delle conferenze stampa, viene ritoccato. È successo.
La testimonianza fotografica è inequivocabile.
Prima si scorge un capezzolo. Poi il capezzolo sparisce. Coperto, si suppone, con due colpetti di pennello.
La notizia è battuta dall'agenzia Italia alle 17,22. Un'ora dopo, Vittorio Sgarbi, critico d'arte di antica osservanza berlusconiana, ha la voce che quasi gli trema. «Cos'hanno fatto? Ma davvero?». Un ritocchino, professore. «Pazzi, sono dei pazzi...». Ci vuole un bel coraggio, in effetti, a mettere le mani su un Tiepolo, sia pure in crosta. «E allora cosa dovrebbero fare con tutte quelle statue di donna sparse in decine di musei italiani dove spesso si ammirano seni da far restare senza fiato pure Pamela Anderson? ». L'arte, evidentemente, spaventa. «Oh... io spero davvero che la decisione di questo assurdo, folle, patetico, comico, inutile ritocchino sia stata presa all'insaputa del Cavaliere. Tanto più che se volevano fargli un piacere, cercando di non far associare agli italiani una tetta alla sua immagine di uomo, come dire? incline al fascino femminile, sono riusciti invece nel-l'esatto contrario. Ma si sa, almeno, chi è il responsabile di questa cretinata?».
Non s'è capito subito, in verità. Poi il sottosegretario alla Presidenza Paolo Bonaiuti ha fatto personalmente qualche telefonatina.
«E allora, beh, direi che è andata molto semplicemente: diciamo che è stata un'iniziativa di coloro che, nello staff presidenziale, provvedono al la cura dell'immagine di Berlusconi ». Bonaiuti, scusi: ma cosa li avrebbe turbati tanto? «Beh... sì, insomma: quel seno, quel capezzoluccio... Se ci fate caso, finisce esattamente dentro le inquadrature che i tg fanno in occasione delle conferenze stampa». E quindi? «E quindi hanno temuto che tale visione potesse urtare la suscettibilità di qualche telespettatore. Tutto qui».
C'è da dire che in occasione delle prime inquadrature ormai risalenti alla conferenza stampa del 20 maggio scorso (con il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia perfettamente centrata sotto la femminile Verità ancora scoperta) al centralino di Palazzo Chigi non risultano essere giunte particolari proteste da parte della cittadinanza italiana. Nè preoccupazioni per eventuali turbamenti vennero comunque al Cavaliere e al suo architetto di fiducia, che lo aiutò nella scelta del celebre dipinto: Mario Catalano, forse non casualmente già scenografo del memorabile programma di spogliarello televisivo «Colpo Grosso», condotto da Umberto Smaila su Italia 7 dal 1987 al 1991, con le ragazze, chiamate «mascherine», che — appunto — si facevano volar via il reggiseno cantando «
Corriere della Sera 3.8.08
La scommessa dei giochi olimpici
La guerra della Cina alla natura
di Niall Ferguson
A meno di un miracolo meteorologico, quella di Pechino sarà l'aria più inquinata mai respirata dagli atleti olimpici
Alla vigilia dei Giochi Olimpici, che verranno inaugurati a giorni a Pechino, la Cina si presenta al mondo come un wok sfrigolante di aiguozhuyi (orgoglio nazionale), nelle parole dello scrittore cinese Liu Xiaobo. C'è da chiedersi però fino a che punto il governo cinese può permettersi di surriscaldare i sentimenti popolari. Dovunque si vada, è difficile sfuggire allo slogan ufficiale di Pechino 2008: «Un sogno per il mondo». Le cinque simpatiche mascotte olimpiche, note come Fuwa, sono altrettanto onnipresenti e cinguettano da schermi grandi e piccoli, dal terminale dello splendido e nuovissimo aeroporto internazionale della capitale fino al più modesto vagone ferroviario di qualche linea secondaria.
La Cina non è il primo regime non democratico intento a sfruttare le Olimpiadi per rafforzare il proprio prestigio internazionale da un lato e la legittimità interna dall'altro. Ma raramente sport e propaganda sono stati aggiogati assieme su così vasta scala. I leader comunisti cinesi non fanno segreto del fatto che ai loro occhi il successo olimpico è il simbolo perfetto della «pacifica ascesa» del loro Paese. Anche se gli atleti cinesi non ce la faranno a battere i colleghi americani nel record di medaglie conquistate (sono arrivati secondi ad Atene quattro anni fa, con quaranta medaglie in meno rispetto agli Usa), il governo cinese uscirà comunque vincitore se lo sfarzoso spettacolo olimpico verrà riconosciuto come un grande successo organizzativo.
A prima vista, è difficile negarlo. I grandi progetti architettonici necessari per ospitare i Giochi Olimpici sono esattamente quello che il regime sa fare meglio. Coloro che frequentano spesso Pechino avranno notato che nel corso dell'ultimo anno la città ha subito profondi rimaneggiamenti, con la costruzione di circa mezzo miliardo di metri quadrati di superficie calpestabile, tra cui 110 alberghi. Come l'aeroporto rinnovato, l'impressionante nuovo stadio nazionale — dove verranno ufficialmente inaugurate le Olimpiadi alle 8.08 di sera dell'8 agosto — le meraviglie architettoniche rappresentano il nuovo ruolo di superpotenza economica della Cina. Questo, dopo tutto, è il Paese che oggi conta tre delle più grandi imprese al mondo nell'Ft Global 500 (PetroChina, China Mobile and Industrial e la Commercial Bank of China). Questa è l'economia che, secondo la Fondazione Carnegie per la pace internazionale, supererà il Pil degli Stati Uniti nel 2035.
Eppure, dietro lo smalto ufficiale di tanto ottimismo, la Cina oggi tradisce segni di insicurezza, qualche tentennamento che spiega il clima arroventato in cui si crogiola il nazionalismo cinese. Si avverte in Cina un'ipersensibilità per le critiche internazionali rivolte al regime per il sostegno offerto al governo del Sudan, malgrado la crisi del Darfur; per la repressione contro i separatisti del Tibet e per la palese indifferenza verso la sorte di popolazioni oppresse, in Birmania e in Zimbabwe. Si percepisce inoltre una crescente ansietà riguardo la sostenibilità del miracolo economico cinese, che oggi si avvicina al trentesimo anniversario. Il mercato azionario è sceso del 56 per cento negli ultimi nove mesi. Il denaro «caldo» delle speculazioni, che si riversa in Cina nell'attesa di un nuovo apprezzamento valutario, va a sommarsi alle già gravi pressioni inflazionistiche. I controlli del capitale non sono impermeabili e il controllo dei prezzi non riesce più a camuffare gli aumenti globali verificatisi nella spesa alimentare ed energetica.
Le tensioni economiche accentuano i molteplici problemi sociali della Cina: la forbice della disuguaglianza dei redditi, che si allarga a dismisura; l'estrema povertà, che persiste nelle zone rurali del Paese; e infine lo squilibrio demografico, innescato dalla politica del figlio unico tramite l'aborto selettivo dei feti femminili. Nel frattempo, le conseguenze ambientali dell'industrializzazione spinta della Cina gettano una nube oscura — letteralmente — sulle imminenti Olimpiadi. A meno che non si verifichi un miracolo meteorologico, quella della capitale sarà l'aria più inquinata mai respirata dagli atleti olimpici. Per stimolare il miracolo, le autorità hanno fatto ricorso a particelle chimiche, sparate in aria da batterie antiaeree, che dovrebbero provocare la pioggia.
Ed ecco un altro simbolo, meno positivo, della Cina moderna: un regime in conflitto aperto con la natura. Una settimana dopo il terremoto nel Sichuan del 12 maggio, quando tutta la nazione si fermò per osservare tre minuti di silenzio, c'era qualcosa di assai familiare nello stato d'animo di Pechino e che avevo già provato in passato: qualcosa che riguardava il senso di unità nazionale, rafforzato dalla copertura televisiva, 24 ore al giorno, sette giorni su sette, delle operazioni di soccorso. Nella capitale regnava un'atmosfera assai simile a quella di New York dopo l'11 settembre, tranne che la responsabilità per la catastrofe nel Sichuan non poteva essere imputata né a un'organizzazione terroristica né a un regime canaglia. I soli colpevoli erano quegli imprenditori criminali e quei politici corrotti che avevano consentito la costruzione di scuole senza rispettare le normative di sicurezza ed è stato proprio il crollo di questi edifici a causare il maggior numero di vittime. I media ufficiali si sono affrettati, si capisce, a insabbiare le rivelazioni che rischiavano di indebolire il consenso popolare verso il partito. Le cronache giornalistiche sono state ben presto dirottate verso i «laghi del terremoto» — altro bersaglio naturale su cui puntare i cannoni dell' Esercito popolare di liberazione.
Proprio come gli americani hanno sferrato la loro guerra al terrore dopo l'11 settembre, oggi i cinesi sembrano impegnati a combattere la natura. Per afferrare quello che è in ballo in questa strana guerra, vale la pena allontanarsi dalla capitale, anzi, da tutta la regione orientale della Cina (...).
E la democrazia? Tre anni fa, nel suo discorso al 17˚Congresso nazionale del partito comunista, il presidente cinese Hu Jintao menzionò la parola «democrazia» 61 volte, tanto che alcuni commentatori ipotizzarono l'avvio di una qualche liberalizzazione politica. Forse il più potente agente del mutamento politico, però, sarà Internet.
Negli ultimi anni, la rete mondiale ha invaso la Cina. Dopo un incremento del 50 per cento nel 2007, oggi si contano circa 210 milioni di utenti Internet in Cina, alla pari con l'America. Via via che i telefoni cellulari si interfacciano con Internet, il tasso di crescita potrebbe aumentare ancora. Gli effetti ricordano l'impatto dell'invenzione della stampa nell'Europa centrale del secolo XVI, perché da qui parte una sfida senza precedenti al monopolio del partito comunista cinese sulle comunicazioni. Per la stragrande maggioranza, com'era da aspettarsi, sono i giovani i principali utenti online, di cui circa il 70 per cento ha meno di 30 anni. Ancor più sorprendente risulta il dato che i web surfer cinesi sono molto più disposti, in confronto alla controparte occidentale, ad abbandonare le fonti tradizionali di informazione a favore di Internet: per l'85 per cento degli utenti cinesi è Internet la principale fonte di informazione. Come in Occidente, inoltre, Internet funge anche da veicolo di espressione personale: già il 52 per cento di tutti i blog sono in lingue asiatiche e il mandarino si prepara a scavalcare il giapponese.
Certo, il regime si sforza in tutti i modi di tenere sotto controllo l'uso di Internet tra i suoi cittadini. Tutto il traffico web è incanalato nel cosiddetto «grande firewall cinese», con migliaia di funzionari che controllano gli Url fuorilegge. Eppure, l'idea di uno Stato totalitario in grado di controllare Internet appare quantomeno assurda. Ricorrendo a proxy server, software di criptaggio e altri strumenti, la nuova generazione di informatici cinesi riesce a mantenersi un passo avanti rispetto alla censura.
La questione cruciale è fino a che punto le autorità devono temere un'ondata di dissenso come conseguenza della passione dei giovani per Internet. L'analogia con la stampa ci induce a immaginare una sorta di Riforma cinese, ovvero una sfida al potere immobile dello Stato paragonabile a quella lanciata da Martin Lutero al papato medievale, una sfida che non sarebbe certo stata altrettanto rivoluzionaria senza il supporto della diffusione delle informazioni per mezzo della tipografia. E' vero inoltre che le critiche verso i funzionari locali del partito o la loro politica vengono trasmesse per lo più orizzontalmente, tramite e-mail e (più comunemente) via sms. Ma le nuove forme di comunicazione elettronica potrebbero facilmente fungere anche da canali per il rafforzamento del nazionalismo popolare, oltre che per il dissenso politico. «Non abbiamo nulla da temere » recita un video diffuso in Internet subito dopo i tumulti nel Tibet, con toni assai accesi e risentiti nei confronti dei media occidentali. Con le sue immagini ultranazionaliste, la musica squillante e l'arroganza degli slogan - «La sovranità cinese è sacra e inviolabile»; «Abbiamo l'obbligo di proteggere la prosperità e la stabilità della nazione »; «Non accettiamo provocazioni!» — esso cattura perfettamente il matrimonio tra il nazionalismo cinese e YouTube.
Alla vigilia dei Giochi olimpici, c'è davvero qualcosa che richiama l'immagine di un wok fumante nell'atmosfera che si respira in Cina. Ma sono i siti web più frequentati, dove ribolle il nazionalismo di una nuova generazione di cinesi, a suscitare sconcerto nel resto del mondo.
© The Financial Times Limited 2008 Traduzione di Rita Baldassarre
Corriere della Sera 3.8.08
Monaco: 186 fra olii, disegni, ceramiche e libri illustrati al Nuovo museo nazionale
Van Dongen la ritrae e Picasso la schiaffeggia
La «belle Fernande» aveva posato nuda per l'artista olandese
di Sebastiano Grasso
Ci sono ben sei ritratti di Fernande Olivier, dipinti nel biennio 1906-1907, nella retrospettiva che Monaco dedica a Kees van Dongen (1877-1968). Due la mostrano mezza nuda. In quel periodo, la donna ( La belle) era l'amante di Picasso che ne era geloso in maniera quasi morbosa. Tant'è che, vedendo quello in cui Kees l'aveva dipinta col seno nudo e il gomito appoggiato al tavolino, davanti ad un bicchiere d'assenzio, l'aveva presa a sberle. Allora, a Parigi, tutt'e tre abitavano al Bateau- Lavoir. Picasso aveva conosciuto Fernande da poco, se n'era invaghito e l'aveva portata nel suo studio-abitazione, ma la donna era scappata: troppa confusione, ma soprattutto troppa sporcizia. Così il pittore spagnolo s'era tirato dietro Apollinaire perché l'aiutasse a pulire. Dopo, anche lei s'era innamorata del rozzo Pablo, che, fra l'altro, la inondava di profumi forti. Così, quando andava a trovarlo, gli amici che ne captavano l'odore, dicevano «Madame Picasso è da queste parti».
La rassegna di Monaco, dedicata a Van Dongen — 186 fra olii (130), disegni, ceramiche e libri illustrati — è la più grande dopo quelle di Parigi (1990) e Martigny (2002). Una conferma — o una riscoperta, se ce ne fosse bisogno — di un artista fra i più interessanti del XX secolo, soprattutto alla luce di studi e scoperte recenti.
Curata da Jean-Michel Bouhours e Nathalie Bondil, è divisa in tredici sezioni. Si comincia, naturalmente, dalle opere giovanili (1895-1901) — le prime prove olandesi (con un occhio a Rembrandt e ad altri pittori del '600) e quelle successive al suo arrivo a Parigi (luglio 1897) — disegni e caricature per la Revue illustrée, La revue blanche, L'Assiette au beurre, illustrazioni di libri, ritratti, scene di vita borghese, ecc. Vita dura, all'inizio. E così, questo olandese con la barba lunga rossiccia, imponente come Braque, fa quello che gli capita: strillone, lottatore da fiera, fattorino, imbianchino.
Se i primi nudi dipinti in Olanda avevano un aspetto «domestico», adesso Kees cerca le sue modelle nei bordelli e per le strade: prostitute, bottegaie, cabarettiste, acrobate. L'eclettismo giovanile lascia il posto ad una tavolozza dai colori accesi. Le sue donne hanno occhi così grandi e labbra così rosso-fuoco che qualcuno lo accusa di confondere i colori col trucco delle modelle.
In realtà, sul piano artistico — a parte i rapporti coi fauves ed alcuni espressionisti tedeschi — Kees se ne sta lontano da gruppi e correnti. Viene accostato a Degas e a Toulouse-Lautrec? Solo per i temi. Poi, negli anni Venti, il «salto», grazie soprattutto a due nuove amanti — Jasmy Jacob, direttrice commerciale di grandi case di moda e la marchesa Luisa Casati — e a Félix Fénelon, il critico più importante del momento. Van Dongen diventa il ritrattista del «bel mondo»: politici e cortigiane, letterati e attrici, ambasciatori stranieri e cantanti liriche, galleristi e finanzieri. La borghesia si mette in posa. Ritrae le donne non come sono, ma come vorrebbero essere; le rende desiderabili, irresistibili. La sua tavolozza coglie i patiti dell'Opera, le boutique della moda, I cambiamenti toccano, incredibilmente, anche le sue abitudini alimentari. La moglie Guus era vegetariana e dai Van Dongen si mangiano solo spinaci. Una volta che l'artista si separa dalla donna, va a mangiare al ristorante. E sulla porta di quello dov'è cliente abituale, appare il cartello: «Dove si può vedere Van Dongen mettere il cibo in bocca, masticarlo, digerirlo e fumare? Da Jordan ristoratore, 10 rue des Bons-Enfants ».
L'ascesa dell'artista supera il ventennio, sino a quando, nel 1941, accetta l'invito di Arno Breker, scultore ufficiale del III Reich, di recarsi in Germania. Un viaggio che i francesi non gli perdonano. Risultato: boicottaggio totale. Tant'è che, lasciata Parigi, va in Bretagna e da lì, nel 47, a Monaco. Su di lui cade un silenzio di decenni. Sino alla «riscoperta» postuma. Ma passeranno almeno trent'anni.
Nell’immagine Fernande Olivier ritratta da Kees Van Dongen
Monaco, Nuovo museo nazionale, sino al 10 settembre. Tel. +377/98981962
Corriere della Sera 3.8.08
Rimini: a Castel Sismondo «La rinascita dell'antico nell'arte italiana»
E un sepolcro diventa simbolo
di Flaminio Gualdoni
Federico II, imperatore e re, era detto «meraviglia del mondo ». Non era la solita piaggeria. Il nipote del Barbarossa è il monarca che fa rinascere in Italia, nel '200, il culto per le immagini antiche, per una classicità che deve legare strettamente ai fasti della Roma antica quelli della cultura nuova di cui egli è protagonista. Ci sono opere del passato che vengono reimpiegate in contesti moderni, oppure che scultori come Nicola e Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio reinventano nel linguaggio espressivo da cui nasce l'arte italiana, proprio come dal latino sgorga il volgare che Dante rende lingua autonoma e autorevole.
Il progetto della mostra riminese è questo, e il titolo Exempla suggerisce il senso di tale nitida continuità: l'antico come esempio per la cultura nuova vagheggiata da Federico, e questa stessa cultura come esempio per ciò che, di lì a poco, sarà la rivoluzione che da Giotto porta al Rinascimento. È una mostra difficile, severa, che si fa apprezzare proprio perché rinuncia al solito stucchevole clima d'intrattenimento turistico e vuole davvero far comprendere un passaggio cruciale della storia dell'arte.
Detto questo, i capolavori non mancano affatto, fra le circa 90 opere esposte. La gemma incisa «all'antica» con Poseidon e Anfitrite già posseduta da Lorenzo de' Medici si affianca a codici miniati leggendari come il De arte venandi cum avibus, il trattato che illustra la passione di Federico per la falconeria, e il De balneis puteolanis, esempio precoce di cure termali a Pozzuoli.
La rara cassetta-reliquiario di Sant'Elena, in legno di sandalo dipinto in rosso e oro, fa il paio con il rilievo marmoreo di Nicola e Giovanni Pisano che raffigura Rea Silvia e Romolo e Remo, proveniente dalla Fontana Maggiore di Perugia.
La lastra marmorea di Arnolfo di Cambio con una processione funebre, dal sepolcro Annibaldi, è per molti versi un simbolo della mostra: cinque figure a rilievo altissimo su un fondo ornato da mosaici dorati si susseguono in pose diverse, citando quasi testualmente i bassorilievi romani con scene di processione ma contemporaneamente non sottomettendosi a quel modello, bensì riprendendolo e facendone cosa nuova. Il clima di rinnovamento è rappresentato d'altronde anche da una bellissima Testa di Cristo dipinta da Pietro Cavallini, che idealmente chiude il '200.
EXEMPLA. LA RINASCITA DELL'ANTICO NELL'ARTE ITALIANA
Rimini, Castel Sismondo, sino al 7 settembre. Tel. 0541/783100
Repubblica 3.8.08
Disegni e racconti porno il volto segreto di Kafka
di c. nad.
LONDRA - I critici letterari si aspettano nuove rivelazioni sull´opera di Kafka dalle carte di Max Brod, l´amico e biografo dell´autore de "Le metamorfosi". Ma il segreto piccante, che può dare nuova luce alla personalità dell´autore ceco, non è a Tel Aviv nei documenti custoditi dall´erede di Brod, Hava Hoffe. Da sempre, invece, è sotto gli occhi di tutti, nelle numerose copie fatte dei diari di Kafka. Lo scrittore geniale, problematico e complesso aveva un debole da uomo comune: collezionava materiale pornografico e ogni tanto non disdegnava di aggiungervi qualcosa di suo. Nel libro che uscirà in Gran Bretagna il 7 agosto, "Excavating Kafka", pubblicato da Quercus, il romanziere James Hawes racconta come nei diari dello scrittore praghese, da tempo consultabili dagli studiosi anche nella British Library, si parli di una raccolta di materiale pornografico curata dallo stesso Kafka. Lo scrittore si faceva mandare da Franz Blei, il suo primo editore nel 1908, disegni e racconti che sono, come dice Hawes al Times «senza dubbio pura e semplice pornografia, con venature molto inquietanti, talvolta decisamente sgradevole».
Questa sua raccolta osè Kafka la teneva ben custodita a casa dei genitori, in una libreria con serratura, e portava con sé la chiave quando andava in vacanza. «C´è una nota nella prima biografia, scritta proprio da Brod, che rivela a chi sa leggerla proprio il nascondiglio della raccolta - dice Hawes in un intervento sul Guardian - e se nessuno ci ha lavorato sopra è perché non ha voluto farlo». Il libro di Hawes, che su Kafka ha preparato una tesi di dottorato e ha passato dieci anni a rovistare fra le raccolte di carte dello scrittore, non è solo una nuova lettura dell´opera dell´autore de "Il castello", ma una critica al modo in cui gli studiosi affrontano i loro miti letterari.
«Sembra proprio che l´industria che ruota intorno a Kafka non voglia sapere alcune cose del suo idolo - dice Hawes - il che significa che gli studiosi, quelli che hanno accesso più facilmente ai documenti, non vogliono che i lettori conoscano tutto». Hawes non rivela nulla di più del «materiale pornografico inquietante», cosa che gli assicura una buona vendita del libro tra cinque giorni. E convinto però che «ammettere la verità sul lato porno di Kafka rivelerà anche la verità sulla sua intera opera» e «si vedrà Kafka nella sua autentica prospettiva e non quella tramandataci dagli esistenzialisti francesi».