lunedì 4 agosto 2008

l’Unità 4.8.08
Quelle ombre dal passato. An e gli stragisti
di Gigi Marcucci


«Ma guarda Teodoro... E Gianfranco... E Francesco». È il 1994, sta nascendo il primo governo Berlusconi. Mentre gli eredi del Msi, da pochi mesi diventato Alleanza nazionale, fanno per la prima volta il loro ingresso in un esecutivo della Repubblica, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, prossimi alla condanna definitiva per la strage del 2 agosto, vengono intervistati per il Corriere da Gian Antonio Stella e ricordano la comune militanza con Teodoro Buontempo, Gianfranco Fini, Francesco Storace, Maurizio Gasparri. «Vedere Storace andare a discutere alla Rai è fantastico», sorride Fioravanti.
«Capirà, - aggiunge - lo conosciamo da una vita. Insomma: noi ci siamo sparati e lui è lì a trattare sui direttori dei tiggì. Fantastico. Ed è giusto che sia così. Lui ha fatto una scelta, noi un’altra. Lui è al governo, noi in galera». Insomma: France’, ricordati degli amici. Lui non li dimentica. E lo ha dimostra anche due giorni fa, bacchettando il ministro Gianfranco Rotondi, che a Bologna, commemorando le vittime della strage del 2 agosto, si è permesso di dire che le opinioni politiche sono una cosa, le sentenze un’altra. Non l’avesse mai fatto, Storace non l’ha digerita: «Fa più comodo decidere colpevoli che cercarli». E sul punto si trova in sintonia con Gianfranco Fini, nonostante il recente, fragoroso divorzio politico tra i due. Per il presidente della Camera, infatti, è «necessario che, dopo tanti anni, si dissolvano le zone d'ombra che hanno suscitato perplessità crescenti nell'opinione pubblica intorno all'accertamento della verità sulla strage». Una ventina d’anni di indagini, processi e sentenze vaporizzati da «perplessità» attribuite all’opinione pubblica da una delle più alte cariche dello Stato.
Per carità, a chiunque può capitare di trovarsi col compagno di strada sbagliato. Ma se succede a un politico, e se l’amico di un tempo ha sulle spalle una mezza dozzina di ergastoli, è naturale che prima o poi ci si interroghi - senza voler accusare nessuno di complicità o connivenze - su sviste, distrazioni, sottovalutazioni: trasformatesi nel tempo in altrettanti motivi di imbarazzo politico. Soprattutto se l’amico si chiama Valerio Fioravanti e dichiara: «Ci fu una fase in cui ci offrirono tutte le poltrone possibili e immaginabili per far rientrare il nostro dissenso. Arrivarono al punto di offrire a Francesca, che aveva 18 anni, di entrare nel comitato centrale (del Msi ndr)».
È una storia lunga e tormentata quella dei rapporti tra ex esponenti del Msi e uomini dell’eversione di destra. Nel ’95 il problema viene sollevato dal gruppo Ds nella Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi. Nella relazione viene chiamato in causa Giulio Maceratini, in quegli anni capogruppo di An alla Camera, indicato come uno dei grandi elettori del presidente del partito Gianfranco Fini. «Risulta documentalmente - si legge - che anche in anni successivi a quelli della cosiddetta strategia della tensione il senatore Maceratini abbia continuato ad avere contatti e legami politici con personaggi della destra eversiva già inquisiti e, talora, condannati con sentenze definitive per episodi di terrorismo o ricostituzione del partito fascista».
Il documento è ovviamente di parte, ma è ricco di riferimenti processuali. Parla degli esordi di Maceratini con Stefano delle Chiaie, Junio Valerio Borghese, Pino Rauti, a cavallo di organizzazioni coinvolte nella strategia della tensione come Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo. Riferisce della deposizione del pentito Martino Siciliano al processo per la strage di piazza Fontana: «Pino Rauti era il capo supremo (di Ordine Nuovo ndr) sia sul piano politico che su quello operativo; Paolo Signorelli aveva funzioni direttive sul piano operativo, Rutilio Sermonti aveva il ruolo di conferenziere e Maceratini serviva da filtro tra Rauti e Signorelli nei contatti con i gruppi periferici».
Una carriera parallela e poco conosciuta, quella di Maceratini, continuata fino agli anni 90, quando partecipa alle iniziative promosse dall’associazione “Il Punto” - «diretta emanazione di Stefano Delle Chiaie, vecchio camerata di scorribande antisemite». Una di queste ha come titolo: «Un indulto per la pacificazione nazionale». Tra i relatori c’è Adriano Tilgher, più volte inquisito come dirigente di Avanguardia nazionale. In platea alcuni noti naziskin ed esponenti del Movimento Politico Occidentale di Maurizio Boccacci, sciolto in base al decreto Mancino per incitamento all’odio razziale.
È noto l’impegno di onorevoli-avvocati del Msi-An a difesa di imputati accusati di fatti di eversione o terrorismo. A questa attività, ovviamente del tutto legittima, si associano le prese di posizione contro giudici «colpevoli» di coltivare indagini che non godono del loro gradimento politico. E, come per gli affari del cavalier Silvio Berlusconi, professione legale e militanza di mescolano fino a diventare indistinguibili. Nel 2006 il sottosegretario alla giustizia Giuseppe Valentino, difensore di un eversore di razza come Massimo Carminati, ventila l’invio di ispettori alla Procura di Bologna: in pratica anticipa di un paio d’anni le intenzioni dei parlamentari di An-Pdl che, pochi giorni fa, hanno chiesto la stessa cosa al guardasigilli Alfano, con lettera autografa pubblicata sul Secolo d’Italia (editore Gianfranco Fini, recitano le gerenze).
Più intraprendente l’onorevole Enzo Fragalà. Una delle sue ultime battaglie è quella per far scontare in Spagna la pena detentiva a Carlo Cicuttini, condannato per la strage di Peteano (31 maggio 1972, tre carabinieri uccisi). Dopo una latitanza di 26 anni, Cicuttini finisce in carcere in Francia. È il 1998, la sua prima istanza viene respinta. Il motivo è semplice: in Spagna un’amnistia copre i reati commessi fino al 1977, trasferire Cicuttini equivarrebbe a concedergli la grazia. Nel 2002 è il ministro leghista Roberto Castelli a chiedere alla Procura di Venezia di accontentare il terrorista nero. Pochi mesi dopo arriva il secco no della Cassazione. Niente male per partiti che sulla questione della sicurezza costruiscono i loro successi.

l’Unità 4.8.08
La destra difende gli stragisti di Bologna
Cicchitto rilancia gli attacchi di Fini: «C’è stato un teorema». Cofferati e il Pd: grave revisionismo
di a.c.


NONOSTANTE UNA SENTENZA confermata dalle Sezioni penali unite della Cassazione, il presidente della Camera Fini non è convinto della verità giuridica sulla strage di Bologna. E il giorno dopo, il suo messaggio all’associazione tra i familiari delle vittime in occasione del 28° anniversario continua a suscitare polemiche. «È necessario che dopo tanti anni si dissolvano le zone d’ombra che hanno suscitato perplessità crescenti nell’opinione pubblica intorno all’accertamento della verità sulla strage», ha scritto Fini. «Sarebbe un servizio prezioso reso alla democrazia del nostro Paese».
Parole misurate nella forma, ma pesanti nella sostanza, visto che provengono dalla terza carica dello Stato. La replica del sindaco Cofferati dal palco davanti alla stazione è stata immediata: «Non ci sono ombre e il tentativo di riscrivere la storia è strumentale e per fini di breve respiro. È un modo di piegare alla politica contingente i risultati dei magistrati». Ieri Cofferati, in un’intervista, ha aggiunto che «è grave che una carica istituzionale solleciti la riapertura di un processo sulla base di perplessità della pubblica opinione. Se esistono elementi per farlo lo decide semmai la magistratura. Una carica istituzionale non dovrebbe praticare il revisionismo». Tanto più che l’ex procuratore capo di Bologna, Enrico Di Nicola, ha spiegato che sulla strage «non c’è più nulla da accertare».
Ieri a dar man forte a Fini è intervenuto il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto: «I dubbi avanzati da Fini sono del tutto legittimi, e sono stati avanzati a più riprese da varie parti. A suo tempo è stato stabilito un singolare teorema politico a senso unico: per definizione la strage deve essere fascista e gli autori devono essere Mambro e Fioravanti. Non si capisce perché questi dubbi debbano essere bollati come indegni». Il leghista Borghezio si spinge oltre e chiede una commissione d’inchiesta sulla strage: «Fini ha squarciato il velo delle verità di comodo, bisogna scrivere la storia della subordinazione del nostro Paese alla potente lobby araba». Dice la sua anche il leader della Destra Storace: «Cicchitto ha ragione sui teoremi di Bologna, peccato che il rappresentante del governo alla manifestazione (Rotondi, ndr) abbia parlato d’altro».
Dal fronte del Pd replica il senatore ed ex sindaco di Bologna Walter Vitali: «Chi ricopre una carica istituzionale dovrebbe rispettare le sentenze della magistratura che, in cinque gradi di giudizio, hanno stabilito che gli autori materiali sono Mambro, Fioravanti e Ciavardini e un gruppo di ufficiali dei servizi segreti, guidati da Licio Gelli, hanno depistato l’attività dei magistrati». Gli fa eco la deputata bolognese Sandra Zampa, che giudica «sconcertanti» le parole di Fini e lo accusa di «non essere stato in grado di superare la sua appartenenza a una parte politica». «È grave- conclude Zampa- che una carica istituzionale alimenti dubbi nell’opinione pubblica».
Anche l’Idv boccia i tentativi revisionisti di Fini: «Se c’è una cosa sulla quale ci si dovrebbe interrogare rispetto a quella vicenda è come sia possibile che assassini come Mambro e Fioravanti, con svariati ergastoli sulle spalle, non siano più ospiti delle patrie galere», dice Silvana Mura, parlamentare e coordinatrice dell’Idv in Emilia. «Sono tante le stragi italiane che ancora attendono una verità, dunque forse sarebbe più utile che chi ricopre importanti cariche istituzionali utilizzasse la sua autorevolezza per sollecitare il governo a togliere il segreto di Stato sulla strage di Ustica, invece che mettere in forse una sentenza sulla base di ipotesi già vagliate e scartate dalla procura di Bologna».
E nonostante i dubbi sulla colpevolezza di Mambro e Fioravanti sollevati da Liberazione, il quotidiano del Prc, dal Pdci arriva una ferma condanna di ogni revisionismo sulla sentenza: «La verità è che, su questi temi, oggi più di ieri, serve una rigorosa e seria vigilanza democratica, affinché venga sbarrata la strada a qualunque tentativo revisionista, da chiunque portato avanti», afferma l’ex capogruppo Pino Sgobio.

l’Unità 4.8.08
Quello «scambio indecente» tra Alleanza nazionale e Forza Italia


«Purtroppo ci sono alcune sentenze come questa di Bologna che sono sempre state oggetto di contestazione. Evidentemente sono verità scomode». Walter Vitali, senatore del Pd, prova a capire perché, dietro alla presa di posizione del Presidente della Camera Gianfranco Fini, subito si siano messi a far quadrato i colleghi pidiellini (sponda Fi) con Fabrizio Cicchitto e Paolo Guzzanti e quelli padani con Mario Borghezio.
Davanti ad una verità giudiziaria arrivata al suo ultimo grado di giudizio, la politica continua a immaginare ombre, omissioni. E il Presidente di Montecitorio le avvalora. Assieme al giornale di proprietà del fratello del Presidente del Consiglio.
Il senatore del Pd Felice Casson, mentre ritiene che «la verità giudiziaria che è uscita dal processo è una verità che racconta per davvero un pezzo di storia italiana. Vale a dire che questa è una strage fascista coperta da interventi dei servizi segreti e dalla P2 di Licio Gelli», prova a immaginare la contrarietà dell’intera destra motivandola con una spiegazione logica. Vale a dire che «la strage di Bologna è un episodio troppo grave per il quale non ci può essere alcuna comprensione di alcun genere. La condanna dovrà essere sempre ferma e assoluta perché è una cosa che ripugna anche moralmente. Collegare una certa destra con quella strage fa sicuramente molto male». Per questo, si direbbe, l’idea stessa della «strage fascista» va smontata. Anche se una sentenza passata in giudicato ha indicato esecutori materiali e depistatori. Casson sa bene di cosa parla in quanto negli anni 70 faceva parte di un «pool ante-litteram di magistrati sul terrorismo legato all’estrema destra». Da Milano, Bologna, Roma, Firenze e Venezia si incrociavano nomi, date, personaggi dell’eversione nera. Per questo ritiene che la storia giudiziaria non possa essere riscritta «perché non hanno elementi per riscriverla, perché se avessero un solo elemento probante avrebbero proposto un processo di revisione. Se quello che hanno non arriva neanche al livello di una prova per la revisione, vuol dire che è assolutamente inconsistente». E conclude: «C’è un po’ troppa gente che dice e crede di sapere qualche cosa, e poi alla resa dei conti non fornisce elementi per avere una verità completa e assoluta».
Ma esiste una ragione politica perché tutto il centrodestra (ministro Rotondi a parte), si sia messo a far quadrato a protezione del Presidente della Camera?
Secondo Sandra Zampa, deputata del Pd, che quel 2 agosto dell’80, studentessa fuorisede, passò dalla stazione di Bologna un’ora prima che l’ordigno esplodesse «è la stessa ragione che ha spinto la Lega a votare, turandosi il naso, il via libera al Trattato di Lisbona, dopo avere fatto delle dichiarazioni di voto che lasciavano immaginare esattamente il contrario». Vale a dire il fatto che «questa coalizione è decisa a restare esattamente lì, salda e solida, dandosi una mano su tutto. Se non quando sono costretti per il ruolo istituzionale o per questioni di equilibrio, come il caso di Frattini che ha dovuto correggere, per restare nello stesso esempio, la Lega sul Trattato di Lisbona, subito imitato da Berlusconi. Questi sono fermamente decisi a stare belli saldi, spalleggiandosi di volta in volta l’un l’altro».
È successo, in questi pochi mesi di legislatura, sulle materie giudiziarie che riguardavano la Presidenza del Consiglio e che certo non rispondevano a quell’immagine di «senso dello Stato» che rivendicava An all’inizio della propria traversata elettorale, sulle intemperanze del leader della Lega Bossi contro l’Inno e il tricolore, rimbrottate senza troppo seguito dagli uomini forti del partito di Fini.
Adesso tocca al Presidente della Camera, al delfino di Almirante, ricevere la solidarietà del resto del gruppo: «Io credo che An abbia un problema - continua Zampa - Il loro problema è la famosa lapide che alla stazione di Bologna porta la scritta “Strage fascista”. Loro, da sempre, la vogliono tirare via. Hanno provato in tutti i modi, con le buone e con le cattive. Questa è l’ultima trovata. Non c’è un’opinione pubblica che chiede di rimuovere ombre, come afferma Fini. L’altro giorno a Bologna c’erano, come accade ogni anno, centinaia di persone che, con una temperatura di quaranta gradi, riempivano via Indipendenza. Loro pensano che una sentenza è stata emessa e che va rispettata».

l’Unità 4.8.08
«Il Giornale» di Berlusconi ricorda la strage intervistando Fioravanti


«Il Giornale» di Paolo Berlusconi ha deciso di entrare sulla questione della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 in modo originale: intervistando quello che, assieme alla compagna e all’amico Ciavardini, è stato condannato per averla commessa. In una doppia pagina revisionista in cui è scritto, tra l’altro «in Italia non si può ancora dire che la sentenza di quel 2 agosto è un errore per non screditare la magistratura. E il Dc9 dell’Itavia è esploso per un ordigno piazzato dagli estremisti arabi», è l’immagine di Giusva Fioravanti, ex capo dei Nar (i Nuclei Armati Rivoluzionari), a venire fuori con prepotenza. Sotto il titolo conciliante «I familiari delle vittime mi han scritto: basta odio», l’uomo che in piazza Don Bosco, a Roma, freddò con un colpo alla nuca l’elettricista Roberto Scialabba, che fece fuori un geometra ventiquattrenne, Antonio Leandri, scambiandolo per l’avvocato Giorgio Arcangeli, che ammazzò un poliziotto di 19 anni, Maurizio Arnesano, per prendergli il mitra, e che, attraverso la sigla dei Nar, si è reso colpevole di decine di azioni violente, omicidi, intimidazioni, raid punitivi, e della strage della stazione, auspica per quest’ultima arrivata all’ultimo grado di giudizio «un nuovo processo a Roma con la speranza che ci sia un clima meno fazioso». Così, mentre si difende dall’accusa più infamante accreditando la solita pista palestinese e il coinvolgimento del terrorista internazionale Carlos, una breve nota biografica lo descrive: «Il neofascista. Dal film con la Fenech a capo dei Nar». E certo nel riquadro è scritto anche che è stato riconosciuto colpevole dell’omicidio di 93 persone (85 delle quali in qualla mattina d’agosto a Bologna), ma sembra un accidente che gli è capitato tra un film e l’altro.

l’Unità 4.8.08
Alleati contro la verità
di Gianfranco Pasquino


La commemorazione della strage alla stazione di Bologna si presta ogni anno regolarmente a tentativi di riscrivere quanto è stato accettato in via definitiva in sede giudiziaria attraverso cinque processi. Il tentativo più insidioso, ma non per questo meglio fondato, è quello che mira a individuare presunte responsabilità di una qualche pista, più o meno rossa, che coinvolga i palestinesi e qualche terrorista sciolto, ma che, soprattutto, consenta di togliere dalla lapide posta alla stazione la qualificazione «fascista».
In assenza di elementi nuovi che sono, come ha mostrato sulle pagine de l’Unità l’approfondita ricostruzione effettuata da Gigi Marcucci, alquanto sporadici e labili, la verità giudiziaria deve fare testo e costituisce, pertanto, il massimo di verità storica alla quale è finora stato possibile pervenire. Fino a che erano soltanto qualche ex-fascista e qualche ex-democristiano bolognesi alla ricerca di facile pubblicità a sostenere, senza uno straccio di elemento nuovo di una qualche rilevanza, la cancellazione dell’aggettivo «fascista», il problema si poneva esclusivamente sul piano della pur deprecabile polemica politica contingente ed effimera. Ad eccezione dei giorni intorno al 2 agosto, i “revisionisti” non si sono mai dedicati all’approfondimento dei loro sospetti. Invece, quando è il messaggio del Presidente della Camera a suggerire la necessità di indagare su un’altra pista, allora la questione diventa molto più delicata.
Da un lato, è curioso che sia proprio Gianfranco Fini, di cui non ricordo precedenti interventi in materia, a farsi sostenitore di una tesi al momento fragilissima. Proprio lui che ha fatto molto per allontanare la sua Alleanza Nazionale da un passato torbido, fatto anche di azioni teroristiche, si preoccupa oggi di un aggettivo che non dovrebbe più in nessun modo riguardare il suo partito tantomeno in proiezione futura. Perché attirare incautamente l’attenzione su un’attribuzione che i giudici hanno ritenuto credibile e definitiva? Forse soltanto per ricompattare l’ala dura del partito, con agganci in alcune frange esterne, che morde il freno dovendo sostenere e ingoiare provvedimenti sgraditi del governo in materia di giustizia? Dall’altro, forse, è persino paradossale che sia il capogruppo del Popolo della Libertà alla Camera, Fabrizio Cicchitto, agli inizi degli anni Ottanta cacciato dal Psi ad opera di Craxi perché trovato iscritto alla loggia P2, ad avallare il messaggio di Fini, con tutta probabilità anche per conto di Berlusconi. Quand’anche esistesse una pista diversa da quella fascista, rimane il caso di ricordare che i giudici hanno condannato per depistaggio più di un agente dei servizi segreti, appartenenti alla P2. Perché mai i piduisti avrebbero dovuto “coprire” i palestinesi e le responsabilità di qualche residuale terrorista rosso? Infine, è interessante notare che a questa opera di improbabile riscrittura dei fatti non si è in nessun modo prestato il rappresentante del governo, il ministro per l’Attuazione del Programma, Gianfranco Rotondi. Al contrario, subito criticato da qualche estremista ex-democristiano, Rotondi ha sottolineato l’importanza dell’antifascismo e dell’impegno civile della città di Bologna. Non è affatto un gioco delle parti poiché il ministro, che ha parlato a braccio, persino interloquendo, nella misura del possibile, con parte della piazza, esprimeva certamente le sue convinzioni personali, ma non poteva non impegnare anche, proprio per il suo ruolo e il suo compito, la posizione del governo. A maggior ragione, dunque, risultano oscure le motivazioni di Fini e il sostegno non richiesto, ma subito concesso, da Cicchitto, anche lui una new entry nel complesso e doloroso discorso di quanto ancora non sappiamo sulla strage di Bologna.
Qualcuno potrebbe affermare che il Presidente del Consiglio non può che appoggiare sia Bossi sia Fini quando costoro hanno delle difficoltà con le componenti più estremistiche dei loro rispettivi partiti. E che, dal canto suo, Fini ha bisogno di quell’appoggio e ha sfruttato l’occasione forse più controversa. Eppure “fascista” è una connotazione che non dovrebbe disturbare più il Presidente della Camera. Anzi, potrebbe consentigli di “depurare” Alleanza Nazionale da eventuali scorie rimaste. Sarebbe meglio per tutti, piduisti compresi, se possono permetterselo, rivolgere l’attenzione alla ricerca non di altri, improbabili esecutori della strage fascista, ma dei mandanti. I molti deliberati depistaggi e il passare degli anni rendono sempre più difficile illuminare quello che rimane il punto oscuro della strage di Bologna: chi ha armato, autorizzato, coperto gli stragisti? Con quali motivazioni si è potuto dare mandato per l’esecuzione della più sanguinosa strage della storia italiana? I giudici possono con impegno e meticolosità produrre una verità. Lo hanno fatto. I politici di vertice dovrebbero avere il compito, non di spostare l’attenzione dai fatti accertati e di inquinarli, ma di sgombrare il campo dagli ostacoli tuttora frapposti all’individuazione dei mandanti.

Repubblica 4.8.08
Bologna, le ombre e le intenzioni
di Giuseppe D’Avanzo


Nessuna sentenza scolpisce la Verità nella pietra. Di ogni sentenza si può dubitare. È soltanto la fallibile verità degli uomini scritta, quando le cose vanno per il meglio, al termine di un´operazione tecnica. Esiste una macchina procedurale. L´accusa formula le sue opinioni. Chi si difende le si oppone con contro-argomenti.
Il dibattimento pesa le une e gli altri. Ne convalida uno. Nel 1995 Giusva Fioravanti e Francesca Mambro sono stati condannati all´ergastolo come esecutori della strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti, 200 feriti). Si dichiarano da sempre innocenti. Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha voluto, nel giorno dell´anniversario della strage, far sentire la sua voce per chiedere che «si dissolvano le zone d´ombra che hanno suscitato perplessità crescenti nell´opinione pubblica intorno all´accertamento della verità sulla strage». Parole irrituali o, come ha detto il sindaco di Bologna Sergio Cofferati, addirittura «gravi» perché «sollecitano la riapertura di un processo sulla base di perplessità dell´opinione pubblica». Ammesso che davvero ci siano esitazioni nell´opinione pubblica – e ammesso che esista davvero l´opinione pubblica – «le perplessità» non possono essere un criterio per una revisione del processo.
Più utili le zone d´ombra. Ce ne sono? Quali sono?
Nel corso del tempo, in un´inchiesta e in un processo teatro di depistaggi di ogni genere e segno (per depistaggio sono stati condannati Licio Gelli e Francesco Pazienza, a dieci anni, e due ufficiali del Sismi, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte), si sono contate almeno tre piste alternative abitualmente designate con le formule: «falangisti libanesi»; «libici»; «depistaggio per Ustica».
La prima "pista" nasce dai ricordi di Abu Iyad, un dirigente palestinese. Dichiara che l´Olp ha fornito alla magistratura italiana «indizi» sulla responsabilità di fascisti italiani addestrati in Libano nei campi falangisti. La seconda ipotesi la indica un fascista: Stefano Delle Chiaie. Il suo avvocato sostiene che l´attentato alla stazione di Bologna era stato organizzato «per coprire la vera storia di Ustica», avvenuta un mese prima. Anche l´ipotesi libica nasce connessa alla strage di Ustica, ma ne attribuisce la responsabilità a Gheddafi. A luglio 1991 il parlamentare dc Giuseppe Zamberletti giura che la bomba alla stazione sarebbe stata una ritorsione per l´accordo tra Italia e Malta firmato proprio la mattina del due agosto 1980. (In una variante di questa teoria, i libici avrebbero agito in replica al tentativo di assassinare Gheddafi a Ustica).
Tutti gli intrighi sono stati esaminati dalla magistratura bolognese che ne ha riscontrato l´infondatezza e, in alcuni casi, la strumentalità. Negli ultimi mesi ha fatto capolino una nuova "certezza" già proposta dalla commissione Mitrokhin. L´ha proposta il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga. «Io, che di terrorismo me ne intendo, dico che la strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della "resistenza palestinese" che, autorizzati dal "lodo Moro" a fare in Italia quel che volevano purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente con una o due valigie di esplosivo. Divenni presidente del Consiglio poco dopo, e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così». La ricostruzione di Cossiga (che in realtà già era a capo del governo) sembra accostarsi alle rivelazioni di Carlos Ilich Ramirez Sanchez, «lo sciacallo»: «L´attentato contro il popolo italiano alla stazione di Bologna "rossa" non ha potuto essere opera dei fascisti e ancora meno dei comunisti. È opera dei servizi yankee, dei sionisti e delle strutture della Gladio. Non abbiamo riscontrato nessun´altra spiegazione». Giusva Fioravanti conclude che «la pista palestinese è ormai palese. Carlos ammette che quell´esplosivo era il loro e che a farlo brillare sono stati i servizi israeliani o americani».
Sarebbero queste le nuove zone d´ombra. E si fa fatica a crederle attendibili. Lasciamo da parte gli arzigogoli della "Mitrokhin", la più pasticciona "agenzia di disinformazione" che sia stata mai ospitata in un Parlamento. Carlos non dice che l´esplosivo di Bologna fosse della sua organizzazione. È Cossiga che dice che fosse patrimonio palestinese. Purtroppo il presidente emerito, nel corso degli anni, ha cambiato troppe volte versione per ritenere questo un racconto definitivo. È soltanto l´ultimo in ordine di tempo.
Il 4 agosto 1980, al tempo presidente del Consiglio, Cossiga dichiara in Parlamento che l´attentato alla stazione era un attentato «fascista» («Non da oggi si è delineata la tecnica terroristica di timbro fascista. Il terrorismo nero ricorre essenzialmente al delitto di strage perché è la strage che provoca paura, allarme, reazioni emotive e impulsive»). Il 15 marzo 1991, divenuto presidente della Repubblica, dice di essersi sbagliato nel definire «fascista» la strage; presenta le scuse al Msi; sostiene che «il giudizio da me espresso allora fu il frutto di errate informazioni che mi furono fornite dai Servizi e dagli organi di polizia. La subcultura e l´intossicazione erano agganciate a forti lobbies politico-finanziarie». Nel 2000, nuovo ripensamento. In una fatica memorialistica (La passione e la politica, Rizzoli) Cossiga scrive: «Mi hanno tempestato perché dicessi quello che so. Io non so nulla». Nel 2007, in un colloquio pubblicato in Tutta un´altra strage di Riccardo Bocca, il presidente emerito fornisce qualche elemento. Ricorda quel che ha saputo o già sapeva (chissà). La tesi dell´esplosivo palestinese gli sarebbe stata comunicata «nella prefettura felsinea, a ridosso dell´attentato (dunque nell´occasione in cui definì la strage "fascista"), dal capo dell´ufficio istruzione di Bologna, Angelo Vella» (massone).
Come si possono definire «zone d´ombra» quest´affastellarsi confusissimo e contraddittorio di ipotesi, congetture, ricostruzioni senza alcuna prova o indizio – se non indiscrezioni, non si sa da dove piovute? E tuttavia ammettiamo che lo siano: appaiono incoerenti le mosse dei protagonisti (Fioravanti e Mambro) e dei loro sostenitori (la leadership del Movimento sociale di un tempo ora al governo e in Parlamento).
Il processo di Bologna come tutti i processi di quel tipo è stato indiziario. Come sempre nei processi indiziari, ci sono fragilità e debolezze nella sentenza. Ora se si vuole riaprire il processo non c´è che da metter insieme un collegio di avvocati sapienti che, come prescrive la legge, raccolga «nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto». O che documentino come «la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato».
Il fatto è che non c´è traccia in questa storia né di un collegio di avvocati al lavoro né di una richiesta motivata (anche di là a venire) di revisione del processo. Il dibattito mai tecnico è tutto e soltanto politico. Nasce, si gonfia e prospera nei corridoi del Palazzo, nelle interviste senza contraddittorio, nelle audizioni e nei carteggi di rovinose commissioni parlamentari. È un dibattito che si sovrappone al conflitto tra magistratura e politica; al disegno del governo di screditare il lavoro delle toghe in attesa di una nuova riforma della Costituzione e dell´ordinamento giudiziario. Appare soltanto "occasione" di una politica e un´operazione di azzeramento delle identità e delle differenze. È una disputa che non cela di voler creare una memoria condivisa e artificiosa che è piuttosto «comunione nella dimenticanza», «smemoratezza patteggiata».
Lungo questa strada, Mambro e Fioravanti non avranno mai il nuovo giudizio che attendono. Questo dibattito – che mai affronta la controversia degli argomenti, il loro contraddittorio nel solo luogo che può dare concretezza ai dubbi – può soltanto umiliare gli ottantacinque morti della stazione. Perché, si sa, «si può far tutto con i morti, non hanno difese».

Repubblica 4.8.08
Strage, scontro sulle "zone d'ombra"
Pdl: da Fini dubbi legittimi. Pd: no, si è comportato da uomo di parte
di Francesco Bei


Il centrodestra fa quadrato dopo le accuse di Cofferati. Pellegrino: verità ancora da scrivere

ROMA - Palestinesi o fascisti? Verità giudiziaria o verità tout court? Dopo 28 anni intorno alla strage di Bologna è ancora polemica e questa volta sono state le parole di Gianfranco Fini - che da presidente della Camera ha inviato un messaggio ai familiari delle vittime augurandosi che si dissolvano le «zone d´ombra» intorno all´eccidio - a scaldare gli animi.
Dopo la dura replica del sindaco Cofferati al presidente della Camera (si veda l´intervista di ieri a Repubblica), a difesa di Fini e a favore della riapertura delle indagini si schiera il capogruppo alla Camera del Pdl, Fabrizio Cicchitto. «I dubbi avanzati da Fini - afferma - sono del tutto legittimi. A suo tempo è stato stabilito un singolare teorema a senso unico: per definizione la strage deve essere fascista, i suoi autori sono Mambro e Fioravanti, chi mette in discussione questi due assiomi è fascista o amico dei fascisti».
Ora invece che «seri dubbi sulla ricostruzione dei fatti» sono stati avanzati «anche da studiosi che nulla hanno a che fare con l´area Msi-An», «non si capisce perché - conclude Cicchitto - questi dubbi debbano essere bollati come indegni». D´accordo con l´esponente forzista è Francesco Storace, segretario della Destra, che si lamenta tuttavia dell´intervento del ministro Rotondi sul palco di Bologna: «Cicchitto ha ragione. Peccato che il rappresentante del governo alla manifestazione abbia parlato d´altro». Anche la Lega, con Mario Borghezio, plaude al «coraggio» di Fini e chiede l´apertura di una commissione d´inchiesta sui fatti del 2 agosto 1980 per «squarciare il velo delle verità di comodo».
E da sinistra, si fa sentire con l´Ansa l´ex presidente della commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, per il quale la verità sulla strage di Bologna è ancora tutta «da scrivere». Per Pellegrino Mambro, Fioravanti e Ciavardini «sono stati condannati sulla base di indizi» e quindi è difficile dire con certezza «se siano davvero colpevoli o innocenti». Riguardo all´ipotesi "palestinese", l´esponente del Pd ricorda che si tratta di una «vecchia pista» che venne seguita anche dalla commissione Stragi, ma che poi si decise di lasciar stare anche «per l´impossibilità di ascoltare Carlos a Parigi». Pellegrino lascia comunque intendere che potrebbero esserci novità: «Ora so che la Procura di Bologna sta seguendo una pista, staremo a vedere... Nel frattempo scambiare ipotesi per certezze, così come ha fatto anche Cossiga, è assolutamente sbagliato».
Intanto l´uscita di Fini sulle «zone d´ombra» continua ad alimentare la polemica politica. Sandra Zampa, deputato Pd (ed ex capo ufficio stampa di Prodi) dice di trovare «sconcertante che alte cariche istituzionali tornino a mettere in discussione una verità che è accertata». E dunque da Fini «ci si attendeva un intervento capace di superare l´appartenenza a una parte politica». Critica anche Silvana Mura, coordinatrice dipietrista dell´Emilia Romagna: «Forse sarebbe più utile che chi ricopre importanti cariche istituzionali utilizzasse la sua autorevolezza per sollecitare il governo a togliere il segreto di Stato sulla strage di Ustica, invece che mettere in forse una sentenza sulla base di ipotesi già vagliate e scartate dalla procura di Bologna».

Repubblica 4.8.08
Il sindaco di Roma: "Fini ha ragione, da Cofferati risposte dogmatiche"
Alemanno: "No a verità di comodo la pista palestinese va seguita è più credibile di quella nera"
di Giovanna Vitale


ROMA - Sindaco Gianni Alemanno, il presidente Fini ha auspicato che sulla strage di Bologna «si dissolvano le zone d´ombra». Dopo 5 gradi di giudizio che senso ha riaprire vecchie ferite?
«Fini ha perfettamente ragione perché c´è un´altra pista, quella del vecchio terrorismo palestinese, che soltanto da poco si è cominciata a esplorare. C´è un´inchiesta in corso: a giugno il sostituto procuratore Giovagnoli è stato in Germania per interrogare Thomas Kram, uno dei testimoni della pista palestinese. Che è quindi totalmente aperta e sembra molto più seria, molto più promettente della pista nera».
È una «verità comoda», secondo Gianni Alemanno, quella accertata dai giudici di Bologna che hanno condannato i neofascisti Mambro, Fioravanti e Ciavardini. Per l´esponente di An esiste un´altra verità «altrettanto credibile» e «mai indagata fino in fondo».
Perché sarebbe molto più seria e credibile?
«Partiamo da un presupposto: come mai la pista nera ha portato alla condanna di tre persone, accusate di essere gli esecutori materiali, ma non s´è mai trovato il mandante? È il risultato di processi indiziari che non sono mai approdati a una verità chiara, al vero movente, al vero mandante. Di contro, c´è questa pista del terrorismo internazionale che ha indotto il presidente Cossiga a chiedere scusa per aver dichiarato che la matrice era fascista e a suggerire di cercare gli autori nel Fplp. Ci sono una marea di riscontri in tal senso, indagati solo a partire dal 2005: io credo che si debba andare a fondo per capire se effettivamente questo filone può portare a qualcosa di più concreto rispetto all´altro».
Quindi ha torto Cofferati quando parla di tentativo di riscrivere la storia?
«Diciamo subito una cosa: la strage di Bologna è stato uno dei crimini più efferati della storia repubblicana. Quindi sono a fianco di Cofferati quando chiede verità e giustizia, però gli ricordo che la giustizia è sempre connessa alla verità. Quando si cerca la verità non bisogna fermarsi a quella che fa più comodo sostenendo, dogmaticamente, che la pista palestinese sulla quale c´è un´inchiesta in corso è falsa. Per me non c´è nessuna differenza tra chi denuncia che ancora i mandanti di Mambro e Fioravanti non sono stati trovati e chi dice "esploriamo anche altre piste", perché se i mandanti non sono usciti fuori è perché o la sentenza sulla matrice neofascista è parziale o esistono altre piste da verificare».
Eppure l´ex procuratore capo, Enrico de Nicola, sostiene che tutte le piste sono state sondate prima di formulare il verdetto...
«Noi abbiamo un parere rispettabile dell´ex procuratore capo e un altro del procuratore attuale che, sulla base dei risultati della Commissione Mitrokin, ha ritenuto gli elementi della pista palestinese meritevoli di indagine, tant´è che l´ha affidata al sostituto Giovagnoli. Come si fa a dire che c´è una verità sicura se è in atto un´altra inchiesta? È una violazione dell´autonomia della magistratura».
Quindi secondo lei Mambro e Fioravanti sono innocenti?
«Guardi, io non ho nessuno da difendere, non ho alcuna simpatia né atteggiamento di riguardo nei loro confronti. Però dico che di fronte a un fatto così grave non si possono continuare a ignorare altre piste. Mambro e Fioravanti si sono macchiati di reati gravissimi, ma forse non della strage di Bologna».
Quindi concorda con l´onorevole Cicchitto che proprio ieri ha parlato di «singolare teorema politico»?
«Io ritengo che la strategia della tensione abbia prodotto tante verità che si sono sovrapposte nel tempo e sulle quali non è stata fatta piena luce, e questo non riguarda solo Bologna. Spesso nel corso degli anni si sono preferite più verità comode e ideologiche che verità scomode. Dire che la bomba alla stazione potesse avere origine nel terrorismo internazionale era molto più difficile e problematico che addossare la colpa al terrorismo interno».
Che tuttavia proprio in quegli anni fece centinaia di morti...
«Lungi da me negarlo. Nei ´70 ci fu una guerra civile strisciante che peraltro cominciò dal maledetto slogan "Uccidere un fascista non è reato", urlato da vari gruppi dell´estrema sinistra che, falliti i loro obbiettivi rivoluzionari, decisero di convogliare tutta la loro energia nell´antifascismo militante. Suscitando ovviamente delle reazioni altrettanto dure da parte dell´estrema destra. E ciò fu un incubatore sia delle Br sia dei Nar. Purtroppo le istituzioni se ne accorsero solo dopo l´omicidio di Moro. All´inizio tesero a minimizzare, addirittura sostenendo che non esistesse il terrorismo rosso».
Uno dei suoi primi atti da sindaco di Roma è stato visitare le Fosse Ardeatine, dove condannò tutti i totalitarismi senza però mai fare riferimento al fascismo. Se la sente di farlo adesso?
«È ovvio che quando uno condanna tutti i totalitarismi non esclude quello italiano. Negli anni passati s´è cercato di fare una classifica tra dittature "buone" e dittature "cattive", che io non condivido. Si potrà scongiurare il loro ritorno solo se siamo tutti consapevoli dell´avvelenamento ideologico da cui originava il fascismo come il comunismo. Un clima che ha coinvolto non solo criminali ma anche persone in buona fede che si sono battute e sono morte per un ideale».

l’Unità 4.8.08
La politica s’inchina a sua maestà la menzogna
di Michele Prospero


Molti i modi di mentire: dal fornire una versione comoda dei fatti, all’inventare
pericoli inesistenti per eludere quelli veri

Il filosofo Giacché spiega come funziona e a cosa serve l’odierna fabbrica del falso: in primo luogo a «tenerci buoni»

«Le masse... cadranno vittime più facilmente di una grossa menzogna che di una piccola». Adolf Hitler in «Mein Kampf»

I TAGLI? SI CHIAMANO «RIFORME». Le torture? «Tecniche di interrogatorio rafforzate». Un tempo le verità inconfessabili del potere erano coperte dal segreto, oggi la guerra contro la verità è combattuta e vinta sul terreno della parola

Cosa tiene in piedi le società odierne nelle quali aumentano a vista d’occhio le differenze di potere e di ricchezza e però nessun accenno compare verso un rifiuto collettivo delle nuove forme di dominio? Come mai in un sistema sociale che sforna in continuazione inedite esclusioni e cronicizza la flessibile precarietà dei lavori regna ancora più piatta la sovrastante potenza ordinatrice del capitale? Cosa impedisce la rivolta degli attori sociali in un mondo in cui le vacche del nord guadagnano con i sussidi loro erogati il doppio dei salari dei lavoratori del sud? Queste domande sono al centro del libro di Vladimiro Giacché, La fabbrica del falso, che riflette all’interno di una serrata critica dell’ideologia contemporanea coniugando con finezza una cruda e molto informata descrizione dei processi reali e una sottile ironia.
L’autore, con alle spalle un dottorato di filosofia alla Normale, e un presente nei ruoli direttivi del mondo dell’economia e della finanza, dinanzi ai dilemmi di oggi suggerisce una risposta ai limiti della provocazione teorica. Il nucleo del suo ragionamento è questo: oggi mancano soggetti sociali combattivi perché il grande protagonista del discorso pubblico è diventata la fabbrica del falso. La menzogna con i suoi meccanismi linguistici di occultamento del dato empirico si afferma in ogni ambito del vissuto neutralizzando così i processi reali sempre più relegati su uno sfondo lontano e invisibile. Le parole chiave del lessico contemporaneo rivelano questa perdita di referenzialità che porta alla costruzione di eterei fantasmi che rendono impalpabili gli interessi sociali. Ci sono parole inventate solo per nascondere, altre invece servono per deviare e occultare.
Nel mondo attuale trionfa un aspro e selettivo sistema sociale che però preferisce rimuovere il suo ingombrante e ancora sospetto nome, capitalismo globale, per assumerne uno più mite e in apparenza gradevole, quello di economia di mercato. Il linguaggio tecnico con i suoi eufemismi leggeri contribuisce a fare del mercato proteso alla massimizzazione del profitto una cornice naturale e del tutto astorica. Per esemplificare questa torsione del linguaggio in chiave ideologica, Giacché conta che in un solo giorno la parola mercato compare ben 82 volte sul maggiore quotidiano economico. Persino il Trattato europeo parla per ben 78 volte di mercato, per 27 volte compare in esso la parola concorrenza e una sola volta esce il termine residuale occupazione. E le parole dominanti segnalano un più profondo cambiamento avvenuto nei rapporti sociali. I media rafforzano le potenze egemoni quando diffondono all’unisono una autentica metafisica dell’economia che attribuisce al mercato una ragione assoluta e contorce il senso del reale quando parla con trasporto di «restituzione» al mercato di imprese che però sono sempre state in mani pubbliche.
Oltre a parole che servono per addolcire o per sviare, la fabbrica del falso sforna parole che servono solo per stigmatizzare, per colpire un nemico immaginario per mettere all’erta altri più insidiosi. Giacché rammenta, a questo proposito, una risoluzione del 2006 con la quale il parlamento europeo invita a respingere l’ideologia comunista vista come in sé repressiva. Non se la passano bene al setaccio della repressione linguistica imperante neanche classici come Goethe, Kafka, Dostojevski che sono stati cancellati dai programmi scolastici polacchi perché giudicati immorali, nichilisti, e persino criminali. Il linguaggio serve anche a coniare parole spauracchio e per questo nella repubblica ceca è stata messa fuori legge la gioventù comunista perché nei suoi documenti ufficiali parla ancora di lotta di classe, mentre la costituzione vieta persino l’uso dell’espressione desueta e ormai criminogena. Con locuzioni devianti, con simboli ingannevoli viene coperto il crudo dominio postmoderno che Giacché rende bene con queste cifre: l’1 per cento detiene il 40 per cento del patrimonio finanziario e immobiliare del mondo, il 50 per cento delle popolazione accede solo all’1 per cento della ricchezza planetaria. Inoltre tra i 100 principali soggetti economici mondiali 51 sono imprese, 49 sono i paesi. Su queste basi materiali di dominio, lavora poi un immaginario leggiadro che nega la visibilità mediatica del conflitto e si rifugia in una neolingua del mercato che si autonomizza dalla politica.
La fenomenologia della menzogna prescrive come sua regola aurea che la visibilità stessa del disagio sociale vada sempre rimossa. Giacché ricorda che ad Atene, per i giochi olimpici del 2004, furono deportati 11 mila senzatetto. Negare la tangibilità delle contraddizioni della metropoli è un imperativo supremo per scacciare per sempre i problemi sociali dalla sfera pubblica. Per questo oggi nelle città si vieta l’accattonaggio e il sindaco si veste da sceriffo. In una società della merce, la vista del disagio estremo crea imbarazzo nei consumatori. E perché mai turbare i sensi esteticamente esigenti del consumatore finale con scene imbarazzanti di quotidiana povertà? Per gli ultimi basta la compassione, e la carità può prendere il posto della solidarietà pubblica. Importante è che nessuno pensi di mutare le condizioni sociali di esistenza, o prospetti addirittura strategie per i diritti. Vengono per questo progettate forme di esplicito depistaggio per inculcare in chiunque la paralizzante percezione di vivere insicuri. Lo Stato sociale viene così superato dallo Stato penale che deve inventarsi emergenze e nemici alle porte. Giacché rammenta che sotto Blair non solo si fece ricorso alla schedatura del dna, ma vennero impiantate 4,2 milioni di telecamere spia e inventati 3023 nuovi reati.
Per favorire l’ingresso nello Stato penale emergenziale, la menzogna più grande che viene fabbricata riguarda il lavoro. La sua sconfitta deve essere irreparabile e duratura. Le cifre al riguardo sono quelle che Giacché riporta. Trent’anni fa l’85 per cento della popolazione attiva aveva un lavoro stabile. Nel 2010 un impiego sicuro e protetto toccherà ad appena il 25 per cento. Il lavoro nelle sue retribuzioni non supera spesso la soglia di povertà. Già oggi 3 milioni di lavoratori percepiscono meno di 800 euro al mese e altri 3 milioni sono al di sotto dei mille euro. Esiste una povertà strutturale che nasce dal lavoro, non dalla esclusione dei derelitti. Eppure ciò che la grande officina del falso nasconde è proprio la ragione stessa del conflitto sociale per i diritti e per il salario migliore. In una società che rende ognuno un uomo precario, che può essere acquistato con decine di modalità contrattuali, sembrano sfumare le classi e con esse le ragioni della mobilitazione collettiva. Spesso si riscontra il paradosso, una vera forma di scissione la chiama Giacché, per cui il lavoratore, conferendo i soldi per la sua pensione ad un fondo pensione, si tramuta in investitore che potrebbe, per la sua stessa azienda, decidere delocalizzazioni, licenziamenti. In questi casi - conclude Giacché - non solo il lavoro non pagato origina il plusvalore ma è «il salario differito a trasformarsi immediatamente in capitale».
La immensa fabbrica del falso contribuisce a occultare il dominio reale facendo sì che una grande quantità di soggetti, da ritenersi senz’altro oggettivamente dei proletari postmoderni per reddito e condizione occupazionale, soggettivamente si sentano tutt’altro altro e rifiutino con sdegno ogni identificazione in termini di classe sociale. Interviene qui il miracolo del consumo che, in virtù di una gigantesca macchina mondiale adibita alla produzione illimitata dei desideri, rende tutti cacciatori instancabili di tendenze, sedotti dai messaggi della ricchezza a portata di mano, grazie a bancomat e carte di credito. Quando tutti inseguono la pubblicità per cercare di somigliare ai suoi modelli di consumo, declina ogni responsabilità civica. Compare così una democrazia sfregiata che perde ogni aggancio con l’idea di una eguaglianza da costruire con politiche di inclusione. Quello che continua a portare il nome di democrazia in realtà è sempre più uno stanco rituale con il quale una élite dell’economia e degli affari si lascia legittimare, a scadenze prefissate, dal voto passivo di elettori distratti e disincantati. Tra ingorde oligarchie del denaro e rampanti gestori dei media che si contendono il potere, la libertà torna ad essere una mera appendice della sicurezza e della proprietà che ovunque conquista posti di comando nelle istituzioni.
E che ne è del pensiero critico? La tendenza della società dell’iperconsumo è quella di fare del consumo l’unico collante sociale. Tutto l’agire sociale pare risolversi perciò in una ricerca frenetica di sponsorizzazione e in perenne organizzazione di eventi. Gli stessi luoghi classici di produzione del sapere, le università, entrano nel vortice del consumo e, benché prive di fondi per la ricerca, riescono a spendere per la pubblicità la bellezza di 20 milioni di euro. Come attendibile spirito del tempo Giacché riporta l’esemplare caso della pubblicità dell’Università di Macerata: «Liscia o Gassata? Università di Macerata fonte di cultura, sorgente di professionalità». Tutte le forme di espressione, anche quelle del sapere, assumono ormai i devianti codici espressivi della pubblicità. Depotenziato dalle metafore deformanti della neolingua della merce, il soggetto sociale ancora manca e non si presenta sulla scena pubblica. In attesa che qualcosa sconvolga la seduzione ingannevole della merce, Giacché propone di cominciare assediando intanto il linguaggio per ripulirlo, e per riconsegnare così il reale alla sua durezza espressiva. La filosofia è insomma il proprio tempo negato (per ora) solo con il pensiero.

Repubblica 4.8.08
La generazione perdente che va a destra
di Ilvo Diamanti


Rifondazione Comunista è implosa. Prima alle elezioni politiche del 13 aprile, dove è rimasta esclusa dal Parlamento. Poi, al congresso, dove si è divisa in due pezzi quasi uguali, a sostegno dei candidati alla segreteria: Vendola e Ferrero, il vincitore.
Anche se, in effetti, il partito è assai più frammentato, perché, fin dalle origini, raccoglie molteplici componenti dell´opposizione radicale di sinistra. Una galassia ai margini del sistema politico. "Minoranza", per definizione e per vocazione. Ma, anche per questo, uno dei riferimenti politici più significativi per i giovani. I quali hanno di fronte un futuro aperto. Amano le utopie. Pensano che sia possibile afferrare i sogni. Raggiungere "l´isola che non c´è". E cercano, inoltre, di definire la propria identità tracciando confini netti fra se stessi e gli altri. Contro padri e padroni. Per questo molti giovani hanno guardato alle posizioni più radicali della sinistra (ma anche della destra) con maggiore passione rispetto alle altre generazioni.
Oggi, però, ciò non avviene più. L´implosione (l´eclissi?) di Rifondazione Comunista è un segno, ma non il solo, del distacco dei giovani dalla sinistra. Non solo radicale, anche moderata. Si tratta della fine di un ciclo breve, che durava dall´inizio di questo decennio (millennio). Da quando, cioè, i giovani erano tornati a votare a sinistra, dopo circa trent´anni. Passata la vampata del Sessantotto, infatti, si erano raffreddate in fretta le speranze di cambiamento che avevano mobilitato ampi settori della società e, in particolare, i giovani. Frustrate dalle utopie del terrore, negli anni Settanta. Dal crollo dei muri e delle ideologie, negli anni Ottanta. Infine, in Italia, dalla fine della prima Repubblica e dei soggetti politici che l´avevano accompagnata. Dopo la stagione dei movimenti era emersa una generazione "senza padri né maestri" (per citare il titolo di un saggio di Luca Ricolfi e Loredana Sciolla), che si era rifugiata nella "vita quotidiana" (come evoca un altro testo, scritto da Franco Garelli). La domanda di cambiamento era defluita altrove, soprattutto nella partecipazione volontaria. Un fenomeno diffuso, cresciuto a contatto con i problemi di ogni giorno.
Così i giovani erano divenuti "invisibili". Confusi nell´ambiente sociale e locale. Pur diventando appariscenti sui media. Consumatori ed essi stessi consumo. Bersagli e attori di ogni campagna pubblicitaria. Protagonisti di serial e reality televisivi. Politicamente, si erano spostati al centro. Oppure "fuori" dalla vita politica. A sinistra, invece, erano rimasti i loro genitori. Quelli della mia generazione, che nel Sessantotto avevano intorno a 18 anni. Nati dopo la fine della guerra, nei primi anni Cinquanta. A metà strada, fra noi e i nostri figli, una "generazione perduta", come l´ha definita Antonio Scurati in un suggestivo (auto) ritratto pubblicato sulla Stampa. Nata alla fine degli anni Sessanta. Mentre la "rivoluzione" bruciava e si consumava altrettanto rapidamente. Nel 1989, vent´anni dopo, scrive Scurati, nella notte in cui cadde il muro "finì un´epoca della politica, ma per la mia generazione non n´è mai iniziata un´altra. Non a sinistra, quanto meno".
Infatti, fino alla conclusione del secolo, la classe d´età orientata a sinistra più delle altre è progressivamente invecchiata, da un decennio all´altro. I ventenni del Sessantotto. I trentenni negli anni Settanta. I quarantenni negli anni Ottanta. I cinquantenni negli anni Novanta. E via di seguito. Una generazione di nostalgici, che votano allo stesso modo, un po´ per speranza, un po´ per abitudine.
Solo dopo il 2000 i giovani sono tornati a sinistra. Soprattutto i "più" giovani. I miei figli. I fratelli minori di Scurati (se ne ha). In particolare gli studenti. Per diverse ragioni. La comune condizione di incertezza li ha resi inquieti. Una generazione senza futuro. La prima, nel dopoguerra, ad essere convinta (con buone ragioni) che non riuscirà, nel corso della vita, a migliorare la posizione sociale dei propri genitori. Poi, l´attacco alle torri gemelle e la guerra in Iraq. La globalizzazione economica e politica. Hanno alimentato l´insicurezza e il senso di precarietà, soprattutto fra i giovani. Che hanno "una vita davanti". Ma quale? Li hanno spinti a mobilitarsi e a manifestare (soprattutto gli studenti). Anche per sentirsi meno soli. I (più) giovani, infine, hanno maturato una competenza comunicativa e tecnologica diffusa. Capaci di stare in contatto fra loro, senza limiti di spazio e tempo. Di sperimentare linguaggi nuovi, inediti e largamente incomprensibili agli adulti. Sono divenuti una tribù. Mischiati agli adulti, eppure separati da essi. I (più) giovani. Quelli nati negli anni Ottanta, al tempo della caduta del muro. Quelli che non avevano conosciuto il Sessantotto, il terrorismo, la Dc e il comunismo. Quelli per cui CCCP è un gruppo di rock progressivo e Berlino una città di tendenza. Si sono spostati a sinistra. Perché dall´altra parte c´era Berlusconi. Il padrone dei media. Icona del potere nel mondo della comunicazione. A cui opporsi. Perché dall´altra parte c´erano gli amici di Bush e della guerra, ma anche i sostenitori del lavoro flessibile. Così, alle elezioni del 2001 e in quelle del 2006 i giovani hanno votato massicciamente a sinistra. Soprattutto, ripetiamo, gli studenti e i giovani con una carriera di studi più lunga.
Oggi questa stagione sembra conclusa. Era emerso anche nei sondaggi pre-elettorali, ma in misura minore a quanto si è poi verificato. Infatti, alle elezioni del 13 aprile 2008 (Sondaggio Demos-LaPolis, maggio 2008, campione nazionale di 3300 casi) appena il 31% dei giovani (fra 18 e 29 anni) ha votato per (la coalizione a sostegno di) Veltroni. Il 49%, invece, per Berlusconi. Una distanza larghissima, superiore a quella registrata fra gli elettori in generale. Alle "estreme" dello schieramento politico, invece, la distanza fra le parti si è annullata; anzi, quasi invertita. Il 3,2% dei giovani ha votato per la Sinistra Arcobaleno, poco più (oltre il 4%) per la Destra di Storace. Una tendenza ribadita, peraltro, dal voto degli studenti. Anche fra loro la coalizione a sostegno di Berlusconi ha superato il centrosinistra di Veltroni, seppure con uno scarto più ridotto: 42% a 37%. Mentre la Destra radicale è, a sua volta, più avanti della Sinistra Arcobaleno: 6% a 4%. Vale la pena di aggiungere che Di Pietro, fra i giovani, dimostra scarso appeal. Anzi: il suo peso elettorale è più ridotto che nel resto degli elettori.
Quasi una svolta epocale, insomma. Naturalmente, la spiegazione più facile è prendersela con loro. I giovani. Sospesi fra precarietà e un mondo di veline e amici, sarebbero stati risucchiati in un nuovo riflusso "conservatore". Vent´anni addietro, a un osservazione del genere, Altan faceva replicare a Cipputi: «Mi devo essere perso il flusso progressista…». Per capire il deflusso dei giovani verso la destra e il non-voto, però, è più semplice soffermarsi sullo spettacolo offerto dalla sinistra, riformista e radicale. Il Pd, attraversato da divisioni personali e di corrente. Intorno ai soliti nomi: Veltroni, D´Alema, Rutelli. Marini. Rifondazione: segmentata da fazioni e frazioni. Alcune che "pesano" il 3-4% in un partito stimato intorno al 2%. Pochi accenni, risaputi, evidenti a tutti. Sufficienti a comprendere perché la Sinistra non possa aiutare i 30-40enni della "generazione perduta" a ritrovarsi. Tanto meno i giovani – e gli studenti – a identificarsi. Si sentono una "generazione perdente". Perché dovrebbero affidare il proprio destino, la propria rappresentanza a una classe politica "perdente" di professione?
I dati citati in questo articolo sono disponibili su www.repubblica.it e www.demos.it

il manifesto 3.8.08
Alexandre Kojève
L'esperienza vissuta della libertà nell'assenza di Dio
di Roberto Ciccarelli


L'ATEISMO, DI ALEXANDRE KOJÈVE, QUODLIBET,
pp. 182, euro 22

«Questo libro è solo l'abbozzo di una mia fantasia, non è definitivo e per questo non va pubblicato». Posizionata in una nota alla fine di un'opera che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di un'opera mai più sviluppata, questa avvertenza di Alexandre Kojève a L'Ateismo avrebbe potuto scoraggiare ogni operazione editoriale. Così non è stato, come accade per i lasciti ingenti di filosofi, spesso e volentieri più ampi delle opere pubblicate in vita. Pensatore di ambizioni sistematiche, al punto da aspirare al sogno impossibile di un «sistema del sapere» sul modello delle grandi filosofie da Platone a Hegel, Kojève ha affidato a questo testo giovanile, scritto a ventinove anni nel 1931, e già pubblicato in Francia una decina d'anni fa, molti dei temi di quella che diventerà, nel corso degli anni successivi, la sua proposta di «religione atea». A ragione, Marco Filoni e Elettra Stimilli, i curatori di questa edizione italiana, hanno riproposto il flusso magmatico del testo così come è stato redatto dal suo autore, senza capitoli né paragrafi, per sottolinearne la duplice importanza.
Da un lato, l'ateismo pone le basi dell'antropologia kojèviana: l'uomo è cosciente che dopo la sua morte non ci sarà più niente e quindi è libero di vivere la propria vita. Dall'altro lato, questa posizione rivela un paradosso: se al di là del mondo c'è il «nulla», allora questo «nulla» esiste, in altre parole è un «fatto»: insomma l'uomo fa esperienza di quel «nulla» che è pur sempre il Dio che vuole negare. Non è dunque un caso che il giovane Kojève abbia abbozzato una «religione atea», essendo partito dall'idea che tutti gli uomini fanno esperienza della religione, anche se non tutti identificano tale esperienza nel culto di una divinità. È piuttosto la certezza di un'assenza, quella di Dio, a permettere loro di essere «uomini», e vivere di conseguenza, liberamente.
L'ateismo diventa così l'esperienza antropologica fondamentale a partire dalla quale l'uomo si distingue dall'animale. Letta così, questa prova kojèviana è paragonabile alle più mature riflessioni sul tema che Martin Heidegger aveva sviluppato nel 1929 nella sua celebre conferenza Che cos'è metafisica? La formula, suggestiva, di una «antropologia atea» verrà in seguito applicata da Kojève anche alla sua interpretazione della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, a partire dalla quale, tra il 1933 e il 1939, ha tenuto una serie di seminari che hanno influenzato un'intera generazione intellettuale, da Sartre a Lacan. Al termine di questo grande affresco, c'è da chiedersi se L'ateismo non ponga questioni anche a chi non condivide i dettami della teologia secolarizzata di Hegel, della quale Kojève è l'araldo.
Oggi, infatti, il problema di Dio non è più filosoficamente rilevante, se affrontato a partire dalla domanda sulla sua esistenza. In questo, non c'è dubbio che Kojève abbia incarnato lo spirito filosofico contemporaneo. Solo che la sua idea «paradossale» di ateismo, che associa l'esercizio della libertà alla meditazione sulla mortalità dell'uomo, altro non fa che depotenziare la libertà che tuttavia invoca, vincolandola ad un destino che sancisce la neutralizzazione della vita umana nei dispositivi di uno stato globalizzato, inquietante e totalitario.
Perorando la «fattualità» del nulla, questo ateismo sancisce anche l'insuperabile nullità dell'esistenza. Piuttosto che annichilire la vita con questa cieca, quanto forse inconsapevole, determinazione, al pensiero toccherebbe invece potenziarla. Il Novecento non è stato solo il secolo di aspiranti teologi. Forse sarebbe il caso di ricordarlo.

l’Unità 4.8.08
A San Gemini «Il campus delle arti» con fisici e musicisti
Se la musica sposa la scienza
di l.d.f.


Nel florilegio di piccole rassegne musicali estive che attraversano la penisola, il «Campus delle Arti di San Gemini» cerca di distinguersi grazie a un programma tematico. Quest’anno tocca alla relazione tra musica e scienza, rapporto che si fa risalire alla Grecia classica e a Pitagora, cui si attribuisce la scoperta delle relazioni matematiche che intercorrono tra i suoni. È la cosiddetta scienza musicale, per secoli in occidente a pieno titolo una branca della scienza tout court, che si proponeva di scoprire le leggi intime che regolavano tanto l’universo che l’anima - le leggi appunto dell’armonia cosmica e umana. La scienza musicale si è sgretolata sotto la luce della razionalità illuministica e della nuova sistemazione del sapere nata con Immanuel Kant: ne sono rimaste monadi sparse, tra loro irrelate, oggi di complessa interpretazione.
Di qui probabilmente la scelta del Campus di puntare a una lettura scientifica in chiave moderna della musica, già ieri con l’inaugurazione, una lezione-concerto tenuta dal fisico matematico Giovanni Federico Gronchi e dal pianista Konstantin Bogino: titolo emblematico «Il tocco del pianista», su come nasce e si propaga il suono del più complesso tra gli strumenti acustici. Seguiranno appuntamenti dedicati alla neurologia, alle tecniche di registrazione, alla natura dei diversi suoni. L’ultimo concerto invece sarà dedicato a Octandre di Edgar Varese, brano in cui l’antico spirito delle geometrie sonore rivive in una partitura del Novecento. www.campusdellearti.eu

Aprile on line 3.8.08
Bertinotti "riciclato"
Un corso universitario e una fondazione, sono i prossimi impegni nell'agenda dell'ex leader dell'Arcobaleno
di Renzo Butazzi


Ho letto in questi giorni che Fausto Bertinotti terrà un ciclo di lezioni alle facoltà di Giurisprudenza e Scienze Politiche dell'Università di Perugia. Il corso sarà ad ampio raggio, avendo la politica solo come spunto. Nei prossimi mesi, sempre secondo i giornali, "l'ex leader di rifondazione comunista darà vita anche a una Fondazione Culturale".
Le due notizie si prestano a commenti agrodolci. Potremmo cominciare suggerendo qualche titolo per il corso: "Pericoli del misticismo in politica", "Come l'abito non fa il monaco, il carisma non fa la politica", "La realtà consuma la teoria", "Gli slogan, più sono belli, meno durano".
Il corso potrebbe esser interessante e utile - anche per molti addetti ai lavori - se Bertinotti avesse capito davvero - meglio tardi che mai - quali sono le cose che non aveva compreso, quali gli atteggiamenti sbagliati, quali le differenze determinanti tra il filosofare e la realtà.
Naturalmente, oltre che aver capito tutto ciò, l'ex-presidente della Camera, dovrebbe anche volerlo e saperlo raccontare, senza fumosità e discorsi complessi destinati, più che a spiegare, ad accreditare questa nuova immagine di studioso, sulla quale insiste da dopo la sconfitta.
La costituzione di una Fondazione Culturale ci sembra il metodo ormai classico, sia per costruire un supporto all'immagine di Fausto Bertinotti, in via di etichettarsi ufficialmente come scienziato politico, sia per trovare finanziatori che aiutino a rafforzare la corrente ispirata da lui all'interno del partito e della sinistra vagante, soprattutto dopo che i proventi di deputati e senatori sono scomparsi.
A prescindere dai suggestivi e nobili obiettivi indicati negli statuti, a che servono infatti, le Fondazioni spuntate come funghi nel mondo dei politici più o meno in declino? Servono a dare risalto a chi le presiede, a chi fa parte del consiglio di amministrazione, a chi viene invitato a qualche convegno o seminario. E, soprattutto, servono a trovare finanziamenti per gruppi di pressione e correnti a corto di risorse e prive di personaggi che possano rimediare a tale scarsità con la capacità e il prestigio.

Aprile on line 31.7.08
Rifondazione senza meta
di Remo Rosati


Rifondazione senza meta Dibattito La chiusura verso la costituente di sinistra e l'abbandono dei temi delle alleanze e del governo, al centro della politica del nuovo segretario Ferrero, condurrà il partito in un vicolo senza uscita, anche qualora imbarcasse nell'impresa il PdCI

Il congresso di Rifondazione comunista, che si è chiuso come tutti sanno con la vittoria della prima mozione e la nomina di Paolo Ferrero alla segreteria del partito, piloterà, a mio modesto parere, la formazione politica in un vicolo cieco o, se vogliamo, in un viaggio senza una precisa destinazione.
La mozione di cui l'ex ministro è il primo firmatario si differenzia dalla mozione di Nichi Vendola in quanto privilegia il sociale, la lotta nelle piazze, nelle fabbriche, per i diritti, alla politica delle strategie elettorali, che tenga conto della lenta e faticosa, ma ineludibile costruzione intorno ad una precisa identità e un chiaro programma, per una coalizione che si ponga l'ambizioso obiettivo di ritornare al governo del paese.
Nell'ordine delle priorità sono pienamente d'accordo. Ho criticato il Partito Democratico proprio per aver animato una deriva politicistica, l'idea di una politica per il popolo senza popolo. Per questo sono più che mai convinto che un partito di sinistra debba forgiarsi nel rapporto con le classi più disagiate della collettività, che negli ultimi tempi si è andato sfilacciando non solo per le motivazioni sociologiche a tutti conosciute, ma anche per l'assenza, sul mercato politico, di forze capaci, serie ed autorevoli che si facessero carico di ascoltare e rappresentare nello spazio istituzionale le sofferenze e i disagi di una moltitudine di persone.
Tanto è vero che alle ultime votazioni di aprile abbiamo assistito ad un travaso di voti dalla sinistra radicale non solo al Pd, in ragione del voto utile, ma anche verso l'Idv e la Lega, cioè di partiti impregnati di populismo ma anche considerati più attenti e vicini alla fasce deboli del paese.
Reputo, inoltre, giusta l'affermazione di Ferrero secondo cui "il governo e l'opposizione non sono feticci", ma considero anche naturale che ogni forza politica, pur attraverso il semplice strumento della lotta sociale, si ponga, oltre il compito di far emergere il disagio sociale che altrimenti non emergerebbe nel suo reale spessore, l'arduo fine di promuovere strategicamente una rivoluzione culturale che ricostituisca quel senso di comunità, di appartenenza, direi di blocco sociale, soprattutto nella attuale fase storica in cui la frantumazione e la liquidità fanno da padroni nella realtà moderna, e getti le basi di un rafforzamento del consenso che preluda alla formazione di una massa critica, unica alternativa per ottenere risultati, alla ricerca di alleanze con altre formazioni politiche con cui condividere un futuro eventuale governo.
Non mi pare che Ferrero abbia imboccato una simile strada per via del rifiuto esplicito della costituente della sinistra e del ritorno nel proprio ovile ideologico e minoritario.
Ricordare, come ha fatto lo stesso Ferrero per sostenere la scelta di posizionare il partito in una condizione solitaria, movimentista e di opposizione, quelle conquiste conseguite dal Pci di Berlinguer negli anni ‘70 da una posizione minoritaria, è stato un errore. Soprattutto perché viene trascurato il notevole scarto numerico tra i due soggetti politici e il dato che il superamento della soglia del 30% seguì il fenomeno sociale e storico del '68, durante il quale la classe studentesca ed operaia sono state accomunate da un'unica spinta riformatrice.
A questo punto del discorso viene spontaneo porsi una domanda: la Rifondazione di Ferrero è in grado con il suo striminzito valore numerico, anche ammettendo un'alleanza con il partito di Diliberto, di raggiungere un grado di influenza sociale tale da uguagliare i fasti passati? Ma soprattutto è capace di fare questo in una società profondamente mutata dal punto di vista antropologico? Se la risposta fosse positiva, ma ne dubito, quanto tempo richiederebbe una simile sfida?
Alla luce di quanto detto mi pare più realistica e pragmatica la mozione 2 in cui il sociale viene coniugato con la politica del rinnovamento, con una costituente di sinistra, diversa naturalmente dall'esperienza della Sinistra Arcobaleno, ma capace di aprire la porta a tutti coloro che non iscritti a nessun partito hanno pur sempre desiderio di partecipazione e di coinvolgimento. Ritiene veramente Ferrero che la strada che intende percorrere in splendida solitudine intercetti le mille domande che provengono da categorie sociali una volta sconosciute, come i precari o gli immigrati? Ritiene che sia in grado nuovamente di incontrare quel mondo operaio ormai delocalizzato, parcellizzato e lontano anni luce da quel blocco sociale tipico del secolo scorso? I partiti nascono e si formano per fare proposte di sviluppo sociale, culturale, economico ai cittadini di un paese, ma devono anche porsi l'obiettivo di realizzare in concreto quello in cui credono. La chiusura verso l'unità, con chi, come Sinistra democratica, si è strenuamente adoperata per non far fallire un tentativo di aggregazione, non conduce da nessuna parte ed è destinata, mi dispiace dirlo, ad un puro fallimento.

domenica 3 agosto 2008

Corriere della Sera 3.8.08
Nella notte del 2 agosto 1944 furono trucidati nel lager nazista dai due ai tremila zingari. «Nuova ondata d'odio»
L'accusa dei rom da Auschwitz: governo italiano razzista
Appello della comunità polacca e tedesca all'Europa: «Situazione senza precedenti»
di Mara Gergolet


L'appello
«E' ora che l'Europa cominci a trattare la nostra comunità come un partner di pieno diritto» Il ricordo Il capo della comunità rom polacca Kwiatkowski ad Auschwitz

L'eccidio Nella notte tra il 2 e il 3 agosto 1944 ad Auschwitz furono sterminati dai due ai tre mila rom mandati a morire nelle camere a gas del forno crematorio n.5.
Entro il 1945 ne vennero sterminati oltre mezzo milione
Deportati I rom furono deportati ad Auschwitz nel 1941, nel «campo per famiglie zingare». Un triangolo nero sul braccio indicava che erano «asociali»

BERLINO — Sono venuti a ricordare la notte dell'eccidio. Quando, tra il 2 e il 3 agosto 1944, dai due ai tremila rom — tutti quelli che erano rinchiusi nel campo di concentramento di Auschwitz — furono mandati a morire nelle camere a gas del forno crematorio n.5.
Rom polacchi e tedeschi insieme, ma anche i rappresentanti dei governi della Slovacchia, Polonia e Ungheria, l'ampia fascia dell'Europa centrale (Romania compresa) che è la patria d'origine di questa «minoranza» di 10 milioni di persone. E da Auschwitz — il luogo simbolo del loro sterminio, non meno che di quello degli ebrei — hanno lanciato accuse forse mai così dirette, «ufficiali» e dure all'Italia.
«Da quasi un anno, c'è in Italia una situazione senza precedenti nella storia dell'Europa dopo la fine della II guerra mondiale » dice il capo della comunità polacca, Roman Kwiatkowski. «Le autorità regionali e centrali si sono unite all'ondata d'odio alimentata dalla maggioranza dei media». Non basta: «Per la prima volta dalla fine della guerra, uno Stato si è attivamente impegnato in una politica di repressione e discriminazione nei confronti di una comunità nazionale ». Parla davanti a trecento persone. Uomini in vestiti scuri e, a volte, cappelli bianchi di paglia, qualche donna, pochi sopravvissuti, una decina di bambini. Depongono lumini e rose rosse, dove di solito si portano pietre.
Ad Auschwitz, si stima, morirono più di 20 mila rom. La tappa finale della persecuzione nazista che, ponendo «gli zingari» sul gradino infimo della scala umana, una razza più «degenere » di quella ebraica, fin dal 1935 cominciò a stivarli in ghetti ai margini delle città sorvegliati dalle SS e, poi, a sterilizzarli. Ad Auschwitz i rom e i sinti arrivano nel 1941, un triangolo nero sul braccio a segnalare che erano «asociali», le prime vittime per i disumani esperimenti del dottor Josef Mengele. Finché, il 2 agosto, i gerarchi decisero di liquidare il Zigeunerfamilienlager
e i suoi abitanti. Saranno oltre mezzo milione (ma alcuni storici sostengono un milione e mezzo) i rom sterminati dai nazisti entro il 1945.
Un attacco al governo italiano preparato e meditato, dopo le polemiche sulle impronte ai rom, le critiche dell'Ue e di organismi dei diritti umani come il Consiglio d'Europa. E concertato, perché dopo il polacco Kwiatkowski, parla anche il rappresentante dei tedeschi, Romani Rose. La politica italiana, dice, mira a colpire i rom di tutti i Paesi dell'Unione. Un appello all'Ue perché elabori una «politica comune ». «È l'ora — dice — che l'Europa cominci a trattare la nostra comunità come dei partner di pieno diritto».

l’Unità 3.8.08
Il caso Englaro
«Ho votato no, l’ho fatto per Eluana»
Intervista a Barbara Pollastrini di Maria Zegarelli


Pollastrini: «Il mio no per Eluana»
L’ex ministra non è uscita dall’aula come il resto del Pd. «Così ho espresso la mia vicinanza umana»

DISOBBEDIENZA Quando tutto il gruppo Pd è uscito dall’aula durante il voto per il conflitto di attribuzione sul caso di Eluana Englaro, lei è rimasta al suo posto. Non ce l’ha fatta. Ha votato no. «Non è stata una scelta in polemica con il mio partito».
Barbara Pollastrini, lei una disobbediente... Perché ha votato “no”?
«È la seconda volta in nove anni di esperienza parlamentare che dò un voto diverso dal mio gruppo. L’unico precedente riguardava la pace. L’altro giorno ho semplicemente fatto una scelta personale, avevo bisogno di esprimere anche in questo modo una vicinanza a Eluana e alla sua famiglia. Ma anche la ribellione a una destra che persino su temi etici e umani usa la forza dei numeri come una clava».
La decisione del Pd di uscire dall’aula ha creato polemiche. C’è stata o no una difficoltà a trovare l’accordo sul “no”?
«Non ho vissuto questo passaggio della discussione nei gruppi di Camera e Senato come una divisione al nostro interno. In questa vicenda non ci siamo tirati indietro. Ci sono stati l’intervento autorevole di Zaccaria e quello appassionato del professor Ignazio Marino. Al Senato è stato approvato un ordine del giorno in cui si chiede di discutere la legge sul testamento biologico. C’è stata una presa di posizione di Veltroni, la controrelazione alla Camera presentata dalla vicepresidente Rosy Bindi, la lettera del capogruppo Soro al presidente Fini... Il Pd è un grande partito anche per la ricchezza delle convinzioni e delle culture, è chiaro che il dibattito ogni volta è articolato, ma l’importante è arrivare ad un punto di sintesi alto».
Il problema sembra proprio questo. Sul testamento biologico il Pd ha due proposte: quella di Marino, sottoscritta da 101 senatori e quella di Baio Dossi, sottoscritta da 36 cattolici...
«Non è così, la divisione non è tra laici e cattolici perché molti cattolici hanno firmato e condividono la proposta di Ignazio Marino. Noi potremo diventare davvero un grande partito se riusciremo a trovare un profilo culturale robusto e il lavoro che ha portato al testo presentato da Marino va in questa direzione, è frutto di una ricerca e di un confronto approfonditi, propone una mediazione alta. Personalmente sento di dovere molto a Marino perché è sempre stato animato dalla volontà del dialogo e della contaminazione dei pensieri, non è mai caduto nella trappola degli antichi steccati tra laici e cattolici».
Rutelli dice che è più facile staccare la spina che prendersi cura e assistere continuamente i malati. Non le sembra una posizione chiara sul caso Englaro?
«Non mi permetto di dare valutazioni in segno di rispetto della famiglia Englaro. Penso che quando si tratta di temi che chiamano in causa principi, valori ed etica, non parliamo di un antico conflitto tra Guelfi e Ghibellini che appartiene alla storia, né parliamo di uno scontro tra laici e cattolici. Ci si confronta su come interpretare nel presente il grande tema dei diritti della persona nei momenti più drammatici della vita. Sarebbe banale se etichettassimo la discussione come uno scontro tra laici e cattolici, la politica quando discute di questi argomenti deve avere una bussola: mantenere uno sguardo laico, avendo come riferimento la Costituzione italiana, la Carta di Oviedo, le direttive e gli insegnamenti che ci arrivano dall’Europa. Chiediamoci, e lo dico alla destra, come mai in quasi tutti i paesi europei, negli Stati Uniti, in Australia si siano dati delle leggi molto simili alla proposta di Marino. Forse è davvero arrivato il momento di aprire un dibattito parlamentare serio e approfondito per dotarci di una legge».
L’italia nel 2008 ancora non ha una legge sulle coppie di fatto. Non c’è riuscita con il governo Prodi. Speranze con quello Berlusconi?
«Il programma del Pd ha un chiaro riferimento al riguardo e quello resta il nostro obiettivo. Combatteremo, alcuni di noi hanno già depositato delle proposte nelle commissioni competenti, ma con questa destra sarà difficile. Basta tornare con la mente al discorso di insediamento del premier: non è stato neanche richiamato alla lontana il tema dei diritti e doveri dei cittadini. Anche il termine “diritti umani” è stato solo sfiorato. Il ministero delle Pari Opportunità non si chiama più «dei Diritti e delle Pari Opportunità. Le parole hanno un forte valore anche simbolico, e questi tre fatti messi insieme rendono bene l’idea di come agisce questa destra. Dunque spetta a noi continuare la battaglia. Il Partito democratico è il partito che ha nel suo Dna la convinzione che non ci si debba arrestare mai per l’affermazione e l’allargamento dei diritti civili e umani. In una idea di democrazia il valore essenziale è quello della persona, cioè i suoi diritti e suoi doveri. Non ci sono dei diritti riconoscibili e altri no, dei doveri importanti e altri meno. I diritti delle coppie di fatto non sono meno importanti di altri».

l’Unità 3.8.08
Come può Eluana dividere uno Stato?
di Tania Groppi


Il drammatico caso della giovane Eluana non divide soltanto le coscienze (e i gruppi parlamentari). Ma anche i poteri dello Stato. E costituisce l’ennesima occasione per un attacco alla magistratura.
Per la prima volta nella storia della Repubblica, il Parlamento ha deciso di sollevare un conflitto tra poteri per difendere la propria sfera legislativa, ritenuta invasa dalla sentenza con cui la Corte di Cassazione (e poi, di conseguenza, la Corte d’Appello di Milano) ha ritenuto legittimo sospendere i trattamenti che permettono di mantenere Eluana Englaro artificialmente in vita.
La maggioranza parlamentare, con un colpo di fantasia degno di un prestigiatore, di fronte alla mancanza di una legge sulla fine della vita, anziché procedere speditamente ad approvarla (riprendendo il lavoro già svolto nelle precedenti legislature in materia di testamento biologico), ha deciso invece di attaccare il potere giudiziario, nella specie la sua massima e più autorevole espressione, la Corte di Cassazione. Criticando i contenuti della sentenza dell’ottobre 2007 (definita “frettolosa”) ma soprattutto accusandola di avere un contenuto sostanzialmente legislativo. La Corte di Cassazione si sarebbe trasformata indebitamente da interprete del diritto in creatore del diritto, si sarebbe fatta legislatore, violando il principio della separazione dei poteri.
La questione viene quindi sottoposta alla Corte Costituzionale, che dovrà decidere nei prossimi mesi. Una nuova tappa in una lunga e drammatica vicenda umana e giuridica.
Una tappa peraltro anche di un’altra ormai annosa storia, che travaglia la nostra democrazia ben più di quanto avvenga in altri paesi. Si è di fronte, infatti, all’ennesimo tentativo di piegare le ragioni del diritto a quelle della lotta politica, attraverso l’utilizzazione impropria di uno strumento giuridico, il conflitto di attribuzione, al fine di affermare una concezione del diritto dei rapporti tra i poteri alternativa a quella prevista dalla nostra Costituzione.
Sul piano strettamente giuridico, infatti, i precedenti della Corte Costituzionale portano dritti alla manifesta inammissibilità del conflitto, in camera di consiglio e con ordinanza, già in sede di prima delibazione.
Basta richiamare due aspetti. Prima di tutto, la carenza di interesse a ricorrere. Le Camere lamentano l’invasione di una competenza, quella a legiferare sulla fine della vita, che non hanno mai esercitato: la giurisprudenza costituzionale è costante nel richiedere una lesione della competenza “in concreto” affinché possa essere ammissibile il conflitto di attribuzione. Tale lesione non può ritenersi sussistere in un caso come il presente, nel quale per rimuovere l'effetto ritenuto invasivo il parlamento potrebbe semplicemente legiferare, colmando così esso stesso la lacuna.
In secondo luogo, inammissibilità della censura perché si denunciano “errores in iudicando”, ovvero il “cattivo uso” del potere giudiziario. Se accolta, trasformerebbe la Corte Costituzionale in un ulteriore grado di giudizio, attivabile ogni qualvolta il Parlamento non “gradisca” una interpretazione giudiziaria.
Ma c’è di più. Si tratta di un atto che disvela la radicale incomprensione (per non dire la negazione), da parte di questa maggioranza, per la forma di Stato in cui viviamo, quella della democrazia costituzionale. Che si traduce nella nostalgia giacobina per lo Stato legislativo, di cui gli interventi in aula e la stessa delibera di ricorrere sono impregnati. Quello che si vuole “restaurare”, come hanno messo in luce al Senato i relatori dell’opposizione, è lo Stato legislativo basato sulla centralità della legge, fonte suprema del diritto, rispetto alla quale i giudici altro non sono che “bouches de la loi”, chiamati ad applicarla meccanicamente attraverso i meccanismi del sillogismo giudiziario.
Si chiede alla Corte Costituzionale di mettere in atto una sorta di référé legislatif sul modello della costituzione francese del 1791, che implicava, a tutela della legge, il ricorso al Tribunal de Cassation «établi auprès du Corps législatif» per l’annullamento delle sentenze, proprio per impedire l’interpretazione della legge e per assicurare il prevalere della volontà del legislatore su quella dei giudici.
Questa è la separazione dei poteri che si vuole garantire, una separazione dei poteri estranea allo Stato costituzionale in cui viviamo, nel quale al vertice dell'ordinamento non si trova la legge, ma la costituzione e il patrimonio di diritti che essa garantisce ai singoli: una “dotazione di diritti” originaria, indipendente e protetta nei confronti della legge. Nello Stato costituzionale il ruolo del giudice, che lo vogliamo o no, che ne siamo consapevoli o no, non è quello di mero applicatore della legge: egli è chiamato a valutarne la costituzionalità e a dettare la regola del caso concreto, attraverso le tecniche del bilanciamento e l’applicazione diretta dei principi costituzionali. E ciò è tanto più vero quando, come nel caso che qui ci interessa, una legge approvata dal Parlamento non ci sia. Di fronte a questa lacuna, che chiamerei piuttosto “omissione del legislatore”, al fine di garantire i diritti non ci sono che due soluzioni: l’applicazione diretta dei principi costituzionali, con effetti inter partes, nel caso concreto, da parte dei giudici, oppure l’intervento, erga omnes, in funzione di supplenza del legislatore, da parte della Corte Costituzionale.
È stata la Corte stessa, con un orientamento costante nella sua giurisprudenza, ad incoraggiare l'attivismo interpretativo dei giudici, allo scopo, assai chiaro, di preservare la sfera del legislatore. L’alternativa, infatti, una sentenza additiva della Corte Costituzionale con conseguenze erga omnes e vincolante anche per il legislatore (tranne che per quello costituzionale) sarebbe assai più invasiva della pronuncia di un giudice comune, che resta circoscritta alle parti e lascia spazio a un futuro intervento legislativo ordinario.
Leggiamo correttamente, e non stravolgendola come è stato fatto dalla maggioranza nel corso dei lavori parlamentari la sentenza n. 347 del 1998 sulla fecondazione assistita. In assenza di una norma di legge, la Corte dichiarò inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Napoli, che le chiedeva una sentenza additiva, le chiedeva di “farsi legislatore”, affermando che «L’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore. Tuttavia, nell’attuale situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali».
Pertanto, invece di sollevare conflitti fasulli a meri scopi propagandistici contro un giudice (e che giudice! È la nostra Corte di Cassazione) che si è limitato a svolgere il suo ruolo costituzionale (garantire i diritti applicando i principi nel caso concreto), sarebbe invece bene che il Parlamento si interrogasse sulle ragioni del suo silenzio.
È davvero il legislatore intenzionato, sulle questioni eticamente sensibili, a tacere? A lasciare al potere giudiziario, sotto la pressione inarrestabile dei casi, la soluzione? Con i rischi in ciò insiti, non solo per il principio democratico, ma anche per quello di uguaglianza, dato che le soluzioni date dai giudici inevitabilmente determinano difformità e disuguaglianze. Oppure, anche nello Stato costituzionale, il Parlamento non ritiene sia giunta l’ora di riappropriarsi della sua funzione di attuare i principi costituzionali garantendo i diritti con effetti erga omnes, smentendo in tal modo chi lo vuole votato ad una inevitabile marginalizzazione? Non è attaccando il potere giudiziario, ma riprendendo il proprio ruolo istituzionale, che il Parlamento potrà difendere la sua potestà legislativa.

Repubblica 3.8.08
Il bene di vivere e il diritto di morire
di Eugenio Scalfari


QUANDO Emanuele Severino e Umberto Galimberti segnalarono l´irruzione della tecnica nel mondo dell´etica sembrò ai più che la questione avesse un contenuto esclusivamente filosofico e quindi astratto e di scarsa importanza pratica.
Se ne erano del resto già occupati scrittori e filosofi americani e, in Europa, tedeschi, inglesi, francesi, spagnoli, greci. Era insomma una questione posta dall´attualità e dall´evidenza: la tecnica, la "tecné", aveva conquistato una vera e propria egemonia che incideva nel mondo dei comportamenti sociali, determinava lo sviluppo dell´economia, accresceva ma al tempo stesso vulnerava i territori della libertà.
Le reazioni più preoccupate da quell´egemonia provennero dal campo religioso, sia di parte cristiana sia di parte islamica sia dalle numerose credenze asiatiche: le religioni denunciavano lo squilibrio tra il progresso tecnico e quello morale e vedevano la propria autorità sempre più insidiata dai progressi delle scienze che non ammettevano limiti alla ricerca né si preoccupavano che i risultati di volta in volta raggiunti fossero compatibili con le verità rivelate delle quali le religioni ritenevano di avere esclusiva rappresentanza.
La discussione investì tutte le culture e divenne tanto più intensa quanto più si avvicinava alla fine del secolo e del millennio, con l´inevitabile carica apocalittica che i grandi eventi portano con loro. Sul bordo del XXI secolo e del terzo millennio dell´era cristiana il tema era ormai chiaro in tutta la sua importanza. Non si trattava più soltanto dell´egemonia ma addirittura dell´avvenuto capovolgimento di dipendenza tra l´uomo e gli strumenti da lui creati: non erano più al suo servizio quegli strumenti, ma era l´uomo al servizio della "tecné", diventata ormai un´ideologia possessiva alla quale l´intero genere umano si era piegato e asservito.
Siamo ormai tutti "tecno-dipendenti" in ogni atto e momento della nostra vita e tutti in un modo o in un altro lavoriamo per accumulare nuovi saperi che accrescono il potere della tecnica a detrimento della nostra libertà.
* * *
Ricordo queste vicende perché da allora, nei pochi anni trascorsi, il tema non è più soltanto filosofico, religioso, scientifico, ma ha fatto irruzione anche nella politica. Come ha rilevato Aldo Schiavone pochi giorni fa su questo giornale, ha messo in discussione due momenti topici dell´esistenza di ciascun essere umano: il momento della nascita e quello della morte, la nostra entrata e la nostra uscita dal mondo.
I due eventi che dominano la nostra intera vita, l´alfa e l´omega delle nostre esistenze individuali, erano fino a poco fa al di fuori del nostro controllo. Ma ora non è più così poiché la tecnica se ne è impadronita: ha creato strumenti che consentono di determinare la nascita non solo secondo natura ma anche in laboratorio ed ha prolungato la vita anche oltre i limiti posti dalla natura.
Le religioni – e quella cattolica in particolare – hanno assunto un atteggiamento dogmatico e ideologico sul tema della vita, trasformandolo in una vera e propria ideologia. Per quanto riguarda la nascita la Chiesa ha rigorosamente vietato la contraccezione respingendo ogni strumento tecnico che potesse limitare le nascite; sul tema della morte al contrario la Chiesa difende il ricorso agli strumenti che la tecnica è in grado di fornire per prolungare artificialmente una pseudo-vita al di là dei limiti segnati dalla natura.
Questo duplice e contraddittorio atteggiamento che vieta la tecnica limitatrice di nascite non volute e invoca invece la tecnica capace di mantenere una vita artificiale, ha ideologizzato la discussione facendo irruzione nella politica, nei governi, nei parlamenti. Si è arrivati al punto di far votare dagli elettori e dai loro rappresentanti parlamentari questioni di estrema privatezza, con tutte le torsioni politiche ed etiche che queste intrusioni comportano nelle coscienze e nella libertà individuale. La privatezza della morte è diventata argomento pubblico non solo come indirizzo generale ma perfino nei casi specifici di questo e di quello. Di conseguenza, mettendo in discussione alcuni diritti fondamentali degli individui, anche la magistratura è stata chiamata in campo.
La discussione sui principi si è incattivita e imbarbarita. Attorno alle camere di rianimazione si svolgono polemiche interminabili; le Corti di giustizia emettono verdetti contrapposti e sentenze inaccettate. Nel caso attualmente aperto di Eluana Englaro le Camere sollevano addirittura conflitti di competenza tra potere legislativo e potere giudiziario. La Corte costituzionale è ora chiamata a sciogliere una questione a dir poco imponderabile, al solo dichiarato intento da parte della maggioranza di centrodestra di guadagnare qualche settimana o mese di tempo lasciando l´esistenza di una persona tecnicamente già morta da 16 anni, agganciata ad un tubo che le somministra sostanze capaci di ossigenarle il sangue, come si trattasse d´una pianta e non di una vita umana.
* * *
La vita e la morte sono argomenti non decidibili o almeno così dovrebbe essere. Esperienze che segnano il carattere e la coscienza di ciascuno. Il nostro destino. La nostra dignità. La nostra libertà.
Scendere da questo livello e discutere se abbia giudicato correttamente un Tribunale, una Procura, una Corte di cassazione; se una legge debba colmare il vuoto di legislazione e in che modo la sua precettistica debba essere formulata: tutto ciò immiserisce una questione che dovrebbe essere affidata alla volontà responsabile della persona interessata o ai suoi legali rappresentanti se l´interessato non è in condizione di intendere, di esprimersi, di volere.
Ma poiché questa è in una molteplicità dei casi lo stato di fatto, di esso bisognerà dunque discutere superando il disagio che ce ne deriva. Le domande che ci dobbiamo porre nel caso specifico di Eluana sono le seguenti: esiste una manifestazione chiara e recente di volontà dell´interessata? Se non esiste o è considerata remota ci sono persone validamente in grado di decidere per lei? Infine: su quali punti d´appoggio o principi si basa la sentenza della Suprema Corte che ha autorizzato il padre di Eluana a interrompere le cure e determinare l´arresto del cuore, pulsante in un corpo che è in coma da 16 anni con encefalogramma piatto e una vita non umana ma vegetale?
* * *
Sappiamo che Eluana manifestò ripetutamente la sua volontà di non sopravvivere alla propria eventuale morte cerebrale. Lo fece ancor giovanissima, perfettamente sana e consapevole, in seguito alla traumatica esperienza di aver visto e assistito persona a lei cara che si trovava in condizioni di morte cerebrale cui per sua fortuna seguì di lì a poco quella cardiaca.
I fautori ad oltranza dell´ideologia della vita obiettano che quelle manifestazioni di volontà siano remote rispetto al momento in cui Eluana entrò in coma e quindi "scadute", prive di legittima volontà. L´argomento a sostegno di questa tesi si appoggia alla considerazione che in una materia così delicata e privata si può cambiare parere fino ad un attimo prima dell´ultimo respiro. È vero, si può cambiare parere fino all´ultimo respiro se si è in condizioni di cambiar parere e di esprimerlo. Ma se si è già morti cerebralmente? L´espianto degli organi con i quali si salvano altre vite non avviene forse quando la morte cardiaca non è ancora avvenuta e gli organi sono ancora vitali se l´autorizzazione a disporne è già stata data e i se i parenti consentono?
Alla seconda domanda la risposta è netta: il padre e la famiglia di Eluana, che l´hanno assistita per sedici anni ed hanno raccolto una serie di evidenze cliniche sull´irreversibilità del suo stato, vogliono che la vita artificiale non prosegua e che cessi l´accanimento terapeutico. Esprimono in nome della propria figlia il rifiuto delle cure in atto; un rifiuto che è un diritto riconosciuto del malato o di chi lo rappresenta.
Infine la terza domanda: la validità della sentenza della Cassazione. La Suprema Corte è stata chiamata a giudicare sul diritto dell´interessata o di chi la rappresenta di rifiutare le cure. Non ha neppure avuto bisogno di fondare la sentenza sulle manifestazioni di volontà di Eluana di molti anni fa. Ha accertato, la Suprema Corte, l´inesistenza di una legislazione in materia e si è quindi rifatta, come è suo dovere prescritto in Costituzione, al diritto del malato, anch´esso riconosciuto in Costituzione, di rifiutare le cure.
Sentenza ineccepibile: in assenza di norme e in presenza di diritti costituzionalmente garantiti la Corte giudica in base ai principi dell´ordinamento giudiziario che riconosce il dovere del giudice di tutelare i diritti dei cittadini.
* * *
Le Camere su istanza dei deputati e dei senatori di centrodestra, hanno voluto sollevare conflitto di competenza. Non spetta alla magistratura intervenire bensì al popolo sovrano e a chi lo rappresenta, di fornire una normativa che regoli la questione.
Nessuno nega che spetti al potere legislativo legiferare e non certo alla magistratura, ma qui siamo in una situazione in cui il potere legislativo non ha legiferato provocando un vuoto nel quale solo alla magistratura incombe il dovere di tutelare diritti riconosciuti in Costituzione.
Non esiste dunque conflitto tra i due poteri. Quello giudiziario è intervenuto in difesa d´un diritto in mancanza di legislazione. Quando quel vuoto sarà riempito la magistratura disporrà di una legge e dovrà applicarla sempre che essa non sia in contrasto con i principi costituzionali.
Vedremo comunque quale sarà la sentenza della Corte costituzionale investita del problema.
* * *
C´è stata polemica sul comportamento dei deputati e dei senatori del Partito democratico, che in entrambe le votazioni sul conflitto di competenza hanno preferito disertare l´aula anziché votare contro. Giustamente, a mio avviso, Miriam Mafai ha severamente criticato quella decisione. Penso tuttavia opportuno distinguere quanto è avvenuto alla Camera dei deputati da quanto è avvenuto in Senato.
Alla Camera, come poi al Senato, i rappresentanti del Pd hanno espresso la loro opposizione al conflitto di competenza sollevato dalla maggioranza e si sono poi assentati dall´aula per non provocare crisi di coscienza tra i deputati cattolici aderenti al Pd.
Al Senato invece è stato presentato un ordine del giorno proposto da Luigi Zanda che stabiliva l´impegno a discutere ed approvare la normativa sul testamento biologico entro l´anno in corso. L´ordine del giorno è stato votato anche dai senatori di centrodestra e appoggiato dal presidente del Senato. L´astensione ha avuto dunque una contropartita abbastanza forte.
Duole tuttavia registrare che una parte di parlamentari democratici e cattolici ha presentato un disegno di legge sul testamento biologico difforme in alcune parti sostanziali da un altro analogo documento di legge presentato dallo stesso Partito democratico.
È evidente che queste differenze dovranno essere sanate prima dell´inizio del dibattito parlamentare. Il Pd su un argomento di questa importanza non può che avere una sola voce, ispirata alla laicità dello Stato oltreché alla tutela dei diritti del malato.
Ci sono molti problemi davanti al Pd che dovranno esser chiariti entro il prossimo autunno, ma sarebbe grave se questo tema non fosse considerato tra quelli prioritari. Dall´incontro tra laici e cattolici democratici è nato il Pd. La laicità è stato fin dall´inizio considerato il valore fondante. Questa è la prima prova concreta per saggiare la validità dell´incontro tra quelle due culture. Se la prova fallisse le conseguenze metterebbero in discussione l´esistenza stessa del partito.

l’Unità 3.8.08
Il muro
di Furio Colombo


Gli addetti lavorano svelti e senza molto disturbo o distrazioni. Dove c’era un passaggio per la giustizia, in modo che l’azione del giudice potesse intercettare il sospetto colpevole, adesso c’è il blocco di cemento del “lodo Alfano”. Tiene strettamente legati insieme colpevoli e innocenti. In questo modo i colpevoli sono salvi per sempre, come non avviene in nessun luogo del mondo democratico. Lo dimostrano le dimissioni del Primo ministro israeliano Olmert. È inseguito da un’inchiesta che non si è fermata mai (benché quel Paese sia in situazione di grande emergenza). Ma Olmert, non ha mai lamentato persecuzioni. E prima del processo si è dimesso senza tentare di coinvolgere nel suo destino le altre cariche dello Stato.
Ma - voi direte - l’Italia è la patria del diritto. Forse è per questo che, sfidando non solo il nostro diritto ma anche il diritto degli altri europei e degli altri esseri umani, si è provveduto a murare il percorso di civiltà o anche solo di media umanità che porta verso i cosiddetti campi nomadi, in modo da isolare bambini poveri senza diritti a cui vengono prese a piacimento le impronte digitali che violano ogni principio, ma aggiungendo il sarcasmo tipico del governare ottuso e totalitario. Invece de «Il lavoro rende liberi» adesso c’è scritto (e ripetuto ben oltre il ridicolo, persino dal premier italiano in pomposa conferenza stampa, lasciando un po’ indignati il collega rumeno e il commissario europeo Hammerberg) che «le impronte digitali fanno bene ai bambini». Come se, invece di essere forzati a premere, impotenti, il piccolo dito sul tampone, ricevessero una medicina. Maroni, non può sapere che sta ricreando, in tutto il suo squallore, il mondo dickensiano dei “poveri per sempre” o “poveri come razza” di Oliver Twist.
Berlusconi avrà scorso qualche sceneggiatura sul tema, sa che comunque fa “audience” (il solo tema a cui è sensibile, oltre alla sottomissione dei giudici).
E comunque ha bisogno di Bossi, Borghezio, dei leghisti peggiori, tipo Salvini con cane anti-negro al guinzaglio, tipo Cota, che invece offre il candore di non saper leggere le parole di Mameli (crede e dice alla Camera che l’Italia, e non la vittoria, è “schiava di Roma” nell’Inno che lui crede dei calciatori, e gli sfugge la metafora, seguendo l’esempio del futuro condottiero Renzo Bossi). E butta avanti la “sicurezza” presieduta dai militari come in Honduras. Lancieri e granatieri occuperanno le città italiane d’agosto e daranno man forte, insieme alla crisi di abbandono dell’Alitalia, alla fuga dei turisti. Nessuno decide di fare vacanza in un Paese in cui “la sicurezza” (parola codice per indicare il rigetto verso i Rom e gli immigrati in genere, quegli stessi immigrati che muoiono di fatica e di lavoro, ma senza pensione) diventa “emergenza” (parola gravissima, molto dannosa e mai spiegata) ed è necessaria l’azione continua e convulsa del ministro dell’Interno e del ministro della Difesa, i Graziani e i Badoglio della nuova Italia di destra, finalmente tornata libera di sognare il peggio. Del resto, la sapete l’ultima? Il sindaco leghista di Novara, Massimo Giordano, vieta gli assembramenti di più di tre persone, proprio come nell’Italia del 1933.
Di là dalla barriera un po’ folle di poliziotti senza paga e senza benzina e di soldati “ad arma corta” mandati a cercare nemici che non ci sono, nelle città vuote, si intravedono ospedali sul punto di chiudere (dalla Lombardia al Lazio) per i tagli della prodigiosa nuova Legge finanziaria che rifiuta di rimborsare le Regioni. Se sono ancora in funzione e ancora senza ticket, quegli ospedali sono infestati dalla nuova piaga della Sanità italiana: i medici obiettori. Sono medici che, di giorno, negano di essere obiettori per preservare l’inclita clientela della ricca pratica privata. Ma improvvisamente diventano obiettori di notte, al Pronto soccorso, a voce ben alta, preferibilmente di fronte alle suore, in modo che la coraggiosa dichiarazione giovi alla tanto attesa promozione a primario. Quando si tratta di negare l’iniezione anti-dolore alla donna povera che viene all’ospedale pubblico per partorire, quando si tratta di negare la pillola del giorno dopo o assistenza e indicazioni anticoncezionali a sciagurate ragazze che non solo non sono caste, ma non sono neanche ricche, i medici obiettori esibiscono tutta la loro fede e ubbidienza cristiana. Qualcuno deve pur insegnare a queste pazienti pretenziose che non sono a Copenaghen o a Lione, quando cercano assistenza in un ospedale pubblico italiano. Sono in territorio Vaticano. E in territorio Vaticano “partorirai nel dolore” (roba che ha a che fare col peccato originale) ma vivrai per sempre. Vedi la condanna del Parlamento italiano e della Procura generale di Milano che comandano a Eluana Englaro, la giovane donna in stato vegetativo da 16 anni, di restare legata ai sondini per sempre perché in questo Paese è proibito, per rifiuto di fare la legge, il testamento biologico. Ed è proibito morire con dignità perché non c’è la legge.
* * *
Altri muri sono in corso di rapida costruzione a Sud e a Nord del Paese per impedire la libera circolazione della normalità e della media civiltà occidentale attraverso l’Italia. A Sud il separatista siciliano Lombardo, divenuto avventurosamente Presidente della Regione, ha dato il via alla spaccatura, pubblica e simbolica, di tutte le targhe di piazze e di vie che si riferiscono all’Unità d’Italia. Si spaccano davanti alle telecamere le targhe che indicano luoghi, celebrazioni o memorie di Garibaldi, dei Garibaldini, dell’impresa dei Mille, dei plebisciti che hanno votato l’Unità d’Italia, di eventi del Risorgimento italiano, di personaggi come Cavour.
Al Nord sindaci xenofobi opportunamente dotati di poteri speciali di polizia che scardinano in ogni senso la norma costituzionale «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione», governano con cattiveria contro immigrati e Rom (anche se cittadini italiani) guidati dalle loro piccole menti senza storia, ispirati dalla grettezza, isolati persino dal contesto produttivo delle loro città dove le fabbriche cercano e chiedono nuovi lavoratori.
Hanno denominato il loro finto paese “Padania”, nei loro luoghi invocano la secessione, al punto di far giocare la loro “nazionale” di calcio nel campionato degli Stati non riconosciuti (che vuol dire ovviamente “non ancora riconosciuti, cioè non ancora liberati). Ma occupano a Roma vari ministeri, fra cui il ministero dell’Interno, realizzando per la prima volta l’operazione inversa: il partito secessionista occupa il Paese da cui dichiara di separarsi e impone a tutti gli altri italiani i suoi “valori”, inventati o recuperati nelle sottoculture locali. Dovreste ascoltarli a Roma, quando in Parlamento parlano e insultano in nome della Padania senza che il Presidente dell’Assemblea li interrompa per dire: «Scusi onorevole, ma lei è un deputato italiano e questo è il Parlamento italiano. In questo Parlamento nessuno ha mai detto, o anche solo discusso, che cosa sia la Padania». Indifferenti, questi secessionisti operano sul territorio per far apparire “emergenza” e allarmata richiesta di sicurezza il meno pericoloso Paese d’Europa (con l’eccezione, mai più citata, della criminalità organizzata e indisturbata che occupa tre regioni del Sud italiano, con solide filiali al Nord e le sue mattanze senza fine). E all’interno dello Stato praticano la crudeltà di privare gli immigrati di pensioni minime, anche se sono immigrati legali, anche se hanno lavorato come schiavi nella nuova civiltà padana.
Al Sud un muro isola e protegge il siciliano Lombardo, e nessuno sembra aver notato il ritorno (originariamente mafioso e fascista) del separatismo. È un muro di omertà giornalistica e di silenzio politico.
Al Nord la Lega si è ormai rivelata, come ci avverte con allarme l’Europa, il movimento secessionista più estremo, generatore di rancore, vendetta, razzismo. Non esita a dichiarare le sue intenzioni, letteralmente “di lotta e di governo”. Incassa, senza imbarazzo, autorevoli rimproveri per il grado estremo di volgarità, che è pronta a ripetere subito, contando sul fatto che le poche frasi o gesti o iniziative non apertamente offensive, non dichiaratamente minacciose della Lega Nord vengono subito salutate, più o meno da tutti, come grandiosi atti di civiltà.
Stampa e politica hanno già alzato un muro a protezione della Lega che - a quanto pare - interpreta sentimenti profondi degli italiani. Come il fascismo. Nel profondo, infatti, ci sono anche i sentimenti peggiori. Basta incoraggiarli, e alla fine avvelenano i pozzi del comportamento comune.
***
Il muro più alto, insopportabile per molti cittadini che non hanno altre fonti di informazione oltre la Tv, sono i media.
La sera del 31 luglio il Presidente del Senato Schifani era seduto nello studio del TG 1, ore 20, per spiegare se stesso. Purtroppo non come istituzione dello Stato ma come esponente del partito di governo detto “Popolo delle libertà”. È un privilegio che altrove i titolari delle istituzioni non ricevono mai in quanto militanti politici. Persino il Presidente degli Stati Uniti - se chiede di parlare al Paese - deve dire perché.
Ronald Reagan, George Bush padre e Bill Clinton si sono visti rifiutare (Reagan tre volte) le reti unificate delle più importanti televisioni americane con questa risposta: «Il suo è un discorso politico, non presidenziale. Se vuole, lo trasmettiamo a pagamento».
Renato Schifani, Presidente del Senato in veste di voce di Berlusconi, si è sentito rivolgere questa domanda dal conduttore del Tg1: «Presidente Schifani, perché la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura non è uno scandalo?».
Ma sentite come inizia il suo servizio da Napoli, il giorno 1 agosto, Sky Tg 24, ore 14: «È tornato lo Stato. Con questo spirito il presidente del Consiglio arriva per la sesta volta a Napoli». Non un tentativo di dire al pubblico se e quale rapporto c’è tra quello spirito e la realtà, ovvero la differenza fra pubbliche relazioni, che celebrano, e giornalismo, che verifica.
Quando tocca a Berlusconi, ha questo da dire sul tanto invocato dialogo: «Per ora, da parte dell’opposizione, mancano rispetto e lealtà». Ha elencato, nell’ordine, le classiche virtù dei cani.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 3.8.08
Agli ordini di Pinochet uccideva gli italiani
Giustizia in Italia per l’uomo di Pinochet
di Maurizio Chierici


Non è proprio una buona notizia, ma è una notizia che consola. Quando la memoria non muore e insiste per la verità, i colpevoli non hanno scampo. Il delitto politico o l’imbroglio della finanza corrotta alla fine non pagano. Ci sono voluti 35 anni ma uno degli assassini in doppiopetto del generale Pinochet finalmente è in carcere.
Alfonso Podlech Michaud è un signore elegante che apre il passaporto al poliziotto di Madrid, frontiera d’Europa per chi arriva dal Cile. Per Podlech, la moglie e due nipoti, la Spagna è solo il cambio d’aereo nel viaggio verso la vacanza di Praga.

A GIORNI SARÀ ESTRADATO in Italia Alfonso Podlech Michaud, procuratore militare del dittatore cileno nella città di Temuco. Tra le vittime della sua ferocia alcuni nostri connazionali emigrati. La moglie e figlia di uno di loro hanno raccolto prove a suo carico e dopo 35 anni finalmente la giustizia sta per trionfare
Ma il computer dice qualcosa e il poliziotto li fa accomodare in una stanza dalla porta chiusa. Podlech è inseguito dal mandato di cattura internazionale firmato dal procuratore romano Giancarlo Capaldo: fra le persone che ha fatto sparire, quattro italiani sono finiti in niente. Podlech ha 84 anni portati con la sicurezza di chi protesta sottovoce: «Sono un procuratore militare in pensione. Mi guardi bene. Voglio parlare con la mia ambasciata».
Gli agenti invece avvisano l’Audiencia Nacional, procura generale. Quando i sospetti affondano nella politica e il sospettato è solo di passaggio, a volte si lascia perdere per non sopportare impicci che finiscono in niente. Ma quel 29 luglio è di turno il procuratore Baltazar Garzòn, proprio il dottore che ha congelato il generale Pinochet nell’esilio rosa di Londra. Garzon dà un’accelerata: l’avvocato deve essere consegnato alla giustizia italiana. Non è necessaria una richiesta di estradizione, la sottintende l’ordine di cattura internazionale.
Forse Podlech arriva a Roma domani, forse a ferragosto. Intanto resta in carcere a Madrid mentre moglie e nipoti si nascondono a Praga. La signora non é tranquilla. Sospetta che «la mafia di chi difende i diritti umani stia tramando qualcosa contro di lei». Non solo perché seconda moglie del procuratore militare che inventava sedizioni inesistenti per far sparire chi non gradiva il regime; anche il suo passato nei servizi segreti di Pinochet magari nasconde qualche scheletro della Dina, polizia che organizzava le squadre della morte. Lei e il suo Alfonso si sono conosciuti così. Operazione Condor galeotta; è nata una famiglia di spie che organizzavano i killer.
Il racconto di due donne fa capire cosa è successo a Temuco, sud di Santiago, dopo l’11 settembre 1973 quando Pinochet fece morire il presidente Allende. All’università cattolica di Temuco insegnava Omar Venturelli Leonelli, sacerdote che aveva lasciato l’abito talare per fare il professore. Abbraccia la politica della solidarietà nelle file dei Cristiani per il Socialismo. La famiglia Venturelli viene dal modenese. Contadini con la piccola fortuna di un mulino nella colonia Capitan Pastene dove si raccolgono gli italiani sbarcati in Cile. Parlano solo il loro dialetto. Siciliani, veneti, liguri, piemontesi: lo spagnolo riunisce la babele. Omar ha studiato in seminario. Studiato come gli altri quattro fratelli che il padre ha preteso diventassero ingegneri e chirurghi. Alla Cattolica di Temuco l’ex sacerdote incontra un’insegnante, bella, giovane, stesso impegno sociale: Fresia Cea Villalobos. Si sposano, nasce una bambina. Quell’11 settembre ’93 Maria Paz ha tre anni.
Il giorno del golpe, lungo le strade di Temuco incollano manifesti con gli elenchi delle persone pericolose da catturare vive o morte. Anche Omar e Fresia diventano sovversivi da impacchettare. Omar si rifugia nel mulino del padre, e il padre lo convince a presentarsi ai carabineros. «È solo una formalità. Ti spieghi e torni in cattedra». Si spiega e sparisce.
Freisa viene arrestata; due giorni in caserma dove la sala mensa è trasformata nell’aula di un tribunale speciale. Si firmano le prime condanne a morte mentre passano i camerieri con piatti fumanti destinati al pranzo ufficiali, una porta in là. «Volevano farmi dire che ero comunista, quindi fuori dalla nuova legge imposta dai militari che avevano rovesciato la democrazia», racconta. Non era comunista ma assieme al marito appoggiava l’occupazione di terre abbandonate nei latifondi larghi come nazioni. Gli occupanti erano (e sono, poco è cambiato) indigeni mapuche: gli agrari li trattavano come animali. «Sei comunista e devi confessarlo». La trascinano nei corridoi davanti alle stanze di tortura. Escono uomini e donne disfatti. Signori in borghese di Patria Libertà - neonazisti cari a Pinochet, uno dei capi ha sposato Lucia Pinochet, figlia maggiore - vanno e vengono, armati. Portano via i prigionieri come pacchi. «Confessa, ti conviene. Altrimenti, guarda… ». Nel grande cortile rotolano dai camion degli agrari ragazzi massacrati. «Scappate, siete liberi», e i ragazzi provano a correre mentre i carabinieri si esercitano al tiro al piccione.
Nei corridoi della caserma si aggira l’avvocato Alfonso Podlech Michaud. Tuta mimetica, truppa d’assalto. Distribuisce ordini ripetendo: «Qui dentro da oggi comando io». Pinochet lo ha personalmente nominato procuratore militare. La delega riguarda anche l’ordine pubblico.
Omar intanto è sparito. Gli ultimi testimoni lo ricordano mentre legge la Bibbia ad alta voce o conforta i compagni di cella. Torna dagli interrogatori coperto di sangue. Freisa e la figlia riescono a fuggire in Italia. Prima Palermo, poi Bologna. Quando Maria Paz diventa maggiorenne e Pinochet lascia la Moneda, Freisa vuol portarla a Temuco. Ma Maria Paz non può andare: è ancora «clandestina». Sandro Pertini riceve madre e figlia. Il suo impegno permette il viaggio nel tempo ma anche nella rabbia. Perché -raccontano Freisa e Maria Paz- le gerarchie sociali non sono cambiate. Chi comandava, continua a comandare. Attorno al monumento che ricorda centinaia di ragazzi e padri di famiglia inghiottiti dalle squadre della morte, passeggiano i protagonisti di quei massacri. L’avvocato Podlech cammina con l’aria di dire: spostati che devo passare.
Gli anni della procura militare lo hanno reso miliardario. Le inchieste pretese dai parenti delle vittime hanno suggerito di sbriciolare le proprietà in una rete di società anonime, galassia dei prestanome. Grandi proprietari e autorità militari gli si rivolgono col riguardo dovuto a un piccolo padre della patria. Vent’anni di transizione e di democrazia non hanno cambiato una virgola. L’avvocato in tribunale nega di conoscere le donne violentate quand’erano ragazze nella caserma dove imperava. Il tribunale se ne lava le mani: impossibile procedere. Falso anche il documento che testimonia la «liberazione» di Omar Venturelli: «Il 4 ottobre 1973 è tornato in libertà ed è stato trattato bene».
Freisa si ristabilisce a Temuco: lavora contro la violenza alle donne e si impegna per scoprire la verità del passato. Maria Paz è ormai italiana. Quando arriva in Cile si commuove nell’abbracciare i fratelli del padre, ma li scopre diversi da come li immaginava: non pinochettisti, per carità, ma conservatori attenti agli equilibri che gli interessi professionali suggeriscono. Omar è morto e sepolto nel loro ricordo. Freisa e la figlia scavano fra i documenti; stringono i rapporti con le famiglie di altre vittime.
Un giorno si presentano coi risultati delle ricerche al giudice Capaldo, che emette l’ordine di cattura. Vale in ogni parte del mondo, ma in Cile non ne tengono conto. L’avvocato Podlech attraversa la frontiera come un angioletto. Anche gli Stati Uniti fanno finta di niente. Intoccabile fino a quando il 28 luglio mette piede in Europa e trova Garzon giudice di turno. Freisa Cea Villalobos è tornata a Bologna per curare una malattia. La lunga rincorsa non l’ha stancata: «Voglio vivere fino a quando un tribunale condannerà Podlech e tutti gli assassini come lui».

Corriere della Sera 3.8.08
Arrestato l'«inquisitore di Temuco» il carcere dove fu torturato Sepúlveda
di Alessandra Coppola


Fermato in Spagna, sarà trasferito a Roma. L'accusa: uccise un italo-cileno
Il procuratore militare Podlech era inseguito da un mandato di cattura italiano. E' stato bloccato dal nemico n. 1 della dittatura di Santiago, il giudice Garzón
ROMA — Il penultimo capitolo, quattro giorni fa, racconta di un pensionato cileno che in vacanza con la seconda moglie e due nipoti, destinazione Praga, ha la malaugurata idea di fare scalo a Madrid. Cullato dall'impunità di cui gode in patria, Alfonso Podlech Michaud, 73 anni, ex procuratore militare di Temuco, non ha dato peso a un mandato di cattura partito da Roma che da Natale insegue 140 responsabili del piano Condor (la cooperazione tra golpisti sudamericani negli anni Settanta per l'eliminazione dei dissidenti). E ha lasciato le frontiere «protette» del Cile per consegnarsi nella mani del nemico numero uno della dittatura di Santiago: quel Baltasar Garzón che nel '98 bloccò lo stesso Pinochet agli arresti a Londra e che — di turno all'Audiencia Nacional, appena rientrato dalle ferie — si è trovato sulla scrivania il dossier Podlech e ha firmato la detenzione. A giorni il trasferimento nel carcere romano di Regina Coeli.
Capitolo primo, trentacinque anni fa. L'11 settembre, il golpe di Pinochet appena consumato, Omar Venturelli e la moglie Fresia Cea sentono i propri nomi scanditi alla radio: hanno otto ore di tempo per presentarsi in caserma per una «registrazione». «Vado io per prima», dice Fresia. Omar resta in casa con la bimba di un anno e mezzo.
A essere convocati dalla voce dei militari sono in questa fase professori, intellettuali, studenti. Ex sacerdote sospeso «a divinis» dopo le battaglie per la terra agli indios, già dirigente dei Cristiani per il Socialismo, Omar insegna Pedagogia all'Università cattolica di Temuco. Nelle ore concitate che seguono la battaglia alla Moneda e il suicidio di Allende, i dettagli — e gli orrori — del regime non sono ancora nitidi. Fresia arriva in caserma, capisce che non si tratta di burocrazia, scappa. Non riesce a comunicare con Omar, che ha però intuito il pericolo e per due giorni si nasconde.
I comunicati radiofonici iniziano a cercarlo con maggiore insistenza, «vivo o morto». Finché il padre lo convince a consegnarsi. Italiano della provincia di Modena, pioniere della colonia di Capitan Pastene nel Sud del Cile, Roberto Venturelli è un uomo di destra, convinto della pericolosità del governo Allende e delle buone intenzioni di sicurezza e difesa della proprietà del nuovo regime. Ignaro dei metodi sanguinari, è lui stesso ad accompagnare il figlio in caserma. Non lo rivedrà mai più. Il 4 ottobre 1973 Podlech firma per Omar Venturelli l'Orden de Libertad n.52 con il quale si chiede il rilascio del professore. Una settimana dopo, un giovane militante di sinistra condotto in cella al passaggio in un corridoio sente la voce disperata di un uomo: «Mi chiamo Omar Venturelli, fate sapere che sto morendo». Desaparecido, come tremila altri.
Podlech in Cile ha esibito un documento che attesta la sua nomina a procuratore militare di Temuco solo nel marzo '74. E su questa carta in patria è stato scagionato. L'ordine 52, così come le testimonianza dei sopravvissuti — alcuni ascoltati anche a Roma dal pm Capaldo — indicherebbero invece che lui c'era da subito. Alla prigione sarebbe arrivato già la mattina dell'11 settembre, ore 8, per imporre il rilascio dei terroristi di destra di Patria y Libertad. Di lì si sarebbe installato nel carcere. «Era lui a dare l'ordine di torturare e spesso partecipava direttamente alle sessioni— racconta Fresia —. Testimoni dicono di averlo sentito chiamare i torturatori e, indicando i prigionieri, dire: "Ammorbiditeli un po', poi riportatemeli". Una ragazza, insegnante delle elementari, l'ha riconosciuto come l'uomo che le ha puntato una pistola alla tempia in una finta esecuzione».
Presente e attivo inquisitore, dunque, del carcere di Temuco e della caserma Tucapel, gli stessi luoghi dell'orrore per cui è passato proprio in quegli anni lo scrittore cileno Luis Sepúlveda. Per raccontare poi ne La frontiera scomparsa dei militari «che giravano la manovella del generatore elettrico», degli infermieri «che ci applicavano gli elettrodi all'ano, ai testicoli, alle gengive, alla lingua e poi ci auscultavano per decidere chi fingeva e chi era davvero svenuto sulla "griglia"».
L'ultimo capitolo di questa storia Fresia Cea vorrebbe adesso che a scriverlo fosse la giustizia italiana. «Il pm mi ha detto che spera di arrivare alla prima condanna già entro l'anno ». Appello a Napolitano: «Chieda alla presidente cilena Bachelet che si ricordi di noi vittime. Podlech a Madrid ha già ricevuto l'assistenza legale dello Stato. Anche io ne avrei avuto bisogno. Mi auguro che non finisca come Pinochet». Esattamente il precedente a cui guarda la difesa di Podlech, che ha già fatto richiesta di «immunità » sul modello dell'intricata vicenda che riportò l'ex dittatore da Londra a Santiago. Senza mai una condanna.

l’Unità 3.8.08
Casta. Rimborsi elettorali anche ai non eletti


ROMA L’onda lunga delle elezioni di aprile stravolge il budget dei partiti. Inattesi tracolli e grandi exploit segnano le tabelle dei rimborsi elettorali. Lega Nord e Italia dei Valori raddoppiano gli incassi. Quelli del Pd crescono più di quelli del Pdl. L’Udc limita i danni. E se l’Udeur di Mastella resta a quota zero, la Sinistra Arcobaleno si accontenta delle briciole: solo un quinto rispetto al 2006.
La torta da dividere sono i 100 milioni 618 mila 876 euro l’anno di rimborsi elettorali. Circa 503 milioni nell’intera legislatura. Alla ripartizione, deliberata questa settimana dagli uffici di presidenza dei due rami del Parlamento, partecipano tutti i partiti che hanno superato la soglia dell’1% alla Camera o il 5% in una Regione al Senato. Quattordici in tutto. Anche, quindi, alcune delle formazioni che non hanno eletto neanche un parlamentare (Sinistra Arcobaleno e La Destra, ad esempio). Qualcuno, come l’Udeur dell’ex ministro Clemente Mastella, non riceverà nessun rimborso per le politiche del 13 e 14 aprile. Ma continuerà, come altri 16 partiti, a incassare quelli maturati per le elezioni 2006. Una norma stabilisce infatti che prosegua «l’erogazione anche in caso di scioglimento delle Camere», fino a quello che avrebbe dovuto essere il termine naturale della legislatura, cioè il 2011. Per quest’anno, però, le somme stanziate sono state ridotte del 24,55%, tenendo conto di un taglio strutturale previsto dalla finanziaria 2007 e delle attuali disponibilità (il Tesoro al momento non ha accantonato l’intera somma). Dal 2002 i partiti hanno diritto a un euro per ogni voto ricevuto.

l’Unità 3.8.08
Stuprata una militare su tre, ma il Pentagono non vede
Shock al Congresso Usa, il 29% delle donne soldato subisce violenze e solo l’8% dei denunciati finisce davanti a una Corte
di ro.re.


New York. Uno shock per l’opinione pubblica e il Congresso i risultati di un’indagine condotta nel circuito della sanità militare Usa. Il 41% delle veterane curate nelle sue strutture risulta essere stata vittima di abusi sessuali. Il 29% delle donne denunciano di essere state stuprate durante il servizio militare. Jane Harman, deputata democratica della California, pensava di non aver capito bene. «Sono rimasta letteralmente a bocca aperta quando i medici mi hanno riferito queste cifre. Siamo davanti a una tragedia di proporzioni epidemiche. Oggi le donne arruolate nelle nostre Forze armate hanno molte più probabilità di essere violentate da un commilitone che di essere ammazzate dal fuoco nemico in Iraq». Le ultime statistiche del Pentagono indicano che sino al 24 luglio di quest’anno le donne perite nel conflitto iracheno sono 100 su un totale di oltre 4mila morti.
Salta fuori che su un totale di 2.212 denunce di violenza sessuale nel 2007, soltanto in 181 casi i responsabili sono stati deferiti alle Corti marziali. Si tratta dell’8% circa, contro il 40% dei casi che arriva nelle aule di giustizia nel mondo civile. I comandanti militari in altri 419 casi hanno imposto non meglio precisati «provvedimenti disciplinari». Una dizione che comprende tanto l’esonero quanto l’ammonimento verbale. Le cifre si riferiscono soltanto allo scorso anno. Un’analoga inchiesta, condotta dal General Account Office, l’organo del Congresso che svolge le funzioni della Corte dei conti in Italia, giunge a conclusioni ancora più allarmanti. Su 103 denunce di violenza sessuale raccolte dagli investigatori in 14 installazioni militari, 52 non erano state riportate nei canali della giustizia militare. Il fenomeno sarebbe quindi largamente sottostimato.
Il dottor Kaye Whintley massimo esperto del Pentagono in materia di abusi sessuali, citato in qualità di testimone davanti alla commissione d’inchiesta alla Camera, all’ultimo momento ha fatto sapere che non si sarebbe presentato. Ordini superiori giunti direttamente dal dipartimento alla Difesa. «Non so cosa stiano cercando di nascondere, ma non lo permetteremo. Questo comportamento è inaccettabile», è sbottato nel corso della seduta Henry Waxman, un altro deputato democratico. Al suo posto è stato mandato un ufficiale dell’Esercito, che ha letto una breve dichiarazione: «Il Pentagono prende estremamente sul serio le accuse che hanno per oggetto casi di violenza sessuale. Anche un singolo episodio rappresenta una violazione dei valori fondamentali per un soldato».
La commissione ha quindi ascoltato la deposizione di Mary Lauterbach, la madre di Maria, caporale dei Marine, uccisa nel dicembre scorso da un altro Marine che già l’aveva stuprata e messa incinta. La ragazza aveva vent’anni. «Mia figlia sarebbe ancora viva se il comando militare avesse preso sul serio le sue denunce». Per mesi invece i superiori hanno cercato di convincerla a lasciar perdere. Sinché lo stupratore l’ha messa a tacere per sempre.

l’Unità 3.8.08
Via all’appuntamento di Cortona con l’attore Usa che leggerà brani da Eliot e Poe in un recital in coppia con Gabriele Lavia
E Robert Redford sceglie la poesia per il «Tuscan Sun Festival»
di Elisabetta Torselli


Cortona (Ar). Robert Redford era la stella, ieri a Cortona, della presentazione dell’edizione 2008, la sesta, del Tuscan Sun Festival (dal 2 al 10 agosto). Il sempre affascinante attore e regista americano ha ovviamente calamitato su di sé la maggior parte delle domande, e ha risposto con garbo: certo che ama l’Italia, la Toscana è bellissima, del resto negli anni Cinquanta aveva studiato pittura a Firenze, è qui per leggere poesie di Eliot, Cummings e Edgar Allan Poe nel recital di poesia che divide a metà con Gabriele Lavia che invece leggerà Leopardi (l’8 agosto al teatro Signorelli, sede di quasi tutte le manifestazioni al chiuso), ma anche per accompagnare la moglie, la pittrice Sybille Szaggars, la cui personale si inaugurava appunto ieri. Ma Redford non ha davvero tolto la scena agli altri protagonisti del festival cortonese fondato dal suo amico Barrett Wissman, il presidente dell’IMG, agenzia leader nel management culturale che rappresenta molti degli artisti di questo festival, artisti emergenti come Danielle de Niese, soprano avvenente e lanciatissimo, protagonista con il giovane basso Vito Priante e con l’Orchestra Barocca di Venezia diretta da Andrea Marcon di un bel concerto haendeliano (oggi). Ricordiamo anche l’estrosa pianista venezuelana Gabriela Montero, che condisce i suoi concerti con strepitose improvvisazioni in stile jazz su temi musicali classici (suonerà Beethoven il 5 al Teatro Signorelli con l’orchestra del Festival di Verbier e un direttore importante, amico del festival, Antonio Pappano), artisti celebri già da molti anni come il violinista Joshua Bell (il 9 sempre al Signorelli con la giovane violoncellista Natasha Paremski e l’Orchestra da Camera di Mantova, e di nuovo il 10 per il concerto di chiusura). E Wissman ha anche un altro asso da calare: José Cura, che partecipa al Tuscan Sun Festival 2008 con un recital (il 4 agosto), con un gala operistico in compagnia del soprano Ana Maria Martinez (il 7 agosto), ma anche con la mostra fotografica Espontaneos, che illustra questa passione di sempre del celebre tenore argentino. Certo, è un festival diversissimo dagli altri festival italiani. Per certi aspetti è una vetrina dei «gioielli dell’IMG», senza ambizioni tematiche o di riscoperte o di progettazione culturale, ma, sembrerebbe, in uno spirito amichevole e di scambio reciproco fra artisti e pubblico, all’insegna di un’interdisciplinarietà abbastanza cordiale e vacanziera da prevedere anche stage di cucina, lezioni di yoga, naturalmente degustazioni di vini e formaggi... In ogni caso questo singolare (per l’Italia almeno) imprenditore della cultura sembra sinceramente affezionato alla sua creatura, e il sindaco di Cortona, Andrea Vignini, si dice disposto a scommettere che se il Tuscan Sun Festival (sostenuto dal Comune, dalla Provincia e dalla Regione, quest’anno per ca. 120.000 euro, ma non dal Ministero) ricevesse dalla mano pubblica quanto hanno a disposizione altri festiva italiani, forse Wissman sarebbe capace di fare una seconda Salisburgo. Chissà?

l’Unità 3.8.08
Una serata in memoria di Basaglia al Lagunamovies di Grado


Una serata nel segno di Basaglia (stasera, ore 21) a Grado, nell’ambito della rassegna «Lagunamovies 2008» giunta quest’anno alla sua quinta edizione. Titolo dell’appuntamento, «Un due trenta, liberi tutti», nel corso del quale si potranno vedere i preziosi filmati della cineteca del dipartimento di salute mentale di Trieste, per celebrare i trent’anni di riforma Basaglia. Sull’isola di Anfora – Porto Buso, a circa un’ora di navigazione da Grado, la serata si propone di ripercorrere la coraggiosa avventura di Franco Basaglia insieme a Massimo Cirri, ideatore e conduttore di Caterpillar-Radio2, Peppe Dell’Acqua, direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste, coordfinati dal nostro Toni Jop. In proiezione alcuni video storici dagli «archivi della de-istituzionalizzazione», il patrimonio di fotografie, video e materiali che hanno documentato la vita dell’ex Ospedale Psichiatrico di Trieste. Come Marco Cavallo, un video a cura di Geri Pozzar, che documenta la costruzione e l’uscita del cavallo Marco dall’allora ospedale psichiatrico di San Giovanni, nel 1973, commentata da Peppe Dell’Acqua e Giuliano Scabia. E come la produzione Rai, X DAY i grandi della Scienza del Novecento: Franco Basaglia (2002), per la regia di Enrico Agapito, su testi di Maria Grazia Giannichedda, che prende avvio dal primo Congresso di Psichiatria Sociale di Londra del 1964, in cui Franco Basaglia manifestò al mondo scientifico l’urgenza della distruzione dell’ospedale psichiatrico.

l’Unità Roma 3.8.08
L’energia zigana della Kocani
Con l’orchestra macedone tornano a Villa Ada i ritmi e le melodie dei Balcani
di Luca Del Fra


TZIGANI A partire dall’anno Mille dall’India centro settentrionale si spostarono verso l’Europa alcune popolazioni poi denominate zingari, zigani, o per usare un etnonimo, rom: giunto in Asia minore, alle porte del Vecchio continente, il percorso da queste
intrapreso si biforcò, da una parte verso l’Africa settentrionale e poi la penisola iberica, dall’altra seguendo i Balcani verso l’Europa centrale. Le tracce culturali lasciate da queste popolazioni sono piuttosto evidenti soprattutto nella musica: in Spagna nello spirito del flamenco e del «cante jondo», nell’Europa dell’Est in una scuola violinistica folclorica che ha però anche influenzato la musica colta. Tuttavia nei Balcani, in particolare tra Macedonia e Serbia, gli tzigani hanno sviluppato uno stile che si caratterizza invece per la presenza degli strumenti a fiato.
È da questo ceppo che si è sviluppata la Kocani Orchestra, che prende nome proprio dal piccolo villaggio, oggi nella Macedonia settentrionale, dove ha avuto origine e di quell’area geografica ripropone attraverso una profonda elaborazione i temi e i ritmi popolari. In questo senso il suo arrivo stasera a Villa Ada, a Roma incontra il Mondo risponde allo spirito della rassegna, e alla particolarità del luogo dove si tiene. Quella che propone la Kocani è, infatti, una musica da una prepotente ebbrezza ritmica, che trae origine spesso da ritmi usati nelle danze tradizionali femminili, chiamate «cocek», oppure in quelle collettive denominate «oro». Formule ritmiche che affondano le loro radici nella notte dei tempi probabilmente, che la Kocani non ripropone in senso “filologico”, ma le tratta invece come fossero materia viva, sfidandone la tenuta sul terreno sconnesso della contemporaneità.
Di qui la commistione, anche disinvolta e talvolta addirittura volutamente esilarante, con sapori musicali orientali e perfino latino americani, in direzione di un puzzle musicale dai tratti poco ortodossi e magari un po’ surreale.
www.villaada.org 06 41734712 22.00 Ingresso 8

Corriere della Sera 3.8.08
La spiegazione del «ritocco»: turbava i telespettatori
E Palazzo Chigi «velò» il seno alla Verità svelata del Tiepolo


ROMA — Le donne, a Palazzo Chigi, preferiscono vederle vestite. E non importa se quella che esibisce un seno — piccolo, tondo, pallido — se ne sta su una copia del celebre dipinto di Giamb attista Tiepolo (1696-1770): «La Verità svelata dal Tempo ». Il dipinto, che Silvio Berlusconi aveva scelto come nuovo sfondo per la sala delle conferenze stampa, viene ritoccato. È successo.
La testimonianza fotografica è inequivocabile.
Prima si scorge un capezzolo. Poi il capezzolo sparisce. Coperto, si suppone, con due colpetti di pennello.
La notizia è battuta dall'agenzia Italia alle 17,22. Un'ora dopo, Vittorio Sgarbi, critico d'arte di antica osservanza berlusconiana, ha la voce che quasi gli trema. «Cos'hanno fatto? Ma davvero?». Un ritocchino, professore. «Pazzi, sono dei pazzi...». Ci vuole un bel coraggio, in effetti, a mettere le mani su un Tiepolo, sia pure in crosta. «E allora cosa dovrebbero fare con tutte quelle statue di donna sparse in decine di musei italiani dove spesso si ammirano seni da far restare senza fiato pure Pamela Anderson? ». L'arte, evidentemente, spaventa. «Oh... io spero davvero che la decisione di questo assurdo, folle, patetico, comico, inutile ritocchino sia stata presa all'insaputa del Cavaliere. Tanto più che se volevano fargli un piacere, cercando di non far associare agli italiani una tetta alla sua immagine di uomo, come dire? incline al fascino femminile, sono riusciti invece nel-l'esatto contrario. Ma si sa, almeno, chi è il responsabile di questa cretinata?».
Non s'è capito subito, in verità. Poi il sottosegretario alla Presidenza Paolo Bonaiuti ha fatto personalmente qualche telefonatina.
«E allora, beh, direi che è andata molto semplicemente: diciamo che è stata un'iniziativa di coloro che, nello staff presidenziale, provvedono al la cura dell'immagine di Berlusconi ». Bonaiuti, scusi: ma cosa li avrebbe turbati tanto? «Beh... sì, insomma: quel seno, quel capezzoluccio... Se ci fate caso, finisce esattamente dentro le inquadrature che i tg fanno in occasione delle conferenze stampa». E quindi? «E quindi hanno temuto che tale visione potesse urtare la suscettibilità di qualche telespettatore. Tutto qui».
C'è da dire che in occasione delle prime inquadrature ormai risalenti alla conferenza stampa del 20 maggio scorso (con il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia perfettamente centrata sotto la femminile Verità ancora scoperta) al centralino di Palazzo Chigi non risultano essere giunte particolari proteste da parte della cittadinanza italiana. Nè preoccupazioni per eventuali turbamenti vennero comunque al Cavaliere e al suo architetto di fiducia, che lo aiutò nella scelta del celebre dipinto: Mario Catalano, forse non casualmente già scenografo del memorabile programma di spogliarello televisivo «Colpo Grosso», condotto da Umberto Smaila su Italia 7 dal 1987 al 1991, con le ragazze, chiamate «mascherine», che — appunto — si facevano volar via il reggiseno cantando «

Corriere della Sera 3.8.08
La scommessa dei giochi olimpici
La guerra della Cina alla natura
di Niall Ferguson


A meno di un miracolo meteorologico, quella di Pechino sarà l'aria più inquinata mai respirata dagli atleti olimpici

Alla vigilia dei Giochi Olimpici, che verranno inaugurati a giorni a Pechino, la Cina si presenta al mondo come un wok sfrigolante di aiguozhuyi (orgoglio nazionale), nelle parole dello scrittore cinese Liu Xiaobo. C'è da chiedersi però fino a che punto il governo cinese può permettersi di surriscaldare i sentimenti popolari. Dovunque si vada, è difficile sfuggire allo slogan ufficiale di Pechino 2008: «Un sogno per il mondo». Le cinque simpatiche mascotte olimpiche, note come Fuwa, sono altrettanto onnipresenti e cinguettano da schermi grandi e piccoli, dal terminale dello splendido e nuovissimo aeroporto internazionale della capitale fino al più modesto vagone ferroviario di qualche linea secondaria.
La Cina non è il primo regime non democratico intento a sfruttare le Olimpiadi per rafforzare il proprio prestigio internazionale da un lato e la legittimità interna dall'altro. Ma raramente sport e propaganda sono stati aggiogati assieme su così vasta scala. I leader comunisti cinesi non fanno segreto del fatto che ai loro occhi il successo olimpico è il simbolo perfetto della «pacifica ascesa» del loro Paese. Anche se gli atleti cinesi non ce la faranno a battere i colleghi americani nel record di medaglie conquistate (sono arrivati secondi ad Atene quattro anni fa, con quaranta medaglie in meno rispetto agli Usa), il governo cinese uscirà comunque vincitore se lo sfarzoso spettacolo olimpico verrà riconosciuto come un grande successo organizzativo.
A prima vista, è difficile negarlo. I grandi progetti architettonici necessari per ospitare i Giochi Olimpici sono esattamente quello che il regime sa fare meglio. Coloro che frequentano spesso Pechino avranno notato che nel corso dell'ultimo anno la città ha subito profondi rimaneggiamenti, con la costruzione di circa mezzo miliardo di metri quadrati di superficie calpestabile, tra cui 110 alberghi. Come l'aeroporto rinnovato, l'impressionante nuovo stadio nazionale — dove verranno ufficialmente inaugurate le Olimpiadi alle 8.08 di sera dell'8 agosto — le meraviglie architettoniche rappresentano il nuovo ruolo di superpotenza economica della Cina. Questo, dopo tutto, è il Paese che oggi conta tre delle più grandi imprese al mondo nell'Ft Global 500 (PetroChina, China Mobile and Industrial e la Commercial Bank of China). Questa è l'economia che, secondo la Fondazione Carnegie per la pace internazionale, supererà il Pil degli Stati Uniti nel 2035.
Eppure, dietro lo smalto ufficiale di tanto ottimismo, la Cina oggi tradisce segni di insicurezza, qualche tentennamento che spiega il clima arroventato in cui si crogiola il nazionalismo cinese. Si avverte in Cina un'ipersensibilità per le critiche internazionali rivolte al regime per il sostegno offerto al governo del Sudan, malgrado la crisi del Darfur; per la repressione contro i separatisti del Tibet e per la palese indifferenza verso la sorte di popolazioni oppresse, in Birmania e in Zimbabwe. Si percepisce inoltre una crescente ansietà riguardo la sostenibilità del miracolo economico cinese, che oggi si avvicina al trentesimo anniversario. Il mercato azionario è sceso del 56 per cento negli ultimi nove mesi. Il denaro «caldo» delle speculazioni, che si riversa in Cina nell'attesa di un nuovo apprezzamento valutario, va a sommarsi alle già gravi pressioni inflazionistiche. I controlli del capitale non sono impermeabili e il controllo dei prezzi non riesce più a camuffare gli aumenti globali verificatisi nella spesa alimentare ed energetica.
Le tensioni economiche accentuano i molteplici problemi sociali della Cina: la forbice della disuguaglianza dei redditi, che si allarga a dismisura; l'estrema povertà, che persiste nelle zone rurali del Paese; e infine lo squilibrio demografico, innescato dalla politica del figlio unico tramite l'aborto selettivo dei feti femminili. Nel frattempo, le conseguenze ambientali dell'industrializzazione spinta della Cina gettano una nube oscura — letteralmente — sulle imminenti Olimpiadi. A meno che non si verifichi un miracolo meteorologico, quella della capitale sarà l'aria più inquinata mai respirata dagli atleti olimpici. Per stimolare il miracolo, le autorità hanno fatto ricorso a particelle chimiche, sparate in aria da batterie antiaeree, che dovrebbero provocare la pioggia.
Ed ecco un altro simbolo, meno positivo, della Cina moderna: un regime in conflitto aperto con la natura. Una settimana dopo il terremoto nel Sichuan del 12 maggio, quando tutta la nazione si fermò per osservare tre minuti di silenzio, c'era qualcosa di assai familiare nello stato d'animo di Pechino e che avevo già provato in passato: qualcosa che riguardava il senso di unità nazionale, rafforzato dalla copertura televisiva, 24 ore al giorno, sette giorni su sette, delle operazioni di soccorso. Nella capitale regnava un'atmosfera assai simile a quella di New York dopo l'11 settembre, tranne che la responsabilità per la catastrofe nel Sichuan non poteva essere imputata né a un'organizzazione terroristica né a un regime canaglia. I soli colpevoli erano quegli imprenditori criminali e quei politici corrotti che avevano consentito la costruzione di scuole senza rispettare le normative di sicurezza ed è stato proprio il crollo di questi edifici a causare il maggior numero di vittime. I media ufficiali si sono affrettati, si capisce, a insabbiare le rivelazioni che rischiavano di indebolire il consenso popolare verso il partito. Le cronache giornalistiche sono state ben presto dirottate verso i «laghi del terremoto» — altro bersaglio naturale su cui puntare i cannoni dell' Esercito popolare di liberazione.
Proprio come gli americani hanno sferrato la loro guerra al terrore dopo l'11 settembre, oggi i cinesi sembrano impegnati a combattere la natura. Per afferrare quello che è in ballo in questa strana guerra, vale la pena allontanarsi dalla capitale, anzi, da tutta la regione orientale della Cina (...).
E la democrazia? Tre anni fa, nel suo discorso al 17˚Congresso nazionale del partito comunista, il presidente cinese Hu Jintao menzionò la parola «democrazia» 61 volte, tanto che alcuni commentatori ipotizzarono l'avvio di una qualche liberalizzazione politica. Forse il più potente agente del mutamento politico, però, sarà Internet.
Negli ultimi anni, la rete mondiale ha invaso la Cina. Dopo un incremento del 50 per cento nel 2007, oggi si contano circa 210 milioni di utenti Internet in Cina, alla pari con l'America. Via via che i telefoni cellulari si interfacciano con Internet, il tasso di crescita potrebbe aumentare ancora. Gli effetti ricordano l'impatto dell'invenzione della stampa nell'Europa centrale del secolo XVI, perché da qui parte una sfida senza precedenti al monopolio del partito comunista cinese sulle comunicazioni. Per la stragrande maggioranza, com'era da aspettarsi, sono i giovani i principali utenti online, di cui circa il 70 per cento ha meno di 30 anni. Ancor più sorprendente risulta il dato che i web surfer cinesi sono molto più disposti, in confronto alla controparte occidentale, ad abbandonare le fonti tradizionali di informazione a favore di Internet: per l'85 per cento degli utenti cinesi è Internet la principale fonte di informazione. Come in Occidente, inoltre, Internet funge anche da veicolo di espressione personale: già il 52 per cento di tutti i blog sono in lingue asiatiche e il mandarino si prepara a scavalcare il giapponese.
Certo, il regime si sforza in tutti i modi di tenere sotto controllo l'uso di Internet tra i suoi cittadini. Tutto il traffico web è incanalato nel cosiddetto «grande firewall cinese», con migliaia di funzionari che controllano gli Url fuorilegge. Eppure, l'idea di uno Stato totalitario in grado di controllare Internet appare quantomeno assurda. Ricorrendo a proxy server, software di criptaggio e altri strumenti, la nuova generazione di informatici cinesi riesce a mantenersi un passo avanti rispetto alla censura.
La questione cruciale è fino a che punto le autorità devono temere un'ondata di dissenso come conseguenza della passione dei giovani per Internet. L'analogia con la stampa ci induce a immaginare una sorta di Riforma cinese, ovvero una sfida al potere immobile dello Stato paragonabile a quella lanciata da Martin Lutero al papato medievale, una sfida che non sarebbe certo stata altrettanto rivoluzionaria senza il supporto della diffusione delle informazioni per mezzo della tipografia. E' vero inoltre che le critiche verso i funzionari locali del partito o la loro politica vengono trasmesse per lo più orizzontalmente, tramite e-mail e (più comunemente) via sms. Ma le nuove forme di comunicazione elettronica potrebbero facilmente fungere anche da canali per il rafforzamento del nazionalismo popolare, oltre che per il dissenso politico. «Non abbiamo nulla da temere » recita un video diffuso in Internet subito dopo i tumulti nel Tibet, con toni assai accesi e risentiti nei confronti dei media occidentali. Con le sue immagini ultranazionaliste, la musica squillante e l'arroganza degli slogan - «La sovranità cinese è sacra e inviolabile»; «Abbiamo l'obbligo di proteggere la prosperità e la stabilità della nazione »; «Non accettiamo provocazioni!» — esso cattura perfettamente il matrimonio tra il nazionalismo cinese e YouTube.
Alla vigilia dei Giochi olimpici, c'è davvero qualcosa che richiama l'immagine di un wok fumante nell'atmosfera che si respira in Cina. Ma sono i siti web più frequentati, dove ribolle il nazionalismo di una nuova generazione di cinesi, a suscitare sconcerto nel resto del mondo.
© The Financial Times Limited 2008 Traduzione di Rita Baldassarre

Corriere della Sera 3.8.08
Monaco: 186 fra olii, disegni, ceramiche e libri illustrati al Nuovo museo nazionale
Van Dongen la ritrae e Picasso la schiaffeggia
La «belle Fernande» aveva posato nuda per l'artista olandese
di Sebastiano Grasso


Ci sono ben sei ritratti di Fernande Olivier, dipinti nel biennio 1906-1907, nella retrospettiva che Monaco dedica a Kees van Dongen (1877-1968). Due la mostrano mezza nuda. In quel periodo, la donna ( La belle) era l'amante di Picasso che ne era geloso in maniera quasi morbosa. Tant'è che, vedendo quello in cui Kees l'aveva dipinta col seno nudo e il gomito appoggiato al tavolino, davanti ad un bicchiere d'assenzio, l'aveva presa a sberle. Allora, a Parigi, tutt'e tre abitavano al Bateau- Lavoir. Picasso aveva conosciuto Fernande da poco, se n'era invaghito e l'aveva portata nel suo studio-abitazione, ma la donna era scappata: troppa confusione, ma soprattutto troppa sporcizia. Così il pittore spagnolo s'era tirato dietro Apollinaire perché l'aiutasse a pulire. Dopo, anche lei s'era innamorata del rozzo Pablo, che, fra l'altro, la inondava di profumi forti. Così, quando andava a trovarlo, gli amici che ne captavano l'odore, dicevano «Madame Picasso è da queste parti».
La rassegna di Monaco, dedicata a Van Dongen — 186 fra olii (130), disegni, ceramiche e libri illustrati — è la più grande dopo quelle di Parigi (1990) e Martigny (2002). Una conferma — o una riscoperta, se ce ne fosse bisogno — di un artista fra i più interessanti del XX secolo, soprattutto alla luce di studi e scoperte recenti.
Curata da Jean-Michel Bouhours e Nathalie Bondil, è divisa in tredici sezioni. Si comincia, naturalmente, dalle opere giovanili (1895-1901) — le prime prove olandesi (con un occhio a Rembrandt e ad altri pittori del '600) e quelle successive al suo arrivo a Parigi (luglio 1897) — disegni e caricature per la Revue illustrée, La revue blanche, L'Assiette au beurre, illustrazioni di libri, ritratti, scene di vita borghese, ecc. Vita dura, all'inizio. E così, questo olandese con la barba lunga rossiccia, imponente come Braque, fa quello che gli capita: strillone, lottatore da fiera, fattorino, imbianchino.
Se i primi nudi dipinti in Olanda avevano un aspetto «domestico», adesso Kees cerca le sue modelle nei bordelli e per le strade: prostitute, bottegaie, cabarettiste, acrobate. L'eclettismo giovanile lascia il posto ad una tavolozza dai colori accesi. Le sue donne hanno occhi così grandi e labbra così rosso-fuoco che qualcuno lo accusa di confondere i colori col trucco delle modelle.
In realtà, sul piano artistico — a parte i rapporti coi fauves ed alcuni espressionisti tedeschi — Kees se ne sta lontano da gruppi e correnti. Viene accostato a Degas e a Toulouse-Lautrec? Solo per i temi. Poi, negli anni Venti, il «salto», grazie soprattutto a due nuove amanti — Jasmy Jacob, direttrice commerciale di grandi case di moda e la marchesa Luisa Casati — e a Félix Fénelon, il critico più importante del momento. Van Dongen diventa il ritrattista del «bel mondo»: politici e cortigiane, letterati e attrici, ambasciatori stranieri e cantanti liriche, galleristi e finanzieri. La borghesia si mette in posa. Ritrae le donne non come sono, ma come vorrebbero essere; le rende desiderabili, irresistibili. La sua tavolozza coglie i patiti dell'Opera, le boutique della moda, I cambiamenti toccano, incredibilmente, anche le sue abitudini alimentari. La moglie Guus era vegetariana e dai Van Dongen si mangiano solo spinaci. Una volta che l'artista si separa dalla donna, va a mangiare al ristorante. E sulla porta di quello dov'è cliente abituale, appare il cartello: «Dove si può vedere Van Dongen mettere il cibo in bocca, masticarlo, digerirlo e fumare? Da Jordan ristoratore, 10 rue des Bons-Enfants ».
L'ascesa dell'artista supera il ventennio, sino a quando, nel 1941, accetta l'invito di Arno Breker, scultore ufficiale del III Reich, di recarsi in Germania. Un viaggio che i francesi non gli perdonano. Risultato: boicottaggio totale. Tant'è che, lasciata Parigi, va in Bretagna e da lì, nel 47, a Monaco. Su di lui cade un silenzio di decenni. Sino alla «riscoperta» postuma. Ma passeranno almeno trent'anni.
Nell’immagine Fernande Olivier ritratta da Kees Van Dongen
Monaco, Nuovo museo nazionale, sino al 10 settembre. Tel. +377/98981962

Corriere della Sera 3.8.08
Rimini: a Castel Sismondo «La rinascita dell'antico nell'arte italiana»
E un sepolcro diventa simbolo
di Flaminio Gualdoni


Federico II, imperatore e re, era detto «meraviglia del mondo ». Non era la solita piaggeria. Il nipote del Barbarossa è il monarca che fa rinascere in Italia, nel '200, il culto per le immagini antiche, per una classicità che deve legare strettamente ai fasti della Roma antica quelli della cultura nuova di cui egli è protagonista. Ci sono opere del passato che vengono reimpiegate in contesti moderni, oppure che scultori come Nicola e Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio reinventano nel linguaggio espressivo da cui nasce l'arte italiana, proprio come dal latino sgorga il volgare che Dante rende lingua autonoma e autorevole.
Il progetto della mostra riminese è questo, e il titolo Exempla suggerisce il senso di tale nitida continuità: l'antico come esempio per la cultura nuova vagheggiata da Federico, e questa stessa cultura come esempio per ciò che, di lì a poco, sarà la rivoluzione che da Giotto porta al Rinascimento. È una mostra difficile, severa, che si fa apprezzare proprio perché rinuncia al solito stucchevole clima d'intrattenimento turistico e vuole davvero far comprendere un passaggio cruciale della storia dell'arte.
Detto questo, i capolavori non mancano affatto, fra le circa 90 opere esposte. La gemma incisa «all'antica» con Poseidon e Anfitrite già posseduta da Lorenzo de' Medici si affianca a codici miniati leggendari come il De arte venandi cum avibus, il trattato che illustra la passione di Federico per la falconeria, e il De balneis puteolanis, esempio precoce di cure termali a Pozzuoli.
La rara cassetta-reliquiario di Sant'Elena, in legno di sandalo dipinto in rosso e oro, fa il paio con il rilievo marmoreo di Nicola e Giovanni Pisano che raffigura Rea Silvia e Romolo e Remo, proveniente dalla Fontana Maggiore di Perugia.
La lastra marmorea di Arnolfo di Cambio con una processione funebre, dal sepolcro Annibaldi, è per molti versi un simbolo della mostra: cinque figure a rilievo altissimo su un fondo ornato da mosaici dorati si susseguono in pose diverse, citando quasi testualmente i bassorilievi romani con scene di processione ma contemporaneamente non sottomettendosi a quel modello, bensì riprendendolo e facendone cosa nuova. Il clima di rinnovamento è rappresentato d'altronde anche da una bellissima Testa di Cristo dipinta da Pietro Cavallini, che idealmente chiude il '200.
EXEMPLA. LA RINASCITA DELL'ANTICO NELL'ARTE ITALIANA
Rimini, Castel Sismondo, sino al 7 settembre. Tel. 0541/783100

Repubblica 3.8.08
Disegni e racconti porno il volto segreto di Kafka
di c. nad.


LONDRA - I critici letterari si aspettano nuove rivelazioni sull´opera di Kafka dalle carte di Max Brod, l´amico e biografo dell´autore de "Le metamorfosi". Ma il segreto piccante, che può dare nuova luce alla personalità dell´autore ceco, non è a Tel Aviv nei documenti custoditi dall´erede di Brod, Hava Hoffe. Da sempre, invece, è sotto gli occhi di tutti, nelle numerose copie fatte dei diari di Kafka. Lo scrittore geniale, problematico e complesso aveva un debole da uomo comune: collezionava materiale pornografico e ogni tanto non disdegnava di aggiungervi qualcosa di suo. Nel libro che uscirà in Gran Bretagna il 7 agosto, "Excavating Kafka", pubblicato da Quercus, il romanziere James Hawes racconta come nei diari dello scrittore praghese, da tempo consultabili dagli studiosi anche nella British Library, si parli di una raccolta di materiale pornografico curata dallo stesso Kafka. Lo scrittore si faceva mandare da Franz Blei, il suo primo editore nel 1908, disegni e racconti che sono, come dice Hawes al Times «senza dubbio pura e semplice pornografia, con venature molto inquietanti, talvolta decisamente sgradevole».
Questa sua raccolta osè Kafka la teneva ben custodita a casa dei genitori, in una libreria con serratura, e portava con sé la chiave quando andava in vacanza. «C´è una nota nella prima biografia, scritta proprio da Brod, che rivela a chi sa leggerla proprio il nascondiglio della raccolta - dice Hawes in un intervento sul Guardian - e se nessuno ci ha lavorato sopra è perché non ha voluto farlo». Il libro di Hawes, che su Kafka ha preparato una tesi di dottorato e ha passato dieci anni a rovistare fra le raccolte di carte dello scrittore, non è solo una nuova lettura dell´opera dell´autore de "Il castello", ma una critica al modo in cui gli studiosi affrontano i loro miti letterari.
«Sembra proprio che l´industria che ruota intorno a Kafka non voglia sapere alcune cose del suo idolo - dice Hawes - il che significa che gli studiosi, quelli che hanno accesso più facilmente ai documenti, non vogliono che i lettori conoscano tutto». Hawes non rivela nulla di più del «materiale pornografico inquietante», cosa che gli assicura una buona vendita del libro tra cinque giorni. E convinto però che «ammettere la verità sul lato porno di Kafka rivelerà anche la verità sulla sua intera opera» e «si vedrà Kafka nella sua autentica prospettiva e non quella tramandataci dagli esistenzialisti francesi».