Dopo le 'mpronte digitali
MARONI: ORA LE CASE!
AI BIMBI ROM CAMERE CON ACQUA, LUCE E TANTO GAS
E paga tutto 'r Governo!
di Mario Cardinali
L'antefatto. In seguito a vari gravi fatti anche di sangue con protagonisti alcuni rom, e dietro la conseguente ondata di pressione mediotica contro quei nomadi, il 2l maggio il capo del govemo ha dichiarato con suo decreto (Gazzetta Ufficiale del 26 maggio) lo "stato di emergenza in relazione agli insediamentì di comunità nomadi nel territorio delle regioni Campania, Lazio e Lomhardia", e con successive disposizioni urgenti d'attuazione (tre ordinanze del 30 maggio, puhhlicote sulla G. U. il giomo successivo) ha nominato i tre prefetti di Roma, Napoli e Milano a commissari delegati per il "monitoraggio dei campi nornadi autorizzati e l'individuazione degli insediamenti abusivi", nonché per la "identificazione e il censimento delle persone, anche minori di età, e dei nuclei familiari presenti nei luoghi suddetti, attraverso rilievi segnaletici" ovvero foto e impronte digitali. Fortemente voluta dal leghista ministro degli interni Maroni e suhito bollata dall'opposizione e da tanta opinione puhhlica anche estera come discriminatoria, xenofoba e razzista, soprattutto nei riguardi dei bambini rom, la schedatura dei nomadi è stata dichiarata "iniziativa contraria alla convenzione dei diritti dell'uomo" dal Parlamento europeo che ha esortato l'Italia "ad astenersi dal procedere alla raccolta delle impronte digitali dei rom, inclusi i minori, e dall'utilizzare le impronte già raccolte".
Al che il ministro Maroni ha replicato che non di razzismo si tratta ma di semplice identificazione per un indispensabile censimento, e quanto ai minori l'iniziativa del govemo è tesa a proteggerli dai loro sfruttatori, a mandarli a scuola e a trovare loro un lavoro. Aggiungendo poi che egli sta addirittura pensando di riconoscere la cittadinanza italiana ai bambini rom nati in Italia e rimasti senza genitori. E davanti a un tale profluvio di bontà del ministro leghista, il Vernacoliere ci mette ora anche le case.
Vanni a fa' der bene, alla gente! Alli zingari speciarmente! Come t'avvicini alle su' baracche, penzano subito che tu ci vadi a rubà!
L'artro giorno dé, sono arrivati i pulizziotti per fanni 'r cenzimento, tutti a chiudessi nelle su' rulotte!
E come i pulizziotti n'hanno detto si vole sortanto le 'm pronte digitali, loro prima n'hanno risposto noi 'un si sono prese, eppoi guardavano l'inchiostro de' tamponi tutti marfidati!
Tanto sono poìno 'gnoranti, questi zingari! Sannonasega loro che Maroni ni vole fa' der bene, a' schedalli tutti co' rilievi segnaletici! E speciarmente i bimbini ròmme! Che lui dé, se li sogna anche la notte, quelli zlngarini, ner mentre prima ni pigia deliato i ditini sur tampone, poi ni lava i musini eppoi li manda tutti perbenino a scola, 'nvece di tenelli tutti cenciosi per la strada a elemosinà!
Perché lui ni fa der bene perdavvero, a quelle creature, a volé sapé quanti sono e chi l'ha caàti! Artro che discriminazzione razziale come dìano que' brodi der Parlamento Uropeo, e tant'artri fissati qui 'n Italia! Tutti a sbraità scandalizzati, appena saputo. der cenzimento de' campi nomadi! E violazzione de' diritti umani di qui, e schedatura ènnica e religiosa di là, e modello nazzista di sopra, e perseuzzione razziale disotto ...
Che alla fine poi Maroni 'un n'ha potuto più, e ha urlato ora ve lo faccio vedé! E tutti a di' no 'un importa, tanto si sa che voi leghisti ce l'avete duro, seddercaso ,ficcatevelo 'nculo fra voi e così poi ce lo raccontate ...
Ma era ben artro, che Maroni voleva fa' vedé! Tantevvero ha tirato fori prima l'idea di danni addirittura la cittadinanza italiana, a' bimbi romme nati 'n Italia e rimasti senza genitori, eppoi ha detto ora ni do anche le 'ase! E mìa a' bimbi soli, anche a' su' genitori!
E lì sì, è scoppiato 'r casino!
- Alli zingari sì e a noi no?! - s'è messa a sbraità la gente, colli sfrattati 'n testa, e tutti a urlà Maroni ciai rotto' 'oglioni!
E a Roma dé, cortei di senzatetto co' fischietti e ' tamburi sotto 'r Viminale, finché 'r ministro dell'interno ha detto vabbene, se le 'ase per li zingari le volete voi, pigliatele voi, cosa vi devo di' ...
E loro via, tutti all'agenzia! Che lì n'hanno fatto vedé i progetti, 'ndove quarmente quelle 'ase 'un sono propio case perdavvero ma pàiano piuccheartro stanzone grandi grandi!
- Tanto sono uno, vesti zingari: ha spiegato vello dell'agenzia, Per facceli entrà tutti, ci vanno pigiati cor burdòzze! E s'un ce 1i pigi, 'un ci vogliano mia entrà! Nomadi come sono, nelle 'ase ci si sentano strettini!
- Ma i servizzi ci sono?
- Ci sono sì! Acqua, luce, e speciarmente 'r gasse! Che loro dé, ridotti come sono alle 'andele, 'r gasse ni ci vole più di tutto!
Dé, camere da 'na parte e gasse da quell'artra, o vai un imbecille s'è messo a di' ma allora sono 'amere a gasse!
E lì ridai, colla sinistra a urlà ma si diceva noi che Maroni con que' baffini pare Itre sputato, e riecco 'r Parlamento Uropeo a ritirà fori la storia de' nazzisti!
E tutto 'perché Maroni, sempricione com'è, 'un cià mia penzato ar quipproqquò! Per lui 'r gasse alli zingari nelle 'amere tutte per loro è sortanto la voglia di fa' le 'ose ammodo!
No. dimmi te sennò che camere per li zingari sono, se duri tanta fatìa a facceli entrà, eppoi l'acqua sì. la luce anche, e 'r gasse 'nvece 'un nielo dai!
Urtimora - Siccome poi l'opposizzione s'è messa anche a sbraità chissà poi chi lo pagherà, tutto quel' gasse a' ròmme. e vedrai va a finì che 'r bonismo di Maroni lo dovrà scontà la gente coll'aomentanni dell'artro le bollette, ha detto 'r Govemo che 'nvece vesta vorta ci penzerà tutto lui, cor un'emissione speciale di titoli di Stato che più che di Stato saranno titoli di Giornale, 'ndove quarmente ci sarà scritto «E se per li zingari 'un basta 'r gasse, mettiamo mano ar nucreare!»
Repubblica 5.8.08
Le conclusioni dell´Agenzia per i diritti fondamentali. Nel mirino il caso Ponticelli
La Ue bacchetta il governo "Rom sempre più emarginati"
di Paola Coppola
ROMA - Un dossier sui "Rom e il caso Italia". Un diario puntuale dei fatti accaduti a partire dalla metà di maggio che denuncia il clima di intolleranza nei confronti dei nomadi che si è diffuso nel nostro Paese dopo il raid al campo di Ponticelli. E punta il dito contro il dibattito politico sull´argomento che è seguito che è stato «generalmente negativo».
Il testo che è stato commissionato all´indomani degli incidenti di maggio dall´Agenzia per i diritti fondamentali, un organo dell´Unione europea istituito recentemente che ha sede a Vienna (dal 16 luglio scorso il comitato scientifico è presieduto da Stefano Rodotà), passa al setaccio tutti gli attacchi ai campi e le aggressioni avvenuti e descrive i provvedimenti presi dal governo sull´onda dell´emergenza segnalando poi come abbiano coinvolto anche gli altri immigrati irregolari presenti nel paese.
Il rapporto diffuso ieri è a uso della Commissione europea e dei suoi paesi membri e lancia un invito alla riflessione soprattutto sulle misure prese dal governo italiano per rispondere agli eventi.
E se visto dall´Italia quanto è accaduto in quei giorni sembra già lontano, l´attenzione critica dell´Europa ritorna sulla vicenda di Ponticelli e il dossier sugli incidenti voluto dall´agenzia stigmatizza i fatti italiani sottolineando il fatto che hanno toccato «uno dei gruppi più vulnerabili d´Europa» e inserendoli in un contesto generale per dire che la strada dell´integrazione è ancora lunga e denunciare che in questa direzione vengono fatti progressi troppo lenti anche negli altri paesi.
Il rapporto segnala anche che la maggior parte dei campi presi di mira nel nostro Paese non erano autorizzati e che da noi i Rom vivono ai margini. E ancora: «Quanto è accaduto a Ponticelli mostra che per proteggere i diritti fondamentali nell´Unione europea i governi devono occuparsi anche del compito di far rispettare, proteggere e promuovere i diritti fondamentali non solo fornendo il supporto legale ma anche assicurando che questi siano applicati dalle autorità pubbliche», si legge.
Il testo ricorda che l´ostilità nei confronti dei Rom non è un fatto recente nel nostro paese e che neanche è limitato all´area del napoletano. Dopo aver fatto una carrellata dei provvedimenti e delle critiche che questi hanno ricevuto, compreso il controverso censimento dei nomadi, ricorda che «nel clima di xenofobia e razzismo generato in questo periodo sono state coinvolte anche altre minoranze non Rom».
l’Unità 5.8.08
Bologna. La strage nera
di Furio Colombo
A nome delle vittime e di una città dilaniata, di un Paese che si è cercato (allora invano) di spingere nell’emergenza restano, inevase, le domande più terribili: chi è stato? Perché?
Mi sembra ingiusto e mi sembra strano tacere solo perché sarebbe più facile tacere. Parlo di Bologna, della strage della stazione, della sentenza.
Quella sentenza (dopo tante sentenze) che condanna come colpevoli Mambro e Fioravanti. E parlo della cerimonia burrascosa, delle dichiarazioni del presidente della Camera Fini, delle polemiche e tensioni di questi giorni.
Molti lettori di questo giornale sanno che dai primi anni Novanta ho detto e scritto la mia persuasione sulla innocenza di Mambro e Fioravanti (cioè per il solo delitto, fra i tanti loro imputati, che essi respingono). Mantengo quella persuasione anche adesso, anche oggi, e lo faccio, in probabile dissenso con molti lettori, anche dopo che l’Unità in questi giorni ha scelto, secondo la sua storia, di confermare tutti i punti, giudiziari e politici di quella vicenda, non solo nella cronaca ma anche con un lucido intervento di Gianfranco Pasquino.
Devo tentare di dimostrare ancora una volta perché sono, allo stesso tempo, dalla parte delle vittime e della immensa e non guarita ferita che Bologna ha patito il 2 agosto 1980, e dalla parte di Francesca Mambro e di Valerio Fioravanti, che continuo a ritenere estranei da quello spaventoso evento, nonostante tutti gli altri eventi delittuosi di cui sono stati volontari iniziatori e protagonisti.
E spero di farlo, affrontando un nodo così intricato e pesante, con chiarezza e semplicità.
1. Eventi spaventosi, irrimediabili e pieni di sangue e di dolore, come la strage di Bologna, chiedono e cercano l’unica risposta civile che è la giustizia: indagare, condannare e con fermezza e certezza. Purtroppo, mentre la tragedia è riuscita nel suo pieno di morte, indagini e processi (ce ne sono stati tanti, e tante sentenze prima della condanna definitiva) sono apparsi segnati da deviazioni, ostacoli, false testimonianze, ritrattazioni, improvvise entrate in scena di nuove voci, cancellazione, per tante ragioni, di molte di esse.
2. Chi ha letto e riletto gli atti sa che un solo filo, soggettivo e di origine non chiara, porta dal tragico fatto ai “colpevoli” . Ma una volta raggiunta una visione finale, dopo tanti tentativi andati a vuoto, è sembrato a molti, con un atteggiamento del tutto comprensibile e umanamente condivisibile, di avere finalmente un punto di riferimento e di appoggio tanto forte quanto la strage: la sentenza definitiva. E di avere una ferma ragione per credere in quella versione e nella sicura colpa dei condannati.
3. Innumerevoli fatti della storia insegnano che vicende gravi e oscure che segnano e devastano la vita di un Paese, restano gravi e oscure anche durante i processi e nonostante l’impegno appassionato di investigatori e di giudici. Basta evocare i nomi di Lee Harvey Osvald e di Earl Ray James (presunti assassini di John Kennedy e di Martin Luther King, ritenuti in seguito innocenti persino dalle famiglie del presidente e del leader nero assassinati) per rendersi conto che è tipico di alcuni delitti di vasta portata politica di portare con sé anche gli esiti giudiziari, in modo che gli ostacoli di una ricerca di verità divengano insormontabili.
4. Evidentemente ciò che sta più a cuore a chi ordisce simili delitti, segnati non solo dall’orrore del momento, ma da conseguenze che continuano nel tempo, è di raggiungere il punto in cui una sentenza possa essere usata come una pietra tombale. Identificando definitivamente un colpevole troncherà per sempre ogni altra ricerca sui fatti e potrà mettere qualcun altro, organizzazione o persona, al sicuro.
5. Anche in base all’esperienza americana, sono fra coloro che hanno visto nella sentenza finale Mambro-Fioravanti una verità, non la verità. E si sono sentiti a disagio quando l’hanno vista diventare unica, assoluta bandiera, con il rischio che la manifestazione del dubbio fosse interpretata come dissacrazione di quella bandiera.
Eppure il dubbio era - ed è - più che mai fondato nel racconto e nelle immagini spaventose del 2 agosto. Non era uno scostarsi dalle vittime e dai loro cari, ma una invocazione a non smettere, a non fermarsi. Qualcosa o qualcuno potrebbe essersi messo al riparo dietro quella fragile sentenza.
6. Ho detto varie volte, e ripeto, conoscendo il rischio di fraintendimento di ciò che dico, che tutto ciò che sappiamo di Mambro e Fioravanti non li colloca in nessun modo fra gli abili e oscuri sicari, decisi a restare ignoti, di un simile spaventoso evento. Quando dico “sappiamo” non intendo notizie o informazioni che non ho. Intendo “noi” i giudici, “noi” i giornalisti, “noi” i cittadini che dei due condannati, quando erano giovani ed erano terroristi, sappiamo tutto e hanno detto tutto, senza che mai sia risultato un solo dettaglio dei loro delitti, nascosto o depistato o alterato.
7. Non è solo il profilo psicologico o il “modo di operare”, criterio così caro ai criminologi, a orientare. Non è solo la sequenza dei fatti che, senza testimonianze tarde e strane e tipicamente rivolte a coprire qualcosa o ben altro, non porta a quella stazione e a quel treno i due già notissimi protagonisti del terrore. Ma è il rapporto vistoso, clamoroso, fra tutta la loro vita di giovani fuorilegge politici che uccidono di persona, rischiando e quasi trovando la morte, e il mestiere oscuro e segreto della bomba nascosta su un treno. Quando qualcuno di noi ha detto «non Mambro, non Fioravanti» tutto il peso emotivo si è spostato sull’innocentismo. Ma il vero senso di quella affermazione, che va ripetuta anche oggi, era: «vi chiediamo per l’orrore di quel giorno, per la memoria delle vittime, per il dolore spaventoso dei sopravvissuti, continuate a cercare».
8. Non so niente di ciò che il presidente Fini ha ritenuto di dichiarare. Nella sua posizione non è, credo, la cosa giusta da fare. Come non lo è, sono certo, il porre avanti il problema se la strage fosse o no di destra. Le stragi italiane, benché tutt’ora impunite, sono apparse tutte di destra anche agli investigatori più scettici e meno politicizzati. Però ciò di cui stiamo discutendo è molto più grave e rende frivolo il precipitarsi a correggere l’etichetta sui faldoni. Nel nome delle vittime, di una città dilaniata, di un Paese che si è cercato (allora invano) di spingere nella più cupa emergenza, restano, inevase, le domande più terribili: chi è stato? Perché?
furiocolombo@unita.it
Corriere della Sera 5.8.08
La «tesi Rossanda» Armeni: sto con Rossana. Sansonetti: i servizi dietro la strage
Gli «innocentisti» di sinistra: Bologna, i Nar non c'entrano
Da De Luca a Gagliardi: Mambro e Fioravanti non colpivano nel mucchio
di Alessandra Arachi
Il dibattito aperto dalla Rossanda: nessuna simpatia per i terroristi neri, ma la sentenza della Cassazione lascia dubbi
ROMA — Rossana Rossanda non ci crede. Non ci crede che siano stati Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini a mettere la bomba alla stazione di Bologna, ventotto anni fa. E il perché la signora che ha fondato il manifesto lo ha spiegato ieri alla Stampa: «La sentenza della Cassazione lascia molti dubbi. Come il processo Sofri non ha risolto niente, così quello per la strage di Bologna lascia molte ombre. E questo anche se non ho nessuna simpatia né per Mambro né per Fioravanti...».
Apriti dibattito. Tutto a sinistra. Tutto (o quasi) a favore degli ex terroristi neri dei Nar.
Perché, è vero, c'è Valentino Parlato, altro fondatore del manifesto, che si tira indietro: «Non so nulla di tutta la storia della bomba di Bologna». E Sandro Curzi che mette invece rapidamente le mani avanti: «Non voglio entrare nel merito di questa vicenda. Non mi interessa un dibattito estivo, voglio nuovi elementi concreti, piuttosto». Ma dopo, invece, è un vero e proprio coro che si leva a martellare di dubbi la sentenza che ha inchiodato Mambro, Fioravanti, Ciavardini. Una difesa che, a guardarla così, fa apparire il mondo alla rovescia.
Erri De Luca? Oggi scrive libri di gran successo, ieri militava nelle file di Lotta Continua: «Sono d'accordo con Rossana Rossanda, anche se non ci siamo mai parlati. Da tempo mi sono fatto la convinzione che la strage di Bologna non sia opera di Mambro e Fioravanti. Quella strage è un'operazione fuori scala rispetto alla loro organizzazione. I Nar sparavano addosso a noi, mica mettevano bombe. Quelle le hanno messe i servizi segreti: strani e nostrani». E non è il solo a tirare in ballo l'intelligence. Anzi.
Piero Sansonetti spara diretto: «Ci sono i servizi segreti italiani dietro questa vicenda della stazione di Bologna come dietro tutte le vicende delle stragi che iniziano il 12 dicembre 1969 e durano quasi vent'anni». Il direttore di Liberazione, come del resto Rossana Rossanda, non ha una verità in tasca su Bologna. Ma anche lui, come Rossanda, si fida di Andrea Colombo e della sua ricostruzione dei fatti raccontata nel libro Storia nera.
Lunga storia, tutta e sempre e soltanto nella sinistra più estrema, quella di Andrea Colombo: da Potere Operaio al manifesto, a Rifondazione comunista. «E se ha scritto il libro che ha scritto c'è da credere che si sia documentato bene: ha ragione Rossana a sollevare molti dubbi su Bologna», decreta Mariuccia Ciotta, storica firma del manifesto.
Le fa eco Rina Gagliardi, già senatrice di Rifondazione. Dice: «Il processo per la strage di Bologna è davvero ben poco convincente, come ricostruisce Andrea Colombo nel suo libro. Gli credo a fiducia. E ad intuito». Poi anche lei rilancia: «Non credo che per la strage di Bologna si possa scartare a priori l'ipotesi che si sia trattata di una lotta fra servizi segreti». Anche Ritanna Armeni, un'altra storia che da Potere Operaio approda a Rifondazione, va a fiducia: «So ben poco di tutta la vicenda di Bologna. Ma tendenzialmente sono d'accordo con Rossana. Ad intuito ».
E per Rossanda esulta, ovviamente Andrea Colombo: «Brava. Brava. Bravissima». Lui nel suo libro non ha fatto sconti nel raccontare le gesta omicida di Mambro e Fioravanti. Ma arrivato alla strage di Bologna ha tracciato una riga. Netta e decisa: «I Nar avevano un impegno politico e culturale che non si adattava alle stragi. Per capire: non hanno mai colpito nel mucchio. Ma ciò che importa ancora di più sono le risultanze processuali: non convalidano la tesi dell'accusa».
Il Riformista 5.8.08
Bologna dietro la campagna innocentista
Mambro e Fioravanti, non Sacco e Vanzetti
di Stefano Cappellini
Si potrebbe tagliare corto e dire che le sentenze si rispettano, sempre, e non solo quando coincidono in parte o in tutto con le proprie convinzioni. Vale - dovrebbe valere - anche per la sentenza che ha individuato in Francesca Mambro e Giusva Fioravanti gli esecutori della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. E invece no. Contro la verità giudiziaria per la più cruenta carneficina della storia repubblicana è in atto da anni un'opera trasversale di decostruzione, svilimento, delegittimazione cui ha dato l'ultimo contributo il presidente della Camera Gianfranco Fini parlando in occasione del recente anniversario di «zone d'ombra intorno all'accertamento della verità sulla strage», poco prima che il suo collega di partito e sindaco di Roma Gianni Alemanno tornasse a invocare attenzione per la fantomatica «pista palestinese». È comprensibile, seppure non giustificabile, la solerzia con cui Fini e Alemanno si dedicano a picconare la sentenza di Bologna: i Nar di Mambro e Fioravanti nacquero nell'alveo del neofascismo italiano di cui l'Msi, ancora lontano dalla catarsi di Fiuggi, era espressione istituzionale. I giovani terroristi neri odiavano i missini, ma - per usare una fortunata espressione coniata sull'altra sponda della politica - facevano parte dello stesso «album di famiglia». Ecco perché ancora oggi in An sono in tanti a battersi affinché dalla strage di Bologna sia cassato l'aggettivo «fascista». Ma ancor più tambureggiante, e priva di dubbi sull'innocenza di Mambro e Fioravanti, è la campagna condotta da sinistra da un fronte di intellettuali, giornalisti, politici, quotidiani (in prima fila i quotidiani comunisti il manifesto e Liberazione). Vale la pena spendere qualche parola sull'origine di questa solidarietà rosso-bruna, che negli anni si è allargata a macchia d'olio, producendo adesioni illustri, editoriali, libri, ma che ha avuto un'origine più carbonara, carceraria per la precisione, dato che i primi ad appassionarsi alle sorti di Mambro e Fioravanti furono alcuni ex brigatisti rossi, decisi a mettersi alle spalle ogni pregiudizio ideologico in nome della comune condizione di detenzione e di una certezza: Mambro e Fioravanti erano fascisti sì, terroristi forse, ma stragisti no. Una cara amica di Mambro è Anna Laura Braghetti, carceriera di Aldo Moro, che con l'ex terrorista dei Nar ha condiviso una cella a Rebibbia e firmato un libro a quattro mani uscito a metà degli anni Novanta. Da lì, dalle ceneri del partito armato, è nata la campagna innocentista. E ha trovato terreno fertile in una sinistra radicale che avendo vissuto sulla propria pelle le storture dell'emergenza giudiziaria degli anni di piombo - capace di stroncare il terrorismo, certo, ma anche di produrre un numero molto alto di soprusi e sconfinamenti dallo stato di diritto - ha maturato una diffidenza genetica verso ogni verità giudiziaria sulle vicende degli anni Settanta, di cui la strage di Bologna è il capitolo finale. Questo è il vero humus dell'innocentismo di sinistra sulla strage di Bologna. E non vale, né potrà mai valere un'assoluzione, o una riapertura del processo su Bolgona, indiziario ma tutt'altro che sommario. Coltivare dubbi è sempre lecito e spesso salutare. Ma quando l'argomento principe degli innocentisti - al di là di controinchieste che segnano sulla lavagna solo i punti della difesa e non quelli dell'accusa - è quello addotto ancora ieri da Rossanda Rossanda intervistata sulla Stampa («Mi sembra significativo che loro stessi dicano di non essere degli angeli, ma abbiano sempre negato su Bologna»), il dibattito è chiuso in partenza. Si tratta di un falso sillogismo: siccome Mambro e Fioravanti hanno confessato tutti i loro delitti, ma negano su Bologna, dunque su Bologna sono innocenti. Come se confessare di essere responsabili dell'uccisione di 85 persone, una mattanza senza eguali e senza possibile "copertura" politica, fosse comparabile all'ammissione di responsabilità per tutti gli altri delitti commessi, non meno efferati e che però negli ambienti dell'ultradestra giovanile (e non solo) sono valsi e valgono tuttora alla coppia una aurea di romanticismo guerrigliero. Vergognosamente accresciuta dall'abito alla Sacco e Vanzetti che certa sinistra vorrebbe calzare loro a forza.
Corriere della Sera 5.8.08
Sindaci, poteri speciali per la sicurezza
Intesa Maroni-Comuni. Ieri esordio dei militari nelle città
Il sindaco di Roma Alemanno ha confermato che i soldati non saranno in centro e in pattuglia
di Fiorenza Sarzanini
ROMA — Il governo schiera i soldati e assegna ai sindaci poteri speciali sulla sicurezza. Il decreto che il ministro dell'Interno Roberto Maroni firmerà nelle prossime ore concede agli amministratori cittadini di poter intervenire con ordinanze urgenti per garantire la «pacifica convivenza». Vuol dire che potranno prendere misure sull'inquinamento urbano e sui comportamenti ritenuti lesivi del decoro, compresi la prostituzione e lo spaccio di stupefacenti, sull'accattonaggio e sul commercio abusivo. I dettagli saranno messi a punto durante la riunione Stato-Comuni convocata per questa mattina, ma l'intesa è raggiunta.
Accordo fatto anche su Roma, come ha confermato ieri Gianni Alemanno. I militari non saranno in centro e non effettueranno attività di pattuglia, ma avranno il compito di vigilare su decine di obiettivi fissi. Ieri sono stati proprio i Granatieri di Sardegna impiegati nella capitale ad effettuare il primo arresto: un borseggiatore davanti alla stazione Anagnina. Mentre i giovani dei collettivi attaccavano sul Colosseo lo striscione «Free Rome» e distribuivano ai turisti volantini con la scritta «questa non è democrazia», il contingente di circa 1000 uomini ha occupato i presidi indicati dal prefetto Carlo Mosca. Servizi di sorveglianza e di ronda anche a Milano dove Alleanza nazionale ha distribuito braccialetti tricolore ai cittadini come benvenuto ai soldati.
«Operazione di propaganda», protesta il partito Democratico e Antonio Di Pietro aggiunge: «Ho troppo rispetto per i militari per vederli ridotti a comparse da Cinecittà ». Fortemente critico anche il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini «perché noi amiamo i soldati, ma avremmo preferito che fossero concesse maggiori risorse alle forze dell'ordine». A tutti risponde il ministro della Difesa Ignazio La Russa. «Oltre ai delinquenti, agli stupratori, a chi fa furti e rapine — attacca — sono contrari alla presenza dei militari per garantire solo i post sessantottini: i figli, non in senso anagrafico, di chi gridava "basco nero il tuo posto è il cimitero" o quelli che consideravano polizia e carabinieri golpisti. Quando qualcuno dice che questa è un'operazione di facciata dice una cosa poco seria. Questi uomini hanno intenzione di incutere paura solo ai malviventi».
L'attuazione del decreto sulla sicurezza approvato il 23 luglio sarà completata con i provvedimenti sui sindaci. Il testo prevede che l'ordinanza possa essere emanata «previa consultazione del prefetto » che ha anche il potere di intervento qualora verifichi «inerzia» da parte del primo cittadino.
Corriere della Sera 5.8.08
Città del Messico La ragazza sieropositiva inaugura la conferenza globale sull'Hiv
Keren, una dodicenne contro l'Aids «Si può vincere questa battaglia»
L'appello: «Più attenzione e farmaci, meno pregiudizi»
L'impegno dell'Onu di curare tutti entro il 2010 resta lontano. Ma dal summit del 2000 si sono fatti molti passi avanti
di Adriana Bazzi
CITTÀ DEL MESSICO — L'applauso per lei è stato il più lungo. Più di quello per il Presidente del Messico Felipe Calderon, più di quello per il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Qualche respiro profondo prima di cominciare: «Noi ragazzi e ragazze sieropositivi stiamo crescendo e abbiamo tanti sogni. Molti di noi vorrebbero diventare artisti, medici, maestri. A me piacerebbe diventare una cantante».
Adesso sorride Keren Dunaway-Gonzales, dodici anni, honduregna, sieropositiva, capelli lunghi neri, un vestito a strisce bianche, blu e rosse, che alla inaugurazione della Conferenza mondiale sull'Aids a Città del Messico ha chiesto al mondo di non abbandonare la lotta alla malattia e di aiutare i giovani che l'hanno contratta a realizzare i loro desideri. Aveva cinque anni quando i suoi genitori le spiegavano, con qualche disegno colorato, che erano sieropositivi e che lo era anche lei, fin dalla nascita («Il virus è come una piccola palla con sopra tanti puntini che nuota dentro di me» lo descrive Karen). Oggi è una delle più giovani attiviste dell'America Latina: una rarità in una regione dove 55.000 persone sieropositive su due milioni sono sotto i 15 anni e dove pochi ragazzi hanno il coraggio di uscire allo scoperto per paura di essere rifiutati dai loro compagni.
«Chiediamo l'attenzione di cui abbiamo bisogno — ha detto ancora Keren che dirige un giornale per giovani sieropositivi spedito ogni due mesi in tutto l'Honduras — e le medicine che ci servono per vivere».
Impossibile non ricordare un altro protagonista di un'altra conferenza sull'Aids, otto anni fa a Durban: il piccolo Johnson Nkosi che, salendo sul palco allora, chiese di trattare i malati come esseri umani e divenne un simbolo commovente della lotta all'Aids. Lui è stato sfortunato: morì un anno dopo a 12 anni, ma viveva in un Paese, il Sudafrica, dove all'epoca la malattia era persino negata e il presidente Thabo Mbeki rifiutava l'offerta di medicine dall'industria farmaceutica.
Oggi la situazione sta migliorando. Una nuova generazione di ragazzi sieropositivi stanno diventando adulti, nonostante in America Latina soltanto un terzo dei bambini, a fronte del 60 per cento degli adulti, ricevano gli antiretrovirali.
I pazienti sieropositivi hanno guadagnato 13 anni di vita, anche se sono soprattutto fra quelli che possono essere curati con i cocktail di nuovi farmaci.
L'accesso alle terapie si sta ampliando (e il Presidente messicano ha annunciato la commercializzazione di farmaci generici prodotti anche da industrie che non hanno impianti nel Paese), ma in molte aree, soprattutto dell' Africa, soltanto un terzo delle persone viene curata con le medicine, nonostante l'impegno dell'Onu per fornire «cure a tutti entro il 2010». Rimangono un po' ovunque stigma e discriminazione: 67 Paesi in tutto il mondo (quasi la metà degli Stati membri dell'Onu) impongono forme di restrizione all'entrata di sieropositivi e 13 Paesi, compresi Stati Uniti e Cina, vietano anche brevi soggiorni turistici.
«Per molti lo stigma contro i sieropositivi rimane una grande sfida — ha detto Ban Ki-moon — Soltanto vincendo pregiudizi e discriminazione si potrà garantire un aiuto a tutti coloro che ne hanno bisogno ». E non solo: è indispensabile anche assicurare la massima informazione.
«A quest'epoca della vita— ha detto ancora Keren — quando cominciamo a conoscere i nostri corpi e proviamo nuove emozioni è necessario contare su un'informazione corretta sulla sessualità e sulle trasformazioni che avvenendo dentro di noi». La sessualità è tabù in America Latina, ma Karen ha fatto cadere anche questo. E si merita davvero la standing ovation.
Corriere della Sera 5.8.08
«El Tiempo» accusa, Ramon Mantovani risponde
«Tra Rifondazione comunista e le Farc rapporti politici sotto la luce del sole»
ROMA — Rifondazione comunista «ha avuto rapporti politici per anni» con le Farc, ma «sempre sotto la luce del sole, per favorire il processo di pace». È questa la replica di Ramon Mantovani e Marco Consolo al quotidiano colombiano El Tiempo secondo cui in Italia ci sarebbe un'associazione che appoggia i guerriglieri dei quali è stata prigioniera Ingrid Betancourt. «Secondo il quotidiano — ha detto Mantovani — Ramon e Consolo sarebbero due nomi cifrati di uomini che aiutano clandestinamente le Farc. Trattandosi dei nostri nomi veri, è evidente che si tratta di un'accusa ridicola».
l’Unità 5.8.08
«Chi sostiene le Farc? Noi». Fanno outing due dirigenti Prc
Ramon Mantovani e Marco Consolo: nessuna rete clandestina ma rapporti ufficiali e sostegno esplicito
di Luca Sebastiani
Dicono: non ci piace che gli uomini delle Farc siano considerati terroristi
La guerriglia vuole la pace in Colombia
Dopo i sequestri anche Bertinotti ha preso le distanze. Loro no: «Si tratta di conflitto politico non di narcoterroristi»
SOSTENITORI Ma non fiancheggiatori. I compagni «Ramon» e «Consolo» della presunta «legione straniera» delle Farc non sono nient’altro che Ramon Mantovani e Marco Consolo. Dirigenti di Rifondazione Comunista che per anni hanno tenuto i rapporti con la guerriglia colombiana dalle cui prigioni è appena stata liberata Ingrid Betancourt. Non che fosse un grande mistero. In realtà si trattava di una specie di segreto di Pulcinella data l’omonia tra nomi civili e pseudonimi di «battaglia». E dopo che il quotidiano colombiano El Tiempo aveva svelato il fatto che in Europa operasse «un piccolo esercito reclutato dalle Forze armate rivoluzionarie colombiane», e che pure in Italia due colonne della rivoluzione bolivariana agissero sotto la copertura dei nomi Ramon e Consolo, sono stati gli stessi interessati ad «autodenunciarsi». Abbiamo avuto contatti ufficiali con le Farc, hanno spiegato Mantovani e Consolo. «Relazioni di pubblico dominio e con l’obiettivo di sostenere il processo di pace di Colombia anche con lo scambio di ostaggi» tra le due parti. Perché, hanno chiosato, ancora oggi «non condividiamo» la scelta dell’Unione Europea di mettere le Farc nella lista delle organizzazioni terroristiche. La guerriglia colombiana vuole il processo di pace, quindi non va isolata. Ma questo, «è solo un giudizio politico».
L’intrigo internazionale era iniziato in Colombia, dove a Bogotà il quotidiano El Tiempo, ha pubblicato un lungo articolo in cui ha denunciato l’esistenza di una rete clandestina sul Vecchio continente. Otto persone in tutto. Quattro spagnoli, due italiani, un danese e un australiano. La «legione straniera» sarebbe emersa dall’analisi del computer di Raul Reyes, il comandante delle Farc recentemente ucciso dall’esercito colombiano. «È verosimile che nel suo computer ci siano stati i nostri nomi», ha spiegato Mantovani, visto che con lui e altri dirigenti della guerriglia i rapporti sono iniziati negli anni Novanta. «Quando è iniziato il processo di pace in Colombia - ha proseguito l'ex parlamentare di Rifondazione - siamo stati invitati come Prc, ma lo fu anche il Governo italiano. Dopo di che i vertici delle Farc - ha continuato - sono venuti anche in Italia e vennero ospitati in Parlamento». Una bufala, dunque, quella della rete clandestina. Tutto è avvenuto alla luce del sole. E a conoscenza dei contatti sarebbero stati tutti i presidenti della Camera da Violante a Bertinotti passando per Casini, e tutti i sottosegretari agli Esteri con delega al Sud America. Mantovani e Consolo avrebbero dunque fatto parte non del «piccolo esercito» clandestino denunciato dal Tiempo, ma delle truppe di quelli che negli hanno lavorato politicamente al processo di pace in colombia tra il governo e le Farc. Processo interrotto dopo che la guerriglia è stata inserita nella lista delle organizzazioni terroriste per il suo modo operativo. In particolare per i sequestri di persona, tra cui quello della Betancourt è stato solo il più eclatante. E nonostante anche Fausto Bertinotti, ex leader di Rifondazione, abbia preso le distanze dalla guerriglia più longeva sulla terra e dai suoi metodi, per Mantovani metterla al bando è stato un errore. Perché, ha detto «in Colombia c’è un conflitto politico e non un problema con un’organizzazione narcoterrorista».
Corriere della Sera 5.8.08
Sanità. Obbligatorio il consenso scritto dei genitori. No di Fitto. Protestano la Binetti e 20 senatori
Lite sugli psicofarmaci ai bimbi
Stretta di Piemonte e Trentino, il governo si oppone
di Margherita De Bac
La farmacologa Adriana Ceci: iniziative ideologiche. Il nostro consumo inferiore a quello di Olanda e Francia
Le due leggi regionali stabiliscono che i genitori debbano firmare un documento prima dell'inizio della cura
ROMA — Psicofarmaci ai bambini solo con il consenso informato scritto dei genitori. Così avrebbero voluto Piemonte e Trentino, che con proprie leggi intendevano esercitare «un controllo più stretto» sulla prescrizione ai minori di antidepressivi o sostanze per l'Adhd, il deficit dell'attenzione e dell'iperattività. Ma il governo ha stoppato la duplice iniziativa con un ricorso alla Corte Costituzionale. Il ministero degli Affari Regionali sostiene che non ci si può discostare dalla normativa nazionale sugli stupefacenti. Che in questo caso dunque il federalismo e l'autonomia delle istituzioni locali non possono avere libertà.
La ferma risposta di Palazzo Chigi ha provocato la reazione di 21 senatori, autori di un'interrogazione parlamentare. «Le motivazioni non sono state sufficienti — si rende portavoce dei colleghi Paola Binetti, in qualità di esponente del Pd ma soprattutto di neuropsichiatra infantile —. Non sono entrati nel vivo della questione che è la tutela dei più piccoli, hanno preferito girarci intorno. L'obbligo del consenso informato costituisce uno dei capisaldi del principio di autodeterminazione è direttamente ispirato all'articolo 31 della nostra Costituzione ». I firmatari chiedono che il ministro Raffaele Fitto ritiri il ricorso, coordinato da Valerio Carrara, Pdl: «Secondo loro si verrebbe a creare una difformità tra la legge nazionale e le regionali. Il diritto dei genitori di scegliere le terapie più opportune per i propri figli ed essere completamente informati deve prevalere. Speriamo che altre regioni seguano l'esempio». Sull'abuso di psicofarmaci ha presentato una proposta di legge la senatrice Mariella Boccardo, Pdl. Se ne tornerà a parlare dopo l'estate. Polemiche che riaffiorano di tanto in tanto malgrado l'Italia non sia un Paese particolarmente disinvolto nella prescrizione di sostanze psicotrope ai bambini. Anzi, rileva la farmacologa Adriana Ceci, che fa parte del comitato sulla pediatria presso l'agenzia europea, l'Emea, siamo in modo netto al di sotto dei consumi di Olanda, Gran Bretagna e Francia: «Il sospetto è — continua — che dietro queste iniziative ci siano i soliti pregiudizi mossi dall'ideologia. Non ci sono ragioni tecnico- scientifiche per giustificare un controllo con obbligo di consenso informato». La farmacologa è del parere che se i genitori devono sottoscrivere la scelta del medico «allora bisognerebbe prevedere la stessa procedura per tutti i farmaci che hanno conseguenze sulla crescita dei bambini. Pensiamo a quelli per diabete, per i tumori».
Corriere della Sera 5.8.08
Scienza e Vita. Dietrofront sul testamento biologico
di M.D.B.
ROMA — Corregge il tiro per la seconda volta in pochi giorni, l'associazione Scienza e Vita. Dopo le forti critiche rivolte da alcuni esponenti dell'esecutivo, la presidenza ha fatto marcia indietro ribadendo: «Mai una legge sul testamento biologico. Prendiamo atto del dibattito riportato dai media e dal disappunto di alcuni membri del consiglio confermiamo la nostra posizione: netto rifiuto di una ipotesi di legge sul testamento biologico». Il comunicato è firmato dai presidenti Bruno Dallapiccola e Maria Luisa Di Pietro che solo l'altro giorno avevano annunciato l'apertura dell'associazione a un provvedimento che regolasse le dichiarazioni anticipate di volontà sulle cure da ricevere, o rifiutare, alla fine della vita. Un cambiamento di rotta rispetto alle posizioni storiche di «Scienza e Vita» che aveva determinato le dimissioni di Adriano Pessina, direttore del centro di bioetica dell'università Cattolica. Criticato soprattutto il metodo, la mancanza cioè di un confronto con il consiglio esecutivo. Sul sito web è stata pubblicata due giorni fa l'inchiesta svolta tra i medici che condividono le idee elaborate dal «pensatoio» di bioeticisti soprattutto cattolici: un corale schieramento contro il testamento biologico. Per una legge di fine vita «bisogna mettere in campo la trasversalità dei cattolici — afferma Savino Pezzotta (Udc)— dovrà ruotare attorno a due concetti di base: no all'accanimento terapeutico, no all'eutanasia».
Repubblica 5.8.08
Israele: "Palestinesi curati solo se spiano"
GERUSALEMME - L'associazione umanitaria Physician's for Human Rights ha accusato il servizio segreto israeliano di condizionare i permessi di ingresso in Israele a palestinesi che hanno bisogno di cure all'assenso a divenire informatori. Israele ha risposto che i pazienti sono interrogati per motivi di sicurezza.
Repubblica 5.8.08
Gramsci a Los Angeles
A colloquio con Remo Bodei filosofo pendolare tra Pisa e la California
di Franco Marcoaldi
"In America ho trovato una maggiore passione per la ricerca della verità magari anche ingenua"
"C´è un grande interesse per il Rinascimento, tra i moderni si studia addirittura Gioberti"
PISA. L´assunto di partenza è semplicissimo: sempre più italiani di spicco vivono in parte o in toto all´estero. Senza contare coloro che, pur rimanendo a casa propria, esportano nel mondo la propria competenza e il proprio talento negli ambiti più diversi: dalla filosofia alla scienza all´arte. Ebbene: esiste, nelle differenti discipline, una specificità italiana? Un suo valore aggiunto? E se esiste, viene percepito come tale? Più in generale, come è vista l´Italia fuori d´Italia? Come è giudicata?
Mosso da tali, elementari domande, ho scelto per questa breve perlustrazione estiva quattro figure di rilievo della scena contemporanea: un filosofo, un artista visivo, un compositore e un uomo di teatro e cinema. Ad aprire la serie è Remo Bodei, che il collega Richard Rorty definì «il meno peninsulare dei filosofi italiani», per sottolineare la sua naturale propensione internazionale: «e io per scherzo gli risposi che, essendo sardo, il mio compito era più facile. Una volta attraversato il mare, per noi sardi tutto il mondo è paese». Come che sia, il rapporto di Bodei con l´accademia internazionale è sempre stato intenso: Germania, Spagna, Inghilterra, Canada. E, ormai da molti anni, gli Stati Uniti. Dapprima con l´insegnamento a New York, poi all´UCLA di Los Angeles: fino al 2006 dividendosi equamente con l´università di Pisa; da quando ha abbandonato l´insegnamento in Italia, non in più in qualità di "visiting professor" ma semplicemente di professore. «Il pendolarismo però è rimasto lo stesso: sei mesi là, sei mesi qua. E come Proserpina, non ho ancora scelto quali siano i veri inferi».
Lavoratore instancabile, autore di una mole immensa di volumi che spaziano in periodi storici e ambiti tematici i più diversi, Bodei ha il doppio merito di tenere la barra dritta su un pensiero laico inteso quale esercizio della razionalità critica attorno ai temi cruciali del discorso pubblico, senza tralasciare - al contempo - un´indagine altrettanto rigorosa di quei fenomeni della vie sauvage (dal variegato mondo delle passioni al delirio clinico), solitamente abbandonati dal pensiero a se stessi. «In questa mia impostazione non credo di essere stato infedele alla nostra tradizione filosofica. Di essa mi piace conservare lo scrupolo filologico nell´interpretazione dei testi, l´attenzione ai particolari, il gusto per una ricerca che unisca ragione e immaginazione. Aspetti, questi, che rimangono in secondo piano nel mondo anglosassone, dove perfino gli studenti del primo anno trattano i classici senza alcun timore reverenziale. Non li mettono su un piedistallo: chiedono subito se è vero o falso quello che hanno detto. In un certo senso fanno bene, ma, in compenso, non si curano di tarare storicamente i concetti e spesso finiscono così per giungere a conclusioni banali. Ma per tornare alla nostra tradizione filosofica, mi ha sempre colpito la sua vocazione civile. Non politica, civile. Dall´Umanesimo ad oggi abbiamo avuto comuni e stati regionali forti in contrasto con uno Stato nazionale che non c´era o, quando si è costituito, si è mostrato debole nei confronti delle altre potenze e della Chiesa cattolica. I filosofi italiani hanno quindi svolto un ruolo di pedagoghi politici, non rivolgendosi, come succedeva nella scolastica, ad altri filosofi o agli studenti, ma alle classi dirigenti tout court. Si pensi a Machiavelli o, sul versante scientifico, a Galilei. D´altronde, forse proprio a causa della prevalenza della Chiesa cattolica, manca in Italia una filosofia dell´interiorità di tipo pascaliano. Parallelamente, dopo Galilei, non abbiamo più avuto una approfondita riflessione sulle scienze, a parte lodevoli eccezioni novecentesche. La filosofia italiana, intendo dire, ha dato il meglio in quelle zone in cui non domina una logica rigorosa di tipo cartesiano. Quindi nella concezione della politica (con Machiavelli o Gramsci), della storia (con Vico o Cuoco), dell´estetica (con De Sanctis o Croce). In sostanza, la filosofia italiana è una filosofia della ragione impura, ma anche una filosofia civile, che non sempre ha avuto il coraggio dello scontro frontale con le autorità religiose e politiche. Certo, c´è stato Giordano Bruno, ma non abbiamo avuto l´analogo del Pascal delle Provinciali, né un Voltaire. E il conformismo, il compromesso e la "rivoluzione passiva" sono stati spesso vincenti».
Questo sul versante delle persistenze. E invece cosa accade in ordine ai mutamenti? Come si presenta, oggi, la scena filosofica italiana? «Da un lato, fortemente contaminata dal rapporto coi media; dall´altro, molti miei colleghi sono diventati meri concessionari di filosofie straniere. Il che ha certamente allargato il respiro internazionale del dibattito, ma ha anche indebolito le nostre peculiarità, e pur favorendo la crescita di una risonanza all´estero, che non si avvertiva dai tempi di Croce, ha determinato un appiattimento verso le tesi altrui».
D´altronde, è pur vero che la nostra tradizione più riconosciuta, quella dello storicismo, presentava falle da tutte le parti. «Non v´è dubbio. È quello che chiamo lo storicismo invertebrato: la filosofia come mera narrazione di una successione di eventi, una specie di fila indiana di opinioni: cosa ha veramente detto Tizio, cosa ha veramente detto Caio».
Invece sul versante anglosassone, e segnatamente americano, cosa succede? «C´è una maggiore passione per la ricerca della verità, magari con tutte le ingenuità a cui accennavo prima. Ma il migliore lascito della scolastica continua: continua la passione per il rigore logico, il desiderio di non fare discorsi vaghi, di mettere alla prova tutte le affermazioni, sia dal punto di vista della coerenza interna del discorso, sia dal punto di vista dei controlli empirici. E tutto ciò accade in uno scenario radicalmente modificato rispetto a quando nelle università americane trionfava la filosofia analitica. Del resto, se soltanto guardo alle facce dei miei studenti, capisco che davvero Los Angeles è la porta dell´Oriente: lo scorso anno, di ventisei, solo sei erano "caucasici", come dicono lì. Ovvero bianchi americani. Il grosso era composto da latinoamericani e soprattutto da orientali».
E questo progressivo spostamento a est della popolazione studentesca, ha modificato il panorama degli autori di riferimento? Intendo dire, tra i classici circolano anche Confucio e Buddha? «Nei dipartimenti di filosofia questo ingresso è lento. Diversamente da quanto accade tra gli antropologi e i geografi, molto più ricettivi. C´è, piuttosto, un ritorno evidente dei classici occidentali. A lungo l´unico filosofo considerato "per bene" era Kant: oggi circolano nuovamente Hegel, Leibniz, Descartes. E per venire agli italiani, c´è grande interesse per il Rinascimento. Oltre che per Galilei, o per Gramsci. Si studia addirittura Gioberti, che pure in Italia non trova ascolto».
Più in generale, come è visto il nostro sistema-paese? «Al modo di sempre. Nel sentimento comune la nostra nazione è composta da gente simpatica e inventiva, con alcuni geni e molta corruzione. La serietà da noi non sarebbe di casa, ma in compenso siamo considerati maestri del lusso. Non a caso la maggior fortuna è legata alle solite cose: le Ferrari, la moda, il cibo».
Beh, anche gli americani potrebbero uscire da questo usurato cliché. Qualcosa in più c´è: nel bene e nel male. A cominciare, ahimé, da un laboratorio politico di un certo interesse: quello del populismo berlusconiano. «Non c´è dubbio. La nostra società, particolarmente fragile e dunque particolarmente esposta, si offre come luogo ideale di processi che si impongono su scala planetaria. Intervengono molti fattori nella riformulazione delle regole del gioco politico: l´incertezza del futuro, la scarsità crescente di risorse, il terrorismo. Il potere tende ad avere mano libera, all´impunità. Non tutto però si riduce a manipolazione dall´alto: c´è anche la connivenza dal basso. Si sta affermando un´opinione pastosa, informe, plasmata dai nuovi psicagoghi al potere. In fin dei conti, la parola massa viene dal greco maza, pasta, ovvero dalla materia che si modella. E la parola folla rimanda alle fulloniche, ovvero alle antiche "lavanderie" dove si strizzavano i panni. Forse il termine manipolazione è troppo scontato, banale. Lo è meno l´idea di un´opinione pubblica che si lascia modellare o strizzare, finché non assume la forma desiderata. Lo capì per tempo Gustav Le Bon, quando intuì che alla figura del politico che si serve della persuasione razionale si sarebbe sostituita quella del meneur des foules, il quale plasma il materiale umano a sua propria immagine; dell´ipnotizzatore capace di guidare le emozioni di chi soggioga dentro una logica dell´inverosimile, che prevale sulla realtà. Speriamo solo che non sia un processo irreversibile».
(1-continua)
Il Riformista 5.8.08
Rifondazione dibattito a sinistra
Ferrero estremista, non radicale
Sbaglia a vedere il Pd come il Pdl
di Luigi Nieri
Rifondazione dibattito a sinistra
Ferrero estremista, non radicale
Sbaglia a vedere il Pd come il Pdl
di Luigi Nieri
Sarebbe un errore uscire dalle giunte locali
Un'altra Rifondazione è quella che serve al Paese. Non serve una Rifondazione che innalza vessilli identitari. Quei 142 voti che hanno consentito a Paolo Ferrero di diventare segretario di Rifondazione comunista sono espressione di una cultura politica estremista, non radicale. Paolo Ferrero è diventato segretario per un voto. La maggioranza relativa dei consensi è viceversa andata a chi aveva un altro progetto politico. Un progetto aperto, innovativo nella sostanza e nel linguaggio. Il linguaggio è forma ma è anche pensiero. Il linguaggio deve essere capace di esprimere dubbi. Non deve solo contenere granitiche certezze. Il linguaggio della maggioranza che ha vinto di misura a Chianciano è un linguaggio di chiusura, incapace di colmare uno spazio politico di sinistra lasciato miseramente vuoto. Non c'è dubbio che noi abbiamo le nostre colpe se questo spazio non è stato riempito. Colpe che non sono solo quelle degli ultimi mesi ma che hanno radici più lontane. Nella cultura comunista il tema della libertà e dei diritti umani è stato a volte considerato un tema da salotto buono. Nella storia comunista anche di questo paese il garantismo non sempre ha avuto lo spazio che meritava. E allora non ci si sorprende se la componente di Ferrero ha offerto le chiavi dell'opposizione politica e sociale ad Antonio Di Pietro il quale giusto pochi mesi fa affermava testualmente: «Moratoria, subito. Va attuata una moratoria per almeno 2/3 anni nei confronti della Romania e della Bulgaria... Gli irregolari vanno rimpatriati. Chi arriva in Italia deve avere un alloggio e un lavoro, non siamo il vespasiano d'Europa». Tanto che quelli della Lega Nord replicavano: «Di Pietro sta copiando tutti i messaggi della Lega nord da oltre un anno». Non amo i cappi leghisti e non amo i processi di piazza. Oggi stiamo assistendo a una emergenza democratica che è la deriva razzista di matrice istituzionale che trova consenso in larga parte dell'opinione pubblica. Di questo nel documento che ha vinto a Chianciano c'è solo una traccia incidentale. Il punto centrale pare sia invece il conflitto di classe. Il nostro concreto agire nel breve, medio e lungo termine (mi riferisco a quell'area politica, culturale e programmatica che oggi si riconosce in rifondazione per la sinistra e che ha puntato sulla candidatura a segretario di Nichi Vendola) deve avere quale obiettivo l'allargamento degli spazi di democrazia e libertà dentro il Prc, ma anche fuori dal partito, per costruire una sinistra più ampia e degna di questo nome. Si può essere minoranza oggi e maggioranza domani. Rifondazione dovrebbe sempre più caratterizzarsi come il partito dei diritti e delle libertà. Lo dovrebbe fare con le parole, con i pensieri, con i progetti. Lo dovrebbe fare da solo, con gli altri della sinistra, con chi accetta il paradigma della trasformazione sociale, umanocentrica ed equa. La nostra cultura attenta al consumo critico, consapevole dei limiti dello sviluppo, rigorosa nel rispetto dell'ambiente e della natura, dobbiamo sottrarla allo sloganismo e farla diventare patrimonio collettivo. «Il Congresso considera chiusa e superata la fase caratterizzata dalla collaborazione organica con il Pd nella fallimentare esperienza di governo dell'Unione, dalla presentazione alle elezioni della lista della Sinistra Arcobaleno e dalla sbagliata gestione maggioritaria della direzione del partito». Questo è l'incipit del documento congressuale votato a Chianciano dalla maggioranza dei delegati. Pare che la questione più importante non fosse il vivere in un paese dove la destra è razzista, illiberale, antipopolare e antisociale, bensì il rompere ogni forma di alleanza con il Partito democratico. Sarebbe un errore drammatico per la sinistra italiana rompere incondizionatamente le coalizioni nelle giunte regionali e locali. La storia del municipalismo di sinistra è stata una storia nobile di buon governo, di welfare di qualità. Prima di Marrazzo nel Lazio c'era Storace, quello del buco di 10 miliardi, quello di Laziogate o di Lady Asl. Marrazzo non è Storace. Ora non tutto è oro. È populista e falso però affermare che Pd e Pdl sono uguali. Nel Pd sono presenti anime popolari e di sinistra con cui è possibile, anzi doveroso, dialogare. Essere radicali non significa espungere infantilmente la questione del governo dal proprio immaginario. E sino a quando non si ha il 51% dei consensi al governo ci si arriva alleandosi con quelli più vicini o comunque con i meno lontani. Questo deve fare Rifondazione, ossia continuare a essere vessillo non di formali categorie storiche ma di progetti politici che siano capaci di mettere al centro i valori di una sinistra libertaria e moderna. assessore al Bilancio della Regione Lazio (Prc)
Il Messaggero 5.8.08
Non lasciamo sole le famiglie dei malati psichiatrici
di Silvio Garattini
Gli psichiatri, sganciatisi dalla neurologia solo da trent’anni nel nostro Paese, hanno partecipato poco agli sviluppi scientifici spesso presi da teoriche discussioni psicosociologiche e dal sostegno delle varie scuole di psicoterapia. Il valore delle differenti psicoterapie, con la possibile eccezione di quella “cognitiva”, sono state sempre caratterizzate da autoreferenzialità e dalla difficoltà di integrarsi con i trattamenti psicofarmacologici. Da questo punto di vista va rilevato che il campo psichiatrico ha certamente un livello di difficoltà e di complessità molto più elevato rispetto agli altri settori medici, ma proprio per questo dovrebbe cercare e trovare maggior sostegno nella ricerca scientifica. Per avere un’idea di questa carenza basti pensare a tutte le associazioni che promuovono raccolte di fondi per la ricerca sul cancro e la quasi assenza di iniziative di grande respiro per la ricerca sulla salute mentale. Nell’attesa che la ricerca dia i suoi frutti è necessario aumentare le infrastrutture a favore degli ammalati mentali. Pazienti con altre malattie trovano una serie di interlocutori: i medici del territorio, i pronto soccorso, gli ospedali; una famiglia che abbia il peso di un ammalato mentale trova scarse possibilità d’aiuto e un numero molto modesto di operatori: psichiatri, psicologi, assistenti sociali che si occupino con competenza di questi ammalati. Chi ha risorse può trovare cliniche private e psicoterapeuti a pagamento, ma la maggioranza delle famiglie non può certamente sopportare questi oneri. È quindi venuto il tempo di fare una seria riflessione per sapere che cosa vada ancora completato dell’iter virtualmente tracciato con l’abolizione dei manicomi. I malati mentali non possono essere considerati malati scomodi da nascondere, hanno gli stessi diritti di tutti gli altri ammalati. Spetta alla politica prendere decisioni anche di tipo preventivo, è compito dei tecnici proporre soluzioni dopo aver fatto una valutazione obiettiva delle carenze, dei bisogni e dei mezzi per soddisfarli.