martedì 5 agosto 2008

Il Vernacoliere - Agosto/Settembre 2008
Dopo le 'mpronte digitali
MARONI: ORA LE CASE!
AI BIMBI ROM CAMERE CON ACQUA, LUCE E TANTO GAS
E paga tutto 'r Governo!
di Mario Cardinali


L'antefatto. In seguito a vari gravi fatti anche di sangue con protagonisti alcuni rom, e dietro la conseguente ondata di pressione mediotica contro quei nomadi, il 2l maggio il capo del govemo ha dichiarato con suo decreto (Gazzetta Ufficiale del 26 maggio) lo "stato di emergenza in relazione agli insediamentì di comunità nomadi nel territorio delle regioni Campania, Lazio e Lomhardia", e con successive disposizioni urgenti d'attuazione (tre ordinanze del 30 maggio, puhhlicote sulla G. U. il giomo successivo) ha nominato i tre prefetti di Roma, Napoli e Milano a commissari delegati per il "monitoraggio dei campi nornadi autorizzati e l'individuazione degli insediamenti abusivi", nonché per la "identificazione e il censimento delle persone, anche minori di età, e dei nuclei familiari presenti nei luoghi suddetti, attraverso rilievi segnaletici" ovvero foto e impronte digitali. Fortemente voluta dal leghista ministro degli interni Maroni e suhito bollata dall'opposizione e da tanta opinione puhhlica anche estera come discriminatoria, xenofoba e razzista, soprattutto nei riguardi dei bambini rom, la schedatura dei nomadi è stata dichiarata "iniziativa contraria alla convenzione dei diritti dell'uomo" dal Parlamento europeo che ha esortato l'Italia "ad astenersi dal procedere alla raccolta delle impronte digitali dei rom, inclusi i minori, e dall'utilizzare le impronte già raccolte".
Al che il ministro Maroni ha replicato che non di razzismo si tratta ma di semplice identificazione per un indispensabile censimento, e quanto ai minori l'iniziativa del govemo è tesa a proteggerli dai loro sfruttatori, a mandarli a scuola e a trovare loro un lavoro. Aggiungendo poi che egli sta addirittura pensando di riconoscere la cittadinanza italiana ai bambini rom nati in Italia e rimasti senza genitori. E davanti a un tale profluvio di bontà del ministro leghista, il Vernacoliere ci mette ora anche le case.


Vanni a fa' der bene, alla gente! Alli zingari speciarmente! Come t'avvicini alle su' baracche, penzano subito che tu ci vadi a rubà!
L'artro giorno dé, sono arrivati i pulizziotti per fanni 'r cenzimento, tutti a chiudessi nelle su' rulotte!
E come i pulizziotti n'hanno detto si vole sortanto le 'm pronte digitali, loro prima n'hanno risposto noi 'un si sono prese, eppoi guardavano l'inchiostro de' tamponi tutti marfidati!
Tanto sono poìno 'gnoranti, questi zingari! Sannonasega loro che Maroni ni vole fa' der bene, a' schedalli tutti co' rilievi segnaletici! E speciarmente i bimbini ròmme! Che lui dé, se li sogna anche la notte, quelli zlngarini, ner mentre prima ni pigia deliato i ditini sur tampone, poi ni lava i musini eppoi li manda tutti perbenino a scola, 'nvece di tenelli tutti cenciosi per la strada a elemosinà!
Perché lui ni fa der bene perdavvero, a quelle creature, a volé sapé quanti sono e chi l'ha caàti! Artro che discriminazzione razziale come dìano que' brodi der Parlamento Uropeo, e tant'artri fissati qui 'n Italia! Tutti a sbraità scandalizzati, appena saputo. der cenzimento de' campi nomadi! E violazzione de' diritti umani di qui, e schedatura ènnica e religiosa di là, e modello nazzista di sopra, e perseuzzione razziale disotto ...
Che alla fine poi Maroni 'un n'ha potuto più, e ha urlato ora ve lo faccio vedé! E tutti a di' no 'un importa, tanto si sa che voi leghisti ce l'avete duro, seddercaso ,ficcatevelo 'nculo fra voi e così poi ce lo raccontate ...
Ma era ben artro, che Maroni voleva fa' vedé! Tantevvero ha tirato fori prima l'idea di danni addirittura la cittadinanza italiana, a' bimbi romme nati 'n Italia e rimasti senza genitori, eppoi ha detto ora ni do anche le 'ase! E mìa a' bimbi soli, anche a' su' genitori!
E lì sì, è scoppiato 'r casino!
- Alli zingari sì e a noi no?! - s'è messa a sbraità la gente, colli sfrattati 'n testa, e tutti a urlà Maroni ciai rotto' 'oglioni!
E a Roma dé, cortei di senzatetto co' fischietti e ' tamburi sotto 'r Viminale, finché 'r ministro dell'interno ha detto vabbene, se le 'ase per li zingari le volete voi, pigliatele voi, cosa vi devo di' ...
E loro via, tutti all'agenzia! Che lì n'hanno fatto vedé i progetti, 'ndove quarmente quelle 'ase 'un sono propio case perdavvero ma pàiano piuccheartro stanzone grandi grandi!
- Tanto sono uno, vesti zingari: ha spiegato vello dell'agenzia, Per facceli entrà tutti, ci vanno pigiati cor burdòzze! E s'un ce 1i pigi, 'un ci vogliano mia entrà! Nomadi come sono, nelle 'ase ci si sentano strettini!
- Ma i servizzi ci sono?
- Ci sono sì! Acqua, luce, e speciarmente 'r gasse! Che loro dé, ridotti come sono alle 'andele, 'r gasse ni ci vole più di tutto!
Dé, camere da 'na parte e gasse da quell'artra, o vai un imbecille s'è messo a di' ma allora sono 'amere a gasse!
E lì ridai, colla sinistra a urlà ma si diceva noi che Maroni con que' baffini pare Itre sputato, e riecco 'r Parlamento Uropeo a ritirà fori la storia de' nazzisti!
E tutto 'perché Maroni, sempricione com'è, 'un cià mia penzato ar quipproqquò! Per lui 'r gasse alli zingari nelle 'amere tutte per loro è sortanto la voglia di fa' le 'ose ammodo!
No. dimmi te sennò che camere per li zingari sono, se duri tanta fatìa a facceli entrà, eppoi l'acqua sì. la luce anche, e 'r gasse 'nvece 'un nielo dai!
Urtimora - Siccome poi l'opposizzione s'è messa anche a sbraità chissà poi chi lo pagherà, tutto quel' gasse a' ròmme. e vedrai va a finì che 'r bonismo di Maroni lo dovrà scontà la gente coll'aomentanni dell'artro le bollette, ha detto 'r Govemo che 'nvece vesta vorta ci penzerà tutto lui, cor un'emissione speciale di titoli di Stato che più che di Stato saranno titoli di Giornale, 'ndove quarmente ci sarà scritto «E se per li zingari 'un basta 'r gasse, mettiamo mano ar nucreare!»

Repubblica 5.8.08
Le conclusioni dell´Agenzia per i diritti fondamentali. Nel mirino il caso Ponticelli
La Ue bacchetta il governo "Rom sempre più emarginati"
di Paola Coppola


ROMA - Un dossier sui "Rom e il caso Italia". Un diario puntuale dei fatti accaduti a partire dalla metà di maggio che denuncia il clima di intolleranza nei confronti dei nomadi che si è diffuso nel nostro Paese dopo il raid al campo di Ponticelli. E punta il dito contro il dibattito politico sull´argomento che è seguito che è stato «generalmente negativo».
Il testo che è stato commissionato all´indomani degli incidenti di maggio dall´Agenzia per i diritti fondamentali, un organo dell´Unione europea istituito recentemente che ha sede a Vienna (dal 16 luglio scorso il comitato scientifico è presieduto da Stefano Rodotà), passa al setaccio tutti gli attacchi ai campi e le aggressioni avvenuti e descrive i provvedimenti presi dal governo sull´onda dell´emergenza segnalando poi come abbiano coinvolto anche gli altri immigrati irregolari presenti nel paese.
Il rapporto diffuso ieri è a uso della Commissione europea e dei suoi paesi membri e lancia un invito alla riflessione soprattutto sulle misure prese dal governo italiano per rispondere agli eventi.
E se visto dall´Italia quanto è accaduto in quei giorni sembra già lontano, l´attenzione critica dell´Europa ritorna sulla vicenda di Ponticelli e il dossier sugli incidenti voluto dall´agenzia stigmatizza i fatti italiani sottolineando il fatto che hanno toccato «uno dei gruppi più vulnerabili d´Europa» e inserendoli in un contesto generale per dire che la strada dell´integrazione è ancora lunga e denunciare che in questa direzione vengono fatti progressi troppo lenti anche negli altri paesi.
Il rapporto segnala anche che la maggior parte dei campi presi di mira nel nostro Paese non erano autorizzati e che da noi i Rom vivono ai margini. E ancora: «Quanto è accaduto a Ponticelli mostra che per proteggere i diritti fondamentali nell´Unione europea i governi devono occuparsi anche del compito di far rispettare, proteggere e promuovere i diritti fondamentali non solo fornendo il supporto legale ma anche assicurando che questi siano applicati dalle autorità pubbliche», si legge.
Il testo ricorda che l´ostilità nei confronti dei Rom non è un fatto recente nel nostro paese e che neanche è limitato all´area del napoletano. Dopo aver fatto una carrellata dei provvedimenti e delle critiche che questi hanno ricevuto, compreso il controverso censimento dei nomadi, ricorda che «nel clima di xenofobia e razzismo generato in questo periodo sono state coinvolte anche altre minoranze non Rom».

l’Unità 5.8.08
Bologna. La strage nera
di Furio Colombo


A nome delle vittime e di una città dilaniata, di un Paese che si è cercato (allora invano) di spingere nell’emergenza restano, inevase, le domande più terribili: chi è stato? Perché?

Mi sembra ingiusto e mi sembra strano tacere solo perché sarebbe più facile tacere. Parlo di Bologna, della strage della stazione, della sentenza.
Quella sentenza (dopo tante sentenze) che condanna come colpevoli Mambro e Fioravanti. E parlo della cerimonia burrascosa, delle dichiarazioni del presidente della Camera Fini, delle polemiche e tensioni di questi giorni.
Molti lettori di questo giornale sanno che dai primi anni Novanta ho detto e scritto la mia persuasione sulla innocenza di Mambro e Fioravanti (cioè per il solo delitto, fra i tanti loro imputati, che essi respingono). Mantengo quella persuasione anche adesso, anche oggi, e lo faccio, in probabile dissenso con molti lettori, anche dopo che l’Unità in questi giorni ha scelto, secondo la sua storia, di confermare tutti i punti, giudiziari e politici di quella vicenda, non solo nella cronaca ma anche con un lucido intervento di Gianfranco Pasquino.
Devo tentare di dimostrare ancora una volta perché sono, allo stesso tempo, dalla parte delle vittime e della immensa e non guarita ferita che Bologna ha patito il 2 agosto 1980, e dalla parte di Francesca Mambro e di Valerio Fioravanti, che continuo a ritenere estranei da quello spaventoso evento, nonostante tutti gli altri eventi delittuosi di cui sono stati volontari iniziatori e protagonisti.
E spero di farlo, affrontando un nodo così intricato e pesante, con chiarezza e semplicità.
1. Eventi spaventosi, irrimediabili e pieni di sangue e di dolore, come la strage di Bologna, chiedono e cercano l’unica risposta civile che è la giustizia: indagare, condannare e con fermezza e certezza. Purtroppo, mentre la tragedia è riuscita nel suo pieno di morte, indagini e processi (ce ne sono stati tanti, e tante sentenze prima della condanna definitiva) sono apparsi segnati da deviazioni, ostacoli, false testimonianze, ritrattazioni, improvvise entrate in scena di nuove voci, cancellazione, per tante ragioni, di molte di esse.
2. Chi ha letto e riletto gli atti sa che un solo filo, soggettivo e di origine non chiara, porta dal tragico fatto ai “colpevoli” . Ma una volta raggiunta una visione finale, dopo tanti tentativi andati a vuoto, è sembrato a molti, con un atteggiamento del tutto comprensibile e umanamente condivisibile, di avere finalmente un punto di riferimento e di appoggio tanto forte quanto la strage: la sentenza definitiva. E di avere una ferma ragione per credere in quella versione e nella sicura colpa dei condannati.
3. Innumerevoli fatti della storia insegnano che vicende gravi e oscure che segnano e devastano la vita di un Paese, restano gravi e oscure anche durante i processi e nonostante l’impegno appassionato di investigatori e di giudici. Basta evocare i nomi di Lee Harvey Osvald e di Earl Ray James (presunti assassini di John Kennedy e di Martin Luther King, ritenuti in seguito innocenti persino dalle famiglie del presidente e del leader nero assassinati) per rendersi conto che è tipico di alcuni delitti di vasta portata politica di portare con sé anche gli esiti giudiziari, in modo che gli ostacoli di una ricerca di verità divengano insormontabili.
4. Evidentemente ciò che sta più a cuore a chi ordisce simili delitti, segnati non solo dall’orrore del momento, ma da conseguenze che continuano nel tempo, è di raggiungere il punto in cui una sentenza possa essere usata come una pietra tombale. Identificando definitivamente un colpevole troncherà per sempre ogni altra ricerca sui fatti e potrà mettere qualcun altro, organizzazione o persona, al sicuro.
5. Anche in base all’esperienza americana, sono fra coloro che hanno visto nella sentenza finale Mambro-Fioravanti una verità, non la verità. E si sono sentiti a disagio quando l’hanno vista diventare unica, assoluta bandiera, con il rischio che la manifestazione del dubbio fosse interpretata come dissacrazione di quella bandiera.
Eppure il dubbio era - ed è - più che mai fondato nel racconto e nelle immagini spaventose del 2 agosto. Non era uno scostarsi dalle vittime e dai loro cari, ma una invocazione a non smettere, a non fermarsi. Qualcosa o qualcuno potrebbe essersi messo al riparo dietro quella fragile sentenza.
6. Ho detto varie volte, e ripeto, conoscendo il rischio di fraintendimento di ciò che dico, che tutto ciò che sappiamo di Mambro e Fioravanti non li colloca in nessun modo fra gli abili e oscuri sicari, decisi a restare ignoti, di un simile spaventoso evento. Quando dico “sappiamo” non intendo notizie o informazioni che non ho. Intendo “noi” i giudici, “noi” i giornalisti, “noi” i cittadini che dei due condannati, quando erano giovani ed erano terroristi, sappiamo tutto e hanno detto tutto, senza che mai sia risultato un solo dettaglio dei loro delitti, nascosto o depistato o alterato.
7. Non è solo il profilo psicologico o il “modo di operare”, criterio così caro ai criminologi, a orientare. Non è solo la sequenza dei fatti che, senza testimonianze tarde e strane e tipicamente rivolte a coprire qualcosa o ben altro, non porta a quella stazione e a quel treno i due già notissimi protagonisti del terrore. Ma è il rapporto vistoso, clamoroso, fra tutta la loro vita di giovani fuorilegge politici che uccidono di persona, rischiando e quasi trovando la morte, e il mestiere oscuro e segreto della bomba nascosta su un treno. Quando qualcuno di noi ha detto «non Mambro, non Fioravanti» tutto il peso emotivo si è spostato sull’innocentismo. Ma il vero senso di quella affermazione, che va ripetuta anche oggi, era: «vi chiediamo per l’orrore di quel giorno, per la memoria delle vittime, per il dolore spaventoso dei sopravvissuti, continuate a cercare».
8. Non so niente di ciò che il presidente Fini ha ritenuto di dichiarare. Nella sua posizione non è, credo, la cosa giusta da fare. Come non lo è, sono certo, il porre avanti il problema se la strage fosse o no di destra. Le stragi italiane, benché tutt’ora impunite, sono apparse tutte di destra anche agli investigatori più scettici e meno politicizzati. Però ciò di cui stiamo discutendo è molto più grave e rende frivolo il precipitarsi a correggere l’etichetta sui faldoni. Nel nome delle vittime, di una città dilaniata, di un Paese che si è cercato (allora invano) di spingere nella più cupa emergenza, restano, inevase, le domande più terribili: chi è stato? Perché?
furiocolombo@unita.it

Corriere della Sera 5.8.08
La «tesi Rossanda» Armeni: sto con Rossana. Sansonetti: i servizi dietro la strage
Gli «innocentisti» di sinistra: Bologna, i Nar non c'entrano
Da De Luca a Gagliardi: Mambro e Fioravanti non colpivano nel mucchio
di Alessandra Arachi


Il dibattito aperto dalla Rossanda: nessuna simpatia per i terroristi neri, ma la sentenza della Cassazione lascia dubbi

ROMA — Rossana Rossanda non ci crede. Non ci crede che siano stati Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini a mettere la bomba alla stazione di Bologna, ventotto anni fa. E il perché la signora che ha fondato il manifesto lo ha spiegato ieri alla Stampa: «La sentenza della Cassazione lascia molti dubbi. Come il processo Sofri non ha risolto niente, così quello per la strage di Bologna lascia molte ombre. E questo anche se non ho nessuna simpatia né per Mambro né per Fioravanti...».
Apriti dibattito. Tutto a sinistra. Tutto (o quasi) a favore degli ex terroristi neri dei Nar.
Perché, è vero, c'è Valentino Parlato, altro fondatore del manifesto, che si tira indietro: «Non so nulla di tutta la storia della bomba di Bologna». E Sandro Curzi che mette invece rapidamente le mani avanti: «Non voglio entrare nel merito di questa vicenda. Non mi interessa un dibattito estivo, voglio nuovi elementi concreti, piuttosto». Ma dopo, invece, è un vero e proprio coro che si leva a martellare di dubbi la sentenza che ha inchiodato Mambro, Fioravanti, Ciavardini. Una difesa che, a guardarla così, fa apparire il mondo alla rovescia.
Erri De Luca? Oggi scrive libri di gran successo, ieri militava nelle file di Lotta Continua: «Sono d'accordo con Rossana Rossanda, anche se non ci siamo mai parlati. Da tempo mi sono fatto la convinzione che la strage di Bologna non sia opera di Mambro e Fioravanti. Quella strage è un'operazione fuori scala rispetto alla loro organizzazione. I Nar sparavano addosso a noi, mica mettevano bombe. Quelle le hanno messe i servizi segreti: strani e nostrani». E non è il solo a tirare in ballo l'intelligence. Anzi.
Piero Sansonetti spara diretto: «Ci sono i servizi segreti italiani dietro questa vicenda della stazione di Bologna come dietro tutte le vicende delle stragi che iniziano il 12 dicembre 1969 e durano quasi vent'anni». Il direttore di Liberazione, come del resto Rossana Rossanda, non ha una verità in tasca su Bologna. Ma anche lui, come Rossanda, si fida di Andrea Colombo e della sua ricostruzione dei fatti raccontata nel libro Storia nera.
Lunga storia, tutta e sempre e soltanto nella sinistra più estrema, quella di Andrea Colombo: da Potere Operaio al manifesto, a Rifondazione comunista. «E se ha scritto il libro che ha scritto c'è da credere che si sia documentato bene: ha ragione Rossana a sollevare molti dubbi su Bologna», decreta Mariuccia Ciotta, storica firma del manifesto.
Le fa eco Rina Gagliardi, già senatrice di Rifondazione. Dice: «Il processo per la strage di Bologna è davvero ben poco convincente, come ricostruisce Andrea Colombo nel suo libro. Gli credo a fiducia. E ad intuito». Poi anche lei rilancia: «Non credo che per la strage di Bologna si possa scartare a priori l'ipotesi che si sia trattata di una lotta fra servizi segreti». Anche Ritanna Armeni, un'altra storia che da Potere Operaio approda a Rifondazione, va a fiducia: «So ben poco di tutta la vicenda di Bologna. Ma tendenzialmente sono d'accordo con Rossana. Ad intuito ».
E per Rossanda esulta, ovviamente Andrea Colombo: «Brava. Brava. Bravissima». Lui nel suo libro non ha fatto sconti nel raccontare le gesta omicida di Mambro e Fioravanti. Ma arrivato alla strage di Bologna ha tracciato una riga. Netta e decisa: «I Nar avevano un impegno politico e culturale che non si adattava alle stragi. Per capire: non hanno mai colpito nel mucchio. Ma ciò che importa ancora di più sono le risultanze processuali: non convalidano la tesi dell'accusa».

Il Riformista 5.8.08
Bologna dietro la campagna innocentista
Mambro e Fioravanti, non Sacco e Vanzetti
di Stefano Cappellini


Si potrebbe tagliare corto e dire che le sentenze si rispettano, sempre, e non solo quando coincidono in parte o in tutto con le proprie convinzioni. Vale - dovrebbe valere - anche per la sentenza che ha individuato in Francesca Mambro e Giusva Fioravanti gli esecutori della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. E invece no. Contro la verità giudiziaria per la più cruenta carneficina della storia repubblicana è in atto da anni un'opera trasversale di decostruzione, svilimento, delegittimazione cui ha dato l'ultimo contributo il presidente della Camera Gianfranco Fini parlando in occasione del recente anniversario di «zone d'ombra intorno all'accertamento della verità sulla strage», poco prima che il suo collega di partito e sindaco di Roma Gianni Alemanno tornasse a invocare attenzione per la fantomatica «pista palestinese». È comprensibile, seppure non giustificabile, la solerzia con cui Fini e Alemanno si dedicano a picconare la sentenza di Bologna: i Nar di Mambro e Fioravanti nacquero nell'alveo del neofascismo italiano di cui l'Msi, ancora lontano dalla catarsi di Fiuggi, era espressione istituzionale. I giovani terroristi neri odiavano i missini, ma - per usare una fortunata espressione coniata sull'altra sponda della politica - facevano parte dello stesso «album di famiglia». Ecco perché ancora oggi in An sono in tanti a battersi affinché dalla strage di Bologna sia cassato l'aggettivo «fascista».
Ma ancor più tambureggiante, e priva di dubbi sull'innocenza di Mambro e Fioravanti, è la campagna condotta da sinistra da un fronte di intellettuali, giornalisti, politici, quotidiani (in prima fila i quotidiani comunisti il manifesto e Liberazione). Vale la pena spendere qualche parola sull'origine di questa solidarietà rosso-bruna, che negli anni si è allargata a macchia d'olio, producendo adesioni illustri, editoriali, libri, ma che ha avuto un'origine più carbonara, carceraria per la precisione, dato che i primi ad appassionarsi alle sorti di Mambro e Fioravanti furono alcuni ex brigatisti rossi, decisi a mettersi alle spalle ogni pregiudizio ideologico in nome della comune condizione di detenzione e di una certezza: Mambro e Fioravanti erano fascisti sì, terroristi forse, ma stragisti no. Una cara amica di Mambro è Anna Laura Braghetti, carceriera di Aldo Moro, che con l'ex terrorista dei Nar ha condiviso una cella a Rebibbia e firmato un libro a quattro mani uscito a metà degli anni Novanta. Da lì, dalle ceneri del partito armato, è nata la campagna innocentista. E ha trovato terreno fertile in una sinistra radicale che avendo vissuto sulla propria pelle le storture dell'emergenza giudiziaria degli anni di piombo - capace di stroncare il terrorismo, certo, ma anche di produrre un numero molto alto di soprusi e sconfinamenti dallo stato di diritto - ha maturato una diffidenza genetica verso ogni verità giudiziaria sulle vicende degli anni Settanta, di cui la strage di Bologna è il capitolo finale. Questo è il vero humus dell'innocentismo di sinistra sulla strage di Bologna. E non vale, né potrà mai valere un'assoluzione, o una riapertura del processo su Bolgona, indiziario ma tutt'altro che sommario.
 Coltivare dubbi è sempre lecito e spesso salutare. Ma quando l'argomento principe degli innocentisti - al di là di controinchieste che segnano sulla lavagna solo i punti della difesa e non quelli dell'accusa - è quello addotto ancora ieri da Rossanda Rossanda intervistata sulla Stampa («Mi sembra significativo che loro stessi dicano di non essere degli angeli, ma abbiano sempre negato su Bologna»), il dibattito è chiuso in partenza. Si tratta di un falso sillogismo: siccome Mambro e Fioravanti hanno confessato tutti i loro delitti, ma negano su Bologna, dunque su Bologna sono innocenti. Come se confessare di essere responsabili dell'uccisione di 85 persone, una mattanza senza eguali e senza possibile "copertura" politica, fosse comparabile all'ammissione di responsabilità per tutti gli altri delitti commessi, non meno efferati e che però negli ambienti dell'ultradestra giovanile (e non solo) sono valsi e valgono tuttora alla coppia una aurea di romanticismo guerrigliero. Vergognosamente accresciuta dall'abito alla Sacco e Vanzetti che certa sinistra vorrebbe calzare loro a forza.


Corriere della Sera 5.8.08
Sindaci, poteri speciali per la sicurezza
Intesa Maroni-Comuni. Ieri esordio dei militari nelle città
Il sindaco di Roma Alemanno ha confermato che i soldati non saranno in centro e in pattuglia
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Il governo schiera i soldati e assegna ai sindaci poteri speciali sulla sicurezza. Il decreto che il ministro dell'Interno Roberto Maroni firmerà nelle prossime ore concede agli amministratori cittadini di poter intervenire con ordinanze urgenti per garantire la «pacifica convivenza». Vuol dire che potranno prendere misure sull'inquinamento urbano e sui comportamenti ritenuti lesivi del decoro, compresi la prostituzione e lo spaccio di stupefacenti, sull'accattonaggio e sul commercio abusivo. I dettagli saranno messi a punto durante la riunione Stato-Comuni convocata per questa mattina, ma l'intesa è raggiunta.
Accordo fatto anche su Roma, come ha confermato ieri Gianni Alemanno. I militari non saranno in centro e non effettueranno attività di pattuglia, ma avranno il compito di vigilare su decine di obiettivi fissi. Ieri sono stati proprio i Granatieri di Sardegna impiegati nella capitale ad effettuare il primo arresto: un borseggiatore davanti alla stazione Anagnina. Mentre i giovani dei collettivi attaccavano sul Colosseo lo striscione «Free Rome» e distribuivano ai turisti volantini con la scritta «questa non è democrazia», il contingente di circa 1000 uomini ha occupato i presidi indicati dal prefetto Carlo Mosca. Servizi di sorveglianza e di ronda anche a Milano dove Alleanza nazionale ha distribuito braccialetti tricolore ai cittadini come benvenuto ai soldati.
«Operazione di propaganda», protesta il partito Democratico e Antonio Di Pietro aggiunge: «Ho troppo rispetto per i militari per vederli ridotti a comparse da Cinecittà ». Fortemente critico anche il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini «perché noi amiamo i soldati, ma avremmo preferito che fossero concesse maggiori risorse alle forze dell'ordine». A tutti risponde il ministro della Difesa Ignazio La Russa. «Oltre ai delinquenti, agli stupratori, a chi fa furti e rapine — attacca — sono contrari alla presenza dei militari per garantire solo i post sessantottini: i figli, non in senso anagrafico, di chi gridava "basco nero il tuo posto è il cimitero" o quelli che consideravano polizia e carabinieri golpisti. Quando qualcuno dice che questa è un'operazione di facciata dice una cosa poco seria. Questi uomini hanno intenzione di incutere paura solo ai malviventi».
L'attuazione del decreto sulla sicurezza approvato il 23 luglio sarà completata con i provvedimenti sui sindaci. Il testo prevede che l'ordinanza possa essere emanata «previa consultazione del prefetto » che ha anche il potere di intervento qualora verifichi «inerzia» da parte del primo cittadino.

Corriere della Sera 5.8.08
Città del Messico La ragazza sieropositiva inaugura la conferenza globale sull'Hiv
Keren, una dodicenne contro l'Aids «Si può vincere questa battaglia»
L'appello: «Più attenzione e farmaci, meno pregiudizi»
L'impegno dell'Onu di curare tutti entro il 2010 resta lontano. Ma dal summit del 2000 si sono fatti molti passi avanti
di Adriana Bazzi


CITTÀ DEL MESSICO — L'applauso per lei è stato il più lungo. Più di quello per il Presidente del Messico Felipe Calderon, più di quello per il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Qualche respiro profondo prima di cominciare: «Noi ragazzi e ragazze sieropositivi stiamo crescendo e abbiamo tanti sogni. Molti di noi vorrebbero diventare artisti, medici, maestri. A me piacerebbe diventare una cantante».
Adesso sorride Keren Dunaway-Gonzales, dodici anni, honduregna, sieropositiva, capelli lunghi neri, un vestito a strisce bianche, blu e rosse, che alla inaugurazione della Conferenza mondiale sull'Aids a Città del Messico ha chiesto al mondo di non abbandonare la lotta alla malattia e di aiutare i giovani che l'hanno contratta a realizzare i loro desideri. Aveva cinque anni quando i suoi genitori le spiegavano, con qualche disegno colorato, che erano sieropositivi e che lo era anche lei, fin dalla nascita («Il virus è come una piccola palla con sopra tanti puntini che nuota dentro di me» lo descrive Karen). Oggi è una delle più giovani attiviste dell'America Latina: una rarità in una regione dove 55.000 persone sieropositive su due milioni sono sotto i 15 anni e dove pochi ragazzi hanno il coraggio di uscire allo scoperto per paura di essere rifiutati dai loro compagni.
«Chiediamo l'attenzione di cui abbiamo bisogno — ha detto ancora Keren che dirige un giornale per giovani sieropositivi spedito ogni due mesi in tutto l'Honduras — e le medicine che ci servono per vivere».
Impossibile non ricordare un altro protagonista di un'altra conferenza sull'Aids, otto anni fa a Durban: il piccolo Johnson Nkosi che, salendo sul palco allora, chiese di trattare i malati come esseri umani e divenne un simbolo commovente della lotta all'Aids. Lui è stato sfortunato: morì un anno dopo a 12 anni, ma viveva in un Paese, il Sudafrica, dove all'epoca la malattia era persino negata e il presidente Thabo Mbeki rifiutava l'offerta di medicine dall'industria farmaceutica.
Oggi la situazione sta migliorando. Una nuova generazione di ragazzi sieropositivi stanno diventando adulti, nonostante in America Latina soltanto un terzo dei bambini, a fronte del 60 per cento degli adulti, ricevano gli antiretrovirali.
I pazienti sieropositivi hanno guadagnato 13 anni di vita, anche se sono soprattutto fra quelli che possono essere curati con i cocktail di nuovi farmaci.
L'accesso alle terapie si sta ampliando (e il Presidente messicano ha annunciato la commercializzazione di farmaci generici prodotti anche da industrie che non hanno impianti nel Paese), ma in molte aree, soprattutto dell' Africa, soltanto un terzo delle persone viene curata con le medicine, nonostante l'impegno dell'Onu per fornire «cure a tutti entro il 2010». Rimangono un po' ovunque stigma e discriminazione: 67 Paesi in tutto il mondo (quasi la metà degli Stati membri dell'Onu) impongono forme di restrizione all'entrata di sieropositivi e 13 Paesi, compresi Stati Uniti e Cina, vietano anche brevi soggiorni turistici.
«Per molti lo stigma contro i sieropositivi rimane una grande sfida — ha detto Ban Ki-moon — Soltanto vincendo pregiudizi e discriminazione si potrà garantire un aiuto a tutti coloro che ne hanno bisogno ». E non solo: è indispensabile anche assicurare la massima informazione.
«A quest'epoca della vita— ha detto ancora Keren — quando cominciamo a conoscere i nostri corpi e proviamo nuove emozioni è necessario contare su un'informazione corretta sulla sessualità e sulle trasformazioni che avvenendo dentro di noi». La sessualità è tabù in America Latina, ma Karen ha fatto cadere anche questo. E si merita davvero la standing ovation.

Corriere della Sera 5.8.08
«El Tiempo» accusa, Ramon Mantovani risponde
«Tra Rifondazione comunista e le Farc rapporti politici sotto la luce del sole»


ROMA — Rifondazione comunista «ha avuto rapporti politici per anni» con le Farc, ma «sempre sotto la luce del sole, per favorire il processo di pace». È questa la replica di Ramon Mantovani e Marco Consolo al quotidiano colombiano El Tiempo secondo cui in Italia ci sarebbe un'associazione che appoggia i guerriglieri dei quali è stata prigioniera Ingrid Betancourt. «Secondo il quotidiano — ha detto Mantovani — Ramon e Consolo sarebbero due nomi cifrati di uomini che aiutano clandestinamente le Farc. Trattandosi dei nostri nomi veri, è evidente che si tratta di un'accusa ridicola».

l’Unità 5.8.08
«Chi sostiene le Farc? Noi». Fanno outing due dirigenti Prc
Ramon Mantovani e Marco Consolo: nessuna rete clandestina ma rapporti ufficiali e sostegno esplicito
di Luca Sebastiani


Dicono: non ci piace che gli uomini delle Farc siano considerati terroristi
La guerriglia vuole la pace in Colombia
Dopo i sequestri anche Bertinotti ha preso le distanze. Loro no: «Si tratta di conflitto politico non di narcoterroristi»

SOSTENITORI Ma non fiancheggiatori. I compagni «Ramon» e «Consolo» della presunta «legione straniera» delle Farc non sono nient’altro che Ramon Mantovani e Marco Consolo. Dirigenti di Rifondazione Comunista che per anni hanno tenuto i rapporti con la guerriglia colombiana dalle cui prigioni è appena stata liberata Ingrid Betancourt. Non che fosse un grande mistero. In realtà si trattava di una specie di segreto di Pulcinella data l’omonia tra nomi civili e pseudonimi di «battaglia». E dopo che il quotidiano colombiano El Tiempo aveva svelato il fatto che in Europa operasse «un piccolo esercito reclutato dalle Forze armate rivoluzionarie colombiane», e che pure in Italia due colonne della rivoluzione bolivariana agissero sotto la copertura dei nomi Ramon e Consolo, sono stati gli stessi interessati ad «autodenunciarsi». Abbiamo avuto contatti ufficiali con le Farc, hanno spiegato Mantovani e Consolo. «Relazioni di pubblico dominio e con l’obiettivo di sostenere il processo di pace di Colombia anche con lo scambio di ostaggi» tra le due parti. Perché, hanno chiosato, ancora oggi «non condividiamo» la scelta dell’Unione Europea di mettere le Farc nella lista delle organizzazioni terroristiche. La guerriglia colombiana vuole il processo di pace, quindi non va isolata. Ma questo, «è solo un giudizio politico».
L’intrigo internazionale era iniziato in Colombia, dove a Bogotà il quotidiano El Tiempo, ha pubblicato un lungo articolo in cui ha denunciato l’esistenza di una rete clandestina sul Vecchio continente. Otto persone in tutto. Quattro spagnoli, due italiani, un danese e un australiano. La «legione straniera» sarebbe emersa dall’analisi del computer di Raul Reyes, il comandante delle Farc recentemente ucciso dall’esercito colombiano. «È verosimile che nel suo computer ci siano stati i nostri nomi», ha spiegato Mantovani, visto che con lui e altri dirigenti della guerriglia i rapporti sono iniziati negli anni Novanta. «Quando è iniziato il processo di pace in Colombia - ha proseguito l'ex parlamentare di Rifondazione - siamo stati invitati come Prc, ma lo fu anche il Governo italiano. Dopo di che i vertici delle Farc - ha continuato - sono venuti anche in Italia e vennero ospitati in Parlamento». Una bufala, dunque, quella della rete clandestina. Tutto è avvenuto alla luce del sole. E a conoscenza dei contatti sarebbero stati tutti i presidenti della Camera da Violante a Bertinotti passando per Casini, e tutti i sottosegretari agli Esteri con delega al Sud America. Mantovani e Consolo avrebbero dunque fatto parte non del «piccolo esercito» clandestino denunciato dal Tiempo, ma delle truppe di quelli che negli hanno lavorato politicamente al processo di pace in colombia tra il governo e le Farc. Processo interrotto dopo che la guerriglia è stata inserita nella lista delle organizzazioni terroriste per il suo modo operativo. In particolare per i sequestri di persona, tra cui quello della Betancourt è stato solo il più eclatante. E nonostante anche Fausto Bertinotti, ex leader di Rifondazione, abbia preso le distanze dalla guerriglia più longeva sulla terra e dai suoi metodi, per Mantovani metterla al bando è stato un errore. Perché, ha detto «in Colombia c’è un conflitto politico e non un problema con un’organizzazione narcoterrorista».

Corriere della Sera 5.8.08
Sanità. Obbligatorio il consenso scritto dei genitori. No di Fitto. Protestano la Binetti e 20 senatori
Lite sugli psicofarmaci ai bimbi
Stretta di Piemonte e Trentino, il governo si oppone
di Margherita De Bac


La farmacologa Adriana Ceci: iniziative ideologiche. Il nostro consumo inferiore a quello di Olanda e Francia
Le due leggi regionali stabiliscono che i genitori debbano firmare un documento prima dell'inizio della cura

ROMA — Psicofarmaci ai bambini solo con il consenso informato scritto dei genitori. Così avrebbero voluto Piemonte e Trentino, che con proprie leggi intendevano esercitare «un controllo più stretto» sulla prescrizione ai minori di antidepressivi o sostanze per l'Adhd, il deficit dell'attenzione e dell'iperattività. Ma il governo ha stoppato la duplice iniziativa con un ricorso alla Corte Costituzionale. Il ministero degli Affari Regionali sostiene che non ci si può discostare dalla normativa nazionale sugli stupefacenti. Che in questo caso dunque il federalismo e l'autonomia delle istituzioni locali non possono avere libertà.
La ferma risposta di Palazzo Chigi ha provocato la reazione di 21 senatori, autori di un'interrogazione parlamentare. «Le motivazioni non sono state sufficienti — si rende portavoce dei colleghi Paola Binetti, in qualità di esponente del Pd ma soprattutto di neuropsichiatra infantile —. Non sono entrati nel vivo della questione che è la tutela dei più piccoli, hanno preferito girarci intorno. L'obbligo del consenso informato costituisce uno dei capisaldi del principio di autodeterminazione è direttamente ispirato all'articolo 31 della nostra Costituzione ». I firmatari chiedono che il ministro Raffaele Fitto ritiri il ricorso, coordinato da Valerio Carrara, Pdl: «Secondo loro si verrebbe a creare una difformità tra la legge nazionale e le regionali. Il diritto dei genitori di scegliere le terapie più opportune per i propri figli ed essere completamente informati deve prevalere. Speriamo che altre regioni seguano l'esempio». Sull'abuso di psicofarmaci ha presentato una proposta di legge la senatrice Mariella Boccardo, Pdl. Se ne tornerà a parlare dopo l'estate. Polemiche che riaffiorano di tanto in tanto malgrado l'Italia non sia un Paese particolarmente disinvolto nella prescrizione di sostanze psicotrope ai bambini. Anzi, rileva la farmacologa Adriana Ceci, che fa parte del comitato sulla pediatria presso l'agenzia europea, l'Emea, siamo in modo netto al di sotto dei consumi di Olanda, Gran Bretagna e Francia: «Il sospetto è — continua — che dietro queste iniziative ci siano i soliti pregiudizi mossi dall'ideologia. Non ci sono ragioni tecnico- scientifiche per giustificare un controllo con obbligo di consenso informato». La farmacologa è del parere che se i genitori devono sottoscrivere la scelta del medico «allora bisognerebbe prevedere la stessa procedura per tutti i farmaci che hanno conseguenze sulla crescita dei bambini. Pensiamo a quelli per diabete, per i tumori».

Corriere della Sera 5.8.08
Scienza e Vita. Dietrofront sul testamento biologico
di M.D.B.


ROMA — Corregge il tiro per la seconda volta in pochi giorni, l'associazione Scienza e Vita. Dopo le forti critiche rivolte da alcuni esponenti dell'esecutivo, la presidenza ha fatto marcia indietro ribadendo: «Mai una legge sul testamento biologico. Prendiamo atto del dibattito riportato dai media e dal disappunto di alcuni membri del consiglio confermiamo la nostra posizione: netto rifiuto di una ipotesi di legge sul testamento biologico». Il comunicato è firmato dai presidenti Bruno Dallapiccola e Maria Luisa Di Pietro che solo l'altro giorno avevano annunciato l'apertura dell'associazione a un provvedimento che regolasse le dichiarazioni anticipate di volontà sulle cure da ricevere, o rifiutare, alla fine della vita. Un cambiamento di rotta rispetto alle posizioni storiche di «Scienza e Vita» che aveva determinato le dimissioni di Adriano Pessina, direttore del centro di bioetica dell'università Cattolica. Criticato soprattutto il metodo, la mancanza cioè di un confronto con il consiglio esecutivo. Sul sito web è stata pubblicata due giorni fa l'inchiesta svolta tra i medici che condividono le idee elaborate dal «pensatoio» di bioeticisti soprattutto cattolici: un corale schieramento contro il testamento biologico. Per una legge di fine vita «bisogna mettere in campo la trasversalità dei cattolici — afferma Savino Pezzotta (Udc)— dovrà ruotare attorno a due concetti di base: no all'accanimento terapeutico, no all'eutanasia».

Repubblica 5.8.08
Israele: "Palestinesi curati solo se spiano"


GERUSALEMME - L'associazione umanitaria Physician's for Human Rights ha accusato il servizio segreto israeliano di condizionare i permessi di ingresso in Israele a palestinesi che hanno bisogno di cure all'assenso a divenire informatori. Israele ha risposto che i pazienti sono interrogati per motivi di sicurezza.

Repubblica 5.8.08
Gramsci a Los Angeles
A colloquio con Remo Bodei filosofo pendolare tra Pisa e la California
di Franco Marcoaldi


"In America ho trovato una maggiore passione per la ricerca della verità magari anche ingenua"
"C´è un grande interesse per il Rinascimento, tra i moderni si studia addirittura Gioberti"

PISA. L´assunto di partenza è semplicissimo: sempre più italiani di spicco vivono in parte o in toto all´estero. Senza contare coloro che, pur rimanendo a casa propria, esportano nel mondo la propria competenza e il proprio talento negli ambiti più diversi: dalla filosofia alla scienza all´arte. Ebbene: esiste, nelle differenti discipline, una specificità italiana? Un suo valore aggiunto? E se esiste, viene percepito come tale? Più in generale, come è vista l´Italia fuori d´Italia? Come è giudicata?
Mosso da tali, elementari domande, ho scelto per questa breve perlustrazione estiva quattro figure di rilievo della scena contemporanea: un filosofo, un artista visivo, un compositore e un uomo di teatro e cinema. Ad aprire la serie è Remo Bodei, che il collega Richard Rorty definì «il meno peninsulare dei filosofi italiani», per sottolineare la sua naturale propensione internazionale: «e io per scherzo gli risposi che, essendo sardo, il mio compito era più facile. Una volta attraversato il mare, per noi sardi tutto il mondo è paese». Come che sia, il rapporto di Bodei con l´accademia internazionale è sempre stato intenso: Germania, Spagna, Inghilterra, Canada. E, ormai da molti anni, gli Stati Uniti. Dapprima con l´insegnamento a New York, poi all´UCLA di Los Angeles: fino al 2006 dividendosi equamente con l´università di Pisa; da quando ha abbandonato l´insegnamento in Italia, non in più in qualità di "visiting professor" ma semplicemente di professore. «Il pendolarismo però è rimasto lo stesso: sei mesi là, sei mesi qua. E come Proserpina, non ho ancora scelto quali siano i veri inferi».
Lavoratore instancabile, autore di una mole immensa di volumi che spaziano in periodi storici e ambiti tematici i più diversi, Bodei ha il doppio merito di tenere la barra dritta su un pensiero laico inteso quale esercizio della razionalità critica attorno ai temi cruciali del discorso pubblico, senza tralasciare - al contempo - un´indagine altrettanto rigorosa di quei fenomeni della vie sauvage (dal variegato mondo delle passioni al delirio clinico), solitamente abbandonati dal pensiero a se stessi. «In questa mia impostazione non credo di essere stato infedele alla nostra tradizione filosofica. Di essa mi piace conservare lo scrupolo filologico nell´interpretazione dei testi, l´attenzione ai particolari, il gusto per una ricerca che unisca ragione e immaginazione. Aspetti, questi, che rimangono in secondo piano nel mondo anglosassone, dove perfino gli studenti del primo anno trattano i classici senza alcun timore reverenziale. Non li mettono su un piedistallo: chiedono subito se è vero o falso quello che hanno detto. In un certo senso fanno bene, ma, in compenso, non si curano di tarare storicamente i concetti e spesso finiscono così per giungere a conclusioni banali. Ma per tornare alla nostra tradizione filosofica, mi ha sempre colpito la sua vocazione civile. Non politica, civile. Dall´Umanesimo ad oggi abbiamo avuto comuni e stati regionali forti in contrasto con uno Stato nazionale che non c´era o, quando si è costituito, si è mostrato debole nei confronti delle altre potenze e della Chiesa cattolica. I filosofi italiani hanno quindi svolto un ruolo di pedagoghi politici, non rivolgendosi, come succedeva nella scolastica, ad altri filosofi o agli studenti, ma alle classi dirigenti tout court. Si pensi a Machiavelli o, sul versante scientifico, a Galilei. D´altronde, forse proprio a causa della prevalenza della Chiesa cattolica, manca in Italia una filosofia dell´interiorità di tipo pascaliano. Parallelamente, dopo Galilei, non abbiamo più avuto una approfondita riflessione sulle scienze, a parte lodevoli eccezioni novecentesche. La filosofia italiana, intendo dire, ha dato il meglio in quelle zone in cui non domina una logica rigorosa di tipo cartesiano. Quindi nella concezione della politica (con Machiavelli o Gramsci), della storia (con Vico o Cuoco), dell´estetica (con De Sanctis o Croce). In sostanza, la filosofia italiana è una filosofia della ragione impura, ma anche una filosofia civile, che non sempre ha avuto il coraggio dello scontro frontale con le autorità religiose e politiche. Certo, c´è stato Giordano Bruno, ma non abbiamo avuto l´analogo del Pascal delle Provinciali, né un Voltaire. E il conformismo, il compromesso e la "rivoluzione passiva" sono stati spesso vincenti».
Questo sul versante delle persistenze. E invece cosa accade in ordine ai mutamenti? Come si presenta, oggi, la scena filosofica italiana? «Da un lato, fortemente contaminata dal rapporto coi media; dall´altro, molti miei colleghi sono diventati meri concessionari di filosofie straniere. Il che ha certamente allargato il respiro internazionale del dibattito, ma ha anche indebolito le nostre peculiarità, e pur favorendo la crescita di una risonanza all´estero, che non si avvertiva dai tempi di Croce, ha determinato un appiattimento verso le tesi altrui».
D´altronde, è pur vero che la nostra tradizione più riconosciuta, quella dello storicismo, presentava falle da tutte le parti. «Non v´è dubbio. È quello che chiamo lo storicismo invertebrato: la filosofia come mera narrazione di una successione di eventi, una specie di fila indiana di opinioni: cosa ha veramente detto Tizio, cosa ha veramente detto Caio».
Invece sul versante anglosassone, e segnatamente americano, cosa succede? «C´è una maggiore passione per la ricerca della verità, magari con tutte le ingenuità a cui accennavo prima. Ma il migliore lascito della scolastica continua: continua la passione per il rigore logico, il desiderio di non fare discorsi vaghi, di mettere alla prova tutte le affermazioni, sia dal punto di vista della coerenza interna del discorso, sia dal punto di vista dei controlli empirici. E tutto ciò accade in uno scenario radicalmente modificato rispetto a quando nelle università americane trionfava la filosofia analitica. Del resto, se soltanto guardo alle facce dei miei studenti, capisco che davvero Los Angeles è la porta dell´Oriente: lo scorso anno, di ventisei, solo sei erano "caucasici", come dicono lì. Ovvero bianchi americani. Il grosso era composto da latinoamericani e soprattutto da orientali».
E questo progressivo spostamento a est della popolazione studentesca, ha modificato il panorama degli autori di riferimento? Intendo dire, tra i classici circolano anche Confucio e Buddha? «Nei dipartimenti di filosofia questo ingresso è lento. Diversamente da quanto accade tra gli antropologi e i geografi, molto più ricettivi. C´è, piuttosto, un ritorno evidente dei classici occidentali. A lungo l´unico filosofo considerato "per bene" era Kant: oggi circolano nuovamente Hegel, Leibniz, Descartes. E per venire agli italiani, c´è grande interesse per il Rinascimento. Oltre che per Galilei, o per Gramsci. Si studia addirittura Gioberti, che pure in Italia non trova ascolto».
Più in generale, come è visto il nostro sistema-paese? «Al modo di sempre. Nel sentimento comune la nostra nazione è composta da gente simpatica e inventiva, con alcuni geni e molta corruzione. La serietà da noi non sarebbe di casa, ma in compenso siamo considerati maestri del lusso. Non a caso la maggior fortuna è legata alle solite cose: le Ferrari, la moda, il cibo».
Beh, anche gli americani potrebbero uscire da questo usurato cliché. Qualcosa in più c´è: nel bene e nel male. A cominciare, ahimé, da un laboratorio politico di un certo interesse: quello del populismo berlusconiano. «Non c´è dubbio. La nostra società, particolarmente fragile e dunque particolarmente esposta, si offre come luogo ideale di processi che si impongono su scala planetaria. Intervengono molti fattori nella riformulazione delle regole del gioco politico: l´incertezza del futuro, la scarsità crescente di risorse, il terrorismo. Il potere tende ad avere mano libera, all´impunità. Non tutto però si riduce a manipolazione dall´alto: c´è anche la connivenza dal basso. Si sta affermando un´opinione pastosa, informe, plasmata dai nuovi psicagoghi al potere. In fin dei conti, la parola massa viene dal greco maza, pasta, ovvero dalla materia che si modella. E la parola folla rimanda alle fulloniche, ovvero alle antiche "lavanderie" dove si strizzavano i panni. Forse il termine manipolazione è troppo scontato, banale. Lo è meno l´idea di un´opinione pubblica che si lascia modellare o strizzare, finché non assume la forma desiderata. Lo capì per tempo Gustav Le Bon, quando intuì che alla figura del politico che si serve della persuasione razionale si sarebbe sostituita quella del meneur des foules, il quale plasma il materiale umano a sua propria immagine; dell´ipnotizzatore capace di guidare le emozioni di chi soggioga dentro una logica dell´inverosimile, che prevale sulla realtà. Speriamo solo che non sia un processo irreversibile».
(1-continua)


Sarebbe un errore uscire dalle giunte locali

Un'altra Rifondazione è quella che serve al Paese. Non serve una Rifondazione che innalza vessilli identitari. Quei 142 voti che hanno consentito a Paolo Ferrero di diventare segretario di Rifondazione comunista sono espressione di una cultura politica estremista, non radicale. Paolo Ferrero è diventato segretario per un voto. La maggioranza relativa dei consensi è viceversa andata a chi aveva un altro progetto politico. Un progetto aperto, innovativo nella sostanza e nel linguaggio. Il linguaggio è forma ma è anche pensiero. Il linguaggio deve essere capace di esprimere dubbi. Non deve solo contenere granitiche certezze. Il linguaggio della maggioranza che ha vinto di misura a Chianciano è un linguaggio di chiusura, incapace di colmare uno spazio politico di sinistra lasciato miseramente vuoto. 
Non c'è dubbio che noi abbiamo le nostre colpe se questo spazio non è stato riempito. Colpe che non sono solo quelle degli ultimi mesi ma che hanno radici più lontane. Nella cultura comunista il tema della libertà e dei diritti umani è stato a volte considerato un tema da salotto buono. Nella storia comunista anche di questo paese il garantismo non sempre ha avuto lo spazio che meritava. E allora non ci si sorprende se la componente di Ferrero ha offerto le chiavi dell'opposizione politica e sociale ad Antonio Di Pietro il quale giusto pochi mesi fa affermava testualmente: «Moratoria, subito. Va attuata una moratoria per almeno 2/3 anni nei confronti della Romania e della Bulgaria... Gli irregolari vanno rimpatriati. Chi arriva in Italia deve avere un alloggio e un lavoro, non siamo il vespasiano d'Europa». Tanto che quelli della Lega Nord replicavano: «Di Pietro sta copiando tutti i messaggi della Lega nord da oltre un anno». Non amo i cappi leghisti e non amo i processi di piazza. Oggi stiamo assistendo a una emergenza democratica che è la deriva razzista di matrice istituzionale che trova consenso in larga parte dell'opinione pubblica. Di questo nel documento che ha vinto a Chianciano c'è solo una traccia incidentale. 
Il punto centrale pare sia invece il conflitto di classe. Il nostro concreto agire nel breve, medio e lungo termine (mi riferisco a quell'area politica, culturale e programmatica che oggi si riconosce in rifondazione per la sinistra e che ha puntato sulla candidatura a segretario di Nichi Vendola) deve avere quale obiettivo l'allargamento degli spazi di democrazia e libertà dentro il Prc, ma anche fuori dal partito, per costruire una sinistra più ampia e degna di questo nome. Si può essere minoranza oggi e maggioranza domani. Rifondazione dovrebbe sempre più caratterizzarsi come il partito dei diritti e delle libertà. Lo dovrebbe fare con le parole, con i pensieri, con i progetti. Lo dovrebbe fare da solo, con gli altri della sinistra, con chi accetta il paradigma della trasformazione sociale, umanocentrica ed equa. La nostra cultura attenta al consumo critico, consapevole dei limiti dello sviluppo, rigorosa nel rispetto dell'ambiente e della natura, dobbiamo sottrarla allo sloganismo e farla diventare patrimonio collettivo. 
«Il Congresso considera chiusa e superata la fase caratterizzata dalla collaborazione organica con il Pd nella fallimentare esperienza di governo dell'Unione, dalla presentazione alle elezioni della lista della Sinistra Arcobaleno e dalla sbagliata gestione maggioritaria della direzione del partito». Questo è l'incipit del documento congressuale votato a Chianciano dalla maggioranza dei delegati. Pare che la questione più importante non fosse il vivere in un paese dove la destra è razzista, illiberale, antipopolare e antisociale, bensì il rompere ogni forma di alleanza con il Partito democratico. Sarebbe un errore drammatico per la sinistra italiana rompere incondizionatamente le coalizioni nelle giunte regionali e locali. 
La storia del municipalismo di sinistra è stata una storia nobile di buon governo, di welfare di qualità. Prima di Marrazzo nel Lazio c'era Storace, quello del buco di 10 miliardi, quello di Laziogate o di Lady Asl. Marrazzo non è Storace. Ora non tutto è oro. È populista e falso però affermare che Pd e Pdl sono uguali. Nel Pd sono presenti anime popolari e di sinistra con cui è possibile, anzi doveroso, dialogare. Essere radicali non significa espungere infantilmente la questione del governo dal proprio immaginario. E sino a quando non si ha il 51% dei consensi al governo ci si arriva alleandosi con quelli più vicini o comunque con i meno lontani. Questo deve fare Rifondazione, ossia continuare a essere vessillo non di formali categorie storiche ma di progetti politici che siano capaci di mettere al centro i valori di una sinistra libertaria e moderna.
assessore al Bilancio della Regione Lazio (Prc)

Il Messaggero 5.8.08
Non lasciamo sole le famiglie dei malati psichiatrici
di Silvio Garattini


Gli psichiatri, sganciatisi dalla neurologia solo da trent’anni nel nostro Paese, hanno partecipato poco agli sviluppi scientifici spesso presi da teoriche discussioni psicosociologiche e dal sostegno delle varie scuole di psicoterapia. Il valore delle differenti psicoterapie, con la possibile eccezione di quella “cognitiva”, sono state sempre caratterizzate da autoreferenzialità e dalla difficoltà di integrarsi con i trattamenti psicofarmacologici. Da questo punto di vista va rilevato che il campo psichiatrico ha certamente un livello di difficoltà e di complessità molto più elevato rispetto agli altri settori medici, ma proprio per questo dovrebbe cercare e trovare maggior sostegno nella ricerca scientifica. Per avere un’idea di questa carenza basti pensare a tutte le associazioni che promuovono raccolte di fondi per la ricerca sul cancro e la quasi assenza di iniziative di grande respiro per la ricerca sulla salute mentale. Nell’attesa che la ricerca dia i suoi frutti è necessario aumentare le infrastrutture a favore degli ammalati mentali. Pazienti con altre malattie trovano una serie di interlocutori: i medici del territorio, i pronto soccorso, gli ospedali; una famiglia che abbia il peso di un ammalato mentale trova scarse possibilità d’aiuto e un numero molto modesto di operatori: psichiatri, psicologi, assistenti sociali che si occupino con competenza di questi ammalati. Chi ha risorse può trovare cliniche private e psicoterapeuti a pagamento, ma la maggioranza delle famiglie non può certamente sopportare questi oneri. È quindi venuto il tempo di fare una seria riflessione per sapere che cosa vada ancora completato dell’iter virtualmente tracciato con l’abolizione dei manicomi. I malati mentali non possono essere considerati malati scomodi da nascondere, hanno gli stessi diritti di tutti gli altri ammalati. Spetta alla politica prendere decisioni anche di tipo preventivo, è compito dei tecnici proporre soluzioni dopo aver fatto una valutazione obiettiva delle carenze, dei bisogni e dei mezzi per soddisfarli.

lunedì 4 agosto 2008

l’Unità 4.8.08
Quelle ombre dal passato. An e gli stragisti
di Gigi Marcucci


«Ma guarda Teodoro... E Gianfranco... E Francesco». È il 1994, sta nascendo il primo governo Berlusconi. Mentre gli eredi del Msi, da pochi mesi diventato Alleanza nazionale, fanno per la prima volta il loro ingresso in un esecutivo della Repubblica, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, prossimi alla condanna definitiva per la strage del 2 agosto, vengono intervistati per il Corriere da Gian Antonio Stella e ricordano la comune militanza con Teodoro Buontempo, Gianfranco Fini, Francesco Storace, Maurizio Gasparri. «Vedere Storace andare a discutere alla Rai è fantastico», sorride Fioravanti.
«Capirà, - aggiunge - lo conosciamo da una vita. Insomma: noi ci siamo sparati e lui è lì a trattare sui direttori dei tiggì. Fantastico. Ed è giusto che sia così. Lui ha fatto una scelta, noi un’altra. Lui è al governo, noi in galera». Insomma: France’, ricordati degli amici. Lui non li dimentica. E lo ha dimostra anche due giorni fa, bacchettando il ministro Gianfranco Rotondi, che a Bologna, commemorando le vittime della strage del 2 agosto, si è permesso di dire che le opinioni politiche sono una cosa, le sentenze un’altra. Non l’avesse mai fatto, Storace non l’ha digerita: «Fa più comodo decidere colpevoli che cercarli». E sul punto si trova in sintonia con Gianfranco Fini, nonostante il recente, fragoroso divorzio politico tra i due. Per il presidente della Camera, infatti, è «necessario che, dopo tanti anni, si dissolvano le zone d'ombra che hanno suscitato perplessità crescenti nell'opinione pubblica intorno all'accertamento della verità sulla strage». Una ventina d’anni di indagini, processi e sentenze vaporizzati da «perplessità» attribuite all’opinione pubblica da una delle più alte cariche dello Stato.
Per carità, a chiunque può capitare di trovarsi col compagno di strada sbagliato. Ma se succede a un politico, e se l’amico di un tempo ha sulle spalle una mezza dozzina di ergastoli, è naturale che prima o poi ci si interroghi - senza voler accusare nessuno di complicità o connivenze - su sviste, distrazioni, sottovalutazioni: trasformatesi nel tempo in altrettanti motivi di imbarazzo politico. Soprattutto se l’amico si chiama Valerio Fioravanti e dichiara: «Ci fu una fase in cui ci offrirono tutte le poltrone possibili e immaginabili per far rientrare il nostro dissenso. Arrivarono al punto di offrire a Francesca, che aveva 18 anni, di entrare nel comitato centrale (del Msi ndr)».
È una storia lunga e tormentata quella dei rapporti tra ex esponenti del Msi e uomini dell’eversione di destra. Nel ’95 il problema viene sollevato dal gruppo Ds nella Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi. Nella relazione viene chiamato in causa Giulio Maceratini, in quegli anni capogruppo di An alla Camera, indicato come uno dei grandi elettori del presidente del partito Gianfranco Fini. «Risulta documentalmente - si legge - che anche in anni successivi a quelli della cosiddetta strategia della tensione il senatore Maceratini abbia continuato ad avere contatti e legami politici con personaggi della destra eversiva già inquisiti e, talora, condannati con sentenze definitive per episodi di terrorismo o ricostituzione del partito fascista».
Il documento è ovviamente di parte, ma è ricco di riferimenti processuali. Parla degli esordi di Maceratini con Stefano delle Chiaie, Junio Valerio Borghese, Pino Rauti, a cavallo di organizzazioni coinvolte nella strategia della tensione come Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo. Riferisce della deposizione del pentito Martino Siciliano al processo per la strage di piazza Fontana: «Pino Rauti era il capo supremo (di Ordine Nuovo ndr) sia sul piano politico che su quello operativo; Paolo Signorelli aveva funzioni direttive sul piano operativo, Rutilio Sermonti aveva il ruolo di conferenziere e Maceratini serviva da filtro tra Rauti e Signorelli nei contatti con i gruppi periferici».
Una carriera parallela e poco conosciuta, quella di Maceratini, continuata fino agli anni 90, quando partecipa alle iniziative promosse dall’associazione “Il Punto” - «diretta emanazione di Stefano Delle Chiaie, vecchio camerata di scorribande antisemite». Una di queste ha come titolo: «Un indulto per la pacificazione nazionale». Tra i relatori c’è Adriano Tilgher, più volte inquisito come dirigente di Avanguardia nazionale. In platea alcuni noti naziskin ed esponenti del Movimento Politico Occidentale di Maurizio Boccacci, sciolto in base al decreto Mancino per incitamento all’odio razziale.
È noto l’impegno di onorevoli-avvocati del Msi-An a difesa di imputati accusati di fatti di eversione o terrorismo. A questa attività, ovviamente del tutto legittima, si associano le prese di posizione contro giudici «colpevoli» di coltivare indagini che non godono del loro gradimento politico. E, come per gli affari del cavalier Silvio Berlusconi, professione legale e militanza di mescolano fino a diventare indistinguibili. Nel 2006 il sottosegretario alla giustizia Giuseppe Valentino, difensore di un eversore di razza come Massimo Carminati, ventila l’invio di ispettori alla Procura di Bologna: in pratica anticipa di un paio d’anni le intenzioni dei parlamentari di An-Pdl che, pochi giorni fa, hanno chiesto la stessa cosa al guardasigilli Alfano, con lettera autografa pubblicata sul Secolo d’Italia (editore Gianfranco Fini, recitano le gerenze).
Più intraprendente l’onorevole Enzo Fragalà. Una delle sue ultime battaglie è quella per far scontare in Spagna la pena detentiva a Carlo Cicuttini, condannato per la strage di Peteano (31 maggio 1972, tre carabinieri uccisi). Dopo una latitanza di 26 anni, Cicuttini finisce in carcere in Francia. È il 1998, la sua prima istanza viene respinta. Il motivo è semplice: in Spagna un’amnistia copre i reati commessi fino al 1977, trasferire Cicuttini equivarrebbe a concedergli la grazia. Nel 2002 è il ministro leghista Roberto Castelli a chiedere alla Procura di Venezia di accontentare il terrorista nero. Pochi mesi dopo arriva il secco no della Cassazione. Niente male per partiti che sulla questione della sicurezza costruiscono i loro successi.

l’Unità 4.8.08
La destra difende gli stragisti di Bologna
Cicchitto rilancia gli attacchi di Fini: «C’è stato un teorema». Cofferati e il Pd: grave revisionismo
di a.c.


NONOSTANTE UNA SENTENZA confermata dalle Sezioni penali unite della Cassazione, il presidente della Camera Fini non è convinto della verità giuridica sulla strage di Bologna. E il giorno dopo, il suo messaggio all’associazione tra i familiari delle vittime in occasione del 28° anniversario continua a suscitare polemiche. «È necessario che dopo tanti anni si dissolvano le zone d’ombra che hanno suscitato perplessità crescenti nell’opinione pubblica intorno all’accertamento della verità sulla strage», ha scritto Fini. «Sarebbe un servizio prezioso reso alla democrazia del nostro Paese».
Parole misurate nella forma, ma pesanti nella sostanza, visto che provengono dalla terza carica dello Stato. La replica del sindaco Cofferati dal palco davanti alla stazione è stata immediata: «Non ci sono ombre e il tentativo di riscrivere la storia è strumentale e per fini di breve respiro. È un modo di piegare alla politica contingente i risultati dei magistrati». Ieri Cofferati, in un’intervista, ha aggiunto che «è grave che una carica istituzionale solleciti la riapertura di un processo sulla base di perplessità della pubblica opinione. Se esistono elementi per farlo lo decide semmai la magistratura. Una carica istituzionale non dovrebbe praticare il revisionismo». Tanto più che l’ex procuratore capo di Bologna, Enrico Di Nicola, ha spiegato che sulla strage «non c’è più nulla da accertare».
Ieri a dar man forte a Fini è intervenuto il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto: «I dubbi avanzati da Fini sono del tutto legittimi, e sono stati avanzati a più riprese da varie parti. A suo tempo è stato stabilito un singolare teorema politico a senso unico: per definizione la strage deve essere fascista e gli autori devono essere Mambro e Fioravanti. Non si capisce perché questi dubbi debbano essere bollati come indegni». Il leghista Borghezio si spinge oltre e chiede una commissione d’inchiesta sulla strage: «Fini ha squarciato il velo delle verità di comodo, bisogna scrivere la storia della subordinazione del nostro Paese alla potente lobby araba». Dice la sua anche il leader della Destra Storace: «Cicchitto ha ragione sui teoremi di Bologna, peccato che il rappresentante del governo alla manifestazione (Rotondi, ndr) abbia parlato d’altro».
Dal fronte del Pd replica il senatore ed ex sindaco di Bologna Walter Vitali: «Chi ricopre una carica istituzionale dovrebbe rispettare le sentenze della magistratura che, in cinque gradi di giudizio, hanno stabilito che gli autori materiali sono Mambro, Fioravanti e Ciavardini e un gruppo di ufficiali dei servizi segreti, guidati da Licio Gelli, hanno depistato l’attività dei magistrati». Gli fa eco la deputata bolognese Sandra Zampa, che giudica «sconcertanti» le parole di Fini e lo accusa di «non essere stato in grado di superare la sua appartenenza a una parte politica». «È grave- conclude Zampa- che una carica istituzionale alimenti dubbi nell’opinione pubblica».
Anche l’Idv boccia i tentativi revisionisti di Fini: «Se c’è una cosa sulla quale ci si dovrebbe interrogare rispetto a quella vicenda è come sia possibile che assassini come Mambro e Fioravanti, con svariati ergastoli sulle spalle, non siano più ospiti delle patrie galere», dice Silvana Mura, parlamentare e coordinatrice dell’Idv in Emilia. «Sono tante le stragi italiane che ancora attendono una verità, dunque forse sarebbe più utile che chi ricopre importanti cariche istituzionali utilizzasse la sua autorevolezza per sollecitare il governo a togliere il segreto di Stato sulla strage di Ustica, invece che mettere in forse una sentenza sulla base di ipotesi già vagliate e scartate dalla procura di Bologna».
E nonostante i dubbi sulla colpevolezza di Mambro e Fioravanti sollevati da Liberazione, il quotidiano del Prc, dal Pdci arriva una ferma condanna di ogni revisionismo sulla sentenza: «La verità è che, su questi temi, oggi più di ieri, serve una rigorosa e seria vigilanza democratica, affinché venga sbarrata la strada a qualunque tentativo revisionista, da chiunque portato avanti», afferma l’ex capogruppo Pino Sgobio.

l’Unità 4.8.08
Quello «scambio indecente» tra Alleanza nazionale e Forza Italia


«Purtroppo ci sono alcune sentenze come questa di Bologna che sono sempre state oggetto di contestazione. Evidentemente sono verità scomode». Walter Vitali, senatore del Pd, prova a capire perché, dietro alla presa di posizione del Presidente della Camera Gianfranco Fini, subito si siano messi a far quadrato i colleghi pidiellini (sponda Fi) con Fabrizio Cicchitto e Paolo Guzzanti e quelli padani con Mario Borghezio.
Davanti ad una verità giudiziaria arrivata al suo ultimo grado di giudizio, la politica continua a immaginare ombre, omissioni. E il Presidente di Montecitorio le avvalora. Assieme al giornale di proprietà del fratello del Presidente del Consiglio.
Il senatore del Pd Felice Casson, mentre ritiene che «la verità giudiziaria che è uscita dal processo è una verità che racconta per davvero un pezzo di storia italiana. Vale a dire che questa è una strage fascista coperta da interventi dei servizi segreti e dalla P2 di Licio Gelli», prova a immaginare la contrarietà dell’intera destra motivandola con una spiegazione logica. Vale a dire che «la strage di Bologna è un episodio troppo grave per il quale non ci può essere alcuna comprensione di alcun genere. La condanna dovrà essere sempre ferma e assoluta perché è una cosa che ripugna anche moralmente. Collegare una certa destra con quella strage fa sicuramente molto male». Per questo, si direbbe, l’idea stessa della «strage fascista» va smontata. Anche se una sentenza passata in giudicato ha indicato esecutori materiali e depistatori. Casson sa bene di cosa parla in quanto negli anni 70 faceva parte di un «pool ante-litteram di magistrati sul terrorismo legato all’estrema destra». Da Milano, Bologna, Roma, Firenze e Venezia si incrociavano nomi, date, personaggi dell’eversione nera. Per questo ritiene che la storia giudiziaria non possa essere riscritta «perché non hanno elementi per riscriverla, perché se avessero un solo elemento probante avrebbero proposto un processo di revisione. Se quello che hanno non arriva neanche al livello di una prova per la revisione, vuol dire che è assolutamente inconsistente». E conclude: «C’è un po’ troppa gente che dice e crede di sapere qualche cosa, e poi alla resa dei conti non fornisce elementi per avere una verità completa e assoluta».
Ma esiste una ragione politica perché tutto il centrodestra (ministro Rotondi a parte), si sia messo a far quadrato a protezione del Presidente della Camera?
Secondo Sandra Zampa, deputata del Pd, che quel 2 agosto dell’80, studentessa fuorisede, passò dalla stazione di Bologna un’ora prima che l’ordigno esplodesse «è la stessa ragione che ha spinto la Lega a votare, turandosi il naso, il via libera al Trattato di Lisbona, dopo avere fatto delle dichiarazioni di voto che lasciavano immaginare esattamente il contrario». Vale a dire il fatto che «questa coalizione è decisa a restare esattamente lì, salda e solida, dandosi una mano su tutto. Se non quando sono costretti per il ruolo istituzionale o per questioni di equilibrio, come il caso di Frattini che ha dovuto correggere, per restare nello stesso esempio, la Lega sul Trattato di Lisbona, subito imitato da Berlusconi. Questi sono fermamente decisi a stare belli saldi, spalleggiandosi di volta in volta l’un l’altro».
È successo, in questi pochi mesi di legislatura, sulle materie giudiziarie che riguardavano la Presidenza del Consiglio e che certo non rispondevano a quell’immagine di «senso dello Stato» che rivendicava An all’inizio della propria traversata elettorale, sulle intemperanze del leader della Lega Bossi contro l’Inno e il tricolore, rimbrottate senza troppo seguito dagli uomini forti del partito di Fini.
Adesso tocca al Presidente della Camera, al delfino di Almirante, ricevere la solidarietà del resto del gruppo: «Io credo che An abbia un problema - continua Zampa - Il loro problema è la famosa lapide che alla stazione di Bologna porta la scritta “Strage fascista”. Loro, da sempre, la vogliono tirare via. Hanno provato in tutti i modi, con le buone e con le cattive. Questa è l’ultima trovata. Non c’è un’opinione pubblica che chiede di rimuovere ombre, come afferma Fini. L’altro giorno a Bologna c’erano, come accade ogni anno, centinaia di persone che, con una temperatura di quaranta gradi, riempivano via Indipendenza. Loro pensano che una sentenza è stata emessa e che va rispettata».

l’Unità 4.8.08
«Il Giornale» di Berlusconi ricorda la strage intervistando Fioravanti


«Il Giornale» di Paolo Berlusconi ha deciso di entrare sulla questione della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 in modo originale: intervistando quello che, assieme alla compagna e all’amico Ciavardini, è stato condannato per averla commessa. In una doppia pagina revisionista in cui è scritto, tra l’altro «in Italia non si può ancora dire che la sentenza di quel 2 agosto è un errore per non screditare la magistratura. E il Dc9 dell’Itavia è esploso per un ordigno piazzato dagli estremisti arabi», è l’immagine di Giusva Fioravanti, ex capo dei Nar (i Nuclei Armati Rivoluzionari), a venire fuori con prepotenza. Sotto il titolo conciliante «I familiari delle vittime mi han scritto: basta odio», l’uomo che in piazza Don Bosco, a Roma, freddò con un colpo alla nuca l’elettricista Roberto Scialabba, che fece fuori un geometra ventiquattrenne, Antonio Leandri, scambiandolo per l’avvocato Giorgio Arcangeli, che ammazzò un poliziotto di 19 anni, Maurizio Arnesano, per prendergli il mitra, e che, attraverso la sigla dei Nar, si è reso colpevole di decine di azioni violente, omicidi, intimidazioni, raid punitivi, e della strage della stazione, auspica per quest’ultima arrivata all’ultimo grado di giudizio «un nuovo processo a Roma con la speranza che ci sia un clima meno fazioso». Così, mentre si difende dall’accusa più infamante accreditando la solita pista palestinese e il coinvolgimento del terrorista internazionale Carlos, una breve nota biografica lo descrive: «Il neofascista. Dal film con la Fenech a capo dei Nar». E certo nel riquadro è scritto anche che è stato riconosciuto colpevole dell’omicidio di 93 persone (85 delle quali in qualla mattina d’agosto a Bologna), ma sembra un accidente che gli è capitato tra un film e l’altro.

l’Unità 4.8.08
Alleati contro la verità
di Gianfranco Pasquino


La commemorazione della strage alla stazione di Bologna si presta ogni anno regolarmente a tentativi di riscrivere quanto è stato accettato in via definitiva in sede giudiziaria attraverso cinque processi. Il tentativo più insidioso, ma non per questo meglio fondato, è quello che mira a individuare presunte responsabilità di una qualche pista, più o meno rossa, che coinvolga i palestinesi e qualche terrorista sciolto, ma che, soprattutto, consenta di togliere dalla lapide posta alla stazione la qualificazione «fascista».
In assenza di elementi nuovi che sono, come ha mostrato sulle pagine de l’Unità l’approfondita ricostruzione effettuata da Gigi Marcucci, alquanto sporadici e labili, la verità giudiziaria deve fare testo e costituisce, pertanto, il massimo di verità storica alla quale è finora stato possibile pervenire. Fino a che erano soltanto qualche ex-fascista e qualche ex-democristiano bolognesi alla ricerca di facile pubblicità a sostenere, senza uno straccio di elemento nuovo di una qualche rilevanza, la cancellazione dell’aggettivo «fascista», il problema si poneva esclusivamente sul piano della pur deprecabile polemica politica contingente ed effimera. Ad eccezione dei giorni intorno al 2 agosto, i “revisionisti” non si sono mai dedicati all’approfondimento dei loro sospetti. Invece, quando è il messaggio del Presidente della Camera a suggerire la necessità di indagare su un’altra pista, allora la questione diventa molto più delicata.
Da un lato, è curioso che sia proprio Gianfranco Fini, di cui non ricordo precedenti interventi in materia, a farsi sostenitore di una tesi al momento fragilissima. Proprio lui che ha fatto molto per allontanare la sua Alleanza Nazionale da un passato torbido, fatto anche di azioni teroristiche, si preoccupa oggi di un aggettivo che non dovrebbe più in nessun modo riguardare il suo partito tantomeno in proiezione futura. Perché attirare incautamente l’attenzione su un’attribuzione che i giudici hanno ritenuto credibile e definitiva? Forse soltanto per ricompattare l’ala dura del partito, con agganci in alcune frange esterne, che morde il freno dovendo sostenere e ingoiare provvedimenti sgraditi del governo in materia di giustizia? Dall’altro, forse, è persino paradossale che sia il capogruppo del Popolo della Libertà alla Camera, Fabrizio Cicchitto, agli inizi degli anni Ottanta cacciato dal Psi ad opera di Craxi perché trovato iscritto alla loggia P2, ad avallare il messaggio di Fini, con tutta probabilità anche per conto di Berlusconi. Quand’anche esistesse una pista diversa da quella fascista, rimane il caso di ricordare che i giudici hanno condannato per depistaggio più di un agente dei servizi segreti, appartenenti alla P2. Perché mai i piduisti avrebbero dovuto “coprire” i palestinesi e le responsabilità di qualche residuale terrorista rosso? Infine, è interessante notare che a questa opera di improbabile riscrittura dei fatti non si è in nessun modo prestato il rappresentante del governo, il ministro per l’Attuazione del Programma, Gianfranco Rotondi. Al contrario, subito criticato da qualche estremista ex-democristiano, Rotondi ha sottolineato l’importanza dell’antifascismo e dell’impegno civile della città di Bologna. Non è affatto un gioco delle parti poiché il ministro, che ha parlato a braccio, persino interloquendo, nella misura del possibile, con parte della piazza, esprimeva certamente le sue convinzioni personali, ma non poteva non impegnare anche, proprio per il suo ruolo e il suo compito, la posizione del governo. A maggior ragione, dunque, risultano oscure le motivazioni di Fini e il sostegno non richiesto, ma subito concesso, da Cicchitto, anche lui una new entry nel complesso e doloroso discorso di quanto ancora non sappiamo sulla strage di Bologna.
Qualcuno potrebbe affermare che il Presidente del Consiglio non può che appoggiare sia Bossi sia Fini quando costoro hanno delle difficoltà con le componenti più estremistiche dei loro rispettivi partiti. E che, dal canto suo, Fini ha bisogno di quell’appoggio e ha sfruttato l’occasione forse più controversa. Eppure “fascista” è una connotazione che non dovrebbe disturbare più il Presidente della Camera. Anzi, potrebbe consentigli di “depurare” Alleanza Nazionale da eventuali scorie rimaste. Sarebbe meglio per tutti, piduisti compresi, se possono permetterselo, rivolgere l’attenzione alla ricerca non di altri, improbabili esecutori della strage fascista, ma dei mandanti. I molti deliberati depistaggi e il passare degli anni rendono sempre più difficile illuminare quello che rimane il punto oscuro della strage di Bologna: chi ha armato, autorizzato, coperto gli stragisti? Con quali motivazioni si è potuto dare mandato per l’esecuzione della più sanguinosa strage della storia italiana? I giudici possono con impegno e meticolosità produrre una verità. Lo hanno fatto. I politici di vertice dovrebbero avere il compito, non di spostare l’attenzione dai fatti accertati e di inquinarli, ma di sgombrare il campo dagli ostacoli tuttora frapposti all’individuazione dei mandanti.

Repubblica 4.8.08
Bologna, le ombre e le intenzioni
di Giuseppe D’Avanzo


Nessuna sentenza scolpisce la Verità nella pietra. Di ogni sentenza si può dubitare. È soltanto la fallibile verità degli uomini scritta, quando le cose vanno per il meglio, al termine di un´operazione tecnica. Esiste una macchina procedurale. L´accusa formula le sue opinioni. Chi si difende le si oppone con contro-argomenti.
Il dibattimento pesa le une e gli altri. Ne convalida uno. Nel 1995 Giusva Fioravanti e Francesca Mambro sono stati condannati all´ergastolo come esecutori della strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti, 200 feriti). Si dichiarano da sempre innocenti. Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha voluto, nel giorno dell´anniversario della strage, far sentire la sua voce per chiedere che «si dissolvano le zone d´ombra che hanno suscitato perplessità crescenti nell´opinione pubblica intorno all´accertamento della verità sulla strage». Parole irrituali o, come ha detto il sindaco di Bologna Sergio Cofferati, addirittura «gravi» perché «sollecitano la riapertura di un processo sulla base di perplessità dell´opinione pubblica». Ammesso che davvero ci siano esitazioni nell´opinione pubblica – e ammesso che esista davvero l´opinione pubblica – «le perplessità» non possono essere un criterio per una revisione del processo.
Più utili le zone d´ombra. Ce ne sono? Quali sono?
Nel corso del tempo, in un´inchiesta e in un processo teatro di depistaggi di ogni genere e segno (per depistaggio sono stati condannati Licio Gelli e Francesco Pazienza, a dieci anni, e due ufficiali del Sismi, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte), si sono contate almeno tre piste alternative abitualmente designate con le formule: «falangisti libanesi»; «libici»; «depistaggio per Ustica».
La prima "pista" nasce dai ricordi di Abu Iyad, un dirigente palestinese. Dichiara che l´Olp ha fornito alla magistratura italiana «indizi» sulla responsabilità di fascisti italiani addestrati in Libano nei campi falangisti. La seconda ipotesi la indica un fascista: Stefano Delle Chiaie. Il suo avvocato sostiene che l´attentato alla stazione di Bologna era stato organizzato «per coprire la vera storia di Ustica», avvenuta un mese prima. Anche l´ipotesi libica nasce connessa alla strage di Ustica, ma ne attribuisce la responsabilità a Gheddafi. A luglio 1991 il parlamentare dc Giuseppe Zamberletti giura che la bomba alla stazione sarebbe stata una ritorsione per l´accordo tra Italia e Malta firmato proprio la mattina del due agosto 1980. (In una variante di questa teoria, i libici avrebbero agito in replica al tentativo di assassinare Gheddafi a Ustica).
Tutti gli intrighi sono stati esaminati dalla magistratura bolognese che ne ha riscontrato l´infondatezza e, in alcuni casi, la strumentalità. Negli ultimi mesi ha fatto capolino una nuova "certezza" già proposta dalla commissione Mitrokhin. L´ha proposta il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga. «Io, che di terrorismo me ne intendo, dico che la strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della "resistenza palestinese" che, autorizzati dal "lodo Moro" a fare in Italia quel che volevano purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente con una o due valigie di esplosivo. Divenni presidente del Consiglio poco dopo, e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così». La ricostruzione di Cossiga (che in realtà già era a capo del governo) sembra accostarsi alle rivelazioni di Carlos Ilich Ramirez Sanchez, «lo sciacallo»: «L´attentato contro il popolo italiano alla stazione di Bologna "rossa" non ha potuto essere opera dei fascisti e ancora meno dei comunisti. È opera dei servizi yankee, dei sionisti e delle strutture della Gladio. Non abbiamo riscontrato nessun´altra spiegazione». Giusva Fioravanti conclude che «la pista palestinese è ormai palese. Carlos ammette che quell´esplosivo era il loro e che a farlo brillare sono stati i servizi israeliani o americani».
Sarebbero queste le nuove zone d´ombra. E si fa fatica a crederle attendibili. Lasciamo da parte gli arzigogoli della "Mitrokhin", la più pasticciona "agenzia di disinformazione" che sia stata mai ospitata in un Parlamento. Carlos non dice che l´esplosivo di Bologna fosse della sua organizzazione. È Cossiga che dice che fosse patrimonio palestinese. Purtroppo il presidente emerito, nel corso degli anni, ha cambiato troppe volte versione per ritenere questo un racconto definitivo. È soltanto l´ultimo in ordine di tempo.
Il 4 agosto 1980, al tempo presidente del Consiglio, Cossiga dichiara in Parlamento che l´attentato alla stazione era un attentato «fascista» («Non da oggi si è delineata la tecnica terroristica di timbro fascista. Il terrorismo nero ricorre essenzialmente al delitto di strage perché è la strage che provoca paura, allarme, reazioni emotive e impulsive»). Il 15 marzo 1991, divenuto presidente della Repubblica, dice di essersi sbagliato nel definire «fascista» la strage; presenta le scuse al Msi; sostiene che «il giudizio da me espresso allora fu il frutto di errate informazioni che mi furono fornite dai Servizi e dagli organi di polizia. La subcultura e l´intossicazione erano agganciate a forti lobbies politico-finanziarie». Nel 2000, nuovo ripensamento. In una fatica memorialistica (La passione e la politica, Rizzoli) Cossiga scrive: «Mi hanno tempestato perché dicessi quello che so. Io non so nulla». Nel 2007, in un colloquio pubblicato in Tutta un´altra strage di Riccardo Bocca, il presidente emerito fornisce qualche elemento. Ricorda quel che ha saputo o già sapeva (chissà). La tesi dell´esplosivo palestinese gli sarebbe stata comunicata «nella prefettura felsinea, a ridosso dell´attentato (dunque nell´occasione in cui definì la strage "fascista"), dal capo dell´ufficio istruzione di Bologna, Angelo Vella» (massone).
Come si possono definire «zone d´ombra» quest´affastellarsi confusissimo e contraddittorio di ipotesi, congetture, ricostruzioni senza alcuna prova o indizio – se non indiscrezioni, non si sa da dove piovute? E tuttavia ammettiamo che lo siano: appaiono incoerenti le mosse dei protagonisti (Fioravanti e Mambro) e dei loro sostenitori (la leadership del Movimento sociale di un tempo ora al governo e in Parlamento).
Il processo di Bologna come tutti i processi di quel tipo è stato indiziario. Come sempre nei processi indiziari, ci sono fragilità e debolezze nella sentenza. Ora se si vuole riaprire il processo non c´è che da metter insieme un collegio di avvocati sapienti che, come prescrive la legge, raccolga «nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto». O che documentino come «la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato».
Il fatto è che non c´è traccia in questa storia né di un collegio di avvocati al lavoro né di una richiesta motivata (anche di là a venire) di revisione del processo. Il dibattito mai tecnico è tutto e soltanto politico. Nasce, si gonfia e prospera nei corridoi del Palazzo, nelle interviste senza contraddittorio, nelle audizioni e nei carteggi di rovinose commissioni parlamentari. È un dibattito che si sovrappone al conflitto tra magistratura e politica; al disegno del governo di screditare il lavoro delle toghe in attesa di una nuova riforma della Costituzione e dell´ordinamento giudiziario. Appare soltanto "occasione" di una politica e un´operazione di azzeramento delle identità e delle differenze. È una disputa che non cela di voler creare una memoria condivisa e artificiosa che è piuttosto «comunione nella dimenticanza», «smemoratezza patteggiata».
Lungo questa strada, Mambro e Fioravanti non avranno mai il nuovo giudizio che attendono. Questo dibattito – che mai affronta la controversia degli argomenti, il loro contraddittorio nel solo luogo che può dare concretezza ai dubbi – può soltanto umiliare gli ottantacinque morti della stazione. Perché, si sa, «si può far tutto con i morti, non hanno difese».

Repubblica 4.8.08
Strage, scontro sulle "zone d'ombra"
Pdl: da Fini dubbi legittimi. Pd: no, si è comportato da uomo di parte
di Francesco Bei


Il centrodestra fa quadrato dopo le accuse di Cofferati. Pellegrino: verità ancora da scrivere

ROMA - Palestinesi o fascisti? Verità giudiziaria o verità tout court? Dopo 28 anni intorno alla strage di Bologna è ancora polemica e questa volta sono state le parole di Gianfranco Fini - che da presidente della Camera ha inviato un messaggio ai familiari delle vittime augurandosi che si dissolvano le «zone d´ombra» intorno all´eccidio - a scaldare gli animi.
Dopo la dura replica del sindaco Cofferati al presidente della Camera (si veda l´intervista di ieri a Repubblica), a difesa di Fini e a favore della riapertura delle indagini si schiera il capogruppo alla Camera del Pdl, Fabrizio Cicchitto. «I dubbi avanzati da Fini - afferma - sono del tutto legittimi. A suo tempo è stato stabilito un singolare teorema a senso unico: per definizione la strage deve essere fascista, i suoi autori sono Mambro e Fioravanti, chi mette in discussione questi due assiomi è fascista o amico dei fascisti».
Ora invece che «seri dubbi sulla ricostruzione dei fatti» sono stati avanzati «anche da studiosi che nulla hanno a che fare con l´area Msi-An», «non si capisce perché - conclude Cicchitto - questi dubbi debbano essere bollati come indegni». D´accordo con l´esponente forzista è Francesco Storace, segretario della Destra, che si lamenta tuttavia dell´intervento del ministro Rotondi sul palco di Bologna: «Cicchitto ha ragione. Peccato che il rappresentante del governo alla manifestazione abbia parlato d´altro». Anche la Lega, con Mario Borghezio, plaude al «coraggio» di Fini e chiede l´apertura di una commissione d´inchiesta sui fatti del 2 agosto 1980 per «squarciare il velo delle verità di comodo».
E da sinistra, si fa sentire con l´Ansa l´ex presidente della commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, per il quale la verità sulla strage di Bologna è ancora tutta «da scrivere». Per Pellegrino Mambro, Fioravanti e Ciavardini «sono stati condannati sulla base di indizi» e quindi è difficile dire con certezza «se siano davvero colpevoli o innocenti». Riguardo all´ipotesi "palestinese", l´esponente del Pd ricorda che si tratta di una «vecchia pista» che venne seguita anche dalla commissione Stragi, ma che poi si decise di lasciar stare anche «per l´impossibilità di ascoltare Carlos a Parigi». Pellegrino lascia comunque intendere che potrebbero esserci novità: «Ora so che la Procura di Bologna sta seguendo una pista, staremo a vedere... Nel frattempo scambiare ipotesi per certezze, così come ha fatto anche Cossiga, è assolutamente sbagliato».
Intanto l´uscita di Fini sulle «zone d´ombra» continua ad alimentare la polemica politica. Sandra Zampa, deputato Pd (ed ex capo ufficio stampa di Prodi) dice di trovare «sconcertante che alte cariche istituzionali tornino a mettere in discussione una verità che è accertata». E dunque da Fini «ci si attendeva un intervento capace di superare l´appartenenza a una parte politica». Critica anche Silvana Mura, coordinatrice dipietrista dell´Emilia Romagna: «Forse sarebbe più utile che chi ricopre importanti cariche istituzionali utilizzasse la sua autorevolezza per sollecitare il governo a togliere il segreto di Stato sulla strage di Ustica, invece che mettere in forse una sentenza sulla base di ipotesi già vagliate e scartate dalla procura di Bologna».

Repubblica 4.8.08
Il sindaco di Roma: "Fini ha ragione, da Cofferati risposte dogmatiche"
Alemanno: "No a verità di comodo la pista palestinese va seguita è più credibile di quella nera"
di Giovanna Vitale


ROMA - Sindaco Gianni Alemanno, il presidente Fini ha auspicato che sulla strage di Bologna «si dissolvano le zone d´ombra». Dopo 5 gradi di giudizio che senso ha riaprire vecchie ferite?
«Fini ha perfettamente ragione perché c´è un´altra pista, quella del vecchio terrorismo palestinese, che soltanto da poco si è cominciata a esplorare. C´è un´inchiesta in corso: a giugno il sostituto procuratore Giovagnoli è stato in Germania per interrogare Thomas Kram, uno dei testimoni della pista palestinese. Che è quindi totalmente aperta e sembra molto più seria, molto più promettente della pista nera».
È una «verità comoda», secondo Gianni Alemanno, quella accertata dai giudici di Bologna che hanno condannato i neofascisti Mambro, Fioravanti e Ciavardini. Per l´esponente di An esiste un´altra verità «altrettanto credibile» e «mai indagata fino in fondo».
Perché sarebbe molto più seria e credibile?
«Partiamo da un presupposto: come mai la pista nera ha portato alla condanna di tre persone, accusate di essere gli esecutori materiali, ma non s´è mai trovato il mandante? È il risultato di processi indiziari che non sono mai approdati a una verità chiara, al vero movente, al vero mandante. Di contro, c´è questa pista del terrorismo internazionale che ha indotto il presidente Cossiga a chiedere scusa per aver dichiarato che la matrice era fascista e a suggerire di cercare gli autori nel Fplp. Ci sono una marea di riscontri in tal senso, indagati solo a partire dal 2005: io credo che si debba andare a fondo per capire se effettivamente questo filone può portare a qualcosa di più concreto rispetto all´altro».
Quindi ha torto Cofferati quando parla di tentativo di riscrivere la storia?
«Diciamo subito una cosa: la strage di Bologna è stato uno dei crimini più efferati della storia repubblicana. Quindi sono a fianco di Cofferati quando chiede verità e giustizia, però gli ricordo che la giustizia è sempre connessa alla verità. Quando si cerca la verità non bisogna fermarsi a quella che fa più comodo sostenendo, dogmaticamente, che la pista palestinese sulla quale c´è un´inchiesta in corso è falsa. Per me non c´è nessuna differenza tra chi denuncia che ancora i mandanti di Mambro e Fioravanti non sono stati trovati e chi dice "esploriamo anche altre piste", perché se i mandanti non sono usciti fuori è perché o la sentenza sulla matrice neofascista è parziale o esistono altre piste da verificare».
Eppure l´ex procuratore capo, Enrico de Nicola, sostiene che tutte le piste sono state sondate prima di formulare il verdetto...
«Noi abbiamo un parere rispettabile dell´ex procuratore capo e un altro del procuratore attuale che, sulla base dei risultati della Commissione Mitrokin, ha ritenuto gli elementi della pista palestinese meritevoli di indagine, tant´è che l´ha affidata al sostituto Giovagnoli. Come si fa a dire che c´è una verità sicura se è in atto un´altra inchiesta? È una violazione dell´autonomia della magistratura».
Quindi secondo lei Mambro e Fioravanti sono innocenti?
«Guardi, io non ho nessuno da difendere, non ho alcuna simpatia né atteggiamento di riguardo nei loro confronti. Però dico che di fronte a un fatto così grave non si possono continuare a ignorare altre piste. Mambro e Fioravanti si sono macchiati di reati gravissimi, ma forse non della strage di Bologna».
Quindi concorda con l´onorevole Cicchitto che proprio ieri ha parlato di «singolare teorema politico»?
«Io ritengo che la strategia della tensione abbia prodotto tante verità che si sono sovrapposte nel tempo e sulle quali non è stata fatta piena luce, e questo non riguarda solo Bologna. Spesso nel corso degli anni si sono preferite più verità comode e ideologiche che verità scomode. Dire che la bomba alla stazione potesse avere origine nel terrorismo internazionale era molto più difficile e problematico che addossare la colpa al terrorismo interno».
Che tuttavia proprio in quegli anni fece centinaia di morti...
«Lungi da me negarlo. Nei ´70 ci fu una guerra civile strisciante che peraltro cominciò dal maledetto slogan "Uccidere un fascista non è reato", urlato da vari gruppi dell´estrema sinistra che, falliti i loro obbiettivi rivoluzionari, decisero di convogliare tutta la loro energia nell´antifascismo militante. Suscitando ovviamente delle reazioni altrettanto dure da parte dell´estrema destra. E ciò fu un incubatore sia delle Br sia dei Nar. Purtroppo le istituzioni se ne accorsero solo dopo l´omicidio di Moro. All´inizio tesero a minimizzare, addirittura sostenendo che non esistesse il terrorismo rosso».
Uno dei suoi primi atti da sindaco di Roma è stato visitare le Fosse Ardeatine, dove condannò tutti i totalitarismi senza però mai fare riferimento al fascismo. Se la sente di farlo adesso?
«È ovvio che quando uno condanna tutti i totalitarismi non esclude quello italiano. Negli anni passati s´è cercato di fare una classifica tra dittature "buone" e dittature "cattive", che io non condivido. Si potrà scongiurare il loro ritorno solo se siamo tutti consapevoli dell´avvelenamento ideologico da cui originava il fascismo come il comunismo. Un clima che ha coinvolto non solo criminali ma anche persone in buona fede che si sono battute e sono morte per un ideale».

l’Unità 4.8.08
La politica s’inchina a sua maestà la menzogna
di Michele Prospero


Molti i modi di mentire: dal fornire una versione comoda dei fatti, all’inventare
pericoli inesistenti per eludere quelli veri

Il filosofo Giacché spiega come funziona e a cosa serve l’odierna fabbrica del falso: in primo luogo a «tenerci buoni»

«Le masse... cadranno vittime più facilmente di una grossa menzogna che di una piccola». Adolf Hitler in «Mein Kampf»

I TAGLI? SI CHIAMANO «RIFORME». Le torture? «Tecniche di interrogatorio rafforzate». Un tempo le verità inconfessabili del potere erano coperte dal segreto, oggi la guerra contro la verità è combattuta e vinta sul terreno della parola

Cosa tiene in piedi le società odierne nelle quali aumentano a vista d’occhio le differenze di potere e di ricchezza e però nessun accenno compare verso un rifiuto collettivo delle nuove forme di dominio? Come mai in un sistema sociale che sforna in continuazione inedite esclusioni e cronicizza la flessibile precarietà dei lavori regna ancora più piatta la sovrastante potenza ordinatrice del capitale? Cosa impedisce la rivolta degli attori sociali in un mondo in cui le vacche del nord guadagnano con i sussidi loro erogati il doppio dei salari dei lavoratori del sud? Queste domande sono al centro del libro di Vladimiro Giacché, La fabbrica del falso, che riflette all’interno di una serrata critica dell’ideologia contemporanea coniugando con finezza una cruda e molto informata descrizione dei processi reali e una sottile ironia.
L’autore, con alle spalle un dottorato di filosofia alla Normale, e un presente nei ruoli direttivi del mondo dell’economia e della finanza, dinanzi ai dilemmi di oggi suggerisce una risposta ai limiti della provocazione teorica. Il nucleo del suo ragionamento è questo: oggi mancano soggetti sociali combattivi perché il grande protagonista del discorso pubblico è diventata la fabbrica del falso. La menzogna con i suoi meccanismi linguistici di occultamento del dato empirico si afferma in ogni ambito del vissuto neutralizzando così i processi reali sempre più relegati su uno sfondo lontano e invisibile. Le parole chiave del lessico contemporaneo rivelano questa perdita di referenzialità che porta alla costruzione di eterei fantasmi che rendono impalpabili gli interessi sociali. Ci sono parole inventate solo per nascondere, altre invece servono per deviare e occultare.
Nel mondo attuale trionfa un aspro e selettivo sistema sociale che però preferisce rimuovere il suo ingombrante e ancora sospetto nome, capitalismo globale, per assumerne uno più mite e in apparenza gradevole, quello di economia di mercato. Il linguaggio tecnico con i suoi eufemismi leggeri contribuisce a fare del mercato proteso alla massimizzazione del profitto una cornice naturale e del tutto astorica. Per esemplificare questa torsione del linguaggio in chiave ideologica, Giacché conta che in un solo giorno la parola mercato compare ben 82 volte sul maggiore quotidiano economico. Persino il Trattato europeo parla per ben 78 volte di mercato, per 27 volte compare in esso la parola concorrenza e una sola volta esce il termine residuale occupazione. E le parole dominanti segnalano un più profondo cambiamento avvenuto nei rapporti sociali. I media rafforzano le potenze egemoni quando diffondono all’unisono una autentica metafisica dell’economia che attribuisce al mercato una ragione assoluta e contorce il senso del reale quando parla con trasporto di «restituzione» al mercato di imprese che però sono sempre state in mani pubbliche.
Oltre a parole che servono per addolcire o per sviare, la fabbrica del falso sforna parole che servono solo per stigmatizzare, per colpire un nemico immaginario per mettere all’erta altri più insidiosi. Giacché rammenta, a questo proposito, una risoluzione del 2006 con la quale il parlamento europeo invita a respingere l’ideologia comunista vista come in sé repressiva. Non se la passano bene al setaccio della repressione linguistica imperante neanche classici come Goethe, Kafka, Dostojevski che sono stati cancellati dai programmi scolastici polacchi perché giudicati immorali, nichilisti, e persino criminali. Il linguaggio serve anche a coniare parole spauracchio e per questo nella repubblica ceca è stata messa fuori legge la gioventù comunista perché nei suoi documenti ufficiali parla ancora di lotta di classe, mentre la costituzione vieta persino l’uso dell’espressione desueta e ormai criminogena. Con locuzioni devianti, con simboli ingannevoli viene coperto il crudo dominio postmoderno che Giacché rende bene con queste cifre: l’1 per cento detiene il 40 per cento del patrimonio finanziario e immobiliare del mondo, il 50 per cento delle popolazione accede solo all’1 per cento della ricchezza planetaria. Inoltre tra i 100 principali soggetti economici mondiali 51 sono imprese, 49 sono i paesi. Su queste basi materiali di dominio, lavora poi un immaginario leggiadro che nega la visibilità mediatica del conflitto e si rifugia in una neolingua del mercato che si autonomizza dalla politica.
La fenomenologia della menzogna prescrive come sua regola aurea che la visibilità stessa del disagio sociale vada sempre rimossa. Giacché ricorda che ad Atene, per i giochi olimpici del 2004, furono deportati 11 mila senzatetto. Negare la tangibilità delle contraddizioni della metropoli è un imperativo supremo per scacciare per sempre i problemi sociali dalla sfera pubblica. Per questo oggi nelle città si vieta l’accattonaggio e il sindaco si veste da sceriffo. In una società della merce, la vista del disagio estremo crea imbarazzo nei consumatori. E perché mai turbare i sensi esteticamente esigenti del consumatore finale con scene imbarazzanti di quotidiana povertà? Per gli ultimi basta la compassione, e la carità può prendere il posto della solidarietà pubblica. Importante è che nessuno pensi di mutare le condizioni sociali di esistenza, o prospetti addirittura strategie per i diritti. Vengono per questo progettate forme di esplicito depistaggio per inculcare in chiunque la paralizzante percezione di vivere insicuri. Lo Stato sociale viene così superato dallo Stato penale che deve inventarsi emergenze e nemici alle porte. Giacché rammenta che sotto Blair non solo si fece ricorso alla schedatura del dna, ma vennero impiantate 4,2 milioni di telecamere spia e inventati 3023 nuovi reati.
Per favorire l’ingresso nello Stato penale emergenziale, la menzogna più grande che viene fabbricata riguarda il lavoro. La sua sconfitta deve essere irreparabile e duratura. Le cifre al riguardo sono quelle che Giacché riporta. Trent’anni fa l’85 per cento della popolazione attiva aveva un lavoro stabile. Nel 2010 un impiego sicuro e protetto toccherà ad appena il 25 per cento. Il lavoro nelle sue retribuzioni non supera spesso la soglia di povertà. Già oggi 3 milioni di lavoratori percepiscono meno di 800 euro al mese e altri 3 milioni sono al di sotto dei mille euro. Esiste una povertà strutturale che nasce dal lavoro, non dalla esclusione dei derelitti. Eppure ciò che la grande officina del falso nasconde è proprio la ragione stessa del conflitto sociale per i diritti e per il salario migliore. In una società che rende ognuno un uomo precario, che può essere acquistato con decine di modalità contrattuali, sembrano sfumare le classi e con esse le ragioni della mobilitazione collettiva. Spesso si riscontra il paradosso, una vera forma di scissione la chiama Giacché, per cui il lavoratore, conferendo i soldi per la sua pensione ad un fondo pensione, si tramuta in investitore che potrebbe, per la sua stessa azienda, decidere delocalizzazioni, licenziamenti. In questi casi - conclude Giacché - non solo il lavoro non pagato origina il plusvalore ma è «il salario differito a trasformarsi immediatamente in capitale».
La immensa fabbrica del falso contribuisce a occultare il dominio reale facendo sì che una grande quantità di soggetti, da ritenersi senz’altro oggettivamente dei proletari postmoderni per reddito e condizione occupazionale, soggettivamente si sentano tutt’altro altro e rifiutino con sdegno ogni identificazione in termini di classe sociale. Interviene qui il miracolo del consumo che, in virtù di una gigantesca macchina mondiale adibita alla produzione illimitata dei desideri, rende tutti cacciatori instancabili di tendenze, sedotti dai messaggi della ricchezza a portata di mano, grazie a bancomat e carte di credito. Quando tutti inseguono la pubblicità per cercare di somigliare ai suoi modelli di consumo, declina ogni responsabilità civica. Compare così una democrazia sfregiata che perde ogni aggancio con l’idea di una eguaglianza da costruire con politiche di inclusione. Quello che continua a portare il nome di democrazia in realtà è sempre più uno stanco rituale con il quale una élite dell’economia e degli affari si lascia legittimare, a scadenze prefissate, dal voto passivo di elettori distratti e disincantati. Tra ingorde oligarchie del denaro e rampanti gestori dei media che si contendono il potere, la libertà torna ad essere una mera appendice della sicurezza e della proprietà che ovunque conquista posti di comando nelle istituzioni.
E che ne è del pensiero critico? La tendenza della società dell’iperconsumo è quella di fare del consumo l’unico collante sociale. Tutto l’agire sociale pare risolversi perciò in una ricerca frenetica di sponsorizzazione e in perenne organizzazione di eventi. Gli stessi luoghi classici di produzione del sapere, le università, entrano nel vortice del consumo e, benché prive di fondi per la ricerca, riescono a spendere per la pubblicità la bellezza di 20 milioni di euro. Come attendibile spirito del tempo Giacché riporta l’esemplare caso della pubblicità dell’Università di Macerata: «Liscia o Gassata? Università di Macerata fonte di cultura, sorgente di professionalità». Tutte le forme di espressione, anche quelle del sapere, assumono ormai i devianti codici espressivi della pubblicità. Depotenziato dalle metafore deformanti della neolingua della merce, il soggetto sociale ancora manca e non si presenta sulla scena pubblica. In attesa che qualcosa sconvolga la seduzione ingannevole della merce, Giacché propone di cominciare assediando intanto il linguaggio per ripulirlo, e per riconsegnare così il reale alla sua durezza espressiva. La filosofia è insomma il proprio tempo negato (per ora) solo con il pensiero.

Repubblica 4.8.08
La generazione perdente che va a destra
di Ilvo Diamanti


Rifondazione Comunista è implosa. Prima alle elezioni politiche del 13 aprile, dove è rimasta esclusa dal Parlamento. Poi, al congresso, dove si è divisa in due pezzi quasi uguali, a sostegno dei candidati alla segreteria: Vendola e Ferrero, il vincitore.
Anche se, in effetti, il partito è assai più frammentato, perché, fin dalle origini, raccoglie molteplici componenti dell´opposizione radicale di sinistra. Una galassia ai margini del sistema politico. "Minoranza", per definizione e per vocazione. Ma, anche per questo, uno dei riferimenti politici più significativi per i giovani. I quali hanno di fronte un futuro aperto. Amano le utopie. Pensano che sia possibile afferrare i sogni. Raggiungere "l´isola che non c´è". E cercano, inoltre, di definire la propria identità tracciando confini netti fra se stessi e gli altri. Contro padri e padroni. Per questo molti giovani hanno guardato alle posizioni più radicali della sinistra (ma anche della destra) con maggiore passione rispetto alle altre generazioni.
Oggi, però, ciò non avviene più. L´implosione (l´eclissi?) di Rifondazione Comunista è un segno, ma non il solo, del distacco dei giovani dalla sinistra. Non solo radicale, anche moderata. Si tratta della fine di un ciclo breve, che durava dall´inizio di questo decennio (millennio). Da quando, cioè, i giovani erano tornati a votare a sinistra, dopo circa trent´anni. Passata la vampata del Sessantotto, infatti, si erano raffreddate in fretta le speranze di cambiamento che avevano mobilitato ampi settori della società e, in particolare, i giovani. Frustrate dalle utopie del terrore, negli anni Settanta. Dal crollo dei muri e delle ideologie, negli anni Ottanta. Infine, in Italia, dalla fine della prima Repubblica e dei soggetti politici che l´avevano accompagnata. Dopo la stagione dei movimenti era emersa una generazione "senza padri né maestri" (per citare il titolo di un saggio di Luca Ricolfi e Loredana Sciolla), che si era rifugiata nella "vita quotidiana" (come evoca un altro testo, scritto da Franco Garelli). La domanda di cambiamento era defluita altrove, soprattutto nella partecipazione volontaria. Un fenomeno diffuso, cresciuto a contatto con i problemi di ogni giorno.
Così i giovani erano divenuti "invisibili". Confusi nell´ambiente sociale e locale. Pur diventando appariscenti sui media. Consumatori ed essi stessi consumo. Bersagli e attori di ogni campagna pubblicitaria. Protagonisti di serial e reality televisivi. Politicamente, si erano spostati al centro. Oppure "fuori" dalla vita politica. A sinistra, invece, erano rimasti i loro genitori. Quelli della mia generazione, che nel Sessantotto avevano intorno a 18 anni. Nati dopo la fine della guerra, nei primi anni Cinquanta. A metà strada, fra noi e i nostri figli, una "generazione perduta", come l´ha definita Antonio Scurati in un suggestivo (auto) ritratto pubblicato sulla Stampa. Nata alla fine degli anni Sessanta. Mentre la "rivoluzione" bruciava e si consumava altrettanto rapidamente. Nel 1989, vent´anni dopo, scrive Scurati, nella notte in cui cadde il muro "finì un´epoca della politica, ma per la mia generazione non n´è mai iniziata un´altra. Non a sinistra, quanto meno".
Infatti, fino alla conclusione del secolo, la classe d´età orientata a sinistra più delle altre è progressivamente invecchiata, da un decennio all´altro. I ventenni del Sessantotto. I trentenni negli anni Settanta. I quarantenni negli anni Ottanta. I cinquantenni negli anni Novanta. E via di seguito. Una generazione di nostalgici, che votano allo stesso modo, un po´ per speranza, un po´ per abitudine.
Solo dopo il 2000 i giovani sono tornati a sinistra. Soprattutto i "più" giovani. I miei figli. I fratelli minori di Scurati (se ne ha). In particolare gli studenti. Per diverse ragioni. La comune condizione di incertezza li ha resi inquieti. Una generazione senza futuro. La prima, nel dopoguerra, ad essere convinta (con buone ragioni) che non riuscirà, nel corso della vita, a migliorare la posizione sociale dei propri genitori. Poi, l´attacco alle torri gemelle e la guerra in Iraq. La globalizzazione economica e politica. Hanno alimentato l´insicurezza e il senso di precarietà, soprattutto fra i giovani. Che hanno "una vita davanti". Ma quale? Li hanno spinti a mobilitarsi e a manifestare (soprattutto gli studenti). Anche per sentirsi meno soli. I (più) giovani, infine, hanno maturato una competenza comunicativa e tecnologica diffusa. Capaci di stare in contatto fra loro, senza limiti di spazio e tempo. Di sperimentare linguaggi nuovi, inediti e largamente incomprensibili agli adulti. Sono divenuti una tribù. Mischiati agli adulti, eppure separati da essi. I (più) giovani. Quelli nati negli anni Ottanta, al tempo della caduta del muro. Quelli che non avevano conosciuto il Sessantotto, il terrorismo, la Dc e il comunismo. Quelli per cui CCCP è un gruppo di rock progressivo e Berlino una città di tendenza. Si sono spostati a sinistra. Perché dall´altra parte c´era Berlusconi. Il padrone dei media. Icona del potere nel mondo della comunicazione. A cui opporsi. Perché dall´altra parte c´erano gli amici di Bush e della guerra, ma anche i sostenitori del lavoro flessibile. Così, alle elezioni del 2001 e in quelle del 2006 i giovani hanno votato massicciamente a sinistra. Soprattutto, ripetiamo, gli studenti e i giovani con una carriera di studi più lunga.
Oggi questa stagione sembra conclusa. Era emerso anche nei sondaggi pre-elettorali, ma in misura minore a quanto si è poi verificato. Infatti, alle elezioni del 13 aprile 2008 (Sondaggio Demos-LaPolis, maggio 2008, campione nazionale di 3300 casi) appena il 31% dei giovani (fra 18 e 29 anni) ha votato per (la coalizione a sostegno di) Veltroni. Il 49%, invece, per Berlusconi. Una distanza larghissima, superiore a quella registrata fra gli elettori in generale. Alle "estreme" dello schieramento politico, invece, la distanza fra le parti si è annullata; anzi, quasi invertita. Il 3,2% dei giovani ha votato per la Sinistra Arcobaleno, poco più (oltre il 4%) per la Destra di Storace. Una tendenza ribadita, peraltro, dal voto degli studenti. Anche fra loro la coalizione a sostegno di Berlusconi ha superato il centrosinistra di Veltroni, seppure con uno scarto più ridotto: 42% a 37%. Mentre la Destra radicale è, a sua volta, più avanti della Sinistra Arcobaleno: 6% a 4%. Vale la pena di aggiungere che Di Pietro, fra i giovani, dimostra scarso appeal. Anzi: il suo peso elettorale è più ridotto che nel resto degli elettori.
Quasi una svolta epocale, insomma. Naturalmente, la spiegazione più facile è prendersela con loro. I giovani. Sospesi fra precarietà e un mondo di veline e amici, sarebbero stati risucchiati in un nuovo riflusso "conservatore". Vent´anni addietro, a un osservazione del genere, Altan faceva replicare a Cipputi: «Mi devo essere perso il flusso progressista…». Per capire il deflusso dei giovani verso la destra e il non-voto, però, è più semplice soffermarsi sullo spettacolo offerto dalla sinistra, riformista e radicale. Il Pd, attraversato da divisioni personali e di corrente. Intorno ai soliti nomi: Veltroni, D´Alema, Rutelli. Marini. Rifondazione: segmentata da fazioni e frazioni. Alcune che "pesano" il 3-4% in un partito stimato intorno al 2%. Pochi accenni, risaputi, evidenti a tutti. Sufficienti a comprendere perché la Sinistra non possa aiutare i 30-40enni della "generazione perduta" a ritrovarsi. Tanto meno i giovani – e gli studenti – a identificarsi. Si sentono una "generazione perdente". Perché dovrebbero affidare il proprio destino, la propria rappresentanza a una classe politica "perdente" di professione?
I dati citati in questo articolo sono disponibili su www.repubblica.it e www.demos.it

il manifesto 3.8.08
Alexandre Kojève
L'esperienza vissuta della libertà nell'assenza di Dio
di Roberto Ciccarelli


L'ATEISMO, DI ALEXANDRE KOJÈVE, QUODLIBET,
pp. 182, euro 22

«Questo libro è solo l'abbozzo di una mia fantasia, non è definitivo e per questo non va pubblicato». Posizionata in una nota alla fine di un'opera che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di un'opera mai più sviluppata, questa avvertenza di Alexandre Kojève a L'Ateismo avrebbe potuto scoraggiare ogni operazione editoriale. Così non è stato, come accade per i lasciti ingenti di filosofi, spesso e volentieri più ampi delle opere pubblicate in vita. Pensatore di ambizioni sistematiche, al punto da aspirare al sogno impossibile di un «sistema del sapere» sul modello delle grandi filosofie da Platone a Hegel, Kojève ha affidato a questo testo giovanile, scritto a ventinove anni nel 1931, e già pubblicato in Francia una decina d'anni fa, molti dei temi di quella che diventerà, nel corso degli anni successivi, la sua proposta di «religione atea». A ragione, Marco Filoni e Elettra Stimilli, i curatori di questa edizione italiana, hanno riproposto il flusso magmatico del testo così come è stato redatto dal suo autore, senza capitoli né paragrafi, per sottolinearne la duplice importanza.
Da un lato, l'ateismo pone le basi dell'antropologia kojèviana: l'uomo è cosciente che dopo la sua morte non ci sarà più niente e quindi è libero di vivere la propria vita. Dall'altro lato, questa posizione rivela un paradosso: se al di là del mondo c'è il «nulla», allora questo «nulla» esiste, in altre parole è un «fatto»: insomma l'uomo fa esperienza di quel «nulla» che è pur sempre il Dio che vuole negare. Non è dunque un caso che il giovane Kojève abbia abbozzato una «religione atea», essendo partito dall'idea che tutti gli uomini fanno esperienza della religione, anche se non tutti identificano tale esperienza nel culto di una divinità. È piuttosto la certezza di un'assenza, quella di Dio, a permettere loro di essere «uomini», e vivere di conseguenza, liberamente.
L'ateismo diventa così l'esperienza antropologica fondamentale a partire dalla quale l'uomo si distingue dall'animale. Letta così, questa prova kojèviana è paragonabile alle più mature riflessioni sul tema che Martin Heidegger aveva sviluppato nel 1929 nella sua celebre conferenza Che cos'è metafisica? La formula, suggestiva, di una «antropologia atea» verrà in seguito applicata da Kojève anche alla sua interpretazione della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, a partire dalla quale, tra il 1933 e il 1939, ha tenuto una serie di seminari che hanno influenzato un'intera generazione intellettuale, da Sartre a Lacan. Al termine di questo grande affresco, c'è da chiedersi se L'ateismo non ponga questioni anche a chi non condivide i dettami della teologia secolarizzata di Hegel, della quale Kojève è l'araldo.
Oggi, infatti, il problema di Dio non è più filosoficamente rilevante, se affrontato a partire dalla domanda sulla sua esistenza. In questo, non c'è dubbio che Kojève abbia incarnato lo spirito filosofico contemporaneo. Solo che la sua idea «paradossale» di ateismo, che associa l'esercizio della libertà alla meditazione sulla mortalità dell'uomo, altro non fa che depotenziare la libertà che tuttavia invoca, vincolandola ad un destino che sancisce la neutralizzazione della vita umana nei dispositivi di uno stato globalizzato, inquietante e totalitario.
Perorando la «fattualità» del nulla, questo ateismo sancisce anche l'insuperabile nullità dell'esistenza. Piuttosto che annichilire la vita con questa cieca, quanto forse inconsapevole, determinazione, al pensiero toccherebbe invece potenziarla. Il Novecento non è stato solo il secolo di aspiranti teologi. Forse sarebbe il caso di ricordarlo.

l’Unità 4.8.08
A San Gemini «Il campus delle arti» con fisici e musicisti
Se la musica sposa la scienza
di l.d.f.


Nel florilegio di piccole rassegne musicali estive che attraversano la penisola, il «Campus delle Arti di San Gemini» cerca di distinguersi grazie a un programma tematico. Quest’anno tocca alla relazione tra musica e scienza, rapporto che si fa risalire alla Grecia classica e a Pitagora, cui si attribuisce la scoperta delle relazioni matematiche che intercorrono tra i suoni. È la cosiddetta scienza musicale, per secoli in occidente a pieno titolo una branca della scienza tout court, che si proponeva di scoprire le leggi intime che regolavano tanto l’universo che l’anima - le leggi appunto dell’armonia cosmica e umana. La scienza musicale si è sgretolata sotto la luce della razionalità illuministica e della nuova sistemazione del sapere nata con Immanuel Kant: ne sono rimaste monadi sparse, tra loro irrelate, oggi di complessa interpretazione.
Di qui probabilmente la scelta del Campus di puntare a una lettura scientifica in chiave moderna della musica, già ieri con l’inaugurazione, una lezione-concerto tenuta dal fisico matematico Giovanni Federico Gronchi e dal pianista Konstantin Bogino: titolo emblematico «Il tocco del pianista», su come nasce e si propaga il suono del più complesso tra gli strumenti acustici. Seguiranno appuntamenti dedicati alla neurologia, alle tecniche di registrazione, alla natura dei diversi suoni. L’ultimo concerto invece sarà dedicato a Octandre di Edgar Varese, brano in cui l’antico spirito delle geometrie sonore rivive in una partitura del Novecento. www.campusdellearti.eu

Aprile on line 3.8.08
Bertinotti "riciclato"
Un corso universitario e una fondazione, sono i prossimi impegni nell'agenda dell'ex leader dell'Arcobaleno
di Renzo Butazzi


Ho letto in questi giorni che Fausto Bertinotti terrà un ciclo di lezioni alle facoltà di Giurisprudenza e Scienze Politiche dell'Università di Perugia. Il corso sarà ad ampio raggio, avendo la politica solo come spunto. Nei prossimi mesi, sempre secondo i giornali, "l'ex leader di rifondazione comunista darà vita anche a una Fondazione Culturale".
Le due notizie si prestano a commenti agrodolci. Potremmo cominciare suggerendo qualche titolo per il corso: "Pericoli del misticismo in politica", "Come l'abito non fa il monaco, il carisma non fa la politica", "La realtà consuma la teoria", "Gli slogan, più sono belli, meno durano".
Il corso potrebbe esser interessante e utile - anche per molti addetti ai lavori - se Bertinotti avesse capito davvero - meglio tardi che mai - quali sono le cose che non aveva compreso, quali gli atteggiamenti sbagliati, quali le differenze determinanti tra il filosofare e la realtà.
Naturalmente, oltre che aver capito tutto ciò, l'ex-presidente della Camera, dovrebbe anche volerlo e saperlo raccontare, senza fumosità e discorsi complessi destinati, più che a spiegare, ad accreditare questa nuova immagine di studioso, sulla quale insiste da dopo la sconfitta.
La costituzione di una Fondazione Culturale ci sembra il metodo ormai classico, sia per costruire un supporto all'immagine di Fausto Bertinotti, in via di etichettarsi ufficialmente come scienziato politico, sia per trovare finanziatori che aiutino a rafforzare la corrente ispirata da lui all'interno del partito e della sinistra vagante, soprattutto dopo che i proventi di deputati e senatori sono scomparsi.
A prescindere dai suggestivi e nobili obiettivi indicati negli statuti, a che servono infatti, le Fondazioni spuntate come funghi nel mondo dei politici più o meno in declino? Servono a dare risalto a chi le presiede, a chi fa parte del consiglio di amministrazione, a chi viene invitato a qualche convegno o seminario. E, soprattutto, servono a trovare finanziamenti per gruppi di pressione e correnti a corto di risorse e prive di personaggi che possano rimediare a tale scarsità con la capacità e il prestigio.

Aprile on line 31.7.08
Rifondazione senza meta
di Remo Rosati


Rifondazione senza meta Dibattito La chiusura verso la costituente di sinistra e l'abbandono dei temi delle alleanze e del governo, al centro della politica del nuovo segretario Ferrero, condurrà il partito in un vicolo senza uscita, anche qualora imbarcasse nell'impresa il PdCI

Il congresso di Rifondazione comunista, che si è chiuso come tutti sanno con la vittoria della prima mozione e la nomina di Paolo Ferrero alla segreteria del partito, piloterà, a mio modesto parere, la formazione politica in un vicolo cieco o, se vogliamo, in un viaggio senza una precisa destinazione.
La mozione di cui l'ex ministro è il primo firmatario si differenzia dalla mozione di Nichi Vendola in quanto privilegia il sociale, la lotta nelle piazze, nelle fabbriche, per i diritti, alla politica delle strategie elettorali, che tenga conto della lenta e faticosa, ma ineludibile costruzione intorno ad una precisa identità e un chiaro programma, per una coalizione che si ponga l'ambizioso obiettivo di ritornare al governo del paese.
Nell'ordine delle priorità sono pienamente d'accordo. Ho criticato il Partito Democratico proprio per aver animato una deriva politicistica, l'idea di una politica per il popolo senza popolo. Per questo sono più che mai convinto che un partito di sinistra debba forgiarsi nel rapporto con le classi più disagiate della collettività, che negli ultimi tempi si è andato sfilacciando non solo per le motivazioni sociologiche a tutti conosciute, ma anche per l'assenza, sul mercato politico, di forze capaci, serie ed autorevoli che si facessero carico di ascoltare e rappresentare nello spazio istituzionale le sofferenze e i disagi di una moltitudine di persone.
Tanto è vero che alle ultime votazioni di aprile abbiamo assistito ad un travaso di voti dalla sinistra radicale non solo al Pd, in ragione del voto utile, ma anche verso l'Idv e la Lega, cioè di partiti impregnati di populismo ma anche considerati più attenti e vicini alla fasce deboli del paese.
Reputo, inoltre, giusta l'affermazione di Ferrero secondo cui "il governo e l'opposizione non sono feticci", ma considero anche naturale che ogni forza politica, pur attraverso il semplice strumento della lotta sociale, si ponga, oltre il compito di far emergere il disagio sociale che altrimenti non emergerebbe nel suo reale spessore, l'arduo fine di promuovere strategicamente una rivoluzione culturale che ricostituisca quel senso di comunità, di appartenenza, direi di blocco sociale, soprattutto nella attuale fase storica in cui la frantumazione e la liquidità fanno da padroni nella realtà moderna, e getti le basi di un rafforzamento del consenso che preluda alla formazione di una massa critica, unica alternativa per ottenere risultati, alla ricerca di alleanze con altre formazioni politiche con cui condividere un futuro eventuale governo.
Non mi pare che Ferrero abbia imboccato una simile strada per via del rifiuto esplicito della costituente della sinistra e del ritorno nel proprio ovile ideologico e minoritario.
Ricordare, come ha fatto lo stesso Ferrero per sostenere la scelta di posizionare il partito in una condizione solitaria, movimentista e di opposizione, quelle conquiste conseguite dal Pci di Berlinguer negli anni ‘70 da una posizione minoritaria, è stato un errore. Soprattutto perché viene trascurato il notevole scarto numerico tra i due soggetti politici e il dato che il superamento della soglia del 30% seguì il fenomeno sociale e storico del '68, durante il quale la classe studentesca ed operaia sono state accomunate da un'unica spinta riformatrice.
A questo punto del discorso viene spontaneo porsi una domanda: la Rifondazione di Ferrero è in grado con il suo striminzito valore numerico, anche ammettendo un'alleanza con il partito di Diliberto, di raggiungere un grado di influenza sociale tale da uguagliare i fasti passati? Ma soprattutto è capace di fare questo in una società profondamente mutata dal punto di vista antropologico? Se la risposta fosse positiva, ma ne dubito, quanto tempo richiederebbe una simile sfida?
Alla luce di quanto detto mi pare più realistica e pragmatica la mozione 2 in cui il sociale viene coniugato con la politica del rinnovamento, con una costituente di sinistra, diversa naturalmente dall'esperienza della Sinistra Arcobaleno, ma capace di aprire la porta a tutti coloro che non iscritti a nessun partito hanno pur sempre desiderio di partecipazione e di coinvolgimento. Ritiene veramente Ferrero che la strada che intende percorrere in splendida solitudine intercetti le mille domande che provengono da categorie sociali una volta sconosciute, come i precari o gli immigrati? Ritiene che sia in grado nuovamente di incontrare quel mondo operaio ormai delocalizzato, parcellizzato e lontano anni luce da quel blocco sociale tipico del secolo scorso? I partiti nascono e si formano per fare proposte di sviluppo sociale, culturale, economico ai cittadini di un paese, ma devono anche porsi l'obiettivo di realizzare in concreto quello in cui credono. La chiusura verso l'unità, con chi, come Sinistra democratica, si è strenuamente adoperata per non far fallire un tentativo di aggregazione, non conduce da nessuna parte ed è destinata, mi dispiace dirlo, ad un puro fallimento.