mercoledì 6 agosto 2008

l’Unità 6.8.08
«Rom, la politica non ha fermato l’intolleranza»
Rapporto impietoso sull’Italia dell’Agenzia Ue sui diritti fondamentali. «Tutto parte da Ponticelli»
di Luca Sebastiani


UNO SPARTIACQUE C’è un prima e un dopo Ponticelli. Perché dallo scorso 10 maggio, quando il campo nomadi alle porte di Napoli è stato assaltato, l’Italia è diventata un osservato speciale. L’Europa si è allarmata per quelle fiamme e per le reazioni stig-
matizzanti della destra e ha puntato i riflettori sul nostro paese. Preoccupata per le ondate di razzismo e xenofobia. Tanto da produrre un rapporto sull’accaduto.
Se ne è incaricata l’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che in una trentina di pagine ha messo nero su bianco due mesi di cronaca italiana. I fatti, le risposte del governo, le reazioni politiche nazionali e internazionali. Dal 10 maggio, quando una rom è accusata d’aver tentato il rapimento di una bambina di Ponticelli, fino al decreto per la presa delle impronte digitali dei bambini rom. Una narrazione oggettiva e alla fine una conclusione che giudica «generalmente negativo» il discorso politico conseguente al «clima d’intolleranza generato dai fatti di Ponticelli». Perché l’Italia ha recepito la direttiva europea del 2000 che dispone la protezione contro le discriminazioni, e ha invece risposto all’emergenza avviata da Ponticelli con un pacchetto di misure che stigmatizza ulteriormente il diverso e fomenta il clima di razzismo.
Dopo aver dettagliato gli eventi che vanno dall’arresto della rom e il seguente assalto con bottiglie incendiarie del campo nomadi, il rapporto racconta gli altri fatti di cronaca che si sono prodotti in un quei giorni. Piccole e grandi discriminazioni, aggressioni e assalti. E le misure del governo. In particolare il Pacchetto sicurezza, che «include misure che facilitano la deportazione degli immigrati irregolari e criminalizza gli ingressi non autorizzati nel paese». E l’annuncio dell’intenzione di utilizzare i militari in un clima di stato d’emergenza nomadi in Campania, Lazio e Lombardia. Con tanto di Commissari straordinari a Roma, Milano e Napoli.
A fianco delle misure anche le parole di quei giorni. Quelle del Presidente della Repubblica Napolitano che denuncia un clima d’intolleranza che va contro i principi della Costituzione. Quelle muscolose della destra napoletana che chiede al sindaco della città lo sgombero di tutti i campi nomadi perché «è ora di finirla con le mezze misure». Oppure le frasi del ministro delle Riforme, che il rapporto non cita per nome, ma noi sappiamo essere Umberto Bossi, che in quel clima filosofeggiava spiegando che quando «il popolo perde la pazienza reagisce». O le parole del sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano, che lombrosianamente spiegava come ogni gruppo etnico sia legato a specifici crimini. Tesi rispresa dal Giornale, anch’esso finito nel rapporto per l’articolo in cui dimostra che «I rom rubano i bambini».
Visto dal rapporto dell’Agenzia dei diritti fondamentali, il clima italiano degli scorsi mesi appare alquanto fosco e caotico, irrazionale e preoccupante. Del resto, riporta il rapporto, durante tutto questo periodo le istituzioni internazionali non hanno mancato di richiamare l’Italia al rispetto dei diritti umani. Lo ha fatto il commissario alle Pari opportunità il 20 maggio di fronte al Parlamento europeo quando ha criticato il modo con cui si fanno passare i rom come criminali. E lo ha fatto anche la parlamentare europea Viktoria Mohacsi, che dopo aver visitato i campi nomadi di Roma e Napoli ha dichiarato a Strasburgo che la situazione dei rom in Italia è una delle peggiori in Europa. E poi ancora il Consiglio d’Europa, l’Ocse e l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu che ha criticato il governo per le nuove leggi sull’immigrazione irregolare. E, per finire, la reazione della Commissione europea che con una lettera ha chiesto spiegazioni al governo italiano sulla sua intenzione di censire i rom e prender loro le impronte digitali.
Con queste eloquenti prese di posizione internazionali, non c’è da sorprendersi che l’Italia sia finita sotto la lente d’osservazione europea. E neanche che un’Agenzia come quella per i diritti fondamentali si sia interessata del nostro paese.

l’Unità 6.8.08
Stefano Rodotà. Membro dell’Agenzia: ma il rapporto è stato chiesto prima
«L’Europa ci guarda con preoccupazione»
di lu. s.


Stefano Rodotà è presidente del comitato scientifico dell’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione europea. «Ma solo dal 16 luglio», ci tiene a precisare. Affinché non si creda che nel rapporto sui «Violenti attacchi contro i Rom nel quartiere Ponticelli di Napoli» ci sia il suo zampino. Il rapporto è stato commissionato prima, a ridosso dei fatti riportati.
Rodotà, non è che nel rapporto su Ponticelli c’è un po’ di pregiudizio anti italiano?
«Assolutamente no. L’Agenzia produce rapporti su razzismo e discriminazione nei 27 paesi Ue e se si è interessata a Ponticelli è perché gli eventi di quei giorni e le politiche che ne sono seguite hanno destato la preoccupazioni dell’Unione, di cui l’Agenzia è appunto un organismo».
L’Europa è inquieta per l’Italia?
«I fatti di Ponticelli hanno colpito moltissimo fuori dal nostro paese, perché un assalto con bottiglie incendiarie ad un campo rom non solo non era mai successo in Italia, ma neanche in un altro Stato membro dell’Ue. È stato un campanello d’allarme che ha fatto puntare i riflettori sulla Penisola.
Un allarme dovuto anche alle risposte del governo?
«Indubbiamente il fatto che in questo momento ci siano in Italia una serie di politiche che stanno assumendo un carattere particolarmente inquietante ha giocato molto. L’Europa se ne è accorta e ci tiene sotto osservazione. Ed è bene che sia così perché l’appartenenza all’Ue e l’esistenza di una Carta dei diritti fondamentali richiede che su questo terreno l’Italia si muova nella maniera conforme ai principi di democrazia».
Dunque un giudizio critico sulle misure del governo?
«Il fatto che nel rapporto siano riportate le prese di posizione delle altre istituzioni europee che non avevano come oggetto i fatti di Ponticelli ma le misure del governo italiano, è indicativo di come siano oggetto di attenzione critica. L’Europa valuta la congruenza con i criteri adottati a livelli europei.
C’è un prima e un dopo Ponticelli per l’Italia nell’Ue?
«Fino ad un certo punto, indubbiamente, l’Italia non era considerato un paese in cui ci fossero elementi che giustificassero un allarme tale. Ma quando tutte le mosse del governo sono di stigmatizzazione nei confronti dei rom, quasi si debba creare un nemico interno, allora scatta il campanello d’allarme».

l’Unità 6.8.08
Morti sul lavoro record, Il doppio degli omicidi
Indagine Censis: l’Italia ha il triste primato in Europa
di Massino Palladino


OMICIDI BIANCHI Più di mille morti. Il lavoro in Italia esige un sacrificio umano pesantissimo. È la denuncia del Censis: le vittime sul lavoro, lo scorso anno, sono state 1.170. Di queste, 609 lungo il tragitto casa-lavoro. Un prezzo tanto alto da essere superiore
anche ai morti causati dalla criminalità. I numeri dell’Istituto di ricerca sono tremendi: le morti bianche sono il doppio degli assassinati, e il conteggio si alza ancora se si calcola chi muore nel tragitto casa-lavoro o negli incidenti stradali durante il lavoro (i camionisti, ad esempio, o chi lavora nei cantieri stradali). Nel 2007 sono stati almeno 609 gli infortuni «stradali», e l’Italia è il Paese europeo dove si muore di più sul lavoro. non rilevati in modo omogeneo da tutti i Paesi europei, si contano 918 casi in Italia, 678 in Germania, 662 in Spagna, 593 in Francia (ma in questo caso il confronto è riferito al 2005).
Ma il rapporto del Censis snocciola altri numeri che sottolineano lo scarto tra le politiche di prevenzione con altri Paesi: sono le vittime degli incidenti stradali. Nel 2006, in Italia, i decessi sono stati 5.669, un dato che supera quello registrato in altri Paesi europei anche più popolosi del nostro come Regno Unito (3.297), Francia (4.709) e Germania (5.091). Gli altri Stati, riporta il Censis, hanno fatto meglio di noi per ridurre gli incidenti sulle strade. Un esempio per tutti: nel 1995 la Germania era maglia nera, con 9.454 morti, ridotti a 7.503 già nel 2000, per poi diminuire ancora ai livelli attuali. In Francia, si è passati dalle 8.892 vittime sulle strade nel 1995 a 8.079 nel 2000. La riduzione in Italia c’è stata (i morti erano 7.020 nel 1995, 6.649 nel 2000, fino agli attuali 5.669), ma non in maniera così rapida, sottolinea il Censis «tanto da diventare il Paese europeo in cui è più rischioso spostarsi sulle strade».
Eppure fanno notare dall’Istituto di ricerca, nonostante i decessi sul lavoro e quelli legati a incidenti stradali superino gli omicidi, «nel nostro Paese gran parte dell’attenzione pubblica si concentra sulla dimensione della sicurezza» dove invece sembra esserci un’altra realtà. Il numero degli omicidi in Italia infatti continuerebbe a diminuire: dai 1.042 casi nel 1995 agli 818 nel 2000, fino a toocare quota 663 nel 2006 (-36,4% in 11 anni). Dati inferiori rispetto all’Europa, dove pure si registra una tendenza alla riduzione: 879 casi in Francia (erano 1.051 nel 2000), 727 in Germania (erano 960 nel 2000), 901 casi nel Regno Unito (erano 1.002 nel 2000).
Mentre il governo concentra le politiche sulla sicurezza e l’ordine pubblico, mobilitando perfino l’esercito, il vero problema - dicono i numeri del Censis - è la sicurezza sul lavoro, e la mancanza di una cultura di prevenzione. Lo dimostrano anche gli infortuni di ieri, sia pur non mortalil. A Firenze un giovane operaio dell’Icar si è schiacciato le dita di una mano sotto una pressa; e a Merano due operai sono caduti in una vasca mentre stavano effettuando lavori di manutenzione a un impianto per la raccolta di acque nere. Le loro condizioni rimangono però serie.
Tra i primi a commentare i dati, Cesare Damiano, parlamentare Pd ed ex ministro del Lavoro: «È triste la notazione del Censis secondo la quale si muore di più sul lavoro che per altre cause come l’omicidio. L’ultimo dato ufficiale dell’Inail relativo al 2007, in attesa di un consuntivo definitivo, ci dice che i morti sono stati 1210, in calo rispetto ai 1341 dell’anno precedente». I migliori risultati raggiunti, continua Damiano «sono dovuti allo sforzo compiuto contro il lavoro nero e la precarietà. Le nuove norme contenute nel testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro vanno difese e applicate». A chiedere maggiore sicurezza c’è anche Legambiente: «Chiediamo la riduzione dei limiti di velocità, anche in autostrada e la messa in sicurezza delle tratte stradali più pericolose». Secco infine il commento di Carlo Leoni di Sd: «Se proprio si vogliono usare i militari, li mandino nei cantieri delle stragi bianche».

l’Unità 6.8.08
Sinistra radicale in piazza prima del Pd
All’inizio di ottobre. Veltroni: «Il merito non c’entra, l’avrebbero fatta lo stesso»
di Andrea Carugati


LA SINISTRA si rimette in moto, e punta a una grande manifestazione contro il governo «entro i primi di ottobre». Prima di quella del Pd, dunque, prevista per il 25 dello stesso mese. «Altrimenti non si incide sulla finanziaria, si fa solo una manifestazione
di commento», spiega il neosegretario di Rifondazione Paolo Ferrero, che ieri ha incontrato Veltroni e il coordinatore di Sinistra democratica Claudio Fava, prima di pranzare con Antonio Di Pietro. Un trittico di incontri che dà la cifra della strategia del Prc per l’autunno. Cortese ma profonda distanza con il Pd, «ricostruzione di una opposizione di sinistra» e dialogo, ma solo sui temi della giustizia, con l’Idv. Sul Pd, Ferrero è stato netto: «Con Veltroni abbiamo preso atto di differenze di valutazione consistenti. Ci sono prospettive diverse, al momento un’alleanza è assolutamente inimmaginabile». «Se ci sarà in autunno un inasprimento del grado di opposizione del Pd valuteremo se cambiare il tipo di relazione», aggiunge il leader del Prc. E Veltroni: «La distinzione profonda delle nostre posizioni non deve diventare guerra o insulti. Si può essere diversi senza l’annientamento reciproco». Quanto ai governi locali, si deciderà caso per caso «sulla base dei programmi», è la comune valutazione. Ferrero ha anche chiesto a Veltroni di spendersi perché non ci siano modifiche alla legge elettorale per le europee, il leader del Pd ha ribadito la sua proposta di uno sbarramento al 3%. Quanto alla manifestazione della sinistra, dice Veltroni: «Credo che l’avrebbero fatta prima di noi a prescindere dalle ragioni di merito...».
Più vicine le posizioni tra Ferrero e Fava, soprattutto sull’unire tutta la sinistra, politica e sociale, in una comune battaglia contro il governo, sia sui temi sociali che su quelli della difesa della Costituzione e delle leggi ad personam. Restano però distanti le posizioni tra Prc e Sd sul futuro della sinistra. Fava e Mussi continuano a spingere per una costituente di sinistra, Ferrero ha vinto il congresso sull’idea di ripartire dal Prc. «Ma sui punti di merito si può lavorare insieme», dice Fava. «A noi interessa stare insieme sul fare, non unire gli stati maggiori dei partiti», spiega Ferrero. E Di Pietro? Sia Fava che il leader del Prc guardano con grande attenzione al referendum sul lodo Alfano proposto dal leader Idv. Ma è quasi impossibile che l’opposizione dipietrista e quella di sinistra si ritrovino in piazza insieme: «Non ne vedo le possibilità per ragioni di contenuto», dice Ferrero. «Penso alle grandi opere, all’immigrazione, alla sicurezza, al rapporto con Confindustria. In ottobre porteremo in piazza una opposizione di sinistra, ma contro il Lodo Alfano ci potranno essere convergenze». Fava è più disponibile al dialogo con Di Pietro: «Importante è che sia una manifestazione in cui non ci sono padroni di casa e ospiti, come è successo a piazza Navona, deve essere un incontro tra pari». Intanto nel Prc si inasprisce il caso Calabria: nonostante il secco no di Ferrero, il partito calabrese (guidato dall’ala vendoliana) ha deciso di rientrare nella giunta Loiero con l’assessore al Turismo Damiano Guagliardi.

l’Unità 6.8.08
Aspettando Gagarin
di Fulvio Abbate


Oh, come sarebbe bello appassionarsi al futuro di quella cosa che prende addirittura il nome di Partito della Rifondazione comunista. Appassionarsi per ragioni, come dire?, se non proprio ideali, almeno feticistiche, collezionistiche, come davanti a un cruciverba estivo. O forse perché molte delle parole e dei gesti messi in campo sia dal compagno Vendola sia dal compagno Ferrero ti sono familiari, le conosci, le riconosci, ti sembra di averle udite mille volte, e dunque, come tutte le cose consuete, ti danno un senso di calore, servono a rassicurarti, a illuderti che il mondo non sia destinato a tradirti, ad andare da un’altra parte, a cambiare: no, che non cambierà, cazzo! Quanto invece alla prospettiva, il cosiddetto comunismo, meglio accantonare la questione, se non altro per ragioni di tempo limitato a disposizione.
Resta tuttavia il problema dell’esistenza di una forza d’opposizione che sappia esistere a partire dalla propria radicalità, visto che a rassicurarti non possono certo bastare i convincimenti dei moderati, insieme al loro cinismo, quando questi ripetono che il mondo in definitiva va bene così com’è. No, che non possono bastare i discorsi circonfusi di buonsenso di chi reputa che perfino il diritto a una piena laicità corrisponda a chiedere, pretendere, esigere troppo.
Oh, come sarebbe bello riuscire ad appassionarsi pienamente, e senza riserve, leggendo e rileggendo questa o quell’altra mozione che sembra farti rivivere perfino le parole che un tempo furono care a un Trotskij o a una Rosa Luxemburg, e allora non puoi fare a meno di pensare che non tutto sia ormai scaduto, e non c’è da vergognarsi a sollevare il pugno chiuso, come ha fatto il nuovo segretario Ferrero, e intanto intonare «Bandiera rossa», come appunto in un rito purificatore, catartico, come in un grande momento cerimoniale, come dopo un orgasmo, come dopo una gita al santuario.
Oh, come sarebbe bello pensare che il ritorno dei Comunisti italiani di Oliviero Diliberto nella tana di Rifondazione possa essere salutato come un fatto “epocale”, una roba in grado di smuovere le montagne, dove anche le forze primarie della natura prendono parte all’evento, sollevando un’eco che risuona da una cima all’altra per acclamare il ripensamento del compagno segretario sardo del Pdci che finalmente si ravvede e dichiara che «due partiti comunisti sono un po’ troppi», e allora rivai con i pugni chiusi e il canto di «Bandiera rossa», e magari, già che ci siamo, con un nuovo dibattito su Togliatti e “la svolta di Salerno”, e così sia come se nulla fosse accaduto nel frattempo.
Oh, come sarebbe bello, nel contempo, non sentire più i discorsi di quegli altri che, colmi di realismo e di senso della responsabilità, vanno ripetendo che soltanto in Italia esiste ancora una questione comunista, nel senso che da nessuna altra parte del mondo, a parte il Nepal dove alle elezioni hanno vinto i maoisti, si sta ancora discutendo sull’opportunità d’uscire dalla Nato e di mettere fuorilegge l’ormai dissolto Msi, e ancora organizzare un pubblico seminario sul tema della prospettiva rivoluzionaria nel’America Latina, fra il passamontagna di Marcos, le Farc e ciò che resta della memoria del Che. Senza dimenticare, già che ci siamo, il ricordo dell’assalto al Palazo d’Inverno.
Oh, come sarebbe bello immaginare, già che ci siamo, la rinascita dell’Urss, con il ritorno alla conquista spaziale, con questo o quell’altro dirigente comunista nostrano che scelga di rinunciare a presidiare almeno temporaneamente il congresso del suo partito per affrontare l’avventura del cosmo, e così si va tutti a salutarlo alla partenza, si canta, come è doveroso, «Bandiera rossa» e «l’Internazionale», si sollevano i pugni chiusi, si applaude fraternamente vedendo il vettore che s’allontana nel cielo, e poi, come quando è il momento delle ferie estive, si torna tutti alla realtà. Oh, come sarebbe bello.
f.abbate@tiscali.it

il Riformista 6.8.08
Fu Unione. All'incontro con Veltroni il nodo è il quorum europeo
Sinistra in piazza, Ferrero lancia la nuova sfida al Pd
di Alessandro De Angelis


Del primo incontro, ieri alla Camera, tra il neosegretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero e Walter Veltroni restano agli atti dichiarazioni che confermano una distanza per ora incolmabile: «Le differenze di valutazione sono consistenti e quindi ci sono prospettive diverse. Al momento è assolutamente inimmaginabile un'alleanza con il Pd», spiega Ferrero. «Le posizioni restano distinte, ma non c'è bisogno di farsi la guerra», conferma, provando ad ammorbidire, Veltroni. Del successivo casuale incontro in Transatlantico tra Ferrero e Massimo D'Alema resta invece un pubblico e gustoso scambio di battute. «Ha vinto la squadra per cui non facevi il tifo», provoca Ferrero, ricordando il sostegno manifestato dall'ex ministro degli Esteri al suo antagonista Nichi Vendola. «Io di solito tifo per le squadre che giocano bene...», punge D'Alema. «Non mi pare che la squadra di cui parli abbia giocato molto bene», ribatte il segretario comunista. E l'altro: «Beh, contano tanti fattori: l'arbitro, il campo...». Dal primo come dal secondo colloquio esce confermato un quadro di rottura prolungata: la separazione consensuale tra Veltroni e Bertinotti è diventata un divorzio. Che potrebbe diventare guerra guerreggiata, ha spiegato Ferrero a Veltroni, se il Pd collaborerà a introdurre una soglia di sbarramento elevato alle prossime europee. Il 3 per cento, al limite, andrebbe bene anche ai comunisti (che ufficialmente chiedono di non mettere mano alla legge), non certo il 4, la cifra su cui Pdl e Pd potrebbero accordarsi. Veltroni ha garantito che per lui il quorum perfetto resta il 3. Ferrero non si fida troppo. «La riforma sarebbe un colpo di Stato», dice al Riformista .
I rapporti tra le due gambe della ex Unione sono comunque più complessi di quanto le parole lasciano intendere. L'attivismo di Ferrero, che si è intrattenuto a lungo anche con Pierluigi Bersani, conferma che era quantomeno semplicistico ipotizzare un Prc barricato sulla rocca del marxismo-leninismo. Del resto, anche la linea più ortodossa deve fare i conti con la realtà: Rifondazione è in giunta col Pd in molte realtà toccate dalla prossima tornata amministrativa del 2009, e ancora prima verrà il test dell'Abruzzo, dove tutto il fronte di centrosinistra - in qualunque forma deciderà di presentarsi - rischia un rovescio di proporzioni bibliche. Ferrero ha voluto lanciare un segnale di disponibilità allo stato maggiore democrat per trovare in futuro intese in quelle realtà locali dove sarà possibile (sempre a meno di sorprese sul quorum europeo). Intanto, però, ha confermato ieri ad Agazio Loiero che il Prc non rientrerà nella giunta della Calabria.
Non meno ingarbugliata è la situazione nella ex sinistra Arcobaleno, che quasi tutti i suoi fondatori vorrebbero rottamare - lo stesso Ferrero ha vinto il congresso, su questa linea - ma che non è così semplice da mettere alle spalle. In molti consigli gli eletti della sinistra rosso-verde fanno gruppo e, se alle europee la tentazione della conta è forte, alle amministrative il rompete le righe a sinistra rischia di tramutarsi in un suicidio collettivo. Per questo Ferrero, dopo gli abboccamenti con Grazia Francescato e Oliviero Diliberto, ha visto ieri il coordinatore di Sinistra democratica Claudio Fava. Sulle schede non tornerà l'Arcobaleno, ma il tentativo è rilanciare una qualche prospettiva comune a sinistra partendo dalla piazza e cioè dalla manifestazione "alternativa" del 20 ottobre contro la finanziaria, cinque giorni prima di quella già convocata dal Pd (commento di Veltroni: «Se noi avessimo scelto di fare la manifestazione il 19 ottobre, sono sicuro che loro l'avrebbero fatta il 12...»). La manifestazione di ottobre vuol essere la piazza Navona della sinistra radicale, una sfida al Pd su chi interpreta meglio contenuti e modi dell'opposizione. E infatti se Veltroni minimizza il doppio appuntamento, Ferrero lo smentisce: «Il segretario del Pd eccede in buonismo quando sostiene che le manifestazioni dell'autunno non avranno differenze di merito». A proposito di piazza Navona: Ferrero non abbandona l'idea di una qualche collaborazione con Antonio Di Pietro. E ieri il comunista e l'ex pm hanno condiviso il desco al ristorante di Montecitorio.

Corriere della Sera 6.8.08
Il partito Il Bsp ha messo insieme brahmini e dalit I paria Sono 200 milioni. Costretti ai lavori più umili
La scalata degli Intoccabili Cambia l'India delle caste
La sfida di Mayawati, regina discussa e molto popolare
di Paolo Salom


È la regina degli intoccabili. Behenji, sorella, di 160 milioni di indiani — i dalit — costretti a guardare il mondo dal basso della loro infima condizione di fuori casta. Mayawati Kumari, per tutti soltanto Mayawati secondo l'uso dei paria, ha però deciso di spezzare le catene assegnate dal destino e conquistare un onore che mai nel passato una come lei aveva osato sognare: guidare l'India. A 52 anni, l'umile figlia di un impiegato, cresciuta in una baraccopoli di New Delhi, amata da molti ma detestata dai più, combatte una battaglia che potrebbe rivoluzionare il futuro del Subcontinente. La sua formazione, il Bahujan Samaj Party (Bsp), alle prossime elezioni generali — nel 2009 — potrebbe diventare l'avanguardia di un «terzo fronte» in grado di scardinare l'alternanza di potere tra il Partito del Congresso dei Gandhi e i nazionalisti indù del Bharatiya Janata Party (Bjp).
Un compito non facile. Mayawati come Nehru o come Indira? In realtà, questa parlamentare controversa, dalla personalità fortissima, sta costruendo la sua fortuna con un'abilità e una lucidità raramente mostrate sulla scena di un Paese che adora ancora affidarsi alle dinastie, possibilmente ai brahmini. Lei è unica, non assomiglia a nessuno, se non altro per il suo stile di governo: a un tempo visionario e spietato.
«L'emergere di Mayawati ha aperto un nuovo orizzonte a diversi gruppi politici— ha spiegato alla Bbc Shekhar Gupta, direttore del quotidiano Indian Express —. La sua immagine giganteggia. Il terzo fronte è nato e Mayawati ne è il fulcro». In realtà, il partito di Mayawati a livello nazionale è ancora debole (17 parlamentari su 802) ma a livello locale è forte nello Stato più importante della Federazione, il popoloso Uttar Pradesh, dove l'anno scorso ha conquistato la maggioranza assoluta (e lei è diventata
chief minister, come dire governatore). Ma è la strategia adottata dalla regina dei dalit che ha fatto gridare al miracolo e ha trasformato i sondaggi in un'incoronazione annunciata. Mayawati, infatti, sta plasmando il suo potere su un'alleanza che trascende l'appartenenza di casta o di religione — il vero tabù in India. Ha convinto 52 brahmini (la casta che sta al vertice) a fare campagna elettorale a fianco degli intoccabili. Non solo: nello stesso partito convivono anche 29 esponenti di religione musulmana. Nel Paese — la più grande democrazia del mondo — che vede le baruffe tra indù e islamici sfociare in stragi ripetute, è forse il segno più evidente della capacità di questa donna eterodossa — una vera lady di ferro — di attirare il consenso, nonostante alcuni aspetti controversi che ne fanno un'icona per nulla immacolata.
Un esempio? Lei, nata povera e senza diritti, adora vivere nel lusso (le sono intestate diverse proprietà) e non si preoccupa di nascondere in pubblico gioielli da Mille e una notte. Quando è seduta alla sua scrivania di chief minister dell'Uttar Pradesh, inoltre, dipendenti e collaboratori bussano alla porta tremebondi e finiscono ginocchioni al suo cospetto: Mayawati licenzia con la facilità con cui respira. Ciononostante, in India la sua carriera è portata ad esempio. E la possibilità che diventi primo ministro — se può sgomentare molti — è vista come il segno dei tempi che cambiano, un passaggio di immenso valore simbolico.
«Significherebbe — spiega l'analista politico Mahesh Rangarajan — che può farcela anche una donna dalit nata in uno Stato povero e popoloso, una persona che si è guadagnata il rango attraverso lo studio e la fatica, non ereditandolo attraverso il matrimonio o il lignaggio». Del resto, come avrebbe potuto? Nata il 15 gennaio 1956, Mayawati, da ragazzina, si divideva tra la scuola (dove andava scalza) e l'aiuto domestico. Suo padre e sua madre potevano sacrificarsi per darle un'istruzione. Ma una cosa non avrebbero mai potuto assicurarle: una vita libera dal disprezzo che i dalit, gli «oppressi », attirano per il loro essere semplicemente quello che sono agli occhi di molti indiani: gli ultimi, i reietti, i destinatari di una vita miserabile perché così è stabilito «per sempre» dal ciclo della vita. Non per Mayawati, però. Che studia, si laurea in legge e diventa insegnante per conquistare il diritto, per sé e per quelli come lei, di bere il tè nelle stesse tazze dei brahmini, o di attingere l'acqua nei pozzi comuni. La condizione di casta tuttavia si imprime sulla sua coscienza, scatenando una rabbia che, una volta entrata in politica, non cercherà mai di dominare: «Lasceremo sulle caste alte l'impronta delle nostre scarpe», ebbe a dire un giorno uscendo da un comizio. Frase mai smentita che le era sgorgata dal profondo.
D'altro canto è proprio per questa sua «forza primordiale», per questa capacità di esaltare e trasformare le debolezze in vantaggi che Mayawati fu scelta e considerata sin dall'inizio «l'erede» da Kanshi Ram, fondatore nel 1984 del Bsj, il partito nato con lo scopo di dare voce ai dalit. Kanshi Ram, di fronte alla sua protetta, aveva subito preconizzato un futuro che allora appariva semplicemente inconcepibile. Lei, che aveva inutilmente cercato di superare gli esami per entrare nell'Amministrazione pubblica indiana, nelle sue parole «sarebbe diventata una regina destinata a decidere la sorte dei funzionari di rango, piuttosto che diventare una di loro». Verissimo: il popolo dalit la chiama «regina», oltre che «sorella ». E, come chief minister (con maggioranza assoluta nel Parlamento locale) dell'Uttar Pradesh, Mayawati ha potere — che usa come abbiamo visto senza alcuno scrupolo — su tutti coloro che da lei dipendono, siano brahmini o meno.
C'è da chiedersi come questa donna che ha imboccato con tanta decisione la strada del riscatto riesca ad affascinare ben oltre i confini di casta. Certo, ha promosso l'alleanza con brahmini e musulmani. Ma perché questi l'avrebbero accettata? Perché l'India dovrebbe volere un'intoccabile nell'ufficio più importante? Non è bella, non ha certo il fascino di una diva di Hollywood. E nemmeno il portamento di una Sonia Gandhi. Si veste con colori chiassosi e non ha stile. Non si vergogna di esibire le sue ricchezze né si preoccupa di giustificarne l'origine. Eppure piace. Non sa l'inglese, non conosce a fondo la Costituzione o le leggi del suo Paese. Eppure le sue posizioni in Parlamento suscitano ammirazione. Forse perché si oppone agli Stati Uniti e all'accordo nucleare che ha rischiato di far cadere il governo di Manmohan Singh («Non dobbiamo diventare i servi degli Usa», ha denunciato di recente). In più vorrebbe portare a compimento l'opera di B. R. Ambedkar (1881-1956), un paria di nascita, autore di numerosi scritti sui temi della sua condizione, riassunti nell'articolo 17 della Costituzione indiana, che vieta la «pratica dell'intoccabilità ». In teoria: dei 200 milioni di poveri e sottonutriti del Subcontinente, la stragrande maggioranza sono tuttora dalit, disprezzati e legati per la vita ai lavori più umili. Mayawati queste cose le sa perché le ha provate sulla propria pelle. Ma è anche riuscita a spezzare le catene, invisibili ma ferree, della sua condizione. Diventando ricca e potente, soprattutto potente. Questo forse è l'aspetto che più affascina. Non era nessuno e ora è qualcosa di molto di più, per tutti: una promessa.

Corriere della Sera 6.8.08
Diritti civili e disuguaglianze sociali
Non dimenticate l'altra Cina
di Bao Tong


Il messaggio implicito, e straordinariamente efficace, trasmesso dai Giochi Olimpici e dal rinnovato lustro che ne deriva al prestigio nazionale, è che tutto il merito spetta all'incrollabile regime autoritario del Partito comunista cinese. Le Olimpiadi di Pechino assumono così — ironicamente — un immenso significato politico interno: l'evento simbolico per eccellenza della pace e della cooperazione internazionale si sposa con la rinascita del nazionalismo.
L'attuale regime si proponeva di trasformare in realtà gli ideali del comunismo, un'ideologia ormai considerata fallita. Oggi il governo cinese continua a chiedere sacrifici alla maggioranza della popolazione, ma non è più in grado di offrire in cambio una futura società comunista. Anzi, il nuovo obiettivo dichiarato è una nazione più forte, che saprà farsi valere sullo scenario internazionale.
Eppure, il desiderio del governo cinese di migliorare la sua posizione a livello internazionale rimane attualmente l'ambizione principale dei ceti abbienti. In contrasto, gran parte della popolazione, specie nelle aree rurali, è ancora afflitta da povertà, malattie e precarietà economica. La gloria della nazione verrà diffusa per mezzo della televisione tra i milioni di abitanti delle campagne, che da cinquant'anni a questa parte sacrificano il loro benessere a favore dell'industrializzazione, mentre il futuro non promette grandi miglioramenti rispetto alle condizioni dei loro antenati.
Finora, quello che abbiamo visto sono i bassi salari pagati ai lavoratori edili, provenienti dalle campagne, che hanno realizzato le vaste infrastrutture per le Olimpiadi; oltre all'inarrestabile occupazione dei terreni — con decreto amministrativo — da destinare a nuovi progetti, senza nessuna consultazione, né risarcimenti adeguati, per la popolazione locale che è stata fatta sloggiare brutalmente.
Non ho dubbi che tutti i vantaggi economici creati da questo evento sportivo internazionale ricadranno solo nelle mani delle élite urbane cinesi, che si arricchiscono sempre di più. Lo stimolo economico prodotto da una spesa statale senza remore, da immani progetti di infrastrutture e dall'afflusso di investimenti stranieri è stato sfruttato solo da un manipolo di miliardari. In teoria, l'effetto del trickle-down (ovvero le ricadute benefiche sulle fasce meno abbienti di una politica a vantaggio dei ceti più alti) dovrebbe estendere questi benefici a tutti i settori economici. Ma la crescente forbice del reddito in Cina suggerisce invece il radicarsi di una disuguaglianza sistematica, favorita da un governo il cui motto sembra essere «sempre e solo per i ricchi».
I Giochi Olimpici sono il massimo esempio del genere di politica che finisce con il servire solo una piccola parte della popolazione. I nuovi edifici scintillanti e i cieli puliti— temporaneamente — di Pechino, mostrati con orgoglio al mondo durante i Giochi estivi, non dimentichiamolo, sono stati realizzati a prezzo di indicibili sofferenze di tutti coloro che le autorità hanno sradicato e allontanato e nascosto alla vista dei visitatori in occasione dell'evento.
Ci sono ben pochi segnali che i Giochi di Pechino abbiano favorito in Cina la nascita di una società aperta. Se i giornalisti stranieri hanno potuto usufruire di un permesso provvisorio dal primo gennaio 2007 fino al temine delle Olimpiadi, la repressione governativa contro gli avvocati e i giornalisti cinesi ha proseguito indisturbata.
La modernità della Cina, sotto i riflettori mondiali durante le Olimpiadi, resta in netto contrasto con il modo di governare retrogrado del Partito comunista cinese. La legittimità del governo si basa fin troppo su equivoci e menzogne storiche. Per preservare la sua sempre più intricata e complessa versione della verità, si sono rese necessarie sia la censura che la cancellazione sistematica della memoria comune. L'entusiasmo di milioni di telespettatori cinesi davanti alle Olimpiadi basterà a cancellare il ricordo della feroce repressione a Piazza Tienanmen? Nessuno lo sa con certezza, ma il governo cinese sembra convinto di poter riuscire nell'impresa di indurre un'amnesia collettiva. Si spiega così la sua insistenza per ospitare le Olimpiadi 2008 e l'attenzione internazionale attorno al futuro ruolo della Cina sullo scenario mondiale dopo il 2008.
Sfruttare i Giochi come strumento di propaganda può servire solo a realizzare un'operazione di immagine a breve termine, ma non contribuirà affatto a risolvere i problemi della Cina a lungo raggio.
I veri problemi della Cina si celano sotto le Olimpiadi del 2008 e sotto la sfarzosa celebrazione del successo.
Dopo mezzo secolo di grandi dietrofront politici, il Partito comunista cinese non è stato capace di offrire al suo popolo né parità di diritti, né servizi sociali fondamentali, quali istruzione, sanità e previdenza, pur avendo nazionalizzato — sotto il regime di Mao — tutte le terre e vastissimi settori dell'economia.
Infinite promesse sono state fatte ai poveri delle comunità rurali, tutte prontamente accantonate, mentre la loro manodopera è stata convogliata nella costruzione di industrie e città moderne. I fondi statali hanno finanziato modernissimi impianti sportivi, teatri lirici e firewall di Internet, dimenticando però di costruire strade nei villaggi più poveri del Paese e di riscattare dalla bancarotta il sistema nazionale della previdenza sociale. Per di più, non si è visto nessun progresso nel campo dei diritti civili, l'unico modo per raddrizzare le ingiustizie nella legalità e nel rispetto della persona.
A Deng Xiaoping è stato riconosciuto il merito di aver rovesciato le politiche di Mao, ma è grazie a lui che è spuntata l'idea profondamente ingiusta di lasciar prosperare le élite grazie alla crescita economica. Fino ad oggi, nessun politico cinese è stato capace di affrontare sistematicamente né tanto meno di ridurre l'ingiustizia sociale che regna in Cina, malgrado tutte le promesse fatte ai ceti più deboli. Di conseguenza, il governo cinese è costretto a ricorrere sempre più spesso alla repressione per tenere a bada il malcontento, mentre si dedica con passione a iniziative propagandistiche come le Olimpiadi.
*Assistente dell'ex premier Zhao Ziyang. Vive dal 1996 agli arresti domiciliari
© Global Viewpoint, distribuito da Tribune Media Services
Traduzione di Rita Baldasarre

Corriere della Sera 6.8.08
«Le Rime» a cura di Andrea Donnini
Grazia e lussuria: attualità di Bembo
di Armando Torno


Il madrigale nacque dalla lezione di quel poeta giudicato pedante

Si narra che Lord Byron durante la sua visita in Ambrosiana, pur pressato dai controlli di sacerdoti e inservienti, riuscisse a imparare a memoria le lettere tra Lucrezia Borgia e Pietro Bembo qui conservate; anzi rubò anche un capello della ciocca bionda della dama. La reliquia, carica di lussuria, era giunta nella biblioteca milanese insieme alle ricordate missive. D'Annunzio, un secolo più tardi, ebbe soltanto il privilegio di toccare questo frammento di chioma. E promise, magato dal contatto, di donare una teca per conservarne l'aura. Cosa che mai fece, lasciando l'incombenza ad altri.
Indubbiamente Bembo «amò non invano» Lucrezia, tanto che a lei dedicò nel 1505 gli Asolani, tre libri di dialoghi e riflessioni d'amore che testimoniano quanto l'Umanesimo si fosse infatuato del Convito
di Platone. Pagine di cui De Sanctis segnalò l'«espressione pedantesca», ma che tra incanti poetici e giochi di pure forme sembrarono perfette per la figlia di papa Borgia: in esse si avverte, tra l'altro, l'innegabile gioia recata dalla sensualità e dai piaceri mondani. O forse, concedendo la parola a un verso rifiutato del Bembo, è come se il futuro cardinale sussurrasse: «Amor, d'ogni mia pena i' ti ringrazio,/ sí dolce è 'l tuo martíre».
Colto, nobile, ricco, tanto da potersi permettere un lungo soggiorno a Messina per imparare il greco presso l'ellenista Costantino Lascaris, padre di tre figli nati dalla relazione con la Morosina (che mai sposerà), Bembo conosce otium e negotium vivendoli con grazia ed eleganza. La sua opera tocca diversi ambiti: se gli Asolani ne riflettono le inclinazioni filosofiche, per incarico della Serenissima continuò fino al 1513 la storia di Venezia che il Sabellico aveva interrotto al 1487, quindi definì una norma dell'italiano con le fondamentali
Prose della volgar lingua (1525). Grande specchio di un'epoca è invece il suo epistolario. Fu anche filologo: amico del sommo stampatore Aldo Manuzio, curò un'edizione del Canzoniere di Petrarca e de Le terze rime di Dante, vale a dire della Commedia. Non sono che due esempi dei tanti possibili.
Cosa può dire ancora al nostro tempo questo patrizio coltissimo? È appena uscita un'edizione delle Rime dovuta ad Andrea Donnini (Salerno Editrice, 2 volumi, pp. 1.392, e 140), basata sul manoscritto Viennese 10245 (del 1541), idiografo e rivisto dal medesimo autore sino agli ultimi giorni: fatica preziosa che consente di tentare osservazioni in margine a una poesia che ha contaminato non soltanto la cultura di un'epoca ma anche la musica e il gusto, diffondendo l'amore per Petrarca. La cura di Donnini — dottore di ricerca a Genova — è degna della massima lode; o meglio, guardando l'incredibile lavoro compiuto per il censimento dei manoscritti, delle edizioni a stampa, per le indagini sulla tradizione d'autore (e anche su quella non controllata dal Bembo stesso), i chiarimenti cronologici e le occasioni di composizione, pur limitandoci ad alcune parti vistose dell'apparato, si potrebbe definire una fatica commovente. E questo va detto senza infingimenti in un tempo che si occupa dei nostri classici come può e quando riesce, trasformandoli sovente in materia per gestire baronie o per dar vita a comitati d'affari. Tornando alla domanda che ci siamo posti, anzi riducendola all'osso, è il caso di chiederci di nuovo: che cosa recano oggi queste Rime? Alcune risposte le ha scritte Donnini nell'introduzione e nel formidabile apparato, altre la storia della cultura: basterà elencare le molte lodi cinquecentesche, le magistrali ricerche di Carlo Dionisotti o la sottile osservazione di Girolamo Tiraboschi nella sua Storia della letteratura italiana: «Ardì quasi solo di ritornare sulle vie del Petrarca, cui egli prese non solo a imitare, ma a ricopiare ancora in se stesso» (volume VII, p. 1.086, edizione 1796 di Venezia). Per Benedetto Croce, certo, Bembo resta un «non poeta»; chi scrive, con più semplicità, nota che le sue Rime, dalle strofe ben costruite e dai versi calibrati in ogni minimo soffio (con un'attenzione maniacale per le singole vocali), ispireranno composizioni di Luca Marenzio, Claudio Monteverdi, Marco da Gagliano, per ricordare alcuni tra i più grandi. Bembo sarà il punto di forza per trasformare la vecchia frottola in madrigale. Il brutto anatroccolo diventerà un cigno ascoltando il suono di sillabe ritmate ed eleganti.

Repubblica 6.8.08
Pomezia, la denuncia della Cgil. L´azienda: via per motivi comportamentali
La protesta degli operai pachistani "Licenziati per aver scioperato"
"Gli immigrati vanno bene solo quando accettano in silenzio paghe da fame"
di Michele Bocci


ROMA - Cappelli rossi della Cgil e turbanti sikh sotto il sole d´agosto che sbatte davanti a un capannone vicino Pomezia. Cinquanta immigrati pachistani e indiani vestiti con pantaloni e maglietta blu chiedono di entrare a lavorare, vogliono ancora spaccarsi la schiena a imballare le confezioni di cibo da spedire sui camion ai supermercati Gs. «Ci hanno cacciato, rivogliamo il nostro posto sennò non campiamo. Abbiamo qui le famiglie, dobbiamo pagare affitti e mutui». La cooperativa Global logistica di Santa Palomba, che ha in appalto i lavori nel capannone della catena di supermarket ha deciso di scaricarli dopo due scioperi provocati dai ritardi delle buste paga. A tutti sono arrivate «lettere di esclusione dalla compagine sociale», come le chiama usando il linguaggio tecnico il consulente legale della cooperativa Armando Radicchi. «I motivi sono comportamentali - spiega - tra maggio ed oggi ci sono state due sospensioni del lavoro». Nelle lettere si parla anche di una rissa. La vittima, un nordafricano che lavora per la Global logistica, avrebbe riconosciuto una quindicina di aggressori. «Non dico quanti giorni di prognosi ha avuto per rispetto della sua privacy», spiega sempre Radicchi.
«Sapete perché ci vogliono cacciare? - chiedono Zafar, Mohammad, Ali, Hussain e gli altri - Perché da quando abbiamo iniziato a chiedere quanto ci spetta per il nostro lavoro e ci siamo iscritti alla Cgil siamo diventati un problema. Gli immigrati vanno bene finché accettano condizioni pesantissime e paghe da fame. Se alzano la testa non servono più». I lavoratori raccontano di giornate di 13 ore di lavoro, di straordinari non pagati, di un capannone dove bisogna mangiare in piedi, di malattie a paga ridotta. «Se chiedi di uscire prima, magari perché tuo figlio sta male, quelli ti rispondono "va bene, ma non presentarti nemmeno domani" - dicono - È un lavoro duro. Gli italiani che provano a farlo se ne vanno dopo un paio di giorni». Loro no, pachistani, indiani e un liberiano, hanno retto per anni. «Forse perché molti hanno difficoltà ad imparare l´italiano, e quindi non capiscono quando vengono fregati, forse perché si tratta di popoli molto pacate e gentili, grandi lavoratori», commenta Ejaz Ahmad, membro della consulta islamica del ministero dell´Interno. I lavoratori parlano di cooperative che cambiano spesso: «Chi è qui da quattro anni è stato socio di almeno tre realtà. Ogni volta la nostra anzianità si azzera». A seguire gli immigrati è la Filcams di Pomezia, che ha mobilitato tutta la Cgil del Lazio. Il segretario Sabatino Marcelli spiega: «Ci sono molte cose che non vanno nei contratti di lavoro dei soci di Global logistica e nel magazzino ci sono problemi di sicurezza, i muletti ad esempio sono molto vecchi. Chiediamo che i problemi vengano risolti e i lavoratori reintegrati».

Repubblica 6.8.08
"La crisi, che stress" il broker va in tilt e corre dallo psicologo
Gli operatori in cura sono aumentati del 25%
Impennata anche nei divorzi: per medici e avvocati è diventato un business
di Ferdinando Giugliano


ROMA - Psicologi, psichiatri e avvocati divorzisti. Solo loro escono vincitori dal crollo dei mercati, da quel credit crunch che ha cancellato i bonus a sei-sette cifre e fatto perdere il posto a decine di migliaia di trader. Trader che, oltre a veder scomparire gli assegni, stanno perdendo salute mentale, famiglia, e, in qualche caso, anche la vita. Il caso più estremo è quello di Scott Coles, titolare di una importante società di mutui in Arizona: si è impiccato (dopo aver indossato lo smoking) per non dovere assistere al fallimento della sua società.
La crisi finanziaria ha mandato in tilt i broker di Wall Street. Che hanno perso il primato del lavoro più invidiato, più frenetico e più redditizio della Grande Mela. Un primato che ora può vantare, ad esempio, Marilyn Puder-York, psicologa di New York che ha deciso di specializzarsi nel curare proprio chi lavora in Borsa. Una scelta che si è trasformata in un bel business. Con 40.000 tagli nel primo trimestre del 2008 e un crollo dell´8,5% nella performance delle azioni, i trader in cura a New York sono aumentati del 25%. Il motivo è il denaro, ma non solo. «Più delle perdite finanziarie, li deprime perdere prestigio e autostima, e soprattutto la sensazione di aver fallito rispetto ai propri colleghi», dice Byram Karasu, uno psichiatra e professore alla Yeshiva University, anche lui specializzato nel curare trader. E le cure, visti i pazienti, sono difficili. Con la loro tipica aggressività, la loro incapacità d´introspezione, dice un altro psicologo di Wall Street, Alden Cass, i trader «vogliono soluzioni immediate», che sono spesso difficili da trovare.
Anche perché i problemi dei trader non si fermano al lavoro. L´altro problema causato dalla crisi è in famiglia. I divorzi tra chi lavora a Wall Street o nella City di Londra sono in aumento, proprio come successe durante la crisi del 1990. Gli avvocati divorzisti dello studio Westchester, registrano un aumento del 25% nei divorzi di operatori di Borsa. Sono almeno due le ragioni di questo dato. La prima è sicuramente lo stress dei mariti. «Le mogli dei trader sono abituate a mariti forti, non a persone vulnerabili», dice la consulente matrimoniale, DeAnsin Parker, così piena di clienti che per la prima volta nella sua carriera è costretta a dire di no a delle coppie.
Ma c´è ancora un´altra ragione, meno astratta. Il credit crunch ha portato a un drastico cambiamento del tenore di vita di chi gioca in Borsa. Secondo un sondaggio fatto tra trader, manager di hedge fund e stockbroker londinesi e commissionato dallo studio legale Mishcon de Reya, il 60% degli intervistati ha chiesto al partner di tirare la cinghia, limitando le spese. E il 18% si è sentito rispondere picche. Risultato: il 79% degli intervistati ritiene che il matrimonio sia più a rischio di prima della crisi e il 10% pensa addirittura che il partner abbia già consultato un legale per avviare le pratiche di divorzio. «Quando i soldi sembrano uscire dalla finestra, l´amore esce dalla porta», dice Sandra Davis, l´avvocato a capo dello studio. E, spesso, l´uscita di scena è anticipata rispetto al disastro finanziario. I guadagni recenti sono, infatti, uno dei fattori presi in considerazione quando si calcolano gli alimenti. Così, chi divorzia preferisce farlo quando le acque sono ancora calme e i portafogli pieni. Agendo in anticipo per non restare in perdita. E dimostrando di aver capito molto di più sul funzionamento dei mercati rispetto ai propri partner.

Repubblica 6.8.08
Il guru della psichiatria Ari Kiev: dimenticano la strategia
"Panico e notti insonni così perdono lucidità"
Ma la terapia è difficile: i trader non sono abituati a essere allenati e spesso hanno un ego smisurato


ROMA - «Sono nel panico, non stanno seguendo le loro stesse strategie». Fondatore e presidente della Social Psychiatry Research Institute, 300 trader curati e numerose pubblicazioni sul tema, Ari Kiev, conosce bene l´ansia che avvolge oggi migliaia di trader. E crede che le tecniche usate quando era consulente della squadra olimpica americana siano utili per i trader in crisi.
Dottor Kiev, come mai sempre più trader vanno dallo psichiatra?
«È vero: le visite sono in aumento. Il trading è un´attività stressante, anche quando va bene, perché c´è sempre il rischio di perdere i guadagni. Tuttavia, coi cigni neri (gli eventi altamente improbabili) di questi mesi, l´incertezza aumenta, è molto più difficile fare previsioni esatte e si finisce col perdere soldi».
Cosa avviene nella mente di un trader che perde molti soldi?
«Diventa più ansioso, meno deciso. Prende più rischi: non si libera dei titoli in perdita e vende le azioni che lo farebbero guadagnare».
Questo finisce per avere effetti anche sulla vita personale.
«Ci sono dati che confermano l´aumento dei divorzi, ma tra i miei pazienti non è un fenomeno in crescita. Sono professionisti, che sanno come separare la vita privata dal lavoro. Ciò non significa che non passino notti insonni».
Come si esce da questo stato?
«Se si è in perdita, spesso è perché il mercato è difficile da interpretare. Bisogna pazientare, aspettare un periodo che può essere analizzato con modelli matematici. Sembra ovvio, è vero. Ma provate voi a dire di star fermo a un trader che sta perdendo centinaia di migliaia di dollari».
Le tecniche usate con gli olimpionici sono utili per i trader?
«Indubbiamente. Agli olimpionici, come ai trader, spiego che, inizialmente, è bene concentrarsi su un obiettivo preciso: la medaglia d´oro o un target finanziario. In seguito, entrambi devono concentrarsi sul come arrivarci. È di questo secondo passo che molti traders, oggi, si stanno dimenticando. Si concentrano sull´obiettivo finale (recuperare le perdite) e si dimenticano di come arrivarci».
Ed è più facile aiutare i trader o gli atleti?
«Gli atleti sono più abituati ad essere allenati e a capire il ruolo giocato dalla psiche. Gli arcieri, per esempio, sanno che è fondamentale abbassare il battito cardiaco quando si scocca una freccia. Alcuni trader sono ricettivi. Con altri, l’ego è davvero una bel problema».

il Riformista 6.8.08
Solgenitsin ci sta ancora sulle palle
di Mambo


O ggi la Russia darà l'addio ad Aleksandr Solgenitsin. Ho letto frasi solenni su di lui e sulla sua opera letteraria e politica, ma mi è venuta una strana idea per la testa. Molti di noi non sono comunisti da gran tempo. Lo sono stati felicemente e incoscientemente, ma dopo aver preso la batosta del muro di Berlino e della caduta dell'Urss, cioè della fine dell'illusione italiana sulla riformabilità dell'Urss, abbiamo scoperto il non comunismo. Pochi - io fra questi - sono approdati felicemente all'anticomunismo democratico, cioè a quella convinzione che se si dovesse riproporre lo scenario del 17 si starebbe contro i bolscevichi, tutti con i menscevichi. Pensierini estivi che rimandano al complesso immaginario e agli incubi degli ex comunisti. Vi propongo un gioco-verità. A quanti di noi stava sulle palle Solgenitsin, pur essendo comunisti italiani, berlingueriani o miglioristi, per la via democratica e pluralista? Credo proprio a tutti. E dopo il Pci? Non si è spostato, povero vecchio, da quella poco nobile collocazione. Allora fatevi la domanda e datevi la risposta. Perché era troppo russo, troppo fondamentalista, praticamente reazionario? No, soprattutto perché era irrimediabilmente anticomunista. E questa non gliel'abbiamo mai perdonata. Siamo passati da Lenin a Kennedy senza tirare fuori la rabbia di una sconfitta storica. Tutti felici e contenti. Poi muore Solgenitsin e scopri che ti sta ancora sulle palle. Scava nella tua coscienza, compagno.

il Riformista 6.8.08
La petizione di Veltroni è un boomerang per il Pd


La vicenda della raccolta di firme lanciata dal Pd contro il «regime» berlusconiano è lo specchio perfetto dello stato confusionale in cui si trova il partito di Veltroni. Non occorrevano le defezioni illustri - dopo il governatore della Campania Antonio Bassolino anche Massimo Cacciari annuncia che non firmerà la petizione democratica - per rendersi conto che l'iniziativa si sarebbe trasformata in un boomerang. Del resto, Veltroni la lanciò in modo del tutto estemporaneo, alla vigilia del girotondo di piazza Navona, quando temeva che il dipietrismo dilagasse e voleva battere un colpo per dimostrare che il Pd non era secondo alla piazza nel denunciare il rischio di una deriva autoritaria. Era una pezza. Si sta rivelando peggio del (presunto) buco.
Si sa come sono andate le cose: l'onda di piazza Navona si è afflosciata su stessa, delegittimata dagli eccessi cabarettistici del trio Travaglio-Guzzanti-Grillo. In compenso, a Veltroni è rimasta la scomoda eredità: cinque milioni di firme da raccogliere in calce a un allarme in cui nemmeno il Pd crede davvero. Per mille ragioni: è coerente rompere (giustamente) con Di Pietro e poi gridare al regime? Se regime è, allora la linea giusta è quella dell'ex pm: resistere, resistere, resistere. Si può dirsi di nuovo pronti al dialogo con la maggioranza sulle riforme, come Veltroni ha fatto nei giorni scorsi, e contemporaneamente mobilitare il proprio elettorato contro la «democrazia a rischio»? Da questo punto vista lo stesso Veltroni non è in una situazione molto diversa da Bassolino, che rimarca di non poter firmare contro un governo con cui collabora quotidianamente alla soluzione dei problemi della regione. Veltroni, invece, si potrebbe trovare a settembre a trattare di riforma delle europee, federalismo fiscale e magari pure di giustizia con gli esponenti di un governo additato sulle pubblica piazza come una dittatura mascherata. Qualcosa non torna. Non è di questo passo che il Pd si accrediterà come alternativa credibile all'attuale maggioranza. E uscirne è difficile: non raggiungere il numero di sottoscrizioni annunciato vale comunque un flop. Raggiungerlo, però, significa mobilitare il partito su una linea diversa da quella impostata dopo che Veltroni si è smarcato dal giustizialismo dipietrista. Danno per danno, sarebbe meglio ritirare la petizione.

martedì 5 agosto 2008

Il Vernacoliere - Agosto/Settembre 2008
Dopo le 'mpronte digitali
MARONI: ORA LE CASE!
AI BIMBI ROM CAMERE CON ACQUA, LUCE E TANTO GAS
E paga tutto 'r Governo!
di Mario Cardinali


L'antefatto. In seguito a vari gravi fatti anche di sangue con protagonisti alcuni rom, e dietro la conseguente ondata di pressione mediotica contro quei nomadi, il 2l maggio il capo del govemo ha dichiarato con suo decreto (Gazzetta Ufficiale del 26 maggio) lo "stato di emergenza in relazione agli insediamentì di comunità nomadi nel territorio delle regioni Campania, Lazio e Lomhardia", e con successive disposizioni urgenti d'attuazione (tre ordinanze del 30 maggio, puhhlicote sulla G. U. il giomo successivo) ha nominato i tre prefetti di Roma, Napoli e Milano a commissari delegati per il "monitoraggio dei campi nornadi autorizzati e l'individuazione degli insediamenti abusivi", nonché per la "identificazione e il censimento delle persone, anche minori di età, e dei nuclei familiari presenti nei luoghi suddetti, attraverso rilievi segnaletici" ovvero foto e impronte digitali. Fortemente voluta dal leghista ministro degli interni Maroni e suhito bollata dall'opposizione e da tanta opinione puhhlica anche estera come discriminatoria, xenofoba e razzista, soprattutto nei riguardi dei bambini rom, la schedatura dei nomadi è stata dichiarata "iniziativa contraria alla convenzione dei diritti dell'uomo" dal Parlamento europeo che ha esortato l'Italia "ad astenersi dal procedere alla raccolta delle impronte digitali dei rom, inclusi i minori, e dall'utilizzare le impronte già raccolte".
Al che il ministro Maroni ha replicato che non di razzismo si tratta ma di semplice identificazione per un indispensabile censimento, e quanto ai minori l'iniziativa del govemo è tesa a proteggerli dai loro sfruttatori, a mandarli a scuola e a trovare loro un lavoro. Aggiungendo poi che egli sta addirittura pensando di riconoscere la cittadinanza italiana ai bambini rom nati in Italia e rimasti senza genitori. E davanti a un tale profluvio di bontà del ministro leghista, il Vernacoliere ci mette ora anche le case.


Vanni a fa' der bene, alla gente! Alli zingari speciarmente! Come t'avvicini alle su' baracche, penzano subito che tu ci vadi a rubà!
L'artro giorno dé, sono arrivati i pulizziotti per fanni 'r cenzimento, tutti a chiudessi nelle su' rulotte!
E come i pulizziotti n'hanno detto si vole sortanto le 'm pronte digitali, loro prima n'hanno risposto noi 'un si sono prese, eppoi guardavano l'inchiostro de' tamponi tutti marfidati!
Tanto sono poìno 'gnoranti, questi zingari! Sannonasega loro che Maroni ni vole fa' der bene, a' schedalli tutti co' rilievi segnaletici! E speciarmente i bimbini ròmme! Che lui dé, se li sogna anche la notte, quelli zlngarini, ner mentre prima ni pigia deliato i ditini sur tampone, poi ni lava i musini eppoi li manda tutti perbenino a scola, 'nvece di tenelli tutti cenciosi per la strada a elemosinà!
Perché lui ni fa der bene perdavvero, a quelle creature, a volé sapé quanti sono e chi l'ha caàti! Artro che discriminazzione razziale come dìano que' brodi der Parlamento Uropeo, e tant'artri fissati qui 'n Italia! Tutti a sbraità scandalizzati, appena saputo. der cenzimento de' campi nomadi! E violazzione de' diritti umani di qui, e schedatura ènnica e religiosa di là, e modello nazzista di sopra, e perseuzzione razziale disotto ...
Che alla fine poi Maroni 'un n'ha potuto più, e ha urlato ora ve lo faccio vedé! E tutti a di' no 'un importa, tanto si sa che voi leghisti ce l'avete duro, seddercaso ,ficcatevelo 'nculo fra voi e così poi ce lo raccontate ...
Ma era ben artro, che Maroni voleva fa' vedé! Tantevvero ha tirato fori prima l'idea di danni addirittura la cittadinanza italiana, a' bimbi romme nati 'n Italia e rimasti senza genitori, eppoi ha detto ora ni do anche le 'ase! E mìa a' bimbi soli, anche a' su' genitori!
E lì sì, è scoppiato 'r casino!
- Alli zingari sì e a noi no?! - s'è messa a sbraità la gente, colli sfrattati 'n testa, e tutti a urlà Maroni ciai rotto' 'oglioni!
E a Roma dé, cortei di senzatetto co' fischietti e ' tamburi sotto 'r Viminale, finché 'r ministro dell'interno ha detto vabbene, se le 'ase per li zingari le volete voi, pigliatele voi, cosa vi devo di' ...
E loro via, tutti all'agenzia! Che lì n'hanno fatto vedé i progetti, 'ndove quarmente quelle 'ase 'un sono propio case perdavvero ma pàiano piuccheartro stanzone grandi grandi!
- Tanto sono uno, vesti zingari: ha spiegato vello dell'agenzia, Per facceli entrà tutti, ci vanno pigiati cor burdòzze! E s'un ce 1i pigi, 'un ci vogliano mia entrà! Nomadi come sono, nelle 'ase ci si sentano strettini!
- Ma i servizzi ci sono?
- Ci sono sì! Acqua, luce, e speciarmente 'r gasse! Che loro dé, ridotti come sono alle 'andele, 'r gasse ni ci vole più di tutto!
Dé, camere da 'na parte e gasse da quell'artra, o vai un imbecille s'è messo a di' ma allora sono 'amere a gasse!
E lì ridai, colla sinistra a urlà ma si diceva noi che Maroni con que' baffini pare Itre sputato, e riecco 'r Parlamento Uropeo a ritirà fori la storia de' nazzisti!
E tutto 'perché Maroni, sempricione com'è, 'un cià mia penzato ar quipproqquò! Per lui 'r gasse alli zingari nelle 'amere tutte per loro è sortanto la voglia di fa' le 'ose ammodo!
No. dimmi te sennò che camere per li zingari sono, se duri tanta fatìa a facceli entrà, eppoi l'acqua sì. la luce anche, e 'r gasse 'nvece 'un nielo dai!
Urtimora - Siccome poi l'opposizzione s'è messa anche a sbraità chissà poi chi lo pagherà, tutto quel' gasse a' ròmme. e vedrai va a finì che 'r bonismo di Maroni lo dovrà scontà la gente coll'aomentanni dell'artro le bollette, ha detto 'r Govemo che 'nvece vesta vorta ci penzerà tutto lui, cor un'emissione speciale di titoli di Stato che più che di Stato saranno titoli di Giornale, 'ndove quarmente ci sarà scritto «E se per li zingari 'un basta 'r gasse, mettiamo mano ar nucreare!»

Repubblica 5.8.08
Le conclusioni dell´Agenzia per i diritti fondamentali. Nel mirino il caso Ponticelli
La Ue bacchetta il governo "Rom sempre più emarginati"
di Paola Coppola


ROMA - Un dossier sui "Rom e il caso Italia". Un diario puntuale dei fatti accaduti a partire dalla metà di maggio che denuncia il clima di intolleranza nei confronti dei nomadi che si è diffuso nel nostro Paese dopo il raid al campo di Ponticelli. E punta il dito contro il dibattito politico sull´argomento che è seguito che è stato «generalmente negativo».
Il testo che è stato commissionato all´indomani degli incidenti di maggio dall´Agenzia per i diritti fondamentali, un organo dell´Unione europea istituito recentemente che ha sede a Vienna (dal 16 luglio scorso il comitato scientifico è presieduto da Stefano Rodotà), passa al setaccio tutti gli attacchi ai campi e le aggressioni avvenuti e descrive i provvedimenti presi dal governo sull´onda dell´emergenza segnalando poi come abbiano coinvolto anche gli altri immigrati irregolari presenti nel paese.
Il rapporto diffuso ieri è a uso della Commissione europea e dei suoi paesi membri e lancia un invito alla riflessione soprattutto sulle misure prese dal governo italiano per rispondere agli eventi.
E se visto dall´Italia quanto è accaduto in quei giorni sembra già lontano, l´attenzione critica dell´Europa ritorna sulla vicenda di Ponticelli e il dossier sugli incidenti voluto dall´agenzia stigmatizza i fatti italiani sottolineando il fatto che hanno toccato «uno dei gruppi più vulnerabili d´Europa» e inserendoli in un contesto generale per dire che la strada dell´integrazione è ancora lunga e denunciare che in questa direzione vengono fatti progressi troppo lenti anche negli altri paesi.
Il rapporto segnala anche che la maggior parte dei campi presi di mira nel nostro Paese non erano autorizzati e che da noi i Rom vivono ai margini. E ancora: «Quanto è accaduto a Ponticelli mostra che per proteggere i diritti fondamentali nell´Unione europea i governi devono occuparsi anche del compito di far rispettare, proteggere e promuovere i diritti fondamentali non solo fornendo il supporto legale ma anche assicurando che questi siano applicati dalle autorità pubbliche», si legge.
Il testo ricorda che l´ostilità nei confronti dei Rom non è un fatto recente nel nostro paese e che neanche è limitato all´area del napoletano. Dopo aver fatto una carrellata dei provvedimenti e delle critiche che questi hanno ricevuto, compreso il controverso censimento dei nomadi, ricorda che «nel clima di xenofobia e razzismo generato in questo periodo sono state coinvolte anche altre minoranze non Rom».

l’Unità 5.8.08
Bologna. La strage nera
di Furio Colombo


A nome delle vittime e di una città dilaniata, di un Paese che si è cercato (allora invano) di spingere nell’emergenza restano, inevase, le domande più terribili: chi è stato? Perché?

Mi sembra ingiusto e mi sembra strano tacere solo perché sarebbe più facile tacere. Parlo di Bologna, della strage della stazione, della sentenza.
Quella sentenza (dopo tante sentenze) che condanna come colpevoli Mambro e Fioravanti. E parlo della cerimonia burrascosa, delle dichiarazioni del presidente della Camera Fini, delle polemiche e tensioni di questi giorni.
Molti lettori di questo giornale sanno che dai primi anni Novanta ho detto e scritto la mia persuasione sulla innocenza di Mambro e Fioravanti (cioè per il solo delitto, fra i tanti loro imputati, che essi respingono). Mantengo quella persuasione anche adesso, anche oggi, e lo faccio, in probabile dissenso con molti lettori, anche dopo che l’Unità in questi giorni ha scelto, secondo la sua storia, di confermare tutti i punti, giudiziari e politici di quella vicenda, non solo nella cronaca ma anche con un lucido intervento di Gianfranco Pasquino.
Devo tentare di dimostrare ancora una volta perché sono, allo stesso tempo, dalla parte delle vittime e della immensa e non guarita ferita che Bologna ha patito il 2 agosto 1980, e dalla parte di Francesca Mambro e di Valerio Fioravanti, che continuo a ritenere estranei da quello spaventoso evento, nonostante tutti gli altri eventi delittuosi di cui sono stati volontari iniziatori e protagonisti.
E spero di farlo, affrontando un nodo così intricato e pesante, con chiarezza e semplicità.
1. Eventi spaventosi, irrimediabili e pieni di sangue e di dolore, come la strage di Bologna, chiedono e cercano l’unica risposta civile che è la giustizia: indagare, condannare e con fermezza e certezza. Purtroppo, mentre la tragedia è riuscita nel suo pieno di morte, indagini e processi (ce ne sono stati tanti, e tante sentenze prima della condanna definitiva) sono apparsi segnati da deviazioni, ostacoli, false testimonianze, ritrattazioni, improvvise entrate in scena di nuove voci, cancellazione, per tante ragioni, di molte di esse.
2. Chi ha letto e riletto gli atti sa che un solo filo, soggettivo e di origine non chiara, porta dal tragico fatto ai “colpevoli” . Ma una volta raggiunta una visione finale, dopo tanti tentativi andati a vuoto, è sembrato a molti, con un atteggiamento del tutto comprensibile e umanamente condivisibile, di avere finalmente un punto di riferimento e di appoggio tanto forte quanto la strage: la sentenza definitiva. E di avere una ferma ragione per credere in quella versione e nella sicura colpa dei condannati.
3. Innumerevoli fatti della storia insegnano che vicende gravi e oscure che segnano e devastano la vita di un Paese, restano gravi e oscure anche durante i processi e nonostante l’impegno appassionato di investigatori e di giudici. Basta evocare i nomi di Lee Harvey Osvald e di Earl Ray James (presunti assassini di John Kennedy e di Martin Luther King, ritenuti in seguito innocenti persino dalle famiglie del presidente e del leader nero assassinati) per rendersi conto che è tipico di alcuni delitti di vasta portata politica di portare con sé anche gli esiti giudiziari, in modo che gli ostacoli di una ricerca di verità divengano insormontabili.
4. Evidentemente ciò che sta più a cuore a chi ordisce simili delitti, segnati non solo dall’orrore del momento, ma da conseguenze che continuano nel tempo, è di raggiungere il punto in cui una sentenza possa essere usata come una pietra tombale. Identificando definitivamente un colpevole troncherà per sempre ogni altra ricerca sui fatti e potrà mettere qualcun altro, organizzazione o persona, al sicuro.
5. Anche in base all’esperienza americana, sono fra coloro che hanno visto nella sentenza finale Mambro-Fioravanti una verità, non la verità. E si sono sentiti a disagio quando l’hanno vista diventare unica, assoluta bandiera, con il rischio che la manifestazione del dubbio fosse interpretata come dissacrazione di quella bandiera.
Eppure il dubbio era - ed è - più che mai fondato nel racconto e nelle immagini spaventose del 2 agosto. Non era uno scostarsi dalle vittime e dai loro cari, ma una invocazione a non smettere, a non fermarsi. Qualcosa o qualcuno potrebbe essersi messo al riparo dietro quella fragile sentenza.
6. Ho detto varie volte, e ripeto, conoscendo il rischio di fraintendimento di ciò che dico, che tutto ciò che sappiamo di Mambro e Fioravanti non li colloca in nessun modo fra gli abili e oscuri sicari, decisi a restare ignoti, di un simile spaventoso evento. Quando dico “sappiamo” non intendo notizie o informazioni che non ho. Intendo “noi” i giudici, “noi” i giornalisti, “noi” i cittadini che dei due condannati, quando erano giovani ed erano terroristi, sappiamo tutto e hanno detto tutto, senza che mai sia risultato un solo dettaglio dei loro delitti, nascosto o depistato o alterato.
7. Non è solo il profilo psicologico o il “modo di operare”, criterio così caro ai criminologi, a orientare. Non è solo la sequenza dei fatti che, senza testimonianze tarde e strane e tipicamente rivolte a coprire qualcosa o ben altro, non porta a quella stazione e a quel treno i due già notissimi protagonisti del terrore. Ma è il rapporto vistoso, clamoroso, fra tutta la loro vita di giovani fuorilegge politici che uccidono di persona, rischiando e quasi trovando la morte, e il mestiere oscuro e segreto della bomba nascosta su un treno. Quando qualcuno di noi ha detto «non Mambro, non Fioravanti» tutto il peso emotivo si è spostato sull’innocentismo. Ma il vero senso di quella affermazione, che va ripetuta anche oggi, era: «vi chiediamo per l’orrore di quel giorno, per la memoria delle vittime, per il dolore spaventoso dei sopravvissuti, continuate a cercare».
8. Non so niente di ciò che il presidente Fini ha ritenuto di dichiarare. Nella sua posizione non è, credo, la cosa giusta da fare. Come non lo è, sono certo, il porre avanti il problema se la strage fosse o no di destra. Le stragi italiane, benché tutt’ora impunite, sono apparse tutte di destra anche agli investigatori più scettici e meno politicizzati. Però ciò di cui stiamo discutendo è molto più grave e rende frivolo il precipitarsi a correggere l’etichetta sui faldoni. Nel nome delle vittime, di una città dilaniata, di un Paese che si è cercato (allora invano) di spingere nella più cupa emergenza, restano, inevase, le domande più terribili: chi è stato? Perché?
furiocolombo@unita.it

Corriere della Sera 5.8.08
La «tesi Rossanda» Armeni: sto con Rossana. Sansonetti: i servizi dietro la strage
Gli «innocentisti» di sinistra: Bologna, i Nar non c'entrano
Da De Luca a Gagliardi: Mambro e Fioravanti non colpivano nel mucchio
di Alessandra Arachi


Il dibattito aperto dalla Rossanda: nessuna simpatia per i terroristi neri, ma la sentenza della Cassazione lascia dubbi

ROMA — Rossana Rossanda non ci crede. Non ci crede che siano stati Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini a mettere la bomba alla stazione di Bologna, ventotto anni fa. E il perché la signora che ha fondato il manifesto lo ha spiegato ieri alla Stampa: «La sentenza della Cassazione lascia molti dubbi. Come il processo Sofri non ha risolto niente, così quello per la strage di Bologna lascia molte ombre. E questo anche se non ho nessuna simpatia né per Mambro né per Fioravanti...».
Apriti dibattito. Tutto a sinistra. Tutto (o quasi) a favore degli ex terroristi neri dei Nar.
Perché, è vero, c'è Valentino Parlato, altro fondatore del manifesto, che si tira indietro: «Non so nulla di tutta la storia della bomba di Bologna». E Sandro Curzi che mette invece rapidamente le mani avanti: «Non voglio entrare nel merito di questa vicenda. Non mi interessa un dibattito estivo, voglio nuovi elementi concreti, piuttosto». Ma dopo, invece, è un vero e proprio coro che si leva a martellare di dubbi la sentenza che ha inchiodato Mambro, Fioravanti, Ciavardini. Una difesa che, a guardarla così, fa apparire il mondo alla rovescia.
Erri De Luca? Oggi scrive libri di gran successo, ieri militava nelle file di Lotta Continua: «Sono d'accordo con Rossana Rossanda, anche se non ci siamo mai parlati. Da tempo mi sono fatto la convinzione che la strage di Bologna non sia opera di Mambro e Fioravanti. Quella strage è un'operazione fuori scala rispetto alla loro organizzazione. I Nar sparavano addosso a noi, mica mettevano bombe. Quelle le hanno messe i servizi segreti: strani e nostrani». E non è il solo a tirare in ballo l'intelligence. Anzi.
Piero Sansonetti spara diretto: «Ci sono i servizi segreti italiani dietro questa vicenda della stazione di Bologna come dietro tutte le vicende delle stragi che iniziano il 12 dicembre 1969 e durano quasi vent'anni». Il direttore di Liberazione, come del resto Rossana Rossanda, non ha una verità in tasca su Bologna. Ma anche lui, come Rossanda, si fida di Andrea Colombo e della sua ricostruzione dei fatti raccontata nel libro Storia nera.
Lunga storia, tutta e sempre e soltanto nella sinistra più estrema, quella di Andrea Colombo: da Potere Operaio al manifesto, a Rifondazione comunista. «E se ha scritto il libro che ha scritto c'è da credere che si sia documentato bene: ha ragione Rossana a sollevare molti dubbi su Bologna», decreta Mariuccia Ciotta, storica firma del manifesto.
Le fa eco Rina Gagliardi, già senatrice di Rifondazione. Dice: «Il processo per la strage di Bologna è davvero ben poco convincente, come ricostruisce Andrea Colombo nel suo libro. Gli credo a fiducia. E ad intuito». Poi anche lei rilancia: «Non credo che per la strage di Bologna si possa scartare a priori l'ipotesi che si sia trattata di una lotta fra servizi segreti». Anche Ritanna Armeni, un'altra storia che da Potere Operaio approda a Rifondazione, va a fiducia: «So ben poco di tutta la vicenda di Bologna. Ma tendenzialmente sono d'accordo con Rossana. Ad intuito ».
E per Rossanda esulta, ovviamente Andrea Colombo: «Brava. Brava. Bravissima». Lui nel suo libro non ha fatto sconti nel raccontare le gesta omicida di Mambro e Fioravanti. Ma arrivato alla strage di Bologna ha tracciato una riga. Netta e decisa: «I Nar avevano un impegno politico e culturale che non si adattava alle stragi. Per capire: non hanno mai colpito nel mucchio. Ma ciò che importa ancora di più sono le risultanze processuali: non convalidano la tesi dell'accusa».

Il Riformista 5.8.08
Bologna dietro la campagna innocentista
Mambro e Fioravanti, non Sacco e Vanzetti
di Stefano Cappellini


Si potrebbe tagliare corto e dire che le sentenze si rispettano, sempre, e non solo quando coincidono in parte o in tutto con le proprie convinzioni. Vale - dovrebbe valere - anche per la sentenza che ha individuato in Francesca Mambro e Giusva Fioravanti gli esecutori della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. E invece no. Contro la verità giudiziaria per la più cruenta carneficina della storia repubblicana è in atto da anni un'opera trasversale di decostruzione, svilimento, delegittimazione cui ha dato l'ultimo contributo il presidente della Camera Gianfranco Fini parlando in occasione del recente anniversario di «zone d'ombra intorno all'accertamento della verità sulla strage», poco prima che il suo collega di partito e sindaco di Roma Gianni Alemanno tornasse a invocare attenzione per la fantomatica «pista palestinese». È comprensibile, seppure non giustificabile, la solerzia con cui Fini e Alemanno si dedicano a picconare la sentenza di Bologna: i Nar di Mambro e Fioravanti nacquero nell'alveo del neofascismo italiano di cui l'Msi, ancora lontano dalla catarsi di Fiuggi, era espressione istituzionale. I giovani terroristi neri odiavano i missini, ma - per usare una fortunata espressione coniata sull'altra sponda della politica - facevano parte dello stesso «album di famiglia». Ecco perché ancora oggi in An sono in tanti a battersi affinché dalla strage di Bologna sia cassato l'aggettivo «fascista».
Ma ancor più tambureggiante, e priva di dubbi sull'innocenza di Mambro e Fioravanti, è la campagna condotta da sinistra da un fronte di intellettuali, giornalisti, politici, quotidiani (in prima fila i quotidiani comunisti il manifesto e Liberazione). Vale la pena spendere qualche parola sull'origine di questa solidarietà rosso-bruna, che negli anni si è allargata a macchia d'olio, producendo adesioni illustri, editoriali, libri, ma che ha avuto un'origine più carbonara, carceraria per la precisione, dato che i primi ad appassionarsi alle sorti di Mambro e Fioravanti furono alcuni ex brigatisti rossi, decisi a mettersi alle spalle ogni pregiudizio ideologico in nome della comune condizione di detenzione e di una certezza: Mambro e Fioravanti erano fascisti sì, terroristi forse, ma stragisti no. Una cara amica di Mambro è Anna Laura Braghetti, carceriera di Aldo Moro, che con l'ex terrorista dei Nar ha condiviso una cella a Rebibbia e firmato un libro a quattro mani uscito a metà degli anni Novanta. Da lì, dalle ceneri del partito armato, è nata la campagna innocentista. E ha trovato terreno fertile in una sinistra radicale che avendo vissuto sulla propria pelle le storture dell'emergenza giudiziaria degli anni di piombo - capace di stroncare il terrorismo, certo, ma anche di produrre un numero molto alto di soprusi e sconfinamenti dallo stato di diritto - ha maturato una diffidenza genetica verso ogni verità giudiziaria sulle vicende degli anni Settanta, di cui la strage di Bologna è il capitolo finale. Questo è il vero humus dell'innocentismo di sinistra sulla strage di Bologna. E non vale, né potrà mai valere un'assoluzione, o una riapertura del processo su Bolgona, indiziario ma tutt'altro che sommario.
 Coltivare dubbi è sempre lecito e spesso salutare. Ma quando l'argomento principe degli innocentisti - al di là di controinchieste che segnano sulla lavagna solo i punti della difesa e non quelli dell'accusa - è quello addotto ancora ieri da Rossanda Rossanda intervistata sulla Stampa («Mi sembra significativo che loro stessi dicano di non essere degli angeli, ma abbiano sempre negato su Bologna»), il dibattito è chiuso in partenza. Si tratta di un falso sillogismo: siccome Mambro e Fioravanti hanno confessato tutti i loro delitti, ma negano su Bologna, dunque su Bologna sono innocenti. Come se confessare di essere responsabili dell'uccisione di 85 persone, una mattanza senza eguali e senza possibile "copertura" politica, fosse comparabile all'ammissione di responsabilità per tutti gli altri delitti commessi, non meno efferati e che però negli ambienti dell'ultradestra giovanile (e non solo) sono valsi e valgono tuttora alla coppia una aurea di romanticismo guerrigliero. Vergognosamente accresciuta dall'abito alla Sacco e Vanzetti che certa sinistra vorrebbe calzare loro a forza.


Corriere della Sera 5.8.08
Sindaci, poteri speciali per la sicurezza
Intesa Maroni-Comuni. Ieri esordio dei militari nelle città
Il sindaco di Roma Alemanno ha confermato che i soldati non saranno in centro e in pattuglia
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Il governo schiera i soldati e assegna ai sindaci poteri speciali sulla sicurezza. Il decreto che il ministro dell'Interno Roberto Maroni firmerà nelle prossime ore concede agli amministratori cittadini di poter intervenire con ordinanze urgenti per garantire la «pacifica convivenza». Vuol dire che potranno prendere misure sull'inquinamento urbano e sui comportamenti ritenuti lesivi del decoro, compresi la prostituzione e lo spaccio di stupefacenti, sull'accattonaggio e sul commercio abusivo. I dettagli saranno messi a punto durante la riunione Stato-Comuni convocata per questa mattina, ma l'intesa è raggiunta.
Accordo fatto anche su Roma, come ha confermato ieri Gianni Alemanno. I militari non saranno in centro e non effettueranno attività di pattuglia, ma avranno il compito di vigilare su decine di obiettivi fissi. Ieri sono stati proprio i Granatieri di Sardegna impiegati nella capitale ad effettuare il primo arresto: un borseggiatore davanti alla stazione Anagnina. Mentre i giovani dei collettivi attaccavano sul Colosseo lo striscione «Free Rome» e distribuivano ai turisti volantini con la scritta «questa non è democrazia», il contingente di circa 1000 uomini ha occupato i presidi indicati dal prefetto Carlo Mosca. Servizi di sorveglianza e di ronda anche a Milano dove Alleanza nazionale ha distribuito braccialetti tricolore ai cittadini come benvenuto ai soldati.
«Operazione di propaganda», protesta il partito Democratico e Antonio Di Pietro aggiunge: «Ho troppo rispetto per i militari per vederli ridotti a comparse da Cinecittà ». Fortemente critico anche il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini «perché noi amiamo i soldati, ma avremmo preferito che fossero concesse maggiori risorse alle forze dell'ordine». A tutti risponde il ministro della Difesa Ignazio La Russa. «Oltre ai delinquenti, agli stupratori, a chi fa furti e rapine — attacca — sono contrari alla presenza dei militari per garantire solo i post sessantottini: i figli, non in senso anagrafico, di chi gridava "basco nero il tuo posto è il cimitero" o quelli che consideravano polizia e carabinieri golpisti. Quando qualcuno dice che questa è un'operazione di facciata dice una cosa poco seria. Questi uomini hanno intenzione di incutere paura solo ai malviventi».
L'attuazione del decreto sulla sicurezza approvato il 23 luglio sarà completata con i provvedimenti sui sindaci. Il testo prevede che l'ordinanza possa essere emanata «previa consultazione del prefetto » che ha anche il potere di intervento qualora verifichi «inerzia» da parte del primo cittadino.

Corriere della Sera 5.8.08
Città del Messico La ragazza sieropositiva inaugura la conferenza globale sull'Hiv
Keren, una dodicenne contro l'Aids «Si può vincere questa battaglia»
L'appello: «Più attenzione e farmaci, meno pregiudizi»
L'impegno dell'Onu di curare tutti entro il 2010 resta lontano. Ma dal summit del 2000 si sono fatti molti passi avanti
di Adriana Bazzi


CITTÀ DEL MESSICO — L'applauso per lei è stato il più lungo. Più di quello per il Presidente del Messico Felipe Calderon, più di quello per il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Qualche respiro profondo prima di cominciare: «Noi ragazzi e ragazze sieropositivi stiamo crescendo e abbiamo tanti sogni. Molti di noi vorrebbero diventare artisti, medici, maestri. A me piacerebbe diventare una cantante».
Adesso sorride Keren Dunaway-Gonzales, dodici anni, honduregna, sieropositiva, capelli lunghi neri, un vestito a strisce bianche, blu e rosse, che alla inaugurazione della Conferenza mondiale sull'Aids a Città del Messico ha chiesto al mondo di non abbandonare la lotta alla malattia e di aiutare i giovani che l'hanno contratta a realizzare i loro desideri. Aveva cinque anni quando i suoi genitori le spiegavano, con qualche disegno colorato, che erano sieropositivi e che lo era anche lei, fin dalla nascita («Il virus è come una piccola palla con sopra tanti puntini che nuota dentro di me» lo descrive Karen). Oggi è una delle più giovani attiviste dell'America Latina: una rarità in una regione dove 55.000 persone sieropositive su due milioni sono sotto i 15 anni e dove pochi ragazzi hanno il coraggio di uscire allo scoperto per paura di essere rifiutati dai loro compagni.
«Chiediamo l'attenzione di cui abbiamo bisogno — ha detto ancora Keren che dirige un giornale per giovani sieropositivi spedito ogni due mesi in tutto l'Honduras — e le medicine che ci servono per vivere».
Impossibile non ricordare un altro protagonista di un'altra conferenza sull'Aids, otto anni fa a Durban: il piccolo Johnson Nkosi che, salendo sul palco allora, chiese di trattare i malati come esseri umani e divenne un simbolo commovente della lotta all'Aids. Lui è stato sfortunato: morì un anno dopo a 12 anni, ma viveva in un Paese, il Sudafrica, dove all'epoca la malattia era persino negata e il presidente Thabo Mbeki rifiutava l'offerta di medicine dall'industria farmaceutica.
Oggi la situazione sta migliorando. Una nuova generazione di ragazzi sieropositivi stanno diventando adulti, nonostante in America Latina soltanto un terzo dei bambini, a fronte del 60 per cento degli adulti, ricevano gli antiretrovirali.
I pazienti sieropositivi hanno guadagnato 13 anni di vita, anche se sono soprattutto fra quelli che possono essere curati con i cocktail di nuovi farmaci.
L'accesso alle terapie si sta ampliando (e il Presidente messicano ha annunciato la commercializzazione di farmaci generici prodotti anche da industrie che non hanno impianti nel Paese), ma in molte aree, soprattutto dell' Africa, soltanto un terzo delle persone viene curata con le medicine, nonostante l'impegno dell'Onu per fornire «cure a tutti entro il 2010». Rimangono un po' ovunque stigma e discriminazione: 67 Paesi in tutto il mondo (quasi la metà degli Stati membri dell'Onu) impongono forme di restrizione all'entrata di sieropositivi e 13 Paesi, compresi Stati Uniti e Cina, vietano anche brevi soggiorni turistici.
«Per molti lo stigma contro i sieropositivi rimane una grande sfida — ha detto Ban Ki-moon — Soltanto vincendo pregiudizi e discriminazione si potrà garantire un aiuto a tutti coloro che ne hanno bisogno ». E non solo: è indispensabile anche assicurare la massima informazione.
«A quest'epoca della vita— ha detto ancora Keren — quando cominciamo a conoscere i nostri corpi e proviamo nuove emozioni è necessario contare su un'informazione corretta sulla sessualità e sulle trasformazioni che avvenendo dentro di noi». La sessualità è tabù in America Latina, ma Karen ha fatto cadere anche questo. E si merita davvero la standing ovation.

Corriere della Sera 5.8.08
«El Tiempo» accusa, Ramon Mantovani risponde
«Tra Rifondazione comunista e le Farc rapporti politici sotto la luce del sole»


ROMA — Rifondazione comunista «ha avuto rapporti politici per anni» con le Farc, ma «sempre sotto la luce del sole, per favorire il processo di pace». È questa la replica di Ramon Mantovani e Marco Consolo al quotidiano colombiano El Tiempo secondo cui in Italia ci sarebbe un'associazione che appoggia i guerriglieri dei quali è stata prigioniera Ingrid Betancourt. «Secondo il quotidiano — ha detto Mantovani — Ramon e Consolo sarebbero due nomi cifrati di uomini che aiutano clandestinamente le Farc. Trattandosi dei nostri nomi veri, è evidente che si tratta di un'accusa ridicola».

l’Unità 5.8.08
«Chi sostiene le Farc? Noi». Fanno outing due dirigenti Prc
Ramon Mantovani e Marco Consolo: nessuna rete clandestina ma rapporti ufficiali e sostegno esplicito
di Luca Sebastiani


Dicono: non ci piace che gli uomini delle Farc siano considerati terroristi
La guerriglia vuole la pace in Colombia
Dopo i sequestri anche Bertinotti ha preso le distanze. Loro no: «Si tratta di conflitto politico non di narcoterroristi»

SOSTENITORI Ma non fiancheggiatori. I compagni «Ramon» e «Consolo» della presunta «legione straniera» delle Farc non sono nient’altro che Ramon Mantovani e Marco Consolo. Dirigenti di Rifondazione Comunista che per anni hanno tenuto i rapporti con la guerriglia colombiana dalle cui prigioni è appena stata liberata Ingrid Betancourt. Non che fosse un grande mistero. In realtà si trattava di una specie di segreto di Pulcinella data l’omonia tra nomi civili e pseudonimi di «battaglia». E dopo che il quotidiano colombiano El Tiempo aveva svelato il fatto che in Europa operasse «un piccolo esercito reclutato dalle Forze armate rivoluzionarie colombiane», e che pure in Italia due colonne della rivoluzione bolivariana agissero sotto la copertura dei nomi Ramon e Consolo, sono stati gli stessi interessati ad «autodenunciarsi». Abbiamo avuto contatti ufficiali con le Farc, hanno spiegato Mantovani e Consolo. «Relazioni di pubblico dominio e con l’obiettivo di sostenere il processo di pace di Colombia anche con lo scambio di ostaggi» tra le due parti. Perché, hanno chiosato, ancora oggi «non condividiamo» la scelta dell’Unione Europea di mettere le Farc nella lista delle organizzazioni terroristiche. La guerriglia colombiana vuole il processo di pace, quindi non va isolata. Ma questo, «è solo un giudizio politico».
L’intrigo internazionale era iniziato in Colombia, dove a Bogotà il quotidiano El Tiempo, ha pubblicato un lungo articolo in cui ha denunciato l’esistenza di una rete clandestina sul Vecchio continente. Otto persone in tutto. Quattro spagnoli, due italiani, un danese e un australiano. La «legione straniera» sarebbe emersa dall’analisi del computer di Raul Reyes, il comandante delle Farc recentemente ucciso dall’esercito colombiano. «È verosimile che nel suo computer ci siano stati i nostri nomi», ha spiegato Mantovani, visto che con lui e altri dirigenti della guerriglia i rapporti sono iniziati negli anni Novanta. «Quando è iniziato il processo di pace in Colombia - ha proseguito l'ex parlamentare di Rifondazione - siamo stati invitati come Prc, ma lo fu anche il Governo italiano. Dopo di che i vertici delle Farc - ha continuato - sono venuti anche in Italia e vennero ospitati in Parlamento». Una bufala, dunque, quella della rete clandestina. Tutto è avvenuto alla luce del sole. E a conoscenza dei contatti sarebbero stati tutti i presidenti della Camera da Violante a Bertinotti passando per Casini, e tutti i sottosegretari agli Esteri con delega al Sud America. Mantovani e Consolo avrebbero dunque fatto parte non del «piccolo esercito» clandestino denunciato dal Tiempo, ma delle truppe di quelli che negli hanno lavorato politicamente al processo di pace in colombia tra il governo e le Farc. Processo interrotto dopo che la guerriglia è stata inserita nella lista delle organizzazioni terroriste per il suo modo operativo. In particolare per i sequestri di persona, tra cui quello della Betancourt è stato solo il più eclatante. E nonostante anche Fausto Bertinotti, ex leader di Rifondazione, abbia preso le distanze dalla guerriglia più longeva sulla terra e dai suoi metodi, per Mantovani metterla al bando è stato un errore. Perché, ha detto «in Colombia c’è un conflitto politico e non un problema con un’organizzazione narcoterrorista».

Corriere della Sera 5.8.08
Sanità. Obbligatorio il consenso scritto dei genitori. No di Fitto. Protestano la Binetti e 20 senatori
Lite sugli psicofarmaci ai bimbi
Stretta di Piemonte e Trentino, il governo si oppone
di Margherita De Bac


La farmacologa Adriana Ceci: iniziative ideologiche. Il nostro consumo inferiore a quello di Olanda e Francia
Le due leggi regionali stabiliscono che i genitori debbano firmare un documento prima dell'inizio della cura

ROMA — Psicofarmaci ai bambini solo con il consenso informato scritto dei genitori. Così avrebbero voluto Piemonte e Trentino, che con proprie leggi intendevano esercitare «un controllo più stretto» sulla prescrizione ai minori di antidepressivi o sostanze per l'Adhd, il deficit dell'attenzione e dell'iperattività. Ma il governo ha stoppato la duplice iniziativa con un ricorso alla Corte Costituzionale. Il ministero degli Affari Regionali sostiene che non ci si può discostare dalla normativa nazionale sugli stupefacenti. Che in questo caso dunque il federalismo e l'autonomia delle istituzioni locali non possono avere libertà.
La ferma risposta di Palazzo Chigi ha provocato la reazione di 21 senatori, autori di un'interrogazione parlamentare. «Le motivazioni non sono state sufficienti — si rende portavoce dei colleghi Paola Binetti, in qualità di esponente del Pd ma soprattutto di neuropsichiatra infantile —. Non sono entrati nel vivo della questione che è la tutela dei più piccoli, hanno preferito girarci intorno. L'obbligo del consenso informato costituisce uno dei capisaldi del principio di autodeterminazione è direttamente ispirato all'articolo 31 della nostra Costituzione ». I firmatari chiedono che il ministro Raffaele Fitto ritiri il ricorso, coordinato da Valerio Carrara, Pdl: «Secondo loro si verrebbe a creare una difformità tra la legge nazionale e le regionali. Il diritto dei genitori di scegliere le terapie più opportune per i propri figli ed essere completamente informati deve prevalere. Speriamo che altre regioni seguano l'esempio». Sull'abuso di psicofarmaci ha presentato una proposta di legge la senatrice Mariella Boccardo, Pdl. Se ne tornerà a parlare dopo l'estate. Polemiche che riaffiorano di tanto in tanto malgrado l'Italia non sia un Paese particolarmente disinvolto nella prescrizione di sostanze psicotrope ai bambini. Anzi, rileva la farmacologa Adriana Ceci, che fa parte del comitato sulla pediatria presso l'agenzia europea, l'Emea, siamo in modo netto al di sotto dei consumi di Olanda, Gran Bretagna e Francia: «Il sospetto è — continua — che dietro queste iniziative ci siano i soliti pregiudizi mossi dall'ideologia. Non ci sono ragioni tecnico- scientifiche per giustificare un controllo con obbligo di consenso informato». La farmacologa è del parere che se i genitori devono sottoscrivere la scelta del medico «allora bisognerebbe prevedere la stessa procedura per tutti i farmaci che hanno conseguenze sulla crescita dei bambini. Pensiamo a quelli per diabete, per i tumori».

Corriere della Sera 5.8.08
Scienza e Vita. Dietrofront sul testamento biologico
di M.D.B.


ROMA — Corregge il tiro per la seconda volta in pochi giorni, l'associazione Scienza e Vita. Dopo le forti critiche rivolte da alcuni esponenti dell'esecutivo, la presidenza ha fatto marcia indietro ribadendo: «Mai una legge sul testamento biologico. Prendiamo atto del dibattito riportato dai media e dal disappunto di alcuni membri del consiglio confermiamo la nostra posizione: netto rifiuto di una ipotesi di legge sul testamento biologico». Il comunicato è firmato dai presidenti Bruno Dallapiccola e Maria Luisa Di Pietro che solo l'altro giorno avevano annunciato l'apertura dell'associazione a un provvedimento che regolasse le dichiarazioni anticipate di volontà sulle cure da ricevere, o rifiutare, alla fine della vita. Un cambiamento di rotta rispetto alle posizioni storiche di «Scienza e Vita» che aveva determinato le dimissioni di Adriano Pessina, direttore del centro di bioetica dell'università Cattolica. Criticato soprattutto il metodo, la mancanza cioè di un confronto con il consiglio esecutivo. Sul sito web è stata pubblicata due giorni fa l'inchiesta svolta tra i medici che condividono le idee elaborate dal «pensatoio» di bioeticisti soprattutto cattolici: un corale schieramento contro il testamento biologico. Per una legge di fine vita «bisogna mettere in campo la trasversalità dei cattolici — afferma Savino Pezzotta (Udc)— dovrà ruotare attorno a due concetti di base: no all'accanimento terapeutico, no all'eutanasia».

Repubblica 5.8.08
Israele: "Palestinesi curati solo se spiano"


GERUSALEMME - L'associazione umanitaria Physician's for Human Rights ha accusato il servizio segreto israeliano di condizionare i permessi di ingresso in Israele a palestinesi che hanno bisogno di cure all'assenso a divenire informatori. Israele ha risposto che i pazienti sono interrogati per motivi di sicurezza.

Repubblica 5.8.08
Gramsci a Los Angeles
A colloquio con Remo Bodei filosofo pendolare tra Pisa e la California
di Franco Marcoaldi


"In America ho trovato una maggiore passione per la ricerca della verità magari anche ingenua"
"C´è un grande interesse per il Rinascimento, tra i moderni si studia addirittura Gioberti"

PISA. L´assunto di partenza è semplicissimo: sempre più italiani di spicco vivono in parte o in toto all´estero. Senza contare coloro che, pur rimanendo a casa propria, esportano nel mondo la propria competenza e il proprio talento negli ambiti più diversi: dalla filosofia alla scienza all´arte. Ebbene: esiste, nelle differenti discipline, una specificità italiana? Un suo valore aggiunto? E se esiste, viene percepito come tale? Più in generale, come è vista l´Italia fuori d´Italia? Come è giudicata?
Mosso da tali, elementari domande, ho scelto per questa breve perlustrazione estiva quattro figure di rilievo della scena contemporanea: un filosofo, un artista visivo, un compositore e un uomo di teatro e cinema. Ad aprire la serie è Remo Bodei, che il collega Richard Rorty definì «il meno peninsulare dei filosofi italiani», per sottolineare la sua naturale propensione internazionale: «e io per scherzo gli risposi che, essendo sardo, il mio compito era più facile. Una volta attraversato il mare, per noi sardi tutto il mondo è paese». Come che sia, il rapporto di Bodei con l´accademia internazionale è sempre stato intenso: Germania, Spagna, Inghilterra, Canada. E, ormai da molti anni, gli Stati Uniti. Dapprima con l´insegnamento a New York, poi all´UCLA di Los Angeles: fino al 2006 dividendosi equamente con l´università di Pisa; da quando ha abbandonato l´insegnamento in Italia, non in più in qualità di "visiting professor" ma semplicemente di professore. «Il pendolarismo però è rimasto lo stesso: sei mesi là, sei mesi qua. E come Proserpina, non ho ancora scelto quali siano i veri inferi».
Lavoratore instancabile, autore di una mole immensa di volumi che spaziano in periodi storici e ambiti tematici i più diversi, Bodei ha il doppio merito di tenere la barra dritta su un pensiero laico inteso quale esercizio della razionalità critica attorno ai temi cruciali del discorso pubblico, senza tralasciare - al contempo - un´indagine altrettanto rigorosa di quei fenomeni della vie sauvage (dal variegato mondo delle passioni al delirio clinico), solitamente abbandonati dal pensiero a se stessi. «In questa mia impostazione non credo di essere stato infedele alla nostra tradizione filosofica. Di essa mi piace conservare lo scrupolo filologico nell´interpretazione dei testi, l´attenzione ai particolari, il gusto per una ricerca che unisca ragione e immaginazione. Aspetti, questi, che rimangono in secondo piano nel mondo anglosassone, dove perfino gli studenti del primo anno trattano i classici senza alcun timore reverenziale. Non li mettono su un piedistallo: chiedono subito se è vero o falso quello che hanno detto. In un certo senso fanno bene, ma, in compenso, non si curano di tarare storicamente i concetti e spesso finiscono così per giungere a conclusioni banali. Ma per tornare alla nostra tradizione filosofica, mi ha sempre colpito la sua vocazione civile. Non politica, civile. Dall´Umanesimo ad oggi abbiamo avuto comuni e stati regionali forti in contrasto con uno Stato nazionale che non c´era o, quando si è costituito, si è mostrato debole nei confronti delle altre potenze e della Chiesa cattolica. I filosofi italiani hanno quindi svolto un ruolo di pedagoghi politici, non rivolgendosi, come succedeva nella scolastica, ad altri filosofi o agli studenti, ma alle classi dirigenti tout court. Si pensi a Machiavelli o, sul versante scientifico, a Galilei. D´altronde, forse proprio a causa della prevalenza della Chiesa cattolica, manca in Italia una filosofia dell´interiorità di tipo pascaliano. Parallelamente, dopo Galilei, non abbiamo più avuto una approfondita riflessione sulle scienze, a parte lodevoli eccezioni novecentesche. La filosofia italiana, intendo dire, ha dato il meglio in quelle zone in cui non domina una logica rigorosa di tipo cartesiano. Quindi nella concezione della politica (con Machiavelli o Gramsci), della storia (con Vico o Cuoco), dell´estetica (con De Sanctis o Croce). In sostanza, la filosofia italiana è una filosofia della ragione impura, ma anche una filosofia civile, che non sempre ha avuto il coraggio dello scontro frontale con le autorità religiose e politiche. Certo, c´è stato Giordano Bruno, ma non abbiamo avuto l´analogo del Pascal delle Provinciali, né un Voltaire. E il conformismo, il compromesso e la "rivoluzione passiva" sono stati spesso vincenti».
Questo sul versante delle persistenze. E invece cosa accade in ordine ai mutamenti? Come si presenta, oggi, la scena filosofica italiana? «Da un lato, fortemente contaminata dal rapporto coi media; dall´altro, molti miei colleghi sono diventati meri concessionari di filosofie straniere. Il che ha certamente allargato il respiro internazionale del dibattito, ma ha anche indebolito le nostre peculiarità, e pur favorendo la crescita di una risonanza all´estero, che non si avvertiva dai tempi di Croce, ha determinato un appiattimento verso le tesi altrui».
D´altronde, è pur vero che la nostra tradizione più riconosciuta, quella dello storicismo, presentava falle da tutte le parti. «Non v´è dubbio. È quello che chiamo lo storicismo invertebrato: la filosofia come mera narrazione di una successione di eventi, una specie di fila indiana di opinioni: cosa ha veramente detto Tizio, cosa ha veramente detto Caio».
Invece sul versante anglosassone, e segnatamente americano, cosa succede? «C´è una maggiore passione per la ricerca della verità, magari con tutte le ingenuità a cui accennavo prima. Ma il migliore lascito della scolastica continua: continua la passione per il rigore logico, il desiderio di non fare discorsi vaghi, di mettere alla prova tutte le affermazioni, sia dal punto di vista della coerenza interna del discorso, sia dal punto di vista dei controlli empirici. E tutto ciò accade in uno scenario radicalmente modificato rispetto a quando nelle università americane trionfava la filosofia analitica. Del resto, se soltanto guardo alle facce dei miei studenti, capisco che davvero Los Angeles è la porta dell´Oriente: lo scorso anno, di ventisei, solo sei erano "caucasici", come dicono lì. Ovvero bianchi americani. Il grosso era composto da latinoamericani e soprattutto da orientali».
E questo progressivo spostamento a est della popolazione studentesca, ha modificato il panorama degli autori di riferimento? Intendo dire, tra i classici circolano anche Confucio e Buddha? «Nei dipartimenti di filosofia questo ingresso è lento. Diversamente da quanto accade tra gli antropologi e i geografi, molto più ricettivi. C´è, piuttosto, un ritorno evidente dei classici occidentali. A lungo l´unico filosofo considerato "per bene" era Kant: oggi circolano nuovamente Hegel, Leibniz, Descartes. E per venire agli italiani, c´è grande interesse per il Rinascimento. Oltre che per Galilei, o per Gramsci. Si studia addirittura Gioberti, che pure in Italia non trova ascolto».
Più in generale, come è visto il nostro sistema-paese? «Al modo di sempre. Nel sentimento comune la nostra nazione è composta da gente simpatica e inventiva, con alcuni geni e molta corruzione. La serietà da noi non sarebbe di casa, ma in compenso siamo considerati maestri del lusso. Non a caso la maggior fortuna è legata alle solite cose: le Ferrari, la moda, il cibo».
Beh, anche gli americani potrebbero uscire da questo usurato cliché. Qualcosa in più c´è: nel bene e nel male. A cominciare, ahimé, da un laboratorio politico di un certo interesse: quello del populismo berlusconiano. «Non c´è dubbio. La nostra società, particolarmente fragile e dunque particolarmente esposta, si offre come luogo ideale di processi che si impongono su scala planetaria. Intervengono molti fattori nella riformulazione delle regole del gioco politico: l´incertezza del futuro, la scarsità crescente di risorse, il terrorismo. Il potere tende ad avere mano libera, all´impunità. Non tutto però si riduce a manipolazione dall´alto: c´è anche la connivenza dal basso. Si sta affermando un´opinione pastosa, informe, plasmata dai nuovi psicagoghi al potere. In fin dei conti, la parola massa viene dal greco maza, pasta, ovvero dalla materia che si modella. E la parola folla rimanda alle fulloniche, ovvero alle antiche "lavanderie" dove si strizzavano i panni. Forse il termine manipolazione è troppo scontato, banale. Lo è meno l´idea di un´opinione pubblica che si lascia modellare o strizzare, finché non assume la forma desiderata. Lo capì per tempo Gustav Le Bon, quando intuì che alla figura del politico che si serve della persuasione razionale si sarebbe sostituita quella del meneur des foules, il quale plasma il materiale umano a sua propria immagine; dell´ipnotizzatore capace di guidare le emozioni di chi soggioga dentro una logica dell´inverosimile, che prevale sulla realtà. Speriamo solo che non sia un processo irreversibile».
(1-continua)


Sarebbe un errore uscire dalle giunte locali

Un'altra Rifondazione è quella che serve al Paese. Non serve una Rifondazione che innalza vessilli identitari. Quei 142 voti che hanno consentito a Paolo Ferrero di diventare segretario di Rifondazione comunista sono espressione di una cultura politica estremista, non radicale. Paolo Ferrero è diventato segretario per un voto. La maggioranza relativa dei consensi è viceversa andata a chi aveva un altro progetto politico. Un progetto aperto, innovativo nella sostanza e nel linguaggio. Il linguaggio è forma ma è anche pensiero. Il linguaggio deve essere capace di esprimere dubbi. Non deve solo contenere granitiche certezze. Il linguaggio della maggioranza che ha vinto di misura a Chianciano è un linguaggio di chiusura, incapace di colmare uno spazio politico di sinistra lasciato miseramente vuoto. 
Non c'è dubbio che noi abbiamo le nostre colpe se questo spazio non è stato riempito. Colpe che non sono solo quelle degli ultimi mesi ma che hanno radici più lontane. Nella cultura comunista il tema della libertà e dei diritti umani è stato a volte considerato un tema da salotto buono. Nella storia comunista anche di questo paese il garantismo non sempre ha avuto lo spazio che meritava. E allora non ci si sorprende se la componente di Ferrero ha offerto le chiavi dell'opposizione politica e sociale ad Antonio Di Pietro il quale giusto pochi mesi fa affermava testualmente: «Moratoria, subito. Va attuata una moratoria per almeno 2/3 anni nei confronti della Romania e della Bulgaria... Gli irregolari vanno rimpatriati. Chi arriva in Italia deve avere un alloggio e un lavoro, non siamo il vespasiano d'Europa». Tanto che quelli della Lega Nord replicavano: «Di Pietro sta copiando tutti i messaggi della Lega nord da oltre un anno». Non amo i cappi leghisti e non amo i processi di piazza. Oggi stiamo assistendo a una emergenza democratica che è la deriva razzista di matrice istituzionale che trova consenso in larga parte dell'opinione pubblica. Di questo nel documento che ha vinto a Chianciano c'è solo una traccia incidentale. 
Il punto centrale pare sia invece il conflitto di classe. Il nostro concreto agire nel breve, medio e lungo termine (mi riferisco a quell'area politica, culturale e programmatica che oggi si riconosce in rifondazione per la sinistra e che ha puntato sulla candidatura a segretario di Nichi Vendola) deve avere quale obiettivo l'allargamento degli spazi di democrazia e libertà dentro il Prc, ma anche fuori dal partito, per costruire una sinistra più ampia e degna di questo nome. Si può essere minoranza oggi e maggioranza domani. Rifondazione dovrebbe sempre più caratterizzarsi come il partito dei diritti e delle libertà. Lo dovrebbe fare con le parole, con i pensieri, con i progetti. Lo dovrebbe fare da solo, con gli altri della sinistra, con chi accetta il paradigma della trasformazione sociale, umanocentrica ed equa. La nostra cultura attenta al consumo critico, consapevole dei limiti dello sviluppo, rigorosa nel rispetto dell'ambiente e della natura, dobbiamo sottrarla allo sloganismo e farla diventare patrimonio collettivo. 
«Il Congresso considera chiusa e superata la fase caratterizzata dalla collaborazione organica con il Pd nella fallimentare esperienza di governo dell'Unione, dalla presentazione alle elezioni della lista della Sinistra Arcobaleno e dalla sbagliata gestione maggioritaria della direzione del partito». Questo è l'incipit del documento congressuale votato a Chianciano dalla maggioranza dei delegati. Pare che la questione più importante non fosse il vivere in un paese dove la destra è razzista, illiberale, antipopolare e antisociale, bensì il rompere ogni forma di alleanza con il Partito democratico. Sarebbe un errore drammatico per la sinistra italiana rompere incondizionatamente le coalizioni nelle giunte regionali e locali. 
La storia del municipalismo di sinistra è stata una storia nobile di buon governo, di welfare di qualità. Prima di Marrazzo nel Lazio c'era Storace, quello del buco di 10 miliardi, quello di Laziogate o di Lady Asl. Marrazzo non è Storace. Ora non tutto è oro. È populista e falso però affermare che Pd e Pdl sono uguali. Nel Pd sono presenti anime popolari e di sinistra con cui è possibile, anzi doveroso, dialogare. Essere radicali non significa espungere infantilmente la questione del governo dal proprio immaginario. E sino a quando non si ha il 51% dei consensi al governo ci si arriva alleandosi con quelli più vicini o comunque con i meno lontani. Questo deve fare Rifondazione, ossia continuare a essere vessillo non di formali categorie storiche ma di progetti politici che siano capaci di mettere al centro i valori di una sinistra libertaria e moderna.
assessore al Bilancio della Regione Lazio (Prc)

Il Messaggero 5.8.08
Non lasciamo sole le famiglie dei malati psichiatrici
di Silvio Garattini


Gli psichiatri, sganciatisi dalla neurologia solo da trent’anni nel nostro Paese, hanno partecipato poco agli sviluppi scientifici spesso presi da teoriche discussioni psicosociologiche e dal sostegno delle varie scuole di psicoterapia. Il valore delle differenti psicoterapie, con la possibile eccezione di quella “cognitiva”, sono state sempre caratterizzate da autoreferenzialità e dalla difficoltà di integrarsi con i trattamenti psicofarmacologici. Da questo punto di vista va rilevato che il campo psichiatrico ha certamente un livello di difficoltà e di complessità molto più elevato rispetto agli altri settori medici, ma proprio per questo dovrebbe cercare e trovare maggior sostegno nella ricerca scientifica. Per avere un’idea di questa carenza basti pensare a tutte le associazioni che promuovono raccolte di fondi per la ricerca sul cancro e la quasi assenza di iniziative di grande respiro per la ricerca sulla salute mentale. Nell’attesa che la ricerca dia i suoi frutti è necessario aumentare le infrastrutture a favore degli ammalati mentali. Pazienti con altre malattie trovano una serie di interlocutori: i medici del territorio, i pronto soccorso, gli ospedali; una famiglia che abbia il peso di un ammalato mentale trova scarse possibilità d’aiuto e un numero molto modesto di operatori: psichiatri, psicologi, assistenti sociali che si occupino con competenza di questi ammalati. Chi ha risorse può trovare cliniche private e psicoterapeuti a pagamento, ma la maggioranza delle famiglie non può certamente sopportare questi oneri. È quindi venuto il tempo di fare una seria riflessione per sapere che cosa vada ancora completato dell’iter virtualmente tracciato con l’abolizione dei manicomi. I malati mentali non possono essere considerati malati scomodi da nascondere, hanno gli stessi diritti di tutti gli altri ammalati. Spetta alla politica prendere decisioni anche di tipo preventivo, è compito dei tecnici proporre soluzioni dopo aver fatto una valutazione obiettiva delle carenze, dei bisogni e dei mezzi per soddisfarli.