giovedì 7 agosto 2008

l’Unità 7.8.08
Tagli. Se la cultura diventa inutile
di Vittorio Emiliani


Arte e Cultura, cronache di una disfatta totale: l’Italia precipita ancor più lontano dagli altri Paesi avanzati dove quelle due voci sono considerate un investimento sociale, e non un costo (da tagliare). La scure «rivoluzionaria» - ieri l’hanno detto in coppia Gianni Letta e Giulio Tremonti - calata sulla spesa pubblica si è infatti abbattuta più pesantemente del temuto anche sul ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Al “MiBac” sono stati tolti - secondo le cifre fornite dalla Uil Beni Culturali - 355, 369 e 552 milioni di euro rispettivamente nel 2009, 2010 e 2011. Il totale sottratto sale così, nel triennio, a un miliardo 276 milioni. Un terzo delle cifre tagliate è stato amputato alla voce Tutela e valorizzazione: nel prossimo triennio il MiBAC e le sue Soprintendenze si limiteranno a pagare gli stipendi e poco più, secondo la logica dell’ente inutile “perfetto” che si mangia in costo del personale tutto ciò che incassa e/o riceve. Saranno quindi possibili chiusure o drastiche riduzioni di orario in musei e aree archeologiche e pertanto la stessa voce “turismo culturale” ne sarà colpita al cuore, con minor capacità di attrazione dell’Italia, minori entrate dirette e soprattutto minor indotto turistico-culturale. Un bel contributo alla rianimazione della nostra indebolita economia. Non basta: i tagli hanno spazzato via i 45 milioni preventivati in tre annualità dal ministro Rutelli per l’abbattimento di altri “ecomostri”, ma se uno spulcia i singoli capitoli, vede, per esempio, che viene ridotta pure la spesa ordinaria destinata al comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio: ladri e rapinatori dell’arte e dell’archeologia - tombaroli in testa - facciano dunque festa. Questo ministero viveva già al limite: i tagli, tutt’altro che lievi, decisi dal Berlusconi IV lo mettono su una strada. O lo conducono alla chiusura. Cosa potranno fare le Soprintendenze che già nel recente passato verso metà anno non avevano più fondi per i telefoni, per i francobolli, per pagare le imprese di pulizia (bagni dei musei inclusi)? Quali missioni sul posto potranno organizzare quelle Soprintendenze ai Beni architettonici nelle quali ogni tecnico si ritrova alle prese con un migliaio di pratiche delicate all’anno? Le amputazioni vanno a minare l’attuazione stessa del Codice per il paesaggio, reso ben più stringente e severo, dalla gestione Rutelli-Settis, ragion per cui il saccheggio del nostro paesaggio riprenderà con grande vigore. La scure (“rivoluzionaria”, beninteso) di questo governo, che considera la cultura un optional e che ha affidato la custodia dei Beni culturali ad un personaggio come Sandro Bondi, senza alcun peso specifico (infatti le sue deboli proteste hanno contato meno di zero), si abbatte su settori già più che “francescani”, come gli archivi e le biblioteche, l’Istituto centrale per il catalogo, la Scuola Archeologica Italiana di Atene che partirà, nel triennio prossimo, con 157.000 euro in meno di finanziamento statale e arriverà con 307.000, in meno naturalmente. Poi ci sono le somme e i contributi previsti per una miriade di associazioni, istituzioni e fondazioni che, con qualche eccezione, certo, rappresentano il sistema capillare della ricerca culturale, la storia stessa del nostro Paese: le antiche Accademie locali, le Deputazioni di storia patria (già vedo Bossi sorridere contento), le Fondazioni politiche (Sturzo, Turati, Nenni, Gramsci, ecc.) e quelle musicali, ecc. Anche in questo caso, spesso, verrà meno l’ossigeno. Tanto più che enti locali e Regioni, anch'esse mutilate, non potranno subentrare in nulla. Ma passiamo al tanto discusso e però fondamentale Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus). Il taglio per le Fondazioni lirico-sinfoniche parte dai 51,7 milioni dell’anno prossimo e arriva, in progressione, agli oltre 101 del 2011. Il fondo per le attività musicali perde inizialmente 15,2 milioni e arriva a 29,8 milioni, mentre l’altro per le attività teatrali di prosa da va da 17,7 a ben 34,6 milioni. Ma ci saranno riduzioni di contributi anche per la già deperente danza classica. Tornando agli ex Enti lirici e sinfonici, è vero che devono essere riformati nel senso di una maggiore snellezza gestionale e di minori bardature burocratiche. Vi sono Enti infatti che registrano incidenze assurde del personale sui costi totali: l’Opera di Roma col record del 70,9 per cento, seguita dal Massimo di Palermo col 67,3 e dal Carlo Felice di Genova col 66,7, fino a scendere all’incidenza minima (encomiabile) del Regio di Torino: 42,3 per cento. Ma non sarà il drastico e per niente finalizzato taglio delle risorse a curare le situazioni più malate. Così si ammazzano il melodramma, la musica, il balletto, punto e basta. O si mettono le Fondazioni musicali di fronte ad un bivio: ridurre le produzioni ed abbassarne il livello (sovente già scaduto), oppure portare il prezzo dei biglietti a quote inarrivabili dai più, a cominciare da giovani e giovanissimi. Significa inoltre sterilizzare la spesa per la didattica artistica e musicale, negando, per decenni, al Paese di uscire dal gorgo di ignoranza e di maleducazione nel quale è precipitato rispetto all’Europa, ex Paese dell’Arte, della Musica e del Bel Canto. Il Consiglio Superiore dei Beni culturali, all’unanimità, aveva espresso, il 16 scorso, la più viva preoccupazione per una «temuta deriva che rischia di annichilire la tutela e il governo del patrimonio culturale e paesaggistico» invitando a «considerare la spesa per la cultura nel suo pieno valore economico per l’impatto generale che essa ha sul sistema economico e sociale del Paese, dall’industria del turismo al cosiddetto Made in Italy, all’immagine complessiva della Nazione». Tremonti ha accelerato la macellazione della cultura. Parole al vento, dunque. Come le patetiche proteste del ministro Bondi. Il quale (al pari della collega dell’Ambiente, Prestigiacomo, per i Parchi Nazionali) ha già una sua idea: assumere, magari a New York, un super-direttore dei musei statali con più “polpa” e affidarne la gestione a società private. Il trionfo del privato sul pubblico. La fine della cultura come valore fondamentale per tutti. Specie per chi ha minor reddito e minori chances di partenza. Un futuro radioso.

l’Unità 7.8.08
Prospera la stupidità
di Maria Novella Oppo


«FU VERO AMORE QUELLO TRA HITLER E EVA BRAUN?». Questa acuta domanda è stata posta dal sommo Bruno Vespa nel corso dell'ultimo (magari fosse!) Speciale di Porta a porta. Partecipavano tra gli altri Alessandra Mussolini, in rappresentanza del nonno dittatore sanguinario e Fabrizio Del Noce in sostituzione della velina di turno, impegnata in vacanza con il politico di turno (in sostituzione del calciatore di turno, che è già in allenamento). Così si sprecano le risorse della Rai, con la magra consolazione che anche le tv private non sono da meno. Almeno la ex tv di Vittoria Brambilla: 20 milioni di euro buttati nella campagna elettorale più lunga della Storia. E pazienza. A Berlusconi i soldi non mancano; agli italiani sì, ma non a tutti. Infatti si vende meno pasta, ma più generi di lusso. Così come in Italia sono alla canna del gas la ricerca, la scuola e la cultura, che ora si vedono pure tagliati i fondi. Mentre prospera la «fama» di Maurizio Gasparri, che cerca di farsi conoscere nel resto del mondo, arrivando fino a Pechino.

l’Unità 7.8.08
Cittadini dalla nascita
di Anna Pariani, Massimo Pironi, Anna Serafini


Una società che investe sull’infanzia e i giovani scommette sul proprio futuro e sulle proprie capacità di crescita. Purtroppo in Italia non c’è mai stato un serio ed efficace intervento a sostegno della cura dei figli. Da troppo tempo il nostro sistema educativo porta segni di profonda crisi ed i giovani vedono la sola prospettiva di una vita precaria. Lo testimoniano i numeri con spietata freddezza: tasso di natalità tra i più bassi del mondo a fronte di un tasso di occupazione femminile tra i più bassi d’Europa; 10 posti nido su 100 bambini in età; oltre il 40% degli studenti con debiti formativi nella scuola alla fine dell’anno scolastico 2007-2008; bassi tassi di diplomati e laureati; i fondi destinati all’infanzia e alla famiglia in Italia sono la metà della media europea. Si tratta di uno spreco enorme di risorse umane, intellettuali ed economiche per un paese che ha bisogno di ricominciare stabilmente a crescere.
In Italia, invece, crescono le disuguaglianze di partenza, cresce la povertà minorile, ci sono molte regioni dove ancora i bambini senza una famiglia vivono negli istituti, e non c’è nessun investimento sull’infanzia e l’adolescenza da parte dello Stato. La breve stagione della Legge 285/98 si è infranta contro il governo delle destre nella legislatura 2001/2006 ed il breve periodo del governo Prodi 2006-2008 (Fondo nidi e fondo giovani) non ha consentito una inversione di tendenza.
Ancora oggi le famiglie italiane, i bambini ed i giovani, non possono contare in Italia su una rete di sostegno e promozione dei propri diritti: nessun sistema di welfare per le famiglie con figli, nessun incentivo all’autonomia dei giovani, nessun diritto all’educazione ed alla cura fin dalla prima infanzia.
Non ci si può stupire che in Italia non si facciano figli. All’inizio degli anni ‘90 la regione italiana con il più basso tasso di natalità era l’Emilia-Romagna. Nel 2006 questo dato risulta invertito e in Emilia-Romagna si è avuto il più alto tasso di crescita della natalità. Cos’è successo? Certo si è avuto il contributo determinante delle famiglie immigrate presenti sul territorio, con molti ricongiungimenti familiari. Tuttavia il dato significativo è che anche il tasso di fertilità delle emiliano-romagnole ha ricominciato a crescere, nello stesso periodo in cui la partecipazione femminile al lavoro in regione superava stabilmente la soglia del 60%.
Un pezzo di nord-europa trapiantato nel mezzo del mediterraneo: un sistema di welfare che non lascia indietro nessuno, a partire dai bambini. Lo dicono i numeri: nel 2007, 30 bambini su 100 tra 0 e 2 anni possono contare su un posto al nido (con punte di oltre 50 in alcune città); da 5 anni sono stati chiusi gli istituti minorili senza che nessuna deroga alla legge fosse necessaria; i minori seguiti dai servizi sociali con sostegni economici sono cresciuti del 17% tra il 2005 e il 2006.
Un welfare a misura di bambini deve sostenere il diritto al benessere, alla salute e, soprattutto, ad un sistema educativo e di cura che si faccia carico, assieme alle famiglie, della crescita dei bambini e dell’autonomia dei giovani: compiti di tutta la società. Per questo nasce in Emilia-Romagna la prima legge quadro sull’infanzia e i giovani, uno dei primi progetti di legge (www.dirittialfuturo.it) promossi nel 2007 dal neonato gruppo del Partito Democratico, approvato dall’Assemblea legislativa lo scorso 22 luglio con il titolo «Norme in materia di politiche per le giovani generazioni». Una legge unica per due settori (minori e giovani) tradizionalmente separati, vuole sottolineare l’esigenza di pensare politiche “longitudinali”, che non sezionino la vita sulla base dei bisogni, o, peggio, delle strutture amministrative, ma considerino il cammino di ogni persona (temporale, culturale, esistenziale) come un continuum, che nessuna norma può e deve spezzare.
«Ci vuole un villaggio per crescere un bambino», dice un proverbio africano. Questa legge sostiene le famiglie nei compiti di cura ed educazione quotidiani e straordinari, attraverso servizi e supporti economici, valorizzando e mettendo in rete tutte le agenzie educative che si occupano di infanzia e adolescenza sul territorio, finanziando pre e post-scuola, campi estivi, la promozione allo sport, centri educativi e giovanili, in relazione con la programmazione delle scuole e dei servizi educativi e sociali. Viene estesa la rete dei centri per le famiglie come luogo di accoglienza, informazione, ed erogazione degli assegni di cura per chi utilizza i congedi parentali. Si consolidano i servizi di coordinamento pedagogico, si strutturano le equipe territoriali per i minori in difficoltà e per i disabili, si promuovono i centri di secondo livello per la tutela, contro l’abuso e le violenze ai minori, spingendo gli enti locali ed il privato sociale a programmare assieme la rete dei servizi. Si dà compimento al sistema dell’accoglienza, dell’adozione e dell’affido, già fortemente radicato in Emilia-Romagna e si sostiene l’integrazione dei tanti giovani di seconda generazione che ancora non possono godere del diritto di cittadinanza.
È una legge che propone l’adolescenza e la gioventù non come “dazio da pagare” in attesa dell’età adulta, ma come un’età ricca di opportunità per mettersi in gioco, con servizi stabili e strutturati, veri e propri laboratori sociali e culturali per sviluppare le proprie potenzialità e coltivare interessi, con opportunità formative e di sostegno alla ricerca della propria autonomia di vita ed economica (centri giovanili e autogestiti, contributi alla casa, borse di studio, voucher e viaggi di formazione, sostegni all’imprenditorialità, ecc.).
Il primo diritto che la legge afferma è quello della partecipazione di bambini, adolescenti e giovani alle scelte che li riguardano, poiché la cittadinanza e la democrazia sono frutto di un percorso dove tutti devono sentirsi protagonisti.
Con questa legge in Emilia-Romagna possiamo dire che i bambini, gli adolescenti e i giovani sono cittadini a pieno titolo fin dalla nascita, pensando a una società in cui nessuno si senta escluso.
Da questo germe pensiamo che il PD possa e debba dare vita ad una proposta nazionale di legge quadro sulle giovani generazioni, dopo la proposta di istituzione del Garante nazionale per l’infanzia e l’istituzione della carta d’identità per i minori, presentate nei giorni scorsi assieme al segretario nazionale Walter Veltroni. Così si potrà sancire nel nostro Paese il diritto a crescere con eguali opportunità di partenza, indipendentemente dal censo della famiglia di origine, spezzando quei circoli chiusi e rigidi in cui la società italiana è ingabbiata, le vere caste che condannano all’emarginazione troppi bambini e giovani in Italia.

Anna Pariani è Coordinatrice della Consulta infanzia e adolescenza «Gianni Rodari», Emilia-Romagna;
Massimo Pironi è Presidente della V Commissione Assemblea legislativa Emilia-Romagna - Scuola, cultura, turismo e sport; Anna Serafini, senatrice, è vicepresidente della Commissione bicamerale infanzia


Corriere della Sera 7.8.08
Rifondazione Assemblea con il neo segretario del Prc
Ferrero: Liberazione sia in linea. Gelo tra il leader e la redazione
di Andrea Garibaldi


Il direttore di «Liberazione» al neo segretario del partito: rimarrei volentieri. Il direttore può anche appartenere alla minoranza, no?

ROMA — Paolo Ferrero scende dal terzo piano al primo del quartier generale di Rifondazione comunista, viale del Policlinico 131, entra nell'arena. Alla redazione di Liberazione, "giornale comunista", teoricamente organo del partito, dice: «Io credo che Liberazione debba vivere, ma non so bene quali sono i conti, dovremo ragionare sullo stato generale del partito... ». Aggiunge: «Capita spesso che a una Festa di Liberazione qualcuno intervenga contro il giornale e tutti giù ad applaudire...».
Ci sono meno di trenta fra giornalisti e poligrafici (su 54 totali), nel corridoio del giornale. Il nuovo segretario Ferrero è seduto, le maniche della camicia bianca arrotolate, quasi tutti gli stanno attorno in piedi e il clima è afoso, ma in realtà gelido, sospettoso. Fra i giornalisti, quelli schierati con Ferrero contro Vendola si contano sulle dita di una mano. Stefano Bocconetti, che lasciò l'Unità per Liberazione assieme al direttore Sansonetti, tocca il punto: «Segretario, tu non credi che l'autonomia di Liberazione sia un valore, che le posizioni diverse siano stimolo per il partito?». «Penso — replica Ferrero — che il giornale debba avere una sua autonomia dentro una linea condivisa». E cita il caso di questa settimana, gli «editoriali» di Andrea Colombo, peraltro portavoce di Nichi Vendola, in difesa di Mambro e Fioravanti riguardo alla strage di Bologna: «Mi trovo a dover ripetere e spiegare in giro che l'opinione di Liberazione può non essere il pensiero del partito». E qui c'è l'unico intervento (tecnico) del tenebroso Sansonetti: «Quelli non erano editoriali, segretario, un pezzo era di spalla in prima, l'altro di taglio dentro».
Sansonetti è l'uomo che ha innervosito molto Ferrero durante la campagna per il congresso e che ha suggellato la vittoria inattesa di Ferrero con uno "sgarbo": il giorno della proclamazione, intervista al neo-segretario, ma anche intervista a Vendola, lo sconfitto. In assemblea, i redattori più vicini al direttore dipingono il giornale come «un intellettuale collettivo». Anubi d'Avossa Lussurgiu, del comitato di redazione, ricorda che i giornalisti hanno un contratto e una deontologia e che il giornale dipende dal consiglio d'amministrazione. Negli ultimi anni le scelte eterodosse di Sansonetti sono non contabili, pezzi anti-Fidel, meglio Rebecchini e Darida di Veltroni, il paparazzo Corona è una vittima del sistema, amnistia per Previti, scuse per la Carfagna. Sansonetti ha firmato un giornale aperto, provocatorio, che ha trovato echi, ma non è cresciuto nelle vendite. Adesso Ferrero chiede «più inchieste », magari sulle condizioni degli operai, sulle cassiere dei supermercati, sul sindacato metalmeccanici. Ferrero di sicuro teme che rimuovere Sansonetti susciterebbe la consueta (e respinta) accusa contro di lui: stalinista. Sansonetti, sornione, dice: «Rimarrei volentieri, il direttore può anche appartenere alla minoranza, no?». Dipende da come reggerà un partito spaccato, dalla potenziale scissione dei vendoliani. Dipende dai tagli dei contributi ai giornali di partito. Se il governo non ci ripensa, altri saranno i temi da da discutere.

Corriere della Sera 7.8.08
Dopo l'articolo sul «manifesto» Cacciari: il mio ex amico Alberto è fuori di senno. La Gagliardi: provocazione da condividere
«Silvio peggio del fascismo». Asor Rosa spacca la sinistra
di Fabrizio Roncone


ROMA — Al canto delle cicale, a Monticchiello — dimenticando per un giorno l'assedio degli immobiliaristi che vogliono cementargli, così racconta, la Val d'Orcia — il professor Alberto Asor Rosa, 74 anni, inflessibile critico letterario, leggendario docente di letteratura italiana alla Sapienza di Roma, ex direttore di Rinascita, ex deputato del Pci, interrompe le vacanze e si mette a scrivere un articolo di fondo per il manifesto.
«Il terzo governo Berlusconi rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nelle storia d'Italia dall'Unità in poi. Più del fascismo? Inclino a pensarlo... ».
Le prime righe del lungo articolo sono queste. Il quotidiano comunista lo ha pubblicato ieri: e non sono stati pochi coloro che, proseguendo la lettura, sono rimasti sorpresi. Sentite: «Il fascismo — continua Asor Rosa — con tutta la sua negatività, costituì il tentativo di sostituire a un sistema in aperta crisi, quello liberale, un sistema completamente diverso, quello totalitario. Pochi oggi possono consentire con la natura e gli obiettivi di quel tentativo; nessuno, però, potrebbe contestarne la radicalità e persino, dentro un certo circoscritto ambito di valori, le buone intenzioni».
Lette queste righe è stato inevitabile cercare il professore.
«Siete stupiti?». Un po'. «Beh, è un discorso che può forse suonare strano, lo ammetto, specie se formulato da me. Ma la situazione è così eccezionale che non ci si può più accontentare degli schemi classici e...». E quindi lei... «Sostengo, limitandomi a una valutazione storica, che almeno il fascismo, a differenza di Berlusconi, aveva ambizioni alte, dimostrava di tenere al bene collettivo della nazione...».
Va bene, professore, il concetto è chiaro. Così chiaro che c'è chi, nel commentarlo, alza anche i toni della voce. La voce è quella di Massimo Cacciari, filosofo, sindaco di Venezia, esponente del Pd.
«Primo: io ormai questi intellettuali li sopporto meno dei politici...». Secondo? «Quella del mio ex amico Asor Rosa è una provocazione inutile, perché sono incomparabili sia le epoche che i personaggi. Solo uno fuori di senno può paragonare Berlusconi a Mussolini». Eppure... «Allora paragoniamo Putin a Stalin? O Sarkozy a Napoleone? Purtroppo certe figure storiche sono grandi ma anche tragiche. E certo che Berlusconi sarà sempre un gradino sotto Mussolini! Ma grazie al cielo escludo che il Cavaliere ci porti dentro un conflitto mondiale...».
Cacciari è molto facile da intervistare.
Perché è sempre deciso, netto. Così prosegue: «Non so: Asor Rosa è forse ancora impressionato dalla bonifica della Pianura Pontina? Beh, sì: in effetti Mussolini spostò in massa migliaia di contadini da una regione all'altra. Sì, certo, ci riuscì benissimo, fu un esempio di decisionismo: infatti, come dire? era un dittatore ».
I toni sono questi. La Rina Gagliardi — editorialista di Liberazione, ex senatrice rifondarola di strettissima osservanza bertinottiana — li abbassa «un po' perché fa troppo caldo», un po' perché il teorema di Asor Rosa, in fondo, sia pure parzialmente, lo condivide.
Andiamo con ordine. «Il paragone mi pare un poco incauto. Mussolini guidò un regime per vent'anni, il terzo governo Berlusconi è appena al giro di boa dei primi cento giorni. Detto questo...». Ecco, detto questo? «Non c'è dubbio che quello in carica sia il peggior governo mai comandato da Berlusconi e che la qualità della democrazia, in Italia, sia assai scaduta...». Quindi? «Direi che se quella di Alberto è una provocazione estrema, io sono qui, a condividerla».
L'ultima telefonata è per il professor Lucio Villari, che insegna Storia contemporanea all'università Roma Tre. Il professor Villari, sulle prime, sembra essere scettico come il collega Cacciari. «Il paragone proposto da Asor Rosa, per lo storico, è tecnicamente impraticabile: se no, per capirci, potremmo paragonare anche Tremonti a Quintino Sella e via dicendo...». Poi l'animo dello storico cede però il passo. «Naturalmente, se allo storico si chiedesse una semplice valutazione del berlusconismo, allora lo storico dovrebbe provare a immaginare le eventuali evoluzioni di questa fase della democrazia italiana... Ricordando, per esempio, che nel 1933, in Germania, anche il governo di Hitler fu eletto democraticamente...».

Corriere della Sera 7.8.08
Sicurezza. Il sindacato della polizia municipale: ora seimila armati in più
Alemanno: pistole ai vigili Prima volta dopo 35 anni
Roma, divieto di frugare nei rifiuti: stop dopo le polemiche
di Fiorenza Sarzanini


Primo giorno con i nuovi poteri dei primi cittadini. Chiamparino punta a colpire i locali dove si spaccia

ROMA — Sarà armata la polizia urbana di Roma. Lo ha annunciato ieri sera il sindaco Gianni Alemanno. «Dopo 35 anni — ha detto — la polizia municipale di Roma torna ad avere un armamento per garantire l'autodifesa e la difesa dei cittadini». È stata una lunga trattativa con il sindacato quella che ha portato all'accordo. Hanno firmato tutte le sigle, salvo gli RdB. E alla fine c'è stato un applauso. A settembre ci sarà il voto del Consiglio comunale. I seimila vigili romani potranno quindi, ha spiegato il sindaco, «avere delle pistole salvo i casi di obiezione di coscienza. L'addestramento sarà lo stesso della polizia ». Soddisfatto il comandante dei vigili urbani Angelo Giuliani: «Aspettavamo l'accordo da anni». «Un momento storico per la sicurezza della Capitale », lo ha definito Alessandro Marchetti, segretario generale aggiunto del Sindacato unitario lavoratori polizia municipale (Sulpm). «Con questo atto — ha aggiunto il sindacalista — la polizia municipale romana si avvicina a quelle delle altre grandi città italiane come Milano, Torino, Bologna, Genova, Firenze, Napoli, Palermo e Catania, che sono tutte armate».
Intanto è su ambulanti, prostitute, mendicanti che l'amministrazione «creativa» sollecitata dal ministro dell'Interno Roberto Maroni si scatena. Arrivano le ordinanze dei sindaci in base alla nuova normativa e si concentrano al momento proprio sulle fasce ritenute più deboli. A Roma Alemanno sta preparando un provvedimento che vieta di «rovistare nei cassonetti» anche se il duro attacco arrivato dopo l'annuncio dalla Comunità di Sant'egidio lo ha convinto a prendere tempo e ad avviare «verifiche » e «confronti». L'ordinanza intende punire pure l'accattonaggio molesto, uno dei «comportamenti» che anche altri annunciano di voler contrastare con maggior efficacia. Nel mirino anche i lavavetri e i venditori agli angoli delle strade. Più complicato, come riconosce lo stesso sindaco della capitale, è affrontare il problema della prostituzione di strada: tutto rinviato a settembre «quando avremo un quadro di intervento più completo». Multe da 500 euro ai clienti saranno invece contestate a Padova dove il sindaco Flavio Zanonato, del Partito Democratico, si appresta a firmare altre ordinanze «per «liberare gli immobili occupati e le aree invase da ambulanti o le zone rese invivibili dalla presenza dei clandestini». A Torino Sergio Chiamparino punta a colpire i luoghi dove si spacciano stupefacenti come locali notturni e bar. È stato lui, ieri, il primo a porre il problema delle risorse finanziarie. Cento milioni di euro sono stati stanziati, ma come ha ricordato lo stesso Maroni «potranno essere messi a disposizione soltanto dopo la firma del protocollo d'intesa con l'Anci». «E senza soldi — dice Chiamparino — non si fa nulla».
Molto critico Mario Marazziti, portavoce della comunità di Sant'Egidio, che ha causato il ripensamento di Alemanno: «Da settimane sembra che il problema dell'Italia siano rom, mendicanti. Vorrei ricordare che Roma e altre grandi città italiane sono e restano tra le più sicure del mondo. Nel nostro Paese c'è sicuramente un problema di criminalità organizzata e di illegalità diffusa che riguarda milioni di cittadini».

Corriere della Sera 7.8.08
Quest'Occidente non capisce l'Asia
di Martin Jacques


Siamo solo a metà del 2008, eppure quest'anno ha già visto un considerevole spostamento dei rapporti di forza a livello globale. Se la mentalità dei Paesi occidentali, invece, resta ferma immobile e crede ancora di poter dettare regole a tutti, ciò non sorprende: è stato effettivamente così per tanto tempo che nessuno ha mai pensato di mettere in dubbio tale superiorità. L'Occidente presume tuttora di avere dalla sua parte diritto e potere, di sapere sempre quel che occorre fare in ogni circostanza e non esita, all'occorrenza, di imporre agli altri tanto la sua saggezza politica che la sua rettitudine morale. C'è però un intoppo: l'autorità dello sceriffo globale va sgretolandosi inesorabilmente.
Quest'anno ci ha presentato due esempi clamorosi: il primo è stato la Birmania (o Myanmar, per l'esattezza). Siamo tutti d'accordo che il Paese è governato da un regime odioso. Tuttavia, in seguito al passaggio del ciclone, il resto del mondo si è trovato ad affrontare il dilemma di come soccorrere i milioni di vittime di un disastro umanitario. Com'era prevedibile, l'Occidente ha subito rispolverato l'idea di un intervento militare ed ha fatto partire gli incrociatori a pattugliare le coste della Birmania, mentre già si parlava di atterraggio di elicotteri e di mezzi anfibi da inviare nel delta dell'Irrawaddy.
Era un'idea chiaramente assurda. L'alleato più stretto della Birmania è la Cina, con la quale condivide un lungo confine; il paese è inoltre membro dell'Asean (l'Associazione di nazioni del sud est asiatico). La Cina e l'India, come tutti i paesi dell'Asean presenti nella regione, si sono opposte fermamente all'impiego della forza militare.
Il fatto che l'Occidente non sia stato in grado di cogliere le realtà geopolitiche dell'Asia orientale — oggi la più vasta regione economica del mondo — e adattare di conseguenza la sua politica, ha svelato come pregiudizi e atteggiamenti antiquati siano ancora, purtroppo, ben radicati. Anche quando la sola idea appare ridicola e impraticabile, il richiamo all'intervento militare da parte sia dei media che dei leader politici sembra essere l'unico riflesso possibile. In realtà, la Birmania ha dimostrato i limiti della potenza occidentale e la necessità che l'Occidente riconosca questi limiti, dimostrandosi disposto a rispettare e a collaborare con la regione, anziché puntare subito all'intervento armato, scavalcando i governi locali come chissà quale grande imperatore. Il secondo esempio è lo Zimbabwe. E qui siamo davanti a una realtà assai dolorosa per la psiche britannica. Siccome soffrono di una forma acuta di amnesia coloniale, gli inglesi continuano a credersi detentori di qualche diritto inalienabile a rinfacciare allo Zimbabwe i suoi fallimenti. Ma in quanto a responsabilità per l'attuale situazione del Paese — dall'aver tollerato la dichiarazione di indipendenza di Ian Smith fino alla vergognosa normativa agraria che assicurava ampi privilegi ai coloni bianchi — l'Inghilterra non è seconda a nessuno. Malgrado tutto questo, gli inglesi vogliono ancora sbandierare una superiorità morale inattaccabile nei confronti dello Zimbabwe.
Eppure, anche questo episodio ha svelato l'impotenza inglese — e occidentale — nel modo più brutale. Dopo il gran parlare che se n'è fatto al vertice del G8, il tentativo anglo- americano di inasprire le sanzioni contro lo Zimbabwe è naufragato presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove è stato bocciato da Russia e Cina e contrastato dal Sudafrica e da altri due Paesi. Nel frattempo, il presidente sudafricano Thabo Mbeki, i cui sforzi per favorire un qualche accordo erano stati ampiamente e sdegnosamente dileggiati, ha messo a segno una grande vittoria diplomatica. Nominato mediatore per lo Zimbabwe dalla Comunità per lo sviluppo dell'Africa del sud (Sadc), Mbeki è riuscito a portare al tavolo dei negoziati sia il partito Zanu-PF di Robert Mugabe che l'Mdc di Morgan Tsvangirai.
L'Occidente non è più in grado di offrire soluzioni, sotto la pressione crescente della forza, della competenza e della sicurezza di sé conquistate dai Paesi emergenti. Al posto della potenza occidentale universale, oggi assistiamo alla nascita della regionalizzazione e delle soluzioni regionali. Ciò riflette i cambiamenti più ampi già in atto nell'economia globale. Il potere economico sfugge dalle mani dei paesi del vecchio G7, dirigendosi verso le cosiddette economie Bric (Brasile, Russia, India e Cina), o, per essere più accurati, verso un numero sempre maggiore di economie in via di sviluppo. Il G7 rappresenta oggi meno della metà del pil mondiale e perde quota costantemente. Tali spostamenti economici fanno da preludio ineluttabile a mutamenti paralleli nel potere politico.
I due esempi qui discussi sono tipici di questo processo: la Birmania si è rivolta a Cina e India, oltre che ai Paesi dell'Asean, mentre lo Zimbabwe ha fatto affidamento al Sudafrica, ma anche alla Russia e in modo speciale alla Cina, che in questa occasione si è sentita incoraggiata a svolgere un ruolo più incisivo sul palcoscenico mondiale.
Appare inoltre evidente il fallimento complessivo della politica estera anglo-americana. All'epoca dell'invasione dell'Iraq, non si sospettava neppure un imminente declino del potere economico occidentale. Al contrario, leader politici come Bush e Blair apparivano convinti di assistere agli albori di una nuova era di rinnovata potenza occidentale.
Mai sottovalutare la capacità dei leader politici a fare errori madornali in materia di storia. L'invasione dell'Iraq e dell'Afghanistan è servita piuttosto ad accelerare il declino dell'Occidente: essa ha mancato del tutto gli obiettivi prefissati ed ha evidenziato la reale impotenza dei paesi occidentali. In contrasto, stati «canaglia» come Corea del Nord, Zimbabwe e forse anche l'Iran, lanciano chiari segnali di reagire positivamente a ben altro genere di trattamento. L'interventismo liberale ha fallito, eppure l'Occidente non mostra affatto di aver capito il nuovo mondo, né di saper vivere secondo le sue regole.
L'Occidente resta aggrappato a convinzioni non più corrispondenti alla realtà, si rifiuta di riconoscere l'erosione della sua autorità e, di conseguenza, mal si adatta alle nuove circostanze e sembra incapace di trovare risposte innovative. Questo è certamente vero nel caso dell'Inghilterra. Il ministro degli esteri inglese si limita a ripetere i cliché e le sciocchezze del governo Blair, ormai screditato: non si è sentita finora, da parte sua, un'idea, una proposta o un'intuizione qualsivoglia a indicare che abbia compreso la natura di questo nuovo mondo. La politica estera inglese resta invischiata nel suo passato e nei suoi legami con gli Stati Uniti. In tali condizioni, l'Inghilterra si ritroverà trascinata — volente o nolente — nella nuova era, sempre più emarginata e delusa, ridotta al ruolo di spettatore anziché architetto, a brontolare e recriminare a vuoto.
*Ricercatore alla London School of Economics © Guardian News & Media 2008 ( traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 7.8.08
Archivi. Le armate fasciste dal '41 al '43 lasciarono una scia di sangue in Jugoslavia e Grecia. Le accuse negli atti della Commissione Gasparotto
Crimini di guerra italiani, il giudice indaga
Le stragi di civili durante l'occupazione dei Balcani. I retroscena dei processi insabbiati
di Dino Messina


Altro che brava gente! Italiani come i tedeschi, che dal 1941 al 1943, nei Balcani e in Grecia, applicarono la regola della «testa per dente», della rappresaglia contro le popolazioni, di dieci civili fucilati per ogni italiano ucciso. In altre parole si macchiarono di gravissimi crimini di guerra, che si estinguono soltanto con la morte del reo. Ora su queste verità scomode, che emergono con sempre più forza dalle inchieste giornalistiche e soprattutto dalla ricerca storica, ha deciso di intervenire la magistratura militare. Il procuratore Antonino Intelisano, lo stesso che nel 1994 istruì il processo contro il capitano delle SS Erich Priebke, e che alla ricerca di prove trovò a Palazzo Cesi, presso la procura militare generale, il famoso «armadio della vergogna», che nascondeva circa settecento pratiche contro i nazisti autori delle stragi in Italia, ha aperto un'inchiesta, per il momento «contro ignoti», sugli eccidi che i militari italiani compirono nei territori di occupazione. Come ha suggerito Franco Giustolisi in un intrigante articolo sul manifesto del 28 giugno, ci troviamo davanti a un «secondo armadio della vergogna»?
Antonino Intelisano, seduto nel suo studio di procuratore presso il tribunale militare, in viale delle Milizie a Roma, prima di rispondere ci mostra il carrello con alcuni faldoni che portano il segno degli anni. «Quella dell'armadio della vergogna numero due — taglia corto — è un'invenzione giornalistica che non corrisponde alla realtà delle cose». La verità tuttavia è che il procuratore generale ha acquisito materiale di grande interesse sia di carattere giudiziario, sia presso gli archivi che di solito sono frequentati soltanto dagli storici: ministero della Difesa, presidenza del Consiglio. In particolare, dagli archivi dello Stato maggiore dell'esercito sono arrivate le conclusioni della Commissione parlamentare presieduta da Luigi Gasparotto, politico d'altri tempi che aveva avuto il figlio Leopoldo ucciso nel campo di Fossoli e aveva lavorato con grande impegno ed equilibrio, soprattutto tra il 1946 e il 1947, alla raccolta e al vaglio delle circa ottocento denunce provenienti da tutti i territori occupati dagli italiani, e quindi alla selezione dei casi in cui non si poteva fare a meno di denunciare il reato. «La commissione — scriveva Gasparotto il 30 giugno 1951 nelle note conclusive inviate al ministro della Difesa, Randolfo Pacciardi — ha tenuto nel debito conto la complessità della situazione, ma non l'ha considerata scusante». Così non poteva farla franca il generale Mario Roatta, comandante della II armata in Jugoslavia, che nella tremenda circolare 3c del 1˚dicembre 1942 aveva disposto di fucilare non soltanto tutte le persone trovate con le armi in pugno, ma anche coloro che imbrattavano le sue ordinanze, oppure sostavano nei pressi di opere d'arte. E aveva deciso espressamente di considerare «corresponsabili degli atti di sabotaggio le persone abitanti nelle case vicine».
Le conclusioni della Commissione Gasparotto, la cui documentazione nessuno storico ha potuto finora studiare per intero, chiamavano in causa anche il generale Mario Robotti, comandante del-l'XI corpo d'armata, che era riuscito a inasprire gli ordini di Roatta al punto di dire la frase che è diventata proverbiale, «qui si ammazza troppo poco», o il governatore del Montenegro, Alessandro Pirzio Biroli, che fece fucilare circa 200 ostaggi. E tutta una serie di personaggi, ufficiali o funzionari dell'amministrazione civile, che operarono soprattutto in Jugoslavia e in Grecia.
In seguito a questo tipo di informazioni, spiega Intelisano, «alla fine degli anni Quaranta fu aperto presso questo ufficio un procedimento nei confronti di 33 persone accusate di concorso in uso di mezzi di guerra vietati e concorso in rappresaglie ordinate fuori dai casi consentiti dalla legge. Il procedimento si concluse il 30 luglio 1951 con una sentenza del giudice istruttore militare. Questi stabilì che non si doveva procedere nei confronti di tutti gli imputati, perché non esistevano le condizioni per rispettare il principio di reciprocità fissato dall'articolo 165 del Codice penale militare di guerra». Secondo tale norma, un militare che aveva commesso reati in territori occupati poteva essere processato a patto che si garantisse un eguale trattamento verso i responsabili di reati commessi in quella nazione ai danni di italiani. Vale a dire, per esempio: noi processiamo i nostri militari colpevoli, voi jugoslavi condannate i responsabili delle uccisioni nelle foibe. L'articolo 165, continua Intelisano, è stato riformato, con l'abolizione della clausola di reciprocità, nel 2002. «Così quando, grazie a libri come Si ammazza troppo poco di Gianni Oliva e Italiani senza onore di Costantino Di Sante, o a trasmissioni televisive e articoli che denunciavano la strage di 150 civili uccisi per rappresaglia da militari italiani il 16 febbraio 1943 a Domenikon, in Tessaglia, si è imposto all'attenzione il problema del comportamento delle nostre truppe, ho deciso di aprire un'inchiesta. Per il momento "contro ignoti" perché noi magistrati, a differenza degli storici, non possiamo processare i morti». Nei faldoni che il procuratore sta studiando sono elencati decine di nomi, soprattutto militari che parteciparono alle rappresaglie contrarie alle leggi internazionali di guerra. Quegli elenchi, finora di interesse puramente storico, diventeranno incandescente materia penale, appena si individuerà uno dei responsabili ancora in vita. E allora avremo un nuovo caso Priebke. Ma con un italiano nelle vesti del carnefice.
L'aggravante di tutta la faccenda, ci dice lo storico Costantino Di Sante, uno dei pochi che hanno potuto consultare, seppur parzialmente, i 70 fascicoli prodotti dalla Commissione Gasparotto, è che a macchiarsi di reati non furono soltanto le camicie nere o i vertici militari politicizzati. Ma ufficiali e soldati normali. Come gli alpini dei battaglioni Ivrea e Aosta, «che rastrellarono undici villaggi in Montenegro e fucilarono venti contadini ». Il famigerato prefetto del Carnaro, Temistocle Testa, racconta Di Sante, per l'eccidio di Podhum, villaggio a pochi chilometri da Fiume, «si servì di reparti normali ». Dopo aver circondato il villaggio e bloccato tutte le strade di accesso, è scritto negli atti della Commissione Gasparotto, che recepì una denuncia jugoslava, il 12 luglio 1942 reparti dell'esercito italiano, coadiuvati dai carabinieri e dalle camicie nere fucilarono oltre cento uomini, catturarono tutta la rimanente parte della popolazione, circa 200 famiglie, confiscarono beni mobili e circa 2000 capi di bestiame».
La situazione era esasperata da una guerriglia partigiana efficace e crudele e dalle violente faide interetniche. Ma come giustificare le modalità dei rastrellamenti di Lubiana ordinati dal generale Taddeo Orlando, che nel dopoguerra avrebbe proseguito normalmente la sua carriera? La capitale della Slovenia fu circondata il 23 febbraio 1942 con reticolati di filo spinato. Dei quarantamila abitanti maschi, ne furono arrestati 2858. Circa tremila vennero catturati in un secondo rastrellamento. La chiusura dei centri abitati con reticolati venne applicata in altre 35 località. Oltre ai maschi adulti venivano deportati anche vecchi, donne e bambini. La maggior parte finiva nel campo dell'isola di Arbe, oggi Rab, in Croazia, dove morirono in 1500, soprattutto di stenti.
Ogni anno una maratona attraverso il perimetro del reticolato ricorda a Lubiana il periodo dell'occupazione militare italiana.
Prigionieri serbi scortati da soldati italiani nel 1941 dopo l'invasione della Jugoslavia (foto Archivio Corsera) Luigi Gasparotto e, sopra, il procuratore Antonino Intelisano I generali Mario Roatta e Mario Robotti, che ebbero gravi responsabilità nei crimini contro i civili

Corriere della Sera 7.8.08
«Norma incostituzionale Così la giustizia si fermò»
di D. M.


Sergio Dini è oggi un pubblico ministero presso la procura di Padova, ma sino al 30 giugno è stato un giudice militare. A lui si devono alcune sollecitazioni importanti che hanno portato a chiarire perché i famosi fascicoli dell'armadio della vergogna rimasero nascosti per cinquant'anni. Anche nella vicenda dei crimini commessi dai militari italiani nei territori occupati durante la Seconda guerra mondiale, Dini sta avendo un ruolo importante. Intanto è sua la lettera al Consiglio della magistratura militare (l'organo di autogoverno) in cui si chiede conto delle ragioni per cui le conclusioni della commissione Gasparotto non ebbero un esito giudiziario.
In seguito al riemergere del caso Domenikon, la trasmissione di Sky sulla strage compiuta da italiani in Grecia, alla quale ha partecipato come consulente, Dini in marzo ha anche inviato una lettera esposto al tribunale militare, che è stata messa negli atti dell'inchiesta dal procuratore Intelisano.
«Se è vero — commenta Dini — che non si procedette contro i nostri militari colpevoli di reati perché mancava la condizione di reciprocità, ci troviamo di fronte a un'aberrazione giuridica. Applicata ai crimini di guerra, la norma del vecchio articolo 165 era anticostituzionale». All'ex giudice militare oggi interessa che l'inchiesta giudiziaria arrivi sino in fondo per una serie di considerazioni di ordine morale e giuridico: «Innanzitutto — afferma con passione Dini, seduto alla scrivania del suo nuovo ufficio — dal punto di vista giuridico certi tipi di crimini sono imprescrittibili e quindi vanno perseguiti. Tanto più che il diritto penale internazionale, cui in genere competono i crimini di guerra e contro l'umanità, si basa su precedenti. Se stabiliamo dei punti fermi, sarà sempre più difficile nascondersi dietro la scusa deresponsabilizzante dell'obbedienza agli ordini. C'è poi un'altra questione di equità: se abbiamo processato dei vecchi militari tedeschi, non possiamo chiudere gli occhi davanti allo stesso tipo di reati commessi da italiani».
Dini infine pone un problema di ordine generale, che interessa molto gli storici: «Perché il ministro della Difesa non rende davvero accessibili a tutti gli studiosi i controversi documenti che mettono sotto accusa i comportamenti illegali degli italiani in Etiopia, Grecia, Jugoslavia, Francia, Russia?». Il ministro della Difesa Ignazio La Russa potrebbe riuscire laddove i suoi colleghi del centrosinistra hanno fallito.

Repubblica 7.8.08
Come siamo influenzati dallo scandire delle ore? Se lo sono domandati due ricercatori americani La risposta è stata sorprendente: la nostra percezione varia dall'età. E può farci fare scelte decisive
La clessidra che ci cambia la vita
di Vanna Vannuccini


Carriera, amicizie o matrimoni: tutto dipende dal modo in cui concepiamo le ore che passano

Insomma, la nostra esperienza personale del tempo è sempre un enigma, notava già Hans Castorp ne "La Montagna Incantata" di Thomas Mann: se viviamo qualcosa di affascinante, abbiamo l´impressione che il tempo voli. Possiamo fare in una giornata un viaggio da Siviglia a Cordova, visitare una nuova città, ascoltare un concerto, e in retrospettiva ci sembrerà che siano passati tre giorni, invece che dodici ore. Nel ricordo, il tempo che era volato via si estende. Quando invece ci capita di aspettare, all´aeroporto o nella sala d´aspetto del dentista, le ore non passano mai; ma alla fine la giornata è come se non ci fosse stata. Il tempo che ci era sembrato interminabile si è ristretto, perché non ha lasciato tracce.
Tutto questo per dire che il tempo è una materia prima piena di paradossi e di misteri, che resta impervio alla nostra volontà e non si fa ingannare, ma ci influenza molto più di quanto non ci rendiamo conto. Anzi, il nostro atteggiamento verso il tempo plasma tutti gli aspetti della vita scrive Philip Zimbardo, professore emerito a Stanford e autore del "The time paradox, Il paradosso del tempo, La nuova psicologia del tempo che cambierà la vostra vita". Zimbardo è famoso anche per un suo libro precedente, "L´Effetto Lucifero: capire perché i buoni diventano cattivi", nel quale dimostrava che è la forza delle circostanze a rendere la grande maggioranza di noi capaci di fare il male, (e solo pochi eroici). Su questa base aveva testimoniato come esperto in tribunale a favore di uno dei torturatori di Abu Ghraib.
La nostra percezione del tempo, afferma dunque Zimbardo, può mandare a monte una carriera o spronarci a raggiungere alte vette professionali, può favorire matrimoni e amicizie o farli fallire, senza che ne siamo consapevoli.
Un esempio: vi viene chiesto con chi preferireste passare mezz´ora. Potete rispondere: A) con un membro della vostra famiglia B) con una persona conosciuta di recente C) con l´autore di un libro che avete appena letto. Se avete una certa età, la risposta sarà sicuramente A. Se siete più giovani, sceglierete B o C. Ma immaginate che una nuova invenzione vi garantisca vent´anni sicuri di vita sana in più: le vostre risposte cambieranno? Sì, assicura Zimbardo, che insieme al suo assistente John Boyd, laureato a Stanford, ha condotto ricerche su questo tema nel corso di 30 anni su 10mila persone adulte. Quando il tempo del futuro è compresso, la persona anziana preferisce contatti con membri della famiglia per soddisfare i suoi bisogni emotivi. Ma le priorità cambiano se il senso del tempo che ha davanti a sé si espande. Altro esempio: se non abbiamo imparato fin da bambini ad avere una prospettiva temporale, e quindi a sapere rinviare le nostre gratificazioni, tutti i nostri buoni propositi di fine anno (voglio dimagrire, smettere di fumare, smettere di comprare troppe cose) saranno vani.
Nella loro ricerca, Zimbardo e Boyd hanno identificato sei prospettive con cui le persone guardano al tempo: positive o negative rispetto al passato, edonistiche o fataliste sul presente, fiduciose o trascendentali sul futuro. Senza dimenticare, naturalmente, che, si può passare da una prospettiva all´altra perché, come scrive Shakespeare, «one man in his time plays many parts» (un uomo nella propria vita recita molte parti).

il Riformista 7.8.08
La posizione della File
sui tagli ai giornali
 decisi per decreto legge



I tagli all'editoria, o meglio i tagli ai contributi ai giornali no profit, recentemente approvati con decreto legge, avranno effetti ben più ampi di quelli finora paventati. Questa la posizione del presidente della File - Federazione italiana liberi editori - Enzo Ghionni. Negli ultimi giorni, si parla dell'ipotesi di chiusura di qualche decina di quotidiani e del licenziamento di diversi giornalisti. Non è così. Le conseguenze dell'applicazione dell'art. 44 del decreto legge n. 112/08, approvato a colpi di fiducia, sono molto più gravi: fruiscono dei contributi diretti all'editoria 74 quotidiani e centinaia di periodici (fonte: sito web della presidenza del Consiglio dei Ministri). Ipotizzando una ventina di giornalisti per quotidiano, i giornalisti a rischio sono qualche migliaio; altro che diversi. Non parliamo dei poligrafici e dell'indotto.
Qualche dato. L'unica colpa di queste aziende, la vera responsabilità, è quella di non riuscire a stare sul mercato. Bene; anche qui, bando alla chiacchiere, vediamo i numeri di questo mercato. Citando le fonti. La relazione annuale dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni del 2008 ha individuato le quote di mercato dei mezzi che compongono il Sic, il sistema integrato delle comunicazioni. La stampa quotidiana vale il 14,7 per cento del totale, mentre la televisione il 35,9 per cento, ben oltre il doppio. Un'anomalia del tutto italiana. Ma, ancora, c'è un dato ancora più significativo: la distinzione tra tipologie di ricavi nell'ambito dell'editoria quotidiana. Bene; i ricavi per vendita di copie nel 2007 sono stati pari a 908 milioni di euro; quelli per pubblicità sono stati pari a 1.366 milioni di euro. Il rapporto tra ricavi pubblicitari e somma dei due ricavi è pari ad oltre il 62%. I giornali che percepiscono i contributi cosiddetti diretti hanno un vincolo fissato dalla legge: ossia che i ricavi da pubblicità non possono superare il 30 per cento dei costi. Il che dimostra che sono mezzi che il mercato non sorregge. Eppure sviluppano cultura, dibattito, politica, informazione. Sono l'ossatura di un sistema pluralistico che oggi c'è nel mondo della carta stampata, a differenza che nella televisione. Proprio perché sono rivolti in via prioritaria ai lettori e non al mercato della pubblicità che li esclude. 
Per una riforma organica. Questo sistema viene azzerato con un decreto legge. La nostra associazione, che annovera da sola, tra gli altri iscritti, circa 45 quotidiani, sta da anni sostenendo la necessità di una riforma organica del settore che parta da una seria conoscenza della realtà e che si muova lungo la doppia direttrice di uno sviluppo del sistema industriale dell'editoria italiana e della garanzia del pluralismo. Il decreto legge azzera ogni ipotesi di dibattito e produce effetti devastanti. Se il governo non prenderà provvedimenti immediati rispetto a quanto previsto dall'art. 44 del decreto legge n. 112/2008, la riforma verrà varata in un quadro oligopolistico speculare a quello esistente nel settore dell'emittenza radiotelevisiva. E sarà troppo tardi per porre rimedio ad un vero attentato non solo all'art. 21 della Costituzione, ma al più generale principio sancito agli artt. 2 e 3 della stessa di libera formazione del pensiero. Ci auguriamo che il governo sappia porre rimedio ad una situazione che mina alla base la democrazia, proponendo velocemente una riforma organica del settore da discutere in Parlamento.

ècole numero 6 agosto 2008
Le destre, le sinistre e la scuola. Firenze, Sala dell’Arci, piazza dei Ciompi 11, 6 settembre 2008, ore 10 – 18.


Care, cari,
con la presente siete invitati al seminario di école di sabato 6 settembre a Firenze. Il tema è Le destre, le sinistre e la scuola.
Va be'... lo sappiamo anche noi che non è esattamente un modo festoso di aprire le porte all'anno nuovo, la politica scolastica. Viene in mente il titolo del film di Aldo Zanasi di qualche mese fa, Non pensarci. O anche Non aprite quella porta (che poi c'è il sequel sempre più orrendo tutti gli anni). Però bisognerà pur tornare a scuola, e non è detto che sia peggio di questa estate di lodi alfani, poliziotti torturatori assolti, pubblici fannulloni e sesso orale ministeriale. Inoltre metà del tema si sarebbe tentati di risolverlo alla svelta. Quale politica ha la sinistra sulla scuola, e quale politica ha su tutto il resto, e di quale sinistra si parla quando si parla di sinistra... Dorme sereno nel sonno della ragione (quello che genera mostri) il partito democratico, fanno i conti con il rigenerato mostro berlusconiano i cittadini di Piazza Navona - fanno i conti e basta quelli della sinistra ex radicale, ex parlamentare, ex sinistra. Qualcuno impugna la falce, qualcuno il martello, fortuna che nessuno sa più come si usino. Un disastro tale che non è nemmeno bello insistere. La sensazione è di essere passati dal che fare al che farsi, anche solo per dimenticare.
Però poi le scuole che riaprono quelle porte restano un po' un mondo a parte - con noi imprigionati e protetti all'interno. Un po'. Da noi tradizione è che tutto accada per via amministrativa, come sotto rifrazione. Si aspetta sempre la circolare applicativa, oppure l'ultima ordinanza. Intanto c'è qualche commissione che discute su qualche nuova trinità pedagogica (tre “c”, tre “i” o altre tre bischerate) e produce un testo che non c'entra nulla con la scuola che si fa, né con la scuola che si farà. Poi si aprirà la discussione su chi ha la competenza di decidere ai vari livelli, sempre più concorrenti e incasinati. Infine qualcuno dirà, deleghiamo all'autonomia delle scuole, e sarà la parola magica che va bene a tutti perché nessuno sa esattamente che vuol dire. Più o meno, arrangiatevi.
Così la crisi del sapere e dell'autorità diventano l'appassionante dibattito sul voto di condotta, se deve fare media oppure no. Il principio d'uguaglianza della Costituzione, se è giusto restaurare l'obbligo del grembiule come divisa scolastica, uguale per tutte e tutti, contro l'individualismo consumistico. Grandi temi il grembiulino e il voto in condotta... Se non altro rivelano come ciò che interessa davvero delle discipline sia sempre il disciplinamento. Viene in mente lo studente di Benni che spiega al professore la differenza fra discipline umanistiche e scientifiche: facile, quaderno a righe e quaderno a quadretti. E tuttavia, se le montagne partoriscono topolini, gli apparati ideologici mobilitati producono comunque una loro cultura (pessima) che circola e avvolge. Permea e deprime. E se ci fanno cascare le braccia, poi è difficile anche abbracciarsi...
Forse certi bambini arriveranno in classe già con le dita sporche d'inchiostro, obbedienti avranno lasciato la loro impronta nel mondo - nel mondo che non è e non sarà mai loro. Forse potremmo dargli un grembiulino diverso: non c'è nemmeno da inventare, sono già stati definiti una volta (per le stelle) i colori. Sarà per il loro bene, ovviamente. Forse raggrupperemo le classi per farle assistere alle lezioni tivù di papa Ratzinger – perché la scuola della globalizzazione fondata sulle vecchie tre “i”, inglese informatica impresa, sembra avere bisogno per funzionare di valori antichi bipartizan: rigore, maestro unico dei bei tempi, obbligo nella formazione professionale per chi non è fatto per lo studio. La destra alla Brunetta continuerà a fare i suoi calcoli in termini di costi-benefici, però è possibile che non possa fare dell'economicismo apertamente la sua bandiera. Dovrà inventarsi come accompagnamento della privatizzazione totale della vita pubblica (la propria servitù, i propri avvocati, eletti classe dirigente – ma guardate anche la parte destra dei siti di repubblica e Corriere...) il ritorno della meritocrazia, la “fine della ricreazione”, i sacri valori religiosi e le radici cristiane d'Europa. Forse. Intanto la destra diffusa davvero nazionale potrà continuare a delocalizzare le proprie aziende in Romania e garantire in patria l'insicurezza dei lavoratori, perché sacre sono le ragioni del profitto e le radici della rendita.
Quale altra narrazione decente e anche un po' felice (se vuole avere capacità di resistenza) si potrà contrapporre a questa miscela di sicurezza, denaro, famiglia, nazione - così spudoratamente intrecciata a lavoro nero, evasione fiscale, falso in bilancio e Ronaldinho day? Una narrazione che non sia troppo patetica, semplice ripetizione delle vecchie formule di un tempo, e che non miri a fare le stesse cose “moderne” con un po' più di senso di colpa e di attenzioni per i perdenti...
Beh, venite in settembre a Firenze e ne parliamo. [ANDREA BAGNI]

Le destre, le sinistre e la scuola. Firenze, Sala dell’Arci, piazza dei Ciompi 11, 6 settembre 2008, ore 10 – 18.
Il seminario Le destre, le sinistre e la scuola è una sede che école offre alla discussione di un’area alla quale si sente appartenente. Come di consueto all’inizio dell’anno, vogliamo incontrare associazioni, coordinamenti, reti, insegnanti, studenti, soggetti istituzionali e sindacali per discutere dei provvedimenti su scuola e formazione presi dal governo Berlusconi nei suoi primi 100 giorni di attività, ma anche alle reazioni dell’opposizione - in Parlamento, nella società, nei luoghi di lavoro -. Vorremmo provare a ripensare insieme a una politica che sappia ridisegnare il senso della scuola e della formazione di cittadine e cittadini. Dopo la relazione introduttiva di Pino Patroncini, Ci accompagneranno nella riflessione Cosimo Scarinzi (che interverrà sugli aspetti sindacali della politica scolastica governativa), Tina D’Amicis (che illustrerà il modello lombardo di scuola e formazione, perché la Lombradia, purtroppo fa scuola), Giorgio Bezzecchi (che affronterà la questione calda dell’inserimento scolastico di bambine e bambini rom), Paolo Chiappe (che farà il punto sul dibattito su meritocrazia, destre e sinistre), Andrea Bagni (che individuerà i nodi emersi nella discussione e porrà all’attenzione altre questioni rilevanti rimaste sullo sfondo).

Il seminario si terrà a Firenze sabato 6 settembre (presso la sede dell’Arci in piazza dei Ciompi 11) e sarà organizzato in collaborazione con la FICEMEA. È previsto, a livello nazionale, l’esonero per gli insegnanti in servizio.
Arrivederci a Firenze.
Info: tel. 031.268425, coecole@tin.it, www.ecolenet.it.

mercoledì 6 agosto 2008

l’Unità 6.8.08
«Rom, la politica non ha fermato l’intolleranza»
Rapporto impietoso sull’Italia dell’Agenzia Ue sui diritti fondamentali. «Tutto parte da Ponticelli»
di Luca Sebastiani


UNO SPARTIACQUE C’è un prima e un dopo Ponticelli. Perché dallo scorso 10 maggio, quando il campo nomadi alle porte di Napoli è stato assaltato, l’Italia è diventata un osservato speciale. L’Europa si è allarmata per quelle fiamme e per le reazioni stig-
matizzanti della destra e ha puntato i riflettori sul nostro paese. Preoccupata per le ondate di razzismo e xenofobia. Tanto da produrre un rapporto sull’accaduto.
Se ne è incaricata l’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che in una trentina di pagine ha messo nero su bianco due mesi di cronaca italiana. I fatti, le risposte del governo, le reazioni politiche nazionali e internazionali. Dal 10 maggio, quando una rom è accusata d’aver tentato il rapimento di una bambina di Ponticelli, fino al decreto per la presa delle impronte digitali dei bambini rom. Una narrazione oggettiva e alla fine una conclusione che giudica «generalmente negativo» il discorso politico conseguente al «clima d’intolleranza generato dai fatti di Ponticelli». Perché l’Italia ha recepito la direttiva europea del 2000 che dispone la protezione contro le discriminazioni, e ha invece risposto all’emergenza avviata da Ponticelli con un pacchetto di misure che stigmatizza ulteriormente il diverso e fomenta il clima di razzismo.
Dopo aver dettagliato gli eventi che vanno dall’arresto della rom e il seguente assalto con bottiglie incendiarie del campo nomadi, il rapporto racconta gli altri fatti di cronaca che si sono prodotti in un quei giorni. Piccole e grandi discriminazioni, aggressioni e assalti. E le misure del governo. In particolare il Pacchetto sicurezza, che «include misure che facilitano la deportazione degli immigrati irregolari e criminalizza gli ingressi non autorizzati nel paese». E l’annuncio dell’intenzione di utilizzare i militari in un clima di stato d’emergenza nomadi in Campania, Lazio e Lombardia. Con tanto di Commissari straordinari a Roma, Milano e Napoli.
A fianco delle misure anche le parole di quei giorni. Quelle del Presidente della Repubblica Napolitano che denuncia un clima d’intolleranza che va contro i principi della Costituzione. Quelle muscolose della destra napoletana che chiede al sindaco della città lo sgombero di tutti i campi nomadi perché «è ora di finirla con le mezze misure». Oppure le frasi del ministro delle Riforme, che il rapporto non cita per nome, ma noi sappiamo essere Umberto Bossi, che in quel clima filosofeggiava spiegando che quando «il popolo perde la pazienza reagisce». O le parole del sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano, che lombrosianamente spiegava come ogni gruppo etnico sia legato a specifici crimini. Tesi rispresa dal Giornale, anch’esso finito nel rapporto per l’articolo in cui dimostra che «I rom rubano i bambini».
Visto dal rapporto dell’Agenzia dei diritti fondamentali, il clima italiano degli scorsi mesi appare alquanto fosco e caotico, irrazionale e preoccupante. Del resto, riporta il rapporto, durante tutto questo periodo le istituzioni internazionali non hanno mancato di richiamare l’Italia al rispetto dei diritti umani. Lo ha fatto il commissario alle Pari opportunità il 20 maggio di fronte al Parlamento europeo quando ha criticato il modo con cui si fanno passare i rom come criminali. E lo ha fatto anche la parlamentare europea Viktoria Mohacsi, che dopo aver visitato i campi nomadi di Roma e Napoli ha dichiarato a Strasburgo che la situazione dei rom in Italia è una delle peggiori in Europa. E poi ancora il Consiglio d’Europa, l’Ocse e l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu che ha criticato il governo per le nuove leggi sull’immigrazione irregolare. E, per finire, la reazione della Commissione europea che con una lettera ha chiesto spiegazioni al governo italiano sulla sua intenzione di censire i rom e prender loro le impronte digitali.
Con queste eloquenti prese di posizione internazionali, non c’è da sorprendersi che l’Italia sia finita sotto la lente d’osservazione europea. E neanche che un’Agenzia come quella per i diritti fondamentali si sia interessata del nostro paese.

l’Unità 6.8.08
Stefano Rodotà. Membro dell’Agenzia: ma il rapporto è stato chiesto prima
«L’Europa ci guarda con preoccupazione»
di lu. s.


Stefano Rodotà è presidente del comitato scientifico dell’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione europea. «Ma solo dal 16 luglio», ci tiene a precisare. Affinché non si creda che nel rapporto sui «Violenti attacchi contro i Rom nel quartiere Ponticelli di Napoli» ci sia il suo zampino. Il rapporto è stato commissionato prima, a ridosso dei fatti riportati.
Rodotà, non è che nel rapporto su Ponticelli c’è un po’ di pregiudizio anti italiano?
«Assolutamente no. L’Agenzia produce rapporti su razzismo e discriminazione nei 27 paesi Ue e se si è interessata a Ponticelli è perché gli eventi di quei giorni e le politiche che ne sono seguite hanno destato la preoccupazioni dell’Unione, di cui l’Agenzia è appunto un organismo».
L’Europa è inquieta per l’Italia?
«I fatti di Ponticelli hanno colpito moltissimo fuori dal nostro paese, perché un assalto con bottiglie incendiarie ad un campo rom non solo non era mai successo in Italia, ma neanche in un altro Stato membro dell’Ue. È stato un campanello d’allarme che ha fatto puntare i riflettori sulla Penisola.
Un allarme dovuto anche alle risposte del governo?
«Indubbiamente il fatto che in questo momento ci siano in Italia una serie di politiche che stanno assumendo un carattere particolarmente inquietante ha giocato molto. L’Europa se ne è accorta e ci tiene sotto osservazione. Ed è bene che sia così perché l’appartenenza all’Ue e l’esistenza di una Carta dei diritti fondamentali richiede che su questo terreno l’Italia si muova nella maniera conforme ai principi di democrazia».
Dunque un giudizio critico sulle misure del governo?
«Il fatto che nel rapporto siano riportate le prese di posizione delle altre istituzioni europee che non avevano come oggetto i fatti di Ponticelli ma le misure del governo italiano, è indicativo di come siano oggetto di attenzione critica. L’Europa valuta la congruenza con i criteri adottati a livelli europei.
C’è un prima e un dopo Ponticelli per l’Italia nell’Ue?
«Fino ad un certo punto, indubbiamente, l’Italia non era considerato un paese in cui ci fossero elementi che giustificassero un allarme tale. Ma quando tutte le mosse del governo sono di stigmatizzazione nei confronti dei rom, quasi si debba creare un nemico interno, allora scatta il campanello d’allarme».

l’Unità 6.8.08
Morti sul lavoro record, Il doppio degli omicidi
Indagine Censis: l’Italia ha il triste primato in Europa
di Massino Palladino


OMICIDI BIANCHI Più di mille morti. Il lavoro in Italia esige un sacrificio umano pesantissimo. È la denuncia del Censis: le vittime sul lavoro, lo scorso anno, sono state 1.170. Di queste, 609 lungo il tragitto casa-lavoro. Un prezzo tanto alto da essere superiore
anche ai morti causati dalla criminalità. I numeri dell’Istituto di ricerca sono tremendi: le morti bianche sono il doppio degli assassinati, e il conteggio si alza ancora se si calcola chi muore nel tragitto casa-lavoro o negli incidenti stradali durante il lavoro (i camionisti, ad esempio, o chi lavora nei cantieri stradali). Nel 2007 sono stati almeno 609 gli infortuni «stradali», e l’Italia è il Paese europeo dove si muore di più sul lavoro. non rilevati in modo omogeneo da tutti i Paesi europei, si contano 918 casi in Italia, 678 in Germania, 662 in Spagna, 593 in Francia (ma in questo caso il confronto è riferito al 2005).
Ma il rapporto del Censis snocciola altri numeri che sottolineano lo scarto tra le politiche di prevenzione con altri Paesi: sono le vittime degli incidenti stradali. Nel 2006, in Italia, i decessi sono stati 5.669, un dato che supera quello registrato in altri Paesi europei anche più popolosi del nostro come Regno Unito (3.297), Francia (4.709) e Germania (5.091). Gli altri Stati, riporta il Censis, hanno fatto meglio di noi per ridurre gli incidenti sulle strade. Un esempio per tutti: nel 1995 la Germania era maglia nera, con 9.454 morti, ridotti a 7.503 già nel 2000, per poi diminuire ancora ai livelli attuali. In Francia, si è passati dalle 8.892 vittime sulle strade nel 1995 a 8.079 nel 2000. La riduzione in Italia c’è stata (i morti erano 7.020 nel 1995, 6.649 nel 2000, fino agli attuali 5.669), ma non in maniera così rapida, sottolinea il Censis «tanto da diventare il Paese europeo in cui è più rischioso spostarsi sulle strade».
Eppure fanno notare dall’Istituto di ricerca, nonostante i decessi sul lavoro e quelli legati a incidenti stradali superino gli omicidi, «nel nostro Paese gran parte dell’attenzione pubblica si concentra sulla dimensione della sicurezza» dove invece sembra esserci un’altra realtà. Il numero degli omicidi in Italia infatti continuerebbe a diminuire: dai 1.042 casi nel 1995 agli 818 nel 2000, fino a toocare quota 663 nel 2006 (-36,4% in 11 anni). Dati inferiori rispetto all’Europa, dove pure si registra una tendenza alla riduzione: 879 casi in Francia (erano 1.051 nel 2000), 727 in Germania (erano 960 nel 2000), 901 casi nel Regno Unito (erano 1.002 nel 2000).
Mentre il governo concentra le politiche sulla sicurezza e l’ordine pubblico, mobilitando perfino l’esercito, il vero problema - dicono i numeri del Censis - è la sicurezza sul lavoro, e la mancanza di una cultura di prevenzione. Lo dimostrano anche gli infortuni di ieri, sia pur non mortalil. A Firenze un giovane operaio dell’Icar si è schiacciato le dita di una mano sotto una pressa; e a Merano due operai sono caduti in una vasca mentre stavano effettuando lavori di manutenzione a un impianto per la raccolta di acque nere. Le loro condizioni rimangono però serie.
Tra i primi a commentare i dati, Cesare Damiano, parlamentare Pd ed ex ministro del Lavoro: «È triste la notazione del Censis secondo la quale si muore di più sul lavoro che per altre cause come l’omicidio. L’ultimo dato ufficiale dell’Inail relativo al 2007, in attesa di un consuntivo definitivo, ci dice che i morti sono stati 1210, in calo rispetto ai 1341 dell’anno precedente». I migliori risultati raggiunti, continua Damiano «sono dovuti allo sforzo compiuto contro il lavoro nero e la precarietà. Le nuove norme contenute nel testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro vanno difese e applicate». A chiedere maggiore sicurezza c’è anche Legambiente: «Chiediamo la riduzione dei limiti di velocità, anche in autostrada e la messa in sicurezza delle tratte stradali più pericolose». Secco infine il commento di Carlo Leoni di Sd: «Se proprio si vogliono usare i militari, li mandino nei cantieri delle stragi bianche».

l’Unità 6.8.08
Sinistra radicale in piazza prima del Pd
All’inizio di ottobre. Veltroni: «Il merito non c’entra, l’avrebbero fatta lo stesso»
di Andrea Carugati


LA SINISTRA si rimette in moto, e punta a una grande manifestazione contro il governo «entro i primi di ottobre». Prima di quella del Pd, dunque, prevista per il 25 dello stesso mese. «Altrimenti non si incide sulla finanziaria, si fa solo una manifestazione
di commento», spiega il neosegretario di Rifondazione Paolo Ferrero, che ieri ha incontrato Veltroni e il coordinatore di Sinistra democratica Claudio Fava, prima di pranzare con Antonio Di Pietro. Un trittico di incontri che dà la cifra della strategia del Prc per l’autunno. Cortese ma profonda distanza con il Pd, «ricostruzione di una opposizione di sinistra» e dialogo, ma solo sui temi della giustizia, con l’Idv. Sul Pd, Ferrero è stato netto: «Con Veltroni abbiamo preso atto di differenze di valutazione consistenti. Ci sono prospettive diverse, al momento un’alleanza è assolutamente inimmaginabile». «Se ci sarà in autunno un inasprimento del grado di opposizione del Pd valuteremo se cambiare il tipo di relazione», aggiunge il leader del Prc. E Veltroni: «La distinzione profonda delle nostre posizioni non deve diventare guerra o insulti. Si può essere diversi senza l’annientamento reciproco». Quanto ai governi locali, si deciderà caso per caso «sulla base dei programmi», è la comune valutazione. Ferrero ha anche chiesto a Veltroni di spendersi perché non ci siano modifiche alla legge elettorale per le europee, il leader del Pd ha ribadito la sua proposta di uno sbarramento al 3%. Quanto alla manifestazione della sinistra, dice Veltroni: «Credo che l’avrebbero fatta prima di noi a prescindere dalle ragioni di merito...».
Più vicine le posizioni tra Ferrero e Fava, soprattutto sull’unire tutta la sinistra, politica e sociale, in una comune battaglia contro il governo, sia sui temi sociali che su quelli della difesa della Costituzione e delle leggi ad personam. Restano però distanti le posizioni tra Prc e Sd sul futuro della sinistra. Fava e Mussi continuano a spingere per una costituente di sinistra, Ferrero ha vinto il congresso sull’idea di ripartire dal Prc. «Ma sui punti di merito si può lavorare insieme», dice Fava. «A noi interessa stare insieme sul fare, non unire gli stati maggiori dei partiti», spiega Ferrero. E Di Pietro? Sia Fava che il leader del Prc guardano con grande attenzione al referendum sul lodo Alfano proposto dal leader Idv. Ma è quasi impossibile che l’opposizione dipietrista e quella di sinistra si ritrovino in piazza insieme: «Non ne vedo le possibilità per ragioni di contenuto», dice Ferrero. «Penso alle grandi opere, all’immigrazione, alla sicurezza, al rapporto con Confindustria. In ottobre porteremo in piazza una opposizione di sinistra, ma contro il Lodo Alfano ci potranno essere convergenze». Fava è più disponibile al dialogo con Di Pietro: «Importante è che sia una manifestazione in cui non ci sono padroni di casa e ospiti, come è successo a piazza Navona, deve essere un incontro tra pari». Intanto nel Prc si inasprisce il caso Calabria: nonostante il secco no di Ferrero, il partito calabrese (guidato dall’ala vendoliana) ha deciso di rientrare nella giunta Loiero con l’assessore al Turismo Damiano Guagliardi.

l’Unità 6.8.08
Aspettando Gagarin
di Fulvio Abbate


Oh, come sarebbe bello appassionarsi al futuro di quella cosa che prende addirittura il nome di Partito della Rifondazione comunista. Appassionarsi per ragioni, come dire?, se non proprio ideali, almeno feticistiche, collezionistiche, come davanti a un cruciverba estivo. O forse perché molte delle parole e dei gesti messi in campo sia dal compagno Vendola sia dal compagno Ferrero ti sono familiari, le conosci, le riconosci, ti sembra di averle udite mille volte, e dunque, come tutte le cose consuete, ti danno un senso di calore, servono a rassicurarti, a illuderti che il mondo non sia destinato a tradirti, ad andare da un’altra parte, a cambiare: no, che non cambierà, cazzo! Quanto invece alla prospettiva, il cosiddetto comunismo, meglio accantonare la questione, se non altro per ragioni di tempo limitato a disposizione.
Resta tuttavia il problema dell’esistenza di una forza d’opposizione che sappia esistere a partire dalla propria radicalità, visto che a rassicurarti non possono certo bastare i convincimenti dei moderati, insieme al loro cinismo, quando questi ripetono che il mondo in definitiva va bene così com’è. No, che non possono bastare i discorsi circonfusi di buonsenso di chi reputa che perfino il diritto a una piena laicità corrisponda a chiedere, pretendere, esigere troppo.
Oh, come sarebbe bello riuscire ad appassionarsi pienamente, e senza riserve, leggendo e rileggendo questa o quell’altra mozione che sembra farti rivivere perfino le parole che un tempo furono care a un Trotskij o a una Rosa Luxemburg, e allora non puoi fare a meno di pensare che non tutto sia ormai scaduto, e non c’è da vergognarsi a sollevare il pugno chiuso, come ha fatto il nuovo segretario Ferrero, e intanto intonare «Bandiera rossa», come appunto in un rito purificatore, catartico, come in un grande momento cerimoniale, come dopo un orgasmo, come dopo una gita al santuario.
Oh, come sarebbe bello pensare che il ritorno dei Comunisti italiani di Oliviero Diliberto nella tana di Rifondazione possa essere salutato come un fatto “epocale”, una roba in grado di smuovere le montagne, dove anche le forze primarie della natura prendono parte all’evento, sollevando un’eco che risuona da una cima all’altra per acclamare il ripensamento del compagno segretario sardo del Pdci che finalmente si ravvede e dichiara che «due partiti comunisti sono un po’ troppi», e allora rivai con i pugni chiusi e il canto di «Bandiera rossa», e magari, già che ci siamo, con un nuovo dibattito su Togliatti e “la svolta di Salerno”, e così sia come se nulla fosse accaduto nel frattempo.
Oh, come sarebbe bello, nel contempo, non sentire più i discorsi di quegli altri che, colmi di realismo e di senso della responsabilità, vanno ripetendo che soltanto in Italia esiste ancora una questione comunista, nel senso che da nessuna altra parte del mondo, a parte il Nepal dove alle elezioni hanno vinto i maoisti, si sta ancora discutendo sull’opportunità d’uscire dalla Nato e di mettere fuorilegge l’ormai dissolto Msi, e ancora organizzare un pubblico seminario sul tema della prospettiva rivoluzionaria nel’America Latina, fra il passamontagna di Marcos, le Farc e ciò che resta della memoria del Che. Senza dimenticare, già che ci siamo, il ricordo dell’assalto al Palazo d’Inverno.
Oh, come sarebbe bello immaginare, già che ci siamo, la rinascita dell’Urss, con il ritorno alla conquista spaziale, con questo o quell’altro dirigente comunista nostrano che scelga di rinunciare a presidiare almeno temporaneamente il congresso del suo partito per affrontare l’avventura del cosmo, e così si va tutti a salutarlo alla partenza, si canta, come è doveroso, «Bandiera rossa» e «l’Internazionale», si sollevano i pugni chiusi, si applaude fraternamente vedendo il vettore che s’allontana nel cielo, e poi, come quando è il momento delle ferie estive, si torna tutti alla realtà. Oh, come sarebbe bello.
f.abbate@tiscali.it

il Riformista 6.8.08
Fu Unione. All'incontro con Veltroni il nodo è il quorum europeo
Sinistra in piazza, Ferrero lancia la nuova sfida al Pd
di Alessandro De Angelis


Del primo incontro, ieri alla Camera, tra il neosegretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero e Walter Veltroni restano agli atti dichiarazioni che confermano una distanza per ora incolmabile: «Le differenze di valutazione sono consistenti e quindi ci sono prospettive diverse. Al momento è assolutamente inimmaginabile un'alleanza con il Pd», spiega Ferrero. «Le posizioni restano distinte, ma non c'è bisogno di farsi la guerra», conferma, provando ad ammorbidire, Veltroni. Del successivo casuale incontro in Transatlantico tra Ferrero e Massimo D'Alema resta invece un pubblico e gustoso scambio di battute. «Ha vinto la squadra per cui non facevi il tifo», provoca Ferrero, ricordando il sostegno manifestato dall'ex ministro degli Esteri al suo antagonista Nichi Vendola. «Io di solito tifo per le squadre che giocano bene...», punge D'Alema. «Non mi pare che la squadra di cui parli abbia giocato molto bene», ribatte il segretario comunista. E l'altro: «Beh, contano tanti fattori: l'arbitro, il campo...». Dal primo come dal secondo colloquio esce confermato un quadro di rottura prolungata: la separazione consensuale tra Veltroni e Bertinotti è diventata un divorzio. Che potrebbe diventare guerra guerreggiata, ha spiegato Ferrero a Veltroni, se il Pd collaborerà a introdurre una soglia di sbarramento elevato alle prossime europee. Il 3 per cento, al limite, andrebbe bene anche ai comunisti (che ufficialmente chiedono di non mettere mano alla legge), non certo il 4, la cifra su cui Pdl e Pd potrebbero accordarsi. Veltroni ha garantito che per lui il quorum perfetto resta il 3. Ferrero non si fida troppo. «La riforma sarebbe un colpo di Stato», dice al Riformista .
I rapporti tra le due gambe della ex Unione sono comunque più complessi di quanto le parole lasciano intendere. L'attivismo di Ferrero, che si è intrattenuto a lungo anche con Pierluigi Bersani, conferma che era quantomeno semplicistico ipotizzare un Prc barricato sulla rocca del marxismo-leninismo. Del resto, anche la linea più ortodossa deve fare i conti con la realtà: Rifondazione è in giunta col Pd in molte realtà toccate dalla prossima tornata amministrativa del 2009, e ancora prima verrà il test dell'Abruzzo, dove tutto il fronte di centrosinistra - in qualunque forma deciderà di presentarsi - rischia un rovescio di proporzioni bibliche. Ferrero ha voluto lanciare un segnale di disponibilità allo stato maggiore democrat per trovare in futuro intese in quelle realtà locali dove sarà possibile (sempre a meno di sorprese sul quorum europeo). Intanto, però, ha confermato ieri ad Agazio Loiero che il Prc non rientrerà nella giunta della Calabria.
Non meno ingarbugliata è la situazione nella ex sinistra Arcobaleno, che quasi tutti i suoi fondatori vorrebbero rottamare - lo stesso Ferrero ha vinto il congresso, su questa linea - ma che non è così semplice da mettere alle spalle. In molti consigli gli eletti della sinistra rosso-verde fanno gruppo e, se alle europee la tentazione della conta è forte, alle amministrative il rompete le righe a sinistra rischia di tramutarsi in un suicidio collettivo. Per questo Ferrero, dopo gli abboccamenti con Grazia Francescato e Oliviero Diliberto, ha visto ieri il coordinatore di Sinistra democratica Claudio Fava. Sulle schede non tornerà l'Arcobaleno, ma il tentativo è rilanciare una qualche prospettiva comune a sinistra partendo dalla piazza e cioè dalla manifestazione "alternativa" del 20 ottobre contro la finanziaria, cinque giorni prima di quella già convocata dal Pd (commento di Veltroni: «Se noi avessimo scelto di fare la manifestazione il 19 ottobre, sono sicuro che loro l'avrebbero fatta il 12...»). La manifestazione di ottobre vuol essere la piazza Navona della sinistra radicale, una sfida al Pd su chi interpreta meglio contenuti e modi dell'opposizione. E infatti se Veltroni minimizza il doppio appuntamento, Ferrero lo smentisce: «Il segretario del Pd eccede in buonismo quando sostiene che le manifestazioni dell'autunno non avranno differenze di merito». A proposito di piazza Navona: Ferrero non abbandona l'idea di una qualche collaborazione con Antonio Di Pietro. E ieri il comunista e l'ex pm hanno condiviso il desco al ristorante di Montecitorio.

Corriere della Sera 6.8.08
Il partito Il Bsp ha messo insieme brahmini e dalit I paria Sono 200 milioni. Costretti ai lavori più umili
La scalata degli Intoccabili Cambia l'India delle caste
La sfida di Mayawati, regina discussa e molto popolare
di Paolo Salom


È la regina degli intoccabili. Behenji, sorella, di 160 milioni di indiani — i dalit — costretti a guardare il mondo dal basso della loro infima condizione di fuori casta. Mayawati Kumari, per tutti soltanto Mayawati secondo l'uso dei paria, ha però deciso di spezzare le catene assegnate dal destino e conquistare un onore che mai nel passato una come lei aveva osato sognare: guidare l'India. A 52 anni, l'umile figlia di un impiegato, cresciuta in una baraccopoli di New Delhi, amata da molti ma detestata dai più, combatte una battaglia che potrebbe rivoluzionare il futuro del Subcontinente. La sua formazione, il Bahujan Samaj Party (Bsp), alle prossime elezioni generali — nel 2009 — potrebbe diventare l'avanguardia di un «terzo fronte» in grado di scardinare l'alternanza di potere tra il Partito del Congresso dei Gandhi e i nazionalisti indù del Bharatiya Janata Party (Bjp).
Un compito non facile. Mayawati come Nehru o come Indira? In realtà, questa parlamentare controversa, dalla personalità fortissima, sta costruendo la sua fortuna con un'abilità e una lucidità raramente mostrate sulla scena di un Paese che adora ancora affidarsi alle dinastie, possibilmente ai brahmini. Lei è unica, non assomiglia a nessuno, se non altro per il suo stile di governo: a un tempo visionario e spietato.
«L'emergere di Mayawati ha aperto un nuovo orizzonte a diversi gruppi politici— ha spiegato alla Bbc Shekhar Gupta, direttore del quotidiano Indian Express —. La sua immagine giganteggia. Il terzo fronte è nato e Mayawati ne è il fulcro». In realtà, il partito di Mayawati a livello nazionale è ancora debole (17 parlamentari su 802) ma a livello locale è forte nello Stato più importante della Federazione, il popoloso Uttar Pradesh, dove l'anno scorso ha conquistato la maggioranza assoluta (e lei è diventata
chief minister, come dire governatore). Ma è la strategia adottata dalla regina dei dalit che ha fatto gridare al miracolo e ha trasformato i sondaggi in un'incoronazione annunciata. Mayawati, infatti, sta plasmando il suo potere su un'alleanza che trascende l'appartenenza di casta o di religione — il vero tabù in India. Ha convinto 52 brahmini (la casta che sta al vertice) a fare campagna elettorale a fianco degli intoccabili. Non solo: nello stesso partito convivono anche 29 esponenti di religione musulmana. Nel Paese — la più grande democrazia del mondo — che vede le baruffe tra indù e islamici sfociare in stragi ripetute, è forse il segno più evidente della capacità di questa donna eterodossa — una vera lady di ferro — di attirare il consenso, nonostante alcuni aspetti controversi che ne fanno un'icona per nulla immacolata.
Un esempio? Lei, nata povera e senza diritti, adora vivere nel lusso (le sono intestate diverse proprietà) e non si preoccupa di nascondere in pubblico gioielli da Mille e una notte. Quando è seduta alla sua scrivania di chief minister dell'Uttar Pradesh, inoltre, dipendenti e collaboratori bussano alla porta tremebondi e finiscono ginocchioni al suo cospetto: Mayawati licenzia con la facilità con cui respira. Ciononostante, in India la sua carriera è portata ad esempio. E la possibilità che diventi primo ministro — se può sgomentare molti — è vista come il segno dei tempi che cambiano, un passaggio di immenso valore simbolico.
«Significherebbe — spiega l'analista politico Mahesh Rangarajan — che può farcela anche una donna dalit nata in uno Stato povero e popoloso, una persona che si è guadagnata il rango attraverso lo studio e la fatica, non ereditandolo attraverso il matrimonio o il lignaggio». Del resto, come avrebbe potuto? Nata il 15 gennaio 1956, Mayawati, da ragazzina, si divideva tra la scuola (dove andava scalza) e l'aiuto domestico. Suo padre e sua madre potevano sacrificarsi per darle un'istruzione. Ma una cosa non avrebbero mai potuto assicurarle: una vita libera dal disprezzo che i dalit, gli «oppressi », attirano per il loro essere semplicemente quello che sono agli occhi di molti indiani: gli ultimi, i reietti, i destinatari di una vita miserabile perché così è stabilito «per sempre» dal ciclo della vita. Non per Mayawati, però. Che studia, si laurea in legge e diventa insegnante per conquistare il diritto, per sé e per quelli come lei, di bere il tè nelle stesse tazze dei brahmini, o di attingere l'acqua nei pozzi comuni. La condizione di casta tuttavia si imprime sulla sua coscienza, scatenando una rabbia che, una volta entrata in politica, non cercherà mai di dominare: «Lasceremo sulle caste alte l'impronta delle nostre scarpe», ebbe a dire un giorno uscendo da un comizio. Frase mai smentita che le era sgorgata dal profondo.
D'altro canto è proprio per questa sua «forza primordiale», per questa capacità di esaltare e trasformare le debolezze in vantaggi che Mayawati fu scelta e considerata sin dall'inizio «l'erede» da Kanshi Ram, fondatore nel 1984 del Bsj, il partito nato con lo scopo di dare voce ai dalit. Kanshi Ram, di fronte alla sua protetta, aveva subito preconizzato un futuro che allora appariva semplicemente inconcepibile. Lei, che aveva inutilmente cercato di superare gli esami per entrare nell'Amministrazione pubblica indiana, nelle sue parole «sarebbe diventata una regina destinata a decidere la sorte dei funzionari di rango, piuttosto che diventare una di loro». Verissimo: il popolo dalit la chiama «regina», oltre che «sorella ». E, come chief minister (con maggioranza assoluta nel Parlamento locale) dell'Uttar Pradesh, Mayawati ha potere — che usa come abbiamo visto senza alcuno scrupolo — su tutti coloro che da lei dipendono, siano brahmini o meno.
C'è da chiedersi come questa donna che ha imboccato con tanta decisione la strada del riscatto riesca ad affascinare ben oltre i confini di casta. Certo, ha promosso l'alleanza con brahmini e musulmani. Ma perché questi l'avrebbero accettata? Perché l'India dovrebbe volere un'intoccabile nell'ufficio più importante? Non è bella, non ha certo il fascino di una diva di Hollywood. E nemmeno il portamento di una Sonia Gandhi. Si veste con colori chiassosi e non ha stile. Non si vergogna di esibire le sue ricchezze né si preoccupa di giustificarne l'origine. Eppure piace. Non sa l'inglese, non conosce a fondo la Costituzione o le leggi del suo Paese. Eppure le sue posizioni in Parlamento suscitano ammirazione. Forse perché si oppone agli Stati Uniti e all'accordo nucleare che ha rischiato di far cadere il governo di Manmohan Singh («Non dobbiamo diventare i servi degli Usa», ha denunciato di recente). In più vorrebbe portare a compimento l'opera di B. R. Ambedkar (1881-1956), un paria di nascita, autore di numerosi scritti sui temi della sua condizione, riassunti nell'articolo 17 della Costituzione indiana, che vieta la «pratica dell'intoccabilità ». In teoria: dei 200 milioni di poveri e sottonutriti del Subcontinente, la stragrande maggioranza sono tuttora dalit, disprezzati e legati per la vita ai lavori più umili. Mayawati queste cose le sa perché le ha provate sulla propria pelle. Ma è anche riuscita a spezzare le catene, invisibili ma ferree, della sua condizione. Diventando ricca e potente, soprattutto potente. Questo forse è l'aspetto che più affascina. Non era nessuno e ora è qualcosa di molto di più, per tutti: una promessa.

Corriere della Sera 6.8.08
Diritti civili e disuguaglianze sociali
Non dimenticate l'altra Cina
di Bao Tong


Il messaggio implicito, e straordinariamente efficace, trasmesso dai Giochi Olimpici e dal rinnovato lustro che ne deriva al prestigio nazionale, è che tutto il merito spetta all'incrollabile regime autoritario del Partito comunista cinese. Le Olimpiadi di Pechino assumono così — ironicamente — un immenso significato politico interno: l'evento simbolico per eccellenza della pace e della cooperazione internazionale si sposa con la rinascita del nazionalismo.
L'attuale regime si proponeva di trasformare in realtà gli ideali del comunismo, un'ideologia ormai considerata fallita. Oggi il governo cinese continua a chiedere sacrifici alla maggioranza della popolazione, ma non è più in grado di offrire in cambio una futura società comunista. Anzi, il nuovo obiettivo dichiarato è una nazione più forte, che saprà farsi valere sullo scenario internazionale.
Eppure, il desiderio del governo cinese di migliorare la sua posizione a livello internazionale rimane attualmente l'ambizione principale dei ceti abbienti. In contrasto, gran parte della popolazione, specie nelle aree rurali, è ancora afflitta da povertà, malattie e precarietà economica. La gloria della nazione verrà diffusa per mezzo della televisione tra i milioni di abitanti delle campagne, che da cinquant'anni a questa parte sacrificano il loro benessere a favore dell'industrializzazione, mentre il futuro non promette grandi miglioramenti rispetto alle condizioni dei loro antenati.
Finora, quello che abbiamo visto sono i bassi salari pagati ai lavoratori edili, provenienti dalle campagne, che hanno realizzato le vaste infrastrutture per le Olimpiadi; oltre all'inarrestabile occupazione dei terreni — con decreto amministrativo — da destinare a nuovi progetti, senza nessuna consultazione, né risarcimenti adeguati, per la popolazione locale che è stata fatta sloggiare brutalmente.
Non ho dubbi che tutti i vantaggi economici creati da questo evento sportivo internazionale ricadranno solo nelle mani delle élite urbane cinesi, che si arricchiscono sempre di più. Lo stimolo economico prodotto da una spesa statale senza remore, da immani progetti di infrastrutture e dall'afflusso di investimenti stranieri è stato sfruttato solo da un manipolo di miliardari. In teoria, l'effetto del trickle-down (ovvero le ricadute benefiche sulle fasce meno abbienti di una politica a vantaggio dei ceti più alti) dovrebbe estendere questi benefici a tutti i settori economici. Ma la crescente forbice del reddito in Cina suggerisce invece il radicarsi di una disuguaglianza sistematica, favorita da un governo il cui motto sembra essere «sempre e solo per i ricchi».
I Giochi Olimpici sono il massimo esempio del genere di politica che finisce con il servire solo una piccola parte della popolazione. I nuovi edifici scintillanti e i cieli puliti— temporaneamente — di Pechino, mostrati con orgoglio al mondo durante i Giochi estivi, non dimentichiamolo, sono stati realizzati a prezzo di indicibili sofferenze di tutti coloro che le autorità hanno sradicato e allontanato e nascosto alla vista dei visitatori in occasione dell'evento.
Ci sono ben pochi segnali che i Giochi di Pechino abbiano favorito in Cina la nascita di una società aperta. Se i giornalisti stranieri hanno potuto usufruire di un permesso provvisorio dal primo gennaio 2007 fino al temine delle Olimpiadi, la repressione governativa contro gli avvocati e i giornalisti cinesi ha proseguito indisturbata.
La modernità della Cina, sotto i riflettori mondiali durante le Olimpiadi, resta in netto contrasto con il modo di governare retrogrado del Partito comunista cinese. La legittimità del governo si basa fin troppo su equivoci e menzogne storiche. Per preservare la sua sempre più intricata e complessa versione della verità, si sono rese necessarie sia la censura che la cancellazione sistematica della memoria comune. L'entusiasmo di milioni di telespettatori cinesi davanti alle Olimpiadi basterà a cancellare il ricordo della feroce repressione a Piazza Tienanmen? Nessuno lo sa con certezza, ma il governo cinese sembra convinto di poter riuscire nell'impresa di indurre un'amnesia collettiva. Si spiega così la sua insistenza per ospitare le Olimpiadi 2008 e l'attenzione internazionale attorno al futuro ruolo della Cina sullo scenario mondiale dopo il 2008.
Sfruttare i Giochi come strumento di propaganda può servire solo a realizzare un'operazione di immagine a breve termine, ma non contribuirà affatto a risolvere i problemi della Cina a lungo raggio.
I veri problemi della Cina si celano sotto le Olimpiadi del 2008 e sotto la sfarzosa celebrazione del successo.
Dopo mezzo secolo di grandi dietrofront politici, il Partito comunista cinese non è stato capace di offrire al suo popolo né parità di diritti, né servizi sociali fondamentali, quali istruzione, sanità e previdenza, pur avendo nazionalizzato — sotto il regime di Mao — tutte le terre e vastissimi settori dell'economia.
Infinite promesse sono state fatte ai poveri delle comunità rurali, tutte prontamente accantonate, mentre la loro manodopera è stata convogliata nella costruzione di industrie e città moderne. I fondi statali hanno finanziato modernissimi impianti sportivi, teatri lirici e firewall di Internet, dimenticando però di costruire strade nei villaggi più poveri del Paese e di riscattare dalla bancarotta il sistema nazionale della previdenza sociale. Per di più, non si è visto nessun progresso nel campo dei diritti civili, l'unico modo per raddrizzare le ingiustizie nella legalità e nel rispetto della persona.
A Deng Xiaoping è stato riconosciuto il merito di aver rovesciato le politiche di Mao, ma è grazie a lui che è spuntata l'idea profondamente ingiusta di lasciar prosperare le élite grazie alla crescita economica. Fino ad oggi, nessun politico cinese è stato capace di affrontare sistematicamente né tanto meno di ridurre l'ingiustizia sociale che regna in Cina, malgrado tutte le promesse fatte ai ceti più deboli. Di conseguenza, il governo cinese è costretto a ricorrere sempre più spesso alla repressione per tenere a bada il malcontento, mentre si dedica con passione a iniziative propagandistiche come le Olimpiadi.
*Assistente dell'ex premier Zhao Ziyang. Vive dal 1996 agli arresti domiciliari
© Global Viewpoint, distribuito da Tribune Media Services
Traduzione di Rita Baldasarre

Corriere della Sera 6.8.08
«Le Rime» a cura di Andrea Donnini
Grazia e lussuria: attualità di Bembo
di Armando Torno


Il madrigale nacque dalla lezione di quel poeta giudicato pedante

Si narra che Lord Byron durante la sua visita in Ambrosiana, pur pressato dai controlli di sacerdoti e inservienti, riuscisse a imparare a memoria le lettere tra Lucrezia Borgia e Pietro Bembo qui conservate; anzi rubò anche un capello della ciocca bionda della dama. La reliquia, carica di lussuria, era giunta nella biblioteca milanese insieme alle ricordate missive. D'Annunzio, un secolo più tardi, ebbe soltanto il privilegio di toccare questo frammento di chioma. E promise, magato dal contatto, di donare una teca per conservarne l'aura. Cosa che mai fece, lasciando l'incombenza ad altri.
Indubbiamente Bembo «amò non invano» Lucrezia, tanto che a lei dedicò nel 1505 gli Asolani, tre libri di dialoghi e riflessioni d'amore che testimoniano quanto l'Umanesimo si fosse infatuato del Convito
di Platone. Pagine di cui De Sanctis segnalò l'«espressione pedantesca», ma che tra incanti poetici e giochi di pure forme sembrarono perfette per la figlia di papa Borgia: in esse si avverte, tra l'altro, l'innegabile gioia recata dalla sensualità e dai piaceri mondani. O forse, concedendo la parola a un verso rifiutato del Bembo, è come se il futuro cardinale sussurrasse: «Amor, d'ogni mia pena i' ti ringrazio,/ sí dolce è 'l tuo martíre».
Colto, nobile, ricco, tanto da potersi permettere un lungo soggiorno a Messina per imparare il greco presso l'ellenista Costantino Lascaris, padre di tre figli nati dalla relazione con la Morosina (che mai sposerà), Bembo conosce otium e negotium vivendoli con grazia ed eleganza. La sua opera tocca diversi ambiti: se gli Asolani ne riflettono le inclinazioni filosofiche, per incarico della Serenissima continuò fino al 1513 la storia di Venezia che il Sabellico aveva interrotto al 1487, quindi definì una norma dell'italiano con le fondamentali
Prose della volgar lingua (1525). Grande specchio di un'epoca è invece il suo epistolario. Fu anche filologo: amico del sommo stampatore Aldo Manuzio, curò un'edizione del Canzoniere di Petrarca e de Le terze rime di Dante, vale a dire della Commedia. Non sono che due esempi dei tanti possibili.
Cosa può dire ancora al nostro tempo questo patrizio coltissimo? È appena uscita un'edizione delle Rime dovuta ad Andrea Donnini (Salerno Editrice, 2 volumi, pp. 1.392, e 140), basata sul manoscritto Viennese 10245 (del 1541), idiografo e rivisto dal medesimo autore sino agli ultimi giorni: fatica preziosa che consente di tentare osservazioni in margine a una poesia che ha contaminato non soltanto la cultura di un'epoca ma anche la musica e il gusto, diffondendo l'amore per Petrarca. La cura di Donnini — dottore di ricerca a Genova — è degna della massima lode; o meglio, guardando l'incredibile lavoro compiuto per il censimento dei manoscritti, delle edizioni a stampa, per le indagini sulla tradizione d'autore (e anche su quella non controllata dal Bembo stesso), i chiarimenti cronologici e le occasioni di composizione, pur limitandoci ad alcune parti vistose dell'apparato, si potrebbe definire una fatica commovente. E questo va detto senza infingimenti in un tempo che si occupa dei nostri classici come può e quando riesce, trasformandoli sovente in materia per gestire baronie o per dar vita a comitati d'affari. Tornando alla domanda che ci siamo posti, anzi riducendola all'osso, è il caso di chiederci di nuovo: che cosa recano oggi queste Rime? Alcune risposte le ha scritte Donnini nell'introduzione e nel formidabile apparato, altre la storia della cultura: basterà elencare le molte lodi cinquecentesche, le magistrali ricerche di Carlo Dionisotti o la sottile osservazione di Girolamo Tiraboschi nella sua Storia della letteratura italiana: «Ardì quasi solo di ritornare sulle vie del Petrarca, cui egli prese non solo a imitare, ma a ricopiare ancora in se stesso» (volume VII, p. 1.086, edizione 1796 di Venezia). Per Benedetto Croce, certo, Bembo resta un «non poeta»; chi scrive, con più semplicità, nota che le sue Rime, dalle strofe ben costruite e dai versi calibrati in ogni minimo soffio (con un'attenzione maniacale per le singole vocali), ispireranno composizioni di Luca Marenzio, Claudio Monteverdi, Marco da Gagliano, per ricordare alcuni tra i più grandi. Bembo sarà il punto di forza per trasformare la vecchia frottola in madrigale. Il brutto anatroccolo diventerà un cigno ascoltando il suono di sillabe ritmate ed eleganti.

Repubblica 6.8.08
Pomezia, la denuncia della Cgil. L´azienda: via per motivi comportamentali
La protesta degli operai pachistani "Licenziati per aver scioperato"
"Gli immigrati vanno bene solo quando accettano in silenzio paghe da fame"
di Michele Bocci


ROMA - Cappelli rossi della Cgil e turbanti sikh sotto il sole d´agosto che sbatte davanti a un capannone vicino Pomezia. Cinquanta immigrati pachistani e indiani vestiti con pantaloni e maglietta blu chiedono di entrare a lavorare, vogliono ancora spaccarsi la schiena a imballare le confezioni di cibo da spedire sui camion ai supermercati Gs. «Ci hanno cacciato, rivogliamo il nostro posto sennò non campiamo. Abbiamo qui le famiglie, dobbiamo pagare affitti e mutui». La cooperativa Global logistica di Santa Palomba, che ha in appalto i lavori nel capannone della catena di supermarket ha deciso di scaricarli dopo due scioperi provocati dai ritardi delle buste paga. A tutti sono arrivate «lettere di esclusione dalla compagine sociale», come le chiama usando il linguaggio tecnico il consulente legale della cooperativa Armando Radicchi. «I motivi sono comportamentali - spiega - tra maggio ed oggi ci sono state due sospensioni del lavoro». Nelle lettere si parla anche di una rissa. La vittima, un nordafricano che lavora per la Global logistica, avrebbe riconosciuto una quindicina di aggressori. «Non dico quanti giorni di prognosi ha avuto per rispetto della sua privacy», spiega sempre Radicchi.
«Sapete perché ci vogliono cacciare? - chiedono Zafar, Mohammad, Ali, Hussain e gli altri - Perché da quando abbiamo iniziato a chiedere quanto ci spetta per il nostro lavoro e ci siamo iscritti alla Cgil siamo diventati un problema. Gli immigrati vanno bene finché accettano condizioni pesantissime e paghe da fame. Se alzano la testa non servono più». I lavoratori raccontano di giornate di 13 ore di lavoro, di straordinari non pagati, di un capannone dove bisogna mangiare in piedi, di malattie a paga ridotta. «Se chiedi di uscire prima, magari perché tuo figlio sta male, quelli ti rispondono "va bene, ma non presentarti nemmeno domani" - dicono - È un lavoro duro. Gli italiani che provano a farlo se ne vanno dopo un paio di giorni». Loro no, pachistani, indiani e un liberiano, hanno retto per anni. «Forse perché molti hanno difficoltà ad imparare l´italiano, e quindi non capiscono quando vengono fregati, forse perché si tratta di popoli molto pacate e gentili, grandi lavoratori», commenta Ejaz Ahmad, membro della consulta islamica del ministero dell´Interno. I lavoratori parlano di cooperative che cambiano spesso: «Chi è qui da quattro anni è stato socio di almeno tre realtà. Ogni volta la nostra anzianità si azzera». A seguire gli immigrati è la Filcams di Pomezia, che ha mobilitato tutta la Cgil del Lazio. Il segretario Sabatino Marcelli spiega: «Ci sono molte cose che non vanno nei contratti di lavoro dei soci di Global logistica e nel magazzino ci sono problemi di sicurezza, i muletti ad esempio sono molto vecchi. Chiediamo che i problemi vengano risolti e i lavoratori reintegrati».

Repubblica 6.8.08
"La crisi, che stress" il broker va in tilt e corre dallo psicologo
Gli operatori in cura sono aumentati del 25%
Impennata anche nei divorzi: per medici e avvocati è diventato un business
di Ferdinando Giugliano


ROMA - Psicologi, psichiatri e avvocati divorzisti. Solo loro escono vincitori dal crollo dei mercati, da quel credit crunch che ha cancellato i bonus a sei-sette cifre e fatto perdere il posto a decine di migliaia di trader. Trader che, oltre a veder scomparire gli assegni, stanno perdendo salute mentale, famiglia, e, in qualche caso, anche la vita. Il caso più estremo è quello di Scott Coles, titolare di una importante società di mutui in Arizona: si è impiccato (dopo aver indossato lo smoking) per non dovere assistere al fallimento della sua società.
La crisi finanziaria ha mandato in tilt i broker di Wall Street. Che hanno perso il primato del lavoro più invidiato, più frenetico e più redditizio della Grande Mela. Un primato che ora può vantare, ad esempio, Marilyn Puder-York, psicologa di New York che ha deciso di specializzarsi nel curare proprio chi lavora in Borsa. Una scelta che si è trasformata in un bel business. Con 40.000 tagli nel primo trimestre del 2008 e un crollo dell´8,5% nella performance delle azioni, i trader in cura a New York sono aumentati del 25%. Il motivo è il denaro, ma non solo. «Più delle perdite finanziarie, li deprime perdere prestigio e autostima, e soprattutto la sensazione di aver fallito rispetto ai propri colleghi», dice Byram Karasu, uno psichiatra e professore alla Yeshiva University, anche lui specializzato nel curare trader. E le cure, visti i pazienti, sono difficili. Con la loro tipica aggressività, la loro incapacità d´introspezione, dice un altro psicologo di Wall Street, Alden Cass, i trader «vogliono soluzioni immediate», che sono spesso difficili da trovare.
Anche perché i problemi dei trader non si fermano al lavoro. L´altro problema causato dalla crisi è in famiglia. I divorzi tra chi lavora a Wall Street o nella City di Londra sono in aumento, proprio come successe durante la crisi del 1990. Gli avvocati divorzisti dello studio Westchester, registrano un aumento del 25% nei divorzi di operatori di Borsa. Sono almeno due le ragioni di questo dato. La prima è sicuramente lo stress dei mariti. «Le mogli dei trader sono abituate a mariti forti, non a persone vulnerabili», dice la consulente matrimoniale, DeAnsin Parker, così piena di clienti che per la prima volta nella sua carriera è costretta a dire di no a delle coppie.
Ma c´è ancora un´altra ragione, meno astratta. Il credit crunch ha portato a un drastico cambiamento del tenore di vita di chi gioca in Borsa. Secondo un sondaggio fatto tra trader, manager di hedge fund e stockbroker londinesi e commissionato dallo studio legale Mishcon de Reya, il 60% degli intervistati ha chiesto al partner di tirare la cinghia, limitando le spese. E il 18% si è sentito rispondere picche. Risultato: il 79% degli intervistati ritiene che il matrimonio sia più a rischio di prima della crisi e il 10% pensa addirittura che il partner abbia già consultato un legale per avviare le pratiche di divorzio. «Quando i soldi sembrano uscire dalla finestra, l´amore esce dalla porta», dice Sandra Davis, l´avvocato a capo dello studio. E, spesso, l´uscita di scena è anticipata rispetto al disastro finanziario. I guadagni recenti sono, infatti, uno dei fattori presi in considerazione quando si calcolano gli alimenti. Così, chi divorzia preferisce farlo quando le acque sono ancora calme e i portafogli pieni. Agendo in anticipo per non restare in perdita. E dimostrando di aver capito molto di più sul funzionamento dei mercati rispetto ai propri partner.

Repubblica 6.8.08
Il guru della psichiatria Ari Kiev: dimenticano la strategia
"Panico e notti insonni così perdono lucidità"
Ma la terapia è difficile: i trader non sono abituati a essere allenati e spesso hanno un ego smisurato


ROMA - «Sono nel panico, non stanno seguendo le loro stesse strategie». Fondatore e presidente della Social Psychiatry Research Institute, 300 trader curati e numerose pubblicazioni sul tema, Ari Kiev, conosce bene l´ansia che avvolge oggi migliaia di trader. E crede che le tecniche usate quando era consulente della squadra olimpica americana siano utili per i trader in crisi.
Dottor Kiev, come mai sempre più trader vanno dallo psichiatra?
«È vero: le visite sono in aumento. Il trading è un´attività stressante, anche quando va bene, perché c´è sempre il rischio di perdere i guadagni. Tuttavia, coi cigni neri (gli eventi altamente improbabili) di questi mesi, l´incertezza aumenta, è molto più difficile fare previsioni esatte e si finisce col perdere soldi».
Cosa avviene nella mente di un trader che perde molti soldi?
«Diventa più ansioso, meno deciso. Prende più rischi: non si libera dei titoli in perdita e vende le azioni che lo farebbero guadagnare».
Questo finisce per avere effetti anche sulla vita personale.
«Ci sono dati che confermano l´aumento dei divorzi, ma tra i miei pazienti non è un fenomeno in crescita. Sono professionisti, che sanno come separare la vita privata dal lavoro. Ciò non significa che non passino notti insonni».
Come si esce da questo stato?
«Se si è in perdita, spesso è perché il mercato è difficile da interpretare. Bisogna pazientare, aspettare un periodo che può essere analizzato con modelli matematici. Sembra ovvio, è vero. Ma provate voi a dire di star fermo a un trader che sta perdendo centinaia di migliaia di dollari».
Le tecniche usate con gli olimpionici sono utili per i trader?
«Indubbiamente. Agli olimpionici, come ai trader, spiego che, inizialmente, è bene concentrarsi su un obiettivo preciso: la medaglia d´oro o un target finanziario. In seguito, entrambi devono concentrarsi sul come arrivarci. È di questo secondo passo che molti traders, oggi, si stanno dimenticando. Si concentrano sull´obiettivo finale (recuperare le perdite) e si dimenticano di come arrivarci».
Ed è più facile aiutare i trader o gli atleti?
«Gli atleti sono più abituati ad essere allenati e a capire il ruolo giocato dalla psiche. Gli arcieri, per esempio, sanno che è fondamentale abbassare il battito cardiaco quando si scocca una freccia. Alcuni trader sono ricettivi. Con altri, l’ego è davvero una bel problema».

il Riformista 6.8.08
Solgenitsin ci sta ancora sulle palle
di Mambo


O ggi la Russia darà l'addio ad Aleksandr Solgenitsin. Ho letto frasi solenni su di lui e sulla sua opera letteraria e politica, ma mi è venuta una strana idea per la testa. Molti di noi non sono comunisti da gran tempo. Lo sono stati felicemente e incoscientemente, ma dopo aver preso la batosta del muro di Berlino e della caduta dell'Urss, cioè della fine dell'illusione italiana sulla riformabilità dell'Urss, abbiamo scoperto il non comunismo. Pochi - io fra questi - sono approdati felicemente all'anticomunismo democratico, cioè a quella convinzione che se si dovesse riproporre lo scenario del 17 si starebbe contro i bolscevichi, tutti con i menscevichi. Pensierini estivi che rimandano al complesso immaginario e agli incubi degli ex comunisti. Vi propongo un gioco-verità. A quanti di noi stava sulle palle Solgenitsin, pur essendo comunisti italiani, berlingueriani o miglioristi, per la via democratica e pluralista? Credo proprio a tutti. E dopo il Pci? Non si è spostato, povero vecchio, da quella poco nobile collocazione. Allora fatevi la domanda e datevi la risposta. Perché era troppo russo, troppo fondamentalista, praticamente reazionario? No, soprattutto perché era irrimediabilmente anticomunista. E questa non gliel'abbiamo mai perdonata. Siamo passati da Lenin a Kennedy senza tirare fuori la rabbia di una sconfitta storica. Tutti felici e contenti. Poi muore Solgenitsin e scopri che ti sta ancora sulle palle. Scava nella tua coscienza, compagno.

il Riformista 6.8.08
La petizione di Veltroni è un boomerang per il Pd


La vicenda della raccolta di firme lanciata dal Pd contro il «regime» berlusconiano è lo specchio perfetto dello stato confusionale in cui si trova il partito di Veltroni. Non occorrevano le defezioni illustri - dopo il governatore della Campania Antonio Bassolino anche Massimo Cacciari annuncia che non firmerà la petizione democratica - per rendersi conto che l'iniziativa si sarebbe trasformata in un boomerang. Del resto, Veltroni la lanciò in modo del tutto estemporaneo, alla vigilia del girotondo di piazza Navona, quando temeva che il dipietrismo dilagasse e voleva battere un colpo per dimostrare che il Pd non era secondo alla piazza nel denunciare il rischio di una deriva autoritaria. Era una pezza. Si sta rivelando peggio del (presunto) buco.
Si sa come sono andate le cose: l'onda di piazza Navona si è afflosciata su stessa, delegittimata dagli eccessi cabarettistici del trio Travaglio-Guzzanti-Grillo. In compenso, a Veltroni è rimasta la scomoda eredità: cinque milioni di firme da raccogliere in calce a un allarme in cui nemmeno il Pd crede davvero. Per mille ragioni: è coerente rompere (giustamente) con Di Pietro e poi gridare al regime? Se regime è, allora la linea giusta è quella dell'ex pm: resistere, resistere, resistere. Si può dirsi di nuovo pronti al dialogo con la maggioranza sulle riforme, come Veltroni ha fatto nei giorni scorsi, e contemporaneamente mobilitare il proprio elettorato contro la «democrazia a rischio»? Da questo punto vista lo stesso Veltroni non è in una situazione molto diversa da Bassolino, che rimarca di non poter firmare contro un governo con cui collabora quotidianamente alla soluzione dei problemi della regione. Veltroni, invece, si potrebbe trovare a settembre a trattare di riforma delle europee, federalismo fiscale e magari pure di giustizia con gli esponenti di un governo additato sulle pubblica piazza come una dittatura mascherata. Qualcosa non torna. Non è di questo passo che il Pd si accrediterà come alternativa credibile all'attuale maggioranza. E uscirne è difficile: non raggiungere il numero di sottoscrizioni annunciato vale comunque un flop. Raggiungerlo, però, significa mobilitare il partito su una linea diversa da quella impostata dopo che Veltroni si è smarcato dal giustizialismo dipietrista. Danno per danno, sarebbe meglio ritirare la petizione.