venerdì 8 agosto 2008

l’Unità 8.8.08
«Liberazione», è solo una tregua tra Ferrero e il direttore Sansonetti


Interlocutorio. A Liberazione è così che definiscono l’incontro che hanno avuto col nuovo segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero. A due settimane dal Congresso gli organi dirigenti del partito non ci sono ancora, e poi al giornale in agosto non c’è molta gente. Ergo, se ne riparlerà a settembre. Sia della «nuova linea» evocata da Ferrero in un’intervista a Repubblica all’indomani della sua incoronazione. Sia «dell’autonomia» della redazione dal partito che un comunicato del Cdr ha rivendicato rispondendo a quell’evocazione.
E allora l’altro giorno i giornalisti e il segretario si sono solo annusati. Guardinghi, ma non più di tanto preoccupati. Ferrero ha ribadito che nonostante le voci insistenti il nome di Piero Sansonetti alla direzione del giornale non è in discussione. Almeno per ora. Gli equilibri della nuova maggioranza congressuale devono ancora decantare. E poi il partito è spaccato in due e la rimozione di Sansonetti non conviene a nessuno. Neanche al segretario.
Derubricata la questione direttore restano però le perplessità sul futuro. Da parte di Ferrero, che non ha nascosto i propri disaccordi col giornale di Sansonetti. E da parte della redazione, che crede che il segretario non abbia troppa cognizione di cosa sia e come funzioni il giornalismo. Per questo, dicono, se «ne è uscito con la cosa della linea». «Un’ingenuità», preferiscono interpretare. La questione dell’autonomia in un giornale politico, dicono, è «una questione vecchia», che non vale neanche la pena riaprire. «Se vogliamo essere un giornale di ricerca - dice un sansonettiano della prima ora - allora l’autonomia è indispensabile». Non si tratta di essere pro o contro Ferrero. Pro o contro Vendola, dicono. «Noi vogliamo fare i giornalisti e farlo bene». Punto e basta. «Qui dentro - spiegano - non ci sono maggioranze, perchè la maggioranza di noi non ha la tessera». E questo, però, Ferrero lo vede con sospetto, perché sente in questa autonomia una vicinanza ad una «sorta di sensibilità vendoliana». In realtà il giornale non rispetta nessuna delle linee del Prc. In altri tempi «anche Fausto Bertinotti e Franco Giordano s’infuriavano con Sansonetti». E poi, dicono i maligni, con una maggioranza a freddo come quella uscita dal Congresso, «quale sarebbe la linea del Prc che Liberazione dovrebbe rispecchiare?».

l’Unità 8.8.08
Sogno Rom di mezza estate
Dijana Pavlovic


Ho sognato.
Brucia il campo rom di via Triboniano, solo fango, né acqua, né luce, né gas. E 600 donne uomini bambini senza più niente.
Il comune di Milano fa qualcosa.
Al posto delle baracche - container, al posto del fango - cemento, e poi anche acqua luce e gas.
Ma non c’è posto per tutti e c’è un prezzo da pagare: il Patto di legalità, legge speciale per zingari!
Se trasgredisci, buttano per strada te e la tua famiglia.
Ho firmato: non andrò mai a rubare, anche se fino adesso non l’ho mai fatto.
Non chiederò mai l’elemosina,
anche se fino adesso non l’ho mai fatto.
Non ospiterò mai nessuno nel mio container,
neanche per una notte,
neanche mia madre!
Ma ho un container e allora va tutto bene!
Ho sognato.
Dieci zingari rumeni, lavorano in regola dallo stesso padrone.
Si fanno intervistare dalla televisione per far vedere che non sono bestie.
Il giorno dopo il padrone li chiama: «Vi ho visto in trasmissione.
Bravi, la gloria si paga, siete zingari? Andatevene a casa!»
Ho sognato.
A Ponticelli molotov sui campi rom. Rivolta popolare, parte dal basso (più basso di così - dal ventre dello stato - la camorra).
Momento di orgoglio e di gloria, davanti alle telecamere la gente grida:
«Non sono io razzista, sono loro che sono zingari!»
I loro figli nelle scuole disegnano roghi e a fianco le scritte:
«Bruciamoli tutti! Anche loro producono spazzatura!»
Va tutto bene, sono solo bambini. Forse troppa televisione,
Ma questi bambini sono il futuro della nazione!
Ho sognato.
Rebecca, bambina zingara di 11 anni,
non va a scuola, ma legge, scrive e fa i conti, il tempo lo passa per strada,
non chiede la carità ma crépe alla nutella.
Disegna case. Ha vinto un premio Unicef per i suoi disegni,
suo padre, un pastore evangelico, uomo di fede,
viene picchiato da due poliziotti. Senza ragione, davanti ai suoi occhi.
Ma va tutto bene, sono solo quattro cazzotti.
Adesso Rebecca saprà disegnare anche poliziotti!
Ho sognato.
Goffredo Bezzecchi, cittadino italiano, superstite Rom dei campi di concentramento.
Famiglia numerosa: 35 persone tra figli e nipoti, tutti senza precedenti penali.
Alle 5 di mattina 70, tra poliziotti carabinieri e i vigili urbani
con un furgone della scientifica, per ordine del Prefetto di Milano,
vengono a censire lui e la sua famiglia con nome, cognome e anche la religione.
Ma sono cittadini italiani. Non bastava andare all’anagrafe?
Ah no, giusto, all’anagrafe non c’è scritto se sei rom.
E se sei ortodosso, cattolico o musulmano.
Ma va tutto bene, lui c’è abituato,
al campo di concentramento Tossicia di Teramo
l’avevano già schedato.
Ho sognato.
Violetta e Cristina, bambine rom di origine slava.
Sono annegate a Pozzuoli vicino a Napoli.
I loro corpi giacciono sulla spiaggia per ore.
A pochi metri la gente continua a prendere il sole,
sorseggia una bibita, chiama amici e parenti con il nuovo cellulare.
È tutto normale.
L’alto commissario dell’Onu si indigna?
Qualcuno si interroga sulle responsabilità?
Di chi sono: della società, della politica, dei media?
Se proprio si deve, ognuno di noi si guardi allo specchio
e dica a se stesso: io non c’entro niente con tutto questo!
Ma va tutto bene.
Violetta e Cristina non saranno vendute spose a dodici anni,
non saranno costrette a chiedere la carità,
non ruberanno bambini alle brave mamme napoletane,
no, nessuno mai verrà a prendere le loro impronte digitali
e chiedere la loro religione e la loro etnìa.
O adesso si dice di nuovo razza?
Ho sognato?
No, sono a Opera, Pavia, Livorno, Mestre, Roma, Brescia, Napoli Milano...
Un bagliore lontano, in periferia! Brucia un campo Rom!
Chi se ne frega! E come dice Shakespeare:
«Potete dire “sognavo”
e tutto quello che fin qui vi abbiamo propinato
come un brutto sogno può essere già dimenticato».
Buone vacanze!
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità 8.8.08
Partito Democratico. Nuovi strappi e vecchie liturgie
di Michele Ciliberto


Il pensiero politico moderno
ci ha insegnato che Stato
e governo vanno tenuti su piani
rigorosamente distinti
così come la politica non va
confusa con l’amministrazione

Il Pd deve tenersi lontano
da vecchie e nuove liturgie
puntando invece su forme
di aggregazione che permettano
alla gente di svolgere un ruolo
attivo nelle decisioni politiche

Il nostro è un Paese paradossale: non molto tempo fa alcuni ministri della Repubblica sono scesi in piazza manifestando contro il governo di cui erano parte e contribuendo in questo modo alla sua dissoluzione senza suscitare particolare discussione; oggi si è acceso un vivace dibattito intorno alla decisione di alcuni amministratori eletti nelle liste del Pd di non partecipare alla manifestazione nazionale indetta da questo partito per il 25 di ottobre.
Mi guardo naturalmente bene dal mettere le due cose sullo stesso piano: la prima iniziativa era addirittura grottesca; la seconda pone invece dei problemi assai significativi sui quali merita fare una riflessione.
La tesi sostenuta dagli amministratori del Partito Democratico che non aderiscono alla manifestazione è ridotta all’essenziale: il problema, in questo momento, è anzitutto quello di collaborare con il governo, dal quale - almeno nel caso dei rifiuti di Napoli - è venuto un aiuto addirittura maggiore per risolvere i problemi di quello dato dal governo Prodi.
In affermazioni di questo tipo, oltre che gli argomenti, pesano anche sentimenti, e perfino risentimenti, di carattere sia politico che personale che non è difficile individuare e che sono ordinari nella vita di un partito o anche nella lotta politica. Non vale dunque la pena di fermarsi su di essi. Conviene invece concentrarsi sui nuclei di fondo da cui discendono tesi come quella or ora citata.
A mio giudizio vengono compiuti due errori sostanziali, da cui è necessario tenersi lontani: in primo luogo vengono identificati sullo stesso livello Stato e governo, nonostante che tutto il pensiero politico moderno ci abbia insegnato a tenere rigorosamente distinti questi due piani; in secondo luogo, la politica viene ridotta, e identificata, con l’amministrazione: punto di vista, quest’ultimo, tipico del pensiero conservatore nelle sue varie diramazioni. Si tratta di errori gravi, anzitutto sul piano teorico, in entrambi i casi: è infatti fondamentale distinguere partiti governo e Stato, mantenendo ferma la dialettica fra piani non riducibili l’uno all’altro; l’amministrazione è parte essenziale della politica che però si misura in un orizzonte e in una prospettiva più ampia di quella dell’amministrazione aprendosi - per usare due lemmi classici - sul “dover essere”, oltre che sull’“essere”.
Sono precisazioni elementari e colpisce, semmai, il fatto che esse debbano essere fatte, a conferma ulteriore, se ce ne fosse bisogno, della situazione di crisi complessiva nella quale ci troviamo ad ogni livello, in questo momento della nostra storia nazionale. Ma se si riflette bene su queste posizioni si vede che, al fondo, quello che si snerva e impallidisce è anzitutto il concetto di opposizione e, insieme ad esso e prima di esso, quello di conflitto. Di questo, e non di altro, bisogna dunque discutere, perché è questo il nodo che sta venendo in questione.
È interessante sottolineare da questo punto di vista che i rappresentanti più autorevoli dello schieramento di governo insistono oggi su due punti: sulla necessità di costituire uno “spirito repubblicano” nel quale si dovrebbero ritrovare così il governo come l’opposizione; sul valore dei processi storici - rispetto a quelli immediatamente politici - arrivando addirittura a valorizzare i risultati della Bicamerale presieduta da D’Alema nel ‘97. È una tecnica tipica di coloro che detengono il potere, dall’età della pietra fino a quella dei computer, sia pure naturalmente con modalità differenti. Quello che resta invece fermo, e permane nelle varie posizioni, è l’idea di una storia che dispiegandosi nel suo processo dissolve progressivamente le opposizioni, e con esse il conflitto, configurandosi come un campo nel quale tutti danno il proprio contributo, naturalmente secondo un progetto preciso che è quello, in genere, delle classi dominanti. Intendiamoci: non che non sia possibile individuare attraverso il conflitto punti di equilibrio e anche di compromesso; ma questo è tanto più possibile quanto più il conflitto venga riconosciuto nella sua potenza e quanto più siano distinti, come fatto addirittura fisiologico, le funzioni del governo e quelle dell’opposizione, evitando di cadere, come si rischia di fare oggi, in quella che un grande filosofo chiamava «la notte in cui tutte le vacche sono nere». Qui, come al solito, problemi teorici e problemi politici si intrecciano in un solo nodo.
Vorrei essere chiaro su questo: condivido pienamente l’invito del Presidente della Repubblica a costruire un clima nuovo che consenta di procedere nel modo più sereno possibile alle riforme di cui il paese ha bisogno, a cominciare da quelle costituzionali che sono ormai una urgenza non più rinviabile. E sono altresì convinto che il dialogo, ma anche il conflitto, fra maggioranza e opposizione, debba diventare anche da noi un fatto normale, come avviene nelle democrazie più avanzate. Ma questo è possibile - va ribadito - se si tengono ferme le distinzioni fra i vari livelli dell’articolazione costituzionale e statale e, soprattutto, se non si confondono i propri interessi privati con quelli della comunità nazionale. Cosa che, come abbiamo avuto agio di vedere in questi ultimi mesi, purtroppo non è accaduto, vanificando anche i tentativi fatti in questo senso dallo stesso Partito Democratico.
Anzi, da questo tipo di politica, il Partito Democratico, è stato progressivamente spiazzato e logorato fino al punto di rischiare di trovarsi al capolinea prima ancora di essere partito (per riprendere il titolo di un gradevole libretto di Emanuele Macaluso). Condivido personalmente da questo punto di vista il giudizio di chi sostiene che in questo momento il vero problema del Partito Democratico è anzitutto quello di “organizzare se stesso” e - preciserei - di rimotivare le ragioni che ne sono state alla base e che ne hanno orientato la nascita e le prime mosse politiche. Da questo punto di vista, la manifestazione del 25 di ottobre - e questo a mio giudizio è il suo significato più profondo - deve congiungere questi due obiettivi fondamentali: rendere chiare le ragioni di fondo dell’opposizione al governo di Berlusconi e di Tremonti; rimotivare il popolo del centro-sinistra che si è riconosciuto nel Partito Democratico e che si è gettato con impegno ed entusiasmo in questo progetto. Questo, penso, deve essere anche il criterio di fondo per valutare le varie iniziative che il Partito Democratico sta prendendo in queste settimane, concernenti la ripresa politica nel mese di settembre. Non si tratta però - voglio ribadire anche questo - di creare nuove “liturgie” come è stato affermato da un autorevole dirigente del Partito Democratico spiegando ai cronisti perché il segretario di questo partito abbia rinunciato a chiudere la Festa nazionale - dove si limiterà a dare solo un’intervista conclusiva - decidendo di chiudere, invece, i lavori della prima scuola politica del Partito. L’intreccio tra politica e riti di ascendenza religiosa - ci ha insegnato un grande maestro degli studi storici, George Mosse - è tipico dei grandi movimenti di massa totalitari del Novecento, che delle “liturgie” hanno fatto un asse della propria azione politica, basando su questo piano i rapporti tra leader e massa, fra “popolo” e capi politici. Noi però non abbiamo più alcun bisogno di tutto questo: quello a cui dobbiamo lavorare è un nuovo nesso fra partecipazione e rappresentanza chiamando ciascuno alle proprie responsabilità.
Quella che sta di fronte a noi e su cui si gioca il destino del Partito Democratico è, in ultima analisi, precisamente una questione di democrazia. Se non attraverserà questo sentiero strettissimo il nuovo partito non avrà prospettiva e sarà destinato a scomparire dalla scena politica.
In questo quadro va dunque valutata la stessa manifestazione che si sta organizzando per il 25 di ottobre, sulla quale è lecito avere dei dubbi proprio per quanto riguarda le sue modalità organizzative e i problemi di democrazia che ne discendono. Si capisce l’urgenza di una manifestazione di questo genere, sia per motivi interni di partito sia per delineare le ragioni dell’opposizione al governo raccogliendo in una grande iniziativa un “popolo” che si è disperso e che deve essere riunificato, anche sotto nuovi simboli e nuove bandiere, senza le quali non si fa politica. Ma proprio perché questa è la posta in gioco, a me pare che le modalità organizzative scelte per il 25 ottobre appartengano a una vecchia storia, continuino ad essere di tipo tradizionale: mentre si tratta invece di inventare nuove forme di aggregazione che facciano perno sulla determinazione di nuovi nessi fra partecipazione e rappresentanza, riprendendo la lezione delle primarie, e mettendo la gente che si è ritrovata nel Partito Democratico in condizione di svolgere un ruolo di protagonista incidendo - anche attraverso nuovi modelli organizzativi, lontanissimi da nuove e vecchie liturgie - nella determinazione delle decisioni politiche.
La discussione di questi giorni nasconde dunque problemi di più vasta portata; ma sono persuaso che di questo si tratti in questi mesi: del destino del Partito Democratico e che di questo al fondo si stia discutendo, anche quando si prende posizione - in un senso o nell’altro - nei confronti della manifestazione del 25 ottobre.

Corriere della Sera 8.8.08
Sanità e terapie del dolore
I numeri I pazienti che avrebbero bisogno di questo tipo di assistenza sono 250 mila, ma gli spazi sono per poco più di 2000
Le cure Terapia del dolore, assistenza psicologica, «coccole» per gli ultimi giorni di vita. E conta solo la volontà del ricoverato
Hospice, dove si sceglie come morire
Niente accanimento nelle 206 strutture per malati terminali Pochi posti letto, ma i fondi stanziati non vengono spesi
di Mario Pappagallo


Il primo hospitium per malati e morenti risale al V secolo d.C. e fu fondato da Fabiola, matrona della Gens Fabia. Nel 1843, a Lione, fu aperto un Hospice per morenti da Jeanne Garnier, ma è Cicely Saunders, con il suo St. Cristopher del 1967 a Londra, la fondatrice degli Hospice moderni

I morti per tumore sono circa 130 mila ogni anno in Italia. Di questi, almeno 100 mila avrebbero bisogno di cure palliative nella fase terminale. A domicilio, se l'ambiente e la famiglia lo consentono. In una struttura dedicata, se si è soli o con familiari con problemi socio- economici o psicologici. Assistere alla fine della vita di un congiunto non sempre è emotivamente sostenibile. Per questo esistono gli Hospice.
Che oggi emergono dal silenzio, perché in uno di questi centri verrà ricoverata Eluana Englaro negli ultimi giorni della sua esistenza.
Negli Hospice non ci sono né sondini per l'alimentazione forzata, né respiratori. Tutto questo, se non richiesto, è accanimento terapeutico. Le cure sono per ridurre i sintomi, il dolore, la sofferenza anche psicologica, rasserenare nel momento terminale. O per aiutare chi terminale non è, ma non è più curabile.
Numeri insufficienti
Ma in Italia gli Hospice, nati tardi, sono ancora pochi: 2.346 posti letto. Insufficienti. Si stima che almeno 250 mila malati vi dovrebbero ricorrere, molti dei quali attualmente degenti in ospedale (con costi elevati per il servizio sanitario). Gli Hospice sarebbero la tappa più giusta per persone con malattie incurabili come sclerosi multipla, gravi cirrosi (fegato), la Sla (che ha portato Welby a chiedere l'eutanasia), con insufficienze respiratorie o cardiache che non rispondono più ai farmaci. Se i numeri lo consentissero.
Non è però questione di soldi. Anzi. Duecentosei milioni e 566 mila euro sono stati finalizzati a una rete di queste strutture. Erogati nel 1999 e ancora nel 2001. Nel 2008 restano ancora da spendere 44 milioni e rotti. E di Hospice a disposizione ce ne vorrebbero sempre di più perché aumenta la consapevolezza delle diagnosi, anche le più infauste, e perché sempre un maggior numero di persone vuole decidere come morire.
L'ultima diagnosi
Per accedere ad un Hospice
bisogna avere una diagnosi terminale, il che vuol dire, teoricamente, 2-3 mesi di vita. È così negli Usa e in Inghilterra, è così anche in Italia. Ma succede che il malato, finalmente senza dolore e coccolato, vive anche molto di più. «Anche un anno», dice Piero Morino, responsabile dell'Hospice delle Oblate di Firenze. Potere delle cure palliative, cioè di quei trattamenti destinati a rendere sopportabili e vivibili con dignità e senza dolore gli ultimi mesi dei malati terminali.
«Senza sondini per alimentazione forzata, né macchine da vita artificiale. In pieno rispetto della volontà del malato e dei familiari», ribadisce Morino. «Manca però un consenso informato adatto agli Hospice », avverte Mauro Marinari, direttore del Nespolo di Airuno (Lecco). Alcuni familiari pretenderebbero le stesse terapie di una rianimazione. Invece, filosofia dell'Hospice è: solo trattamenti sintomatici, psicologici e fisioterapici. Una filosofia che abbatte anche la richiesta di eutanasia. Un fine vita «coccolati » accresce il desiderio di continuare a sperare.
I finanziamenti
In un'Italia «affamata» di fondi i finanziamenti per gli Hospice hanno stentato a essere attivati. Tant'è che alla fine del 2007 c'era ancora un residuo di 44 milioni da spendere e solo tre Regioni che avevano completato il piano: Emilia Romagna, la Provincia autonoma di Bolzano e il Molise. A otto anni dall'erogazione dei fondi mancano all'appello 18 hospice del piano iniziale: ai 206 previsti si arriverà a fine 2008 (con l'aiuto di altri 100 milioni stanziati con la finanziaria 2006). E dovranno salire a 243 nel 2011. In alcune regioni, poi, prevalgono i centri privati: otto nel Lazio contro i due pubblici, con ancora 3 milioni e 800 mila euro da spendere.
La struttura tipo
Un Hospice tipo dovrebbe avere 10-12 posti letto. E tre medici, 8-10 infermieri, 8-10 operatori socio-sanitari. Una struttura che non sembra complicata da costruire e organizzare. Eppure nel nostro Paese la crescita è stata, e continua ad essere, faticosa. Nel 2002 gli Hospice erano appena 20, nel 2006 114, nonostante i soldi a disposizione. E con i 206 operativi a fine 2008 si avrà una percentuale di 0,40 posti letto ogni 10 mila abitanti. Nonostante ogni anno in Italia siano 250 mila persone ad avere necessità di questo tipo di assistenza. Terapia del dolore in primis. Da uno studio dell'Irc di Genova (2006), risulta che in Italia, per il 42% dei malati di tumore, il dolore risulta talmente insopportabile da far loro desiderare la morte, nel 66% dei casi ostacola anche le semplici attività quotidiane, e per la metà di loro il dolore influisce negativamente sulla vita familiare.
La lista di attesa
Ma come si accede a un Hospice?
Franco Henriquet, responsabile del Gigi Ghirotti di Genova, spiega: «La richiesta per il ricovero deve essere fatta da un medico che fa assistenza domiciliare perché diamo precedenza ai malati che stanno a casa rispetto a quelli ricoverati in ospedale. Limitatamente alla disponibilità dei posti. Al Gigi Ghirotti nel 2007 ci sono stati 219 ricoverati, su 414 richieste. Circa la metà non esaudite». Alcuni in lista d'attesa muoiono prima. E' richiesta una previsione di fine vita non oltre i tre mesi. «Tuttavia — dice Henriquet — abbiamo avuto pazienti terminali che sono rimasti qui anche un anno. Non è così facile diagnosticare i tempi della malattia».
Il medico dell'Hospice valuta le richieste secondo i criteri stabiliti da una convenzione con la Asl. Non si tiene conto della patologia (tipo gli oncologici prima dei neurologici o cose così) o della gravità (sono tutti gravi) ma solo della data in cui è stata presentata la domanda. I pazienti provenienti dalle altre Regioni non sono esclusi, ma devono essere sottoposti a autorizzazione della Regione ospitante.
E l'attesa? «Tre, quattro giorni», risponde Marinari che aggiunge: «Da noi il 12% dei ricoverati non sono malati terminali di tumore. Ci sono anche scompensati di cuore e polmonari. Il ricovero a volte è breve, per correggere la situazione, stabilizzarla. Poi assistenza a domicilio». E Morino conclude: «Gli hospice non sono posti dove si va a morire, ma centri in cui si allevia la sofferenza».

Corriere della Sera 8.8.08
A Genova Nell'Hospice Gigi Ghirotti ci sono 12 pazienti, le stanze hanno nomi di fiori e i desideri delle persone sono legge
«Liberi di decidere. Anche la data del Natale»
«Un ricoverato stava male, lo ha festeggiato il 10 dicembre». L'accordo sulle terapie
di Erika Dellacasa


GENOVA — Le stanze non hanno un numero per identificarle, hanno un fiore: una margherita, un tulipano, un geranio. Dodici stanze, dodici letti, dodici fiori. Anche sulle cartelle cliniche c'è il fiore. L'Hospice della «Gigi Ghirotti», a Genova, accoglie malati terminali, ma il medico responsabile, Nadia Balletto, afferma decisa: «Qui assistiamo i vivi, non pensiamo ai morti». Sono cure palliative, terapie antidolore perché la guarigione, per chi approda in queste stanze, è esclusa. L'assistenza è garantita ventiquattro ore su ventiquattro.
L'Hospice vive in un difficile equilibrio: i pazienti hanno una speranza di vita, secondo i certificati che li accompagnano, che non va oltre i tre mesi, ma, spiega il medico, «qui si viene per migliorare la qualità della vita rimanente, non per morire». In un ambiente che non è casa, anche se cerca di essere il più possibile «casa»: i malati possono — se ce la fanno — vestirsi come preferiscono e non sono «condannati » al pigiama, possono — se ce la fanno — farsi portare le lasagne al forno della mamma, possono (e quasi tutti lo fanno) appendere quadri, foto, personalizzare la stanza. Oggi, a poter «in qualche modo» pranzare e alzarsi dal letto, sono solo cinque su dodici. Due sono affetti da Sla, completamente immobili, uno in grado di parlare, l'altro comunica con gli occhi. Le visite dei parenti sono possibili in qualunque momento e per qualunque durata. Ogni camera ha una poltrona trasformabile in letto, chi vuole può fermarsi a dormire. Se il visitatore avverte il giorno prima, gli sarà servita anche la colazione, il pranzo e la cena. Piatti di ceramica, posate vere. C'è un menu del giorno con le variazioni inevitabili: semolino, prosciutto cotto, ricottina.
Le camere hanno tutte il televisore. Alla parete c'è il crocefisso, chi desidera può toglierlo. In caso di pazienti musulmani viene tolto prima del loro arrivo. Le richieste religiose dei pazienti vengono sempre rispettate, c'è stato qui poco tempo fa un rito funebre ebraico, il corpo nudo è stato unto e avvolto negli scialli rituali.
Quando un paziente viene selezionato per il ricovero la dottoressa Balletto ha un lungo colloquio con i familiari: «Fondamentale è sapere se il malato è a conoscenza della sua condizione o in che misura ne è a conoscenza. Se ha bambini, ad esempio, chiedo cosa sanno i bambini. C'è la possibilità di un sostegno psicologico. Quando la mamma muore e il padre, sovente, perde la testa, da solo non ce la fa a occuparsi dei figli».
I bambini, i figli, i nipotini, sono ben accetti. Non è un ambiente cupo, anzi, tutto è luminoso, imbiancato di fresco. C'è molto silenzio. Nel «soggiorno» un grande televisore al plasma, lasciato da una paziente che non c'è più, una play-station per i ragazzini, un computer collegato a Internet e una cesta piena di peluche.
Grandissima attenzione viene dedicata ai desideri di fine vita. Cautamente, «nei tempi che stabilisce il malato», racconta la dottoressa Balletto, questi desideri vengono espressi. I più frequenti sono incontrare familiari che, per diversi motivi, si sono allontanati. Sorelle, fratelli, anche genitori e figli che, magari, non si parlavano più da anni per motivi che — ora — appaiono inconsistenti. Si favorisce l'incontro, in qualche caso il familiare — anziano e malato — è stato accompagnato all'Hospice in ambulanza per quell'ultimo saluto. Un paziente desiderava festeggiare il Natale ma sapeva che non ce l'avrebbe fatta, inutile fingere. E' stata organizzata una festa natalizia il 10 dicembre, con tutti i familiari e i nipoti. Lui è morto il 25 dicembre. «Le madri — dice Balletto — riescono ad andarsene quando hanno l'impressione di avere stabilito un controllo sul futuro dei figli. Fanno raccomandazioni. Di vita, affettive».
Le altre volontà sono quelle riferite alle terapie. Quando si è ancora in tempo, il medico stabilisce un codice con il malato che prevedibilmente perderà l'uso della parola, può essere il battito della ciglia. I computer aiutano. «In caso di morte per soffocamento, come nella Sla, bisogna arrivare a stabilire con il malato quali interventi medici accetta: c'è chi rifiuta il sondino e la tracheotomia e chi vuole che sia fatto tutto, fino all'ultimo. Non si può mai giudicare la scelta del malato, non si può mai imporre. C'è chi rifiuta l'antidolorifico. Se non lo vuole, non si fa». Chi rifiuta l'alimentazione con il sondino viene esaudito.
«Ma anche qui ci sono — spiega il medico — sprazzi di vita. Abbiamo fatto musicoterapia. Funziona. Qualcuno vuole l'opera e qualcuno Vasco Rossi. Va bene tutto».

Corriere della Sera 8.8.08
Inediti Intellettuali e pacifismo, il monito di Orwell nel 1940
Sinistra, hai tradito i valori della patria
Resistere o arrendersi? Non c'è alternativa alla guerra Da socialista dico: la rivoluzione inizia dalla fine di Hitler
di George Orwell


CONTRARIAMENTE al credo popolare, il passato non è stato più denso di avvenimenti del presente. Se così sembra, è perché guardandoci alle spalle i fatti accaduti anni e anni addietro si affastellano, e perché pochissimi dei nostri ricordi ci pervengono nella loro autentica purezza. È soprattutto grazie ai libri, ai film e alle memorie nel frattempo sopraggiunti, che alla guerra del 1914-18 viene oggi attribuito quel valore straordinario ed epico di cui l'attuale difetta.
Se tuttavia avete potuto vivere quel conflitto, e se sceverate i veri ricordi dalle aggiunte successive, vi accorgerete che non furono di solito i grandi eventi, all'epoca, a suscitare in voi forti emozioni. Non credo che la «Battaglia della Marne», ad esempio, avesse agli occhi del gran pubblico quel carattere melodrammatico che poi le è stato attribuito. Né ricordo di aver mai udito l'espressione «Battaglia della Marne», se non anni dopo l'accaduto. Era semplicemente successo che i tedeschi, portatisi a ventidue miglia da Parigi — il che era senz'altro piuttosto allarmante, dopo le atrocità commesse in Belgio — erano poi, per qualche ragione, tornati indietro. Avevo undici anni quando scoppiò la guerra. Se, in tutta sincerità, metto a fuoco i miei ricordi senza tener conto di quel che ho appreso in seguito, devo ammettere che nulla, per tutta la durata del conflitto, riuscì a commuovermi così profondamente come poté l'affondamento del Titanic, appena qualche anno prima. Quella sciagura, al confronto marginale, aveva scosso il mondo intero, e lo sconcerto non si è ancora del tutto dissolto. Ricordo le terribili, minuziose cronache lette ad alta voce durante la colazione (allora era normale abitudine leggere forte il giornale), e ricordo che in quel lunghissimo campionario di orrori una notizia mi colpì più di tutte: alla fine, il Titanic si era improvvisamente portato in verticale e, quando la prua iniziò ad affondare, i passeggeri aggrappati a poppa furono sollevati ad almeno trecento piedi nell'aria, prima di sprofondare nell'abisso. Provai un gran senso di vuoto allo stomaco, che riesco quasi ancora ad avvertire. Nulla in guerra mi ha mai procurato una simile sensazione.
Dello scoppio della guerra conservo tre vivide immagini che, data la loro marginalità e irrilevanza, non sono state intaccate da alcun evento posteriore. La prima corrisponde alla caricatura dell'«Imperatore Tedesco» (credo che l'odiato appellativo di «Kaiser» acquistò popolarità soltanto qualche tempo dopo), che fece la sua comparsa alla fine di luglio. La gente fu lievemente scandalizzata da una simile irrisione della sovranità («Ma è un uomo di così bell'aspetto, davvero!»), nonostante fossimo a un passo dalla guerra. L'altra risale ai giorni in cui l'esercito requisì tutti i cavalli della nostra cittadina di campagna, e un vetturino scoppiò in lacrime, nella piazza dove si svolgeva il mercato, quando il suo animale, che da anni e anni lo serviva, gli fu strappato via. L'altra ancora è di una ressa di giovani alla stazione ferroviaria, che sgomitano per accaparrarsi i giornali della sera, appena arrivati con il treno da Londra. E ricordo la pila di giornali verde pisello (ve n'erano ancora di quel colore, all'epoca), i colletti alti, i pantaloni di foggia affusolata e le bombette, molto più di quanto non ricordi i nomi delle terribili battaglie che già infuriavano ai confini della Francia.
Degli anni centrali della guerra, ricordo soprattutto le spalle quadrate, i polpacci prominenti e il tintinnio degli speroni degli artiglieri, la cui uniforme preferivo di gran lunga a quella della fanteria. In quanto al periodo finale, se mi si chiedesse qual è onestamente il mio ricordo principe, risponderei con estrema semplicità: la margarina. A riprova dell'orribile egoismo dei bambini, già nel 1917 la guerra non ci toccava quasi più, non fosse stato per lo stomaco. Nella biblioteca della scuola, una gigantesca mappa del Fronte Occidentale venne appesa a un cavalletto, con un filo di seta rosso che correva, tracciando uno zigzag, tra varie puntine da disegno. Di tanto in tanto, il filo si muoveva di mezzo pollice in questa o quella direzione, e ogni spostamento era la spia di una montagna di cadaveri. Io non vi prestai mai attenzione. A scuola ero tra i ragazzi con un livello d'intelligenza superiore alla media, eppure non ricordo un solo evento, tra i maggiori dell'epoca, che ci apparisse nel suo autentico significato. La Rivoluzione russa, ad esempio, non ebbe su di noi alcun effetto, eccetto quei pochi i cui genitori avevano investito denaro in Russia. Tra i più giovani, la reazione pacifista aveva preso piede da ben prima che la guerra giungesse a conclusione. Essere il più svogliato possibile alle parate del Corpo addestramento ufficiali di Complemento, e non mostrare alcun interesse per la guerra, tutto ciò era considerato un segno d'illuminazione. I giovani ufficiali reduci dal conflitto, induriti dalla terribile esperienza e disgustati dall'atteggiamento della nuova generazione, ai cui occhi essa era del tutto insignificante, erano soliti rimproverarci la nostra mollezza. Naturalmente, non riuscivano ad addurre alcuna ragione a noi comprensibile.
Erano capaci soltanto di sbraitare che la guerra era «una buona cosa», che «ti temprava», «ti manteneva in forma», eccetera eccetera. Noi ci limitavamo a ridere sotto i baffi. Il nostro era un pacifismo di parte, tipico di Paesi protetti e con una forte marina militare. Fino a parecchi anni dopo il conflitto, possedere una qualche conoscenza o interesse per le questioni militari, o addirittura sapere da quale estremità di un fucile esce la pallottola, era motivo di sospetto nei circoli «illuminati». I fatti del 1914-18 vennero liquidati come un inutile massacro, di cui le stesse vittime furono ritenute, in un certo senso, colpevoli. Quante volte ho sorriso pensando a quel famoso manifesto di reclutamento— «Papà, che cosa hai fatto nella Grande Guerra?» (un bambino pone la domanda al genitore atterrito dalla vergogna) —, e a tutti gli uomini che saranno stati attirati nell'esercito soltanto da quella locandina, e poi disprezzati dai propri figli per non essersi dichiarati obiettori di coscienza.
Ma i morti si sono presi la rivincita, dopo tutto. Non appena la guerra scivolò nel passato, proprio la mia generazione, quella cioè dei «troppo giovani », divenne consapevole dell'enormità dell'esperienza che aveva perduto. Non ci si sentiva pienamente uomini, perché quell'esperienza mancava. Ho trascorso il grosso degli anni 1922-27 in mezzo a uomini appena più grandi di me, e che erano stati in guerra. Ne parlavano senza posa, con orrore, naturalmente, ma anche con sempre maggior nostalgia. Una nostalgia che si riverbera con estrema chiarezza nei libri inglesi sulla guerra. D'altronde, la reazione pacifista non rappresentò che una fase transitoria, e anche i «troppo giovani» erano tutti stati preparati a combattere. La gran parte del ceto medio inglese è addestrata alla guerra sin dall'infanzia, non tecnicamente ma moralmente. Il primo slogan politico che mi sovviene recitava: «We want eight, and we won't wait» («Ne vogliamo otto, e ci faremo sotto»), sottintendendo le corazzate «dreadnoughts ». A sette anni ero membro della Lega Navale e portavo un vestito alla marinara con la scritta «H.M.S. Invincible» sul berretto. Ancor prima di entrare nel Corpo addestramento ufficiali della mia scuola superiore, ero stato cadetto in collegio. Ho imbracciato fucili, a intervalli regolari, sin da quando avevo dieci anni, in preparazione non a una guerra come tante altre, ma a una guerra assai particolare, una guerra ove le cannonate risuonano in un crescendo di frenesia, e al momento opportuno ti arrampichi fuori dalla trincea, ti rompi le unghie sui sacchetti di sabbia, e ti dimeni tra il fango e il filo spinato, verso il fuoco di sbarramento. Sono convinto che il fascino esercitato dalla Guerra civile spagnola sui miei coetanei fosse dovuto, almeno in parte, alle profonde affinità con la Grande Guerra. Vi furono momenti in cui Franco riuscì a mettere assieme abbastanza aeroplani da portare il conflitto agli standard moderni, e ad essi si devono le svolte decisive. Per il resto, tuttavia, si trattò di una copia sbiadita del 1914-18, una guerra di posizione fatta di trincee, artiglieria, incursioni, cecchini, fango, filo spinato, pidocchi e stagnazione. Il settore del fronte aragonese dove mi trovavo all'inizio del 1937, doveva essere molto simile a un tranquillo reparto nella Francia del 1915. Soltanto l'artiglieria era carente. Anche nelle rare occasioni in cui sparavano contemporaneamente, tutti i cannoni dentro e fuori Huesca non bastavano che a produrre un rumore inoffensivo e intermittente, simile alla fine di un temporale. Le granate sparate dai cannoni da sei pollici di Franco si schiantavano piuttosto fragorosamente, ma non ve n'erano mai più di una dozzina per volta. Posso dire che dopo aver udito per la prima volta i colpi «da guerra» dell'artiglieria, come si usa dire, rimasi almeno in parte deluso. Era tutto così diverso dal tremendo, incessante boato che i miei sensi avevano atteso per ben vent'anni.
Non saprei dire in quale anno ho saputo per la prima volta con certezza che la guerra attuale fosse imminente. Dopo il 1936, naturalmente, era ormai una cosa ovvia, che soltanto uno sciocco non avrebbe colto. Per diversi anni avevo vissuto come un incubo l'arrivo della guerra, e talvolta giunsi anche a pronunciare discorsi e scrivere pamphlet anti-bellici. Ma alla vigilia dell'annuncio del patto russo-tedesco, sognai che la guerra era scoppiata. Era uno di quei sogni che, qualunque sia il loro recondito significato freudiano, talvolta rivelano la vera condizione dei propri sentimenti. Mi fece capire due cose: primo, che allo scoppio della tanto paventata guerra avrei dovuto semplicemente provare sollievo; secondo, che in fondo ero un patriottico, che non avrei tramato né agito contro la mia sponda, che avrei appoggiato il conflitto e che vi avrei possibilmente combattuto. L'indomani, appena scese le scale, trovai il giornale con l'annuncio del viaggio di Ribbentrop a Mosca. (Il 21 agosto 1939 Ribbentrop fu invitato a Mosca, e il 23 agosto firmò con Molotov il patto russo-tedesco). La guerra era dunque imminente, e il governo, persino quello di Chamberlain, poteva contare sulla mia fedeltà. Inutile aggiungere che quest'ultima era e resta semplicemente un atto formale. Come a quasi tutti i miei conoscenti, il governo ha seccamente rifiutato di assegnarmi una qualsivoglia mansione, anche come copista o soldato semplice. Ma ciò non cambia i propri sentimenti. D'altronde, saranno costretti a servirsi di noi, prima o poi.
Credo che non avrei alcun problema a difendere le mie ragioni a sostegno della guerra, se necessario. Non c'è altra concreta alternativa: resistere a Hitler o arrendersi, e da socialista devo dire che è meglio resistere; in ogni caso, non vedo un solo argomento a favore della resa che non vanifichi il senso della resistenza repubblicana in Spagna, di quella cinese al Giappone, eccetera eccetera. Ma non voglio certo dire che sia questo il fondamento emotivo delle mie azioni. Nel sogno di quella notte capii che il patriottismo così a lungo inculcato nel ceto medio aveva fatto il suo corso, e che laddove l'Inghilterra si fosse trovata in gravi ambasce, per nessuna ragione avrei potuto compiere un sabotaggio. Ma che nessuno travisi il significato di queste parole.
Il patriottismo non ha nulla a che vedere con il conservatorismo. È la devozione a qualcosa che cambia continuamente, ma misticamente appare sempre uguale a se stesso, un po' come l'attaccamento degli ex «bolscevichi bianchi» alla Russia. Prestare fedeltà sia all'Inghilterra di Chamberlain che all'Inghilterra del domani potrebbe sembrare impossibile, se non si fosse consapevoli che è un fenomeno di quotidiana ordinarietà. Soltanto una rivoluzione può salvare l'Inghilterra, ciò è evidente ormai da anni, ma la rivoluzione ora è cominciata, e potrebbe procedere abbastanza speditamente, se solo sapremo tenerci alla larga da Hitler. Nel giro di un paio d'anni, o forse uno soltanto, sol che teniamo duro, assisteremo a cambiamenti che sorprenderanno gli sciocchi privi di lungimiranza. Sui rigagnoli di Londra, non mi perito di affermarlo, dovrà scorrere sangue. D'accordo, così sia, se è necessario. Ma quando le milizie rosse saranno acquartierate al Ritz, sentirò ancora che l'Inghilterra che mi insegnarono ad amare tanto tempo fa, e per ragioni così disparate, in qualche modo sopravvive.
Sono cresciuto in un'atmosfera permeata di militarismo, e ho poi trascorso cinque tediosi anni tra gli squilli di tromba. A tutt'oggi avverto un vago odor di sacrilegio, quando non si sta sull'attenti durante il «Dio salvi il Re». Tutto ciò è infantile, naturalmente, ma preferisco di gran lunga aver ricevuto questo tipo di educazione che non essere come quegli intellettuali di sinistra così «illuminati» da non saper comprendere le emozioni più comuni. Sono proprio gli individui che non hanno mai avuto un balzo al cuore alla vista della bandiera del Regno Unito coloro i quali, quando arriva il momento della rivoluzione, si tirano indietro. Invito a confrontare la poesia scritta da John Cornford non molto tempo prima di essere ucciso (Before the Storming of Huesca, «Prima della presa di Huesca»), con quella di Sir Henry Newbolt (There's a breathless hush in the close tonight, «C'è una quiete carica di tensione sul campo questa notte»). Se si lasciano da parte le differenze tecniche, riconducibili a una semplice distanza temporale, ecco che il contenuto emotivo delle due poesie appare pressoché identico. Il giovane comunista morto eroicamente nella Brigata Internazionale si era fatto le ossa nelle scuole d'élite. Aveva cambiato bandiera, ma non le proprie emozioni. Che cosa ne discende? Semplicemente la possibilità di tirar fuori un socialista da un ottuso reazionario, il potere di auto- trasformazione insito in qualsiasi vincolo di fedeltà, l'esigenza spirituale di patriottismo e virtù militari, dei quali, per quanta scarsa simpatia i conigli lessi della Sinistra nutrano nei loro riguardi, non si è ancora trovato un sostituto.

Corriere della Sera 8.8.08
Il luddismo dei Ferrero
di Giovanni Belardelli


Ha suscitato qualche divertito commento quanto Angela Scarparo ha dichiarato qualche giorno fa al Corriere, come per giustificare la frequentazione dei salotti sua e del suo compagno, il segretario di Rifondazione comunista Ferrero. In effetti appare alquanto curiosa la scena della coppia che, secondo il racconto della stessa Scarparo, tornando a casa dopo una serata passata in qualche salotto si dedicherebbe a «pensare alla redistribuzione della ricchezza». Ma non meno bizzarra sembra anche un'altra sua affermazione, e cioè che non vi sarebbe nulla di male a «bere un bicchiere di vino con i ricchi» visto che lo faceva «anche Ned Ludd» (da cui prese il nome due secoli fa il movimento luddista, che distruggeva le macchine perché toglievano lavoro agli operai).
Dove la cosa curiosa non sta, è ovvio, nel sostenere la legittimità di bere quel che si vuole con chi si vuole, bensì nel farlo appellandosi all'autorità non di un personaggio reale ma di una figura mitica, quale fu appunto Ned Ludd.

il Riformista 8.8.08
Di Pietro-Ferrero, il partito dalle mani pulite nasce in Abruzzo
di Alessandro De Angelis


Lui, Tonino Di Pietro, in Abruzzo, vuole guidare le danze nel centrosinistra. A sentirlo, l'ipotesi di una sua candidatura a governatore non c'è. Ma intanto, all'ombra dell'Appennino, prende corpo il "partito delle mani pulite". Praticamente: il suo. Che ieri ha incassato pure il sostegno di Rifondazione. Durante la trasmissione Omnibus , il neosegretario Ferrero ha dettato al Pd le condizioni per un'alleanza: pesanti, anzi pesantissime. La prima: «Non deve essere presentato in nessuna lista della coalizione alcun indagato». La seconda: «Riteniamo opportuno - ha detto Ferrero - che il candidato a presidente non sia un esponente del Pd, partito che con ogni evidenza ha pesanti responsabilità nella vicenda abruzzese».
Sarà un caso (e non lo è), ma tra lui (Di Pietro) e l'altro (Ferrero), continuano le prove d'intesa. Prima si sono ritrovati insieme a piazza Navona: una piazza che ha fatto imbufalire più Veltroni che Belusconi. Poi al congresso di Rifondazione, Ferrero ha annunciato che sosterrà i referendum sul lodo Alfano dell'ex pm. E qualche giorno fa i due hanno pure pranzato insieme alla Camera. Non è dato sapere se hanno parlato di Abruzzo. Ma ieri su una candidatura di Di Pietro in Abruzzo Ferrero non ha posto veti: «Non capisco quale problema potremmo avere, ne discuteremo in merito al programma» ha affermato il segretario del Prc. E, come se non bastasse, a settembre Rifondazione farà, proprio in Abruzzo, una grande manifestazione sulla questione morale. E Di Pietro? Dice al Riformista : «Le condizioni poste da Ferrero sono di buon senso. In Abruzzo serve una grande discontinuità e un grande rinnovamento».
Difficile, praticamente impossibile, su queste basi cucire una coalizione, almeno a sentire quelli del Pd: «A che gioco stanno giocando?» si è lasciato andare un veltroniano di rango. Che aggiunge: «Se vogliamo vincere bisogna fare la coalizione. Se invece questi giocano a perdere e a fare voti è un altro discorso». Nel Pd, sul partito delle mani pulite, è scattato l'allarme rosso. Per ora la strategia assomiglia tanto a una riduzione del danno. Se di Pietro va da solo c'è il rischio - dice più di un dirigente - che prenda più voti del Pd. Ma una coalizione da lui guidata potrebbe essere una trappola mortale: «Se gli diamo le chiavi della coalizione, Di Pietro mette becco pure nelle nostre liste». A ciò si aggiunga un clima che - se non fosse per la pausa estiva - ricorda il '92: mezza giunta in carcere, la stampa che non parla d'altro, i cittadini che vanno più in piazza da Di Pietro che alle feste democratiche. E, per capire l'aria, bastava ascoltare le parole con cui due giorni fa Storace ha arringato i suoi: «Lanciamo l'alleanza della gente contro i partiti della tangente».
In questo clima il dossier è approdato sulla scrivania di Veltroni, che a settembre farà un giro in Abruzzo. Il segretario del Pd ha messo in agenda, nei prossimi giorni, una serie di incontri per cercare di ricostruire una coalizione. Vedrà Di Pietro, ma soprattutto Casini, che rappresenta la vera carta per riaprire i giochi in Abruzzo. Anche Marini, partendo per le vacanze, ha assicurato i big abruzzesi che al rientro si occuperà a tempo pieno del caso. Per uscire dall'angolo, il segretario del Pd ha messo a punto una exit strategy: le primarie. Che saranno lanciate in grande stile a fine mese. Con l'obiettivo di «rilegittimare la classe politica nel rapporto coi cittadini». Ma nel ragionamento veltroniano, le primarie sarebbero anche un modo per stanare Di Pietro, tenendolo legato alla coalizione: se le vince lui, è il candidato, ma se perde - a quel punto - non può tirarsi indietro. C'è di più: i veltroniani sono disposti ad allargare le primarie anche alle liste. 
Il partito delle mani pulite, però, le primarie le vuole evitare: Di Pietro spiega al Riformista : «In una realtà che esce fuori da un controllo del territorio le primarie servono solo ai portatori di tessere per mettere i loro uomini. Il punto è far fare un passo indietro a chi rappresenta la vecchia politica». Neanche a dirlo, sulla stessa linea si attesta Rifondazione: «Prima il rinnovamento, poi si vedrà», dice Acerbo, plenipotenziario di Ferrero in Abruzzo. Il sentiero veltroniano è stretto, anzi strettissimo: come dare segnali di novità senza essere sopraffatti dalla gogna giustizialista? Il senatore Giovanni Legnini, un big della politica abruzzese, rispedisce al mittente i diktat: «I veti sono inaccettabili perché sotto processo non c'è un partito ma molte persone tra cui alcune del Pd. In questa fase dovremmo lavorare tutti con grande generosità a ricostruire un'alleanza». I democrats vogliono trattare. Almeno vogliono provarci. E sono pronti a un sacrificio: cedere sul candidato governatore, purché si torni a parlare di politica. Il problema è che sotto il tavolo il partito delle mani pulite ha già messo le mine.

Repubblica 8.8.08
"Nelle carceri di nuovo 55 mila detenuti al collasso come prima dell´indulto"


ROMA - Le carceri italiane sono di nuovo sovraffollate: i detenuti sono il 30% in più della capienza dei penitenziari. I numeri arrivano dal Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria che lancia un appello al ministro della Giustizia Angelino Alfano e al capo dell´amministrazione penitenziaria Franco Ionta. «A fine luglio - dice Donato Capece, segretario generale Sappe - i detenuti erano quasi 55 mila, mentre la capienza delle carceri è di 42.950 posti. Servono interventi strutturali a cominciare da una più ampia applicazione della misura alternativa dell´espulsione per i detenuti extracomunitari con pena sotto i due anni». L´associazione Antigone, nella sua quinta edizione del rapporto sulla condizione della detenzioni in Italia rileva che i picchi di sovraffollamento si toccano in Emilia Romagna e in Lombardia. Nel nostro paese i detenuti in attesa di giudizio sono oltre il 55%, il doppio della media europea. Nel 2007, segnalano sempre da Antigone, ci sono stati 45 suicidi e 610 tentati suicidi tra i carcerati.

Repubblica 8.8.08
Ma Jian: "La mia Pechino ormai sembra una città finta"
di Federico Rampini


Intervista/ I suoi libri sono proibiti in Cina ma lo scrittore, che vive da anni all´estero, è tornato a Pechino per le Olimpiadi È un ospite strettamente sorvegliato: ha appena scritto un romanzo su Tienanmen
"Il mio romanzo si legge come una tragedia, non indica una via di salvezza"
"Per i Giochi le misure di sicurezza sono eccessive, il regime ha paura"

PECHINO. La buona notizia è che Ma Jian è arrivato a casa mia, insieme con la sua compagna e traduttrice Flora Drew. Finché non li ho visti varcare la soglia ho avuto dei dubbi. Avendo letto la sua raccolta di racconti filo-tibetani Tira fuori la lingua (che esce il 21 agosto da Feltrinelli, pagg. 80, euro 9), e il recentissimo Beijing Coma, il primo grande romanzo centrato sul massacro di Piazza Tienanmen, non pensavo che lo avrebbero fatto entrare durante le Olimpiadi. Ma Jian, nato nel 1953, lasciò Pechino per Hong Kong (allora colonia britannica) nel 1986. Nel ‘97 partì per la Germania e infine Londra, dove vive da otto anni. Nessuno dei suoi libri può circolare nella Repubblica Popolare. Lui sì, e ci torna anche due o tre volte all´anno. Ha scelto il mese dei Giochi per comprarsi qui un appartamento che sta arredando. Non che il suo ingresso sia sfuggito alle autorità. «All´aeroporto - racconta - mi hanno ispezionato i bagagli e hanno sequestrato 64 libri e articoli, tutti miei, compresa la versione italiana di Tira fuori la lingua. Poi la polizia è venuta a casa. Mi hanno invitato a prendere un caffè all´hotel Sheraton. Visto che pagavano loro ne ho approfittato per ordinare i pasticcini più cari. Ho spiegato che sono qui in vacanza, non darò conferenze, nessun evento pubblico. Certo sono un vigilato speciale. Riesco a entrare perché ho ancora il passaporto di Hong Kong su cui non occorre visto. Comunque il fatto che io sia qui è un segnale positivo, un´apertura, non lo nego».
Tira fuori la lingua uscì per la prima volta nel 1987 e fu subito proibito, costringendola all´esilio. In quei racconti il buddismo aveva un´importanza centrale. Lei è ancora religioso?
«Il mio viaggio in Tibet che ispirò quel libro ebbe inizio come un pellegrinaggio religioso. Il Tibet simbolizzava per me la libertà spirituale. Quando ci arrivai lo trovai trasformato in una prigione da cui neppure Budda poteva liberarsi. Già in quel libro metto in discussione la fede. Tirare fuori la lingua, il gesto antico che è il saluto più tradizionale fra i tibetani, è anche quello che faccio alla visita medica perché il dottore possa capire i miei mali. Sentivo un male dentro di me che andava diagnosticato».
Le sue storie tibetane sono dure, disperate. La stessa religione vi svolge un ruolo tragico. Lei ha un amore profondo per il Tibet, ma è agli antipodi dalla visione romantica di quel paese in voga in Occidente.
«Quel libro si legge come una tragedia, la tragedia della perdita della fede. La scrittura consente di guardare più lucidamente dentro se stessi, non di trovare una nuova via alla salvezza. Lo scrittore è come quel pesce che nuota nell´intestino del cadavere divenuto trasparente, l´immagine dell´ultimo racconto».
E´ mai tornato in Tibet da allora?
«No, per due ragioni. Anzitutto perché, dopo essere stato perseguitato dalla censura, metterei in pericolo chiunque parli con me: il conflitto tra i cinesi-han e i tibetani è troppo duro. E poi ho paura di essere deluso dagli scempi della modernizzazione».
Cos´ha pensato a marzo quando è scoppiata la rivolta di Lhasa?
«Che era prevedibile. Ribellioni ce n´erano state tante anche prima. Quella di marzo ha suscitato più attenzione all´estero grazie alle Olimpiadi. Il Tibet è una grande prigione dove l´ordine è mantenuto con le armi. Il risentimento della popolazione viene compresso ma può esplodere in qualsiasi momento.
«Alla frustrazione dei tibetani per l´oppressione della loro identità culturale e religiosa, si aggiunge sempre di più un´altra causa di rancore, l´emarginazione sociale ed economica. Si vedono circondati da una ricchezza nuova ma a goderne sono solo i cinesi han e una piccola minoranza di tibetani privilegiati».
Beijing Coma, il suo ultimo romanzo centrato in larga parte su Piazza Tienanmen, è stato accolto con entusiasmo dalla critica americana. Ma sul sito del New York Times accanto alle recensioni positive sono apparse delle email molto critiche di giovani lettori cinesi. L´accusano di appartenere a un´altra generazione, che non può capire la Cina di oggi. Come valuta il consenso giovanile verso questo modello di capitalismo autoritario?
«Bisogna capire come emerge questa nuova generazione. Non sentono nessuna curiosità verso la storia. Hanno un vuoto di memoria storica eppure credono di poter capire il presente. E´ difficile avere una discussione razionale. Sono stati nutriti dall´informazione dei mass media di regime, sempre "positiva". Ed ecco che improvvisamente, grazie ai Giochi, gli viene liberalizzato l´accesso al sito della Bbc in mandarino. La loro prima reazione non è affatto quella che si aspetta l´Occidente: sono indignati, accusano i mass media stranieri di diffamare la Cina. Non capiscono il ruolo della stampa libera che è di stimolare il cambiamento. Il nazionalismo dei giovani crea una tremenda barriera alla comprensione. L´orgoglio per lo status mondiale della Cina si proietta sulla loro autostima, la fiducia che hanno in se stessi. Criticare il paese è come demolirgli l´immagine che hanno di sé. Sono sicuro che alla cerimonia d´inaugurazione dei Giochi ci saranno allusioni alla grandezza della Cina imperiale. C´è un parallelo implicito fra certe figure di "buon tiranno" del passato e l´autoritarismo attuale. Finché la maggioranza sta bene, le sofferenze di tante minoranze sembrano un prezzo accettabile».
Lei non è ottimista sull´impatto che le Olimpiadi avranno sulla società cinese.
«Nell´immediato rafforzeranno ulteriormente la base di consenso del regime. Cioè l´esatto contrario di quel che accadde in Corea del Sud dove i Giochi accelerarono la transizione democratica. Al tempo stesso ho speranza nei cambiamenti di lungo termine indotti da questo evento. Le Olimpiadi costringono i cinesi a tener conto che c´è un altro sguardo su di loro. La vicenda del sito Bbc accessibile è significativa. In passato l´Occidente si sarebbe aspettato che una maggiore libertà d´informazione provocasse la morte rapida del partito comunista. Oggi al contrario la reazione iniziale è il disgusto verso l´Occidente, accusato di avere dei pregiudizi anti-cinesi, di essere invidioso del successo di Pechino. Ma nel lungo termine questa apertura all´informazione può costringere la gente ad avere uno sguardo più razionale sul proprio paese. Ci vorranno anni, non mi faccio illusioni».
Nel frattempo che impressione le fa rientrare a Pechino nel clima olimpico?
«Mi sembra una città finta, trasformata in un salone d´esposizione. Niente deve essere fuori posto, è stata ripulita dei mendicanti e di chiunque desse fastidio. Il governo ha trasformato questi Giochi in una grande operazione politica. Un quartiere storico vicino a Piazza Tienanmen è stato raso al suolo e poi ricostruito come una replica di se stesso, una cosa disgustosa. Le misure di sicurezza sono eccessive, non puoi neppure salire su un autobus con una bottiglia di vino per paura che sia esplosivo. Si percepisce che questo regime all´apparenza così forte ha poca fiducia nella propria solidità. Li spaventa l´idea che possa infilarsi un granello di sabbia nei loro ingranaggi».
Eppure chi arriva per la prima volta e visita il quartiere dei pittori, la 789, o i locali di musica rock, ha l´impressione di una grande creatività artistica.
«In superficie c´è questo movimento di avanguardia artistica che fa finta di essere dissidente, si atteggia a controcultura. Ma stanno tutti molto attenti, sanno quali sono i limiti, evitano i temi di attualità politica e sociale più scottanti. Certi sedicenti artisti dissidenti vanno all´estero a portare le loro opere sponsorizzati dalle ambasciate cinesi. Quest´arte cosiddetta sovversiva è un ottimo business. Dietro ci sono troppi compromessi. I veri dissidenti sono in carcere. Qualcosa di più interessante accade nelle università, alcuni docenti riescono a trattare problemi gravi e hanno accesso anche ai mass media. E´ una critica dall´interno del sistema».
Lei è severo con il suo paese ma continua a tornarci.
«Devo tornare perché qui trovo la mia ispirazione, il mio materiale narrativo. La mia letteratura sarà sempre cinese e sempre sui cinesi».
Il sogno di Tienanmen è finito, o lei spera che il cambiamento politico torni all´ordine del giorno?
«Questo regime, all´interno della sua logica, ha realizzato il massimo che poteva. Da qui in poi sarà indispensabile accettare delle forme di democrazia. L´anno prossimo con il ventesimo anniversario di Piazza Tienanmen sarà difficile non fare i conti con quell´evento. Non potranno sottrarsi alla necessità di rivedere il loro giudizio storico».

Repubblica 8.8.08
Quanto pesa un’emozione
È sempre più plausibile e studi recenti lo dimostrano che la reazione emotiva giochi un ruolo determinante nel corso dello sviluppo umano e soprattutto della comunicazione sociale e affettiva
di Massimo Ammaniti


In un libro di qualche anno fa il neurobiologo di origine portoghese Antonio Damasio puntava il dito contro Cartesio che, attraverso la ben nota separazione fra «res cogitans» e «res extensa», ratificava la distanza ma anche la superiorità della mente sul corpo. Nel riferirsi alla mente Cartesio metteva in primo piano il «cogito», la funzione mentale superiore, ben diversa dalle passioni, che sarebbero sostenute invece dai meccanismi fisiologici del corpo e che pertanto dovrebbero essere governate dalla ragione. Ma anche prima di Cartesio Platone aveva parlato nel Fedro del mito della biga alata, tirata da due cavalli, uno bianco corrispondente all´anima irascibile, ossia all´emotività, ed uno nero all´anima concupiscibile, ossia all´istinto, entrambi guidate da un auriga che costituisce potremmo dire la sintesi e la superiorità dell´anima razionale.
Molti secoli dopo la psicoanalisi con Freud ha riproposto questo stesso conflitto fra istinto e ragione, in cui la naturalità umana delle pulsioni dovrebbe essere addomesticata dall´Io, che agirebbe come l´auriga di Platone.
Che posto hanno le emozioni nella vita di ogni giorno: sono passioni che accecano la ragione, come sembrava credere anche il grande umanista Erasmo da Rotterdam, oppure emozioni, secondo il linguaggio scientifico più recente utilizzato ad esempio dallo psicologo Paul Ekman o dal cognitivista Daniel Goleman, che hanno una propria finalità ed utilità? E´ indubbio che per rispondere a questa domanda occorre capire se le emozioni abbiano una propria razionalità oppure siano risposte irrazionali che non aiutano nella vita sociale. Sono molti gli studiosi che riconoscono la razionalità evoluzionistica delle emozioni, che, come Darwin sottolineava in un suo scritto del 1872, si sarebbero evolute nel corso dei secoli per facilitare l´adattamento all´ambiente e lo scambio sociale.
Come ha mostrato lo psicologo Paul Ekman, che ha svolto un lavoro pionieristico in questo campo, se si mostrano delle diapositive con varie espressioni emotive a persone appartenenti a culture e a gruppi etnici diversi vi è una forte concordanza nel riconoscimento, nonostante si usino parole diverse per descriverle. Questa osservazione è in favore del carattere universale delle emozioni, quantunque ci possano essere influenze culturali che possono rafforzare un´emozione rispetto ad un´altra.
Per fare un esempio, nel mondo occidentale, anche sulla base della profonda influenza esercitata dal cristianesimo, il sentimento di colpa è continuamente presente nell´esperienza personale e collettiva, per cui non ci si sente mai a posto e si cercano continue rassicurazioni per convincersi di non aver sbagliato.
Se la letteratura ottocentesca ha svelato sentimenti, turbamenti e conflitti dei suoi protagonisti, basti pensare all´amore disperato di Anna Karenina per il principe Vronskij, in questi ultimi decenni la ricerca scientifica si è confrontata in modo sempre più approfondito con lo sviluppo delle emozioni in campo infantile, con il funzionamento psicologico delle emozioni nella vita quotidiana e più recentemente con i meccanismi neurobiologici che ne sono alla base. Forse era inevitabile che ci fosse un impegno così serrato perché, come scrive Damasio, «le emozioni costituiscono il continuo spartito musicale, il rumore che non si ferma mai delle melodie universali».
Il ribaltamento di ottica è totale, l´intelligenza non è solo quella cognitiva ratificata dal Quoziente Intellettivo ma vi è anche un´intelligenza emozionale, come viene definita da Daniel Goleman. Ma forse il pendolo è andato troppo in là, addirittura qualcuno ha messo in relazione il Quoziente Emozionale, misura per valutare la capacità di riconoscimento e di regolazione delle emozioni proprie e degli altri, con il successo nel lavoro e nella vita, dato questo smentito dallo stesso Goleman. Forse si può dire che un buon funzionamento emotivo, soprattutto se corrisponde ad un buon grado di maturazione cognitiva, aiuta a sentirsi meglio con se stessi e con gli altri e a trovare forme di comunicazione più immediate.
Ma per ritornare ai nuovi sviluppi della ricerca nel campo delle emozioni, in questi ultimi anni sono comparsi così tanti libri, pubblicazioni ed articoli a livello internazionale che è difficile darne un quadro di insieme. Se sul piano dello sviluppo infantile va ricordato il libro Lo sviluppo delle emozioni di Alan Sroufe (Cortina Editore) molti libri riguardano soprattutto la neurobiologia delle emozioni come ad esempio Affective Neuroscience, non ancora tradotto in Italia, di Jaak Panksepp venuto recentemente per una serie di conferenze presso l´Università La Sapienza. Altri libri da segnalare sono Il cervello emotivo di Joseph LeDoux pubblicato da Baldini Castoldi Dalai e quello più recente di Antonio Damasio Alla ricerca di Spinoza pubblicato da Adelphi.
Ma quali sono le novità che emergono in questo campo? E´ sempre più plausibile che le emozioni giochino un ruolo determinante nel corso dello sviluppo umano, per cui fin dai primi mesi di vita si crea fra il bambino e i genitori un sistema comunicativo affettivo che consente ad entrambi di costruire un lessico affettivo comune.
Se il bambino sorride o ride compiaciuto la madre capisce che può continuare a comportarsi con lui come sta facendo, ma se la bocca del bambino si increspa e poi scoppia a piangere questo rappresenta un segnale forte diretto ai genitori perché intervengano a consolarlo e a tranquillizzarlo. In questo modo il bambino apprende un codice affettivo che lo aiuterà nel corso della vita, ad esempio quando si trova a scuola con i coetanei oppure quando dovrà affrontare le prime esperienze sentimentali e più in generale nei rapporti con gli altri. Ma se queste osservazioni sono facilmente verificabili, va riconosciuto che non sempre le emozioni ci aiutano perché certe risposte emotive, ad esempio la rabbia cieca o la gelosia che agisce come un tarlo nella mente, ostacolano il comportamento quotidiano.
E´ senz´altro utile distinguere le risposte emotive automatiche che possono spingerci all´azione, come la fuga quando siamo minacciati da un pericolo, rispetto alle emozioni di cui siamo consapevoli. Mentre le reazioni automatiche possono essere irrazionali e non favorire l´adattamento, nel secondo caso la consapevolezza delle proprie emozioni può farci desistere da una determinata azione oppure correggerla, garantendo un certo grado di razionalità nel prendere una decisione.
Questi due livelli nella risposta emotiva sono stati confermati dagli studi fatti nel cervello come riferisce Le Doux nel suo libro. Se da una parte esiste un percorso cerebrale breve incentrato sull´amigdala cerebrale, che spiega ad esempio le risposte automatiche alla paura, dall´altra vi è un percorso più complesso che comporta un riconoscimento delle emozioni che possono essere comunicate anche a parole ed incentrato, in questo caso, sull´ippocampo e diverse aree della corteccia cerebrale.
Come si vede il quadro esplicativo delle emozioni sta diventando via via più complesso e forse il filosofo olandese di origine ebraica Spinoza può rappresentare un importante riferimento filosofico, come scrive Damasio nel suo ultimo libro. Nei suoi scritti Spinoza non usa le parole emozione o sentimento, ma «affectus» ossia affetto con cui vengono indicate anche le modificazioni del corpo. In questo modo il termine affetto, utilizzato anche molto in campo psicoanalitico, ricompone la dualità fra l´emozione che sottolinea il teatro del corpo e soprattutto del cervello e il sentimento che, al contrario, sottolinea lo scenario della mente, raccontato da scrittori ed artisti che hanno avuto in questo campo intuizioni illuminanti.

Repubblica 8.8.08
Quando la fabbrica è una roulette russa
di Maria Pia Fusco


Il documentario di Pietro Balla e Monica Repetto sarà il 5 settembre alla Mostra di Venezia Nella giornata dedicata alle morti bianche anche "La fabbrica dei tedeschi" di Mimmo Calopresti
Anche prima del disastro di Torino del 6 dicembre, costato la vita a sette operai, tra i lavoratori era alta la consapevolezza dei rischi cui andavano incontro

«Secondo me le affermazioni del ministro Castelli sulle morti bianche sono una messinscena. Come se tutti quelli che fanno politica oggi dovessero per forza dire qualcosa, nel bene o nel male, come se ci fosse un copione da rispettare: abbiamo il potere e dunque parliamo. Il paradosso è che, almeno al Nord, molti operai un tempo legati alla sinistra hanno votato Lega», dice Pietro Bolla, autore con Monica Repetto di ThyssenKrupp Blues, il film che il 5 settembre sarà presentato a Venezia nella giornata dedicata alle morti bianche, insieme al film di Mimmo Calopresti La fabbrica dei tedeschi. Più indignata la reazione della Repetto: «Non sono un´esperta, non so se la cifra delle morti bianche sia a due, tre o quattro zeri, ma per me anche un solo numero è una vita perduta e morire in quel modo, morire per lavorare, è un oltraggio alla dignità dell´uomo».
ThyssenKrupp Blues racconta la storia di Carlo Marrapodi che, ricorda la Repetto, «avrebbe dovuto far parte di un film corale di RaiTre sugli operai negli anni 2000. Nel montaggio è rimasta fuori, insieme ad altre storie: pensavamo di farne un altro film così abbiamo continuato a seguire Carlo. Per il rapporto che abbiamo stabilito con lui, per la sua potenza sulla scena, l´energia, l´onestà e la forza vitale, lo abbiamo raggiunto dopo la tragedia della notte tra il 5 e il 6 dicembre a Torino. Pur raccontando la vicenda privata di Carlo, ThyssenKrupp Blues è diventato anche un film di denuncia».
Il film racconta l´inizio del declino della fabbrica, la manifestazione del giugno 2007, l´incontro con il sindaco Chiamparino, fino alla decisione della cassa integrazione per 150 operai, Carlo compreso, che non riuscendo a vivere a Torino con lo stipendio dimezzato, torna in Calabria, al suo paese. È impressionante la consapevolezza che c´era già allora, sulle condizioni ad alto rischio in cui gli operai erano costretti a lavorare. E le condizioni erano ancora peggiori quando, pur essendo la fabbrica in fase di smantellamento, la ThyssenKrupp decise di continuare la produzione. A ottobre 2007, Carlo è tra quanti rientrano a Corso Regina 400.
«La storia di Carlo è la storia di una solitudine che va oltre la tragedia della notte tra il 5 e il 6 dicembre a Torino. È la storia di una classe lasciata sola nel silenzio della sinistra, persino Chiamparino non dice più niente. I professionisti della politica non sono più capaci di parlare e, quando parlano, sembrano tutti fuori sincrono», dice Bolla che vive nella provincia di Torino dove fa il capostazione. «Non sono un cittadino, sono figlio di un panettiere, vengo dalla cultura contadina, la fabbrica l´ho osservata sempre dal di fuori come la osservavano i torinesi, andavo a scuola a due passi dal Lingotto, vedevo i treni e i pullman carichi di operai addormentati in viaggio verso il turno del mattino. Adesso non ci sono più».
All´inizio degli anni Ottanta, dopo la marcia dei 40 mila - «C´erano Lama e Carniti ma vinse la Fiat» - cominciò l´interesse di Bolla per le storie degli operai. Il primo film era "Ai confini della realtà" e raccontava «da una parte la dura ristrutturazione della Fiat in termini tecnologici e un processo di automazione che tendeva all´eliminazione degli operai, dall´altra quelli che la subivano, che, gettati fuori dal processo produttivo, si dovevano riciclare. Fu un momento molto duro, fu l´inizio della fine di un´appartenenza e della disgregazione dell´orgoglio della classe operaia. Quello che è accaduto alla ThyssenKrupp è una delle conseguenze».
Carlo Marrapodi ha una spalla coperta di tatuaggi, ha un piercing, porta un orecchino. «È un trentenne come tanti, non somiglia all´immagine tradizionale, anche ideale dell´operaio», dice la Repetto. «E come tutti i giovani aspirava a un rapporto equilibrato tra il tempo per il lavoro e quello per la vita. Oggi per lui c´è solo il tempo dell´incertezza, del dubbio sul futuro. Abbiamo volutamente raccontato la storia di un operaio che non è morto solo perché quel giorno di dicembre faceva un altro turno, eppure, attraverso la sua storia, credo che si possa capire esattamente il rischio che i lavoratori corrono in questa società».
Una società in cui, dice Bolla, «la legislazione contro le morti bianche c´è ed è precisa. La prevenzione viene vissuta dall´industria come un obbligo, bisogna appendere i cartelli di pericolo, bisogna controllare le scarpe e l´abbigliamento, ma è solo una serie di pratiche burocratiche, di scadenze di controlli, di avvisi e comunicati da firmare. Ma non c´è e non si è mai sviluppata una cultura della prevenzione, e cioè una vera attenzione quotidiana alle condizioni di lavoro. Nelle fabbriche, nei cantieri, nei campi. Per questo si continua a rischiare la vita ogni giorno».

il Riformista 8.8.08
Testamento biologico accordo possibile
Eluana ci insegna e detta l'agenda per questo la vogliamo viva tra di noi
di Paola Binetti


Non idolatria della vita, ma garanzie per il paziente

A chi si chiedesse ancora che senso ha una vita come quella di Eluana, basterebbe sfogliare i giornali di questi giorni per comprendere fino a che punto è in grado di provocare le nostre intelligenze, di toccare i nostri cuori e di mobilitare le nostre volontà, proprio da quel letto in cui non sembra capire cosa accade intorno a lei. La sua vita ci obbliga ad uscire dalla indifferenza frettolosa con cui a volte ci poniamo i quesiti più importanti della nostra esistenza: non solo su cosa sia la vita e cosa sia la morte, ma anche su come dar senso alla nostra vita, anche quando sembrerebbe non averne. Senza Eluana tutto il nostro Paese sarebbe più povero, perché meno sollecitato a riflettere sul valore della vita, indipendentemente dalla sua apparente non-utilità. Per questo tutti le dobbiamo un grazie convinto. In tanti anni di professione medica ho sempre pensato, e cercato di insegnare agli studenti, che il letto del paziente è la cattedra più efficace ed eloquente da cui apprendere ciò che serve ai malati, ai medici e al progresso. Ed Eluana, pur nel suo silenzio, sta davvero insegnando molte cose, sempre che vogliamo ascoltarla e imparare da lei.
In questi ultimi anni, come tante persone, ho pensato molto ad Eluana, per cercare di capire un po' meglio anche attraverso di lei il mistero della vita, sottraendomi alla tentazione di mettermi dalla parte della morte, per chiedermi perché non arrivasse, dal momento che tutto lasciava supporre che fosse giunto il momento. Evidentemente non è così e la vita di Eluana conserva integro il suo valore, per lei e per noi, perché anche lei ha ancora molto da fare, molto da insegnare. 
Vorrei sintetizzare la lezione di Eluana, assumendo tre punti di vista apparentemente scollegati tra di loro o addirittura in contrasto: l'oggettiva fatica del parlamento a legiferare su certi temi, le contraddizioni dei politici nei vari schieramenti, l'apparente conservatorismo dei cattolici, che li fa apparire in ritardo, anche quando in realtà su certi temi sono in anticipo.
Il primo punto riguarda il dibattito sul cosiddetto testamento biologico e il brusco cambiamento di rotta a cui abbiamo assistito in questi giorni. L'accordo, che sembrava difficile e ancora lontano nella XV legislatura, è improvvisamente divenuto possibile, come se si fosse intravista una maniera concreta di superare le ben note tensioni etiche, scientifiche e politiche. L'ordine del giorno del Pd, evocato alla Camera e approvato con ampia maggioranza al Senato, ha sollecitato il parlamento ad approvare la legge entro l'anno. Sulla vita, il più laico di tutti i valori, è ora possibile trovare un accordo, anche se si parla di fine vita. E non c'è dubbio che l'input per questa accelerazione del processo è partito da Eluana e guarda ad Eluana come punto di ispirazione concreta per la formulazione della legge.
Il secondo punto riguarda la chiarezza con cui sono emerse convergenze e divergenze nei diversi schieramenti politici: come in una sorta di avvertimento esplicito perché nessuno si appropri della vicenda Englaro e la strumentalizzi per confermare le sue tesi. Ad Eluana guardano sia la maggioranza che l'opposizione, sia i laici che i credenti, o meglio ancora sia i credenti che i non credenti. La sua storia è diventata familiare a tutti noi, grazie alle testimonianze che ne hanno dato non solo la famiglia ma anche i suoi amici e i suoi insegnanti e che hanno riempito le pagine dei giornali in questi giorni. È una storia di amore alla vita, fatta di gesti e di parole che non possono lasciare indifferenti: basta guardare le immagini in circolazione, tutte tratte dal suo album, tutte illuminate dal suo sorriso. Eluana offre aiuto e chiede aiuto. È da tempo immemorabile che il malato guarda al medico come al migliore alleato su cui può contare nei momenti di maggiore difficoltà. Ed è a questo tipo di aiuto che deve ispirarsi la legge che nascerà in Parlamento, cercando di calarsi meglio nella dinamica del rapporto medico-paziente, visto come un patto, una alleanza in cui c'è piena fiducia reciproca.
Il terzo punto riguarda il dibattito che si è aperto nel mondo cattolico davanti a quello che a molti è sembrato un brusco viraggio di atteggiamento. Dopo tante titubanze dettate da una prudenza consapevole a tutela della vita e dei possibili rischi di una deriva eutanasica, la recente sentenza Englaro ora suggerisce, per lo stesso motivo di prudenza, non solo la necessità di una legge, ma anche l'urgenza stessa della legge. Il quesito che circola attualmente nel mondo cattolico, ma non solo in quello!, riguarda la qualità della legge, i temi che affronta, i criteri che detta. Di questo si parla, su questo ci si confronta. I timori non sono scomparsi. Tutti sanno quanto sia fallace la distinzione tra il far morire e il lasciar morire, dal momento che la sospensione di certe cure, ma ancor più la sospensione delle normali e fisiologiche funzioni del bere e del mangiare equivale a una morte annunciata. Non a caso quanti oggi reputano che per Eluana sarebbe meglio morire, ritengono sufficiente chiedere che venga tolto il sondino che per alcune ore al giorno, generalmente quelle notturne, le permette di nutrirsi. 
La legge, che molti di noi, proprio ragionando sulla vicenda di Eluana, hanno presentato alla Camera e al Senato, mette l'accento sulle cure di fine vita e non esclusivamente sulla autonomia del paziente, e quindi sul rapporto del malato con il medico, richiamando quest'ultimo alla responsabilità e alla suprema dignità del valore della vita. Non si tratta di fare idolatria della vita. Ma di garantire al paziente, in tutte le circostanze della sua vita, la piena tutela di un diritto sacrosanto per tutti, non solo per i cattolici, diritto su cui vale la pena ricordarlo si fondano tutti gli altri diritti, compreso quello di decidere non tanto quali cure accettare e quali rifiutare, ma quale programma di cura fare insieme. La centralità del paziente nei processi decisionali che lo riguardano non esclude affatto la responsabilità del medico, che dovrà informarlo adeguatamente, per aiutarlo a decidere nel miglior modo possibile. Per questo la sanità che si ispira ai valori cristiani ha sempre posto al centro della sua attenzione l'alleanza tra il medico e il paziente. 
Scienza & Vita, da sempre fedele al suo motto fondativo: La vita non può essere messa ai voti, non si vota sulla vita, ora, pur tra naturali divergenze al suo interno, sembra aver lanciato una nuova sfida al mondo politico. Lo fa guardando alla vicenda di Eluana e mette dei paletti chiari. Non vuole una legge sul testamento biologico, ma una legge di tutela della vita umana, soprattutto in condizioni di massima fragilità, per ribadire il principio della indisponibilità della vita umana. Una legge che vada oltre il principio di autodeterminazione, pur nel massimo rispetto della volontà del paziente, proprio per non lasciarlo solo nei momenti più critici della sua vita, per cui sì all'alleanza terapeutica medico-paziente, da cui discendono tre no e due sì molto chiari: no all'accanimento terapeutico e no all'abbandono terapeutico, per dire un no chiaro e distinto all'eutanasia. Sì, invece, alle cure palliative, alla terapia del dolore e all'alimentazione e all'idratazione, che certamente non sono configurabili come terapie. 
Non c'è dubbio che Eluana stia dettando l'agenda parlamentare e alla ripresa dei lavori sarà proprio la sua storia, con le sue caratteriste specifiche a determinare scelte di un tipo o dell'altro. Sarà sempre partendo da lei che prenderanno forma le diverse proposte di legge, che saranno discusse come se lei stessa fosse presente in commissione prima e in aula dopo. Per questo la vogliamo viva tra noi, perché non abbiamo ancora finito di imparare tutto ciò che la sua vita può continuare ad insegnarci. E credo che questo possa farle piacere, nessuno oserà mai considerare «inutile» una vita che ha tanto da dare e tanto da dire.

Repubblica Napoli 8.8.08
I classici greci nella città di Parmenide
di Nino Marchesano


Da domani la rassegna "Filosofi interrogano i filosofi" sull´acropoli dell´antica Elea-Velia ad Ascea
Viaggio verso la conoscenza del pensiero occidentale con dibattiti, incontri e spettacoli dai Dialoghi di Platone, opere tratte da Euripide Sofocle e Cicerone. Occasione per partecipare alle visite guidate da esperti agli scavi

A Velia sulle orme della filosofia greca, di Parmenide e di Zenone. Con rappresentazioni sceniche e dibattiti dove i "Filosofi interrogano i filosofi". L´undicesima edizione di "Velia Teatro" sposta l´asse sui grandi interrogativi del pensiero occidentale e invita gli spettatori a un viaggio verso la conoscenza con spettacoli che si terranno da domani al 27 agosto sull´acropoli dell´antica Elea-Velia, sulla collina che domina Ascea, nel Cilento.
Proprio a Elea, anticamente Hyele, la città fondata dai Focei, in fuga dalla loro terra assediata dai Persiani, nel V secolo a.C. nacque la scuola filosofica di Parmenide e del suo allievo Zenone. Ed ecco l´idea di Michele Murino, direttore artistico della rassegna, di dare una svolta alla tradizionale manifestazione teatrale mettendo in evidenza nel cartellone il tema, piuttosto che i grandi nomi dello spettacolo, e dividendo la manifestazione in due parti.
Nella prima, "Filosofi a Teatro", l´idea è dell´incontro tra il pensiero e la rappresentazione, con quattro spettacoli di ‘teatro filosofico´, tratti dai Dialoghi di Platone e ideati dagli attori Bob Marchese e Fiorenza Brogi. Si comincia domani alle 21 con "L´idea del filosofo e del filosofare", con un insieme di brani tratti dal "Protagora", "Menone", "Fedro", "Repubblica". Mentre domenica lo spettacolo "La violenza – La giustizia" farà riferimento al "Gorgia". Lunedì, invece, la rappresentazione "L´Eros" sarà legata al "Simposio" e martedì "Il teatro, l´arte, la politica" prenderà spunto dallo "Ione".
Ai quattro spettacoli, seguiranno altrettanti dibattiti sul proscenio coordinati dai docenti di filosofia Mariangela Ariotti e Giuseppe Cambiano. Ricordando che domani, durante la serata inaugurale sarà assegnato il "Premio Internazionale per il Teatro Elea-Velia" alla memoria dell´attore Carlo Rivolta, scomparso lo scorso 21 giugno, a cui è dedicata l´intera rassegna.
Nella seconda parte del cartellone, invece, dal 20 al 27 agosto, spazio al teatro greco e romano con opere tratte da Euripide, Sofocle e Cicerone e allestite dalle compagnie teatrali Lalineasottile (lo spettacolo "Ecuba"), la Bottega del Pane di Roma ("Contro Catilina - Attentato allo Stato"), il Teatro Popolare Salernitano ("Elettra").
L´occasione anche per visitare una parte dell´antica Elea-Velia, riportata alla luce grazie agli scavi iniziati nel primo Novecento, soffermandosi sulla medievale Torre Angioina, sul basamento del tempio ionico, il circuito murario o la Porta Rosa, l´unico esempio di arco di fattura greca esistente in Occidente.
Gli spettacoli inizieranno alle 21, l´ingresso costa 10 euro e include anche il trasporto con le navette dal parcheggio dell´area archeologica (a partire dalle 19.30). Inoltre, è previsto un servizio bus gratuito di andata e ritorno Salerno-Elea-Velia (info Ept 089 231 432). Per altre informazioni 0974 972 230 oppure www.veliateatro.it.

giovedì 7 agosto 2008

l’Unità 7.8.08
Tagli. Se la cultura diventa inutile
di Vittorio Emiliani


Arte e Cultura, cronache di una disfatta totale: l’Italia precipita ancor più lontano dagli altri Paesi avanzati dove quelle due voci sono considerate un investimento sociale, e non un costo (da tagliare). La scure «rivoluzionaria» - ieri l’hanno detto in coppia Gianni Letta e Giulio Tremonti - calata sulla spesa pubblica si è infatti abbattuta più pesantemente del temuto anche sul ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Al “MiBac” sono stati tolti - secondo le cifre fornite dalla Uil Beni Culturali - 355, 369 e 552 milioni di euro rispettivamente nel 2009, 2010 e 2011. Il totale sottratto sale così, nel triennio, a un miliardo 276 milioni. Un terzo delle cifre tagliate è stato amputato alla voce Tutela e valorizzazione: nel prossimo triennio il MiBAC e le sue Soprintendenze si limiteranno a pagare gli stipendi e poco più, secondo la logica dell’ente inutile “perfetto” che si mangia in costo del personale tutto ciò che incassa e/o riceve. Saranno quindi possibili chiusure o drastiche riduzioni di orario in musei e aree archeologiche e pertanto la stessa voce “turismo culturale” ne sarà colpita al cuore, con minor capacità di attrazione dell’Italia, minori entrate dirette e soprattutto minor indotto turistico-culturale. Un bel contributo alla rianimazione della nostra indebolita economia. Non basta: i tagli hanno spazzato via i 45 milioni preventivati in tre annualità dal ministro Rutelli per l’abbattimento di altri “ecomostri”, ma se uno spulcia i singoli capitoli, vede, per esempio, che viene ridotta pure la spesa ordinaria destinata al comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio: ladri e rapinatori dell’arte e dell’archeologia - tombaroli in testa - facciano dunque festa. Questo ministero viveva già al limite: i tagli, tutt’altro che lievi, decisi dal Berlusconi IV lo mettono su una strada. O lo conducono alla chiusura. Cosa potranno fare le Soprintendenze che già nel recente passato verso metà anno non avevano più fondi per i telefoni, per i francobolli, per pagare le imprese di pulizia (bagni dei musei inclusi)? Quali missioni sul posto potranno organizzare quelle Soprintendenze ai Beni architettonici nelle quali ogni tecnico si ritrova alle prese con un migliaio di pratiche delicate all’anno? Le amputazioni vanno a minare l’attuazione stessa del Codice per il paesaggio, reso ben più stringente e severo, dalla gestione Rutelli-Settis, ragion per cui il saccheggio del nostro paesaggio riprenderà con grande vigore. La scure (“rivoluzionaria”, beninteso) di questo governo, che considera la cultura un optional e che ha affidato la custodia dei Beni culturali ad un personaggio come Sandro Bondi, senza alcun peso specifico (infatti le sue deboli proteste hanno contato meno di zero), si abbatte su settori già più che “francescani”, come gli archivi e le biblioteche, l’Istituto centrale per il catalogo, la Scuola Archeologica Italiana di Atene che partirà, nel triennio prossimo, con 157.000 euro in meno di finanziamento statale e arriverà con 307.000, in meno naturalmente. Poi ci sono le somme e i contributi previsti per una miriade di associazioni, istituzioni e fondazioni che, con qualche eccezione, certo, rappresentano il sistema capillare della ricerca culturale, la storia stessa del nostro Paese: le antiche Accademie locali, le Deputazioni di storia patria (già vedo Bossi sorridere contento), le Fondazioni politiche (Sturzo, Turati, Nenni, Gramsci, ecc.) e quelle musicali, ecc. Anche in questo caso, spesso, verrà meno l’ossigeno. Tanto più che enti locali e Regioni, anch'esse mutilate, non potranno subentrare in nulla. Ma passiamo al tanto discusso e però fondamentale Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus). Il taglio per le Fondazioni lirico-sinfoniche parte dai 51,7 milioni dell’anno prossimo e arriva, in progressione, agli oltre 101 del 2011. Il fondo per le attività musicali perde inizialmente 15,2 milioni e arriva a 29,8 milioni, mentre l’altro per le attività teatrali di prosa da va da 17,7 a ben 34,6 milioni. Ma ci saranno riduzioni di contributi anche per la già deperente danza classica. Tornando agli ex Enti lirici e sinfonici, è vero che devono essere riformati nel senso di una maggiore snellezza gestionale e di minori bardature burocratiche. Vi sono Enti infatti che registrano incidenze assurde del personale sui costi totali: l’Opera di Roma col record del 70,9 per cento, seguita dal Massimo di Palermo col 67,3 e dal Carlo Felice di Genova col 66,7, fino a scendere all’incidenza minima (encomiabile) del Regio di Torino: 42,3 per cento. Ma non sarà il drastico e per niente finalizzato taglio delle risorse a curare le situazioni più malate. Così si ammazzano il melodramma, la musica, il balletto, punto e basta. O si mettono le Fondazioni musicali di fronte ad un bivio: ridurre le produzioni ed abbassarne il livello (sovente già scaduto), oppure portare il prezzo dei biglietti a quote inarrivabili dai più, a cominciare da giovani e giovanissimi. Significa inoltre sterilizzare la spesa per la didattica artistica e musicale, negando, per decenni, al Paese di uscire dal gorgo di ignoranza e di maleducazione nel quale è precipitato rispetto all’Europa, ex Paese dell’Arte, della Musica e del Bel Canto. Il Consiglio Superiore dei Beni culturali, all’unanimità, aveva espresso, il 16 scorso, la più viva preoccupazione per una «temuta deriva che rischia di annichilire la tutela e il governo del patrimonio culturale e paesaggistico» invitando a «considerare la spesa per la cultura nel suo pieno valore economico per l’impatto generale che essa ha sul sistema economico e sociale del Paese, dall’industria del turismo al cosiddetto Made in Italy, all’immagine complessiva della Nazione». Tremonti ha accelerato la macellazione della cultura. Parole al vento, dunque. Come le patetiche proteste del ministro Bondi. Il quale (al pari della collega dell’Ambiente, Prestigiacomo, per i Parchi Nazionali) ha già una sua idea: assumere, magari a New York, un super-direttore dei musei statali con più “polpa” e affidarne la gestione a società private. Il trionfo del privato sul pubblico. La fine della cultura come valore fondamentale per tutti. Specie per chi ha minor reddito e minori chances di partenza. Un futuro radioso.

l’Unità 7.8.08
Prospera la stupidità
di Maria Novella Oppo


«FU VERO AMORE QUELLO TRA HITLER E EVA BRAUN?». Questa acuta domanda è stata posta dal sommo Bruno Vespa nel corso dell'ultimo (magari fosse!) Speciale di Porta a porta. Partecipavano tra gli altri Alessandra Mussolini, in rappresentanza del nonno dittatore sanguinario e Fabrizio Del Noce in sostituzione della velina di turno, impegnata in vacanza con il politico di turno (in sostituzione del calciatore di turno, che è già in allenamento). Così si sprecano le risorse della Rai, con la magra consolazione che anche le tv private non sono da meno. Almeno la ex tv di Vittoria Brambilla: 20 milioni di euro buttati nella campagna elettorale più lunga della Storia. E pazienza. A Berlusconi i soldi non mancano; agli italiani sì, ma non a tutti. Infatti si vende meno pasta, ma più generi di lusso. Così come in Italia sono alla canna del gas la ricerca, la scuola e la cultura, che ora si vedono pure tagliati i fondi. Mentre prospera la «fama» di Maurizio Gasparri, che cerca di farsi conoscere nel resto del mondo, arrivando fino a Pechino.

l’Unità 7.8.08
Cittadini dalla nascita
di Anna Pariani, Massimo Pironi, Anna Serafini


Una società che investe sull’infanzia e i giovani scommette sul proprio futuro e sulle proprie capacità di crescita. Purtroppo in Italia non c’è mai stato un serio ed efficace intervento a sostegno della cura dei figli. Da troppo tempo il nostro sistema educativo porta segni di profonda crisi ed i giovani vedono la sola prospettiva di una vita precaria. Lo testimoniano i numeri con spietata freddezza: tasso di natalità tra i più bassi del mondo a fronte di un tasso di occupazione femminile tra i più bassi d’Europa; 10 posti nido su 100 bambini in età; oltre il 40% degli studenti con debiti formativi nella scuola alla fine dell’anno scolastico 2007-2008; bassi tassi di diplomati e laureati; i fondi destinati all’infanzia e alla famiglia in Italia sono la metà della media europea. Si tratta di uno spreco enorme di risorse umane, intellettuali ed economiche per un paese che ha bisogno di ricominciare stabilmente a crescere.
In Italia, invece, crescono le disuguaglianze di partenza, cresce la povertà minorile, ci sono molte regioni dove ancora i bambini senza una famiglia vivono negli istituti, e non c’è nessun investimento sull’infanzia e l’adolescenza da parte dello Stato. La breve stagione della Legge 285/98 si è infranta contro il governo delle destre nella legislatura 2001/2006 ed il breve periodo del governo Prodi 2006-2008 (Fondo nidi e fondo giovani) non ha consentito una inversione di tendenza.
Ancora oggi le famiglie italiane, i bambini ed i giovani, non possono contare in Italia su una rete di sostegno e promozione dei propri diritti: nessun sistema di welfare per le famiglie con figli, nessun incentivo all’autonomia dei giovani, nessun diritto all’educazione ed alla cura fin dalla prima infanzia.
Non ci si può stupire che in Italia non si facciano figli. All’inizio degli anni ‘90 la regione italiana con il più basso tasso di natalità era l’Emilia-Romagna. Nel 2006 questo dato risulta invertito e in Emilia-Romagna si è avuto il più alto tasso di crescita della natalità. Cos’è successo? Certo si è avuto il contributo determinante delle famiglie immigrate presenti sul territorio, con molti ricongiungimenti familiari. Tuttavia il dato significativo è che anche il tasso di fertilità delle emiliano-romagnole ha ricominciato a crescere, nello stesso periodo in cui la partecipazione femminile al lavoro in regione superava stabilmente la soglia del 60%.
Un pezzo di nord-europa trapiantato nel mezzo del mediterraneo: un sistema di welfare che non lascia indietro nessuno, a partire dai bambini. Lo dicono i numeri: nel 2007, 30 bambini su 100 tra 0 e 2 anni possono contare su un posto al nido (con punte di oltre 50 in alcune città); da 5 anni sono stati chiusi gli istituti minorili senza che nessuna deroga alla legge fosse necessaria; i minori seguiti dai servizi sociali con sostegni economici sono cresciuti del 17% tra il 2005 e il 2006.
Un welfare a misura di bambini deve sostenere il diritto al benessere, alla salute e, soprattutto, ad un sistema educativo e di cura che si faccia carico, assieme alle famiglie, della crescita dei bambini e dell’autonomia dei giovani: compiti di tutta la società. Per questo nasce in Emilia-Romagna la prima legge quadro sull’infanzia e i giovani, uno dei primi progetti di legge (www.dirittialfuturo.it) promossi nel 2007 dal neonato gruppo del Partito Democratico, approvato dall’Assemblea legislativa lo scorso 22 luglio con il titolo «Norme in materia di politiche per le giovani generazioni». Una legge unica per due settori (minori e giovani) tradizionalmente separati, vuole sottolineare l’esigenza di pensare politiche “longitudinali”, che non sezionino la vita sulla base dei bisogni, o, peggio, delle strutture amministrative, ma considerino il cammino di ogni persona (temporale, culturale, esistenziale) come un continuum, che nessuna norma può e deve spezzare.
«Ci vuole un villaggio per crescere un bambino», dice un proverbio africano. Questa legge sostiene le famiglie nei compiti di cura ed educazione quotidiani e straordinari, attraverso servizi e supporti economici, valorizzando e mettendo in rete tutte le agenzie educative che si occupano di infanzia e adolescenza sul territorio, finanziando pre e post-scuola, campi estivi, la promozione allo sport, centri educativi e giovanili, in relazione con la programmazione delle scuole e dei servizi educativi e sociali. Viene estesa la rete dei centri per le famiglie come luogo di accoglienza, informazione, ed erogazione degli assegni di cura per chi utilizza i congedi parentali. Si consolidano i servizi di coordinamento pedagogico, si strutturano le equipe territoriali per i minori in difficoltà e per i disabili, si promuovono i centri di secondo livello per la tutela, contro l’abuso e le violenze ai minori, spingendo gli enti locali ed il privato sociale a programmare assieme la rete dei servizi. Si dà compimento al sistema dell’accoglienza, dell’adozione e dell’affido, già fortemente radicato in Emilia-Romagna e si sostiene l’integrazione dei tanti giovani di seconda generazione che ancora non possono godere del diritto di cittadinanza.
È una legge che propone l’adolescenza e la gioventù non come “dazio da pagare” in attesa dell’età adulta, ma come un’età ricca di opportunità per mettersi in gioco, con servizi stabili e strutturati, veri e propri laboratori sociali e culturali per sviluppare le proprie potenzialità e coltivare interessi, con opportunità formative e di sostegno alla ricerca della propria autonomia di vita ed economica (centri giovanili e autogestiti, contributi alla casa, borse di studio, voucher e viaggi di formazione, sostegni all’imprenditorialità, ecc.).
Il primo diritto che la legge afferma è quello della partecipazione di bambini, adolescenti e giovani alle scelte che li riguardano, poiché la cittadinanza e la democrazia sono frutto di un percorso dove tutti devono sentirsi protagonisti.
Con questa legge in Emilia-Romagna possiamo dire che i bambini, gli adolescenti e i giovani sono cittadini a pieno titolo fin dalla nascita, pensando a una società in cui nessuno si senta escluso.
Da questo germe pensiamo che il PD possa e debba dare vita ad una proposta nazionale di legge quadro sulle giovani generazioni, dopo la proposta di istituzione del Garante nazionale per l’infanzia e l’istituzione della carta d’identità per i minori, presentate nei giorni scorsi assieme al segretario nazionale Walter Veltroni. Così si potrà sancire nel nostro Paese il diritto a crescere con eguali opportunità di partenza, indipendentemente dal censo della famiglia di origine, spezzando quei circoli chiusi e rigidi in cui la società italiana è ingabbiata, le vere caste che condannano all’emarginazione troppi bambini e giovani in Italia.

Anna Pariani è Coordinatrice della Consulta infanzia e adolescenza «Gianni Rodari», Emilia-Romagna;
Massimo Pironi è Presidente della V Commissione Assemblea legislativa Emilia-Romagna - Scuola, cultura, turismo e sport; Anna Serafini, senatrice, è vicepresidente della Commissione bicamerale infanzia


Corriere della Sera 7.8.08
Rifondazione Assemblea con il neo segretario del Prc
Ferrero: Liberazione sia in linea. Gelo tra il leader e la redazione
di Andrea Garibaldi


Il direttore di «Liberazione» al neo segretario del partito: rimarrei volentieri. Il direttore può anche appartenere alla minoranza, no?

ROMA — Paolo Ferrero scende dal terzo piano al primo del quartier generale di Rifondazione comunista, viale del Policlinico 131, entra nell'arena. Alla redazione di Liberazione, "giornale comunista", teoricamente organo del partito, dice: «Io credo che Liberazione debba vivere, ma non so bene quali sono i conti, dovremo ragionare sullo stato generale del partito... ». Aggiunge: «Capita spesso che a una Festa di Liberazione qualcuno intervenga contro il giornale e tutti giù ad applaudire...».
Ci sono meno di trenta fra giornalisti e poligrafici (su 54 totali), nel corridoio del giornale. Il nuovo segretario Ferrero è seduto, le maniche della camicia bianca arrotolate, quasi tutti gli stanno attorno in piedi e il clima è afoso, ma in realtà gelido, sospettoso. Fra i giornalisti, quelli schierati con Ferrero contro Vendola si contano sulle dita di una mano. Stefano Bocconetti, che lasciò l'Unità per Liberazione assieme al direttore Sansonetti, tocca il punto: «Segretario, tu non credi che l'autonomia di Liberazione sia un valore, che le posizioni diverse siano stimolo per il partito?». «Penso — replica Ferrero — che il giornale debba avere una sua autonomia dentro una linea condivisa». E cita il caso di questa settimana, gli «editoriali» di Andrea Colombo, peraltro portavoce di Nichi Vendola, in difesa di Mambro e Fioravanti riguardo alla strage di Bologna: «Mi trovo a dover ripetere e spiegare in giro che l'opinione di Liberazione può non essere il pensiero del partito». E qui c'è l'unico intervento (tecnico) del tenebroso Sansonetti: «Quelli non erano editoriali, segretario, un pezzo era di spalla in prima, l'altro di taglio dentro».
Sansonetti è l'uomo che ha innervosito molto Ferrero durante la campagna per il congresso e che ha suggellato la vittoria inattesa di Ferrero con uno "sgarbo": il giorno della proclamazione, intervista al neo-segretario, ma anche intervista a Vendola, lo sconfitto. In assemblea, i redattori più vicini al direttore dipingono il giornale come «un intellettuale collettivo». Anubi d'Avossa Lussurgiu, del comitato di redazione, ricorda che i giornalisti hanno un contratto e una deontologia e che il giornale dipende dal consiglio d'amministrazione. Negli ultimi anni le scelte eterodosse di Sansonetti sono non contabili, pezzi anti-Fidel, meglio Rebecchini e Darida di Veltroni, il paparazzo Corona è una vittima del sistema, amnistia per Previti, scuse per la Carfagna. Sansonetti ha firmato un giornale aperto, provocatorio, che ha trovato echi, ma non è cresciuto nelle vendite. Adesso Ferrero chiede «più inchieste », magari sulle condizioni degli operai, sulle cassiere dei supermercati, sul sindacato metalmeccanici. Ferrero di sicuro teme che rimuovere Sansonetti susciterebbe la consueta (e respinta) accusa contro di lui: stalinista. Sansonetti, sornione, dice: «Rimarrei volentieri, il direttore può anche appartenere alla minoranza, no?». Dipende da come reggerà un partito spaccato, dalla potenziale scissione dei vendoliani. Dipende dai tagli dei contributi ai giornali di partito. Se il governo non ci ripensa, altri saranno i temi da da discutere.

Corriere della Sera 7.8.08
Dopo l'articolo sul «manifesto» Cacciari: il mio ex amico Alberto è fuori di senno. La Gagliardi: provocazione da condividere
«Silvio peggio del fascismo». Asor Rosa spacca la sinistra
di Fabrizio Roncone


ROMA — Al canto delle cicale, a Monticchiello — dimenticando per un giorno l'assedio degli immobiliaristi che vogliono cementargli, così racconta, la Val d'Orcia — il professor Alberto Asor Rosa, 74 anni, inflessibile critico letterario, leggendario docente di letteratura italiana alla Sapienza di Roma, ex direttore di Rinascita, ex deputato del Pci, interrompe le vacanze e si mette a scrivere un articolo di fondo per il manifesto.
«Il terzo governo Berlusconi rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nelle storia d'Italia dall'Unità in poi. Più del fascismo? Inclino a pensarlo... ».
Le prime righe del lungo articolo sono queste. Il quotidiano comunista lo ha pubblicato ieri: e non sono stati pochi coloro che, proseguendo la lettura, sono rimasti sorpresi. Sentite: «Il fascismo — continua Asor Rosa — con tutta la sua negatività, costituì il tentativo di sostituire a un sistema in aperta crisi, quello liberale, un sistema completamente diverso, quello totalitario. Pochi oggi possono consentire con la natura e gli obiettivi di quel tentativo; nessuno, però, potrebbe contestarne la radicalità e persino, dentro un certo circoscritto ambito di valori, le buone intenzioni».
Lette queste righe è stato inevitabile cercare il professore.
«Siete stupiti?». Un po'. «Beh, è un discorso che può forse suonare strano, lo ammetto, specie se formulato da me. Ma la situazione è così eccezionale che non ci si può più accontentare degli schemi classici e...». E quindi lei... «Sostengo, limitandomi a una valutazione storica, che almeno il fascismo, a differenza di Berlusconi, aveva ambizioni alte, dimostrava di tenere al bene collettivo della nazione...».
Va bene, professore, il concetto è chiaro. Così chiaro che c'è chi, nel commentarlo, alza anche i toni della voce. La voce è quella di Massimo Cacciari, filosofo, sindaco di Venezia, esponente del Pd.
«Primo: io ormai questi intellettuali li sopporto meno dei politici...». Secondo? «Quella del mio ex amico Asor Rosa è una provocazione inutile, perché sono incomparabili sia le epoche che i personaggi. Solo uno fuori di senno può paragonare Berlusconi a Mussolini». Eppure... «Allora paragoniamo Putin a Stalin? O Sarkozy a Napoleone? Purtroppo certe figure storiche sono grandi ma anche tragiche. E certo che Berlusconi sarà sempre un gradino sotto Mussolini! Ma grazie al cielo escludo che il Cavaliere ci porti dentro un conflitto mondiale...».
Cacciari è molto facile da intervistare.
Perché è sempre deciso, netto. Così prosegue: «Non so: Asor Rosa è forse ancora impressionato dalla bonifica della Pianura Pontina? Beh, sì: in effetti Mussolini spostò in massa migliaia di contadini da una regione all'altra. Sì, certo, ci riuscì benissimo, fu un esempio di decisionismo: infatti, come dire? era un dittatore ».
I toni sono questi. La Rina Gagliardi — editorialista di Liberazione, ex senatrice rifondarola di strettissima osservanza bertinottiana — li abbassa «un po' perché fa troppo caldo», un po' perché il teorema di Asor Rosa, in fondo, sia pure parzialmente, lo condivide.
Andiamo con ordine. «Il paragone mi pare un poco incauto. Mussolini guidò un regime per vent'anni, il terzo governo Berlusconi è appena al giro di boa dei primi cento giorni. Detto questo...». Ecco, detto questo? «Non c'è dubbio che quello in carica sia il peggior governo mai comandato da Berlusconi e che la qualità della democrazia, in Italia, sia assai scaduta...». Quindi? «Direi che se quella di Alberto è una provocazione estrema, io sono qui, a condividerla».
L'ultima telefonata è per il professor Lucio Villari, che insegna Storia contemporanea all'università Roma Tre. Il professor Villari, sulle prime, sembra essere scettico come il collega Cacciari. «Il paragone proposto da Asor Rosa, per lo storico, è tecnicamente impraticabile: se no, per capirci, potremmo paragonare anche Tremonti a Quintino Sella e via dicendo...». Poi l'animo dello storico cede però il passo. «Naturalmente, se allo storico si chiedesse una semplice valutazione del berlusconismo, allora lo storico dovrebbe provare a immaginare le eventuali evoluzioni di questa fase della democrazia italiana... Ricordando, per esempio, che nel 1933, in Germania, anche il governo di Hitler fu eletto democraticamente...».

Corriere della Sera 7.8.08
Sicurezza. Il sindacato della polizia municipale: ora seimila armati in più
Alemanno: pistole ai vigili Prima volta dopo 35 anni
Roma, divieto di frugare nei rifiuti: stop dopo le polemiche
di Fiorenza Sarzanini


Primo giorno con i nuovi poteri dei primi cittadini. Chiamparino punta a colpire i locali dove si spaccia

ROMA — Sarà armata la polizia urbana di Roma. Lo ha annunciato ieri sera il sindaco Gianni Alemanno. «Dopo 35 anni — ha detto — la polizia municipale di Roma torna ad avere un armamento per garantire l'autodifesa e la difesa dei cittadini». È stata una lunga trattativa con il sindacato quella che ha portato all'accordo. Hanno firmato tutte le sigle, salvo gli RdB. E alla fine c'è stato un applauso. A settembre ci sarà il voto del Consiglio comunale. I seimila vigili romani potranno quindi, ha spiegato il sindaco, «avere delle pistole salvo i casi di obiezione di coscienza. L'addestramento sarà lo stesso della polizia ». Soddisfatto il comandante dei vigili urbani Angelo Giuliani: «Aspettavamo l'accordo da anni». «Un momento storico per la sicurezza della Capitale », lo ha definito Alessandro Marchetti, segretario generale aggiunto del Sindacato unitario lavoratori polizia municipale (Sulpm). «Con questo atto — ha aggiunto il sindacalista — la polizia municipale romana si avvicina a quelle delle altre grandi città italiane come Milano, Torino, Bologna, Genova, Firenze, Napoli, Palermo e Catania, che sono tutte armate».
Intanto è su ambulanti, prostitute, mendicanti che l'amministrazione «creativa» sollecitata dal ministro dell'Interno Roberto Maroni si scatena. Arrivano le ordinanze dei sindaci in base alla nuova normativa e si concentrano al momento proprio sulle fasce ritenute più deboli. A Roma Alemanno sta preparando un provvedimento che vieta di «rovistare nei cassonetti» anche se il duro attacco arrivato dopo l'annuncio dalla Comunità di Sant'egidio lo ha convinto a prendere tempo e ad avviare «verifiche » e «confronti». L'ordinanza intende punire pure l'accattonaggio molesto, uno dei «comportamenti» che anche altri annunciano di voler contrastare con maggior efficacia. Nel mirino anche i lavavetri e i venditori agli angoli delle strade. Più complicato, come riconosce lo stesso sindaco della capitale, è affrontare il problema della prostituzione di strada: tutto rinviato a settembre «quando avremo un quadro di intervento più completo». Multe da 500 euro ai clienti saranno invece contestate a Padova dove il sindaco Flavio Zanonato, del Partito Democratico, si appresta a firmare altre ordinanze «per «liberare gli immobili occupati e le aree invase da ambulanti o le zone rese invivibili dalla presenza dei clandestini». A Torino Sergio Chiamparino punta a colpire i luoghi dove si spacciano stupefacenti come locali notturni e bar. È stato lui, ieri, il primo a porre il problema delle risorse finanziarie. Cento milioni di euro sono stati stanziati, ma come ha ricordato lo stesso Maroni «potranno essere messi a disposizione soltanto dopo la firma del protocollo d'intesa con l'Anci». «E senza soldi — dice Chiamparino — non si fa nulla».
Molto critico Mario Marazziti, portavoce della comunità di Sant'Egidio, che ha causato il ripensamento di Alemanno: «Da settimane sembra che il problema dell'Italia siano rom, mendicanti. Vorrei ricordare che Roma e altre grandi città italiane sono e restano tra le più sicure del mondo. Nel nostro Paese c'è sicuramente un problema di criminalità organizzata e di illegalità diffusa che riguarda milioni di cittadini».

Corriere della Sera 7.8.08
Quest'Occidente non capisce l'Asia
di Martin Jacques


Siamo solo a metà del 2008, eppure quest'anno ha già visto un considerevole spostamento dei rapporti di forza a livello globale. Se la mentalità dei Paesi occidentali, invece, resta ferma immobile e crede ancora di poter dettare regole a tutti, ciò non sorprende: è stato effettivamente così per tanto tempo che nessuno ha mai pensato di mettere in dubbio tale superiorità. L'Occidente presume tuttora di avere dalla sua parte diritto e potere, di sapere sempre quel che occorre fare in ogni circostanza e non esita, all'occorrenza, di imporre agli altri tanto la sua saggezza politica che la sua rettitudine morale. C'è però un intoppo: l'autorità dello sceriffo globale va sgretolandosi inesorabilmente.
Quest'anno ci ha presentato due esempi clamorosi: il primo è stato la Birmania (o Myanmar, per l'esattezza). Siamo tutti d'accordo che il Paese è governato da un regime odioso. Tuttavia, in seguito al passaggio del ciclone, il resto del mondo si è trovato ad affrontare il dilemma di come soccorrere i milioni di vittime di un disastro umanitario. Com'era prevedibile, l'Occidente ha subito rispolverato l'idea di un intervento militare ed ha fatto partire gli incrociatori a pattugliare le coste della Birmania, mentre già si parlava di atterraggio di elicotteri e di mezzi anfibi da inviare nel delta dell'Irrawaddy.
Era un'idea chiaramente assurda. L'alleato più stretto della Birmania è la Cina, con la quale condivide un lungo confine; il paese è inoltre membro dell'Asean (l'Associazione di nazioni del sud est asiatico). La Cina e l'India, come tutti i paesi dell'Asean presenti nella regione, si sono opposte fermamente all'impiego della forza militare.
Il fatto che l'Occidente non sia stato in grado di cogliere le realtà geopolitiche dell'Asia orientale — oggi la più vasta regione economica del mondo — e adattare di conseguenza la sua politica, ha svelato come pregiudizi e atteggiamenti antiquati siano ancora, purtroppo, ben radicati. Anche quando la sola idea appare ridicola e impraticabile, il richiamo all'intervento militare da parte sia dei media che dei leader politici sembra essere l'unico riflesso possibile. In realtà, la Birmania ha dimostrato i limiti della potenza occidentale e la necessità che l'Occidente riconosca questi limiti, dimostrandosi disposto a rispettare e a collaborare con la regione, anziché puntare subito all'intervento armato, scavalcando i governi locali come chissà quale grande imperatore. Il secondo esempio è lo Zimbabwe. E qui siamo davanti a una realtà assai dolorosa per la psiche britannica. Siccome soffrono di una forma acuta di amnesia coloniale, gli inglesi continuano a credersi detentori di qualche diritto inalienabile a rinfacciare allo Zimbabwe i suoi fallimenti. Ma in quanto a responsabilità per l'attuale situazione del Paese — dall'aver tollerato la dichiarazione di indipendenza di Ian Smith fino alla vergognosa normativa agraria che assicurava ampi privilegi ai coloni bianchi — l'Inghilterra non è seconda a nessuno. Malgrado tutto questo, gli inglesi vogliono ancora sbandierare una superiorità morale inattaccabile nei confronti dello Zimbabwe.
Eppure, anche questo episodio ha svelato l'impotenza inglese — e occidentale — nel modo più brutale. Dopo il gran parlare che se n'è fatto al vertice del G8, il tentativo anglo- americano di inasprire le sanzioni contro lo Zimbabwe è naufragato presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove è stato bocciato da Russia e Cina e contrastato dal Sudafrica e da altri due Paesi. Nel frattempo, il presidente sudafricano Thabo Mbeki, i cui sforzi per favorire un qualche accordo erano stati ampiamente e sdegnosamente dileggiati, ha messo a segno una grande vittoria diplomatica. Nominato mediatore per lo Zimbabwe dalla Comunità per lo sviluppo dell'Africa del sud (Sadc), Mbeki è riuscito a portare al tavolo dei negoziati sia il partito Zanu-PF di Robert Mugabe che l'Mdc di Morgan Tsvangirai.
L'Occidente non è più in grado di offrire soluzioni, sotto la pressione crescente della forza, della competenza e della sicurezza di sé conquistate dai Paesi emergenti. Al posto della potenza occidentale universale, oggi assistiamo alla nascita della regionalizzazione e delle soluzioni regionali. Ciò riflette i cambiamenti più ampi già in atto nell'economia globale. Il potere economico sfugge dalle mani dei paesi del vecchio G7, dirigendosi verso le cosiddette economie Bric (Brasile, Russia, India e Cina), o, per essere più accurati, verso un numero sempre maggiore di economie in via di sviluppo. Il G7 rappresenta oggi meno della metà del pil mondiale e perde quota costantemente. Tali spostamenti economici fanno da preludio ineluttabile a mutamenti paralleli nel potere politico.
I due esempi qui discussi sono tipici di questo processo: la Birmania si è rivolta a Cina e India, oltre che ai Paesi dell'Asean, mentre lo Zimbabwe ha fatto affidamento al Sudafrica, ma anche alla Russia e in modo speciale alla Cina, che in questa occasione si è sentita incoraggiata a svolgere un ruolo più incisivo sul palcoscenico mondiale.
Appare inoltre evidente il fallimento complessivo della politica estera anglo-americana. All'epoca dell'invasione dell'Iraq, non si sospettava neppure un imminente declino del potere economico occidentale. Al contrario, leader politici come Bush e Blair apparivano convinti di assistere agli albori di una nuova era di rinnovata potenza occidentale.
Mai sottovalutare la capacità dei leader politici a fare errori madornali in materia di storia. L'invasione dell'Iraq e dell'Afghanistan è servita piuttosto ad accelerare il declino dell'Occidente: essa ha mancato del tutto gli obiettivi prefissati ed ha evidenziato la reale impotenza dei paesi occidentali. In contrasto, stati «canaglia» come Corea del Nord, Zimbabwe e forse anche l'Iran, lanciano chiari segnali di reagire positivamente a ben altro genere di trattamento. L'interventismo liberale ha fallito, eppure l'Occidente non mostra affatto di aver capito il nuovo mondo, né di saper vivere secondo le sue regole.
L'Occidente resta aggrappato a convinzioni non più corrispondenti alla realtà, si rifiuta di riconoscere l'erosione della sua autorità e, di conseguenza, mal si adatta alle nuove circostanze e sembra incapace di trovare risposte innovative. Questo è certamente vero nel caso dell'Inghilterra. Il ministro degli esteri inglese si limita a ripetere i cliché e le sciocchezze del governo Blair, ormai screditato: non si è sentita finora, da parte sua, un'idea, una proposta o un'intuizione qualsivoglia a indicare che abbia compreso la natura di questo nuovo mondo. La politica estera inglese resta invischiata nel suo passato e nei suoi legami con gli Stati Uniti. In tali condizioni, l'Inghilterra si ritroverà trascinata — volente o nolente — nella nuova era, sempre più emarginata e delusa, ridotta al ruolo di spettatore anziché architetto, a brontolare e recriminare a vuoto.
*Ricercatore alla London School of Economics © Guardian News & Media 2008 ( traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 7.8.08
Archivi. Le armate fasciste dal '41 al '43 lasciarono una scia di sangue in Jugoslavia e Grecia. Le accuse negli atti della Commissione Gasparotto
Crimini di guerra italiani, il giudice indaga
Le stragi di civili durante l'occupazione dei Balcani. I retroscena dei processi insabbiati
di Dino Messina


Altro che brava gente! Italiani come i tedeschi, che dal 1941 al 1943, nei Balcani e in Grecia, applicarono la regola della «testa per dente», della rappresaglia contro le popolazioni, di dieci civili fucilati per ogni italiano ucciso. In altre parole si macchiarono di gravissimi crimini di guerra, che si estinguono soltanto con la morte del reo. Ora su queste verità scomode, che emergono con sempre più forza dalle inchieste giornalistiche e soprattutto dalla ricerca storica, ha deciso di intervenire la magistratura militare. Il procuratore Antonino Intelisano, lo stesso che nel 1994 istruì il processo contro il capitano delle SS Erich Priebke, e che alla ricerca di prove trovò a Palazzo Cesi, presso la procura militare generale, il famoso «armadio della vergogna», che nascondeva circa settecento pratiche contro i nazisti autori delle stragi in Italia, ha aperto un'inchiesta, per il momento «contro ignoti», sugli eccidi che i militari italiani compirono nei territori di occupazione. Come ha suggerito Franco Giustolisi in un intrigante articolo sul manifesto del 28 giugno, ci troviamo davanti a un «secondo armadio della vergogna»?
Antonino Intelisano, seduto nel suo studio di procuratore presso il tribunale militare, in viale delle Milizie a Roma, prima di rispondere ci mostra il carrello con alcuni faldoni che portano il segno degli anni. «Quella dell'armadio della vergogna numero due — taglia corto — è un'invenzione giornalistica che non corrisponde alla realtà delle cose». La verità tuttavia è che il procuratore generale ha acquisito materiale di grande interesse sia di carattere giudiziario, sia presso gli archivi che di solito sono frequentati soltanto dagli storici: ministero della Difesa, presidenza del Consiglio. In particolare, dagli archivi dello Stato maggiore dell'esercito sono arrivate le conclusioni della Commissione parlamentare presieduta da Luigi Gasparotto, politico d'altri tempi che aveva avuto il figlio Leopoldo ucciso nel campo di Fossoli e aveva lavorato con grande impegno ed equilibrio, soprattutto tra il 1946 e il 1947, alla raccolta e al vaglio delle circa ottocento denunce provenienti da tutti i territori occupati dagli italiani, e quindi alla selezione dei casi in cui non si poteva fare a meno di denunciare il reato. «La commissione — scriveva Gasparotto il 30 giugno 1951 nelle note conclusive inviate al ministro della Difesa, Randolfo Pacciardi — ha tenuto nel debito conto la complessità della situazione, ma non l'ha considerata scusante». Così non poteva farla franca il generale Mario Roatta, comandante della II armata in Jugoslavia, che nella tremenda circolare 3c del 1˚dicembre 1942 aveva disposto di fucilare non soltanto tutte le persone trovate con le armi in pugno, ma anche coloro che imbrattavano le sue ordinanze, oppure sostavano nei pressi di opere d'arte. E aveva deciso espressamente di considerare «corresponsabili degli atti di sabotaggio le persone abitanti nelle case vicine».
Le conclusioni della Commissione Gasparotto, la cui documentazione nessuno storico ha potuto finora studiare per intero, chiamavano in causa anche il generale Mario Robotti, comandante del-l'XI corpo d'armata, che era riuscito a inasprire gli ordini di Roatta al punto di dire la frase che è diventata proverbiale, «qui si ammazza troppo poco», o il governatore del Montenegro, Alessandro Pirzio Biroli, che fece fucilare circa 200 ostaggi. E tutta una serie di personaggi, ufficiali o funzionari dell'amministrazione civile, che operarono soprattutto in Jugoslavia e in Grecia.
In seguito a questo tipo di informazioni, spiega Intelisano, «alla fine degli anni Quaranta fu aperto presso questo ufficio un procedimento nei confronti di 33 persone accusate di concorso in uso di mezzi di guerra vietati e concorso in rappresaglie ordinate fuori dai casi consentiti dalla legge. Il procedimento si concluse il 30 luglio 1951 con una sentenza del giudice istruttore militare. Questi stabilì che non si doveva procedere nei confronti di tutti gli imputati, perché non esistevano le condizioni per rispettare il principio di reciprocità fissato dall'articolo 165 del Codice penale militare di guerra». Secondo tale norma, un militare che aveva commesso reati in territori occupati poteva essere processato a patto che si garantisse un eguale trattamento verso i responsabili di reati commessi in quella nazione ai danni di italiani. Vale a dire, per esempio: noi processiamo i nostri militari colpevoli, voi jugoslavi condannate i responsabili delle uccisioni nelle foibe. L'articolo 165, continua Intelisano, è stato riformato, con l'abolizione della clausola di reciprocità, nel 2002. «Così quando, grazie a libri come Si ammazza troppo poco di Gianni Oliva e Italiani senza onore di Costantino Di Sante, o a trasmissioni televisive e articoli che denunciavano la strage di 150 civili uccisi per rappresaglia da militari italiani il 16 febbraio 1943 a Domenikon, in Tessaglia, si è imposto all'attenzione il problema del comportamento delle nostre truppe, ho deciso di aprire un'inchiesta. Per il momento "contro ignoti" perché noi magistrati, a differenza degli storici, non possiamo processare i morti». Nei faldoni che il procuratore sta studiando sono elencati decine di nomi, soprattutto militari che parteciparono alle rappresaglie contrarie alle leggi internazionali di guerra. Quegli elenchi, finora di interesse puramente storico, diventeranno incandescente materia penale, appena si individuerà uno dei responsabili ancora in vita. E allora avremo un nuovo caso Priebke. Ma con un italiano nelle vesti del carnefice.
L'aggravante di tutta la faccenda, ci dice lo storico Costantino Di Sante, uno dei pochi che hanno potuto consultare, seppur parzialmente, i 70 fascicoli prodotti dalla Commissione Gasparotto, è che a macchiarsi di reati non furono soltanto le camicie nere o i vertici militari politicizzati. Ma ufficiali e soldati normali. Come gli alpini dei battaglioni Ivrea e Aosta, «che rastrellarono undici villaggi in Montenegro e fucilarono venti contadini ». Il famigerato prefetto del Carnaro, Temistocle Testa, racconta Di Sante, per l'eccidio di Podhum, villaggio a pochi chilometri da Fiume, «si servì di reparti normali ». Dopo aver circondato il villaggio e bloccato tutte le strade di accesso, è scritto negli atti della Commissione Gasparotto, che recepì una denuncia jugoslava, il 12 luglio 1942 reparti dell'esercito italiano, coadiuvati dai carabinieri e dalle camicie nere fucilarono oltre cento uomini, catturarono tutta la rimanente parte della popolazione, circa 200 famiglie, confiscarono beni mobili e circa 2000 capi di bestiame».
La situazione era esasperata da una guerriglia partigiana efficace e crudele e dalle violente faide interetniche. Ma come giustificare le modalità dei rastrellamenti di Lubiana ordinati dal generale Taddeo Orlando, che nel dopoguerra avrebbe proseguito normalmente la sua carriera? La capitale della Slovenia fu circondata il 23 febbraio 1942 con reticolati di filo spinato. Dei quarantamila abitanti maschi, ne furono arrestati 2858. Circa tremila vennero catturati in un secondo rastrellamento. La chiusura dei centri abitati con reticolati venne applicata in altre 35 località. Oltre ai maschi adulti venivano deportati anche vecchi, donne e bambini. La maggior parte finiva nel campo dell'isola di Arbe, oggi Rab, in Croazia, dove morirono in 1500, soprattutto di stenti.
Ogni anno una maratona attraverso il perimetro del reticolato ricorda a Lubiana il periodo dell'occupazione militare italiana.
Prigionieri serbi scortati da soldati italiani nel 1941 dopo l'invasione della Jugoslavia (foto Archivio Corsera) Luigi Gasparotto e, sopra, il procuratore Antonino Intelisano I generali Mario Roatta e Mario Robotti, che ebbero gravi responsabilità nei crimini contro i civili

Corriere della Sera 7.8.08
«Norma incostituzionale Così la giustizia si fermò»
di D. M.


Sergio Dini è oggi un pubblico ministero presso la procura di Padova, ma sino al 30 giugno è stato un giudice militare. A lui si devono alcune sollecitazioni importanti che hanno portato a chiarire perché i famosi fascicoli dell'armadio della vergogna rimasero nascosti per cinquant'anni. Anche nella vicenda dei crimini commessi dai militari italiani nei territori occupati durante la Seconda guerra mondiale, Dini sta avendo un ruolo importante. Intanto è sua la lettera al Consiglio della magistratura militare (l'organo di autogoverno) in cui si chiede conto delle ragioni per cui le conclusioni della commissione Gasparotto non ebbero un esito giudiziario.
In seguito al riemergere del caso Domenikon, la trasmissione di Sky sulla strage compiuta da italiani in Grecia, alla quale ha partecipato come consulente, Dini in marzo ha anche inviato una lettera esposto al tribunale militare, che è stata messa negli atti dell'inchiesta dal procuratore Intelisano.
«Se è vero — commenta Dini — che non si procedette contro i nostri militari colpevoli di reati perché mancava la condizione di reciprocità, ci troviamo di fronte a un'aberrazione giuridica. Applicata ai crimini di guerra, la norma del vecchio articolo 165 era anticostituzionale». All'ex giudice militare oggi interessa che l'inchiesta giudiziaria arrivi sino in fondo per una serie di considerazioni di ordine morale e giuridico: «Innanzitutto — afferma con passione Dini, seduto alla scrivania del suo nuovo ufficio — dal punto di vista giuridico certi tipi di crimini sono imprescrittibili e quindi vanno perseguiti. Tanto più che il diritto penale internazionale, cui in genere competono i crimini di guerra e contro l'umanità, si basa su precedenti. Se stabiliamo dei punti fermi, sarà sempre più difficile nascondersi dietro la scusa deresponsabilizzante dell'obbedienza agli ordini. C'è poi un'altra questione di equità: se abbiamo processato dei vecchi militari tedeschi, non possiamo chiudere gli occhi davanti allo stesso tipo di reati commessi da italiani».
Dini infine pone un problema di ordine generale, che interessa molto gli storici: «Perché il ministro della Difesa non rende davvero accessibili a tutti gli studiosi i controversi documenti che mettono sotto accusa i comportamenti illegali degli italiani in Etiopia, Grecia, Jugoslavia, Francia, Russia?». Il ministro della Difesa Ignazio La Russa potrebbe riuscire laddove i suoi colleghi del centrosinistra hanno fallito.

Repubblica 7.8.08
Come siamo influenzati dallo scandire delle ore? Se lo sono domandati due ricercatori americani La risposta è stata sorprendente: la nostra percezione varia dall'età. E può farci fare scelte decisive
La clessidra che ci cambia la vita
di Vanna Vannuccini


Carriera, amicizie o matrimoni: tutto dipende dal modo in cui concepiamo le ore che passano

Insomma, la nostra esperienza personale del tempo è sempre un enigma, notava già Hans Castorp ne "La Montagna Incantata" di Thomas Mann: se viviamo qualcosa di affascinante, abbiamo l´impressione che il tempo voli. Possiamo fare in una giornata un viaggio da Siviglia a Cordova, visitare una nuova città, ascoltare un concerto, e in retrospettiva ci sembrerà che siano passati tre giorni, invece che dodici ore. Nel ricordo, il tempo che era volato via si estende. Quando invece ci capita di aspettare, all´aeroporto o nella sala d´aspetto del dentista, le ore non passano mai; ma alla fine la giornata è come se non ci fosse stata. Il tempo che ci era sembrato interminabile si è ristretto, perché non ha lasciato tracce.
Tutto questo per dire che il tempo è una materia prima piena di paradossi e di misteri, che resta impervio alla nostra volontà e non si fa ingannare, ma ci influenza molto più di quanto non ci rendiamo conto. Anzi, il nostro atteggiamento verso il tempo plasma tutti gli aspetti della vita scrive Philip Zimbardo, professore emerito a Stanford e autore del "The time paradox, Il paradosso del tempo, La nuova psicologia del tempo che cambierà la vostra vita". Zimbardo è famoso anche per un suo libro precedente, "L´Effetto Lucifero: capire perché i buoni diventano cattivi", nel quale dimostrava che è la forza delle circostanze a rendere la grande maggioranza di noi capaci di fare il male, (e solo pochi eroici). Su questa base aveva testimoniato come esperto in tribunale a favore di uno dei torturatori di Abu Ghraib.
La nostra percezione del tempo, afferma dunque Zimbardo, può mandare a monte una carriera o spronarci a raggiungere alte vette professionali, può favorire matrimoni e amicizie o farli fallire, senza che ne siamo consapevoli.
Un esempio: vi viene chiesto con chi preferireste passare mezz´ora. Potete rispondere: A) con un membro della vostra famiglia B) con una persona conosciuta di recente C) con l´autore di un libro che avete appena letto. Se avete una certa età, la risposta sarà sicuramente A. Se siete più giovani, sceglierete B o C. Ma immaginate che una nuova invenzione vi garantisca vent´anni sicuri di vita sana in più: le vostre risposte cambieranno? Sì, assicura Zimbardo, che insieme al suo assistente John Boyd, laureato a Stanford, ha condotto ricerche su questo tema nel corso di 30 anni su 10mila persone adulte. Quando il tempo del futuro è compresso, la persona anziana preferisce contatti con membri della famiglia per soddisfare i suoi bisogni emotivi. Ma le priorità cambiano se il senso del tempo che ha davanti a sé si espande. Altro esempio: se non abbiamo imparato fin da bambini ad avere una prospettiva temporale, e quindi a sapere rinviare le nostre gratificazioni, tutti i nostri buoni propositi di fine anno (voglio dimagrire, smettere di fumare, smettere di comprare troppe cose) saranno vani.
Nella loro ricerca, Zimbardo e Boyd hanno identificato sei prospettive con cui le persone guardano al tempo: positive o negative rispetto al passato, edonistiche o fataliste sul presente, fiduciose o trascendentali sul futuro. Senza dimenticare, naturalmente, che, si può passare da una prospettiva all´altra perché, come scrive Shakespeare, «one man in his time plays many parts» (un uomo nella propria vita recita molte parti).

il Riformista 7.8.08
La posizione della File
sui tagli ai giornali
 decisi per decreto legge



I tagli all'editoria, o meglio i tagli ai contributi ai giornali no profit, recentemente approvati con decreto legge, avranno effetti ben più ampi di quelli finora paventati. Questa la posizione del presidente della File - Federazione italiana liberi editori - Enzo Ghionni. Negli ultimi giorni, si parla dell'ipotesi di chiusura di qualche decina di quotidiani e del licenziamento di diversi giornalisti. Non è così. Le conseguenze dell'applicazione dell'art. 44 del decreto legge n. 112/08, approvato a colpi di fiducia, sono molto più gravi: fruiscono dei contributi diretti all'editoria 74 quotidiani e centinaia di periodici (fonte: sito web della presidenza del Consiglio dei Ministri). Ipotizzando una ventina di giornalisti per quotidiano, i giornalisti a rischio sono qualche migliaio; altro che diversi. Non parliamo dei poligrafici e dell'indotto.
Qualche dato. L'unica colpa di queste aziende, la vera responsabilità, è quella di non riuscire a stare sul mercato. Bene; anche qui, bando alla chiacchiere, vediamo i numeri di questo mercato. Citando le fonti. La relazione annuale dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni del 2008 ha individuato le quote di mercato dei mezzi che compongono il Sic, il sistema integrato delle comunicazioni. La stampa quotidiana vale il 14,7 per cento del totale, mentre la televisione il 35,9 per cento, ben oltre il doppio. Un'anomalia del tutto italiana. Ma, ancora, c'è un dato ancora più significativo: la distinzione tra tipologie di ricavi nell'ambito dell'editoria quotidiana. Bene; i ricavi per vendita di copie nel 2007 sono stati pari a 908 milioni di euro; quelli per pubblicità sono stati pari a 1.366 milioni di euro. Il rapporto tra ricavi pubblicitari e somma dei due ricavi è pari ad oltre il 62%. I giornali che percepiscono i contributi cosiddetti diretti hanno un vincolo fissato dalla legge: ossia che i ricavi da pubblicità non possono superare il 30 per cento dei costi. Il che dimostra che sono mezzi che il mercato non sorregge. Eppure sviluppano cultura, dibattito, politica, informazione. Sono l'ossatura di un sistema pluralistico che oggi c'è nel mondo della carta stampata, a differenza che nella televisione. Proprio perché sono rivolti in via prioritaria ai lettori e non al mercato della pubblicità che li esclude. 
Per una riforma organica. Questo sistema viene azzerato con un decreto legge. La nostra associazione, che annovera da sola, tra gli altri iscritti, circa 45 quotidiani, sta da anni sostenendo la necessità di una riforma organica del settore che parta da una seria conoscenza della realtà e che si muova lungo la doppia direttrice di uno sviluppo del sistema industriale dell'editoria italiana e della garanzia del pluralismo. Il decreto legge azzera ogni ipotesi di dibattito e produce effetti devastanti. Se il governo non prenderà provvedimenti immediati rispetto a quanto previsto dall'art. 44 del decreto legge n. 112/2008, la riforma verrà varata in un quadro oligopolistico speculare a quello esistente nel settore dell'emittenza radiotelevisiva. E sarà troppo tardi per porre rimedio ad un vero attentato non solo all'art. 21 della Costituzione, ma al più generale principio sancito agli artt. 2 e 3 della stessa di libera formazione del pensiero. Ci auguriamo che il governo sappia porre rimedio ad una situazione che mina alla base la democrazia, proponendo velocemente una riforma organica del settore da discutere in Parlamento.

ècole numero 6 agosto 2008
Le destre, le sinistre e la scuola. Firenze, Sala dell’Arci, piazza dei Ciompi 11, 6 settembre 2008, ore 10 – 18.


Care, cari,
con la presente siete invitati al seminario di école di sabato 6 settembre a Firenze. Il tema è Le destre, le sinistre e la scuola.
Va be'... lo sappiamo anche noi che non è esattamente un modo festoso di aprire le porte all'anno nuovo, la politica scolastica. Viene in mente il titolo del film di Aldo Zanasi di qualche mese fa, Non pensarci. O anche Non aprite quella porta (che poi c'è il sequel sempre più orrendo tutti gli anni). Però bisognerà pur tornare a scuola, e non è detto che sia peggio di questa estate di lodi alfani, poliziotti torturatori assolti, pubblici fannulloni e sesso orale ministeriale. Inoltre metà del tema si sarebbe tentati di risolverlo alla svelta. Quale politica ha la sinistra sulla scuola, e quale politica ha su tutto il resto, e di quale sinistra si parla quando si parla di sinistra... Dorme sereno nel sonno della ragione (quello che genera mostri) il partito democratico, fanno i conti con il rigenerato mostro berlusconiano i cittadini di Piazza Navona - fanno i conti e basta quelli della sinistra ex radicale, ex parlamentare, ex sinistra. Qualcuno impugna la falce, qualcuno il martello, fortuna che nessuno sa più come si usino. Un disastro tale che non è nemmeno bello insistere. La sensazione è di essere passati dal che fare al che farsi, anche solo per dimenticare.
Però poi le scuole che riaprono quelle porte restano un po' un mondo a parte - con noi imprigionati e protetti all'interno. Un po'. Da noi tradizione è che tutto accada per via amministrativa, come sotto rifrazione. Si aspetta sempre la circolare applicativa, oppure l'ultima ordinanza. Intanto c'è qualche commissione che discute su qualche nuova trinità pedagogica (tre “c”, tre “i” o altre tre bischerate) e produce un testo che non c'entra nulla con la scuola che si fa, né con la scuola che si farà. Poi si aprirà la discussione su chi ha la competenza di decidere ai vari livelli, sempre più concorrenti e incasinati. Infine qualcuno dirà, deleghiamo all'autonomia delle scuole, e sarà la parola magica che va bene a tutti perché nessuno sa esattamente che vuol dire. Più o meno, arrangiatevi.
Così la crisi del sapere e dell'autorità diventano l'appassionante dibattito sul voto di condotta, se deve fare media oppure no. Il principio d'uguaglianza della Costituzione, se è giusto restaurare l'obbligo del grembiule come divisa scolastica, uguale per tutte e tutti, contro l'individualismo consumistico. Grandi temi il grembiulino e il voto in condotta... Se non altro rivelano come ciò che interessa davvero delle discipline sia sempre il disciplinamento. Viene in mente lo studente di Benni che spiega al professore la differenza fra discipline umanistiche e scientifiche: facile, quaderno a righe e quaderno a quadretti. E tuttavia, se le montagne partoriscono topolini, gli apparati ideologici mobilitati producono comunque una loro cultura (pessima) che circola e avvolge. Permea e deprime. E se ci fanno cascare le braccia, poi è difficile anche abbracciarsi...
Forse certi bambini arriveranno in classe già con le dita sporche d'inchiostro, obbedienti avranno lasciato la loro impronta nel mondo - nel mondo che non è e non sarà mai loro. Forse potremmo dargli un grembiulino diverso: non c'è nemmeno da inventare, sono già stati definiti una volta (per le stelle) i colori. Sarà per il loro bene, ovviamente. Forse raggrupperemo le classi per farle assistere alle lezioni tivù di papa Ratzinger – perché la scuola della globalizzazione fondata sulle vecchie tre “i”, inglese informatica impresa, sembra avere bisogno per funzionare di valori antichi bipartizan: rigore, maestro unico dei bei tempi, obbligo nella formazione professionale per chi non è fatto per lo studio. La destra alla Brunetta continuerà a fare i suoi calcoli in termini di costi-benefici, però è possibile che non possa fare dell'economicismo apertamente la sua bandiera. Dovrà inventarsi come accompagnamento della privatizzazione totale della vita pubblica (la propria servitù, i propri avvocati, eletti classe dirigente – ma guardate anche la parte destra dei siti di repubblica e Corriere...) il ritorno della meritocrazia, la “fine della ricreazione”, i sacri valori religiosi e le radici cristiane d'Europa. Forse. Intanto la destra diffusa davvero nazionale potrà continuare a delocalizzare le proprie aziende in Romania e garantire in patria l'insicurezza dei lavoratori, perché sacre sono le ragioni del profitto e le radici della rendita.
Quale altra narrazione decente e anche un po' felice (se vuole avere capacità di resistenza) si potrà contrapporre a questa miscela di sicurezza, denaro, famiglia, nazione - così spudoratamente intrecciata a lavoro nero, evasione fiscale, falso in bilancio e Ronaldinho day? Una narrazione che non sia troppo patetica, semplice ripetizione delle vecchie formule di un tempo, e che non miri a fare le stesse cose “moderne” con un po' più di senso di colpa e di attenzioni per i perdenti...
Beh, venite in settembre a Firenze e ne parliamo. [ANDREA BAGNI]

Le destre, le sinistre e la scuola. Firenze, Sala dell’Arci, piazza dei Ciompi 11, 6 settembre 2008, ore 10 – 18.
Il seminario Le destre, le sinistre e la scuola è una sede che école offre alla discussione di un’area alla quale si sente appartenente. Come di consueto all’inizio dell’anno, vogliamo incontrare associazioni, coordinamenti, reti, insegnanti, studenti, soggetti istituzionali e sindacali per discutere dei provvedimenti su scuola e formazione presi dal governo Berlusconi nei suoi primi 100 giorni di attività, ma anche alle reazioni dell’opposizione - in Parlamento, nella società, nei luoghi di lavoro -. Vorremmo provare a ripensare insieme a una politica che sappia ridisegnare il senso della scuola e della formazione di cittadine e cittadini. Dopo la relazione introduttiva di Pino Patroncini, Ci accompagneranno nella riflessione Cosimo Scarinzi (che interverrà sugli aspetti sindacali della politica scolastica governativa), Tina D’Amicis (che illustrerà il modello lombardo di scuola e formazione, perché la Lombradia, purtroppo fa scuola), Giorgio Bezzecchi (che affronterà la questione calda dell’inserimento scolastico di bambine e bambini rom), Paolo Chiappe (che farà il punto sul dibattito su meritocrazia, destre e sinistre), Andrea Bagni (che individuerà i nodi emersi nella discussione e porrà all’attenzione altre questioni rilevanti rimaste sullo sfondo).

Il seminario si terrà a Firenze sabato 6 settembre (presso la sede dell’Arci in piazza dei Ciompi 11) e sarà organizzato in collaborazione con la FICEMEA. È previsto, a livello nazionale, l’esonero per gli insegnanti in servizio.
Arrivederci a Firenze.
Info: tel. 031.268425, coecole@tin.it, www.ecolenet.it.