domenica 10 agosto 2008

Corriere Fiorentino inserto del Corriere della Sera 10.8.08
L'intervista Il regista ha esposto ad Arezzo i dipinti e gli story-board realizzati per i suoi lavori cinematografici
Cara Italia, così non va
La pittura, il cinema e la crisi della politica: le amare riflessioni di Marco Bellocchio
di Caterina Pardi


Si chiude oggi ad Arezzo, a Palazzo Chianini Vincenzi, la mostra di Marco Bellocchio organizzata nell'ambito del festival «Il giardino profondo».
L'esposizione riunisce insieme dipinti, disegni e alcuni story-board, che hanno costituito un'importante traccia preliminare alla costruzione delle scene dei suoi film, da «I pugni in tasca», «Buongiorno, notte», «L'ora di religione» e «Il regista di matrimoni»

Sono di sinistra, ma in questo vuoto non so a chi riferirmi. Il Pd è deludente
I film che svelano e scandalizzano non ci sono più. Colpa della tv

Fa cinema da molto tempo, ma adesso «girare un film originale è davvero difficile, perché il linguaggio cinematografico è inquinato da quello televisivo». È di sinistra da sempre, ma oggi «la sinistra sta precipitando ». L'Italia vista dal regista Marco Bellocchio è brutta perché è sempre più semplice e semplificata. Lui si mantiene vivo tornando ad una vecchia passione, l'arte, ed esponendo disegni e story-board dei suoi film ad Arezzo, nella mostra «Quadri. Il pittore, il cineasta».
Bellocchio, qual è per lei il rapporto fra cinema e pittura?
«Non c'è una relazione razionalizzata, premeditata. La mia formazione, prima che cominciassi a fare cinema, era più nella direzione della pittura e della poesia. Dopo, non il destino, a cui non credo, ma la vita mi ha portato alla rappresentazione teatrale e cinematografica. Per me la scrittura è sempre qualcosa d'innaturale: quando preparo un film mi appassiono di più a cercare di trasferire su uno schizzo un'immagine che mi è venuta in mente, piuttosto che descriverla con le parole. Il cinema è molto più faticoso, più incerto e frustrante, ma ha la grandezza del mettersi in gioco umanamente».
C'è qualcosa nelle arti pittoriche che il cinema non possiede?
«Il cinema è trasfigurazione e sconvolgimento della percezione immediata, dell'immagine fotografica, ma deve tenere conto di ciò che registra. La pittura, come la musica, è un linguaggio totalmente libero, al contrario del cinema che è un'arte applicata: per arrivare alla tua rappresentazione devi superare un sacco di ostacoli, specificatamente materiali. Anche i rapporti umani possono essere ostacoli fortissimi».
Quale può essere oggi il fondamento di un'etica laica, alla luce anche della fine delle ideologie?
«Indubbiamente i processi di dissolvimento delle ideologie impiegano alcuni anni, tutto un armamentario marxista-leninista, un'utopia socialista... ma adesso la sinistra sta precipitando ad una velocità accelerata: sono di sinistra ma non so a chi riferirmi. L'unico con il quale posso riconoscermi è il Partito Radicale, mi ritrovo in quegli schieramenti che almeno difendono tutta una serie di principi laici. In questo vuoto, i principi della solidarietà, della carità e dell'assistenza, che non condivido perché non modificano la sostanza delle cose ma le lasciano come stanno, hanno come riferimento la religione, il Cristianesimo e quindi la Chiesa. Credo che Bertinotti volesse rifondare la sinistra, ma il suo tentativo è per il momento fallito. Prevale una linea conservatrice che vuole rivitalizzare certi principi che la storia ha sconfitto. Si stanno ricreando contrapposizioni - penso alla questione degli immigrati - ma rifondare il mito della classe operaia o della lotta di classe mi sembra una strategia perdente».
La società ha una maggiore complessità...
«Quale partito è disposto ad appoggiare politiche di grande apertura verso questa tragedia mondiale dell'immigrazione, questi spostamenti, questa società che cambia? Nessuno. Sembra un paradosso ma è la chiesa la più caritatevole, assistenziale e solidaristica. È una situazione di abisso. C'è bisogno di idee politiche nuove, ho visto il sodalizio fra Fausto Bertinotti e lo psichiatra Massimo Fagioli, il quale proponeva un principio giusto: guardare a una realtà umana. La sinistra dovrebbe occuparsi di cose più profonde. Però questo tipo di proposta non è stata accolta».
E Berlusconi?
«Il suo governo interpreta in modo perfetto una combinazione di decisionismo, i cui risultati sono da vedere. Tutti sanno che distribuire 1.200 soldati in Italia non cambia la situazione: una forza così è ridicola, il provvedimento è rassicurante sul piano puramente psicologico. Poi sui giornali leggiamo dei tagli operati sulla pubblica sicurezza e sulla magistratura, che rappresentano un atteggiamento contraddittorio rispetto a queste operazioni di facciata, di tipo mediatico. Ormai, e mi riferisco alla televisione, si può dire tutto e il contrario di tutto».
«La scomparsa dei fatti», il titolo di libro di Marco Travaglio...
«È come se i numeri, le cifre, non avessero più peso: la scomparsa delle cifre corrette, dei numeri. La sinistra e il centro-sinistra cercano di ribattere ma sono in evidente difficoltà. Non c'è la capacità di fare opposizione».
Che ne pensa della manifestazione di Piazza Navona?
«Fare campagna elettorale puntando sui misfatti e i processi era già perdente, adesso lo è ancora di più... Berlusconi è riuscito in qualche modo a ridimensionarla. La strada non è quella del giustizialismo, non dico che non vada fatto, ma non ci si può basare solo su questo. E il Pd è deludente e inconcludente».
Il cinema come può contribuire a ricreare un contesto culturale e ideale?
«La grande corruttrice e potenziale educatrice è la tv, il cinema che era l'arte popolare per eccellenza, adesso lo è molto di meno, così come la potenza mediatica. Se un film è profondo, ha una lunga vita, ma è più rivolto ad un piccolo pubblico. Il settore della denuncia, in un passato piuttosto recente, aveva un'importanza grande: il cinema che svelava e scandalizzava adesso non esiste quasi più o è molto ridimensionato. Infatti - è ridicolo e patetico - si creano dei finti scandali, pettegolezzi, come nel caso di ‘‘Caos Calmo'', in cui qualcuno aveva rubato le immagini in cui Moretti faceva l'amore con la Ferrari. Prima, fino agli anni '60-'70, i film venivano sequestrati. Il cinema è un linguaggio che può rivelare, ma con difficoltà molto maggiori, perché è fortemente inquinato dal linguaggio televisivo. Riuscire a fare un film - inteso come immagini - veramente originale, è davvero difficile».
Lei che rappresenta così bene le dinamiche psichiche, sia personali che familiari, non crede che oggi siano diffusi cliché rappresentativi che impediscono di vederle e analizzarle? Forse il fatto di non riuscire a «bucarli» deriva da un appiattimento anaffettivo.
«Riguarda la società: tutto tende ad essere materializzato, visto e spettacolarizzato. Questo non significa che non si possa rappresentare una straordinaria storia d'amore o un amplesso fra un uomo e una donna in modo originale. Chiaramente uno non deve andare alla ricerca della bizzarria o cadrebbe in un manierismo di tipo barocco. La forza della rappresentazione e dell'interpretazione dei personaggi può permettere ancora la possibilità di mettere in scena la potenza dei sentimenti: certamente tutto nasce dall'interno».

l’Unità 10.8.08
Oggi a Milano il ricordo dei caduti
Piazzale Loreto 1944, una strage fascista
di Ibio Paolucci


Sessantaquattro anni fa, nella giornata del 10 agosto 1944 alle 6,10 del mattino, i militi fascisti della legione "Ettore Muti", su ordine del comando delle SS, fucilarono a Milano, nel piazzale Loreto, quindici antifascisti prelevati dal carcere di san Vittore. La lista dei quindici martiri venne compilata dal capitano delle SS Theodor Saewecke, che dette anche l'ordine che i cadaveri venissero esposti al sole cocente di agosto, guardati a vista dai brigatisti neri, per impedire alla gente e persino ai famigliari, di avvicinarsi alle salme. Otto mesi dopo, esattamente il 29 aprile del 1945, nello stesso piazzale fu esposto il cadavere di Benito Mussolini e di altri 15 notabili fascisti, che erano stati giustiziati, dopo la cattura, a Dongo.
L'ufficiale delle SS, responsabile della strage, morì nel proprio letto, in Germania, il 31 marzo del 2004, alla bella età di 93 anni. mai chiamato a rispondere del crimine da un tribunale tedesco e, anzi, nella repubblica federale di Bonn, ricevette l'incarico di ricoprire posti di alta responsabilità nei servizi segreti. Saewecke è stato però processato e condannato all'ergastolo, sia pure in contumacia, dal tribunale militare di Torino, su richiesta del Pm Pier Paolo Rivello, al termine di una lunga e rigorosa indagine, nel 1999. Quel processo però avrebbe potuto essere celebrato cinquant'anni prima, nella primavera del 1953, se il fascicolo che riguardava lui, come peraltro tantisimi altri, non fosse stato nascosto, con la connivenza di ministri del governo democristiano, in quello che è stato chiamato l'armadio della vergogna.
Il massacro venne ordinato in risposta ad uno strano attentato compiuto due giorni prima, contro un camion tedesco, parcheggiato in viale Abruzzi dal caporal maggiore Heinz Kuhn, che poi si era pesantemente addormentato sul volante. Il mezzo, colpito da uno o più ordigni, saltò in aria, ferendo leggermente l'autista e provocando la morte di sei passanti e il ferimento di altri cinque, tutti italiani. Nessuna vittima germanica. Diffficile, poi, capire perché quell'autista tedesco avesse parcheggiato il camion nel mezzo di una strada, in pieno centro. L'attentato al camion, inoltre, venne addebitato ai gappisti, mentre il comandante di quelle formazioni, la medaglia d'oro Giovanni Pesce, ha sempre escluso che l'attentato fosse opera dei suoi uomini. Nessun tedesco ucciso, ma Saewecke, il boia di piazzale Loreto, impose la fucilazione di quindici antifascisti. La strage provocò sgomento e indignazione, talmente forte nei milanesi, al punto che lo stesso Mussolini protestò con l'ambasciatore Rahn.
Come ogni anno, il sacrificio dei quindici antifascisti, verrà ricordato oggi sul luogo del martirio. I loro nomi, che non vanno dimenticati perché è anche a loro che dobbiamo il ritorno in Italia della libertà, sono questi: Antonio Bravin, Giulio Casiraghi, Renzo Del Riccio, Andrea Esposito, Domenico Fiorani, Umberto Fogagnolo, Giovanni Galimberti, Vito Gasparini, Emidio Mastrodomenico, Angelo Poletti, Salvatore Principato, Andrea Ragni, Eraldo Soncini, Libero Temolo, Vitale Vertemati. A loro Alfonso Gatto ha dedicato una bellissima poesia: "Ed era l'alba, poi tutto fu fermo/ la città, il cielo, il fiato del giorno./ Rimasero i carnefici soltanto/ vivi davanti ai morti / Era silenzio l'urlo del mattino,/ silenzio il cielo ferito, / un silenzio di case, di Milano./ Restarono bruttati anche di sole, / sporchi di luce e l'uno e l'altro odiosi,/ gli assassini venduti alla paura".
A commemorare le vittime, sarà il senatore Gianfranco Maris, presidente dell'Aned, parte civile nel processo chiuso con la condanna all'ergastolo del boia di piazzale Loreto.

l’Unità 10.8.08
Quel giorno di libertà a Firenze, 64 anni fa
di Silvano Sarti, Presidente provinciale Anpi Firenze


Centinaia e centinaia di giovani, inquadrati nelle formazioni partigiane scese dalle montagne e dai boschi, centinaia di giovani inquadrati nelle squadre d’azione dei quartieri e delle zone cittadine, dopo mesi di preparazione, di attesa, di lotta in città e nei campi di battaglia, l’11 agosto iniziarono i combattimenti strada per strada per liberare la città di Firenze dai nazifascisti. La conclusione della battaglia, proseguita fino ai primi di settembre, fu di esempio per tutta Italia e per il resto dell’Europa ancora sotto il tallone di ferro di Hitler e del suo servo Mussolini.
Il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, che guidò l’insurrezione e si assunse il governo della città e della provincia, era costituito dagli uomini di tutti i partiti antifascisti. L’unità di intenti e di ideali, che fece superare anche divergenze e conflitti politici, fu il cemento su cui si costruì, negli anni successivi, la democrazia repubblicana in Italia.
L’Anpi di Firenze è consapevole del peso che comporta una eredità così grande, in cui confluirono anche venti anni di lotta tenace contro il fascismo, pagata con il carcere e le persecuzioni, e si pone perciò di fronte ai grandi dilemmi e problemi del presente con grande senso di responsabilità.
I principi e i valori di tolleranza che si sono voluti collocare alla base del sistema democratico hanno permesso di affrontare nodi cruciali come la pacificazione e la riconciliazione nazionale. Sono stati perdonati coloro che avevano commesso il tragico errore di aderire al fascismo repubblichino, purché non si fossero macchiati di crimini (sappiamo purtroppo che poi fu fatto un uso distorto e perfino vergognoso della clemenza su cui la Repubblica democratica voleva dare avvio ad un nuovo corso della storia nazionale). Si è provato anche senso di compassione per coloro che morirono dalla parte sbagliata, per una causa sbagliata. Erano anch’essi vittime, purtroppo non sempre consapevoli, dell’inganno del fascismo, in cui erano caduti tanti giovani (istradati da cattivi maestri).
Ma questo perdono non voleva significare, e non potrà mai significare, che battersi dalla parte della libertà, come fecero i giovani partigiani, equivaleva a battersi dalla parte della dittatura e del terrore, come fecero i repubblichini.
Purtroppo la crisi dell’unità antifascista e l’inizio della guerra fredda impedirono che portasse a compimento un vero e proprio processo al fascismo che aveva infettato profondamente il nostro paese e lasciato in eredità i suoi frutti avvelenati. Una certa nostalgia di fascismo è rimasta, più o meno strisciante, più o meno vergognosa di se stessa, ma capace di tanto in tanto di rialzare la testa e di ripresentarsi in vesti nuove, sotto forma di populismo o di razzismo xenofobo, di attacco alla Costituzione e ai suoi capisaldi. Le forze della Resistenza, posti i pilasti fondamentali della nuova identità democratica del Paese, non hanno mai rinunciato a prendere posizioni e a combattere contro tentativi di colpo di stato, contro lo stragismo fascista, contro il terrorismo delle brigate rosse negli anni di piombo, contro la criminalità organizzata della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta, contro la P2.
Su questo terreno e partendo da questi presupposti è ancora possibile e necessario costruire e sviluppare un dialogo su cui le forze della democrazia debbano cercare di costruire una società nuova, di rinnovare lo stato italiano. Da parte di ognuno ci si deve accingere a quest’opera con spirito di servizio, recuperando, in un momento di grave crisi di fiducia nei confronti della politica, che molti cittadini e soprattutto le giovani generazioni avvertono sempre più estranea e lontana, il senso profondo di un’etica dell’impegno politico, vissuto non come occasione per ottenere privilegi e sviluppare lucrose carriere, ma come slancio a favore della collettività e per il bene del paese.
I partigiani fiorentini, gli uomini della Resistenza e dell’antifascismo, hanno scritto pagine luminose in questo senso, nei momenti della lotta e nei momenti della costruzione dell’Italia Repubblicana e democratica. Oggi vogliono lasciare questo messaggio forte e inequivocabile alle generazioni nuove, quelle nelle cui mani si trova il destino del paese ed il suo futuro.
A loro un appello a impegnarsi, a battersi per costruire una società più giusta, più consapevole del diritto dei giovani allo studio, al lavoro, alla casa, alla famiglia ed un mondo più equo, dove allo spreco sfacciato di una parte, corrisponde la miseria tragica e disperata di enormi masse di individui.
Questo è il momento in cui occorre un nuovo slancio ed un rilancio dei valori antifascisti che sono sanciti nella nostra Carta costituzionale ed un impegno unitario di tutte le forze progressiste per lo sviluppo democratico e civile del nostro Paese. Nessuna energia deve andare dispersa, nessun conflitto o dissapore deve far perdere di vista gli obiettivi fondamentali della difesa della libertà, del rinnovamento dell’Italia in un’Europa che sia sempre più garanzia di crescita democratica e forza di pace nel mondo.

Corriere Fiorentino inserto del Corriere della Sera 10.8.08
Liberazione. Sessantaquattro anni dopo Teresa Mattei racconta quei giorni a Firenze
di Mauro Bonciani


«Io, donna e partigiana viva grazie a un fascista»
«L'entrata in Palazzo Vecchio, la fame, il rispetto dei comandanti uomini. E quella volta che un gerarca mi salvò dalle Ss»

La voce è flebile, gli anni e le torture subìte pesano, il tempo sfuma. Guerra, fame, paura, si intrecciano a speranza, forza, solidarietà. Il caleidoscopio di 64 anni fa si ricompone, senza sconti per nessuno, con sincerità e umanità. L'11 agosto 1944 Teresa Mattei era al comando della sua compagnia in Oltrarno, in prima linea nella battaglia di Firenze. Comunista, partigiana, costituente, la più giovane parlamentare eletta, ribelle tanto da essere esplusa dal Pci nel 1955, a 87 anni Teresa combatte ancora.
Qual è il ricordo più bello che ha della Liberazione?
«Quando siamo entrati in Palazzo Vecchio, in prefettura, allora ho capito davvero che la città era libera, ho avuto tempo per pensare; prima, nei giorni di battaglia non c'era stato tempo, sono stati momenti terribili, i più duri. In quei giorni abbiamo dovuto seppellire i morti nell'orto botanico di via La Marmora perché non c'era altro posto».
Chi era Teresa Mattei?
«Ero giovane e la nostra famiglia era antifascista. Mi sono iscritta al Pci nel 1942, nel '44 mio fratello Gianfranco, torturato in via Tasso a Roma, si è ucciso per non rischiare di tradire i compagni, e la famiglia, babbo, mamma e sette fratelli, era dispersa».
Donna e partigiana: difficile?
«No. Noi partecipavamo alle iniziative della Resistenza esattamente come gli uomini. Non avevamo vantaggi nelle formazioni partigiane, ma li avevamo per muoverci. Era più facile portare armi, fare le staffette, aiutare chi era in montagna. E avere un compagno, un marito in montagna o in carcere ci dava più forza».
Com'era Firenze in quei mesi?
«Ricordo la fame, che fame... ho lottato con i cani randagi per strappargli pezzi di pane ammuffito. Ma c'era anche tanta solidarietà, tutti ci si aiutava e chi aveva qualcosa lo divideva con gli altri».
I comandanti partigiani uomini la rispettavano?
«Io comandavo 50 partigiani e alla vigilia della Liberazione si unirono a noi molti garibaldini scesi dalle montagne e alcuni ex-prigionieri di guerra russi, inglesi e scozzesi che ci aiutarono, e avevo il rispetto di tutti. E non ero un'eccezione. Le donne erano tante e avevano avuto un ruolo deciviso anche negli scioperi, da quelle delle tabacchine della Manifattura a quello della Galileo».
Il momento in cui ha corso più rischi?
«Mi ricordo benissimo tutte le volte che ho fatto la staffetta passando sopra Ponte Vecchio, nel corridoio vasariano, per portare gli ordini del Cln in Oltrarno (episodio ripreso da Roberto Rossellini in Paisà, ndr). Forse è stato quello».
Ha mai ucciso?
«Io per scelta non portavo armi, neppure in quei giorni. La guerra è dura e noi abbiamo fatto anche molte fucilazioni spicce con i tribunali militari del popolo in piazza Santa Maria Novella, ma non ci furono eccessi. Sapevano benissimo chi erano i veri fascisti».
Quando ha avuto paura?
«Sempre... Ma avere paura, non significava non avere il coraggio di superarla. Ho avuto paura ad esempio quando le Ss mi arrestarono a Perugia, sapevamo cosa significava e io lo sapevo bene, visto quanto era accaduto a mio fratello».
Come si salvò?
«Fui violentata e torturata dai nazisti, le vertebre mi fanno male da allora e oggi sono in carrozzella, e alla fine mi dissero: "Domattina ti fuciliamo". Ma un gerarca fascista, uno dei guardiani, continuava a dire "mi sembra una brava ragazza, non è una partigiana" e la notte mi fece fuggire. L'ho rivisto solo dopo la guerra, quando sono andata al suo processo ed ho testimoniato in suo favore, ricordando quanto aveva fatto, facendogli avere una riduzione di pena. Quando ci siamo parlati è stato emozionante; e lui mi ha detto che era diventato antifascista».
Ha qualche rimpianto per quei giorni?
«Uno solo. C'era un ragazzino repubblichino nel carcere delle Murate, un ragazzo che i fascisti avevano preso dal riformatorio e arruolato e parlandoci capii che la sua non era stata una scelta ideologica. Gli ho parlato a lungo, gli ho detto che lo avrei aiutato, che avremmo riconosciuto che lui era pentito. Ma continuava a ripetermi che era troppo brutto quello che aveva fatto, che non si perdonava anche se noi lo perdonavamo. E la notte dopo si uccise».
Qual è il messaggio della Liberazione per i ragazzi di oggi?
«Liberazione e Costituzione ci dicono che essere cittadini e non sudditi è una conquista. La grande lezione, da insegnare ai bambini fin da piccoli, è che ognuno deve essere responsabile della cosa pubblica. Che la libertà non è un dono e va sempre difesa».

l’Unità 10.8.08
Il concordato
di Furio Colombo


Dialogo o concordato? Non parlo di rapporto fra Stato e Chiesa. Parlo di opposizione e delle nuove misteriose vie di alcuni del Partito Democratico verso il potere e verso il governo.
Durante le lunghe pause del lavoro alla Camera, dove tutti parlano a lungo e parlano a vuoto, «perché comunque la mia legge uscirà dal Parlamento intatta, così come è stata voluta e scritta dal mio governo» (Berlusconi, a proposito della legge finanziaria definita «rivoluzionaria», 8 agosto), durante quelle lunghe pause ripenso ai due anni trascorsi al Senato, senza uscire un minuto, per presidiare il governo Prodi.
Di fronte a noi sedeva l’opposizione, un mezzo emiciclo rabbioso, violento, insultante, fantasioso nei modi diversi di sporcare l’aula, fare pipì sotto il banco, insultare come carrettieri (è un modo di dire antico che non corrisponde alla volgarità contemporanea) Rita Levi Montalcini, il presidente emerito Scalfaro, certe volte il presidente emerito Ciampi, tutti instancabili nel rendere impossibile il lavoro del Senato fino al punto di votare «no» (loro, la destra) al rifinanziamento e adeguamento di difesa delle missioni militari italiane nel mondo.
Lo so che mi ripeto. Ma rivedo quelle scene nel silenzio pacato della nostra aula, dove tanti trovano eccessivo se Di Pietro alza di un decibel la voce per denunciare la penuria di benzina e di fondi in cui è stata lasciata la polizia, e mi domando: dove saranno finiti quelli delle barricate di un Senato praticamente occupato, arringato ogni pochi minuti dal capo popolo Schifani, in un lungo tripudio di applausi, prima, durante e dopo le sue inaudite denunce di tutti i tipi di furto, menzogna e frode da parte di Prodi o di Padoa-Schioppa? Nei libri di lettura per bambini (parlo della infanzia pre-Gelmini) gente così sarebbe finita male, fuori dalla politica, che invece è - ti dicono - fatta da persone competenti e rispettose.
Ma se guardi il telegiornale li riconosci, mentre parlano col nuovo tono condiscendente di chi sa come si gestiscono le istituzioni, li troviamo immersi in alte cariche dello Stato, in ministeri chiave, o in funzioni di bertoldiana memoria (ricordate «scarpe grosse e cervello fino»?) come il fiabesco Ministero della Semplificazione.
Li ritrovi presidenti del Senato intenti a raccogliere sentite e trasversali testimonianze di solidarietà se subiscono attacchi pur mille volte più miti di quelli che lanciavano alla "rovinosa maggioranza di centrosinistra" (quando c’era), quella "che ha messo in ginocchio l’Italia", tanto che poi hanno dovuto rialzarla verso la crescita zero.
Li ritrovi sindaci, come il sindaco di Roma, uno con la croce celtica che ha avuto il pieno sostegno di tutte le minoranze fasciste rimaste sul terreno, uno che vuole armare i vigili urbani invece di vietare la sosta in tripla fila, uno che i soldati di pattuglia li ammette solo nei quartieri poveri, dove evidentemente tutti sono brutti, sporchi e cattivi, uno che, se non era per la indignazione solitaria della comunità di Sant’Egidio (non un editoriale o corsivo della premiata stampa libera), voleva far arrestare coloro che frugano nei cassonetti. Un pronto intervento umanitario, unico ma per fortuna efficace, ha salvato il sindaco di Roma da un proposito che davvero (per una volta si può dire) non era né di destra né di sinistra ma soltanto ignobile: arrestare gli affamati in quello stato di disperazione in cui vai a frugare nell’immondizia. Dispiace che una domanda non sia stata rivolta al sindaco: ma perché una simile crudeltà che, per giunta, è stupida e inutile? Perché diffamare Roma?
* * * *
Ma c’è un’altra domanda: perché un atto così vistosamente inaccettabile non ha fermato la corsa di alcuni grandi personaggi del centrosinistra verso le stanze, il lavoro, i progetti del sindaco Alemanno? Sto continuando la riflessione del direttore di questo giornale nel suo editoriale di ieri. "Grande", è una parola senza ironia, se mai segnata di tristezza, se parlo di Giuliano Amato, di Franco Bassanini, di alcuni che sono andati o stanno andando senza esitazione verso il ragazzo della Via Almirante, sindaco di estrema destra di Roma. O verso il ministro leghista Calderoli, quello delle forbici arrugginite da riservare agli immigrati. Scambiare Alemanno o Calderoli per Sarkozy sembra davvero eccessivo. Far perdere le tracce della propria identità è un colpo grave a qualunque cosa sia l’opposizione.
È vero, il fenomeno, benché inspiegabile, si allarga di ora in ora e di giornale in giornale. Per restare ai quotidiani dell’8 agosto, ho annotato:
Senatore Zanda: "A me la decisione di Amato non dispiace affatto".
Presidente della Provincia di Milano Penati: "Si torni a fare gioco di squadra" (intende con Moratti e Formigoni).
Presidente della Regione Lazio Marrazzo: "Sono grato, nel governo c’è chi mi difende".
Sindaco di Bari Emiliano: "Mi sono congratulato con il Governo per il pacchetto sicurezza" (È quello che impone le impronte digitali ai bambini rom, N.d.R.).
Sindaco di Vicenza Variati: "Non si demonizza chi sta al governo".
Quanto a Bassolino, Cacciari, Velardi, radici e storie e culture diverse, ma tutte "di sinistra", rifiutano con sdegno la mite firma richiesta da Veltroni "per salvare l’Italia". Sembrano davvero persuasi che, come spiegano, "non si firma contro il governo".
Giustamente, lo stesso giorno il Corriere della Sera apre il paginone della cultura con il titolo: "Sinistra, hai tradito i valori della patria". Era una vecchia storia di Orwell, ma che si adatta due volte in modo perfetto alla circostanza. Una prima volta perché ti fa capire che anche arrestare chi fruga nei cassonetti è più "da statista" che stare a sinistra, rinchiusi in una identità colpevole, misera e umile, mentre la vera vita politica trionfa altrove.
In quell’altrove, c’è il misterioso "berlusconismo". Se lo attacchi, vuole la leggenda, commetti un reato di estremismo che ti farà restare fuori dal potere e dai benefici del potere per altri vent’anni. Se non lo attacchi - ti dice la realtà di ogni Paese democratico in cui una vigorosa opposizione è ritenuta l’unica autocertificazione della libertà - resti per forza fuori dal potere e dai suoi benefici per tutti e cinque gli anni di una completa legislatura più i sette anni di un’intera presidenza della Repubblica.
Come uscirne? Chiarisce, per noi del Pd Enrico Letta che - nelle primarie - si era candidato per esserne segretario: "l’antiberlusconismo è definitivamente archiviato. Tutti si stanno interrogando sul post-berlusconismo e noi dobbiamo essere tra quelli". Essere post-berlusconisti mentre Berlusconi ricomincia appena a governare è come essere post-fascisti negli anni Trenta.
In questo clima un po’ allucinato, Orwell è più che mai di casa, lui che ha inventato "il ministero della verità". Non vi viene in mente quando sentite parlare del favoloso Ministro della Semplificazione, che siede allo stesso tavolo in cui una legge finanziaria triennale, priva di correlativa contabilità dello Stato, viene approvata in nove minuti senza che nessuno sappia che cosa c’è dentro? E senza che il ministro della semplificazione faccia una sola domanda, forse per non turbare il record dei nove minuti, non un secondo di più che ci sono voluti per approvare una manovra finanziaria triennale nel periodo più complicato e pericoloso della storia del mondo contemporaneo?
* * * *
Incombe la questione del dialogo, del fare un sacco di cose insieme, maggioranza e opposizione, "per il bene dell’Italia".
Per esempio, ti chiedono i Radicali, facciamo insieme la riforma della Giustizia. È un progetto nobile e dovuto. Ma è davvero proponibile discutere quel problema con un primo ministro che è sfuggito alla giustizia solo con leggi speciali fatte per lui, dalla "Cirami" al "lodo Alfano", una fuga durata dieci anni e fino ai nostri giorni, un specie di conte di Montecristo che ha scavato nei codici il buco della sua impunità? Una volta stabilito, capito e fatto capire da chi è fatta la leadership di questo governo (alcune notizie interessanti e rivelatrici ci giungono quasi ogni giorno alla Camera dagli interventi di personaggi dell’Udc di Casini, che sanno per esperienza di che cosa parlano) "il bene dell’Italia" non sarebbe meglio garantito da una tenace, chiara, implacabile opposizione che tenga alta e ben distinta l’identità diversa di chi si oppone?
"Senta, se devo proprio dirla tutta, le dirò che la questione del dialogo è stucchevole", ha detto due giorni fa Berlusconi ad una giornalista incalzante. Se volete una prova del nostro pentimento per l’uso del persistente e intrattabile "antiberlusconismo" eccola. Scrivo qui per la prima volta: "Berlusconi ha ragione". Lo so, i miei colleghi editorialisti della stampa libera lo scrivono tutti i giorni e poi si precipitano in televisione a ripeterlo. Per una volta - e pur sapendo che non trarrò gli stessi benefici e neanche un invito a "Ballarò" o a "Che tempo che fa" (parlo di fortini della resistenza televisiva) - lo dico anche io: "La questione del dialogo è stucchevole". Lo è perché Berlusconi, come ha dimostrato in tutta la sua vita, come continua a dire con assoluta chiarezza, non concepisce alcuna modifica di ciò che decide, scrive, annuncia o progetta. Meno che mai sulla Giustizia. Tutti e quattordici i punti proposti come base di discussione dal documento parlamentare dei Radicali eletti nel Pd sono importanti, storicamente fondati e di evidente urgenza. Ma ha senso discuterli con gli avvocati di Berlusconi? Non è un percorso che taglia di traverso "il bene dell’Italia" e porta altrove?
A meno di pensare che si debba discutere di Giustizia con Berlusconi come il Papato scelse di discutere di diritti religiosi della Chiesa con Mussolini. Non era fiducia nella religiosità di Mussolini. Era consapevolezza che il fascismo era ormai radicato e non c’era altra soluzione che accettarlo.
Quello che ci propongono, più che un dialogo, è un concordato con Berlusconi, mediato da Fini, che ha come simbolo il Campidoglio definitivamente di destra del sindaco Alemanno. Dunque l’accettazione del vincitore perenne.
Chi ci ha votato merita di più. Può essere legittimo dire che Di Pietro si occupa solo del suo partito, della sua immagine, della sua propaganda, quando si alza, irruente, alla Camera per denunciare ed accusare. Ma avremo il diritto di dirglielo solo dopo avere occupato tutto lo spazio di opposizione, davanti a milioni di italiani che hanno votato per noi e che aspettano. Finché aspettano.

l’Unità 10.8.08
«Dàgli al negro». E la spiaggia si scatena
Scene di razzismo a Porto San Giorgio e Pedaso. Bagnanti contro gli ambulanti: «Ha ragione Maroni»
di Sandra Amurri


Scene di razzismo in riva all’Adriatico. Venditori ambulanti, naturalmente di colore, costretti a fuggire, altri fermati dai bagnanti e consegnati alle forze dell’ordine. E a chi cerca di salvarli arrivano insulti: «Vattene, qui comandiamo noi». La cura xenofoba della destra sta producendo i suoi effetti. Anche in spiaggia.
«Fuori, qui comandiamo noi». Caccia al «nero» sulle spiagge

«MARONI HA FATTO LA LEGGE, QUINDI...» Scene di (già ordinario?) razzismo sul litorale delle Marche, dove il vento della nuova destra gonfia le vele dei peggiori istinti. Ambulanti segnalati e consegnati ai carabinieri, altri costretti a scappare. E ai villeggianti con un briciolo di senso umano urlano: «Non vi sta bene? Cambiate Paese»
«Devono tornare a casa loro... adesso comandiamo noi». Noi, i leghisti di Bergamo, di Verona in vacanza a Pedaso, borgo marinaro dove il fiume Aso dai Sibillini sfocia nel mare Adriatico, nel tratto tra Porto San Giorgio e San Benedetto del Tronto, nelle Marche. «Andate via voi, ma non vedete, è un essere umano che male vi ha fatto?», gridano i bagnanti del luogo e i turisti napoletani e pugliesi. Un folto capannello mi impedisce di vedere. Mi avvicino. Dentro quel cerchio umano, sul marciapiede che guarda il mare, c’è un ragazzo di colore, rannicchiato, il viso coperto dalle mani, come fanno i bambini quando vengono sgridati. Il sole a picco fa luccicare la sua pelle nera, come la vergogna delle parole udite. Un vigile, in piedi, gli blocca le spalle con le mani. «Cosa sta accadendo?» chiedo a un signore che indicando con il dito il «negro» risponde con tono carico di odio: «Non è in regola, non ci deve stare nel nostro Paese, deve tornarsene in Senegal». Mentre una signora mi spiega che è stato proprio lui a chiamare il vigile che lo rincorreva bestemmiando. Non si fa attendere la rivendicazione orgogliosa del signore in costume e marsupio blu sulla pancia, per la nobile impresa compiuta e per la sua appartenenza a quel Nord Italia che mostra i muscoli: «Sì, li ho chiamati io i vigili, ha qualcosa da ridire?», «No, mi complimento di cuore per il suo coraggio, certa che ne avrebbe altrettanto nel chiamare i vigili se un fuoristrada parcheggia sullo scivolo per handicappati o la capitaneria se un motoscafo si fosse avvicinato alla riva a motore acceso...». «Ma che c’entra? Quelli non sono fatti miei, invece questi qua - indicando di nuovo il “negro” con il dito - non hanno il diritto di venire a casa nostra. E poi Maroni ha fatto una legge? Allora, adesso comandiamo noi e se non vi va bene cambiate Paese». Mi torna in mente Sogno di un Valzer di Brancati, 1938: «Non è il fine che distingue i barbari dagli uomini civili, i santi dai delinquenti, ma i mezzi che si adoperano per raggiungere questo fine... dimmi che mezzi adoperi e ti dirò chi sei». Chiedo ai vigili perché lo tengano lì braccato. Risposta: «Aspettiamo i carabinieri per arrestarlo» mentre mi invitano dapprima a non impicciarmi, poi a fornire i documenti. Mentre la folla rimane divisa: da una parte i turisti del nord continuano a inveire contro quel ragazzo che la sola resistenza che oppone sono lacrime; dall’altra quelli del sud, che chiedono semplicemente rispetto umano. «Come ti chiami?» chiedo al ragazzo straniero mentre il vigile mi ripete che devo allontanarmi ed estrae la macchina fotografica per identificarmi. «Sono vigili stagionali», mi spiega invitandomi alla comprensione il vicesindaco di Pedaso, Barbara Toce, che si sta dando un gran da fare per risolvere al più presto la situazione. «Inesperti - rispondo - ma non incapaci di tradurre in azione l’aria che tira nel Paese». Intanto sento una voce flebile: «Mi chiamo Amid. Ho sete, mi prendi una bottiglia d’acqua?», lo vedo che tira fuori dalla tasca un euro e lo dà alla mia amica Donatella, atterrita, al mio fianco. Dignità in risposta a chi lo tratta come un topo che ha osato uscire dalla fogna per invadere la civiltà del lungomare di Pedaso. Dove un viale si chiama «Sacco e Vanzetti», e ogni sottopasso porta il nome di un cantante che ha fatto la storia della canzone impegnata come Gaber. O De Andrè: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori» si legge sulla targa affissa a pochi passi da Amid. Svuotata come se quella scena avesse sventrato gli uomini di tutte le loro attese rendendo la vita buia e il loro futuro incerto, ho telefonato a Don Franco Monterubbianesi, fondatore della Comunità di Capodarco e presidente di «Noi Ragazzi del Mondo». «La crisi è morale e culturale - dice - Il “come” vengono trattati oggi gli immigrati da noi è lo stesso “come” hanno sfruttato e sfruttano i popoli del Terzo Mondo senza rispetto per il loro sviluppo. Una legge disumana non sarà mai una legge giusta e, dunque, capace di risolvere il problema».
* * *
Ore 11 di un altro giorno. Chalet Barracuda a Porto San Giorgio dove spesso i gestori Sandro, Magda e Paola invitano a mangiare alla loro tavola i senegalesi, i pakistani che percorrono la spiaggia con i loro borsoni pesanti quanto la loro fame. Gli uomini della Capitaneria di Porto, rincorrono tre senegalesi che vendono collanine e pupazzetti di pelouche. Uno, vistosi perso, si tuffa in mare, perde la sacca, le collanine galleggiano e i pupazzetti anche. Elisa, 15 anni, corre a recuperarli, spera di poterglieli restituire. Ma il ragazzo non sa nuotare, torna indietro e lo arrestano. Intanto la caccia al nero continua. Arrivano i rinforzi: carabinieri e Guardia di Finanza. I bagnanti assistono sconcertati: «Sembra che stiano inseguendo delinquenti incalliti, spacciatori. Certo, sono irregolari, devono essere espulsi, ma come lo fanno è da brivido». E la spiaggia si trasforma presto in un’arena dove c’è chi dà voce alla sensibilità ferita, chi resta indifferente, e chi, come i turisti del nord «dito medio alzato» alla Bossi, gode mentre quegli «sporchi negri» vengono ammanettati. Non sanno che qui con gli «sporchi negri» si condivide il pane e anche i sorrisi, nelle scuole come nelle fabbriche, e che le persone sanno, come scrive Cheikh Tidiane Gaye in Mery principessa albina che «chi ignora il rispetto dei cuori altrui, s’investe della propria autorità ma non di quella del suo popolo e di conseguenza svalorizza la sua terra».

l’Unità 10.8.08
Primo, vietare. Le regole dei sindaci sceriffi


Divieto di sosta ai camperisti, di panchina agli anziani, di massaggi al mare
Denunciate sei prostitute a Genova: di nascosto, facevano le massaggiatrici. Lo hanno testimoniato i loro clienti, interrogati dai carabinieri: altro che prestazioni sessuali, per chi lo chiedeva c’erano veri massaggi relax, con tanto di tariffario. A colpo d’occhio sembra la notizia del postino che azzanna il cane, quella che si insegna nelle scuole di giornalismo. La realtà all’incontrario. Invece è uno dei primi effetti della rinvigorita attenzione alla salute pubblica voluta dalla responsabile del dicastero della Salute, Francesca Martini, che ha vietato severamente ogni massaggio non autorizzato (le associazioni di categoria - delle massaggiatrici - ringraziano).
In realtà l’ordinanza ministeriale se la prende in particolare con le ambulanti cinesi, che sulle spiagge cospargono di olii e profumi i vacanzieri, e vuole «prevenire gli effetti pericolosi che possono essere generati dalla pratica sulle spiagge di prestazioni estetiche o terapeutiche», senza «adeguata preparazione e competenza»; e ne affida ai sindaci la sua applicazione. Ma i sindaci, da parte loro, si stanno già dimostrando particolarmente creativi nel fare gli «sceriffi», con i nuovi poteri che gli ha affidato il ministro Maroni.
Fino a qualche mese fa il Tar interveniva annullando le ordinanze più stravaganti, come quelle del sindaco di L’Aquila che - alle prese con una «guerra» personale contro un cane di nome Briciola - se n’è viste annullare addirittura tre; o quella del sindaco di Galliate che aveva vietato alle «gattare» di dar da mangiare ai micini randagi. Questa, invece, è l’estate dell’«ordinanza crativa» (denominazione d’origine controllata: se l’è inventatata il ministro, non i giornalisti), e in nome della sicurezza e del decoro i sindaci stanno dando sfogo alla fantasia: oltre a tutte le norme anti-lavavetri, anti-borsoni, anti-accattonaggio, anti-nudità (multe a raffica ad Amalfi per chi si toglie la maglietta), ormai in certe città è persino vietato sedersi sulle panchine in più di tre, o bighellonare di notte. I turisti sono avvertiti: meglio girare con la mappa aggiornata dei divieti, città per città.
Sui blog di internet sono insorti i camperisti per la decisione del comune di Vicenza contro i bivacchi di camper e roulotte nei parcheggi pubblici; a Voghera sono insorti i vecchietti, ai quali è stato vietato l'utilizzo delle panchine pubbliche a partire dalle 23 se si mettono a chiacchiera «in gruppi composti da più di tre». Ma a Novara è anche peggio: il sindaco ha imposto il divieto di sostare in parchi e giardini in più di due persone. E a Genova nei carrugi del centro storico non si può più passeggiare con una bottiglia o una lattina di bevande alcoliche in mano (come a Campo de’Fiori a Roma), pena una multa che va dai 25 ai 500 euro.
Più rigide le «invenzioni» anti-immigrati, a partire da Cernobbio, dove chi vuole la residenza deve accettare un'ispezione igienico-sanitaria della sua casa da parte di agenti di polizia municipale; ordinanza subito imitata dai comuni di Romano d'Ezzelino, Teolo, Loria, Montegrotto Terme, Caravaggio. Capofila resta comunque Flavio Tosi, il sindaco leghista di Verona. Quello che fece piangere una bambina in visita alla città, multata perché mangiava un panino sulla scalinata del municipio.

l’Unità Firenze 10.8.08
Decoro in città, a Firenze vietato sgarrare
Domani entra in vigore il nuovo regolamento di polizia urbana con 46 «norme per la civile convivenza». Tolleranza zero con gli abusivi, multe per chi getta cicche o carte in terra
70 vigili di pattuglia e possibili sanzioni tra 25 e 500 euro
di Silvia Casagrande


Il comandante dei vigili: «Sono solo regole di buonsenso»

Ieri sera sulle scalinate di S.Nicolò un gruppo di ragazzi faceva a gara di gavettoni: «Ci sfoghiamo stasera, visto che da lunedì sarà vietato». Anche le pigne di ponte Santa Trinita erano piene di giovani seduti a chiaccherare: un’altra tradizione destinata a scomparire, come conferma il comandante dei vigili Alessandro Bartolini: «Salire o sostare su luoghi che costituiscono pericolo per la propria incolumità comporterà una sanzione di 160 euro. La multa raddoppia nel caso che i trasgressori abbiano bevuto».
Questo e altro è contenuto nel nuovo regolamento di Polizia urbana, che entrerà in vigore domani mattina alle otto. Le “norme per la civile convivenza” sono intese a salvaguardare il decoro in città, ma anche a infondere nei cittadini il senso civico che si respira nelle maggiori capitali europee, i cui abitanti non hanno nemmeno bisogno del deterrente della sanzione monetaria per non gettare cartacce a terra. Tant’è che il capo dei vigili Alessandro Bartolini non è preoccupato del fatto che il regolamento non sia ancora stato tradotto e distribuito ai turisti: «Le norme non sono che regole di buon senso che i turisti il più delle volte rispettano anche dove non ci sono cartelli che le esplicitano».
Da lunedì Firenze si andrà quindi delineando sempre di più come una città europea: ordinata, decorosa e pulita. Chi può dirsi contrario? Eppure in questa corsa verso lo stile nordico, si rischia di perdere proprio quei caratteri di folklore che ci contraddistinguono. Ci sono figure emblematiche dell’italianità che da lunedì saranno costrette a scomparire: i panni stesi all’aria dalle finestre, l’artigiano che lavora sulla soglia della sua bottega, e perfino i richiami con cui l’arrotino o il venditore del mercato attirano i clienti, vietati perché causano inquinamento acustico, ma soprattutto perché «non è conveniente».
E COSÌ, da domani mattina alle 8 entra in vigore il nuovo regolamento di polizia urbana. Durante la prima settimana, un totale di 70 vigili giornalieri saranno impiegati per far rispettare giorno e notte le 46 nuove norme. I trasgressori saranno tenuti a pagare sanzioni che vanno da un minimo di 25 euro a un massimo di 500. Saranno a carico del trasgressore anche le spese per il ripristino dello stato precedente alla violazione. Nell’attesa che il regolamento venga inviato al domicilio di tutti i cittadini, insegnato a scuola nelle ore di educazione civica, nonché tradotto in cinque lingue e distribuito nei centri di accoglienza turistica, può essere utile fare un veloce riepilogo su quelli che saranno i nuovi divieti:
Ubriachezza: vietata nei luoghi pubblici
Fontane: proibito immergersi, far bere i cani e gettarvi monetine
Biciclette: proibito legarle a barriere di protezione dei monumenti, panchine e altri arredi urbani
Cani: dovranno essere tenuti al guinzaglio (e museruola per quelli di razze pericolose) e sarà vietato condurli "non detenendo le attrezzature opportune per rimuovere gli escrementi". Purtroppo sembra essere stata abbandonata l'idea di installare sui marciapiedi gli appositi distributori di sacchetti, provvedimento che aiuterebbe senz'altro a tenere pulita la città e che è consuetudine consolidata già nel resto d'Europa
Gettare per terra cartacce e mozziconi di sigaretta: il divieto di buttare le cicche entrerà in vigore già domani, anche se per i mille posacenere promessi da Cioni bisognerà attendere settembre.
Esigenze fisiologiche: proibito soddisfarle fuori dai luoghi deputati
Bivacco e campeggio: anche sdraiarsi sul suolo pubblico o sulle panchine sarà vietato, mentre mangiare un panino sui gradini del Duomo sarà ancora permesso
Vendita ambulante: vietata all'interno della cerchia delle mura. Non sarà necessaria la flagranza di reato: i vigili potranno anche multare chi detiene borsoni in cui sia contenuta merce "che per quantità e qualità non costituiscano il normale acquisto personale"
Scritte o disegni sui muri: sono vietati, ma è stata modificata la norma “beffa” secondo la quale il ripristino sarebbe stato a carico del proprietario del muro imbrattato; se ne occuperà invece l'amministrazione comunale
Locali pubblici: dovranno garantire la quiete e la pulizia al loro interno ed esterno. Sarà obbligatorio mantenere i bagni in buono stato e consentirne l’utilizzo a chiunque ne faccia richiesta.
Accattonaggio: si può chiedere l’elemosina a patto di non essere d’intralcio. Sarà vietato utilizzare animali di qualsiasi specie per mendicare.
Aiuole: sarà permesso calpestarle, a meno che il divieto non sia palesemente espresso
Artisti di strada: vietati tutti gli spettacoli che non siano stati autorizzati dal Comune
Prostituzione: proibito esercitarla con abbigliamento e atteggiamento non rispondente ai canoni della pubblica decenza e nelle zone abitate

Corriere della Sera 10.8.08
Firenze Cioni, l'uomo delle ordinanze anti-lavavetri: no a candidati imposti dall'alto. E la base pd è con lui
L'assessore sceriffo: primarie vere o scateno la rivolta
di Marco Gasperetti


FIRENZE — Davanti a Palazzo Vecchio, nel cerchio che ricorda il rogo del Savonarola, l'assessore lancia l'ultimatum al partito: «Sono stato un bravo soldato, ho ubbidito, sempre. Stavolta però scateno una rivolta». Che non sarà quella dei Ciompi, che nell'agosto del 1378 sconquassò Firenze, ma che si annuncia velenosissima, tutta da combattere tra le mura del Pd.
Graziano Cioni, 61 anni da Empoli, l'amministratore sceriffo delle ordinanza contro lavavetri e abusivi, mendicanti e ragazzacci ubriachi e denunciatore di corruttori (ne ha fatti arrestare due con le mazzette in mano), ha deciso di contrastare chi, come Roma e parte dell'establishment del partito fiorentino e toscano, ha deciso di «trasformare in una burletta» le primarie del Pd per l'elezione, nel 2009, del nuovo sindaco.
«Vogliono primarie di coalizione per imporre un paio di candidati scelti dal partito senza consenso popolare — spiega Cioni —. Insomma si rifiutano, di far votare la base, la gente, il popolo».
I tumulti, che Cioni annuncia, potrebbero arrivare entro le prime due settimane di settembre, quando l'assessore organizzerà l'assemblea dell'Associazione Firenze democratica, 2.600 inscritti, componente politica del Pd fiorentino, inventata dallo stesso Cioni e alla quale aderiscono il presidente del consiglio provinciale, Massimo Mattei e gli assessori comunali all'Economia, Riccardo Nencini e al Bilancio, Tea Albini.
«Nel Salone rosso del palazzo dei congressi decideremo che nessuno può fare trucchi — annuncia Cioni — come la candidatura di Rutelli che fu decisa da Veltroni. Diremo che i candidati del partito a sindaco li devono scegliere i nostri elettori, che le nomenclature non esistono più e le telefonate da Roma sono fuori dalla storia».
I detrattori dicono che dietro la crociata di Graziano, dalemiano di ferro, c'è anche un bel conflitto di interessi. Cioni, se pur non ufficialmente, è un candidato sindaco in pectore. È stato lui ad ottenere in due sondaggi le maggiori preferenze della base dopo Achille Serra e siccome la candidatura dell'ex prefetto di ferro è tramontata, lo «sceriffo» avrebbe grandissime possibilità di sedere sullo scranno più alto del Salone dei Duecento. A oggi l'unica candidatura ufficiale è quella di Daniela Lastri, assessore all'Istruzione e circolano i nomi del parlamentare Lapo Pistelli e del presidente della Provincia, Matteo Renzi, mentre l'ex ministro Vannino Chiti, dalle pagine del Corriere Fiorentino, ha declinato l'offerta.
A riprova dell'apprezzamento di Cioni ieri è arrivato un documento firmato da un quarto dei coordinatori dei circoli del partito, le vecchie sezioni, nel quale si ammoniscono Roma e la nomenclatura fiorentina e toscana del Pd, a non imporre candidati.
A difendere la scelta di primarie di coalizione sono da Roma il responsabile nazionale Organizzazione dei democratici, Andrea Orlando e il presidente della Regione, Claudio Martini. Con Cioni, per primarie «senza candidati imposti», c'è il segretario del partito fiorentino, Giacomo Billi, per ora in religioso silenzio. Un soldato pure lui. Sull'orlo di una crisi di nervi.

l’Unità 10.8.08
«Ritardi e anestesisti obiettori: la mia Odissea per un aborto terapeutico»
di Gioia Salvatori


La storia di Cinzia: il feto era idrocefalo, la scelta di intervenire. «Se hai un figlio malformato non importa a nessuno»
Martedì le analisi, solo ieri l’operazione dopo giorni di dolori. «La lista dei non-obiettori? A ostetricia non c’è»

VENERDÌ PRIMO agosto, venerdì 8 agosto. La settimana più lunga di Cinzia, nome di fantasia, è iniziata quando in un centro privato del veronese un uomo in camice bianco le ha consegnato l'ecografia morfologica del suo primo figlio, quello che da 20 settimane era nella sua pancia. Idrocefalo e con i reni displastici, «incompatibile con la vita», come si dice in gergo medico. Cinzia e il suo compagno non hanno dubbi: il bambino non sopravviverebbe, portarlo fino al nono mese non ha senso. Optano per l'aborto terapeutico. Il tempo c'è, due settimane, ma i giorni passano tra Verona e Roma in un ordinario calvario di informazioni sbagliate, ferie d'agosto, medici e anestesisti obiettori che non praticano neppure l'aborto terapeutico. Solo ieri all'ora di pranzo, dopo 8 giorni dalla diagnosi e un viaggio da Verona a Roma, Cinzia ha espulso il feto, morto, all'ospedale romano San Camillo-Forlanini. È successo in un reparto di maternità, tra mamme felici, neonati e papà con i mazzi di fiori: il reparto di ginecologia di uno dei più grandi ospedali romani, infatti, è chiuso dal 4 agosto al 7 settembre per mancanza di infermieri. Appena tornata dalla sala parto, dopo tre giorni passati tra contrazioni e vomito, Cinzia si sente serena ma racconta di una settimana dura: «Anche se al San Camillo mi hanno accolto e coccolato per quanto potevano - racconta - ho pensato più volte che se nella pancia hai un figlio malformato, di quel bambino non importa niente a nessuno». L'ordinario calvario di Cinzia è iniziato lunedì al nosocomio veronese Borgo Roma: «Mi hanno prospettato uno scenario devastante: mi hanno detto che, come da prassi, avrei dovuto fare risonanza magnetica al bambino più due visite psichiatriche e che la mia fertilità futura era a rischio. Mi hanno chiesto anche perché avevo fatto la villocentesi». Cinzia, 33enne con un buon lavoro nel terziario e una relazione stabile, quel figlio lo vuole. Ma non per farlo nascere e vederlo morire. Così sfrutta un contatto a Roma, città di cui è originaria, e, passato lo scorso weekend, va dritta al San Camillo. «Martedì ho fatto le analisi, mercoledì pomeriggio hanno iniziato a indurre il parto ma il mio corpo non reagiva e io pensavo di cavarmela in due giorni, volevo cavarmela in due giorni perché ogni ora, quando sei in questo stato, è un'eternità. Quando venerdì mattina mi hanno detto che non c'era l'anestesista non obiettore sono andata in tilt». Così la donna contatta i giornali e i vertici dell'ospedale. Solo alle 21 si trova un anestesista che fa l'epidurale a Cinzia che, nel frattempo, è stata portata in sala parto. «Venerdì mattina non c'erano le condizioni cliniche per fare l'epidurale alla donna - racconta Giovanna Scassellati, medico responsabile del reparto per la 194 del San Camillo - Ciò non toglie che il problema degli anestesisti obiettori (4 su nove anestesisti del reparto ostetricia n.d.r.)ci sia, e non solo durante l'estate ma anche d'inverno. Nel reparto per la 194 mi è capitato di non poter praticare aborti fino a mezzogiorno perché non c’era l’anestesista».
Eppure nell'ospedale ci sono in tutto 152 anestesisti. Però in ostetricia, dove sarà ricoverata fino a domani Cinzia, non hanno la lista dei non obiettori: «Pur avendola richiesta da due anni» - come racconta il primario Claudio Donadio. Non solo obiezione di coscienza, dunque, il calvario di Cinzia è una storia fatta anche di disorganizzazione ospedaliera, di reparti chiusi per ferie e reparti che non comunicano. Eppure l'ordinario calvario di Cinzia si sarebbe potuto evitare se in Italia fosse stata disponibile la pillola abortiva Ru 486: «Induce il parto in 6 ore - spiega la Scassellati - le prostaglandine possono agire anche dopo una settimana. Questa pillola ha passato l'esame della commissione farmaco all'Aifa, quanto dovremo ancora aspettare per poterla usare negli ospedali? Per altro non dà gli effetti collaterali portati dalle prostaglandine, vomito e dolori in primis». Ma questo è un altro capitolo. In attesa che qualcuno si ricordi di scriverlo le donne continueranno ad espellere i loro figli malformati e destinati alla morte dopo tre giorni di contrazioni, dolori e pensieri devastanti. Forse sotto anestesia, sempre che ci sia il medico non obiettore, forse nel reparto giusto, a meno che non sia chiuso per ferie.

l’Unità 10.8.08
Vincenzo Carpino, Presidente dell’associazione rianimatori-anestesisti
«Nessuna omissione di soccorso la coscienza prima di tutto»
di Massimo Palladino


Il caso del San Camillo di Roma, riporta l’attenzione sulla presenza di ginecologi e anestesisti non obiettori nelle strutture dove viene praticata l’interruzione di gravidanza. Vincenzo Carpino è il presidente dell’Aaroi, l’associazione che rappresenta 50mila medici rianimatori-anestesisti in tutta Italia.
Tenendo bene a mente che c’è una precisa normativa in vigore, perché si verificano situazioni simili?
«Nelle strutture pubbliche deve essere garantita la presenza di figure che assolvano a questo compito, mi riferisco al ginecologo e all’anestesista. Questi due professionisti hanno la possibilità di dichiarare, scrivendolo, di essere obiettori. Per quanto riguarda gli anestesisti la media nazionale dei non obiettori si aggira attorno al 30%. Nel nostro lavoro, nelle unità operative si prevede una serie di compiti: cito l’anestesia generale, la terapia del dolore, la terapia iperbarica, la presenza in prima linea con il 118 e naturalmente c’è l’interruzione di gravidanza. A questo punto poniamo il caso che su dieci medici in servizio, tre siano non obiettori. Occorre organizzare il lavoro in maniera tale che nessun giorno rimanga scoperto. Cioè i medici non obiettori devono essere presenti e garantire l’attività in maniera corretta. In questo caso, il periodo di ferie avrà scombinato i turni e così si è trovato l’anestesista obiettore invece che non obiettore».
Dove può arrivare il “no” del medico obiettore, detto altrimenti qual è il limite tra diritto alla salute e omissione di soccorso?
«L’obiezione va rispettata per legge e la norma prevede che si rispetti l’obiezione prima di ogni altra cosa. Nessuno può costringermi a fare l’aborto. È compito della dirigenza della struttura organizzare e coprire adeguatamente i turni di servizio».
La domanda è come mai non c’era?
«Intanto prendiamo atto della nota dell’ospedale Comunque è un problema comune a tutti gli ospedali: gli anestesisti sono pochi, gli obiettori ancora meno e le attività non riescono ad organizzarsi come si deve».

l’Unità 10.8.08
Amato con Alemanno, il Pd si divide
Cofferati e Cacciari: operazione che non convince. Martina e Zanda: scelta limpida, non demonizzare
di Andrea Carugati


GIULIANO AMATO come Attali per Alemanno-Sarkozy? Due giorni dopo l’annuncio del sindaco di Roma, la scelta dell’ex ministro degli Interni di presiedere una commissione bipartisan per lo sviluppo di Roma Capitale continua a non suscitare grandi entusiasmi nel Pd. Di secchi no alla collaborazione ne sono arrivati solo un paio, quello di Rosy Bindi e quello di Franco Monaco. «Un’iniziativa che non mi piace, il confronto tra maggioranza e opposizione si fa in parlamento», ha detto l’ex ministro della Famiglia. Molti dirigenti Pd, complice la giornata estiva, scelgono di non commentare. Enrico Letta, pur premettendo che «la scelta di Amato è condivisibile», spiega che «scimmiottare la commissione Attali, che in Francia è già di fatto tramontata, mi pare solo provincialismo».
Perplessi anche due sindaci di primo piano del Pd come Cofferati e Cacciari. «I rapporti tra maggioranza e opposizione sui grandi temi sono sempre auspicabili», dice il sindaco di Bologna, «ma in questo caso mi sembra che i grandi temi non ci siano, mi sembra soprattutto un’operazione politica. Capisco la commissione promossa da Sarkozy, ma questa ripetizione su scala ridotta dello stesso modello ha una finalità tutta politica, diversa da quelle dichiarate. In Francia si parlava di grandi riforme per rilanciare una nazione, non vedo l’esigenza di coinvolgere personalità così autorevoli come Amato per affrontare temi amministrativi». Un operazione di immagine di Alemanno? «La gente giudicherà i risultati, se non ci saranno l’operazione si ritorcerà contro chi l’ha promossa». Ma queste operazioni possono confondere l’elettorato del Pd? «Credo che questa mossa lasci piuttosto indifferenti, non determinerà alcuna pulsione tra gli elettori, nè in positivo nè in negativo», conclude Cofferati. Cacciari è sostanzialmente d’accordo: «Non ho davvero capito quali siano i compiti di questa commissione». E gli elettori? «Quelli del Pd sono già molto confusi a prescindere dalla scelta di Amato, che avrà un peso irrisorio». «Però Amato potrebbe essere utile ad Alemanno: visto che i Comuni, come al solito, sono massacrati dai tagli avere al proprio fianco un uomo così potente e con rapporti urbi et orbi potrebbe essere un modo per sfangarla...», chiude Cacciari.
Tra i favorevoli all’operazione Francesco Boccia, deputato vicino a Letta e iscritto all’associazione dalemiana Red: «Polemizzare su una scelta limpida come quella di Amato è sintomo di una visione partigiana e miope della politica. Spero che nel Pd si smetta di considerare come tradimenti delle forme alte di collaborazione istituzionale». Un’opinione analoga l’aveva espressa nei giorni scorsi fa il vicecapogruppo in Senato Luigi Zanda: «Se Berlusconi fosse stato intelligente, l’avrebbe chiamato lui Amato per una commissione Attali nazionale». Anche Maurizio Martina, segretario del Pd lombardo, sottolinea questo aspetto: «Alemanno una mossa l’ha fatta, mentre a livello nazionale gli annunci di Berlusconi sul dialogo non hanno avuto alcun seguito, anzi i comportamenti del centrodestra sono andati tutti nella direzione opposta. Amato ha sempre avuto una propensione al dialogo istituzionale, la sua scelta non mi sconvolge e non capisco i polveroni».
Critico Antonio Di Pietro: «Rispetto la scelta di Amato, ma io non l’avrei fatto, per non dare un messaggio di compromesso politico. Temo che gli elettori del Pd vadano in confusione: prima ce la prendiamo con Alemanno che ha sparato addosso a Veltroni e poi collaboriamo con lui? No, hanno vinto dunque si assumano la responsabilità di governare, è troppo bello che sia uno del Pd a togliergli le castagne dal fuoco». Sulla scelta di Alemanno, il leader dell’Idv ha le idee chiare: «È furbo, prende due piccioni con una fava: ingabbia l’opposizione e arruola uno che può aiutarlo a risolvere i problemi».

Corriere della Sera 10.8.08
Israele e la Pensione finale
di Sergio Luzzatto


Nella sensibilità collettiva dell'Occidente, l'immagine di Israele è indissolubilmente legata — non senza ragioni — alla tragedia storica della Shoah. E le classi dirigenti dello Stato ebraico non hanno mai rinunciato, né rinunciano a utilizzare la memoria di quella tragedia come uno strumento della loro politica estera. Ma in politica interna, il destino dei sopravvissuti della Shoah è sempre stato meno glorioso di quanto noi occidentali potremmo essere tentati di credere. Lo dimostra anche una misura recentissima del governo Olmert, che ha deciso di rinviare al 2009 l'eventuale versamento di una (modesta) pensione agli ultimi 43 mila superstiti israeliani della «Soluzione finale» (età media, ottantaquattro anni). Nello Stato ebraico si assiste così a un paradosso che andrebbe considerato derisorio, se non fosse scandaloso. Secondo dati raccolti dall'ufficio stesso del primo ministro, l'ottantasette per cento degli anziani più poveri di Israele sono uomini e donne scampati ai campi di sterminio.

Corriere del Trentino e Alto Adige inserto del Corriere della sera 10.8.08
Il sogno tra epica e simbologia
Viviamo due ore a notte nel mondo onirico l'espressione più segreta e impudica dell'io
di Brunamaria Dal Lago Veneri


Quest'anno sono così sprofondata nel lavoro di raccontare che me lo sogno persino di notte con frasi e citazioni talmente vive che... magari le avessi da sveglia. «E Dolasilla, la principessa dei Fanes, sognò di cavalcare in una landa desolata con grandi rocce color della luna e cespugli di ginepro neri e minacciosi». Oppure: «Nel cuore della notte, Gilgamesch si svegliò di soprassalto. "Mi hai forse svegliato tu? — chiese al compagno — Perché, se non sei stato tu, deve essere stata la forza del mio sogno. Infatti ho sognato che la montagna ruzzolava sopra di me, quando d'un tratto appariva davanti ai miei occhi l'uomo più bello del mondo, che mi tirava fuori da sotto i macigni e mi rialzava in piedi". "Amico — rispose Enkindu — il tuo sogno è un presagio" ».
La prima citazione è dal poema epico Il Regno dei Fanes, il più antico dei poemi epici delle Dolomiti; la seconda deriva dalla storia più antica del mondo, ed è la storia di Gilgamesch, più antica della Bibbia e perfino di Omero, più antica dei poemi epici indiani. I popoli che la scrissero furono i Babilonesi, gli Assiri, gli Ittiti, i Cananei e risalgono a 1600-1250 anni prima di Cristo, ma di sogni premonitori si parla nella Bibbia, in Omero, «la via dei Canti» é secondo Bruce Chatwin, il mezzo evocativo delle storie degli antenati, cioè il sogno.
Ma cos'è il sogno? Secondo Frederic Gaussen il sogno è il simbolo dell'avventura individuale, così profondamente collocato nell'intimità della coscienza da sfuggire allo stesso creatore, il sogno è l'espressione più segreta e impudica di noi stessi. Almeno due ore per notte viviamo nel mondo onirico dei simboli... quale fonte di conoscenza su di noi e sull'umanitá se potessimo sempre ricordarceli tutti e interpretarli!
L'interpretazione dei sogni, ha detto Freud, è la via maestra per giungere alla conoscenza dell'anima.
Le idee sul sogno, come simbolo, si sono molto evolute e non spetta a me di farvene la storia. Anche oggi gli specialisti sono divisi. Per Freud sono l'espressione, cioè il compimento, di un desiderio represso. Per Jung l'autorappresentazione, spontanea e simbolica, della situazione attuale dell'inconscio, per J. Sutter, ed è la definizione meno interpretativa, il sogno è un fenomeno psicologico che si produce durante il sonno ed é costituito da una serie di immagini il cui svolgimento rappresenta un dramma più o meno concatenato.
Il sogno sfugge quindi alla volontá del soggetto: il suo svolgersi notturno è spontaneo ed incontrollato. La coscienza della realtà si cancella e si dissolve il senso della propria identitá. Il confine fra la notte e il giorno viene sorpassato: «La vita è sogno» scriveva Calderon della Barca, e Chuang-tzu, poeta cinese, non sa più se è Chuang-tzu ad aver sognato di essere una farfalla, o se è una farfalla che ha sognato di essere Chuang-tzu.
Roland Cahen, sintetizzando il pensiero di Jung, scrive: «Il sogno è l'espressione dell'attività mentale che vive in noi, che pensa, sente, esperimenta, specula in margine alla nostra attivitá diurna e a tutti i livelli, dal piano piú strettamente biologico a quello più spirituale dell'essere, senza che noi lo sappiamo coscientemente ». Quale valore quindi attribuire alla attivitá onirica? Le risposte sono più d'una, in conformitá con i vari livelli di interpretazioen. La visione che si ha in sogno è un fenomeno, un evento, o invece, facendo parte di quel livello umano in cui non si esercita la volontà, rientra nell'area dell'irrazionale, del proveniente da «fuori »? L'antico Egitto dava ai sogni un valore soprattutto premonitore. «Il dio ha creato i sogni per indicare agli uomini la strada su cui possono scorgere l'avvenire », dice un libro sapienziale.
I sacerdoti-lettori, scribi sacri od onirocriti, interpretavano nei templi i simboli dei sogni, seguendo le indicazioni trasmesse di generazione in generazione. La divinazione attraverso i sogni o oniromanzia, era praticata ovunque. Chi non ricorda gli aruspici, gli auguri, sacerdoti che interpretavano il volere degli dei attraverso l'osservazione dei sogni celesti? Il rituale dell'auspicio è una paratica divinatoria di antichissima origine, condivisa dai Romani, dai Veneti, i Sanniti, e altre popolazioni italiche, ed è passata agli Etruschi, che sembra l'abbiano derivata dal contatto con la cultura con il vicino Oriente e ritrovata anche presso i popoli celtici.
Per tutti gli Indiani dell'America del nord, il sogno è il segno ultimo e decisivo dell'esperienza. I sogni sono all'origine della liturgia, conferiscono il potere allo sciamano, da loro proviene la scienza medica, il nome che si dará ai figli e i tabù. Sono i sogni che ordinano le guerre, le battute di caccia, le condanne a morte, gli aiuti da recare. I sogni sono il tramite con gli antenati che comunicano in questo modo con i vivi dando loro dei veri e propri messaggi.
Ma quali sono e come si possono catalogare i sogni? Primi fra tutti ci sono i sogni profetici, attribuiti a potenze celesti. Poi ci sono i sogni iniziatici, dello sciamano o dell'eletto o del profeta, che attraverso il sogno si vede attribuito un compito o una via (l'illuminazione del Buddha, Maometto predestinato ad essere l'apostolo di Allah, i sogni dei fondatori di ordini religiosi, le apparizioni, i miracoli, i santuari).
Ci sono poi i sogni telepatici, che mettono in contatto con pensieri o sentimenti di persone o di gruppi lontani. I sogni di sogni di altri, la capacità di entrare nei sogni altrui. I sogni visionari che propongono visioni, per lo più mistiche che innestano processi di cambiamenti. La visione-rivelazione di Mose é paradigmatica: la visione-sogno del roveto ardente è la promessa segno della liberazione del popolo dall'Egitto. I sogni premonitori che avvisano di avvenimenti. Per ultimi i sogni ad occhi aperti, che mettono in atto tutto il bagaglio delle speranze e delle aspirazioni dell'uomo.
Ma quali sono allora le vere funzioni del sogno? Ci si potrebbe chiedere se la mancanza di sogni è un grave segno di squilibrio mentale. I desideri, le angosce, le difese, le aspirazioni, le frustrazioni dello stato conscio troveranno nelle immagini oniriche ben intese una salutare compensazione?
Da ciò deriva necessariamente l'analisi dei simboli onirici, il loro contenuto, il significato e la sua finalità. E qui la storia non ha più fine, perchè si imbastardisce fra le analisi psicologiche e le credenze magiche.
Non bisogna mai dimenticare che si sogna sempre di sé e attraverso se stessi. Che cos'è il libro dei sogni e la lettura dei sogni? Perchè ai sogni si unisce spesso un numero (da giocare al lotto)? Come finire?
Sognando di sognare, magari il sogno di un altro.

Repubblica 10.8.08
E tutti sparavano sul quartier generale
di Eugenio Scalfari


TANTE cose che accadono tutte insieme e delle quali ci sfugge il senso. Tante casematte munite di potenti cannoni che sparano da parti diverse sul Quartier Generale. Ma esiste ancora un Quartier Generale? Tanta confusione sotto il cielo che segnala l´emergere d´una nuova storia. Oppure è la vecchia storia che sotto forme diverse si ripete con inevitabile monotonia? Il potere. Quella che sta andando in scena a tutti i livelli è ancora una volta l´eterna vicenda del potere, quello mondiale e quelli locali, scontro di poteri vecchi e nuovi, terremoti improvvisi e scosse di assestamento. Aumentano dovunque le diseguaglianze. Tra ricchi e poveri, tra esclusi e inclusi, tra giovani e vecchi, tra istruiti e ignoranti, tra sani e malati, tra Nord e Sud e Est e Ovest, tra religioni e miscredenze, tra maschi e femmine, tra fanatici e tolleranti. Le popolazioni del pianeta hanno le convulsioni e non sappiamo se esse anticipano un generale declino o piuttosto una nuova aurora. Del resto non è la prima volta e il XX secolo è stato attraversato da fenomeni analoghi.
Ma questo che si sta svolgendo sotto i nostri occhi è amplificato dalla tecnologia. Avviene ed è percepito dai quattro angoli del mondo in tempo reale e questo fa la differenza.
* * *
I giochi olimpici si svolgono in un immenso paese dominato da un regime autocratico che si sta modernizzando con un tasso di crescita dell´8 per cento l´anno. Un miliardo e 300 milioni di anime delle quali almeno un terzo sono già incluse nella civiltà dei consumi mentre un altro terzo vi entrerà tempo una o due generazioni.
L´autocrazia spinge e regola il mercato. Pervasa dalla corruzione come tutte le autocrazie e come tutte le democrazie, l´austerità non alligna in nessun luogo dalla Grecia di Pericle alla Roma dei Cesari, dalla Compagnia delle Indie alle Corti del Rinascimento.
I giochi rappresentano uno scenario ideale per celebrare la lealtà sportiva e l´amicizia tra i popoli in un contesto di lotte sordide e corposi interessi. In piccolo ne vediamo la ripetizione domestica per quanto sta accadendo all´Expo milanese: Moratti, Tremonti, Formigoni, Ligresti e i leghisti del Dio Po. Spettacolo consueto, niente di nuovo.
Ma a Pechino la posta è immensamente più grande. Una grande potenza emergente si presenta ufficialmente al mondo gettando sul piatto della bilancia il peso della sua forza demografica, economica, politica, militare. La Cina si apre scaricando sul resto del mondo la sua domanda di petrolio, di materie prime, di manufatti, la nube tossica del suo inquinamento, il vincolo tra potere autocratico e sviluppo economico. Ancora una volta i contadini pagano il prezzo del risparmio forzato e dell´accumulazione del capitale. L´esercito di riserva fornisce il combustibile necessario a modernizzare il paese dei «mandarini» e del Celeste Impero.
* * *
Nelle stesse ore è scoppiata la guerra tra Russia e Georgia. Mentre scriviamo i bombardieri distruggono il porto principale della Georgia e sganciano razzi e bombe sulla regione.
La posta apparente è l´Ossezia del Sud, un lembo di terra montuosa senza importanza geopolitica ed economica. Ma dietro un minuscolo problema di sovranità c´è l´aspirazione della Georgia ad entrare nella Nato e il desiderio dell´America di accoglierla mettendo un´ipoteca caucasica sul fianco della Russia. Il Caucaso è una terra di cerniera tra Occidente e Oriente, tra il Caspio e il Mar Nero. Lo fu per Alessandro il Grande, lo fu per i mongoli, lo è stato per l´impero inglese ed ora per gli Stati Uniti, ricco di petrolio e sede di transito dei grandi oleodotti che arrivano fino alla Mesopotamia e al Mediterraneo.
La Georgia è la chiave di quella zona del mondo. Il suo esempio di indipendenza può contagiarsi in vasti territori dell´Asia Centrale, le repubbliche islamiche che premono anch´esse per entrare nella galassia euro-americana fino all´Ucraina e alle terre cosacche.
Perciò la reazione russa sarà durissima come lo fu ai tempi di Shevardnadze, il grande comprimario della "perestrojka" ai tempi di Gorbaciov e poi dittatore della Georgia fino alla rivolta popolare che portò alla sua caduta.
Ma lo scossone georgiano sarà avvertito anche a migliaia di chilometri di lontananza. Avrà ripercussioni sulla lotta all´ultimo voto tra Barack Obama, e John McCain, tra i democratici buonisti e i repubblicani intransigenti e conservatori. Bush ha dato per primo il segnale e McCain l´ha seguito a minuti di distanza. Obama ci ha pensato tre ore per allinearsi ma la sua credibilità è scarsa su questo tema; le bombe dei bombardieri russi su Tbilisi spostano voti preziosi in Pennsylvania e in Texas, sulla costa occidentale e nelle grandi pianure dell´Ovest.
* * *
Accade intanto un fatto strano: il prezzo del petrolio diminuisce da due settimane dopo aver superato il traguardo dei 160 dollari al barile. Si pensava che la guerra nel Caucaso lo riportasse al rialzo e ce n´erano parecchi motivi, invece, quando già tuonavano i cannoni e si accatastavano centinaia di morti, il prezzo del greggio ha toccato il minimo di 115 dollari. Le scorte Usa sono in aumento. Contemporaneamente il dollaro si apprezza rispetto all´euro che da 1,60 è sceso in pochi giorni a 1,50.
Petrolio debole, dollaro più forte. Chi pensava che l´ascesa del greggio fosse frutto prevalentemente della speculazione e proponeva lotta ad oltranza per stroncarla si dovrà ora ricredere: la speculazione precede, come è suo utile compito, l´andamento reale delle curve di domanda e di offerta; quando la domanda supera un´offerta la speculazione gioca al rialzo ma quando si indebolisce gioca al ribasso.
Ora la domanda dei consumatori occidentali è in drastica riduzione, il prezzo era andato troppo in alto, i consumi in America e in Europa si sono contratti, la speculazione punta dunque al ribasso. Le proposte e la diagnosi di Tremonti erano sbagliate e non faranno passi avanti.
Il dollaro segue il petrolio: aumentano e diminuiscono insieme. Ma prima che questi movimenti si ripercuotano sui mercati locali passerà un tempo tecnico la cui durata dipende da vari fattori: la lunghezza dei circuiti distributivi, le loro malformazioni monopoloidi, la mancata liberalizzazione delle catene commerciali ed anche alcune imposte mal pensate. La Robin Tax su petrolio ed energia è una di quelle, dovrebbe dare un gettito di oltre 4 miliardi che in gran parte si trasferiranno sulle bollette dei consumatori, ma ne daranno assai di meno se il consumo diminuirà come sta avvenendo, con inevitabili ripercussioni sul gettito.
* * *
In realtà lo spettro della "stagflation" si aggira sull´Europa e sull´Italia in particolare che da due trimestri è a crescita zero. Se il terzo avrà lo stesso andamento o peggio, saremo per la prima volta dopo molti anni ufficialmente in recessione.
I sindacati sono preoccupati, le industrie e il commercio sono preoccupati, Emma Marcegaglia è preoccupata e anche Tremonti lo è. Se cercate uno che non lo sia lo troverete facilmente nel "premier" Silvio Berlusconi che ringrazia la sua squadra di governo e ritiene che la legge finanziaria appena approvata sia la migliore del mondo, loda il suo superministro dell´Economia e promette che passata la buriana saremo più forti di prima.
«Più forti e più felici di pria». Ricordate il Nerone di Petrolini? «Grazie» gridava una voce dalla piazza. «Prego» rispondeva Nerone-Petrolini con la cetra in mano dagli spalti del Palatino. «Grazie» «prego», «prego», «grazie», «prego» in uno scambio sempre più rapido ed esilarante.
Tito Boeri nel nostro giornale di ieri ha qualificato come pessima la Finanziaria di Tremonti. Non ripeterò se non per dire quanto sia falsa l´affermazione «non metteremo le mani nelle tasche degli italiani, ma taglieremo le spese». Tagliare gli sprechi è un conto, tagliare 16 miliardi di spese è un conto diverso.
Quel taglio significa mettere le mani nelle tasche degli italiani; che altro avviene infatti quando si tagliano stipendi, contributi agli enti locali, minori posti letto e chiusura di ospedali, imposizione di ticket, peggioramento dei servizi? Crescita zero del reddito? Inflazione? Non è un altro modo di mettere le mani nelle tasche? Pensate che sia un modo indolore?
Se si tagliano così profondamente e indifferenziatamente le spese, bisogna compensarle in qualche modo. Bisogna scegliere chi si può penalizzare e chi no. Una cosa è certa: la tassa inflazione colpisce i redditi fissi cioè il lavoro. Qualcuno ci rimette, qualcuno ci guadagna, anche qui a livelli diversi si riproducono diseguaglianze e lotta per il potere. Nulla è neutrale e chi vuol darcela da bere è un emerito imbroglione.
Post Scriptum 1. Due giorni dopo l´entrata in scena dei militari nel sistema della sicurezza pubblica alcune villette di Sabaudia (chissà quante altre in tutta Italia) sono state depredate dai ladri. Tra di esse quella affittata da Veltroni in cui dormivano la moglie e la figlia. Ma dov´erano quella sera i lancieri di Montebello? Caro Walter non ti fidare: i ladri se ne fregano delle ronde interforze che magari arresteranno un marocchino in più ma non riusciranno ad ottenere un furto in meno. Meglio ingaggiare un vigilante privato. Costa, ma dà lavoro e protegge.
Post Scriptum 2. Sento dire che l´amico Giuliano Amato è amareggiato perché alcuni del Pd criticano la sua accettazione della presidenza di una Commissione voluta congiuntamente dalla Regione Lazio (centrosinistra) dalla Provincia di Roma (idem) e dal Comune capitolino (Alemanno). Amato ritiene che una Commissione bipartisan sia utile a svelenire gli animi e ad avviare un dialogo costruttivo tra le forze politiche, sia pure a livello locale, sulla linea anticipata dal Presidente Napolitano.
Personalmente credo che Amato abbia ragione ma qualche dubbio ce l´ho anch´io. Non sull´esistenza della Commissione e tanto meno sulla presidenza di Amato, ma sui compiti affidati a quell´organismo. Che deve fare? Si dice: studiare la nuova architettura istituzionale della Capitale. Ma ci vuole una Commissione per questo? Si scavalcano i Consigli comunali provinciali regionali? O se ne occupa una Commissione esterna o se ne occupano i Consigli, una delle due entità è uno spreco di troppo.
Ma si dice anche che la Commissione dovrà fornire idee sul futuro della Città eterna. Che genere di idee? Coltivare il pistacchio nei prati dell´Eur sarebbe un´idea? Istituire un servizio di mongolfiere o di elicotteri tra l´aeroporto di Fiumicino e la terrazza del Pincio sarebbe un´idea?
Mi viene in mente una poesia satirica del Ragazzoni che aveva come suo principale hobby quello di scavare buchi nella sabbia. "Sento intorno sussurrarmi che ci sono altri mestieri / Bravi, a voi! scolpite marmi / combattete il beri-beri /coltivate ostriche a Chioggia / filugelli in Cadenabbia / fabbricate parapioggia / io fo buchi nella sabbia".

Repubblica 10.8.08
È il seguito della guerra tra Russia e occidente. In mezzo un popolo innocente
La rabbia di Iosseliani: "Una guerra assurda"
Il regista georgiano che vive in Francia si scaglia contro le "velleità imperialiste" di Mosca: "Il mondo è stato indifferente"
di Anais Ginori


PARIGI - Dalla sua casa nel Marais, Otar Iosseliani si tiene in contatto costante con Tbilisi. «Questa guerra è assurda, assurda» ripete il regista georgiano che nel 1982 fuggì dall´Urss trovando riparo in Francia. Eterno dissidente e ancora in lotta contro ogni totalitarismo (anche culturale), Iosseliani ha realizzato film di poesia e suggestione, molto amati da un certo pubblico e dalla critica, come "Pastorale", "I favoriti della luna", fino all´ultimo "Giardini in autunno". A lungo, le sue pellicole sono state vietate in Russia. Per lui, che aveva creduto all´indipendenza e all´avvento della democrazia in Georgia, dove è nato nel 1934, sono ore di angoscia. «I miei parenti - racconta - mi dicono cose terribili. E´ già in vigore la legge marziale, siamo vittime di un´aggressione militare dissennata. Sono molto pessimista, la situazione non può che precipitare».
La comunità internazionale può fare qualcosa?
«Finora l´Europa ha volutamente ignorato questo conflitto. Da anni i diplomatici occidentali sanno quello che sta covando. Mai nessuno è voluto intervenire per prevenire l´esplosione della violenza. La Francia ha detto che cercherà una mediazione, ma non ci credo. Siamo arrivati a questa guerra, che rischia di travolgere l´intera regione del Caucaso, nella più totale indifferenza del mondo».
Il presidente Mikhail Saakashvili era stato eletto nel 2004 con grandi speranze, in quella che fu chiamata la rivoluzione delle rose. Anche lui ha compiuto degli errori?
«Saakashvili si è rivelato un folle. Un pazzo. E lo dico nel senso letterale del termine. Siamo nelle mani di un uomo che non ha la minima idea di come si governa ed è in preda al suo delirio di onnipotenza. E´ evidente che si è fatto prendere dal panico, abboccando alle provocazioni della Russia».
Perché l´Ossezia del Sud è così importante per la Georgia?
«I miei nonni erano dell´Ossezia, questa regione ha sempre fatto parte del nostro paese, tranne durante l´Urss. E´ stato Stalin a decidere di frammentare la Georgia, creando l´Ossezia e l´Abkhazia. Creando così due bombe a scoppio ritardato, delle quali adesso i georgiani sono le vittime».
Putin è già andato in Ossezia del Nord per annunciare che la guerra continuerà.
«Anche lui è un pazzo, forse più intelligente di Saakashvili e quindi ancora più pericoloso. Vuole fare una guerra per niente. Stiamo parlando di un fazzoletto di terra che non significa nulla. Nulla. E´ soltanto il simbolo delle nuove velleità imperialiste di Putin. Non vuole rassegnarsi al fatto che la Russia non è più l´Unione sovietica. Farà pagare questo suo sogno imperialista a migliaia di persone, russi e georgiani, che moriranno. Tutto per colpa sua».
La Georgia potrebbe rinunciare?
«Non succederà perché l´esercito georgiano è convinto di poter vincere. E la comunità internazionale presto interverrà per aiutarlo. E così la Georgia si trasformerà in una piazza d´armi dove si combatteranno indirettamente le due superpotenze, Russia e Stati Uniti».
Che notizie ha dai suoi parenti?
«Le persone sono terrorizzate, si sentono terribilmente vulnerabili. Sappiamo di cosa sono capaci i russi, cosa hanno fatto in Afghanistan e in Cecenia. Possono perpetrare atrocità contro donne e bambini, non si fermano davanti a niente».
Lei teme che il conflitto possa allargarsi ad altri paesi?
«E´ molto probabile che la guerra per l´Ossezia del Sud, trascinerà con sé altri conflitti, quello con l´Abkhazia e poi con l´Ucraina, che si sentirà in dovere di appoggiare la Georgia contro l´ingerenza della Russia».
E´ possibile fermare questa escalation?
«L´unica novità che vedo probabile è l´intervento delle Nato. Ma non significherà la fine del conflitto, soltanto la prosecuzione della guerra tra la Russia e le forze occidentali. E´ questo il vero scontro in atto, questo il vero motivo per cui si combatte. In mezzo, c´è un popolo innocente».

sabato 9 agosto 2008

La Repubblica 28.7.08
Reazionario
Piccoli libri suscitano a volte grandi clamori. è successo in Francia ad un pamphlet intitolato Sarkozy: di che cosa è il nome?


Piccoli libri suscitano a volte grandi clamori. è successo in Francia ad un pamphlet intitolato Sarkozy: di che cosa è il nome? (Cronopio, pagg.130, euro 10), le cui dense pagine contengono una critica senza concessioni del sarkozysmo, ma anche una riflessione stringente sulla crisi della democrazia e sulle possibili forme dell' antagonismo politico oggi. L' autore è Alain Badiou, filosofo molto noto in Francia, ma anche in Italia, professore dell' Ecole Normale Supérieure di Parigi, i cui libri di solito restano confinati nella cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Questa volta, complice la congiuntura politica, le sue tesi radicali hanno invece conosciuto un vasto successo e suscitato innumerevoli discussioni, dimostrando che il binomio filosofia e politica può essere ancora produttivo. «La filosofia non mi ha mai impedito di essere un militante, anzi più volte ho denunciato la fuga degli intellettuali dalla vita politica», spiega lo studioso autore di numerosi saggi, tra cui anche Il secolo (Feltrinelli), Etica. Saggio sulla coscienza del male (Cronopio) e Inestetica (Mimesis). «Naturalmente, i filosofi non creano i conflitti sociali o le rivolte politiche, ma con il loro lavoro specifico contribuiscono a mettere in relazione situazioni particolari con riflessioni più generali sull' uomo, la libertà, l' uguaglianza, le tradizioni politiche, la diversità delle culture. In questo senso, mi considero un intellettuale che interviene politicamente.» Si tratta di interpretare il mondo per fornire strumenti al corpo sociale? «Il filosofo contribuisce alla lettura del mondo, ma nella pratica aiuta a orientare le battaglie particolari verso processi più generali. L' esempio classico è quello di Marx, la cui cultura era filosofica. Da un lato, egli sosteneva le rivolte degli operai parigini, dall' altro elaborava una visione dello sviluppo della storia al cui interno integrava queste battaglie particolari». Per Sartre le parole sono armi. è d' accordo? «Certamente. In politica, la questione delle parole e di come si nominano le cose è sempre un problema essenziale. Le parole fanno sempre parte della politica, anche quando il loro uso sembra perfettamente innocente. Da diversi anni, ad esempio, invece di parlare di capitalismo, parliamo di economia di mercato. Sembra una cosa da nulla, ma così si rimuove la valenza negativa che in passato era associata alla parola capitalismo. "Economia di mercato" è un' espressione meno forte, più accettabile». Nel libro su Sarkozy lei denuncia che la morale si sostituisce alla politica. Che cosa vuol dire? «è un processo in corso dalla fine degli anni Settanta. A poco a poco, abbiamo rinunciato a elaborare una critica politica della storia e della società, lasciando sempre più spazio alla critica morale. Il giudizio fondato sulle categorie del male e del bene ha sostituito l' analisi politica. Il grande problema contemporaneo è diventato la lotta del bene contro il male. Ma questa è una visione moralistica e religiosa della realtà, non una visione politica. Oltretutto, la sostituzione della morale alla politica è, in fin dei conti, sempre al servizio dei rapporti di forza esistenti, dato che, al di là del giudizio morale, non rimette in discussione nulla. Quindi, la sostituzione generalizzata della morale alla politica ha consolidato il capitalismo globale oggi dominante». Rimettere la politica al centro della riflessione intellettuale per lei significa combattere il "Pétainismo trascendentale" della Francia. Che cosa intende con questa espressione? «L' elezione di Sarkozy è il simbolo più evidente di una situazione che minaccia pericolosamente la tradizione critica e progressista della Francia. Tale minaccia è il risultato di una tendenza di fondo, che, con l' elezione di Sarkozy, ha superato una soglia simbolica. Non dico che Sarkozy sia come Pétain, ma solo che il suo successo elettorale rappresenta la vittoria di una corrente reazionaria presente in Francia da molto tempo. Il nostro, infatti, è il paese dei diritti dell' uomo e della rivoluzione, ma anche il paese di una forma di reazione, i cui tratti erano particolarmente visibili negli anni di Pétain. Tratti che oggi ritornano, benché adattati al contesto contemporaneo». Quali sarebbero? «Innanzitutto l' idea di una crisi morale da cui occorre risollevarsi. Poi la designazione di un gruppo sociale pericoloso che deve essere sorvegliato e controllato: per Pétain erano gli ebrei, per Sarkozy gli immigrati che vivono nelle periferie. Un altro elemento importante è la volontà di sradicare l' eredità di un avvenimento passato percepito come fortemente negativo: per Pétain era l' esperienza del fronte popolare, per Sarkozy l' eredità del 68. Da ultimo, conta anche la sensazione di essere in ritardo rispetto ai più importanti modelli stranieri: per Pétain erano i grandi stati fascisti degli anni Trenta, mentre per Sarkozy il modello da inseguire è quello del capitalismo anglosassone. Tutti questi elementi si combinano insieme in un sentimento di decadenza nazionale, a cui diventa necessario reagire con forza e senza incertezze». è la paura il combustibile che alimenta queste forme di reazione? «Certo. Da diversi anni, la maggior parte della popolazione francese è dominata dalla paura. Paura della disoccupazione, della globalizzazione, delle tensioni internazionali, dell' Europa, degli immigrati, dei giovani, ecc. Sono paure che nascono dall' incertezza di fronte al futuro. La Francia ha un grande passato, è stata una potenza imperiale e militare. Oggi però tutto ciò è alle spalle. I francesi non sanno più cosa aspettarsi dall' avvenire, non sanno se potranno conservare i loro privilegi e se continueranno ad avere un ruolo internazionale. La loro soggettività politica, invece di essere creativa, è dominata dalla paura e dal ripiegamento su se stessi. Di conseguenza, le idee politiche che vincono sono idee reazionarie». Partendo dalla situazione francese, lei sottolinea i limiti delle democrazie a suffragio universale, ricordando che non si può giudicare un principio indipendentemente da ciò che produce. è così? «La questione della democrazia non può essere ridotta alla semplice questione del suffragio universale. Hitler è andato al potere grazie a elezioni democratiche, quindi la democrazia è capace del meglio come del peggio. Al di là del suffragio universale, la democrazia esiste quando un popolo è mobilitato attorno a una politica. Il mondo oggi non è più quello del XIX secolo, le strutture economiche e sociali sono radicalmente cambiate. In questo contesto, la democrazia parlamentare non funziona più come dovrebbe. Molto spesso diventa una copertura per un potere oligarchico, costituito da potentati economici e mediatici che sono i veri padroni della società. Di fronte questa situazione dobbiamo saper inventare nuove forme di partecipazione democratica, in un contesto dove il problema fondamentale è quello del controllo dei mezzi di comunicazione più ancora dei mezzi di produzione. Se non riusciremo a risolvere il problema, la democrazie occidentali continueranno ad indebolirsi».

l’Unità 9.8.08
Laura Diaz, partigiana e deputata
Un’appassionata livornese, militante del Pci
di Francesca Padula


SI È SPENTA lunedì scorso a Courmayeur, all’età di 88 anni, Laura Diaz, eminente figura della politica italiana dall’immediato dopoguerra fino agli anni Sessanta. Una personalità di primo piano del Partito comunista dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Sorella di Furio Diaz, il primo sindaco di Livorno dopo la Liberazione, Laura si era iscritta al Partito comunista italiano (Pci) nel 1944 dove ricoprì numerosi incarichi e nelle cui fila venne eletta in Parlamento come deputato. Fu candidata alle elezioni politiche del 1948.
Nata a Livorno il 25 aprile 1920, Laura Diaz ebbe un ruolo determinante durante la Resistenza, come negli anni successivi alla Liberazione, per la rinascita dell’Italia. L’esponente politica livornese, ricordata anche per la sua spiccata capacità oratoria, ha interpretato la militanza politica nel senso alto dell’impegno e della passione aperta al confronto.
Sandro Curzi, per decenni militante del Pci, l’ha ricordata con un testo che gli dettò Enrico Berlinguer, leader storico del comunismo italiano, per la rivista Gioventù Nuova: «A quattro anni dalla liberazione di tutto il territorio nazionale - dettò Berlinguer a Curzi nel 1949 - è tempo di unificare le molteplici esperienze dei giovani comunisti italiani dall’estremo sud al profondo nord del Paese. È tempo di costituire, anzi ricostruire, la Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) e la compagna Laura Diaz deve essere, per merito della sua storia, uno dei più importanti dirigenti di questa organizzazione. Per questo la propongo fin d’ora per la direzione provvisoria che dovrà gestire la preparazione del congresso della Fgci che terremo proprio nella città di Laura, la nostra amata Livorno».
«La storia di Laura - conclude Sandro Curzi -, la storia di questa giovane patriota italiana, dovrebbe essere fatta conoscere a tutti i giovani di oggi».

l’Unità 9.8.08
Ruffolo, Castellina, Marramao:
un progetto, e la sinistra può ripartire
di Francesca Talamo


«La sinistra è una promessa mancata?». Se ne è discusso nella piazza di Capalbio all’affollata presentazione del libro di Ruffolo «Il capitalismo ha i secoli contati» (Einaudi) e di Raffaele Simone «Il mostro mite» (Garzanti) con Luciana Castellina e Giacomo Marramao, organizzata dalla Fondazione Epokè per «Uno scrittore, un’estate».
«La sinistra è una promessa mancata?» è la citazione di Gad Lerner dal libro di Simone. E Castellina attacca «l’assenza di un progetto politico» come il male più grave della sinistra di oggi. La politica per Castellina ha il sapore di un altro tempo, oggi che la parola politica per molti il sapore di una parolaccia. Ma la passione di Luciana Castellina anima la piazza e si ragiona di «soggetto della trasformazione» e dell’antico amore, il comunismo.
L’intervento di Marramao, senza spegnere il pathos, dà alla serata il tono di una discussione di quelle serie, sulle questioni di fondo. Il ruolo della tecnica nelle società contemporanee, il problema della formazione, la necessità di tornare «ai rapporti di produzione» è un invito a tornare coi piedi per terra, a riportare la sinistra ai suoi dei suoi riferimenti nella società. Ma come fare, mentre Berlusconi spazzola i pavimenti di Napoli? Ruffolo non ha paura di parlare di capitalismo come di un problema, non un destino necessario nella sua forma globalizzata e liberista. La realtà si può governare, l’economia non è una variabile indipendente.
Il pubblico di Capalbio (tra gli altri Corrado Augias, Fabiano Fabiani, Stefano Trincia, Claudio Petruccioli, e tanti volti noti della cultura e della politica) ascolta attento mentre Ruffolo espone una ricetta che mescola bene illuminismo socialista e critica «da sinistra» alla globalizzazione. Ma resta un disagio, e Raffaele Simone lo intercetta bene. «Perché è così difficile essere di sinistra?» si domanda lo studioso. «Perché è più naturale essere di destra, dire questo è mio». E allora l’egemonia sulla destra si radica sui cosiddetti animal spirits, rafforzata e radicata dalla comunicazione. Il risultato è il nuovo Leviatano, terribile ma suadente, affascinante, in grado di costruire consenso; quello che appunto la sinistra non riesce a fare. Il pubblico annuisce convinto. È difficile essere di sinistra, ma serve esserlo. Il messaggio di Capalbio è semplice: un progetto forte, che guardi lontano, e parli della realtà senza fatalismi.

l’Unità 9.8.08
Quell’antica paura di nome zingaro
di Marco Innocente Furina


I ROM Sono tra noi da centinaia di anni eppure continuiamo a temerli. Per l’eterna diffidenza della civiltà stanziale nei confronti del nomade. Ora tre libri raccontano costumi e storia di questo popolo sconosciuto e tormentato

Originari dell’India del nord, giunsero in Italia verso la fine del 1300
Lo stile di vita presto procurò loro l’ostilità del nascente stato moderno

Non più di 100mila individui quasi tutti cittadini italiani
Tradizionalmente fabbri, giostrai e circensi

Mezzo milione fu sterminato nei lager nazisti. Una tragedia misconosciuta che loro chiamano il «divoramento»

È la storia di una lunga incomprensione quella fra l’Europa e i Rom. Già al loro arrivo, parecchi secoli fa, furono scambiati per egiziani. Forse per il colore della pelle, forse perché durante il loro girovagare sostarono a lungo nel Peloponneso, allora conosciuto come piccolo Egitto. Un equivoco, uno dei tanti, che diede a questa gente dalla pelle bruna senza una patria il proprio nome: egiziani, da cui l’ungherese cigány, l’inglese gypsy, il francese gitan, lo spagnolo gitano, il portoghese cigano, l’italiano gitano, zingano, zingaro. Loro invece hanno sempre preferito definirsi semplicemente Rom, «uomini», senz’altri aggettivi. Uomini sì, ma di un tipo particolare, ben distinti da tutti la gente non rom che essi nella loro lingua chiamano gagi. Una lingua indoeuropea, parente del sanscrito, che ci dice che questo popolo nomade lasciò, non si sa bene quando né perché, l’India del Nord percorrendo a ritroso il cammino di Alessandro: li ritroviamo in Persia, in Armenia, infine in Grecia da cui sciamarono nei balcani, dove ancora oggi risiedono in larga maggioranza. In Italia pare siano giunti verso la fine del 1300. Le carovane colorate di questa gente allegra e strana non destano sospetto. Conducono una vita appartata, differente da quello del resto della popolazione. Li divide dal resto del mondo una filosofia e uno stile di vita che non è quello dell’accumulo della ricchezza, del progresso e della patria. Lo zingaro «rinuncia a tutto quello che muove l’uomo verso l’evoluzione, la tecnica, il possesso, per avere in cambio la sconfinata libertà del mondo, da percorrere senza altro affanno che quello di vivere, non importa come», scrive Onello Yards Cicarelli in Vita di zingaro (L’autore libri, pp. 102, euro 9), sottotitolo Storia di un popolo e di una filosofia. E sarà proprio questa radicale alterità a procurargli i primi problemi. Il mondo proprio allora prese una direzione tutta diversa. Quella delle patrie, delle identità nazionali, e del conseguente ordine sociale. Cominciava quello che gli storici hanno chiamato il «disciplinamento della società». Nell’Europa moderna, quella degli stati nazionali, non c’era più posto per le minoranze siano esse di ebrei, zingari o armeni. Iniziano anni bui per questa gente libera, nomade, che rifiutava ogni inquadramento, ogni disciplina, che viveva di espedienti e sì, anche di piccoli furti (soprattutto animali di piccola taglia). Si arriva presto - è una prassi che, sebbene mutata nella forma, dura ancor oggi - ai decreti di espulsione: la Dieta di Augusta nel 1498 decreta l’impunità per chiunque rechi danno a uno zingaro, nel 1558 è la volta di Venezia stabilire che i gitani possono essere uccisi senza pena, un secolo dopo anche il Ducato di Milano dichiara lecito «ammazzare e derubare gli zingari dei loro denari, del loro bestiame, delle loro robbe». Sono gli anni in cui un signorotto danese annota nel suo diario: «Durante l’odierna battuta di caccia sono stati ammazzati numero due cinghiali, numero tre fagiani e numero uno zingaro con relativo bambino». Crudeltà e indifferenza per la vita umana dei tempi antichi? Chissà che ne pensano i nomadi del campo di Ponticelli a Napoli, vittime di attentati incendiari restati impuniti. Quella stessa impunità che garantivano (senza l’ipocrisia attuale) gli editti degli antichi stati italiani. Indifferenza per cui il quotidiano inglese The Independent ci ha sbattuti in prima pagina: «La foto che fa vergognare l’Italia». L’immagine mostra due ragazzine rom che giacciono senza vita su una spiaggia napoletana. A poca distanza i bagnanti guardano. Indifferenti.
Quest’Italia impaurita e impoverita di inizio millennio ha trovato il suo capro espiatorio: un’infima minoranza, 90-100 mila individui, in buona parte di cittadinanza italiana, su cui riversare tutto il nostro risentimento. Così queste grandi famiglie composte di giostrai ambulanti, questi uomini scuri e baffuti, abili nella lavorazione del rame, da sempre abituati ad arrangiarsi (anche col furto) e a vivere alla giornata, sono divenuti il nemico pubblico numero uno. La storia ce lo insegna e ci mette in guardia: è l’amaro destino delle minoranze pagare gli stress collettivi nei momenti di crisi. Lo sanno gli ebrei, se ne stanno accorgendo - fatte le debite proporzioni - gli zingari nel nostro paese. Nella testa della gente si è ormai creato un mito (negativo). Scrive Carlo Cuomo in Rom, un popolo, dal signifivativo sottotitolo Diritto a esistere e deriva securitaria (Edizioni Punto rosso, pp. 240, euro 12): «Sono molti, moltissimi - pensano i gagé - dilagano, ci invadono; sono vagabondi, senza arte né parte , nomadi disordinati; sono pigri e ladri, maltrattano e sfruttano i loro bambini; non sono una realtà etnica, sono una realtà malavitosa; sono infidi, violenti e pericolosi; sono, come recitava il titolo di un vecchio film sui borgatari romani - “sporchi, brutti e cattivi”». Se è così si comprende perché nei loro confronti si riscopre il concetto di razza e responsabilità collettiva: le impronte digitali per tutti, sin da bambini. Non è razzismo, ci si affretta a spiegare. Ma cos’è il razzismo allora? Ce lo dice l’Europa (direttiva 43 del 2000): «Sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza o origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga». Giudicate voi.
È come se per i Rom la storia fosse trascorsa invano. Anche gli zingari finirono a centinaia di migliaia nei forni di Auschwitz, anch’essi come «indoeuropei degenerati» ebbero il loro olocausto. Già, ma chi lo sa? Della Shoah - giustamente - parlano tutti, ma chi conosce il porrajamos il divoramento come lo definiscono loro? 500 mila nomadi inghiottiti dai campi di concentramento nazisti. Ma, ultimi fra gli ultimi, agli zingari non restituì dignità neppure la persecuzione nazista. Più della tragedia poté il pregiudizio: lo sterminio dei rom non fu considerato genocidio, ma un piano di prevenzione della criminalità… Ai sopravissuti, alle donne sterilizzate, non fu riconosciuto per lungo tempo neppure un risarcimento. In fondo i carnefici erano animati da «buone intenzioni». Le stesse che ispirarono la Pro Juventute, un’associazione governativa elvetica che strappava i bambini alle madri rom, impedendo qualsiasi successivo contatto, per evitare il «contagio» di una vita nomade. Una prassi continuata nell’indifferenza generale fino al 1972. Di questi drammi ma pure della inesauribile vitalità di un popolo perseguitato da secoli, sconosciuto da sempre, parla con sensibilità e passione Pino Petruzzelli in Non Chiamarmi zingaro (Chiarelettere, pp. 222, euro 12,60). Lo fa dando la parola a loro, ai Rom e disegnando una serie di ritratti che restituiscono un volto a questi esseri umani scansati e temuti, mitizzati e sconosciuti, e raccontando una realtà in movimento, irriducibile ai nostri schemi alternativamente razzisti o buonisti. Ecco l’elettricista rom che installa impianti antifurto…, quella donna di professione medico che nasconde le proprie origini rom persino al marito, e poi insegnanti e infermieri, artisti. E anche eroi: come Giuseppe Catter, il partigiano Tarzan, zingaro, ucciso all’età di ventun anni. «Ci furono altri sinti e rom - spiega Petruzzelli - che combatterono per restituire la libertà al nostro paese. Peccato che nessuno lo sappia».

l’Unità 9.8.08
Graziano Halilovich. Federazione Rom e Sinti
«Il governo nazionale ci considera solo un capro espiatorio»


«Ci hanno disegnato come mostri. Prima delle elezioni hanno scatenato una campagna antizingari apertamente razzista».
Graziano Halilovic, segretario nazionale della federazione Rom e Sinti, accusa il governo di centrodestra di aver trasformato il suo popolo in un capro espiatorio nazionale.
Si riferisce al discusso provvedimento sulle impronte digitali?
«Sì, si tratta di una schedatura etnica. Una vergogna che ai nostri vecchi ha fatto rivivere l’atmosfera dello sterminio nazista».
Le Istituzioni europee hanno criticato i provvedimenti del governo, ma parte degli italiani sembra condividerne lo spirito...
«C’è odio, è vero. Perché non ci conoscono davvero. Quando vado nelle scuole e chiedo ai bambini se uno zingaro li abbia mai fatti ridere, tutti rispondono di no. Quando chiedo se siano stati al circo Togni o Orfei, invece la risposta è affermativa. E rimangono stupiti quando gli spiego che si tratta di famiglie Rom».
Ma secondo lei da parte vostra non c’è da fare nessuna autocritica?
«Se parla dei furti, io le assicuro che all’interno dei campi chi ruba viene isolato. Poi se il governo fa di tutta l’erba un fascio, rischia solo di fornire alibi a comportamenti criminali».
Si riferisce all’assalto incendiario al campo Rom di Ponticelli a Napoli?
«La vera responsabilità di quell’atto criminale è di chi ha creato un clima da caccia alla streghe».
Il Governo...
«Sì... E spero che un giorno l’esecutivo ci conceda un incontro». m.i.f.

l’Unità 9.8.08
Cinema. Censura preventiva
di Stefano Miliani


Dopo il documentario sulle Br «Il sol dell’avvenire» e le polemiche di Bondi sulla parola data ai terroristi il vero obiettivo della destra si fa più chiaro: censura preventiva e politica ai temi scomodi. Un messaggio temibile che solleva le prime proteste

Il sol dell’avvenire, il documentario di Pannone e Fasanella su ex brigatisti e altre persone che 40 anni fa non condivisero affatto quella scelta per la lotta armata, fuori concorso oggi al festival di Locarno, è un cerino acceso nella benzina delle polemiche. La qual cosa avviene dopo che il ministro dei beni culturali Bondi lo ha attaccato perché per lui (non per il nostro critico che l’ha visto, Crespi), giustifica i brigatisti. Il tasto che trova molta eco (comprensibile, se non venisse strumentalizzato a ben altri fini politici) è: basta ai riflettori accesi sui terroristi, smettano di pontificare, tacciano, parlino invece le vittime o i loro familiari. Invoca più attenzione a chi ha versato sangue e il silenzio dei terroristi Mariella Magi Dionisi, presidente dell’Associazione memoria dei caduti per terrorismo delle forze dell’ordine, vedova dell’agente Fausto Dionisi ucciso da Prima Linea nel ‘78 a Firenze. D’altro avviso è Sabina Rossa, figlia del sindacalista Cgil Guido ammazzato dalle Br a Genova nel ’79, che con Fasanella ha scritto un libro sul padre: «Non si può chiedere agli ex terroristi il silenzio come pena accessoria, il punto è capire quale contributo possano dare alla verità storica».
C’è però altro, in gioco. Siccome la pellicola ha avuto 250mila euro dallo Stato nel 2006, il ministro ha detto ieri, stop, si cambia, ho appena impartito direttive alla commissione valutatrice: oltre a dover ascoltare le associazioni interessate in caso di film su temi delicati, d’ora in avanti non potranno avere contributi «opere che non solo non mostrano di possedere alcuna qualità culturale, ma che riaprono drammatiche ferite nella coscienza etica del nostro paese». Diciamola tutta: con questa frase il ministro vuole impartire criteri che investono il merito ideologico di un progetto cinematografico, vuole un controllo politico. Volontariamente o meno lo confermano il responsabile cultura di Forza Italia Michele Lo Foco e l’onorevole Gianni Sammarco: attaccano l’ex ministro Rutelli e parlano di «uso strumentale dei fondi pubblici destinati a società, autori e idee legate a una chiara matrice politica». Sono proprio sicuri che sia così? E se questi diventassero i «criteri», due titoli di meritatissimo successo come Gomorra e soprattutto Il divo su Andreotti, che chance avrebbero avuto? Come sarebbe stato bocciato anche Buongiorno Notte di Bellocchio sul rapimento Moro, che nel 2003 ricevette 1,6 milioni di euro dallo Stato, ne incassò in sala 4, ha restituito quei soldi allo Stato e sollevò critiche dure, anche dalla famiglia Moro, per come ritraeva le Br.
L’ha detto chiaro il direttore generale del cinema del ministero Blandini: la Costituzione obbliga a rispettare libertà di pensiero e l’amministrazione pubblica a essere imparziale. C’è una commissione che si riunisce tre volte l’anno, annuncia le scadenze e modalità su internet al sito www.cinema.beniculturali.it (sotto vi diamo in sintesi il meccanismo dei criteri per assegnare i contributi), gode di molta discrezionalità ma finora non deve valutare in base al tema politico «scomodo». Ogni scelta è discutibile, figuriamoci quella della commissione che decide chi gode di finanziamenti pubblici. Ma se la discrezionalità diventa, come si vuol far diventare, una norma su un giudizio di valore politico, allora, forse nessuno avrebbe potuto girare film come Buongiorno Notte. Perché a proposito del Sol dell’avvenire, che peraltro non ha ancora distribuzione, entra in ballo la libertà di espressione controllata o meno da un qualsiasi governo.
«Il tema del potere politico che pretende di imporre i suoi dettami all’arte cinematografica o a commissioni che debbono restare indipendenti è estremamente delicato», osserva il senatore Riccardo Villari del Partito democratico. A proposito del film «già si invoca la censura, la soppressione del contributo pubblico - annota per Articolo 21 Giuseppe Giulietti - Forse inconsapevolmente, si vuole oltrepassare il confine tra libera e perfino aspra discussione e la possibile reintroduzione di una censura governativa». Lo stesso tasto batte l’associazione Doc.it. E i registi, sceneggiatori e attori del movimento dei «Centoautori» avvertono: la censura preventiva è pericolosa, le polemiche lanciate da Bondi - «che non deve interferire» - non devono essere strumento per impedire di raccontare le zone d’ombra della storia italiana. Domanda: forse è questo che qualcuno vuole?

l’Unità 9.8.08
«Spezzeremo il fascino del berlusconismo»
Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione: ricostruiremo dal basso l’opposizione di sinistra
intervista di Maria Zegarelli


L’AUTUNNO CALDO Paolo Ferrero, malgrado il calendario segni il 9 agosto, tempo di vacanze e pausa dalle fatiche della politica, è al suo posto. Neo segretario di Rc, un congresso «complicato» alle spalle, guarda all’autunno, alla manifestazione e alle alleanze future. alle europee. Con questo Pd, dice, «e con questa linea politica non c’è possibilità di dialogo».
Cominciamo da qui: come rifonda il suo partito dopo la batosta elettorale e il congresso?
«Ricominciamo dall’opposizione alle politiche del governo Berlusconi e di Confindustria. Siamo in una fase recessiva e di enorme crisi sociale e le loro politiche da un lato approfondiscono questa recessione e dall’altro peggiorano pesantemente le condizioni di sociali, sia attraverso l’attacco ai contratti nazionali di lavoro, sul piano del reddito, sia con il taglio dei trasferimenti agli enti locali. Faremo una opposizione dura su tutte le grandi questioni, dalla sicurezza al Lodo Alfano».
Il Pd ha fissato la data della manifestazione di autunno. Rifondazione ne lancia una propria. Quando e con chi?
«Ne sto discutendo con le altre forze della sinistra, tutte, con le associazioni, le reti di movimento, il sindacalismo di base e la sinistra sindacale. Si tratta di capire se riusciremo a costruire una manifestazione unitaria su una piattaforma che sia in grado di dire “no” a questa linea che va avanti nel governo e in Confindustria. Il fatto che ci siano due manifestazioni distinte si spiega sui contenuti. Dalla riduzione di peso del contratto nazionale di lavoro, alla lotta netta alla legge 30, alle grandi opere, le posizioni del Pd sono intermedie tra le nostre e quelle del governo».
Nessun dialogo con Veltroni?
«La linea del Pd mi sembra piuttosto chiara, peraltro sul piano dei contenuti non è troppo dissimile da quella che i partiti che lo compongono avevano nel governo Prodi».
Di cui lei ha fatto parte come ministro...
«Di cui ho fatto parte sulla base di un programma che poi non è stato rispettato esattamente sui punti di scontro con i poteri forti, oltre al fatto che è stata riproposta la politica dei due tempi, prima il risanamento e poi la redistribuzione, che non è avvenuta, malgrado ci fosse stato nel 2007 un risparmio maggiore a quello imposto da Maastricht, che aveva portato nelle casse dello Stato otto miliardi di euro che si sarebbero potuti spendere per ridurre tasse sugli stipendi e le pensioni».
Ci sono circa due milioni di voti da riconquistare. Lei punta sul conflitto di classe?
«La precondizione è ricostruire l’opposizione di sinistra, che è la vera cosa che è mancata in questi primi cento giorni. È una condizione necessaria ma non sufficiente. Penso che si debba riprendere un lavoro di radicamento sociale di Rc a partire dalla grave situazione sociale del paese, che è diventata ormai una condizione di paura che le persone vivono in maniera individuale. Dobbiamo dare una risposta collettiva a questi problemi sociali. Per farlo c’è bisogno di una reimmersione nella società, di una presenza nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro,per riorganizzare un conflitto dal basso verso l’alto. Poi, occorre rompere un universo simbolico costruito dal Berlusconismo che vuole che sia il ricco ad avere ragione e il povero ad essere causa della sua condizione».
Non crede che uno dei motivi della sconfitta possa essere stato quello di aver combattuto battaglie che gli elettori non condividevano?
«Negli ultimi anni c’è stato un logoramento dei nostri rapporti sia con i movimenti sociali sia con il nostro insediamento sociale. Per questo al congresso ho proposto la svolta “in basso a sinistra”».
Ferrero, Rc, punta a tornare al governo?
«Oggi è il tempo dell’opposizione, visto che le prossime elezioni ci saranno probabilmente fra 57 mesi. Se invece si dovesse andare a votare domani e vuole sapere le mie intenzioni con il Pd rispondo no, per le ragioni di cui ho parlato prima».
Lei dice di non vedere rischi di scissione in Rc, ma Vendola continua a lavorare...
«Questo fa parte della dialettica dentro Rifondazione».
Alleanze locali. In Calabria siete rientrati in giunta con Loiero. Come si procede?
«Credo che questo sia stato un errore, sono totalmente ocntrario. Lì c’è un questione morale e bisognerebbe tenerne conto. Inoltre, non vedo gli elementi programmatici nuovi rispetto a quando siamo usciti dalla giunta a gennaio».
È vero che in Abruzzo con Di Pietro si può fare?
«Noi siamo per rifare una coalizione di centrosinistra, con condizioni molto nette: che non ci siano indagati in lista; che ci sia un accordo chiaro su punti programmatici importanti, a partire dalla gestione della sanità; che il candidato governatore non sia parte del gruppo dirigente del Pd, visto il coinvolgimento nella vicenda giudiziaria. Se Di Pietro si candidasse non avremmo nulla in contrario, salvo la puntuale verifica dei punti programmatici».
A Liberazione non hanno gradito le sue dichiarazioni sulla “linea”.
«Qui siamo alle leggende metropolitane: non ho mai detto che devono rispettare in modo burocratico la linea. La redazione di un giornale deve avere autonomia, ma pure quello è il giornale di Rc, che ha un progetto politico. Ho posto il problema di come interpretare la sua autonomia all’interno di questo progetto».
Sansonetti resterà al suo posto?
«Non lo decido io, non sono il monarca di Rc. Lo decideranno gli organismi dirigenti. Sansonetti è lì e io discuto con lui».
I tagli all’editoria. Veltroni ha annunciato battaglia. È un punto che vi unisce?
«Veltroni ha detto delle cose importanti: faremo una battaglia politica molto forte insieme».

l’Unità 9.8.08
Minaccia una lista civica contro il Pd, chiede consultazioni aperte a Firenze. E in settembre radunerà i suoi di «Firenze democratica»
L’assessore anti-lavavetri va alla guerra delle primarie
di Tommaso Galgani


Intanto organizza cene e assemblee e vara il nuovo regolamento per i vigili urbani

Agosto è il suo mese. Un anno fa fece parlare di sé in tutta Italia con la celeberrima ordinanza anti lavavetri. Quest’anno l’assessore alla sicurezza di Firenze Graziano Cioni è tornato alla carica: ma stavolta nel mirino è finito il Pd toscano.
Pomo della discordia, le modalità di accesso per i candidati alle primarie, in vista delle amministrative di Firenze del 2009. «Il Pd è nato sulle primarie. Ma se si fanno così è una vergogna, non è più il mio partito», attacca l’assessore. Inviperito perché non ci saranno le cosiddette doppie primarie: in caso di coalizioni tra il Pd e altri partiti, infatti, come da statuto tra i democratici potrà candidarsi solo chi raccoglierà il 35% delle firme dell’assemblea territoriale e il 20% degli iscritti (anche se il Pd toscano sta cercando di abbassare questi paletti rispettivamente al 25% e al 10%). A Cioni non va giù che, in primarie di coalizione aperte a tutti, i due o al massimo tre candidati del Pd debbano essere scelti «dall’apparato, attraverso consultazioni interne: è un tradimento verso i nostri elettori. Abbiamo raccontato loro che il Pd era diverso, che li avrebbe fatti decidere. E non ratificare scelte prese dai vertici», spiega.
Cioni a questo punto vuole andare fino in fondo: a Firenze sta cercando di allargare il fronte di chi vuole primarie aperte a tutti per i candidato sindaco del Pd, da schierare nelle eventuali (ma quasi sicure) primarie di coalizione. Ma l’assessore per ora ha il partito contro: il segretario regionale Andrea Manciulli e il responsabile nazionale organizzazione del Pd Andrea Orlando hanno ribadito che «fare primarie aperte nel partito prima di quelle nella coalizione indebolirebbe quest’ultima. E poi non si può richiamare nel giro di poco, per tre volte, la stessa base elettorale», che sarebbe infatti invitata al voto prima per le primarie del Pd, poi in quelle di coalizione e poi all’Election day per amministrative ed europee.
Comunque Cioni il 20 settembre radunerà in città la sua associazione "Firenze Democratica" per mostrare i muscoli: serpeggia l’ipotesi di un clamoroso strappo col Pd che porterebbe ad una lista civica. L’assessore, un istrione che di continuo organizza cene ed assemblee per rendere conto ai cittadini del suo operato (beccandosi ora applausi, ora insulti), punta forte sulla sua popolarità (tutti i sondaggi lo indicano come il politico cittadino più conosciuto) e su quel 10% di consensi che i cioniani raccolsero nelle ultime elezioni per l’assemblea costituente del Pd. Cioni recentemente ha poi incassato un successo politico con l’approvazione del nuovo regolamento di polizia municipale (quello vecchio era del 1932) da parte del consiglio comunale, concordato con i partiti di sinistra che ora non lo chiamano più «sceriffo». «È inutile che Maroni dia più poteri ai sindaci, nel regolamento abbiamo normato tutto, non ci sarà più bisogno di ordinanze», gongola. Nelle ultime settimane l’assessore, con la fama di duro dal cuore tenero, sta cercando di rifarsi una verginità a sinistra; in questa direzione vanno le sue due ultime iniziative: una decina di senegalesi «mediatori sociali» a presidiare il centro cittadino sull’antidegrado e altrettanti sui bus di Firenze ad accompagnare i verificatori di titolo.
Ma dopo una vita dedicata alla politica (divisa tra assessorati a Palazzo Vecchio, da dove a fine anni ’80 dispose la creazione della più grande Ztl urbana d’Europa, e anni in Parlamento), una delle cose di cui va più fiero è la laurea Honoris Causa in giurisprudenza conferitagli a dicembre dalla Madison University della Virginia. «Solo due cittadini non statunitensi hanno ricevuto questo riconoscimento: uno è Desmond Tutu, l’altro io. Un ex comunista premiato dagli americani», racconta sempre.

Corriere della Sera 9.8.08
Scelta la città dove viene costruita la più grande moschea tedesca
A Colonia cala l'armata delle destre anti-Islam
Borghezio: «Ci sarò». Atteso anche Le Pen
Lo scrittore tedesco Ralph Giordano, critico dell'Islam, si dissocia dall'iniziativa: «Sono le nuove camicie brune»
di Mara Gergolet


BERLINO — «No, non starò con le prossime camicie brune. Sono un sopravvissuto dell'Olocausto ». Così Ralph Giordano, il più famoso (e controverso) critico dell'Islam in Germania si distanzia dal Congresso anti-islamico convocato dalle destre a Colonia il prossimo 19-20 settembre. Che appare sempre più come un raduno d'estremisti e xenofobi da tutta Europa, con l'intento programmatico di portare a una «dichiarazione di Colonia » contro «l'Islamizzazione dell'Europa».
Colonia è, da anni, al centro del dibattito sulla coesistenza e integrazione dei musulmani in Germania. Da quando il Comune ha deciso di costruirvi la più grande moschea tedesca, che con i due minareti di 55 metri supererebbe in altezza il celebre duomo gotico: un progetto contestato, che è diventato una specie di detonatore del malcontento, disagio e sospetti nazionali. Contro il piano è nata anche l'associazione Pro-Köln, all'insegna di parole l'ordine come «patrioti impegnati», «attivisti della giustizia di destra», «no agli interessi » dei «difensori del multiculturalismo e del grande capitale»: un'organizzazione registrata all'Ufficio della difesa costituzionale del Nordreno Vestfalia come d'estrema destra. E che è l'organizzatrice dell'adunata.
Già spediti gli inviti. Sono annunciati il fondatore del «Fronte nazionale» francese Jean-Marie Le Pen, il capopopolo del Vlaams Belang fiammingo, Filip Dewinter, il leader dell'Fpö austriaco — il partito orfano di Haider —, Heinz-Christian Strache, il leghista Mario Borghezio. «A Colonia?», risponde al telefono da Genova, dove ha appena finito di parlare contro la costruzione della moschea. «Sì, certo che ci vengo, se il congresso non cambia fisionomia, se queste cose d'estrema destra restano fuori. Perché contro la devastante prospettiva dell'islamizzazione che minaccia una città, è necessario che ci sia uno schieramento compatto». Ma quei gruppi tedeschi d'estrema destra non mancheranno.
In cerca di qualche autorevole nome, gli organizzatori hanno annunciato la partecipazione di Ralph Giordano. Scrittore e giornalista di 85 anni, ebreo e liberale, attorno alla moschea ha costruito l'ultima battaglia personale e culturale. Apriti cielo: all'annuncio Giordano è andato su tutte le furie e ha denunciato il vile tentativo di «strumentalizzarlo ». Con quelle «camicie brune » lui non ha niente da spartire, la sua — ha detto al Kölner Stadtanzeiger — è una «protesta contro i sintomi di un Islam politico e militante», basata sul desiderio di «proteggere lo Stato costituzionale fondato sul diritto ».
Più volte, negli ultimi anni, l'hanno minacciato di morte. Successe dopo la pubblicazione delle sue memorie, con passaggi molto critici dedicati alla moschea: un simile tempio islamico — sosteneva — presuppone «un altro livello d'integrazione », che purtroppo non c'è. C'è invece — sostiene — la paura dei tedeschi a pronunciarsi contro la moschea, perché verrebbero marchiati a destra. Non basta: in Germania — sostiene — esiste una società parallela che è «una spina constante della democrazia »: gli immigrati musulmani hanno costruito un mondo a parte, coi «suoi ghetti ai quali nessun altro ha accesso».
Tesi che hanno fatto molto discutere. Ma che — dice ora — non hanno nulla a fare con la progettata adunata di populisti e xenofobi, la «crème de la crème del negazionismo in Europa ».

Corriere della Sera 9.8.08
Lo dice anche il titolo: un libro da non leggere
di Dario Fertilio


Questo è Il libro che la tua Chiesa non ti farebbe mai leggere, minacciano in apertura del loro maxi- pamphlet Tim Leedom e Maria Murdy. Presentati nel risvolto di copertina dalla Newton Compton come autori di besteller in America, Leedom e la Murdy fin dalla prima pagina danno l'impressione di avere in mente una specie di «soluzione finale» per la religione, anzi per tutte le fedi indistintamente, dal cristianesimo, nelle sue varie confessioni, all'ebraismo e all'islamismo, inclusi i predecessori (come lo zoroastrismo) o gli epigoni (tipo Scientology). Contraddicendo in poche righe le celebri indagini sul sacro di un Mircea Eliade, la ditta Leedom e Murdy ha in mente un'equazione capace di liquidare qualsiasi credenza nell'aldilà: per loro è una fantasia malsana, nata o dalla paura (nei primitivi neanderthaliani, ma anche oggi) o dalla ingenua fede nei sogni. Dunque, la religione non va trattata con serietà, ma piuttosto con sospetto: tutti i mali dell'età contemporanea vengono da là, dall'odio e dall'intolleranza religiosa. Oggi, sentenziano gli autori, «è la religione a indebolire e uccidere gli esseri umani». E aggiungono: «Nella storia non è mai avvenuto alcun genocidio che non sia stato alimentato dalla religione ». Come dire: nazismo e comunismo, notoriamente antireligiosi, non sono mai esistiti, ovvero non erano realmente genocidi. Per chi non si senta appagato da questo incipit, sono disponibili le quasi 600 pagine del pamphlet, corredate da giocosi segnali di divieto (tracciati su croci, mezzalune, stelle di Davide eccetera). E tali da far pensare che la Chiesa citata nel titolo, dopotutto, non avrebbe tutti i torti a scoraggiarne la lettura.

Corriere Fiorentino, inserto quotidiano del Corriere della Sera 9.8.08
Carrara Tre mostre a tema, opere anche per le strade
Non solo marmo, tutto fa scultura
Maestri e nuove tendenze alla Biennale
di Valeria Ronzani e Maddalena Ambrosio


Dici Carrara e pensi marmo. Fin da prima di Michelangelo senza alcuna soluzione di continuità. Da marmo a scultura il passo è breve. Così la XIII edizione della Biennale di Carrara, in corso fino al 28 settembre, ha un titolo che lascia adito a pochi fraintendimenti: «Nient'altro che scultura».
«Il titolo è un po' ironico racconta il curatore Francesco Poli - . Sta ad indicare che la scultura non è solo blocchi di marmo, ma vuole anche ribadire, in anni in cui le biennali spuntano come funghi, l'identità forte di questa manifestazione. La Biennale è nata nel 1957, ha avuto diverse vicissitudini, ma negli ultimi anni è divenuta sempre più internazionale. Non deve però essere una manifestazione fine a sé stessa, ma stimolare anche l'attenzione verso il sistema lapideo di questo territorio, cave, laboratori, istituzioni, Museo, Accademia».
Così è l'intera città ad essere coinvolta nella kermesse, in quella che Poli ci tiene a sottolineare essere una biennale di ricerca, «aperta alle nuove tendenze, con il confronto fra artisti importanti, che sono ancora un riferimento, Gilberto Zorio, Anselmo, Penone, Tony Craig, e giovani scultori già con esperienza internazionale ». Se della rete che forma il tessuto di questa Biennale fanno parte per la prima volta 15 laboratori, lo zoccolo duro dell'esposizione è nell'ex convento di San Francesco, restaurato e divenuto il Centro Arti Plastiche Internazionali e Contemporanee. Tre mostre a tema, secondo la definizione di Poli, dove si spazia da «La forza attuale del marmo», connotata da un modo innovativo di usare la pietra, a «Le nuove statue», «spesso realizzate con resine, silicone, materiali diversi, raffigurazioni iperrealiste che mirano a fare un'operazione di estraniamento, quasi sempre su temi forti, come la morte, o legati all'esistenza quotidiana».
Fino ad arrivare alla «Scultura come corpo vivente», che coinvolge le arti performative, con video e proiezioni. Perché dagli anni Ottanta si è arrivati ad una definizione allargata di scultura, che da un lato coinvolge la tridimensionalità, dall'altro, quando si tratta di pietra o di materiale lapideo, non la considera così necessaria. Ecco quindi anche le opere bidimensionali di Gilberto Zorio, di Yi Zhou, di Nunzio, di David Casini. E se l'accezione di scultura si è talmente allargata da includere il corpo vivo della body art, proprio «La forza attuale del marmo » sta a dimostrare come questo materiale, che ha vissuto alterne fortune nel contemporaneo, sia tornato in auge. Basti pensare a Marc Quinn, uno dei più affermati esponenti fra gli «Young British Artists», qui presente con due marmi che ritraggono due donne nude disabili.
Dal Duomo all'intera via del Plebiscito, per l'occasione chiusa al traffico, si snoda un'altra sezione; qui c'è l'opera più tradizionale in mostra, uno dei cardinali di Manzù, cui fa da contraltare un bellissimo totem in cemento di Mirko Basaldella, proprietà del Comune di Carrara, dimenticato in qualche andito e restaurato per l'occasione. Ghiotto prologo sono i 4 omaggi, ad artisti come Louise Bourgeois, al Parco della Padula, o l'igloo di Mario Mertz nella Chiesa del Suffragio e, nell'aula magna dell'Accademia di belle arti, l'«Aula di scultura» di Giulio Paolini. Fino al ricordo di Pietro Cascella con l'esposizione di suoi bozzetti in gesso. Completa il percorso, fra Accademia di belle arti e Casa dello studente, una scelta di opere di giovani artisti dalle principali accademie europee.

Repubblica 9.8.08
L’intervento terapeutico negato a una donna ricoverata al San Camillo
È estate, vietato abortire
di Laura Serloni


Aborto terapeutico: anestesista obiettore donna bloccata in corsia
Roma, al S. Camillo: gli altri tutti in ferie
"Finora non mi hanno dato dei tempi certi e il termine per effettuare l´intervento scade giovedì"

ROMA - Da quattro giorni in attesa di un medico che pratichi l´aborto terapeutico. Accade a Roma a una donna che è rimasta bloccata nell´ospedale San Camillo aspettando l´arrivo di uno dei pochi ginecologi non obiettori, che al momento risultano tutti in ferie. «Sono stata ricoverata martedì scorso e al momento mi hanno rimandata a lunedì prossimo», ha raccontato la paziente. Aggiungendo: «Ma non mi hanno dato alcuna certezza. Eppure la questione è urgente visto che giovedì prossimo scade il termine per l´intervento. Il dramma è che dovrò proseguire la gravidanza e tenere il bambino, che però nascerà comunque morto».

Tutti in ferie gli anestesisti non obiettori del centro per le Interruzioni volontarie di gravidanza dell´ospedale San Camillo-Forlanini. E una donna resta bloccata quattro lunghi giorni in astanteria, aspettando l´aborto terapeutico. Dolori lancinanti e stress, ma nessuno interviene. Tutto rimandato a lunedì. Nella speranza che, nel pieno della settimana ferragostana, si trovi un medico non obiettore disponibile a infilarsi il camice.
La diagnosi, stilata da un centro di Verona specializzato in analisi prenatale, è chiara. Parla di "feto idrocefalo e displasia renale bilaterale". In altre parole il cervello del piccolo sarebbe pieno di liquido amniotico e proprio per la malformazione ai reni non riuscirebbe a respirare fuori dal grembo materno. La patologia è stata riscontrata solo al quinto mese di gravidanza. E l´unica soluzione prospetta dai sanitari è l´aborto terapeutico, ma i tempi sono strettissimi. Per la legge 194, l´interruzione di gravidanza non può essere eseguita oltre la ventiduesima settimana. Restano quattordici giorni, durante i quali bisogna riuscire a trovare un centro per l´intervento.
L´ospedale più vicino per la donna è quello di Borgo Roma nel veronese. «Nonostante i numerosi referti che indicano la gravissima patologia - racconta il marito - volevano far fare a mia moglie altri accertamenti e protrarre i tempi. Ma le condizioni erano così critiche che rimandare ulteriormente l´intervento mi sembrava una follia. Così ci hanno consigliato di venire al San Camillo, ma qui la nostra via crucis continua».
La paziente martedì arriva a Roma. Non ci sono stanze. O meglio, nel reparto di Ostetricia è disponibile un solo letto per l´interruzione volontaria di gravidanza. Per la carenza di infermieri non c´è posto nel padiglione di Ginecologia. Il giorno dopo la trentenne viene ricoverata con urgenza. Passano le ore. Niente. Le vengono somministrati farmaci per indurre il parto, ma l´utero non si allarga. Nel sangue è alta la concentrazione di medicinali. La pressione arteriosa è flebile. Per i sanitari, l´unica soluzione è l´intervento chirurgico. Occorre l´epidurale per garantire l´effetto sedante. Ma nell´ospedale non si trovano anestesisti, sono in vacanza e sul piano delle presenze la scritta "in ferie" corre sui vari nomi. L´unico di turno, obiettore di coscienza, si rifiuta di procedere. Quindi, l´operazione è rinviata. A quando non si sa. Gli spasmi sono lancinanti. Gli antidolorifici fanno effetto, ma la donna è costretta a restare sdraiata, immobile nel letto, ancora per giorni. Il fine settimana è off limits. Si ferma anche la somministrazione di farmaci per indurre il parto perché il sangue si depuri. «Se ne riparlerà lunedì», tagliano corto i medici.
«Non mi hanno dato nessuna certezza - si sfoga la paziente - e la cosa assurda è che sono in balia del caso e delle vacanze dei sanitari. Finora mi sono solo sentita ripetere "si vedrà". Non mi hanno dato dei tempi certi e il termine per eseguire l´aborto scade giovedì, poi sarò costretta a tenere il bambino fino al nono mese, ma nascerà comunque morto. Se volessi cambiare ospedale dovrei ricominciare tutto daccapo: altri accertamenti, nuove visite, ancora impegnative e ulteriori affanni. Così molte donne sono costrette ad andare all´estero, dove tutto sembra più semplice». Insomma, gli stessi problemi sono rimandati all´inizio della settimana prossima, sperando che allora scendano in campo anestesisti non obiettori. Altrimenti bisognerà aspettare ancora.

Repubblica 9.8.08
Sono medici non obiettori. Si lamentano: non sappiamo quanti siamo e ci isolano sempre più
"Mobbizzati perché applichiamo la 194" e i ginecologi fondano un’associazione
di p.co.


"Siamo pronti a presentarci come parte civile a sostegno di chi si trova in difficoltà"

ROMA - Pochi, liquidati come quelli che si occupano di "un lavoro sporco", isolati e in alcuni casi persino mobbizzati. I ginecologi non obiettori in Italia si contano e sono sempre meno. Ancora meno quelli tra loro che sono disposti a fare un aborto terapeutico.
«Quanti siamo e chi siamo noi ginecologi ospedalieri che affrontiamo le tematiche dell´aborto terapeutico in ospedale? Non lo sappiamo, perché non esiste una lista delle regioni, né all´istituto superiore di sanità, né al ministero della Salute», denuncia in una lettera la ginecologa Silvana Agatone. Anche per questo motivo, a giugno scorso, è nata l´associazione L.A.I.G.A. (Libera associazione italiana ginecologi per l´applicazione della legge 194/78) che si propone di mettere insieme i medici che si occupano di garantire alle pazienti in tutto il paese il diritto di abortire.
Il caso dell´aborto terapeutico, chiarisce Agatone, è particolarmente spinoso: se viene diagnosticata una malformazione del feto «la coppia deve migrare da un ospedale all´altro in cerca del luogo dove possa sottoporsi ad aborto perché, come si evince dall´ultima relazione del ministero della Salute sulla 194 del 21 aprile 2008, non esiste una rete di collegamento su questo punto».
Poi, come è accaduto alla donna ricoverata al San Camillo di Roma, la situazione può anche peggiorare durante i periodi di vacanza. Il centro dove sottoporsi ad aborto lo si trova ma a causa delle ferie manca chi può fare l´intervento.
Oltre a essere un lavoro gravoso e penalizzante per i medici, la ginecologa romana denuncia che le lacune della 194 (ovvero il fatto che non specifici su quali malformazioni agire) può esporre i medici non obiettori anche al rischio di denunce.
«Sostenere psicologicamente una coppia in questo percorso ti svuota, anche a noi piace di più essere in sala operatoria per far nascere una vita piuttosto che compiere questo lavoro che trovo compassionevole», aggiunge Agatone e chiarisce che per discutere e affrontare anche questi problemi è nata l´associazione L.A.I.G.A. che servirà «a difendere noi stessi e le donne e poterci presentare come parte civile a sostegno di chi si dovesse trovare in difficoltà».

Repubblica 9.8.08
Lo stato dei diritti in Italia
di Adriano Prosperi


Qui si commenta una non notizia, un silenzio. Si dice: cane che morde uomo non fa notizia. E´ la massima fondamentale del mondo dell´informazione: quel che è abituale, ripetitivo, fissato nelle regole della natura e non vietato dalla legge non fa notizia. Applichiamo la regola a un fatto dei nostri giorni. Un fatto a tutti gli effetti grave – una tentata strage – che però non ha fatto notizia. Ecco il fatto: nella tarda serata di lunedì 29 luglio anonimi attentatori a bordo di un "quad" hanno lanciato una bottiglia molotov contro roulottes in sosta nell´area industriale di un piccolo centro toscano. L´atto criminale è rimasto solo potenzialmente assassino perché la molotov non è scoppiata. Un caso fortunato, che non riduce la responsabilità di chi ha tentato di uccidere. Eppure la notizia, emersa per un attimo nella cronaca (ad esempio, su Repubblica del 30 luglio, sezione Firenze, pag. 7), è affondata immediatamente nel silenzio.
Chi scrive queste righe ha tentato di capire meglio i fatti e soprattutto i silenzi attraverso un contatto diretto con gli abitanti di un luogo che gli è per ragioni biografiche specialmente familiare. Ma si è dovuto arrendere davanti a gente distratta, disinformata, simpatizzante più o meno apertamente per gli attentatori. Molti affettavano di non sapere, pochi ammettevano che si era trattato di cosa spiacevole, ma minimizzando: una ragazzata, un gesto innocuo, che aveva fatto pochi danni (appena una carrozzeria ammaccata). Il resto, il pericolo corso da una famiglia, lo spavento di bambini e adulti, la loro rapida decisione di fuggire dal luogo dell´aggressione, non sembrava suscitare nessuna partecipazione. Bilancio: solidarietà evidente con gli autori dell´attentato, ostilità verso chi ne era stato minacciato. Quasi un clima mafioso. Ma a differenza dei casi di mafia, in questo caso omertà e silenzio locali hanno avuto un riscontro nazionale. Il silenzio è rapidamente calato sul caso . E le indagini ufficiali, che di norma qualcuno deve pur svolgere, non avranno vita facile.
L´enigma ha una soluzione facilissima. Nel luogo dell´attentato era in sosta per la notte una carovana di automobili e roulottes di nomadi sinti. Solo per caso non ci sono stati dei morti: nelle roulottes c´erano dei bambini. E ancora una volta, come accadde anni fa al criminale che, non lontano da quel piccolo centro toscano, pose in mano a una piccola mendicante zingara una bambola carica di esplosivo, i potenziali assassini sono stati coperti dalla solidarietà collettiva . Chi conosce la banalità del male, la quotidiana serpeggiante avanzata della barbarie che precede e sostiene le modificazioni profonde dei rapporti sociali, tenga d´occhio l´episodio. O meglio: annoti il silenzio che ha inghiottito quella che solo per caso è stata una mancata tragedia. Ne è stata teatro una regione – la Toscana – che è d´obbligo definire «civile». Non si sa bene perché. «Civile» appartiene all´esercizio dei diritti e dei doveri di cittadinanza. Da quando la specie umana ha riconosciuto in documenti solenni che non deve esistere nessuna differenza di dignità e di diritti tra i suoi membri, la civiltà si definisce dall´assenza di razzismi e dalla lotta contro le discriminazioni di ogni genere. E la cultura che si studia e si insegna ha la sua misura fondamentale nell´educare ai valori della cittadinanza attiva. Certo, la Toscana ha un patrimonio grande di cultura. La sua economia ne vive: cultura di terre incise dal lavoro come da un sapiente bulino, disegnate nelle opere di una grandissima tradizione pittorica. Bellezze naturali e bellezze d´arte vi sono inestricabilmente legate. Anche patiscono insieme le minacce del mercato. Per esporre meglio la merce si affaccia periodicamente nelle opinioni locali la proposta di eliminare dalla vista dei clienti le presenze sgradevoli: i "vu cumprà", i mendicanti, gli storpi e naturalmente gli zingari. "Corruptio optimi pessima", diceva la massima antica: la caduta è tanto più pericolosa quanto più dall´alto si precipita. Gli abitanti della regione che vanta tra i suoi titoli di nobiltà la prima abolizione legale della pena di morte oggi ospitano e nascondono un virus antico e pericoloso. Non sono i soli. E non basterà il voto di condotta restaurato nelle scuole a educare i futuri cittadini se chi getta una bottiglia molotov contro gli zingari viene impunemente vissuto dalla collettività come «uno di noi»: noi in lotta contro loro – i diversi, i senza diritti.
Un´ultima osservazione: l´ostilità nei confronti dei nomadi, degli zingari, è antica e diffusa, in Toscana come in tutta Italia. Ma nessuno aveva mai pensato di ricorrere alle molotov contro di loro. E´ un salto di qualità senza precedenti, il gradino più alto toccato da aggressioni e tentativi di linciaggio che non fanno nemmeno più notizia. E una cosa è evidente: non ci saremmo mai arrivati senza la campagna di diffamazione e di criminalizzazione condotta da partiti politici di governo e senza la recente legittimazione giuridica della discriminazione nei confronti delle presenze «aliene» – zingari, immigrati clandestini, esclusi dalla comunità («extracomunitari»). Il cattivo esempio viene da chi ha la responsabilità di governare gli umori collettivi e non sa rinunziare a eccitarli. Se quella molotov fosse esplosa, oggi saremmo qui a contare le prime vittime di una campagna irresponsabile alimentata dall´alto. Chi favoleggia di proteste in difesa dei diritti di libertà in Cina cominci a prendere sul serio quel che si dice nel mondo sulla situazione dei diritti umani in Italia.

Repubblica Firenze 9.8.08
L’ultimo partigiano
Cecchi, l'eroe che cadde a battaglia finita
di Simona Poli


Il figlio Giancarlo racconta la storia dimenticata del comandante comunista massacrato dai nazisti il 31 agosto ´44 quando il fronte già si allontanava
"Andava a Peretola, i tedeschi lo bloccarono al Barco: aveva una pistola e la tessera del Pci. Questo gli valse la condanna a morte"
Ho sempre vissuto con la rabbia dentro per la sua morte e una voglia ossessiva di vendicarlo. Era un uomo energico, bello, fiero, autorevole, grande organizzatore
Anche il fratello di mio padre, Bruno, fu ammazzato dai fascisti Lui era socialista, lo fece fuori la banda Carità. Ora una strada ricorda i due fratelli

È un eroe senza gloria il partigiano Guido Cecchi. Suo figlio Giancarlo, che oggi ha 81 anni, racconta di aver collezionate solo due medaglie. «La prima è quella Garibaldina, me la appuntò sulla giacca Luigi Longo nel ´47. Poi nel 1965 Terracini venne a Sesto Fiorentino perché il Pci ci consegnava la medaglia d´oro alla memoria del babbo». A Cecchi è dedicata anche la sezione di via Palazzuolo, nel quartiere dove abitava con la famiglia durante la guerra - quattro stanze in via de´ Canacci - e a Peretola c´è una strada intitolata a lui e a suo fratello Bruno, socialista, che fu ammazzato dalla Banda Carità. «La targa di marmo sul luogo in cui fucilarono mio padre l´ho comprata di tasca mia e l´ho fatta mettere sul muro della fattoria Ricceri a Morello, era lì che i tedeschi avevano il comando in quei giorni. Poi fecero dei lavori di ristrutturazione e demolirono tutto, quella lapide la ritrovò anni dopo per caso un mio conoscente da un rigattiere di via dell´Agnolo, pare che fosse dentro una cassapanca in casa di un muratore che l´aveva portata via da Morello. Il 21 aprile del 1991 la rimettemmo nella sezione del Pds di via Palazzuolo e spero che sia ancora lì, anche se è tanto tempo che non vado a controllare».
Una strada, due medaglie, una targa nascosta. Un po´ poco per onorare il coraggio di un uomo che ha dato la vita per la libertà. «Quando lo presero aveva 46 anni e da appena venti mesi era morta la mia mamma in un incidente. Eravamo tre figli, due fratelli e una sorella, io quello di mezzo. Avevo 16 anni ed ero partigiano anch´io, aiutavo mio padre a portare documenti e cibo a chi era nascosto e accompagnavo i compagni che venivano da fuori alle riunioni che si tenevano a Colonnata», racconta Giancarlo Cecchi. «Della sua morte ci avvertì quindici giorni dopo Marino Barducci, il padre di Andrea, l´attuale segretario metropolitano del Pd. Anche lui era stato catturato ma a differenza di mio padre aveva le tasche vuote e questo gli salvò la vita». Guido invece aveva addosso roba che scottava: la tessera del Comitato di liberazione nazionale, quella del Pci e una rivoltella. «Gli fecero scavare la fossa prima di ammazzarlo», racconta il figlio con la voce che si rompe ad ogni parola, «e dopo avercelo buttato dentro morto la fecero ricoprire dagli altri partigiani. Riuscirono a coprirgli la faccia con la giacca, almeno quello». Lo fucilarono da solo e fu l´ultimo partigiano a morire a Firenze. Era il 31 agosto del ´44, Guido stava andando a Peretola a cercare notizie delle due nipotine, le figlie del fratello Bruno che era stato ucciso. Una delle ultime pattuglie tedesche in ritirata lo bloccò in via del Barco: «Ho sempre vissuto con la rabbia dentro per la sua morte e una voglia ossessiva di vendicarlo», racconta Giancarlo. «Era un uomo energico, bello, fiero, autorevole, dotato di un´eccezionale capacità organizzativa, riusciva a far curare i feriti rifugiati nelle case, a portare da mangiare a chi non ne aveva, a ritrovare i familiari di chi scappava. Durante la guerra si faceva dare dalla sorella, che faceva la camiciaia, i rocchetti di filo e li scambiava con polli e conigli che i contadini portavano dalla campagna negli stallaggi di via Palazzuolo, costruì persino un pozzo artesiano per pompare l´acqua». Un uomo d´azione, insomma, che nei giorni precedenti la liberazione aveva partecipato a sabotaggi di mezzi tedeschi, furti di cartelli indicatori sulle strade di comunicazione battute dai soldati e insieme ai suoi uomini aveva diffuso fogli clandestini che invitavano ad aderire alla Resistenza, tra i suoi compagni c´era Romano Bilenchi. «Il babbo lavorava al cinema Fulgor, faceva la maschera. Allora le prime file erano sopraelevate con delle pedane di legno ed era lì sotto che lui nascondeva le armi, rischiando ogni giorno di essere scoperto», racconta il figlio. «Di politica non parlavamo, ero troppo giovane. Mi mandava però a portare i giornali nelle case, Azione comunista ad esempio. E poi insieme trovammo 400 quintali di farina nel garage Europa in Borgognissanti e mentre li portavamo al forno di via de´ Pucci per fare il pane le donne affamate ci presero d´assalto con le pentole in mano». Giancarlo andò a recuperare il corpo con un camion della protezione antiaerea e lo seppellì al cimitero dell´Antella. «Quando ricordo mio padre, sempre mi vengono in mente le ultime parole che disse. Mi raccomando pensate ai miei figli che restano soli».

il Riformista 9.8.08
Storia. Razza partigiana, un nero da medaglia d'oro
di Stefano Ciavatta


È il 1941, siamo Roma, non ancora città aperta, in piazza san Giovanni in Laterano: due studenti universitari passeggiano per la strada. Uno in particolare è sorpreso quasi spaventato dallo scatto fotografico in pieno giorno. Si chiama Giorgio Marincola e ha tutte le ragioni per esserlo. Giovane azionista, allievo di Pilo Albertelli professore di storia e filosofia (ma soprattutto di antifascismo, trucidato poi alle fosse Ardeatine), Giorgio sarà l'unico partigiano italiano di colore decorato nel 1953 alla memoria con la medaglia d'oro al valore militare.
Straordinaria e frammentata la storia di questo ragazzo morto a soli 23 anni, messa insieme da Carlo Costa e Lorenzo Teodonio in «Razza Partigiana». È un intreccio di fatti certi (a cominciare dal colore della sua pelle, così imbarazzante all'epoca per chi era persino antifascista) e di silenzi. Silenzi anche politici: muore infatti nell'eccidio di Stramentizzo, primi di maggio del 45, a guerra finita. Il fascicolo della strage nazista era tra i 695 fascicoli riguardanti crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l'occupazione nazi-fascista, occultati subito dopo la guerra e rinvenuti nel 1994 dentro l'armadio della vergogna, in uno sgabuzzino della cancelleria militare di Roma. Su tutti il promemoria Atrocities in Italy dei servizi segreti britannici che aveva raccolto denunce e materiale. Nel massacro Marincola è colpito alle spalle, «struck by bullet on left shoulder blade» come dice il rapporto. Le SS oramai allo sbando, uccisero a tradimento civili e partigiani, bruciando le case di due paesi, per poi sfilare cantando i propri inni.
Silenzio ci fu anche quando si trattò di riconoscere l'identità del cadavere del partigiano nero. Un ufficiale medico sudafricano? Un soldato afro americano? Un internato mulatto del lager di Bolzano? Era invece semplicemente un italiano di origine somala, figlio di un sottoufficiale calabrese dell'esercito e di una donna somala. Marincola passò indenne per le leggi razziali che mettevano al bando i meticci grazie al precedente riconoscimento paterno, idem per la sorella. Divenne partigiano a Roma poi si spostò a Viterbo, sabotaggio e guerriglia, poi viene paracadutato a Biella al seguito di Edgardo Sogno, di nuovo in azione, poi venne fatto prigioniero, torturato e spedito nel lager di Bolzano, poi arrivò la liberazione da parte degli alleati nel gennaio '45. Ma non è finita, il tenente partigiano «Mercurio» ritornò tra le formazioni partigiane in val di Fiemme a combattere contro le sacche di resistenza tedesche.
Oltre alla medaglia e una laurea in medicina ad honorem, di lui rimangono poche cose, gli appunti da studente, i ricordi degli amici e dei compagni di scuola. La scelta di campo antifascista avvenne al liceo, tra Albertelli e Croce, ma nulla è documentato per certo. Tranne le sue azioni:«I've stood, and fired, and killed» avrebbe scritto Fenoglio più tardi.

«Razza Partigiana. Storia di Giorgio Marincola 1923- 1945», Carlo Costa e Lorenzo Teodonio, Iacobelli editore

La Repubblica Napoli 9.8.08
Il testo di Giuseppe Cantillo sulla produzione scientifica del padre dell'idealismo tedesco a Jena
Hegel, le lezioni e la sintesi del sistema filosofico
di Sossio Giametta


È come entrare nel complicato laboratorio di uno dei più grandi cervelli umani Avamposto per Feuerbach, Marx Bauer, Stirner Schopenhauer Nietzsche e altri

Il sistema di Hegel, formato dalla Logica, dall´Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, dai Lineamenti di filosofia del diritto e dai corsi di Filosofia della storia, di Estetica, di Filosofia della religione e di Storia della filosofia, è la più grandiosa sintesi delle discipline filosofiche che sia giunta a noi dagli ultimi secoli; essa incorpora tutti i precedenti sistemi e abbraccia la teoria e la storia di tutte le forme di realtà: una quercia maestosa, attorniata da alberi minori. Ma le querce si sviluppano dalle ghiande. Tra la ghianda (qui gli Scritti giovanili) e la quercia intercorre uno sviluppo vertiginoso (ved. il saggio di Giuseppe Cantillo, Hegel a Jena), in sé drammatico, fatto di reiterati avvicinamenti-riallontanamenti, che sono in realtà incorporazioni con successivo rigetto (anche Augusto si alleò e poi eliminò, uno per uso, i suoi competitori). Al tempo del suo trasferimento da Francoforte a Jena, nel gennaio 1801, Hegel si trovava nel punto culminante di questo processo di formazione e trasformazione. A Jena strinse un sodalizio con Schelling, ultimo capo da doppiare prima di giungere in vista della definitiva e solitaria libertà e indipendenza. Da Schelling e dal suo sistema dell´idealismo trascendentale (1800) gli veniva allora molto, ed egli ricambiò sia collaborando con Schelling, col quale era al tempo fondamentalmente d´accordo, al "Giornale critico della filosofia", sia stabilendo la Differenza tra il sistema fichtiano e quello schellinghiano", in cui riconosceva merito immortale alla fichtiana Dottrina della scienza, ma la bocciava in sostanza come sistema. Anche da Schelling si sarebbe liberato, nella famosa Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, in cui per così dire l´Everest si stacca dal K2 e lo sormonta, portando alla massima altezza il massiccio Kant-Reinhold-Fichte-Schelling-Hegel. Tra una disputa e un´alleanza, Hegel incubava dunque il suo proprio sistema. Del progredire di questo interno processo dà testimonianza il libro curato da Giuseppe Cantillo. Esso riporta le lezioni sulla filosofia dello spirito tenute da Hegel a Jena dal 1803 al 1806, e più precisamente, nella prima parte, i "Frammenti sulla filosofia dello spirito (1803-1804)" e, nella seconda, la "Filosofia dello spirito (1805-1806)". I "Frammenti" sono come un magma ribollente, in cui spuntano continuamente temi e problemi che si ritrovano nelle opere posteriori (la coscienza, la molteplicità, il linguaggio, lo strumento, il possesso, la famiglia, il riconoscimento, lo spirito del popolo), e che man mano prende sempre più forma, fino a trasformarsi nella "Filosofia dello spirito" della seconda parte, cioè in un nucleo di sistema vero e proprio. Non è una lettura facile. È come entrare nel complicato e fumigante laboratorio di uno dei più grandi cervelli umani. Ma non è un´impresa impossibile per chi, armato di sagacia e tenacia, abbia a cuore di esplorare gli avamposti di uno dei più grandi sistemi filosofici dell´Occidente, dal quale sono fra l´altro venuti fuori, anche per contrasto, grossi calibri come Feuerbach, Marx, Stirner, Bauer, Schopenhauer, Nietzsche e altri. Molto aiuta, anzi direi che è indispensabile, come guida chiara e saggia, l´Introduzione di Cantillo, che prende per mano il lettore e lo guida con sicurezza nella "selva selvaggia e aspra e forte". Questo libro era stato già pubblicato nel 1971, ma poi vi sono state nuove edizioni critiche dei testi hegeliani e sono anche apparse, in Italia e in Francia, eccellenti traduzioni dei medesimi, sicché è apparso opportuno ristampare il volume dopo un´accurata revisione, che tiene conto di tutte queste novità.