lunedì 1 settembre 2008

l’Unità 1.9.08
Non solo Roma: ecco la violenza fascista che viene dal basso
È allarme dopo l’accoltellamento di un ragazzo all’Ostiense
Lo storico: «C’è un clima di destra che favorisce i raid»
di Eduardo Di Blasi

LE CRONACHE degli ultimi due anni sono un campo di battaglia che conta morti e feriti, assalti e agguati che stanno a metà tra l’aggressione politica degli anni 70 e i futili motivi di questi tempi, il controllo di un territorio immateriale, da difendere con le lame contro chi è diverso. Parenti e amici piangono Renato Biagetti accoltellato all’uscita di un concerto a Focene (Roma) il 27 agosto del 2006 e Nicola Tomassoli, lasciato a terra dopo un pestaggio skinhead a Verona nella notte tra il 30 aprile e il primo di maggio scorso. Roma rimane colpita dall’assalto di Villa Ada del 28 giugno 2007, dalle cariche alle caserme del novembre successivo, dal raid al circolo Mario Mieli in piena campagna elettorale per le comunali, dall’ultimo episodio di violenza dell’altra notte, l’aggressione dei tre ragazzi che erano usciti dal concerto in memoria di Biagetti.
«Una puncicata. Era quello che volevano fare, non una rissa». Partendo da questo assunto investigativo sull’aggressione dell’altra notte a Roma, Ugo Maria Tassinari, l’autore di Fascisteria (testo fondamentale su cinquant’anni di neofascismo nel nostro Paese, riedito pochi mesi fa per Sperling & Kupfer), prova a spiegare cosa ci sia alla base di questa violenza cieca, ingiustificata, meno che politica. Dice bene la signora Stefania Zuccari, la madre di Renato Biagetti, quando chiede sicurezza: «Non vogliamo vedere i nostri figli a terra in una pozza di sangue», non perché hanno una militanza politica o mostrano un’appartenenza. Eppure, spiega Tassinari: «Non siamo negli anni Settanta, e nemmeno negli anni Novanta». E articola: «Esiste sicuramente una scrematura di fascisti che rifiutano il percorso di reinserimento politico che stanno tentando tutti i gruppi dirigenti dell’area. È naturale che questo percorso trovi resistenze in gruppi umani che hanno sicuramente degli addentellati fascisti ma che a questo punto non hanno più alcuna caratteristica politica». Siamo davanti a «una destra che mantiene un immaginario e uno stile di vita e di pratiche sociali che sono legate a una tradizione di genere, ma che non ha legami diretti con la politica». Cani sciolti, emarginati, figli di un’appartenenza che vuole essere «dura e pura» che si proclama in lotta contro chi, anche tra le proprie fila, ambisce al salotto buono della politica. Quel salotto che con Berlusconi ha già aperto le porte del Parlamento a chi un tempo si professava fascista: «Vincenzo Piso, Marcello De Angelis, Alessandra Mussolini, Giuseppe Ciarrapico, Marco Rondini, Cristiano De Eccher...».
Loro sono l’altra faccia della medaglia, «rigurgito marginale dell’area neofascista», che però sta accanto al «diffondersi di comportamenti violenti e xenofobi da parte del Paese profondo in cui non c’è responsabilità diretta della fascisteria, ma che sicuramente esprimono una fortissima spinta a destra». Quello che è successo al campo rom di Ponticelli, l’incendio del palazzo degli africani a Pianura sono i sintomi di un Paese che cambia. «Si sta diffondendo, in un clima generale di svolta a destra estremamente forte, di egemonia culturale della destra, un rigurgito di violenza sociale che è chiaramente connotato a destra, ma in cui è assolutamente irrilevante il ruolo della fascisteria».
Eccola l’altra parte della medaglia. Se vogliamo notare le differenze con gli anni Settanta, ma anche con gli anni Novanta, «allora le emergenze di destra erano fortemente connotate in senso politico neofascista. Oggi ci sta un’offensiva di destra di segno diverso, fatto di populismo xenofobo, identitario, di forte egoismo sociale ecc. Non fascista». Il resto è contorno. Violenza ingiustificata coperta da qualcosa che viene chiamata politica. «Restano gruppi minoritari, legati a questi stili e a queste pratiche violente che si manifestano a macchia di leopardo. L’episodio della puncicata che è chiaramente preordinata nell’anniversario della morte di Renato, è l’esempio di questa pochezza politica. Perché l’agguato nel giorno dell’anniversario della morte di Renato Biagetti non fa altro che rimarcare la natura fascista dell’agguato di Focene. Una cosa autolesionista dal punto di vista politico».
Il «trascinamento residuale di questa archeologia» ha per adesso un solo luogo di resistenza da anni noto: le curve degli stadi.

l’Unità 1.9.08
Livia Turco «Il Pd deve rilanciare la bandiera del voto agli immigrati»

«Bisogna rilanciare la bandiera del voto agli immigrati, perché il Pd l’ha ammainata». Lo ha dichiarato Livia Turco, partecipando ieri ad un dibattito alla Festa Democratica nazionale di Firenze.
Dibattito, in cui la deputata Pd ha proposto una legge di iniziativa popolare per il diritto di voto agli immigrati: «In Italia monta un clima di intolleranza verso l'immigrazione - ha detto - occorre dire basta e credo che un modo per farlo sia il diritto di voto agli immigrati. Proporrò al mio partito di fare una proposta di legge di iniziativa popolare, e quindi raccogliere 500mila firme attorno ad una proposta su diritti e doveri degli immigrati che pagano le tasse, rispettano le regole, e quindi è giusto che partecipino alla vita pubblica delle città».
La Turco è intervenuta anche sul tema del bullismo crescente nel nostro Paese. Per l’ex ministra una soluzione per mettere fine a tali episodi è proporre ai ragazzi sei mesi di servizio civile obbligatorio, sarebbe un modo per far conoscere loro il Paese in cui vivono e la realtà che li circonda.

l’Unità 1.9.08
Spagna, benvenuti nel paesino dove tutti si «sbattezzano»

Julia è stata battezzata due volte negli anni Trenta, la seconda volta dopo la Guerra Civile, in un orfanatrofio, la madrina era la moglie del generale Franco, Carmen Polo. È stato difficile riunire tutti i documenti ma ce l’ha fatta: il suo nome non figura più nelle liste della Chiesa spagnola.
A Rivas, comune amministrato da Izquierda Unida, l’Ufficio per la Difesa dei Diritti e delle Libertà è stato inaugurato a marzo scorso. Prima dell’estate si erano già registrate più di 300 richieste di apostasia, 2.500 consulenze telefoniche sul funzionamento del servizio di eliminazione delle generalità dei cittadini dalle liste della Curia. «Un vero e proprio boom, aiutato dal fatto che il Comune finanzia tutte le spese di invio degli atti», spiega Luis Miguel Sanguino, avvocato dell’ufficio. In Spagna, nel 2006 erano state emesse solo 47 richieste di apostasia, nel 2007 il numero si è moltiplicato per sei: 287. Nei primi sette mesi del 2008 sono già state presentate più di 2.000 domande. Quasi tutte verranno accettate dalla Chiesa perché garantite da due articoli della costituzione, da una promessa di disegno di legge del Governo e dall’azione militante dell’Agenzia per la Protezione dei Dati, che ha stabilito che i database della Chiesa sono uguali a quelli di qualsiasi altra agenzia di comunicazione o impresa. «Le richieste di apostasia vanno inviate direttamente al vescovo della città in cui si è registrato il battesimo», continua Sanguino. «A volte vengono accolte subito, soprattutto nelle città piccole, altre volte richiedono una negoziazione con la Curia o un appello all’Audiencia Nacional».
Maximiliano Peñuelas, 55 anni, residente a Madrid da più di 40, ha avuto la fortuna di ricevere il battesimo a Jaén, in Andalusia. La sua richiesta è stata accettata in tempi abbastanza brevi: cinque mesi. In agosto del 2005 Maximiliano aveva ricevuto l’e-mail di un amico che gli segnalava la possibilità di appellarsi all’articolo 16 della costituzione (Libertà Religiosa) e all’articolo 18 (Protezione dei Dati Personali) per sollecitare il riconoscimento della sua condizione di non credente. Ha subito scritto alla Curia di Jaén per richiedere l’invio del certificato di battesimo, ha mandato la richiesta di cancellazione al vescovo della città il quale gli ha risposto chiedendo anche la fotocopia della sua carta di identità e l’originale del suo certificato di nascita. Detto fatto. Il vescovo gli ha allora scritto una seconda lettera invitandolo a un incontro per verificare la sua convinzione nel ripudio del cattolicesimo. «È cosciente di quel che comporta la sua decisione, pecorella smarrita?», scriveva il vescovo. «Gli ho risposto di mio pugno con una lettera lunghissima», racconta Maximiliano. La sua domanda è stata accolta, costo totale dell’operazione 30 euro tra buste, francobolli, raccomandate.
Secondo l’ultimo barometro pubblicato dal Centro di Indagini Sociologiche (CIS), il 20,1% della popolazione spagnola si professa ateo o non credente. Il laicismo militante è un fenomeno in costante aumento. Sul web si moltiplicano i siti che promuovono l’apostasia. E le associazioni di atei e «libero-pensanti» non smettono di organizzare conferenze e manifestazioni per sensibilizzare i cittadini sul diritto al ripudio di una Chiesa alla quale sono stati iscritti senza esserne consapevoli. La «deriva laica» spagnola della quale tanto si è parlato in Italia ha anche un volto politico: la vicepresidente del Consiglio, Maria Teresa Fernández de la Vega, ex magistrato e attuale braccio destro di Zapatero. Ma è dal partito che governa a Rivas, Izquierda Unida, che arrivano tutte le pressioni per una rapida ed efficacie modifica della legge sulla Libertà Religiosa.
Dice Pepe Morales, portavoce di IU nel Congresso dei Deputati: «Bisogna cambiare il concordato con il Vaticano del 1978, è stato firmato prima della costituzione, ciò che prevede è illegale. So che sarà molto difficile ma abbiamo il diritto di pretendere che la Chiesa Cattolica non intervenga nel processo politico e che non riceva finanziamenti pubblici», dice. Il Psoe nel suo ultimo congresso ha indicato la sua linea in materia: diritto all’apostasia espressamente garantito per legge.

l’Unità 1.9.08
«In un mese e mezzo ho ottenuto la cancellazione del mio nome dal registro dei battezzati»
«Anche in Italia si può, ecco come»
di Maristella Iervasi

Il sacramento l’ha ricevuto da piccola, per volontà dei genitori. Ma oggi, a 40 anni, Giorgia N., impiegata a Milano, ha fatto cancellare il suo nome dal registro dei battezzati. «Non sono stata più praticante dall’adolescenza - racconta -. La spinta è stata un desiderio di coerenza. Mi considero atea e ho voluto che questa mia persuasione personale venisse riflessa nella rappresentatività che la Chiesa ha nel paese, vista l’ingerenza su tutto: dalla legge sulla fecondazione alle elezioni politiche».
Come è maturata questa scelta?
«Ho studiato nelle scuole cattoliche ma nessuna imposizione ho avuto dai miei genitori: fare la comunione e la cresima erano sacramenti erano tappe normalissime».
E dopo, cos’è accaduto?
«L’ateismo non è un risveglio. Crescendo, ho scelto per evoluzione intellettuale e mentale».
Come ha scoperto di “chiamarsi fuori”, l’apostasia?
«Ne avevo sentito genericamente parlare, ma non mi sono impegnata più di tanto: certo, ho frugato su Internet. Poi un giorno a pranzo con amici di amici ho conosciuto un avvocato che a sua volta l’aveva fatto. E allora mi son detta: “si può fare!”. Ed è andata: sono sbattezzata da un anno».
Una trafila lunga e burocratica?
«Per nulla. Personalmente nel giro di un mese e mezzo ho ottenuto la cancellazione del mio nome dal registro dei battezzati. E pensare che ho pure sbagliato parrocchia...».
Cioè?
«Per sbattezzarsi occorrono due raccomandate con ricevuta di ritorno indirizzate una alla diocesi di appartenenza e l’altra al parroco della chiesa dove si è ricevuto il sacramento. In base al modello fac-simile di domanda che mi inviò via e-mail il mio amico avvocato, ho presentato la mia istanza ai sensi dell’art-13 della legge n.675 del 1996».
Quale fu la motivazione?
«Recito testuale l’istanza inviata al responsabile del registro parrocchiale: Desidero venga rettificato il dato in suo possesso tramite annotazione sul registro dei battezzati, riconoscendo la mia inequivocabile volontà di non essere più considerata aderente alla confessione religiosa denominata Chiesa cattolica apostolica romana».
E quale fu la risposta?
«La curia di Milano mi rispose in tempi brevi scrivendomi: “Pur con certo rammarico desidero esprimere sentimenti di stima per questa sua scelta come segno di ricerca della verità a cui tutti siamo chiamati”. Sotto, però, si spiegava il mio errore: il mio nome non compariva nel registro di quella parrocchia».
Dunque, ha dovuto rifare tutto daccapo?
«Esattamente, ma è stato ugualmente rapido. Ho spedito la nuova istanza l’8 ottobre e prima di metà novembre ho ricevuto il responso: “Gentile signora, il suo desiderio è stato esaudito”. Sotto, una nota in 6 punti con le conseguenze di ordine giuridico. Cito solo l’ultima: “scomunica latae sententiae”».
Nella sua decisione ha pesato anche l’ingerenza della Chiesa sulle leggi del Parlamento e la vita politica. Ha cercato anche di fare proseliti?
«I miei amici mi hanno solo detto che ho avuto una bella idea».
Ha bambini?
«Si, un bimbo piccolo».
L’ha battezzato?
«Ovviamente no».

l’Unità 1.9.08
Un’Alba per il nuovo cinema italiano
di Gabriella Gallozzi

PERSONAGGI Alba Rohrwacher interpreta la sofferenza di Giovanna nel film di Avati. Ha fatto teatro, i registi riconoscono il suo talento, lei osserva: «Oggi si fa un uso strumentale del disagio, ma c’è, è profondo e non lo si vuole veder

Quel cognome così difficile da pronunciare, Rohrwacher, le viene da un papà tedesco apicoltore che, insieme a sua mamma insegnante, ha scelto di vivere nella campagna umbra. Forse anche la riservatezza, quel suo essere così gentilmente «appartata» le deriva proprio da questa infanzia «contadina», dalla quale è scivolata via quando ha scelto di fare l’attrice. È lei Giovanna, la «figlia» del film di Pupi Avati che ieri ha impegnato le cronache del festival, secondo italiano del concorso: Alba Rohrwacher, 29 anni, già nota come uno dei volti più interessanti e apprezzati del nostro cinema. Dopo piccole parti con registi noti (Mazzacurati, Guadagnino, Del Monte, Luchetti) l’exploit arriva con Giorni e nuvole di Soldini che le frutta un David di Donatello per il ruolo di figlia della coppia Buy-Albanese. Mentre da «segretaria» di Nanni Moretti in Caos calmo viene «notata» dalla grande platea. Risultato: un Ciak d’oro come rivelazione del 2008. E quindi copertine di magazine, interviste a dire soprattutto di questa sua bellezza così particolare: esile, elegante, un po’ alla Tilda Swinton di cui, effettivamente, vestirà i panni di figlia - ancora una volta - nel nuovo film di Luca Guadagnino, Io sono l’amore, storia di una grande passione.
Qui, invece, nel film di Avati sua madre è una bellissima Francesca Neri, alla quale Giovanna non assomiglia. Anzi, è stato fatto di tutto per imbruttirla, per darle quel carattere di ragazzina tormentata che arriverà persino ad uccidere...
«Alla base del disagio esistenziale di Giovanna c’è proprio il confronto con la bellezza di sua madre. Devo dire che Francesca è stata struggente nel dare carattere a questa donna che, apparentemente terribile, è in realtà incapace di esprimere tutto l’amore che prova per questa figlia così difficile».
Ma anche la tua interpretazione di Giovanna è struggente... Dare corpo al disagio mentale non deve essere stato facile.
«Sono stata molto sostenuta e protetta da Avati. Le riprese nel vecchio manicomio di Maggiano sono state davvero forti: sembrava che le mura emanassero tutta la sofferenza che è stata vissuta in quei luoghi. Del resto Giovanna impazzisce proprio quando la rinchiudono in manicomio, a contatto con quell’orrore. Come ho letto nel libro di Tobino, Libere donne di Magliano, i manicomi criminali erano veri luoghi di detenzione. Spesso le donne venivano buttate lì quando si ritenevano "scomode": mogli che tradivano i mariti, ragazze dai comportamenti non "adatti" per l’epoca. Ogni "diversità" ritenuta ingestibile finiva tra quelle mure. E lì accadeva di tutto, abusi sessuali, violenze, botte».
Oggi si parla tanto di disagio giovanile: come ti sembra che venga «gestito»?
«Per fortuna i manicomi non ci sono più. Però troppo spesso si fa un uso strumentale del disagio per sostenere il solito tema della sicurezza. Oppure si tende a nasconderlo. Vai a vedere poi quanta gente è depressa, sta male... Le ragazzine devono per forza seguire i canoni ufficiali, rincorrere il mito del successo. E il disagio è profondo, non solo tra i giovani, ma resta nascosto, non si vuole vedere».
A proposito di successo, si può dire che il tuo è arrivato....
«Non ho mai pensato di fare l’attrice aspettando il successo. A me interessa il mio lavoro. E sono stata fortunata perché ho fatto film interessanti. Aver raggiunto la notorietà mi permette di poter scegliere, questo sì. Ma quello che conta per me è dar voce a storie che valga la pena essere raccontate. Oggi il nostro cinema italiano sta davvero tornando a raccontare la realtà. Gomorra, Cover Boy e poi tanti documentari. Ne ho visto di intessantissimi in veste di giurata all’ultimo festival di Bellaria».
Prima del cinema hai cominciato col teatro. E come te c’è una nuova generazione di attrici, dalla Solarino di «Signorina F» alla Ragonese di «Tutta la vita davanti», che vengono da lì e sono «emerse» con film dai temi sociali forti. Finalmente stanno cambiando anche un po’ i canoni estetici richiesti per le attrici, non solo bellone con le labbra siliconate?
«È vero c’è una straordinaria generazione di nuovi attori. Quanto alla bellezza ho sempre pensato che sia piuttosto in uno sguardo, nel modo di muoversi, nell’interiorità. I miei modelli sono Bette Davis, Hanna Schygulla, Meryl Streep, la Magnani. Ma anche Isabelle Huppert, Monica Vitti, Valeria Golino e pure Francesca Neri».
Insomma, tanto teatro, il cinema, ti interessi al sociale. Si può dire un’attrice intellettuale?
«Mi sembra un complimento».
A tanti oggi appare un insulto...
«Per me rimane un complimento».

Repubblica 1.9.08
E Picasso rifece Las Meninas

A Barcellona le opere del maestro spagnolo e degli artisti che nel tempo si sono ispirati al suo capolavoro
Nell´Ottocento il mito della Spagna era vivissimo in Francia da Manet a Gautier e Bizet
Sono ben 44 le tele che l´autore di "Guernica" dedicò al capolavoro che oggi è al Prado
I sovrani giungono inattesi nell´atelier del pittore in abito nero con croce rossa sorprendendo tutti

BARCELLONA. Las Meninas, titolo attribuito alla grande tela di Diego Velázquez solo nel secolo decimonono, fu dipinta intorno al 1656 e fu un gesto d´ardimento senza pari: infatti il pittore pone sulla sinistra della composizione il suo ritratto a figura intera in grande evidenza nell´atto di dipingere, disponendo i ritratti di Filippo IV e della regina Mariana riflessi nello specchio che si scorge sul fondo della tela. I sovrani giungono inattesi nell´atelier sorprendendo tutti. L´eccezionalità della composizione, alta oltre 3 metri, è anche nella compresenza nel dipinto del pittore con i suoi sovrani. Evento unico al quel tempo, che si sappia. Velázquez, in abito nero con croce rossa sul petto, ponendo in atto una strategia sociale per la promozione delle arti liberali, sembra così voler sollecitare il titolo nobiliare di cavaliere che non era concesso ai pittori, ma solo agli aristocratici di sangue. Nel 1650 il pittore aveva posto la sua candidatura che gli fu concessa due anni dopo aver dipinto Las Meninas quando fu nominato cavaliere dell´Ordine militare di Santiago, tra i più prestigiosi di Spagna. Quella di Velázquez fu dunque un´ingegnosa sollecitazione in un dipinto dal significato enigmatico con al centro la piccola infanta Margarita María che volge lo sguardo, non la testa, verso i sovrani: ha accanto due damigelle d´onore, las meninas, più avanti una nana di casa a corte e un nano che molesta col piede un placido cane. Ancor più complessa e problematica la strategia degli sguardi e della conoscenza che Michel Foucault dipanò genialmente. Ma gli fu rimproverato di identificare la posizione dell´osservatore con quella dei sovrani mentre la loro immagine è il riflesso del ritratto che Velázquez sta dipingendo: distolto dall´arrivo dei sovrani il pittore ferma il suo pennello appena sollevato dalla tavolozza e guarda verso loro. Piuttosto lo sguardo dell´osservatore a me sembra coincida con quello del maestro di camera José Nieto che compare controluce nel riquadro della porta sul fondo. Infatti il cerimoniale di corte esige che sia lui ad aprire le porte quando i sovrani incedono negli appartamenti.
Dalla metà del Seicento dunque questa icona della pittura di ogni tempo è divenuto un enigma e un´ossessione per pittori di ogni civiltà e un rompicapo per la critica da Antonio Palomino a Carl Justi che nel 1888 pubblicò l´insuperata monografia sul maggiore pittore di Spagna. Attendo che Ezio Raimondi pubblichi il saggio promesso sul grande storico tedesco.
Poteva Pablo Picasso non misurarsi con questo ideale sodale, con questo hermano in spirito? Lo fece il pittore malaghegno dedicando molti dipinti alla pittura di Velázquez a cominciare dalla giovinezza, quando Pablo Ruiz giunto all´Accademia di San Fernando, si dispose a copiare le opere eccelse del maestro che sono al Prado. Concluse questo corpo a corpo molti anni dopo con 44 tele realizzate tra l´agosto e il dicembre del 1957 nel suo atelier di Cannes. Rese questo omaggio a Las Meninas a suo modo, «a su manera», Olvidando a Velázquez che è poi il titolo della mostra che il Museo Picasso (fino al 28 settembre) dedica al tema. Infatti il museo barcellonese ebbe in dono nel 1968 dal maestro 58 tele comprese la serie completa di cui s´è detto.
La mostra curata da Gertje R. Utley e Malén Guala s´apre con due sale nelle quali, acconto a celebri opere di Diego provenienti dal Prado, dal Metropolitan di New York e dal Kunsthistorisches di Vienna, figurano opere - da Juan Martinez del Mazo a Juan Carreño de Miranda - che sono testimonianza dell´influenza potente esercitata nella pittura spagnola dal grande sivigliano. Martinez del Mazo era il genero di Velázquez e l´assonanza con lui è intensamente vissuta. I ritratti dell´infanta Maria Teresa, di Marianna d´Austria, dell´infanta Margarita María di Velázquez si riflettono nei ritratti delle medesime dipinte dal genero e da Carreño.
La grande fiamma che è la pittura di Velázquez proietta la sua luce non solo nella pittura del Siglo de Oro ma fino a Goya che esplicita senza esitazione il debito contratto con il sivigliano.
Il grande aragonese giunto a Madrid nel 1775 incominciò la sua pratica di incisore traducendo in rame proprio Las Meninas e altre opere del maestro nel corso degli anni.
Ma a partire dall´Ottocento la pittura di Velázquez e la Spagna stessa diviene un´isola del desiderio da svelare alla pittura europea, in particolare francese: in cima a tutti le tele di Edouard Manet e di Eugéne Delacroix, il poema España di Theophile Gautier, la Carmen di Bizet che istituzionalizzano con le loro opere il mito della Spagna, ne segnano l´ingresso nella modernità e aprono la strada a Picasso.
Pablo Ruiz, partito dal lavoro di copista, si trasforma nel tempo della piena maturità in un giocoliere che destruttura Las Maninas, con una procedura che anticipa di dieci anni l´affilata diagnosi foucoltiana: l´opera viene aggredita e fagocitata dalla bulimia di Picasso. Elementi figurativi, immagini o dettagli sono rivisitati e debbono attraversare l´alambicco della scomposizione cubista e passare nel crogiolo di Guernica. Come ben si vede nel grande olio datato 17 agosto 1957 che apre la serie degli studi: in essi l´infanta Margarita ha un posto di rilievo accanto alle meninas, fino al disfacimento dello spazio della tela in un ticchettio cromatico e geometrico.
Picasso in questo lavoro non è certo solo: gli fanno corona Salvador Dalí, Josep Maria Sert, Antonio Saura, i tedeschi Franz von Stuck e Thomas Struth, il nostro Giulio Paolini e ancora altri artisti americani o inglesi come Richard Hamilton e Witkin a cui si devono versioni pop. È in definitiva una girandola di immagini nella quale frammenti figurativi, schegge o suggestioni oniriche ci fanno capire come Velázquez è sempre lì, capace di attrarre come una calamita pittori, fotografi, letterati e filosofi del nostro tempo come capita di rado e solo con la grande arte di ogni tempo.

domenica 31 agosto 2008

l’Unità 31.8.08
Proviamo a metterci nei panni dei matti
di Concita De Gregorio


TORNA in libreria Pecora nera di Ascanio Celestini, cantastorie di chi non ha mai voce in capitolo. Si tratta di un libro e di uno spettacolo teatrale sul tema degli ospedali psichiatrici raccontato in prima persona da chi il manicomio l’ha conosciuto

Il manicomio elettrico quello dove ti fanno l’elettroshock è come un condominio dice l’autore. Ci puoi capitare anche per caso
C’è la poesia di un malato che dice: «Lasciate a noi le tristezze, a noi che non vediamo il sole»
Pensiamoci un po’ su noi che vediamo il sole

«Ma esiste veramente un fuori sul quale e dal quale si possa agire prima che le istituzioni ci distruggano?» Franco Basaglia

C’è stato un tempo, mica tanto lontano, in cui c’insegnavano a scuola, e poi all’università e sui libri stampati all’estero, e poi al lavoro quando i vecchi ancora spiegavano le cose, c’è stato un tempo, che è quello della nostra giovinezza, in cui si diceva che per essere creduti, quando si racconta una storia, bisogna essere obiettivi. Che per essere ascoltati bisogna essere precisi, documentati, ordinati. Come gli inglesi, si diceva anche, e pazienza per quelli che di inglesi obiettivi non ne avevano mai conosciuto dal vivo - né letto, né visto in scena a teatro nei secoli dei secoli - neanche uno, anzi: tutti piuttosto di parte, anche bella, fantastica, indimenticabile, ma sempre parte. Pazienza anche se essere obiettivi essendo contemporaneamente persone - cioè persone in carne ed ossa, soggetti che più soggetti di così non si può - era una di quelle mete irrangiungibili, uno di quegli sforzi di astrazione che solo la filosofia teoretica può forse risolvere, ma non è sicuro, e comunque quando ti mettevi lì a raccontare una storia tutto concentrato (sono obiettivo, devo essere obiettivo) ecco che ti veniva sempre in mente un proverbio di tua nonna, un colore che ti ricordava casa, l’odore di lacca dei capelli di tua madre, tutte mosche da ammazzare con la mano perché invece niente nonna né casa né lacca, bisogna far finta di non essere nessuno per essere tutti, dimenticare, scarnificare, andare all’essenziale, e hai voglia a provarci! provateci voi, anche solo per cinque minuti, a dimenticarvi chi siete.
Poi è venuto un altro tempo, questo, in cui tutte le tabelle, le statistiche, i numeri e i «dati neutrali» del mondo sono qui, disponibili sul tuo computer basta fare clic. Non c’è più niente da immaginare, c’è solo da vedere: quattro milioni di morti nell’ultimo terremoto? Ecco la scena vista dall’alto, clic, ecco il primo piano di una bambina superstite, clic, ecco i soccorritori sporchi di fango, clic. Anche se non hai il computer, basta solo la tv: quattro milioni di morti, dice la voce, poi passa alla notizia successiva: erano quattrocento gli invitati al matrimonio della principessa, segue filmato. Quattro milioni però bisognerebbe contarli: uno due tre quattro fino a quattro milioni, che ci vorrà di certo più di un’ora e non lo fa nessuno, è ovvio, però invece bisognerebbe pensare, contando ogni numero, che quella è una persona, potrebbe essere tuo figlio, tua moglie, potresti essere tu quattro milioni di volte. È venuto un tempo, questo, in cui sono talmente tante le «verità obiettive» che nessuna ha più senso né importanza, nessuna è più capace di fermare il flusso e l’attenzione e l’indignazione e la pietà. Sono troppe, tante: sono tutte e tutte uguali. Sono vicinissime e remote, sono qui ma non sono tue, sono inutili. Servono solo a chiudersi, al massimo a pensare speriamo che non succeda a me, anche oggi non è successo a me, vestiamoci e usciamo.
È venuto il tempo di Ascanio Celestini, finalmente, e di quelli come lui che non ti dicono «adesso ti racconto come stanno le cose» e si mettono a «dare informazioni obiettive» ma ti portano nelle cose: ti ci portano per mano, ti accompagnano facendo una strada che è la loro strada, i vicoli, le salite, le scorciatoie, le soste che hanno deciso loro, però almeno è una strada di senso. È una strada come quella che se avessi avuto la forza, il coraggio, la voglia di metterti in cammino avresti potuto fare tu. Magari non è la stessa, magari tu saresti andato a destra invece che a sinistra e avresti visto un piede invece che una mano, ma anche tu, alla fine, avresti dovuto procedere così: a tentoni, passo dopo passo, stupito, spaventato, pieno di meraviglia, incerto. Ti fidi? Fidati. Vieni con me. Andiamo a vedere dove si arriva passando da qui. Chi si incontra, cosa si vede, che si sente. Ecco, un cammino.
Per magia, per incanto, per magnifico sollievo la fine dell’obiettività riempie di senso il racconto. Fa vivere storie lontanissime e remote. Dà voce a chi sta rintanato in un angolo e da quell’angolo dice «attenti, lì si inciampa». Non lo vedi, lo senti e capisci che sei nella storia. Sei anche tu un viandante, stai sulle spalle di quello che cammina. Porti la tua telecamera segreta attaccata al petto: filma quello che c’è, non sai cosa sta per filmare, non lo sai prima. Sei tu che segui, aspettandolo, quello che sta per succedere che è successo già. Lo aspetti per scoprirlo, non per averne notizia. Lo aspetti per sapere come va questo pezzo di vita.
Il manicomio elettrico, quello dove ti fanno l’elettrochoc, è come un condominio dice Celestini. Ci puoi capitare anche per caso o per sbaglio, tipo Nicola, ma poi cos’è uno sbaglio? Quando è andata così, la tua vita, è semplicemente quella e nessuno fa rewind come nei film in cassetta. Non c’è proprio bisogno di mettersi lì a dire quanti sono i manicomi, quanti erano e com’erano, quanta gente c’è dentro e con che disturbi in che percentuale, a dare numeri e fare grafici da proiettare ai convegni. No, no, quello non serve a niente, non è la storia di nessuno, non interessa nessuno se non chi ci lavora: i professori, forse, le famiglie dei malati, chissà. Invece Nicola è un ragazzino qualsiasi, potevi essere tu. È andata così. La mamma stava male, i fratelli erano grandi assenti altrove, la nonna regalava le uova alle maestre. Eri pazzo? Non eri pazzo. I pazzi del manicomio erano pazzi? Chi lo sa, forse al principio non lo erano nemmeno loro, forse ciascuno – diversamente, certo – forse ciascuno è stato Nicola. Al ‘condominio’ quando muoiono i santi, che sono quelli che ci abitano, gli aprono la testa e gli affettano il cervello per vedere cosa ci avevano dentro. Gli hanno dato talmente tanta corrente elettrica quando erano vivi che da morti continuano a fare luce. Se ti affacci alla finestra li vedi: sono le lucciole. Se vivi nel condomino e un giorno la suora ti porta al supermercato vedi che è tutto uguale anche lì, manicomio, supermarket e regno dei cieli funzionano uguale, è la stessa azienda. Marinella la bambina bellissima è diventata commessa ed è in prigione anche lei: ti ricordi Marinella quella volta da piccoli in sacrestia, che tu mi dicesti che avevi mangiato un ragnoma non era vero e allora io ti dissi: non è vero mangiane uno davvero? Tu ne mangiasti uno, Marinella, era schifoso e peloso, lo mangiasti guardandomi fisso negli occhi poi mi dicesti, seria di colpo e con gli occhi cattivi: «Io ti avrei anche amato per sempre ma tu mi dovevi credere. Ora non lo so più se ti amo». Ora non lo so più, dopo tutto questo, dopo la vita che è stata, non lo sappiamo più cosa sarebbe successo se avessimo avuto un altro destino – un’altra madre, un’altra nonna, un altro posto dove vivere, un’altra serata diversa da quella, quella notte nei boschi - ed è vero che la malattia dei bambini, mica solo dei bambini, è la paura del buio. «Si può morire di paura del buio e io ora ho capito perché non guarisco». Non si guarisce dalla paura per un motivo semplice: non è una malattia. L’elettricità cancella tutto, cancella anche quella come fanno oggi certe nuove gocce, certi farmaci: cancella ogni cosa non senti più niente, se ne va il piacere col dolore, te ne vai tu. C’è la voce di un paziente vero, di un uomo internato in un manicomio, nello spettacolo a teatro di Celestini: una voce fuori campo che legge «una poesia breve». S’intitola Come è possibile?, dice così. «Come è possibile camminare sui prati verdi e avere l’animo triste? Essere immersi nel caldo del sole mentre tutto intorno sorride e avere l’angoscia nel cuore? Lasciate a noi le nostre tristezze. A noi che non possiamo andare nei prati e non vediamo mai il sole». Così ci si può rimettere il cappotto la sera, uscire dal teatro e pensarci un po’ su. A noi che vediamo il sole, a quelli che non lo vedono, alle nostre tristezze e alle loro. Accostare le immagini, chiedersi come è possibile. Provare a mettersi nei panni di un altro, poi tornare nei propri e andare a casa.

l’Unità 31.8.08
«Il ritorno del maestro unico? Per i bambini è una sconfitta»
di Maristella Iervasi


«Come farò a gestire da solo una classe di 25 studenti? Andranno alle
medie che sapranno appena leggere e contare»
«Come farò a tener fermo Pallino, evitare che Caio picchi Talaltro e accudire il bambino diversamente abile?»

I suoi bambini sono ancora in vacanza. Ma è come se fossero già lì: li «sente» correre per le scale, buttare a terra zaini e giubbini, tirarsi le palle di pane a mensa, li vede pigiarsi il naso e girare un dito nell’orecchio per inghiottire gli spaghetti schizzando sugo sull’intera tavolata. Sorride il maestro Nicola Perfetto, 57 anni, ma lo sguardo non si stacca dal muro. C’è Pietro che cammina su due mani, il giandarme Gianmarco che tiene sottobraccio un burattino nella piazza del mercato. Il grillo che «sputa» saggezza e Martina con una telecamera in mano che «inghiotte» tutto. L’hanno intitolato Il Pinocchio della Garbatella: una riscrittura di Collodi, con tanto di girato e montaggio in Vhs. Il film dei bambini dell’elementare «Alonzi» di Roma: a turno registi, attori e tecnici del suono, coadiuvati dagli insegnanti delle due terze, in primis Andrea Pioppi.
E il maestro Nicola si commuove: «Tutto questo non sarà più possibile. Tutti gli approfondimenti letterari o storici-scientifici sui dinosauri, il ciclo della vita, l’acqua, le gite culturali con sempre gli studenti protagonisti, andranno a farsi benedire. I bambini andranno alle medie che sapranno appena leggere, scrivere e contare. Con un bagaglio nozionistico da far paura e senza più scambi con le classi parallele. E il trauma del passaggio alla scuola “dei grandi” sarà sempre di più una voragine».
Fine della maestra-mamma e del maestro «vice zio». Stop alla compresenza in classe. Si torna al passato, al maestro unico. All’insegnante generalista con la penna rossa, che sa poco di tutto.
Nicola Perfetto si siede in cattedra. E si proietta nel futuro. «Buongiorno bambini, sono il vostro maestro e staremo insieme per 5 anni». Scuote la testa, il maestro di matematica, geografia e scienze della Alonzi: «No, no... come lo spiegherò ai bambini? Speriamo che le famiglie ci aiutino». Per quest’anno le elementari - come le medie - riaprono con i voti. La pesante «cura dimagrante» alla scuola, con il «massacro» degli insegnanti voluta dal duetto Gelmini-Tremonti - 90 mila insegnanti e 43mila bidelli e segretari in meno entro il 2012 - debutterà invece successivamente. Ma è bene prepararsi per tempo. Perchè le conseguenze saranno a catena, per i docenti, i bambini e le stesse famiglie.
Scomparirà inevitabilmente il tempo pieno: una «parolina», questa, che la ministra dell’Istruzione si guarda bene dal pronunciare per non finire nel «tritacarne», come accadde a Letizia Moratti. Un addio si prefigura anche per le mense scolastiche e forse per tappare i disagi dei genitori che lavorano, spunteranno i doposcuola-parcheggio: tenuti magari da personale non statale, a collaborazione. Mentre al docente di ruolo in eccesso rimasto senza classe per la scelta del maestro unico non resta che sperare in un posto di supplente. È questo il futuro disegnato per la scuola dal Berlusconi IV. È questa l’istruzione per le nuove generazioni.
Sulla sedia dell’ultimo banco della 3 B, ora ribattezzata IV F - per continuità con la vicina elementare «Cesare Battisti», nota nel quartiere come la scuola de I Cesaroni -, c’è un grembiule bianco con in tasca pezzetti di foglio di quaderno. Il maestro Nicola si avvicina e ricompone il puzzle: una numerazione, la tabellina dell’otto. Una delle più difficili per i bambini da mandare a memoria. Sorride il maestro e ricorda: «La gara sulle tabelline è una costante. Un’interrogazione a mo’ di gioco». Ma mentre racconta degli aneddoti si fa subito serio: «Come farò a gestire da solo una classe di 25 studenti per 20 ore alla settimane? Come farò a tenere fermo nel banco Pallino, evitare che Caio picchi Talaltro e accudire nel frattempo il bambino diversamente abile che ha finito le ore con l’insegnante di sostegno? Come farò ad aiutare i bambini che restano indietro, che hanno difficoltà con la lingua perchè stranieri o a rispiegare con pazienza le divisioni a due cifre a chi arriva da un’altra scuola con problemi comportamentali e rifiuto dei nuovi compagni?. Quest’anno tutto questo è accaduto - sottolinea Nicola Perfetto - e con Simona, l’altra insegnante prevalente, siamo stati un po’ anche genitori, psicologi e dottori. Ma un domani? Come potrò lavorare bene da solo con il gruppo classe? Altro che maestro unico come esigenza pedogogica! È una vera debacle, la sconfitta del sapere per il bambino-studente».

Corriere della Sera 31.8.08
Salwa al-Neimi rivendica l'appartenenza a una tradizione che ha sempre esaltato il sesso
E la giovane araba scopre l'eros
Vietato in quasi tutto il mondo islamico, «La prova del miele» è già un caso
di Cecilia Zecchinelli


PARIGI — «Come posso gridare al mondo la mia passione per Georges Bataille, Henry Miller, il marchese de Sade, Casanova e il Kama Sutra e non nominare nemmeno Al Suyuti e Al Nafzawi?», si chiede la narratrice senza nome e senza pudori in La prova del miele (tradotto da Francesca Prevedello per Feltrinelli). «Perché tanta sorpresa in Occidente per un libro erotico in arabo, se non per il solito falso cliché che ci vede tutti nemici del sesso, le nostre donne vittime e oppresse? », ci chiede Salwa al-Neimi, autrice dell'opera diventata ormai caso letterario e campione di vendite (anche) nel mondo arabo. Nel cortile del prestigioso Institut du Monde Arabe di Parigi, dove lavora da anni dopo un passato da giornalista letteraria, Salwa ci parla di Al Suyuti e Al Nafzawi, di Al Tigani e Unsi Al Hajj. Ovvero dei grandi autori classici che secoli fa all'eros dedicarono studi e trattati, ne derivarono gloria e ammirazione. E molti di loro, ricorda, erano sheikh religiosi, credenti e pii. «Perché nel mondo arabo-islamico il sesso non è mai stato peccato, anzi il nostro è l'unico popolo, io credo, per cui l'eros è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio». Al punto che «tra gli effetti positivi del coito, dicevano i classici, c'è l'anticipazione del paradiso».
È tutta nel solco della (ri)scoperta dell'eredità erotica araba la prima opera in prosa («non è un romanzo, piuttosto un testo libero») della Neimi. Una sorta di diario- confessione di una giovane araba («non ha problemi di identità anche se vive in Francia, è libera») che nel sesso scopre davvero il suo paradiso. Leggiamo dal libro: «A importarmi è solo il desiderio, il mio prezioso desiderio». «Non ho altri modelli che me stessa. Non sono in cerca di una fatwa che mi dia il permesso di concedermi ai miei uomini». E ancora: «Chi desidera il mio corpo mi ama, chi ama il mio corpo mi desidera. È il solo amore che conosco, il resto è letteratura ». «Se il mistico Al Juneid scriveva "Ho fame di coito come ho fame di cibo", io dico "Ho sete di acqua, di sperma, e parole"».
Nelle centodue pagine della Prova del miele avvenimenti ce ne sono ben pochi: aneddoti, citazioni e molte riflessioni piuttosto, divisi in capitoletti dedicati come nei testi antichi ciascuno a un tema (l'hammam, la dissimulazione) o a una storia intrecciata a quella della protagonista (la massaggiatrice, il sesso arabo nella City). Ma nemmeno i personaggi (gli «amanti» dai nomi un po' pretenziosi, come il Viaggiatore o il Lontano) hanno personalità delineate e chiare. Ad eccezione del più desiderato e forse perfino amato, il Pensatore, che risveglia nella narratrice la vera passione (il miele), e con lei condivide l'amore, ancora una volta, per i classici e per la lingua araba. «Più di qualsiasi altra la lingua del sesso », che anche in traduzione a volte resiste. Come nella discussione tra lei e il Pensatore su che termine in arabo classico sia più adatto per descrivere la sodomia femminile (la narratrice finirà per inventarlo).
Non che sia tutto così facile, in realtà. La visione dell'Occidente di un mondo islamico sessuofobo oggi è più vera che in passato; moltissimi arabi non conoscono e nemmeno immaginano quei famosi trattati d'amore carnale compilati per giunta da uomini di fede; l'idea che una donna possa scriver di sesso per molti è uno scandalo. E La prova del miele, uscito a Beirut nel gennaio 2007 con la scritta «vietato ai minori» (e lì apprezzato perfino da Al Akhabr, quotidiano del Hezbollah) è stato infatti proibito quasi ovunque nel mondo arabo, esclusi solo il Maghreb e Dubai. «Perfino in Egitto e nella laica Siria, la mia patria, il libro è bandito, anche se per strada lo vendono di nascosto e con Internet arriva ovunque. E ho ricevuto minacce, insulti», dice la Neimi. Censura e attacchi, uniti all'etichetta «il primo libro erotico scritto in arabo da una donna» (record controverso ma in sostanza vero) che hanno però aiutato molto il libro in Occidente. Alla Fiera di Francoforte già 17 Paesi (dal Giappone alla Turchia) lo hanno comprato, in alcuni casi con aste e prezzi assai alti. «Pensare che nei cinque libri di poesie che ho pubblicato in passato l'erotismo era altrettanto presente, ma nessuno li ha mai trovati interessanti », sospira la Neimi.
A sentire lei il successo del Miele sta quindi, soprattutto, «nella lingua facile, moderna, diretta che riesce a parlare anche ai giovani ». Vero forse per la versione originale, in arabo. Mentre è difficile credere che in Occidente non abbia pesato e non pesi quel mix di censura-erotismo-orientalismo che volutamente l'accompagna: l'edizione italiana lo presenta come «le confessioni impertinenti di una Sheherazade contemporanea », cliché che le scrittrici arabe affermate rifiutano da tempo e con forza. Ma comunque sia, ben venga il Miele di Salwa. Per sfatare qualcuno dei tanti falsi miti dell'Occidente sul mondo arabo. Per ricordare a quest'ultimo un passato più libero e in fondo più gioioso. Per chiedersi (siamo umani e curiosi) se questa non sia un'autobiografia. Domanda a cui l'autrice risponde, sorridendo: «Magari».
Il diario-confessione
Dice la protagonista: «A importarmi è solo il desiderio, il mio prezioso desiderio»

Corriere della Sera 31.8.08
Il grande austriaco
Wittgenstein e la filosofia da ripulire in tre parole
di Armando Torno


Wittgenstein non studiò i grandi pensatori del passato, pubblicò in vita soltanto il Tractatus logico- philosophicus (tutti i libri che circolano con il suo nome sono sistemati da altri) e considerava la filosofia non una scienza ma un'attività. Forse per questo fece il maestro elementare, l'architetto, ricerche aeronautiche e l'aiuto giardiniere al convento di Hütteldorf. Su di lui fioccano aneddoti; di certo egli visse tutte le libertà possibili senza curarsi delle convenzioni, sino ad abitare — dopo aver insegnato a Cambridge — in una capanna a Galway, in completa solitudine, sulla costa irlandese occidentale. Noi italiani, poi, lo amiamo in modo particolare, forse perché lo ospitammo come prigioniero nel 1918 presso Montecassino. Combatteva nell'esercito austriaco e nello zaino aveva il manoscritto del Trattato.
Ray Monk, professore a Southampton, specialista di filosofia della matematica, dedicò al pensatore una fondamentale biografia ( Il dovere del genio, tradotta da Bompiani) e ora vede la luce da Vita & Pensiero un lavoro del 2005: Leggere Wittgenstein. È uno svelto libretto che spiega con quale spirito vada affrontata l'opera di chi voleva ripulire la filosofia in tre parole, che cosa significa raffigurare il mondo, quale rivoluzione linguistica ci sia nella sua eredità e che senso ebbe la rinuncia alla purezza cristallina della logica. Intuizioni che è possibile spiegare anche a un vasto pubblico, dalle quali è nata molta parte del pensiero attuale.
RAY MONK, Leggere Wittgenstein VITA & PENSIERO PP. 110, e 12

sabato 30 agosto 2008

l’Unità 30.8.08
Pd, duello sul testamento biologico
di Tommaso Galgani


«Non si tratta di voler staccare la spina a nessuno. Ma di dare la possibilità a tutti di decidere per sé quali trattamenti ricevere in caso di malattia terminale. E fino a che punto farlo, mettendolo per iscritto». Ignazio Marino replica così alle posizioni di Paola Binetti sul caso di Eluana che sull’argomento appare più vicina alle posizioni del Pdl. Il confronto tra i due parlamentari del Pd va in scena alla Festa di Firenze. Intanto il Parlamento è pronto ad affrontare l’esame delle proposte di legge.

«ELUANA? Il suo cuore batte, e di giorno passeggia anche in carrozzina». Paola Binetti fa scattare così il brusio del pubblico, ieri durante l'incontro col collega di partito Ignazio Marino sul tema del testamento biologico, alla Festa Democratica in Fortezza a Firenze. La senatrice teodem del Pd, dopo quella frase, scalda la platea: «Ah, Eluana passeggia pure», le urla sarcastica una signora dalle prime file. In diverse occasioni la Binetti, che ha ribadito di essere pronta a votare col Pdl una legge in materia perché «quando si parla della difesa della vita non hanno senso né la destra né la sinistra», suscita il borbottìo della cinquantina di persone accorse ad assistere al dibattito. Che lentamente lascia perdere anche gli applausi di cortesia e mano a mano che procede la discussione fa partire anche qualche fischio.
L'applausometro della platea decisamente sorride a Marino, che a fine serata si ritrova anche qualche bigliettino in tasca da parte di alcuni militanti democratici che lo esortano ad andare avanti sulle sue posizioni in materia. Ma soprattutto quando si sforza di ribadire dal palco il principio guida del suo ddl sul testamento biologico, sottoscritto da 101 senatori: «Non si tratta di voler staccare la spina a nessuno. Ma di dare la possibilità a tutti di decidere per sé quali trattamenti ricevere in caso di malattia terminale. E fino a che punto farlo, mettendolo per iscritto. È un fondamentale principio di autodeterminazione». Tra i due senatori democratici provano a confrontarsi due sensibilità che, pur nella ricerca del dialogo, non sembrano conciliabili (l'unico punto in comune è considerare una necessità l'affrontare la materia dal punto di vista legislativo, dopo anni di discussioni: cosa che il Senato ha messo in agenda per il 2008).
E la Binetti riaccende anche gli animi della platea quando afferma di aver letto sulla rivista dell'associazione Luca Coscioni un modello di testamento biologico in cui una persona afferma di «non voler vivere in caso di sopraggiunta demenza». Dicendo: «Così si va verso il nazismo, che eliminava le persone dementi. Stesso discorso per i malati di Alzheimer». Brusio. Marino prova a smorzare la tensione ricordando che «i Radicali, vicini all'associazione Coscioni, hanno sottoscritto il mio ddl. Anche se loro sono per l'eutanasia legalizzata, per la quale io non ritengo che adesso ci siano le condizioni in Italia. E alla quale sono contrario». Ma l'ennesima dimostrazione di disapprovazione del pubblico arriva quando contesta i dati ricordati da Marino, peraltro comunicati durante un'audizione al Senato dai Rianimatori italiani, sul fatto che il 62% degli anestesisti italiani, negli ultimi giorni di un malato terminale, applichi sui pazienti la «desistenza». «Garanzia reale per il paziente e riconoscimento nella relazione medico-paziente la massima fiducia e la massima dignità di entrambi», continua a ripetere la senatrice, anche lei firmataria di un ddl sul tema. «Sono rimasto molto soddisfatto del dibattito», commenta Marino a fine serata. Che insiste: «Perché dovremmo avere paura di fare una legge che sancisce un principio di libertà?».
Non manca una riflessione sul caso Eluana: «Consiglio a Paola Binetti di recarsi personalmente a trovarla. Si tratta di una persona in stato vegetativo permanente, che comunque può mantenere la sua dignità. Ma resta la mia domanda di fondo: perché non far decidere all'individuo, e non a chiese o magistrati, se vuole arrivare fino a lì?»

l’Unità 30.8.08
L’alimentazione artificiale spacca le «due anime» del Pd
I Teodem con i forzisti. Il senatore-chirurgo: rispettare la Carta
di Maria Zegarelli


RITARDI Negli Stati Uniti se ne è parlato - e si è fatta una legge - un terzo di secolo fa. A seguire tutti gli altri Paesi hanno affrontato il delicato tema del testamento biologico. Lo hanno fatto la Spagna, la Germania, l’Australia, la Nuova Zelanda, solo per citarne alcuni. L’Italia da tre legislature affronta il tema della fine della vita senza riuscire a trovare un punto di sintesi. Nel precedente governo Berlusconi l’allora senatore Cdl Antonio Tomassini - attuale presidente della Commissione Sanità - presentò un disegno di legge che fu approvato all’unanimità dalla Commissione ma non approdò mai in Aula. Il contenuto non era molto diverso da quello che durante la scorsa legislatura fu presentato da Ignazio Marino (suo successore a capo della Commissione) e firmato dall’allora capogruppo Anna Finocchiaro. Ma le posizioni della Cdl cambiarono, forte di quel fragile equilibrio su cui si reggeva l’Unione. Parlare di temi etici nell’Unione equivaleva a camminare sulle sabbie mobili. C’erano i cattolici di Mastella e i teodem del Pd che su aborto, fecondazione assistita, testamento biologico (ma anche i Dico) minacciavano le barricate. Un lavoro certosino quello di Marino per cercare la sintesi su cui far convergere i consensi. Dopo 49 audizioni di scienziati ed esperti Marino arrivò ad un testo caduto, poi, insieme al governo Prodi a cui Mastella aveva posto fine per altri motivi. Ma già allora era chiaro che difficilmente si sarebbe arrivati ad una legge. Su un punto il dialogo si è arenato: l’idratazione e la nutrizione artificiale del paziente. Quelle che ancora oggi tengono in vita-non vita Eluana.
Secondo Paola Binetti, deputata Pd, teodem, interrompere l’idratazione e la nutrizione artificiale del paziente equivale a mettere in pratica l’eutanasia. È tutto qui il nodo politico attorno a cui si è aggrovigliata la discussione parlamentare durante il governo Prodi (erano 12 i ddl depositati in commissione Sanità al Senato, mentre oggi ce ne sono 14 tra Palazzo Madama e Montecitorio) e su cui rischia di aggrovigliarsi durante quella in corso. Con la differenza che stavolta sembra profilarsi una pericolosa - per il Pd - «alleanza» tra teodem e pezzi di Pdl. Ignazio Marino - scienziato made in Italy con una esperienza ventennale negli States - ha depositato un ddl lo scorso aprile su cui hanno apposto la loro firma 101 senatori. «Durante la scorsa legislatura - spiega Marino - ho fatto tesoro di quelle 49 audizioni, ho ascoltato i dubbi e i suggerimenti che ognuno dava al nostro lavoro. Da qui la decisione di escludere dal testo depositato pochi mesi fa l’obbligatorietà del testamento biologico e di aggiungere un’intera parte dedicata alla terapia del dolore e alle cure palliative. Il nostro obiettivo è quello di dotare l’Italia di una legge umana, che rispetti il dettato dell’articolo 32 della Costituzione». Nessuno può essere sottoposto contro la sua volontà a trattamenti medici: questo il faro, la direzione da seguire.
Nella legge si affronta anche un altro drammatico problema: la distribuzione sul territorio degli «hospice». Attualmente ce ne sono 120: 103 nel Nord, 3 nel Sud, il resto nel Centro. Nel Nord ci sono 25 milioni di abitanti, nel Sud 22. Un paese a due velocità, anche in questo caso. «Con il nostro testo - dice Marino - prevediamo un potenziamento di queste strutture, che possono ospitare pazienti come Eluana, anche nel Sud per colmare un vuoto che ricade completamente sulle spalle delle famiglie». Eppure, ancora una volta, la politica si spacca. Il Pd stesso si spacca. Emanuela Baio Dossi, infatti, ha presentato un suo ddl di legge - con le firme bipartisan di molti senatori cattolici - che converge con le posizioni espresse ieri da Maurizio Lupi (Pdl): «Primo: idratazione ed alimentazione non sono cure mediche. Quindi non si possono sospendere. Secondo: la volontà della persona deve essere continuamente reiterata, oggi puoi pensare una cosa... ma domani?». «Licenziare una legge che esclude idratazione e nutrizione dai trattamenti medici vuol dire impedire alle persone di esprimere la propria volontà - replica Marino -. Di fatto la legge sarebbe peggiorativa del dettato costituzionale». Il presidente del Senato Renato Schifani si è impegnato alla ripresa dei lavori parlamentari a dare priorità al dibattito. Stesso impegno assunto dal presidente della Commissione Sanità. Come è emerso da un sondaggio Euripes è l’86% dei cittadini a chiedere una legge sul testamento biologico.

l’Unità 30.8.08
La vita e la civiltà
di Maurizio Mori


Il caso Englaro ha assunto una straordinaria importanza nella vita italiana. Basti pensare che, per la prima volta nella storia della Repubblica, si è creata una situazione per cui è stato intravisto un «conflitto d'attribuzione» tra poteri dello Stato. Il Parlamento ha ritenuto che la Cassazione sia andata oltre i suoi poteri con la sentenza del 16 ottobre 2007 in cui ha stabilito liceità della sospensione dell'alimentazione e idratazione artificiali ove fosse accertata l'irreversibilità dello stato vegetativo permanente e la volontà di Eluana di non permanere in tale stato. La Corte Costituzionale dovrà dirimere la controversia. Nell’attesa, possiamo osservare come ormai i temi bioetici abbiano investito i vertici delle istituzioni democratiche sollevando problemi circa il fondamento stesso della vita civile del paese. Sul piano concreto l'azione del Parlamento non avrebbe inciso sul caso specifico di Eluana perché la sua vicenda avrebbe potuto concludersi prima del giudizio della Corte Costituzionale. Ma c'è stata una pausa forzata sia per la difficoltà di trovare una struttura idonea (essendo quasi tutti gli hospice privati e in qualche modo controllati dalla longa manus della chiesa) sia perché la Procura ha ricorso contro la sentenza di Milano. In queste pagine Beppino Englaro ripresenta la sua posizione, che - è bene sottolinearlo - i sondaggi dicono essere condivisa da circa l'80% degli italiani.
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus

l’Unità 30.8.08
L’unica «certezza»: 16 anni senza segnali
L’irreversibilità come probabilità: criterio su cui funziona la pratica medica
di Carlo Alberto Defanti


Alcuni neurologi sostengono che sia impossibile dimostrare il non-ritorno dallo stato vegetativo: una risposta

LA PROCURA di Milano ha presentato un ricorso contro la sentenza della Corte di Appello che ha autorizzato la sospensione dell'alimentazione artificiale di Eluana adducendo che non vi è stato un «rigoroso apprezzamento clinico» convalidante l'irreversibilità dello stato vegetativo. Secondo il Sostituto Procuratore Maria Antonietta Pezza vi sarebbe incertezza «sul fatto che il paziente in stato vegetativo permanente sia del tutto privo di consapevolezza»; inoltre ella fa cenno ai recenti lavori di alcuni studiosi, fra cui Adrian M. Owen, da cui sembra emergere che in tali stati è possibile, mediante nuove tecniche di indagine come la Risonanza Magnetica funzionale, «dimostrare che possono residuare aspetti di percezione della parola, processi emozionali, comprensione del linguaggio». Non c'è dubbio che, nella decisione della Procura, abbia avuto un peso rilevante la lettera inviata alla stessa Procura da un gruppo di 25 neurologi in cui vengono citati i lavori di cui sopra e si asserisce in maniera generale l'impossibilità di formulare una prognosi attendibile di irreversibilità dello stato vegetativo.
Avendo avuto in cura Eluana in tutti questi anni ed avendo fornito due diverse certificazioni del suo stato, credo di dover intervenire. Ebbi modo di studiare il suo caso già nel 1996. Non rilevando in lei, malgrado una prolungata osservazione, alcun indizio di contatto con l'ambiente, conclusi per uno stato vegetativo permanente, formulai cioè una prognosi di irreversibilità attendendomi rigorosamente alle conclusioni di una importante Task Force statunitense che risalivano a due anni prima (1994) e che tuttora costituiscono le Linee Guida più autorevoli per la diagnosi/prognosi di stato vegetativo. In quel documento si afferma che la prognosi di irreversibilità può essere formulata già a partire da un anno dopo l'insulto traumatico, mentre nel caso di Eluana ne erano trascorsi già quattro (il trauma risaliva al 1992). A distanza di sei anni, nel 2002, ricoverai nuovamente Eluana, sottoponendola a nuovi esami, e raggiunsi la stessa conclusione. Infine circa un mese fa, pochi giorni dopo la sentenza, ho visitato nuovamente l'ammalata e non ho notato in lei alcun mutamento clinico. Gli anni trascorsi sono ben sedici. Ora, è del tutto pacifico tra gli specialisti che il criterio prognostico più forte di cui disponiamo è proprio il lasso di tempo trascorso dopo l'evento traumatico in completa assenza di indizi di contatto con l'ambiente.
Mi si può obiettare che la certezza assoluta della prognosi non esiste neppure dopo tutti questi anni e su ciò potrei anche concordare, ma solo a condizione che si tenga presente che nessuna certezza è raggiungibile in medicina. Nella pratica medica, «certezza» significa «altissima probabilità» ed è su basi probabilistiche che noi medici prendiamo quotidianamente le decisioni. Ad esempio, non esiste ad oggi nessuno studio che dimostri in modo inequivocabile l'irreversibilità della morte cerebrale, e ciò malgrado questa diagnosi viene posta ogni giorno in decine di casi e ne conseguono decisioni fondamentali come il prelievo di organi e la cessazione delle cure intensive. A questo punto mi domando perché non si voglia da parte dei colleghi mettere in questione la stessa diagnosi/prognosi di morte cerebrale.
L'intervento dei colleghi neurologi, quindi, ha avuto un carattere strumentale e ideologico: esso ha teso a minare la base scientifica della sentenza e a scongiurarne non solo l'applicazione nel caso in oggetto, ma soprattutto la sua possibile estensione ai molti casi simili che ci sono nel nostro paese.
* Primario neurologo emerito Ospedale Niguarda, Milano; Consulta di Bioetica

l’Unità 30.8.08
Diritto di morire? No, di lasciarsi morire
La sentenza della Corte di Cassazione e il rischio del medico-divinità
di Vittorio Angiolini


Eluana avrebbe già smesso di vivere senza i trattamenti imposti da altri, azione invasiva della sfera personale

NEL FIUME di parole, in cui è sommerso il caso di Eluana Englaro, si è andata perdendo una distinzione che è invece importante. Si è detto fino alla noia, come se questo fosse risolutivo, che non c'è il «diritto di morire», che il diritto alla vita è indisponibile, non rinunciabile e non può essere ceduto ad altri. Il che, per la verità, è stato ricordato anche nella sentenza della Cassazione su Eluana, che pure è stata attaccata, da più parti, come pericolosa «apertura» verso l'eutanasia. La Corte italiana ha ricordato espressamente che non c'è il diritto di procurarsi la morte né il diritto di farsela procurare da altri.
E nello stesso senso si è a suo tempo pronunciata la Corte europea dei diritti dell'uomo, rigettando la richiesta di un «suicidio assistito». Che il diritto alla vita sia considerato indisponibile in questa accezione anche in Italia non c'è dubbio: basterebbe pensare alla repressione penale dell'omicidio del consenziente. Che non si abbia «diritto di morire» significa però, appunto, soltanto che sono legittime contromisure per scongiurare che a porre fine alla vita sia la mano dell'uomo con azioni o anche semplici omissioni di comportamenti dichiarati obbligatori o doverosi. Il «diritto di morire», così concepito, non ha tuttavia con la vicenda Englaro nulla a che vedere. Eluana, dopo l'incidente che l'ha colpita nel 1992, è sopravvissuta grazie a pratiche rianimatorie e solo per la nutrizione artificiale impartita dalla struttura sanitaria in cui si trova ha dovuto prolungare per lunghi 16 anni una vita puramente biologica, priva di ogni esperienza cognitiva ed emotiva. È pacifico che Eluana cesserebbe ed anzi avrebbe già cessato di vivere se i trattamenti imposti da altre persone non avessero continuato ad allontanarne la morte. Il tema del caso Englaro non è dunque il «diritto di morire», ma solo quello del «diritto di lasciarsi morire», che è tema assai differente. Una cosa è che l'uomo uccida un altro uomo, cosa differente è che smetta di prolungarne indefinitamente la vita con accorgimenti tecnico-scientifici. Se non si tiene conto di questo, non si comprende la decisione della Cassazione sul caso Englaro. La questione non è quella di distinguere tra eutanasia attiva o passiva. La questione è, invece, se il medico o qualunque persona possa vedersi riconosciuto il potere di far vivere un altro ad oltranza e senza alcun limite grazie ad un'azione invasiva della sfera personale. Normalmente, il problema è risolto in base al principio costituzionale per cui chiunque può rifiutare ingerenze nella propria persona. Certo, il caso di Eluana Englaro è particolare, perché ella oggi non può più né consentire né dissentire da quello che altri facciano del suo corpo. Ma ciò, come ha osservato la Cassazione, non è affatto una buona ragione per lasciare Eluana priva di tutela riguardo alle intromissioni altrui nella sua sfera personale. A differenza del «diritto di morire», che in Italia e in grande parte dell'Europa non c'è, il «diritto di lasciarsi morire» è in definitiva essenziale perché nessuno possa impossessarsi del vivere altrui. Soprattutto chi del tutto legittimamente collega l'indisponibilità del diritto alla vita all'essere il vivere un dono di Dio, dovrebbe attentamente riflettere su questo aspetto: quando il medico pretendesse di essere sciolto da ogni vincolo nel far proseguire la vita altrui, all'uopo liberamente utilizzando tutto quanto la scienza e la tecnica permettono, in situazioni davvero disperate come quella di Eluana, il medico stesso potrebbe tramutarsi in una sorta di divinità, padrona di manovrare il residuo vivere del suo paziente.
* Ordinario di Diritto Costituzionale Università degli Studi di Milano

l’Unità 30.8.08
Il dolore oltre il dolore
di Beppino Englaro


La Cassazione ha ammesso che nessuno può decidere né «per» né «al posto» di Eluana
La morale medica e religiosa, nel Paese e nella politica, non è stata in grado di stare al passo dell’evoluzione medica

C’è una tragedia nella tragedia che pochi capiscono. C'è una tragedia umana che, malgrado tutto, un senso ancora ce l'ha. E c'è una tragedia artificiale tutta dentro quella umana, cui è difficile dare un senso.
La tragedia umana cui la mia famiglia è stata sottoposta è quella che la sorte ci ha riservato il 18 gennaio 1992: un incidente stradale ad una figlia di ventuno anni è una disgrazia che capita alle famiglie sfortunate. È l'imprevedibile di cui è costellata l'esistenza dagli inizi del tempo, a cui siamo abituati perché contrappasso della stessa possibilità del vivere: accettare che accadano cose sulle quali non è possibile per l'uomo avere un controllo, un governo, che non è possibile prevedere né impedire. Mia figlia uscì da questo incidente in coma profondo, intubata, la testa piena delle lesioni subite, fogliolina muta a brandelli, malamente attaccata all’albero della vita.
Ci dissero di attendere le prime quarantotto ore, poi altre quarantotto, poi ancora. Noi genitori eravamo del tutto sgomenti per quello che vedevamo accadere, ma fin qui ci sembrava di vivere nell'umana consuetudine, cui fa la sua parte vischiosa e drammatica anche il dolore - quello che fa piangere nei corridoi degli ospedali, quello che ti lascia un senso di precarietà così acuto da avvertirlo sotto lo sterno, una vertigine da perdere il fiato, da perdere il senno.
La tragedia maestra, sfidando la legge dell'umana sopportazione e lasciandoci di stucco perché credevamo di essere già sul fondo della disperazione possibile, doveva ancora arrivare.
Mia figlia, in piena salute, aveva avuto modo di vedere nel caso di un amico che cosa adesso le volevano fare, lo aveva visto con i suoi occhi ed aveva intuito che la strada intrapresa dalla medicina d'urgenza era piena di pericoli, o meglio ne sfiorava uno solo, ma profondo come un burrone.
Quando si interviene con i soccorsi e si salvano le persone dalla morte non va sempre bene. È questa una realtà di fatto quasi sconosciuta. I medici possono impedire il decesso ma creare un danno che è ben peggiore. Ben peggiore se viene sbarrata la porta di uscita, se non si può scegliere per la dipartita. Lo stato vegetativo permanente - SVP, è proprio ciò a cui mi riferisco. La sopravvivenza obbligatoria ad oltranza è poi la sua punta nauseabonda d'eccellenza.
Mi spiego: se i medici intervengono e grazie al loro soccorso qualcuno non muore ma entra in SVP, attualmente, non ne può più uscire. Anche se si era espresso in passato dicendo che non avrebbe voluto stare in vita senza accorgersene, con le mani altrui che violano ogni intimità, ogni distanza fra la sfera personale, il proprio corpo, e il resto del mondo, non ne può più uscire.
Mi accorsi con incredulità che i medici con cui parlavo e la gente tutta intorno, avevano un punto di vista antitetico al mio, avevano valori opposti ai nostri; guardando lo stesso punto vedevamo cose diverse. Eccola, la vera tragedia: la civiltà a cui appartenevo, in quel preciso momento storico, aveva fatto valere per tutti dei valori nei quali Eluana, sua madre Saturna ed io non ci riconoscevamo e non ci riconosciamo. Essa difendeva, con i suoi ordinamenti giuridici e deontologici, il dovere di far sopravvivere gli individui in SVP contro la loro volontà per rendere omaggio alla vita, a questo bene personalissimo. Che lo SVP sia eretto, come ora accade, a paradigma della difesa del valore della vita umana, che sia fatto strumento per innalzare osanna verso supposte divinità, mi sembra una follia. Che esso incarni lo stato dell'arte della medicina d'urgenza, dopo un prodigioso acceleratissimo sviluppo, anche.
«Ti strappiamo alla morte, non sei con i vermi», ho dovuto anche sentirmi dire dai medici «non ti basta»? No, non mi basta è la mia risposta.
Non riesco a concepire che questa cultura del «non morto encefalico» (così mi fu definita questa condizione in cui non sei più come le altre persone e non sei in stato di morte cerebrale) si faccia chiamare «cultura della vita». E mi sconvolge la tenacia con cui vogliono difendere questa conquista dell'invasività tecnologica che, ai miei occhi, è un macroscopico fallimento e miete vittime in modo inaudito, come le guerre.
Mi sembra di scorgere quello che è accaduto: la morale medica e religiosa dominante, nel nostro Paese e nella nostra politica, non è stata in grado di stare al passo dell'evoluzione medica e si è limitata a stazionare in quella che era la scelta consona per il secolo scorso, quando l'80% delle persone non moriva, come avviene adesso, nei letti ferrosi degli ospedali.
La tragedia nella tragedia è che Eluana sopravvive finora per il volere di alcune persone che si sono messe tra lei ed i fatti tutti suoi, tra lei ed il suo desiderio di essere lasciata morire senza prima sostare nel corridoio vuoto dello SVP. Mai e poi mai può essere dato ad alcune persone il potere di creare queste cose e ad altre il potere di imporle.
È di una violenza inaudita non poter rifiutare l'offerta terapeutica.
Eluana, Saturna ed io sapevamo come evitarlo, avevamo ben presenti i problemi della rianimazione ad oltranza e lo sbocco possibile nello SVP. Tutto era stato chiarito. I nostri pensieri convergevano verso un'unica opinione: è preferibile rinunciare a questa insensata possibilità di sopravvivenza.
Vorrei fosse sempre chiaro che noi, al contrario di altri, non esprimiamo giudizi su chi nutre fermamente un'opinione diversa dalla nostra. Per la libertà che difendiamo, rispettiamo il desiderio di chiunque riguardo a se stesso.
E nonostante gli scontri e le batoste ricevute non abbiamo mai smesso di cercare il dialogo, il confronto, perché sentiamo la nostra posizione umanamente e razionalmente sostenibile è sempre più condivisa.
Ho notato, con amarezza, che le persone restie ai condizionamenti - delle quali Eluana era una evidente esemplare - vengono mal tollerate dalla nostra società perché, reclamando l'esercizio delle loro libertà fondamentali, sovvertono l'ordine prestabilito, e questo infastidisce e spaventa. Non si coglie che essi sono una ricchezza per la collettività, uno sprone al pensare da sé, un contributo al pacifico e prezioso fermento civile. Forse si teme il contagio che la libertà, come l'allegria, sanno muovere tra le persone dalle sensibilità affini.
Con la sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 16 ottobre 2007 e con il decreto della Corte d'appello del 9 Luglio 2008, è iniziata la controtendenza: da randagio che abbaiavo alla luna son passato ad araldo di un diritto sentito da molti (diritto che, non dimentichiamolo, in alcuni paesi è stato riconosciuto trent'anni fa!).
La Cassazione ha ammesso che nessuno può decidere né «per» né «al posto» di Eluana. Nei fatti sono dovuti trascorrere 5750 giorni, 15 anni e 9 mesi, per poter intravedere la possibilità di decidere «con» Eluana, la stessa che ho osato rivendicare dal lontano gennaio 1992.
Ho sempre dato per scontato che la possibilità di rifiutare la sopravvivenza in SVP dovesse rientrare tra le nostre libertà ed i nostri diritti fondamentali. Credo che le Corti non tarderanno a ribadirlo nonostante l'ultimo ricorso della Procura della Repubblica della Corte d'Appello di Milano.
*Socio della Consulta di bioetica

l’Unità 30.8.08
Voto in condotta o voto elettorale?
di Benedetto Vertecchi


In queste ultime settimane si è assistito alla ripresa di simboli collegati all’educazione da tempo dimenticati nelle soffitte delle scuole. Di fronte alla gravità della crisi che, in varia misura, sta investendo i sistemi scolastici dei Paesi industrializzati si sono richiamati aspetti marginali del funzionamento delle scuole, come l’uso del grembiule o l’espressione numerica dei voti. Alle manifestazioni di rifiuto della disciplina scolastica, fra le quali le più rilevanti sono quelle che sfociano in episodi di bullismo, si oppongono solo misure repressive, come se bastasse agitare lo spauracchio di un sette in condotta per ridurre a più miti consigli gli allievi meno inclini ad accettare le regole della convivenza e dell’impegno nella scuola.
Di per sé i cambiamenti introdotti sono di scarsa entità, o del tutto marginali, come nel caso del ritorno all’espressione numerica dei giudizi di valutazione. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la teoria valutativa sa, infatti, che un voto è un giudizio comparativo, che non esprime quantità, ma solo la posizione relativa dell’allievo al quale tale giudizio è assegnato rispetto agli altri presi in considerazione. Pertanto non c’è differenza fra la scala dei voti numerici da uno a dieci ora di nuovo introdotta nelle scuole elementari e medie e quella preesistente centrata su aggettivi e altre formulazioni verbali. In altri Paesi si usano lettere dell’alfabeto (per esempio, negli Stati Uniti il giudizio più positivo è indicato con la lettera A e quello più negativo con la E), scale numeriche più limitate (in Russia i voti variano da uno a cinque) oppure più estese (in Francia il voto più elevato è venti). Quel che conta non è come si esprime il voto, ma quali sono gli elementi sulle base dei quali si perviene a formularlo: si avrebbe un cambiamento effettivo se le scuole fossero messe in condizione di adeguare la loro cultura educativa alle nuove esigenze che si presentano nel lavoro educativo.
Sarà bene riflettere sulla confusione che non potrà non seguire all’uso del voto in chiave repressiva (com’è nel caso della condotta). È dubbio che la repressione sia efficace, ma è molto probabile che costituisca il punto di partenza per una contaminazione nel giudizio di valutazione fra aspetti cognitivi, affettivi e di socializzazione. È questo che si vuole? Probabilmente no. Tutto fa pensare che i cambiamenti appena introdotti non siano prevalentemente rivolti a migliorare le condizioni dell’educazione scolastica, ma debbano essere intesi come segnali rassicuranti rivolti a quella larga parte della popolazione che conserva la memoria autobiografica dei voti numerici (o del grembiulino, o del maestro unico). In altre parole, si rispolverano simboli capaci di trasmettere tranquillità ai genitori e ai nonni, ma del tutto irrilevanti per i bambini e i ragazzi che saranno direttamente investiti dalle nuove norme. Non solo: l’assunzione di un ruolo repressivo da parte della scuola libera la società civile (anche le famiglie) dalle responsabilità che pure dovrebbero essere avvertite circa le tendenze negative che si osservano nell’evoluzione dei profili di bambini e ragazzi. Eppure ci si dovrebbe chiedere che parte hanno nel manifestarsi di tali tendenze i messaggi attraverso i quali la società esercita il proprio potere di condizionamento sui comportamenti di bambini e ragazzi. La scuola sollecita all’impegno nell’apprendimento in un contesto in cui tutto sembra spingere nella direzione contraria, nel quale la cultura non costituisce un valore particolarmente apprezzato e nel quale la maggiore enfasi è posta sulla disponibilità di beni di consumo e sul conseguimento di un successo che richieda un minimo di produttività mentale.
In altre parole si suggerisce l’idea di una soluzione semplice per problemi che invece sono estremamente complessi. L’azione educativa che si esprime attraverso l’uso repressivo della valutazione interviene post factum, liberando dalla necessità di rivedere criticamente le scelte effettuate sia dalle famiglie, sia dalle scuole. Del tutto trascurata è poi l’incidenza che sui comportamenti indesiderati può aver avuto la proposta ossessiva di squallidi lustrini che raggiunge i bambini e i ragazzi attraverso i mezzi di comunicazione. Rassicurare i genitori e i nonni, evitando che si avvii una riflessione critica sui problemi dell’educazione che potrebbe sfociare nella richiesta di scelte politiche volte a produrre un’innovazione reale (alla quale non potrebbe non corrispondere la disponibilità di risorse adeguate) dovrebbe preparare il terreno ai cambiamenti nell’assetto istituzionale della scuola che si incomincia a profilare e che sarà segnato da un progressivo disimpegno dello Stato dall’istruzione.

l’Unità 30.8.08
Una proposta nuova e insieme «antica»
Per una pedagogia ispirata alla Costituzione
di Mario Lodi


Un articolo di Ernesto Galli della Loggia, pubblicato sul Corriere il 21 agosto invita a una riflessione seria sul problema educativo della scuola italiana di oggi. È vero che la scuola pubblica in Europa da due secoli ammette che non è solo un sistema per impartire nozioni, ma qualcos’altro, Che cosa? Rousseau scrisse che il bambino nasce libero e la società lo corrompe. Il grande scrittore Tolstoj aveva provato a realizzare per i figli dei contadini poveri la scuola di Jasnaia Poliana dove i bambini scrivevano i libri sui quali studiavano. Gli ultimi due secoli non sono stati avari di riflessioni e di esperienze singnificative.
Basta ricordare Maria Montessori che aprì le Case dei bambini, la Escuela moderna di Francisco Ferrer, la Cooperative Laic del Freinet che si diffuse in Italia con il Movimento di Cooperativa Educativa dopo la seconda guerra mondiale come pedagogia del buon senso, lasciando numerose opere pubblicate da Case Editrici famose. E contemporaneamente l’idea del priore don Lorenzo Milani di trasformare la sua parrocchia in scuola finalizzata ai valori della Costituzione, vale a dire la collaborazione nella libertà, invece della competizione.
In Italia la strumentalizzazione della scuola per fini politici fu attuata dal fascismo, durò vent’anni e portò alla guerra.
Con la Liberazione fu necessario cambiare le leggi del nuovo stato democratico e in sede in Assemblea Costituente pochi sanno che l’11 dicembre ’47, fu approvato all’unanimità e con vivi e prolungati applausi, un ordine del giorno di Aldo Moro in cui si chiedeva che «la Carta Costituzionale, trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico delle scuole di ogni ordine e grado, al fine di render consapevoli le giovani generazioni delle conquiste morali e sociali che costituiscono ormai sicuro retaggio del popolo italiano».
Quel giorno era nata l’idea di una nuova scuola italiana con il fine di formare i cittadini futuri.
Il loro libro di orientamento era la Costituzione italiana ma non è stato usato con il fine di contribuire a formare i futuri cittadini, di cui la nostra società aveva bisogno. Nelle esperienze del dopoguerra troviamo alcune idee semplici che insegnanti sensibili e preparati possono applicare nella scuola di oggi con il fine di formare i cittadini democratici di domani.
I bambini a sei anni sanno già parlare correttamente dei loro bisogni e della loro vita. L’educatore può subito usare il linguaggio della parola per costruire le fondamenta della scuola democratica. Usando quel linguaggio ogni giorno, abituandoli ad ascoltare e a pensare senza interromperli come di solito fanno i politici in tv, si può parlare di tutto, conoscere gli altri, sapere come vivono. E si scoprirà che, pur sotto la divisa di un grembiule uguale per tutti i bambini sono, per fortuna, tutti diversi. La scuola della parola ci offre la chiave per entrare in quel mondo sconosciuto.
La scuola quindi è la prima società in cui entrano da protagonisti i bambini. È possibile renderla bella e funzionale? Assegnare a ogni cosa il suo posto? Dai quadri alle pareti, all’angolo del computer, dal posto della biblioteca, ai vasi di fiori freschi da cambiare ogni giorno, la nostra aula-laboratorio sarà d’ora in poi un po’ del nostro mondo da conoscere e rispettare. Come era la Casa dei bambini della Montessori.
I bambini che sentono come propria l’aula-laboratorio nel quale cominciano a vivere pensando e parlando e ci resteranno per otto anni, lavorando insieme. E insieme esprimeranno le regole della comunità nascente, rappresentata dall’assemblea-classe, entro la quale si formeranno di volta in volta i cittadini che hanno il diritto alla libertà espressiva sintetizzato dall’articolo 21: «Tutti hanno il diritto di esprimere il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo».
Sembra tutto facile, ma senza educatori professionisti, capaci e appassionati al loro lavoro, non è possibile. Ma chi li forma questi professionisti dell’educazione?
Questo è il compito di un ministro che ha una visione politica di un futuro positivo della società che i nostri legislatori hanno progettato alla fine della guerra e alla nascita della democrazia come partecipazione attiva. Formare gli educatori della nuova scuola dei cittadini, significa creare dei centri di sperimentazione specializzati e volontari che ogni anno immettono nella scuola la pedagogia dell’educazione civica.
Nella scuola-laboratorio ragazzi diversi per cultura imparano a studiare e lavorare insieme aiutandosi quando c’è bisogno come si faceva a Barbiana sostituendo la solidarietà alla competizione. È in questo ambiente che si impara l’educazione dell’ascolto invece della interruzione come si usa spesso in televisione. In questo ambiente dove c’è rispetto per tutti comincerà a essere sostituito il linguaggio volgare, con parole di rispetto verso chi vive insieme a noi. Allora, imparando dall’esempio acquisterà anche l’educatore quell’autorevolezza che in questi tempi sembra smarrita nei giovani e nei genitori, al Nord e al Sud.

Repubblica 30.8.08
I tagli alla scuola contraddicono il ministro
di Salvatore Settis


La scure che si è abbattuta sui finanziamenti non aiuterà ad introdurre un sistema di premi per chi lo merita

È vero che la scuola nelle regioni del Sud è uniformemente di basso livello, che i suoi insegnanti sono "indietro" rispetto ai loro colleghi del Nord? No, non è vero. Ma allora è vero che la scuola italiana, pur con tutti i suoi problemi, ha un livello uniforme su tutto il territorio nazionale? No, nemmeno questo è vero.
Ci sono disparità grandissime, a volte fra scuole o licei della stessa città (che può essere Treviso o Catania), con punte verso il basso che talvolta si concentrano in modo assai preoccupante in certe zone del Paese (non necessariamente, non solo al Sud). Non è nemmeno vero che nessuno se ne è accorto. In Calabria (cito, a scanso d´equivoci, la regione dove la mia famiglia è radicata da quasi seicento anni) la Regione ha appena lanciato, grazie al suo vicepresidente Domenico Cersosimo, un Piano d´azione 2007-2013 per complessivi 101 milioni di euro per l´istruzione e la formazione. I presupposti (cito dal sito ufficiale della Regione): «Sappiamo che esistono deficit e carenze che investono i nostri studenti, soprattutto a livello logico-matematico» (Loiero); «dal punto di vista delle competenze, la Calabria parte da uno svantaggio abissale, che è molto più pesante di quello fisico o geografico» (Cersosimo).
Con lungimirante intelligenza, Cersosimo sottolinea che il Piano «vuole iniziare a colmare il deficit nell´ambito del ciclo completo della formazione (...); si occupa di lavorare sulla base ma non dimentica le punte. Si propone di agire in termini di profezia perché mette finalmente in agenda la scuola e vuole premiare sia gli studenti che i docenti».
Parole d´ordine che, lo si vede subito, sono in sintonia con la preoccupazione del ministro Gelmini di «rimettere al centro della scuola il merito e la responsabilità», di immaginare la nostra scuola (la scuola della Repubblica Italiana) come il luogo in cui si alimenta «una visione, una cultura, un´idea dell´Italia e del suo futuro». È esattamente quello che è mancato e che manca alla scuola italiana, come ha scritto Galli della Loggia sul Corriere del 21 agosto. Essa riflette «la crisi dell´idea di Italia, è lo specchio della profonda incertezza di chi a vario titolo la guida», dal governo agli addetti ai lavori. Perciò occorre «ridare profondità storico-nazionale alla scuola, riappropriarsi del passato e della propria tradizione per ritrovarsi (...) riaffermando il carattere multiforme ma unico e specifico dell´esperienza italiana, (...) ricostituire culturalmente e organizzativamente il rapporto centro-periferia e Nord-Sud».
Il ministro Tremonti ha difeso sul Corriere i tagli a tutto e a tutti in nome della riduzione del deficit pubblico, e ha avanzato per la scuola alcune proposte, naturalmente a costo zero o con qualche risparmio: reintrodurre i voti in luogo dei verbosi giudizi, tornare al maestro unico nelle elementari, dare una qualche regola all´uso e all´abuso dei libri di testo. Su queste proposte, personalmente sono d´accordo con lui. Ma Tremonti sarà il primo a riconoscere che misure cosmetiche come queste non toccano il cuore del problema.
La scure che si è abbattuta sui finanziamenti non aiuterà ad avere scuole meno fatiscenti e più attrezzate; non incoraggerà a introdurre meccanismi premiali del merito; non capovolgerà, come sarebbe necessario, il messaggio fondamentale che viene dal governo di turno: che la scuola è marginale, conta poco o nulla rispetto alle priorità della politica. Come ha scritto Adriano Prosperi su questo giornale (25 agosto), «dalle condizioni sociali in cui si svolge la scuola nasce una disaffezione profonda e diffusa; nasce anche un minaccioso processo di produzione di disadattati».
In altri Paesi, ma anche nel nostro in altri momenti della sua storia, dovrebbe soccorrerci il richiamo alla Costituzione. La nostra pone la scuola fra i meccanismi essenziali al «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3), e prescrivendo l´uguaglianza piena dei cittadini privilegia «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi». Ma oggi è di moda parlare di Costituzione non per difenderla come un testo sacro (così fanno i cittadini degli Stati Uniti), ma solo per dire che è invecchiata.
Nella nostra Costituzione, viceversa attualissima, troveremmo quello che stiamo cercando, "un´idea dell´Italia", articolata con vivo senso della storia e con impressionante lungimiranza. Ma vogliamo cercarla davvero, un´idea dell´Italia, vogliamo davvero che la scuola ne sia il laboratorio e il tramite? Che cosa ha a che fare con questo progetto il vilipendio all´inno nazionale impunemente sbandierato da un ministro in carica? È forse "educativo"? E come è possibile alimentare una qualsiasi idea dell´Italia mentre ci avviamo verso un rassegnato federalismo senz´anima, senza che nessuno ci spieghi nemmeno quanto costerà, quanti altri tagli di bilancio, quante ulteriori disuguaglianze finirà col provocare?

Corriere della Sera 30.8.08
Neuroscienze. La nuova frontiera della ricerca porta al di là dei fenomeni scoperti da Freud
Oltre l'inconscio, capire la coscienza
Sappiamo molto sul cervello ma la mente rimane inesplorata
di Edoardo Boncinelli


Anticipiamo un brano dall'intervento che Edoardo Boncinelli pronuncerà stasera al Festival della Mente di Sarzana (ore 21, piazza Matteotti).

Da tempo gli esseri umani pensano di essere gli unici ad avere una conoscenza diretta della propria vita mentale, cioè una coscienza, come pure una coscienza di questa coscienza, cioè un'autocoscienza. Se siamo gli unici non è del tutto chiaro, ma sicuramente noi siamo esseri dotati di coscienza. Lo strumento principe della sua esplorazione è l'introspezione, una facoltà interiore che ci ha regalato ineguagliabili tesori letterari e filosofici. L'introspezione è anche lo strumento attraverso il quale si può mettere in pratica l'imperativo filosofico e sapienziale: «Conosci te stesso!».
Il problema è che per secoli si è ritenuto più o meno inconsapevolmente che tutta la nostra attività mentale fosse cosciente e che quindi attraverso l'introspezione si potesse prendere coscienza di tutti i nostri moti interiori. Non è chiaro se tutti quanti fossero perfettamente d'accordo con questa assunzione o se si tendesse a considerare rilevante solo ciò che poteva essere raggiunto dalla coscienza, relegando tutto il resto nel girone infernale delle funzioni puramente corporali. Tutto ciò ben si iscrive nel clima culturale imperante fino a tutto il Settecento e che non prestava nessuna particolare attenzione ai fenomeni che riguardavano la vita e i suoi meccanismi. La biologia è stata l'ultima scienza a divenire adulta, non certo perché più difficile, ma piuttosto perché più soffocata e paralizzata dalle sovrastrutture ideologiche, che del resto ancora oggi la condizionano prepotentemente.
Quello che è certo è che nella seconda metà dell'Ottocento e con gli inizi del Novecento questa visione della mente è andata progressivamente in crisi ed è poi miseramente e direi rumorosamente crollata. Fu Sigmund Freud a dare il colpo finale alla dottrina della pervasività della coscienza e a lui viene di solito attribuita la scoperta dell'inconscio. Fu insomma improvvisamente chiaro che dentro di noi accadono tante cose delle quali non siamo, e secondo Freud spesso non possiamo essere, coscienti. Questa proposta incontrò sulle prime enormi resistenze ma poi si impose, anzi stravinse, con le inevitabili esagerazioni nella direzione della onnipotenza e della presunta progettualità dell'inconscio.
Qual è la situazione oggi? Dopo decenni di psicoanalisi, di psicologia e di neuroscienze, si fa veramente fatica a credere che ci sia stato un tempo nel quale si è pensato che tutta la nostra attività psichica fosse conscia. Per noi quest'ultima visione è assolutamente inconcepibile, se non fosse per il fatto, cui abbiamo già accennato sopra, che se dalla attività psichica si esclude questo e si esclude quello, si può anche arrivare a pensare che tutto dentro di noi sia conscio ed esplorabile direttamente e con facilità.
Questa operazione di resezione della nostra attività psichica, con l'esclusione di molte sue manifestazioni, è oggi sempre più difficile e scientificamente impossibile, con tutte le cose concrete che abbiamo imparato del funzionamento della nostra psiche, dall'esecuzione di calcoli al ragionamento, dall'affettività alla decisione, dalla percezione alla ricostruzione degli eventi passati. Oggi buona parte della biologia è neurobiologia e lo studio del nostro cervello, e più in generale del nostro sistema nervoso, impegna le menti migliori e una gran mole di risorse materiali.
Quasi tutto quello che avviene nella nostra testa è inconscio e anche quello che emerge alla coscienza impiega non meno di un terzo di secondo a farlo. Questo è il tempo che separa il cervello dalla mente o, per meglio dire, dalla coscienza. Il nostro cervello lavora mettendo in atto continuamente processi inconsci: solo alcuni di questi, e solo qualche volta, emergono alla coscienza, con il ritardo temporale fisso di alcuni decimi di secondo. Ciò di cui la nostra mente prende coscienza è sistematicamente in ritardo su ciò che il cervello sta elaborando. «La nostra mente — dice efficacemente il neuroscienziato di origine italiana Michael Gazzaniga — è sempre l'ultima a sapere!» Ma — potremmo ribattere noi — è anche l'unica a sapere. Se non arrivano alla coscienza, tutti i moti dell'animo restano pura fisiologia, fosse pure cerebrale, e non lasciano che una traccia indiretta in noi. Ciò non vuol dire che non siano interessanti! Sono anzi l'essenza della nostra vita psichica e di tutte le sue articolazioni che ci permettono di sopravvivere, di reagire agli stimoli e di interagire al meglio con i nostri simili, ma sono nella loro vastissima maggioranza inaccessibili all'introspezione, non fanno cioè parte della coscienza.
Progressi enormi sono stati compiuti negli ultimi 20-30 anni nello studio di questi meccanismi. Non sappiamo certamente ancora tutto, ma quello che si sa è sufficiente a riempirci di orgoglio e a farci capire che il loro studio futuro ci spalancherà universi nuovi e entusiasmanti. Ma si assiste a un fenomeno paradossale: tutto quello che si è imparato e che riempie articoli e libri sulla mente, riguarda i moti inconsci dell'animo; di che cosa sia la coscienza e come alcuni di questi moti di tanto in tanto vi emergano, non ne parla quasi nessuno seriamente. Perché nessuno ne sa niente.
Il problema oggi non è l'inconscio, il grande sconosciuto del passato, ma proprio la coscienza. La neurobiologia di oggi non deve più persuaderci dell'esistenza dell'inconscio né descriverci molti suoi meccanismi, bensì dedicarsi alla comprensione dei meccanismi della coscienza e alle sue varie dimensioni e articolazioni. Questo è il grande compito di domani. Questo è l'oggetto di studio più formidabile. Questo è lo gnosci te ipsum,
il conosci te stesso del XXI secolo, o forse del terzo millennio. È un compito da far tremare le vene e i polsi, ma il premio sarà luminosissimo. Non si tratta di meno che di capire come si passa dal cervello alla mente. Come si passa cioè dal corpo allo spirito.

Corriere della Sera Roma 30.8.08
Villa Celimontana
Il «Sole» di Ada Montellanico


Il Villa Celimontana Jazz Festival (piazza della Navicella) ospita l'Ada Montellanico Ensemble in «Il sole di un attimo», titolo del nuovo disco di una delle più prestigiose ed originali voci del jazz italiano. Il cd rappresenta una tappa importante nella ricerca della vocalist romana: liriche struggenti, sinuose e penetranti, avvolte in ambiti musicali puramente afroamericani. I testi in italiano confermano la riuscita di una ricerca, svolta da molti anni, che declina il jazz nella nostra lingua. Sul palco anche Stefano «Cocco» Cantini sax, Alessio Menconi chitarra, Riccardo Fioravanti contrabbasso, Walter Paoli batteria, percussioni, Antonio Amanti corno di bassetto. Villa Celimontana, ore 22,15

l’Unità Roma 29.8.08
Il grande jazz italiano con
Amato, Ionata e Montellanico


Due sere dedicate al jazz italiano di qualità, stasera e domani, a Villa Celimontana. A cominciare dalla performance odierna del progetto di Giovanni Amato e Max Ionata, proseguendo con l’esibizione di domani sera dell’ensemble di Ada Montellanico, sicuramente tra le migliori voci jazz sul territorio nazionale.
Il quartetto Organic è diretto pariteticamente da Amato (tromba e flicorno), strumentista, compositore e arrangiatore personale, attivo anche come didatta e orchestrale, e dal più giovane Ionata, sassofonista romano che alterna il tenore e il soprano. I due hanno elaborato un repertorio originale radicato nello stile hard-bop, e arricchito dall’organo hammond di Julian Olivier Mazzariello, L’ingombrante strumento a tastiera, difficile da "domare", con i suoi registri ora liquidi ora aggressivi e il tipico vibrato ha impreziosito tante produzioni non solo jazz negli anni 60 e 70, e oggi torna prepotentemente in auge a dispetto (o a causa) dell’enorme sviluppo dei suoni digitali negli ultimi quattro lustri.
Completa la formazione Nicola Angelucci (batteria). Sabato la Montellanico presenta il cd Il Sole Di Un Attimo, tappa importante nella sua carriera. Dopo una lunga ricerca sugli standard e poi sulla canzone italiana rivisitata in jazz, Ada propone finalmente una raccolta di brani di cui è autrice di musica e testi.
Con lei Stefano Cantini (sax), Alessio Menconi (chitarre), Riccardo Fioravanti (basso), Walter Paoli (batteria). Ospite specialissimo Antonio Amanti al corno di bassetto, antico strumento amato da Mozart.

Il Giornale 29.8.08
Il corno di Mozart ha stregato Ada Montellanico


Un weekend di gran classe a Villa Celimontana. Stasera sul palco il quartetto di Giovanni Amato e Max Ionata, mentre domani Ada Montellanico presenterà l’album Il sole di un attimo. Amato e Ionata (tromba e flicorno il primo, sassofono il secondo), accompagnati da Julian Oliver Mazzariello all’organo hammond e da Nicola Angelucci alla batteria, propongono un repertorio originale con una forte radice hardbop. In scaletta, comunque, anche spazio per l’esecuzione di qualche standard, come nella migliore tradizione. La band sarà nuovamente in concerto a Roma, tra qualche giorno, nell’ambito della seconda edizione di «Musica senza confini», a Ponte Milvio.
Domani appuntamento con la splendida voce di Ada Montellanico. La cantante ha da poco pubblicato il nuovo cd e lo presenta a Villa Celimontana. Con lei una band di qualità: Stefano «Cocco» Cantini al sax, Alessio Menconi alla chitarra, Riccardo Fioravanti al contrabbasso, Walter Paoli alla batteria e alle percussioni, Antonio Amanti al corno di bassetto. Vista la particolarità dell’ultimo strumento, raramente inserito in una formazione jazz, vale la pena spiegare che si tratta di un antico corno usato da Mozart. Il suo suono misterioso ha colpito la cantante, che ha voluto scrivere L’alba di un incontro, brano in cui si fa accompagnare dalle sue delicate note.
La Montellanico è indubbiamente tra le più grandi interpreti del canto jazz in Italia, per lo stile e la voce inconfondibili e per la continua voglia di evolversi. Nel nuovo album le storie raccontate sono quasi tutte di sua composizione. I testi, rigorosamente in italiano, confermano la riuscita di una ricerca, svolta da molti anni, che declina il jazz nella nostra lingua, attraverso il raggiungimento di uno stile originale.
Tra i musicisti che la affiancheranno, tutti di grande talento, interessante il percorso artistico recente di Alessio Menconi. Il chitarrista genovese ha da poco pubblicato due album. Nel primo, intitolato Solo, interpreta standard del jazz, perle del pop e brani originali. From East to West offre quasi tutte canzoni scritte da Menconi e una manciata di cover raffinate, tra cui The fool on the hill dei Beatles.

Repubblica 28.8.08
Atmosfere afroamericane per la sua voce calda
Villa Celimontana. Sabato sera presenterà dal vivo l'album "Il sole di un attimo" fusione fra jazz e repertorio melodico
di Felice Liperi


Sensibile e raffinata vocalist, capace di fondere il linguaggio jazzistico con la riscoperta di grandi melodie del nostro repertorio canoro, Ada Montellanico presenta sabato agosto a Villa Celimontana il suo ultimo progetto discografico: Il sole di un attimo. Un album importante in cui, insieme a ottimi musicisti, ha sviluppato ancora la sua sensibilità di compositrice di testi e musica: liriche struggenti e sinuose avvolte in ambiti musicali afroamericani. Dei nove brani sette sono suoi (a volte affiancata da Enrico Pieranunzi e Gianpaolo Conti, da tempo suoi compagni di strada) e confermano la sua capacità di fondere linguaggio jazzistico con la ricchezza melodica del nostro repertorio. "Ti sognerò comunque", "L´alba di un incontro" e "Suono di mare" sono appassionanti paesaggi di un percorso che apre a nuove prospettive. Idee emerse già nel progetto Suoni modulanti in cui aveva offerto sfumature diverse ai repertori che proponeva, dagli standard americani alla canzone italiana più classica e d´autore, come nei dischi dedicati a Tenco ("L´altro Tenco") e alla melodia classica all´italiana ("Ma l´amore no").
Al suo fianco nella realizzazione de Il sole di un attimo, oltre Pieranunzi, anche Walter Paoli (batteria), Paul McCandless e Stefano "Cocco" Cantini (fiati), Bebo Ferra (chitarra), Antonio Amanti (corno di bassetto) e Pietro Ciancaglini (contrabbasso). I testi, tutti in italiano, confermano il successo di una ricerca avviata da anni per declinare il jazz nella nostra lingua, con uno stile e un suono originali in cui dizione, esposizione della melodia, swing, fraseggio e improvvisazione si fondono in una voce calda e ambrata. Con lei sul palco al sax Stefano "Cocco" Cantini, alla chitarra Alessio Menconi, al contrabbasso Riccardo Fioravanti e alla batteria Walter Paoli. Special guest il corno di bassetto di Amanti. Un antico strumento usato da Mozart che ha così colpito la Montellanico da farle scrivere un brano ad hoc da suonare con il musicista.

Il Messaggero 30.8.08
La nuova Ada Montellanico a Villa Celimontana


La vocalist romana Ada Montellanico presenta live il suo nuovo cd ”Il sole di un attimo”, brani in gran parte di sua composizione che traducono in jazz testi in italiano. Con lei Stefano Cantini ai sax, Alessio Menconi alle chitarre, Riccardo Fioravanti al basso, Walter Paoli alla batteria e Antonio Amanti al corno di bassetto, antico strumento usato da Mozart. Villa Celimontana, via della Navicella, 06-77202256.