martedì 2 settembre 2008

l'Unità 2.9.08
Assalti fascisti. Violenza a sangue freddo
di Vincenzo Vasile


È un ritorno al passato. Negli anni 60 i fascisti picchiavano e nessuno li fermava

Sui giornali quest’immagine capita di vederla sempre più spesso.
C’è un ragazzo per terra, insanguinato. Vestito come nostro figlio, nostro nipote. Lo prendono alle spalle, gli gridano: «negro», o «sporca zecca», che è un insetto abbastanza schifoso, infettivo, da eliminare con il fuoco. E le feriscono, le «zecche», a volte le uccidono. Davanti ai poliziotti, quando - raramente - c’è qualche arresto, gli assalitori si giustificano dicendo di non volere uccidere, ma soltanto fare una «puncicata», una puntura, una rissa.Violenza a sangue freddo
Sempre più spesso a Roma, ma non solo. E a Roma, ma non solo, già ci sono stati diversi - troppi - funerali e anche minuscoli cortei di protesta. I bersagli e le vittime di quella che si può considerare una nuova ondata squadristica vengono chiamati, soprattutto a Roma, appunto, “zecche”. Termine del gergo giovanile che in passato era usato in tono non solamente spregiativo, se a loro stessi, alle “zecche” il soprannome piaceva, in quanto originariamente era contrapposto per sbandierare fierezza in faccia ai “pariolini”, o “parioli” (a Firenze cabinotti, o a Milano San Karlini), per dire figli di “gente bene”, fighetti con gli abiti griffati.
Ma in verità fino a qualche tempo addietro c’erano in giro anche “parioli” che vestivano quasi come le “zecche”, e viceversa. E le treccine “rasta” - persino la kefia palestinese - possono essere ritenuti bipartisan, così come i pantaloni con la vita talmente bassa da sfiorare le ginocchia.
Fatto sta che le “zecche” di Roma, (altrove truzzi, sfattoni, rastoni, metallari, punk, gabber), ma non solo a Roma, sono diventate, senza una logica, senza un apparente perché, il bersaglio di spedizioni punitive sempre più sanguinose, all'arma bianca. Non c’è un episodio delle cronache di questi ultimi anni in cui i giovani assaliti possano essere sospettati di avere condiviso con gli assalitori intenzioni, pratiche, o abitudini violente. Erano ragazzi che defluivano da un concerto, gente a passeggio per strada, inerme. Gli aggressori, invece, girano sistematicamente, programmaticamente armati. Utilizzano coltelli come usava la vecchia delinquenza, ma adesso le lame sono seghettate, e nei manici compaiono scritte runiche. Nelle vetrine degli armaioli e dei negozi di articoli sportivi si vede anche un aggeggio mostruoso e micidiale, una ruota dentata che si lancia da lontano, come in un film o un videogioco: ne sequestrano decine nelle “curve” degli stadi, e nelle sedi “ultra”.
Indagini a zero: degli aggressori si sa poco più del fatto accertato che odiano profondamente e indifferentemente poliziotti, e stranieri, e naturalmente le “zecche”.
I contrassegni che ti fanno rischiare la pelle, all’uscita da un concerto, per strada, rimangono tuttavia ancora quell’abbigliamento, quei capelli, quelle abitudini che inducono nelle squadracce il sospetto che i tuoi figli, i tuoi nipoti frequentino centri sociali, divenuti spesso nelle città gli unici punti di ritrovo abbastanza economici per i ragazzi e con qualche contenuto culturale “alternativo”, e il sospetto conseguente che, quando votano, ma non sempre votano, scelgano la sinistra.
Ai tempi nostri (per le generazioni di quelli che si sono presi il morbillo degli anni del Vietnam, e poi la varicella della stagione del ‘68, e poi la rosolia degli anni ‘70) c’era qualche differenza. Una innanzitutto, fondamentale: i poveri ragazzi che insanguinarono i nostri marciapiedi bene o male conoscevano o intuivano - a volte condividevano da un’altra parte della barricata ideologica degli anni di piombo - il perché di tanta violenza. Che adesso viene inferta a sorpresa, a sangue freddo contro gente, contro giovani inermi.
Adesso, ecco la novità, la destra giovanile colpisce, infatti, nel mucchio. C’è da chiedersi il perché di questa strategia. La nuova “fascisteria” è soltanto composta da cani sciolti? Se è così perché non sta già in galera? Se davvero si tratta di quattro banditelli di quartiere, perché non si riesce a sconfiggerli?
Eppure si tratta di una novità solo apparente. Negli anni Sessanta fecero in maniera analoga il loro violento apprendistato, i futuri terroristi e stragisti neri, i Concutelli, i Mangiameli, la Mambro e i Fioravanti. Iniziarono il loro curriculum assaltando licei “rossi” o locali in cui si proiettavano film “comunisti”, dileggiando Pasolini e i “pasolini”. L’hanno scritto nelle loro memorie, hanno affidato la loro verità a libri e "interviste" senza domande, rivendicando purezza e atteggiandosi a sfortunati “comandanti” di un esercito che non combatté mai alcuna guerra, solo orribili agguati.
Non è certamente un caso se nei siti web e nei blog della nuova destra quei personaggi, questi fantasmi del nostro passato vengano a tutt’oggi indicati come modelli e maestri, e cristallizzati come miti in un lontano passato in cui - a metà tra il galoppinaggio elettorale e le spinte eversive - non avevano ancora preso contatti o stretto legami, come poi fecero metodicamente e in competizione tra loro, con i servizi segreti.
Più che una novità, è un ritorno al passato. I ragazzi fascisti negli anni Sessanta cominciarono con lo sparacchiare bastonate nel mucchio, e nessuno li fermava: poliziotti magistrati e giornali si baloccavano con la favola degli opposti estremismi. E molti di noi possono solo ringraziare il destino di essere, all’epoca, soltanto finiti a casa ammaccati o all’ospedale, prima che i “comandanti” militari della fascisteria imbracciassero i mitra e innescassero bombe. Molti di essi frequentavano le stesse sezioni missine da cui sarebbero poi usciti alcuni attuali ministri, sottosegretari, assessori e sindaci. E molte delle loro imprese più violente negli anni Sessanta erano in sotterranea polemica con i "doppiopettisti" dell'Msi, come un ricatto. Oggi gli eredi di Concutelli e di Fioravanti, dissotterrando manganelli e coltelli dello squadrismo, lanciano forse un analogo segnale cifrato ai loro più recenti apprendisti stregoni. Certificando con la violenza la propria esistenza. E reclamando probabilmente un ruolo, dopo un’insoddisfacente gavetta di promesse e di galoppinaggio elettorale.

l'Unità 2.9.08
La scuola di Mariastella: meno lezioni per tutti
Il nuovo slogan del ministro Gelmini: semplicità, autonomia, merito. Ma intanto taglia fondi e ore


Il GELMINI-PENSIERO val bene, così pensa lei, una vera strategia mediatica. Ed ecco che la ministra all’istruzione ha deciso di affidare a Famiglia Cristiana e a Radio City le sue riflessioni in materia scolastica. Che si declinano in uno slogan. Un po’ come «Tre parole: sole, cuore amore», la Gelmini riparte da «Tre parole: semplicità, autonomia, merito». Semplicità «significa chiudere tutti i cantieri lasciati aperti negli anni scorsi, mettere a sistema tutto quanto di positivo è stato fatto dai miei predecessori, a partire da Letizia Moratti e Giuseppe Fioroni: dai nuovi cicli scolastici al recupero dei debiti formativi, alla possibilità di frequentare il biennio di obbligo scolastico anche nel sistema di istruzione e formazione professionale, così che ogni giovane e ogni famiglia possano scegliere la scuola più adatta. Ma semplicità significa anche farla finita col burocratese... Per questo ho voluto reintrodurre i voti, compreso quello in condotta, perchè la scuola deve tornare a insegnare a leggere, scrivere, far di conto e aiutare ogni giovane a diventare un buon cittadino e a rispettare l'istituzione scolastica». Per Gelmini autonomia significa invece «valorizzare la libertà di insegnamento e la specificità delle singole scuole, statali e paritarie, che sono tutte pubbliche... Non è vero, inoltre, che la qualità della scuola dipende solo dalla quantità di fondi pubblici destinati all'istruzione. La spesa dell'Italia in questo settore infatti è in linea con quella degli altri Paesi europei, ma non lo è la qualità. Il problema dunque non è quanto, ma come spendere al meglio i soldi dei contribuenti...». Merito: «Significa premiare gli insegnanti e le scuole migliori. Significa anche dare finalmente attuazione al principio costituzionale che garantisce agli studenti 'capaci e meritevoli’, ma che non possono mantenersi agli studi, le risorse necessarie per studiare. È indispensabile che la scuola sia la più formidabile leva di emancipazione e di sviluppo sociale. La meritocrazia è la più alta forma di democrazia. La speranza di modificare le cose che non vanno deve sostituirsi alla rassegnazione».
Fin qui i cosiddetti buoni propositi. Nella realtà la ministra sembra piuttosto lavorare alla destrutturazione dell’istruzione. A cominciare dalla riduzione del numero delle ore di lezione, prevista dal piano di razionalizzazione della spesa per la scuola, messo a punto dal Governo durante l'estate, che verrà presentato ai sindacati nei prossimi giorni.
Sempre a Famiglia Cristiana, il ministro ha spiegato le ore di lezione saranno ridotte «non in base a una logica di risparmio, ma di necessità perchè in questi anni, con le sperimentazioni e il prolungamento a oltranza dell'orario, abbiamo ottenuto tutt’altro che un aumento della qualità».
Il predecessore di Gelmini, Giuseppe Fioroni del Pd, tutto questo lo definisce una «strategia della distorsione che il Governo mette in atto sulla scuola». «Il problema vero - osserva Fioroni alla Festa democratica a Milano - è che Tremonti applica assieme a Bossi un federalismo sull'istruzione» che comporta «tagli per 130mila docenti e 4mila scuole». Il che vuol dire che non è garantita pari opportunità di apprendimento ai diversamente abili, ai figli degli immigrati, e alle famiglie emarginate. «Si passa ad una scuola per pochi, garantita solo a chi ha soldi e a chi è nato nel posto giusto. E questo - a sessant'anni dalla Costituzione - significa lo smantellamento dell’istruzione pubblica in Italia».

Corriere della Sera 2.9.08
Svolta alle elementari dal prossimo anno
Scuola, il maestro unico è già diventato legge
Inserito nel decreto. I sindacati: aggressione alla qualità
La novità è contenuta nel provvedimento firmato dal presidente della Repubblica
di Giulio Benedetti


ROMA — Ritorna il maestro unico. Dal prossimo anno. Ormai è certo. E sempre dal prossimo anno scatta il divieto di adottare libri «usa e getta». Finora c'era stato soltanto l'annuncio, in coda al decreto del 5 in condotta, dei voti al posto dei giudizi alle elementari e medie e del ritorno dell'educazione civica appena approvato dal governo. «Ce ne occuperemo nella Finanziaria », ha detto il ministro, dopo la riunione del governo che aveva varato i tre provvedimenti. Poi è successo qualcosa. Il testo di quel provvedimento: «Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università» è stato ritoccato in tempo record, rispetto alle versione illustrata dalla Gelmini. Ieri il presidente della Repubblica ha firmato il provvedimento. Ci sono dentro, a sorpresa, anche il maestro unico e l'adozione dei libri con cadenza quinquennale.
Il senso della modifica del decreto? Anzitutto rendere più cogente il ritorno al modello tradizionale di scuola elementare. A quel maestro unico che per secoli ha insegnato a leggere e far di conto, sostituto agli inizi degli anni '90 dal team dei maestri.
Nel comma 4 dell'articolo 64 del decreto 112, approvato nei primi giorni di agosto, si parla genericamente di riorganizzazione della scuola primaria. Un'indicazione troppo vaga, per un tema scottante che vede nella maggioranza posizioni non sempre coincidenti. Il senso dell'integrazione è fin troppo chiaro: «Classi affidate a un unico insegnante e funzionanti con orario di ventiquattro ore settimanali». Si tratta di «paletti» che non potranno essere ignorati nelle prossime trattative tra ministro e sindacati dei prof. Secondo i dati del ministero dell'Istruzione le maestre assunte a tempo indeterminato sono 238 mila. Le classi ammontano a 137 mila 598: 33 mila 224 mila sono a tempo pieno e 104 mila 374 a tempo normale. L'adozione del maestro unico è destinata a ridurre il numero delle cattedre. In che tempi? Questo dipenderà dagli accordi tra i sindacati e il governo. «Abbiamo studiato un piano di razionalizzazione della spesa — ha dichiarato il ministro al settimanale Famiglia Cristiana — che ci consentirà di agire sul numero delle ore di lezione, che verrà abbassato. Così potremo far quadrare i conti e salvare le scuole di montagna. Ma attenzione: non agiremo in base a una logica di risparmio, ma di necessità, perché in questi anni, con le sperimentazioni e il prolungamento a oltranza dell'orario, abbiamo ottenuto tutt'altro che un aumento della qualità». Anche nel caso del ritorno al maestro unico, ha aggiunto la Gelmini, si tratta di «una scelta pedagogica, perché il bambino, almeno nei primi anni della primaria, ha bisogno non di discipline specifiche, ma di un punto di riferimento».
«La scuola farà sentire la sua voce — è la risposta di Francesco Scrima, segretario confederale della Cisl scuola , il sindacato leader nella primaria —. Siamo in presenza di un'aggressione alla qualità.
Il ministro sta destrutturando per decreto la migliore scuola che noi abbiano. Vuole essere ricordata per questo? ». I prof, ecco l'altra novità inserita nel decreto, potranno adottare soltanto testi per i quali gli editori si siano impegnati a mantenere inalterato il contenuto per un quinquennio, «salvo le appendici di aggiornamento eventualmente necessarie da rendere separatamente disponibili». «L'adozione dei libri di testo — si legge nel decreto — avviene con cadenza quinquennale, a valere per il successivo quinquennio». Un aiuto alle famiglie non attraverso il contenimento del prezzo ma, indirettamente, con l'allungamento della «vita» del libro. Dopo un anno o due non sarà più carta straccia. Potrà essere passato al fratello minore o rivenduto.
La norma contro il caro-libri
Dal prossimo anno scolastico scatterà anche la norma sui libri. I prof potranno adottare solo testi per i quali gli editori si siano impegnati a mantenere inalterato il contenuto per almeno cinque anni

Repubblica 2.9.08
Scuola, le riforme della Gelmini non toccano il cuore del problema
Nessuno può insegnare con 1200 euro al mese
di Pietro Citati


La naftalina mi è sempre piaciuta moltissimo: al contrario che a Michele Serra, il quale trova un forte odore di naftalina nelle riforme scolastiche proposte dal ministro Gelmini. Ricordo la beatitudine con cui, a tarda primavera, aprivo gli armadi dove mio padre e mia madre avevano chiuso i cappotti e le pellicce invernali, e aspiravo l´odore di naftalina, che mi rammentava profumi molto più squisiti.
Michele Serra ha perfettamente ragione su un punto capitale.
Non potrà esserci nessun rinnovamento della scuola italiana, se il governo non aumenterà in modo considerevole gli stipendi dei maestri elementari e dei professori delle medie e del liceo. Non è possibile insegnare con uno stipendio di 1200 euro al mese. Con questa somma non si possono comprare libri e nemmeno giornali: né si acquistano vestiti, cappotti e golf nuovi, senza i quali nessuno avrà mai il rispetto degli alunni, visto che oggi la dignità esiste solo se è accompagnata da danari. Leopardi con il vecchissimo cappotto sfilacciato e Baudelaire con le scarpe bucate non sono eroi del nostro tempo. Come il governo trovi i soldi, non so e non mi importa di sapere. So soltanto che dal 1945, quando qualcuno tocca questo argomento, la risposta è sempre la stessa: "Non c´è danaro". Mentre il danaro c´è, sempre, per le cose più sciocche.
Una di queste cose fu, appunto, quella di moltiplicare gli insegnanti nella scuola elementare: con un costo enorme. Un maestro solo (a parte l´insegnante di lingue straniere) è del tutto sufficiente. Ricordo maestre intelligenti ed eroiche che, nei piccoli paesi, fronteggiavano nello stesso tempo tre classi, alternando italiano e aritmetica, geografia e storia. Per quanto so, la scuola elementare italiana, negli anni dal 1935 al 1970, era piuttosto buona. Sarebbe sbagliato, invece, aumentare il numero degli scolari nelle classi, in specie nelle scuole elementari e medie. Non si può insegnare l´italiano a quaranta ragazzi contemporaneamente, come facevo negli anni tra il 1954 e il 1959, quando ero professore negli avviamenti. C´è un problema: i maestri e le maestre del 2008 sono ancora capaci di insegnare cinque o sei materie?
La scuola elementare e media non ha bisogno di computer, come diceva Silvio Berlusconi anni fa. Il computer è anche troppo usato, oggi, in Italia. Col risultato che ragazzi di tredici anni lo usano meravigliosamente, come un gioco spettacolare, ma non sanno scrivere una lettera in italiano.
Credo che tra voto e giudizio scolastico non ci sia una vera differenza. Tutti i professori sanno che i voti riflettevano un discussione tra professori e preside in camera di consiglio: "tu a quello togli due materie a settembre, e a questo ne aggiungo una io". Quanto ai giudizi psicologici, la pretesa di comprendere, analizzare e giudicare un bambino o un ragazzo, è completamente insensata. Nessun professore sa chi è veramente un alunno di otto o quindici anni: non lo sanno nemmeno il padre o la madre, e nessun altro essere umano. Settantacinque anni fa, Giorgio Manganelli, il quale è stato lo scrittore italiano più intelligente dell´ultimo mezzo secolo, veniva ritenuto da tutti (presidi, maestri, professori, compagni) un idiota. Dobbiamo dare pochissimo peso ai voti e ai giudizi della scuola: sono, fatalmente, un meno peggio.
I libri scolastici sono troppi, e spesso sono cattivi. Ricordo una immensa e mostruosa antologia per i ginnasi-licei, che non spiegava i testi, ma cercava di diffondere la terminologia strutturalista ("diegesi", "attante"). Forse sarebbe necessario istituire una specie di concorso statale, con cui stabilire quali libri scolastici sono adatti, e quali no. Capisco che si tratta di una proposta pericolosa, perché non ho fiducia negli eventuali giudici.
I ragazzi non leggono, o leggono troppo poco. Spesso, i professori non sono in grado di consigliare i libri giusti. Non è possibile far leggere a un quindicenne La coscienza di Zeno (libro per lui noioso e incomprensibile), invece che I ragazzi della via Paal o Delitto e castigo, che egli amerebbe appassionatamente. Forse è ingenuo sperare in una buona lista di libri, proposta dal Ministero dell´Istruzione.

l'Unità 2.9.08
Testamento biologico: cosa vuole la destra
di Mario Riccio


L’attuale maggioranza si sta impegnando a presentare entro l’anno ed approvare rapidamente una legge sul testamento di vita. Da sottolineare innanzitutto l’importante e sospetto cambiamento di rotta: quando era all’opposizione, l’attuale maggioranza sosteneva con forza che una legge sull’argomento non era necessaria, e che non era tra le “priorità” del Paese - riprendendo quanto asserito dai vescovi. Citava lo stesso caso Welby e come le leggi vigenti lo avevano risolto a riprova che l’attuale legislazione era già sufficiente a risolvere tutti i problemi del fine vita. Così facendo già si operava una discreta confusione, dal momento che il caso Welby era uno di quelli in cui il testamento di vita era inutile, essendo Welby stato cosciente fino alla morte.
Con gli ultimi sviluppi della vicenda Englaro, invece, la loro posizione è cambiata. Ma più precisamente dai recenti pronunciamenti della Cassazione e della Corte di Appello di Milano. Questa volta le decisioni, pur in punta di diritto, non sono state ritenute corrette ed esaustive, ma addirittura avrebbero creato conflitto di competenze fra organi istituzionali.
Quale è allora la legge che l’attuale maggioranza vuole e presto riuscirà ad approvare, anche con i voti dell’opposizione di centro e di alcuni esponenti del Pd? Si può già sin d’ora prevedere che la ratio della legge sarà la stessa di quella sulla procreazione assistita. Non una legge che permetta finalmente l’utilizzo di questo importante strumento giuridico, cioè i testamenti di vita, anche nel nostro Paese. Ma una legge che di fatto ne impedisca - svuotandone i contenuti e limitandone gli effetti - il reale esercizio. I punti cardine, già anticipati da diverse dichiarazioni di politici della maggioranza, autorevoli rappresentanti del pensiero confessionale nonché i soliti atei devoti, potrebbero essere i seguenti:
· negazione del diritto - peraltro invece ribadito dalla Cassazione nel caso Englaro - al rifiuto della terapia nutrizionale e, probabilmente, anche della terapia ventilatoria (come preteso nel caso Welby);
· limitazione della figura del decisore sostitutivo, cioè quella figura che, liberamente indicata dall’estensore del testamento di vita, diventa invece fondamentale nel decidere per tutte le situazioni cliniche che necessariamente non possono essere specificate nel testamento stesso;
· estrema burocratizzazione nella estensione e validità del testamento. Obbligando la compilazione in presenza di una sorta di tutore (medico, notaio, impiegato comunale). Reiterazione con scadenze fisse del documento, pena la perdita di validità dello stesso;
· totale discrezionalità del medico - nel nome di una malintesa obiezione di coscienza - nell’applicazione delle volontà del paziente. Pertanto il medico potrà comunque sia iniziare che non interrompere eventuali trattamenti sanitari che riterrà opportuno, anche se espressamente rifiutati dal paziente nel testamento di vita.
A queste condizioni è evidente che una legge sul testamento di vita si trasformerebbe in una legge contro il testamento di vita ed il diritto all’autodeterminazione. L’unica speranza, sostenuta però da un iter lungo e complesso, sarebbe rappresentata dal ricorso alla Corte Costituzionale almeno per alcune sue parti. Stesso destino che già attende la legge sulla procreazione assistita.
* medico chirurgo,
componente del Consiglio Direttivo della Consulta
di Bioetica Onlus

l'Unità 2.9.08
La famiglia Englaro diffida la Regione Lombardia


La battaglia giudiziaria sul caso di Eluana Englaro, in coma vegetativo dal 1992, si complica con un nuovo tassello: i legali della famiglia hanno infatti inviato una diffida alla Regione Lombardia per la mancata indicazione di una struttura che possa ospitare Eluana e in cui il padre, Beppino, decida di staccare le macchine che tengono in vita la figlia, dopo il pronunciamento in tal senso della Corte d’Appello di Milano. Nella diffida si chiede cioè che l’amministrazione indichi una struttura dove ospitare la donna, in stato vegetativo, per cui la Corte d’Appello ha permesso di staccare l’alimentazione artificiale. I legali della famiglia hanno precisato che il termine indicato nella diffida è di dieci giorni e che se entro i termini non si riceverà risposta si valuterà se agire con ulteriori iniziative legali. Ma la Regione precisa a distanza di poche ore che «il documento dei legali della famiglia Englaro è giunto in Regione Lombardia» e «gli uffici lo stanno valutando attentamente e nei prossimi giorni sarà fornita una risposta». «La faccenda è nelle nostre mani e comprendiamo la situazione della famiglia - ha spiegato, da parte sua, l’assessore alla Sanità Luciano Bresciani -. Abbiamo deciso di dare all’ufficio giuridico-legislativo la valutazione del caso al fine di avere un supporto tecnico puntuale e preciso per la successiva risposta politica».
La vicenda, insomma, si complica ulteriormente e le reazioni sono di segno opposto: «Non è compito nè della Regione Lombardia, nè di altre Regioni, assicurare le condizioni per l’esecuzione della sentenza», afferma il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, ricordando che la sentenza non è definitiva. Al contrario, è la replica di Ardemia Oriani, consigliere lombardo del Pd, «compete alla Regione Lombardia rispondere sollecitamente alla domanda formulata dalla famiglia».

Corriere della Sera 2.9.08
«Basta clandestinità»: il 26 a Bologna decidono Statuto e iniziative
Il primo meeting dei poliziotti gay
di Vera Schiavazzi


Agenti e militari fondano la prima associazione italiana
Venerdì 26 settembre, a Bologna, l'associazione riunirà il suo direttivo per darsi un nuovo Statuto.

Si chiama «Polis aperta» e in Italia è la prima del suo genere: un'associazione che riunisce uomini e donne omosessuali in divisa, poliziotti, carabinieri, finanzieri, militari delle Forze Armate. Il 26 settembre si riunirà a Bologna il direttivo per la stesura di un nuovo statuto e la messa a punto di un programma di iniziative che faccia uscire i gay in uniforme dalla clandestinità. Un coming out collettivo per vincere i timori di «una discriminazione strisciante», dice Nicola Cicchitti, presidente di «Polis aperta».

TORINO — Ministro La Russa aspettaci, stiamo arrivando. Poliziotti, Carabinieri, uomini e donne della Guardia di Finanza, dell'Esercito e dell'aeronautica gay e lesbiche escono allo scoperto anche in Italia, dopo una lunga stagione di incertezze e clandestinità. E venerdì 26 settembre, a Bologna, volteranno pagina: la loro associazione, «Polis Aperta», la prima e l'unica nel nostro Paese, riunirà il suo direttivo per darsi un nuovo Statuto e un programma di iniziative, in un grande coming out collettivo. Nonostante la decisione, presa anche in seguito alle pressioni degli altri gruppi europei, a cominciare dagli spagnoli di Gaylespol che hanno organizzato l'ultimo raduno internazionale a Barcellona, è ancora molto difficile trovare gay e lesbiche in divisa disposti a parlare, e non a caso per alcuni è più facile che per altri: Vito Raimondi, torinese, è un finanziere come il triestino Nicola Cicchitti, presidente di Polis Aperta. «Per molti di noi — racconta — il timore non è quello di una ritorsione violenta, quanto della discriminazione strisciante. E il disagio per il machismo quotidiano che chi è in divisa è costretto a vivere, fatto di battute e di linguaggi, lo stesso che le donne entrate nell'esercito e in Polizia hanno contribuito a cambiare, senza tuttavia riuscire a cancellarlo». Oggi, gli aderenti a Polis Aperta che hanno un nome e un cognome e partecipano liberamente alle prime attività pubbliche dell'associazione sono circa duecento. C'è chi ha fatto il suo coming out
personale pur essendo un Carabiniere, in uno dei corpi cioè ritenuti più tradizionali, e chi invece preferisce non comparire anche se nella vita fa il vigile urbano: «Non puoi sapere come reagiranno i superiori, ed è comunque difficile dimostrare che un trasferimento "punitivo" è arrivato perché si è scoperto che sei gay e non per "esigenze di servizio", come dice la motivazione ufficiale ». La regola italiana, dunque, è «non chiedere, non dire»: «Mi è capitato di incontrare in discoteca colleghi che appena mi vedevano si giravano dal-l'altra parte — spiega Raimondi —. Al Gay Pride di Biella ero con il mio compagno e un collega che fino a quel momento era rimasto ai margini della manifestazione vedendomi sotto il palco è venuto a salutarci. È stato un grande momento, la dimostrazione che dobbiamo renderci visibili».
Una richiesta che viaggia anche attraverso la rete, negli appelli accorati di chi è entrato — dopo una richiesta e un filtro iniziale — nei gruppi di discussione del sito web.tiscali. it/polisaperta. Scrive «Genova in divisa»: «Caro gruppo, faccio quest'ultimo tentativo poi la smetto, perché mi pare di essere rimasto l'unico in tutta la Liguria... Se c'è qualche collega di qualunque corpo, civile o militare, mi farebbe molto piacere scambiare idee con lui su come si vive e si lavora a Genova essendo gay e portando una divisa». Giulio, nuovo iscritto dal Sud, aggiunge: «Vorrei confrontarmi con altri militari che si trovano a vivere la loro omosessualità tra mille difficoltà nelle caserme italiane ».
Al ministro della Difesa, Polis Aperta chiede di poter essere riconosciuta come associazione mista e senza finalità sindacali, in modo da aggirare ogni divieto. All'ordine del giorno di Bologna c'è anche un programma di incontri e l'elezione di delegati regionali. Ma, soprattutto, l'idea di poter cambiare dall'interno una mentalità ancora prevalente tra le forze dell'ordine, creando gruppi di poliziotti gay («siamo una risorsa, non un problema») capaci di formare i colleghi insegnando loro a intervenire in caso di reati o violenze che riguardano gli omosessuali. Come già avviene in Spagna, dove sono i gay della Guardia Civil a tenere corsi anti- discriminazione.

Corriere della Sera 2.9.08
Un libro di testo russo
Stalin «riabilitato» «Le purghe? Mossa razionale»


Le purghe staliniane? Una risposta «razionale» per modernizzare la Russia. A definire così gli anni del terrore imposto dal dittatore sovietico è un nuovo manuale scolastico russo, Storia della Russia — 1900-1945. Il libro, per ora destinato solo agli insegnati, sarà proposto agli studenti a partire dal 2009. Non è certo che la discussa definizione rimanga: lo scorso anno un testo che definiva Stalin «un manager efficiente» fu emendato prima di finire sui banchi. Ma il tentativo di riabilitare il «piccolo padre» indica una tendenza diffusa. «Non stiamo difendendo Stalin — spiega l'editor del libro, Alexander Danilov —. Ma i giovani devono sapere le ragioni del suo comportamento».
In fondo, meno di un anno fa, l'allora presidente Putin disse che le purghe erano state «un momento buio della nostra storia. Ma chi ha bombardato Hiroshima e Nagasaki non pretenda di darci lezioni».
Affetto Una donna abbraccia il ritratto di Stalin

Repubblica 2.9.08
Il Cremlino ispira i nuovi manuali di storia
E Stalin viene giustificato


L´idea di Putin e Medvedev è quella di ridare ai giovani il senso dell´orgoglio patriottico edulcorando i giudizi negativi su purghe e stragi

Un anno fa le autorità scolastiche russe favorirono la diffusione di un ineffabile e controverso manuale di storia, destinato ai docenti, in cui si riabilitava la figura di Stalin, costretto a scelte dolorose - per esempio, le «purghe» - in nome della modernizzazione del Paese. Quel libro, che s´intitolava "Storia della Russia, 1945-2007" ed era consigliato dallo staff di Putin, scatenò polemiche a non finire. Che non servirono a nulla.
Anzi. La stessa casa editrice Prosvescenie (Istruzione) propone infatti per il nuovo anno scolastico un secondo manuale - stessi autori, coordinati da Aleksandr Filippov - che si avventura stavolta nella "Storia della Russia, 1900-1945", completando il primo volume. E´, in filigrana, la storia del potere russo, e la giustificazione delle sue azioni. Lo stalinismo è riletto in modo «razionale». Un tempo, nei manuali di storia sovietici le repressioni di Stalin semplicemente si tacevano, o venivano presentate come una specie di «deviazione» dalla linea generale del Pcus. Oggi, invece, il Cremlino - perché l´ispirazione storica e politica arriva da lì - vuole concentrare «l´attenzione degli studenti sulla spiegazione dei motivi e della logica delle azioni dell´autorità» (così si legge nella prefazione).
Quale scopo si cela dietro questa riscrittura della storia ispirata da Putin e Medvedev? Ridare ai giovani il senso dell´orgoglio patriottico; inculcargli il principio che la Russia è sempre stata, nel bene e nel male, una «grande nazione» destinata a rioccupare «la sua giusta posizione nel mondo»; riconoscere come scusabili le scelte dei suoi statisti, perché dettate dalla necessità di difendere la Grande Madre Russia.
Soprattutto, c´è il tentativo di cancellare dalla memoria collettiva il giudizio pesantemente negativo sul regime totalitario di Stalin. Ma non solo Stalin. Si «comprende» persino Nicola II. Lo zar era convinto che l´abbandono della monarchia assoluta, «l´indebolimento della verticale del potere» (guarda caso, la formula putiniana della gestione del potere: ecco la chiave di lettura) avrebbe condotto la Russia alla catastrofe, e «perciò rifiutava tutti i progetti di riforme che prevedevano cambiamenti di regime anche in una prospettiva più vaga»; nell´Urss non è mai stata organizzata una carestia nelle campagne, «tutto era condizionato sia dalle condizioni del tempo sfavorevoli, che dall´incompiutezza dei processi di collettivizzazione delle campagne»; alla fine degli anni ‘30, nel quadro della modernizzazione è stato costruito non il socialismo, né il capitalismo, ma un modello di società industriale.
Persino la versione del massacro di Katyn (la fucilazione dei prigionieri di guerra polacchi operata dagli agenti del Nkvd), è stravolta in un «castigo» storico: «Non era soltanto questione di opportunità politica, ma anche la risposta per la morte di tante (decine) di migliaia di soldati di Armata Rossa nella prigionia polacca subito dopo la guerra del 1920, provocata non dall´Urss, ma dalla Polonia».
Perciò, non desta meraviglia il modo in cui si illustra il Grande Terrore perpetrato da Stalin e dai suoi accoliti: «La resistenza opposta alla politica di Stalin di portare avanti una modernizzazione accelerata e le preoccupazioni del leader nazionale di perdere il controllo sulla situazione era il motivo principale per attuare "il grande terrore". Essendo l´unico partito, la VeKaPe (be) (il vecchio nome del PCUS, ndr) era per il potere anche l´unico canale "feed-back". Sotto l´influsso degli stati d´animo d´opposizione crescenti nella società il partito stava diventando terreno fertile per la formazione di vari gruppi e correnti politici di idee differenti», insomma perdeva il suo carattere monolitico e minacciava il controllo del potere. «Alla vigilia della guerra Stalin, tra competenza e fedeltà, ha scelto la fedeltà dei comandi delle Forze Armate e dei burocrati a lui fedeli». Chi non gli era fedele, pagò con la vita. Stalin «non sapeva da chi poteva aspettare un colpo», quindi ha sferrato lui «un colpo contro tutti i gruppi e le correnti conosciuti, nonché contro chi non era suo alleato o chi non la pensava come lui».
Comunque, scrivono gli autori del manuale, «è importante dimostrare che Stalin stava operando in una situazione storica concreta, stava agendo (come manager) in maniera ben razionale come protettore del sistema, come un coerente sostenitore della trasformazione del paese in una società industriale che potesse essere controllata dal centro unico, come leader della nazione minacciata nel brevissimo avvenire da una grande guerra».

Corriere della Sera 2.9.08
Pierre Cassou-Noguès ricostruisce la vita e l'opera di uno scienziato ossessionato dal complotto
Numeri e demoni, il teorema di Gödel
La deriva psicotica nel matematico che credeva negli emissari del Maligno
di Sandro Modeo


Secondo Kurt Gödel, il tessuto fenomenico della materia (gli alberi, le strade, le case, persino le persone, dalle anonime alle più care) è un tenace strato di copertura, e il cielo una calotta ingannevole che ci protegge e ci reclude come il «ventre della madre» col bambino. Al di là di questo strato, si estende — infinita e immobile, fuori dallo spazio e dal tempo — la vera «struttura del mondo»: un universo sovradeterminato da un Dio che nulla lascia al caso e osservabile per scorci solo dalla finestra chiusa del ragionamento logico-matematico, tra i cui spifferi — per scarti quasi inavvertibili, sorta di fruscii astratti — si rivelano, oltre a quelle angeliche e fantasmatiche, le presenze dei demoni e di altri emissari del Maligno.
Rigoroso ritratto intellettuale e insieme gelido referto clinico, I demoni di Gödel di Pierre Cassou-Noguès (matematico-filosofo del Cnrs) ci immette in uno degli snodi più perturbanti nella visione di molti matematici: il rapporto tra dualismo (mente versus materia) e disagio mentale, tra radicalità dell'astrazione e deriva psicotica. Gödel vede infatti nella «struttura del mondo» un esteso «dietro le quinte» di ogni fatto e aspetto della Storia e della propria vita: il che lo porterà a elaborare un complottismo sistemico (le carte di Leibniz distrutte da una società segreta e Eisenhower che elimina gli oppositori) e una fitta serie di fobie autodistruttive (quella di essere ipnotizzato a sua insaputa ma soprattutto quella di essere avvelenato, che lo condurrà a pesare 30 chili e alla morte per consunzione). E se Cassou- Noguès ricostruisce anche il caso parallelo del collega di Gödel, Emil Post (morto per infarto in seguito a un elettroshock, dopo un'esistenza di intuizioni geniali bloccate da collassi nervosi), avrebbe potuto citare — tra gli altri — anche l'indiano Ramanujan, morto a Cambridge nel 1920 a 33 anni, causa un'infezione intestinale da lui ricondotta alla «punta infinita» della funzione zeta (quella scoperta da Riemann sulla natura dei numeri primi) conficcata nel suo corpo; o il francese Grothendieck, a tutt'oggi in un villaggio sperduto dei Pirenei a delirare sul mondo indemoniato.
Il nucleo decisivo della questione consiste nell'inseparabilità tra la coerenza interna di un assunto scientifico e il suo riverberarsi sulla psicologia dello scienziato. E cioè — nel caso di Gödel, focalizzato da Cassou-Noguès attingendo a un vasto materiale inedito, a partire dalle carte di Princeton — tra il famoso «teorema di incompletezza » e la sua cupa teologia innervata di (inconsapevole) gnosticismo. Il teorema — annunciato per la prima volta nell'agosto del 1930 al Caffè Reichsrat di Vienna davanti a Carnap e ad altri membri del «Circolo » — prova come l'aritmetica non possa né dimostrare né confutare certi sistemi formali, lasciandoli sospesi e «indecidibili»; e cioè — su un piano filosofico — come la finestra possa sporgersi su un immenso paesaggio di oggetti immateriali necessariamente trascendenti. Se infatti né il cervello umano (col suo numero finito di connessioni sinaptiche) né l'archeo- computer della «macchina di Turing» (col suo numero finito di computazioni) sono in grado di afferrare l'infinito, solo la mente — in quanto speculazione pura — può fungere da interfaccia.
Lo spalancarsi di un simile «pensiero senza cervello» oltre i limiti della percezione sensoriale produce, ancora una volta, un ibrido di verità scientifiche e proiezioni paranoiche. Da un lato, la concezione gödeliana del tempo non come retta o freccia (passato-presente-futuro) ma come «superficie» (in cui tutto è contemporaneo a tutto, senza nessun divenire) è compatibile con quella einsteiniana; e in quanto tale, nega molte suggestioni fantastiche, dai cronoviaggi agli universi paralleli. Dall'altro, il fatto che l'uomo sia privo di libero arbitrio e possa solo intravedere l'«armonia prestabilita» del Sovramondo — quando non glielo vietano le deviazioni cognitive dei demoni, tesi a soffiare nel Sottomondo inganno e ignoranza — configura un senso di prigionia e claustrazione da racconto di Kafka, non a caso lettura di Gödel. Se è ovviamente impossibile e inutile trovare una direzionalità causale tra platonismo esasperato e psicosi, non lo è forse — partendo da Gödel — formulare un'ipotesi d'insieme. Il grande logico di origini ceche vede infatti il nostro mondo materiale come un transito tragico ma temporaneo, in attesa che il nostro corpo si apra (con la morte) alla verità intravista dalla matematica: «La vita può essere infelice per settant'anni e felice per un milione di anni». Nella sua prospettiva — come in quella di molti idealisti o di molti credenti — è intollerabile il pensiero opposto di una vita biologica nata nell'universo per caso, in cui le parabole individuali sono solo brevi segmenti finiti e le intuizioni logico-matematiche schemi interpretativi (a volte sovrabbondanti) elaborati da un cervello plasmato dall'evoluzione.
Alla fine, ogni negazione del mondo — anche la più vertiginosa, complessa e disperata — è un tentativo di elaborare l'impossibilità di accettarlo.

Repubblica 30.8.08
I testimoni di Gesù, le origini del cristianesimo
di Corrado Augias


Gesù non ha mai detto di voler fondare una religione, una Chiesa, che portassero il suo nome; mai ha detto di dover morire per sanare con il suo sangue il peccato di Adamo ed Eva, per ristabilire cioè l' alleanza fra Dio e gli uomini; non ha mai detto di essere nato da una vergine che lo aveva concepito per intervento di un dio; mai ha detto di essere unica e indistinta sostanza con suo padre, Dio in persona, e con una vaga entità immateriale denominata Spirito. Gesù non ha mai dato al battesimo un particolare valore; non ha istituito alcuna gerarchia ecclesiastica finché fu in vita; mai ha parlato di precetti, norme, cariche, vestimenti, ordini di successione, liturgie, formule; mai ha pensato di creare una sterminata falange di santi. Non è stato lui a chiedere che alcuni testi, i vangeli, riferissero i suoi discorsi e le sue azioni, né ha mai scritto personalmente alcunché, salvo poche parole vergate col dito nella polvere. Gesù era un ebreo, e lo è rimasto sempre; sia quando, in Matteo 5,17, ha detto: «Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento»; sia quando, sul punto ormai di spirare, ha ripetuto l' attacco straziante del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Davanti a queste incontestabili verità sorge con forza la domanda, la curiosità di sapere: ma allora com' è nato il cristianesimo? Chi e quando ne ha stabilito norme e procedure, riti e dogmi? Gesù non ha mai pensato di rendere obbligatori un comportamento o una verità certificati per decreto. Ha esortato, ha pregato, ha dato l' esempio. Soprattutto, nulla era più lontano da lui di una congerie di leggi, un' organizzazione monarchica, uno Stato sovrano dotato di territorio, moneta, esercito, polizia e giurisdizione, sia pure ridotti - ma solo dopo aspre lotte . a dimensioni simboliche. Torna di nuovo la domanda: ma allora chi ha elaborato tutto questo? perché? quando? La vicenda del cristianesimo, ricostruita nel suo effettivo svolgimento secondo le leggi della ricerca storica e non della teologia, rappresenta una complessa avventura umana ricca di drammi, di contrasti, di correnti d' opinione che si sono scontrate sui piani più diversi: la dialettica, l' invenzione ingegnosa, la ricostruzione ipotetica di eventi sconosciuti a costo di affrontare i più inverosimili paradossi; l' amore per gli uomini, certo, nella convinzione di fare il loro bene, ma anche gli interessi politici, gli arbitrii e gli inganni; non di rado l' opposizione al mutamento spinta fino allo spargimento di sangue. In breve: se si esaminano i fatti con la sola ottica della storia, nulla distingue la lenta e contrastata nascita di questa religione da quella di un qualsiasi altro movimento in grado di smuovere coscienze e interessi, di coinvolgere la società nel suo insieme e le singole persone che nella e della società vivono. Sigmund Freud ha scritto nel suo L' avvenire di un' illusione: «Dove sono coinvolte questioni religiose, gli uomini si rendono colpevoli di ogni sorta di disonestà e di illecito intellettuale». Forse l' espressione è eccessiva, nel senso che non sempre e non per tutti è stato così. E, se di disonestà si può parlare, si è spesso trattato di una «disonestà» particolare, concepita cioè per offrire agli esseri umani una consolazione che la vita raramente concede. Di sicuro, però, è vero il reciproco della frase di Freud e cioè che la ricerca storico-scientifica, condotta con criteri rigorosi, obbedendo solo alla propria deontologia, esclude ogni «disonestà», il suo fine essendo di arrivare a risultati certi. Momentaneamente certi, aggiungo. Certi, cioè, fino a quando altre ricerche, altre scoperte, altri documenti falsificheranno quei risultati per proporne di nuovi. La differenza fra la storia (e qualunque altra attività scientifica) e la teologia è infatti soprattutto in questo: la scienza tende a un instancabile avvicinamento a verità perfettibili, la teologia tende a considerare immutabile la sua verità perfino quando le scoperte della scienza la rendono palesemente inverosimile. La ricerca scientifica e la fede religiosa, il perfezionamento di conferme verificabili e la fiducia in verità assolute si muovono su piani distinti. Per ognuna delle due ci sono spazio e legittimità nella coscienza e nei sentimenti degli individui, assai meno nel campo delle attività razionali e pubbliche. La verità della politica e della convivenza, fatta di mediazioni e di incontri, è diversa dalla verità della fede, fatta di dogmi immutabili. Il filosofo Rousseau era arrivato a dire: «Il cristiano non può essere un buon cittadino. Se lo è, lo è di fatto, ma non di principio, perché la patria del cristiano non è di questo mondo». Vedremo quanto sia vero tale giudizio e quanto il principio abbia pesato nel momento in cui il cristianesimo lentamente si allontanò dal giudaismo originario per diventare una religione a sé. Il professor Remo Cacitti insegna Letteratura cristiana antica e Storia del cristianesimo antico alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell' Università degli Studi di Milano, materie su cui ha grande competenza. Nel dialogo raccolto in questo libro, egli ricostruisce le vicende che hanno caratterizzato la nascita del cristianesimo secondo i risultati della più attendibile e aggiornata ricerca. Nulla che non sia storicamente verificabile entra nel suo racconto. Non mancheranno quindi al lettore le sorprese, come non sono mancate a me, mentre lo ascoltavo raccogliendo le sue parole. Una narrazione basata su documenti è cosa molto diversa da una costruzione teologica, che per suscitare la fede deve trasformare i fatti, filtrarli attraverso categorie sottratte al controllo della ragione. * * * Quando e come comincia la nuova fede chiamata cristianesimo? è una domanda alla quale si risponde malvolentieri sia perché non è facile sia perché la materia è controversa, per taluni aspetti imbarazzante, basata su fonti aleatorie. Si può allora provare a formulare la questione in modo diverso: quando si conclude la fase che possiamo considerare originaria, aurorale, di questa religione? Ma soprattutto, per cominciare, a quale metodo si affidano gli storici per cercare di ricostruire con fedeltà le varie fasi degli avvenimenti? Per la dottrina esiste una data ufficiale di nascita della Chiesa: la Pentecoste. Cinquanta giorni dopo la morte di Gesù, lo Spirito santo si manifestò prima come un vento, poi in forma di fiammelle che si posarono sul capo di ciascuno dei discepoli riuniti in assemblea. Riattualizzando l' originale significato ebraico della ricorrenza (legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio sul monte Sinai), la Pentecoste cristiana viene vista come la nuova legge donata da Dio ai suoi fedeli. Questo nella dottrina. Nella realtà storica le origini della nuova religione sono molto più movimentate e incerte. Le due sole frasi che potrebbero far pensare all' intenzione di Gesù di fondare una sua Chiesa sono o male interpretate («Tu sei Pietro e su questa pietra~») o aggiunte in un secondo tempo al testo originario («Andate e predicate a tutte le genti~»). Per la cerchia dei seguaci la realtà della sua morte - di quella morte - dovette rappresentare uno shock tremendo. L' uomo, il profeta, se si vuole il messia tanto atteso, nel quale avevano riposto ogni speranza, al cui messaggio avevano creduto con pienezza di cuore, era finito su un patibolo ignominioso. Di colpo, tutti coloro che avevano creduto in lui erano diventati complici di un criminale giustiziato. La sventura si era abbattuta su di loro e, nello stesso tempo, il regno dei cieli, da lui annunciato come imminente, tardava ad arrivare. La loro risorsa, la loro salvezza fu rifugiarsi nelle antiche scritture della Bibbia, dov' era detto che i giusti secondo Dio sarebbero stati salvati. A questa consolazione si aggiunse la notizia che la sua tomba era stata trovata vuota: la salma martoriata era scomparsa. Gesù doveva, dunque, essere risorto a nuova vita. I vangeli affermano con assoluta certezza due cose: che Gesù era realmente morto sulla croce; che molte persone lo videro dopo la resurrezione. Videro, cioè, un essere capace di passare attraverso una porta chiusa, di materializzarsi all' improvviso davanti ai suoi seguaci proprio come fanno gli spiriti, ma anche di mangiare del pesce e di far toccare le sue piaghe come un vero essere umano. Secondo gli storici tali apparizioni non sono vere prove di un ritorno dalla morte, sono invece testimonianze molto convincenti della fede che i suoi discepoli avevano in lui. L' annuncio del risorto cominciò a diffondersi in un territorio sempre più vasto a mano a mano che coloro che avevano creduto in lui presero a viaggiare, utilizzando a fini religiosi la fitta rete di comunicazioni che l' Impero romano aveva creato a scopi militari e di commercio. Tutte le indagini storiche e archeologiche dimostrano che la nuova religione si sviluppò in luoghi diversi e con modalità differenti a seconda di come il racconto delle parole e delle azioni di Gesù veniva riferito passando di bocca in bocca. Come sostengono gli storici, e conferma con convinzione il professor Cacitti, all' inizio non ci fu un solo cristianesimo, ma diversi cristianesimi che avevano rilevanti diversità l' uno dall' altro, erano più o meno radicali, più o meno vicini all' originaria matrice ebraica. Alcune di queste differenze saranno dottrinalmente composte nel corso dei secoli, di altre continua a esserci traccia anche oggi nelle diverse confessioni che si dicono cristiane.

D-donna di Repubblica 30.8.08
La voce inascoltata
di Umberto Galimberti


Scrive Erich Fromm in Psicoanalisi della società contemporanea (Ed. Comunità): La salute mentale non può essere definita in termini di adattamento dell'individuo alla sua società, ma, al contrario, in termini di adattamento della società ai bisogni dell'uomo".

Il quasi silenzio del Vaticano di fronte ai campi Rom dati alle fiamme vicino Napoli ha turbato cattolici e non, per cui ci si è chiesti: "Perché tanta prudenza? Cristo si è fermato in Piazza San Pietro?" (Maurizio Chierici, l'Unità 19/5/08). La risposta forse può essere trovata se si tiene conto del tipo di assetto mentale delle gerarchie vaticane e non solo. Già la psicoanalista cattolica Francoise Dolto (Psicanalisi del Vangelo, Rizzoli) aveva affermato che l'educazione "cosiddetta cristiana" può far ammalare le persone, mentre Gesù le guarisce. Ma è stato lo psicoanalista cattolico Pierre Solignac (La nevrosi cristiana, Boria) a formulare una precisa diagnosi: "L'autorità romana si comporta come una personalità paranoica" in perenne contraddizione con Gesù, il cui messaggio "è stato quello del-l'antinevrosi". Così può accadere che il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, veda "estremismi" là dove a Ponticelli divampa un pogrom. Non vede donne e bambini in fuga verso l'ignoto. Lo sguardo di Gesù era diverso. Dove l'occhio del fariseo "vede" un "peccatore e pubblicano", Gesù "vede un uomo" (Matteo 9, 9-11). Al fariseo Simone che "vede una peccatrice" che gli insudicia la casa (Luca 7, 36-50), Gesù corregge lo sguardo: "Vedi questa donna?". E una donna vede Gesù quando incontra la samaritana, appartenente a un'altra etnìa (Giovanni 4, 1-29), a lei regala "l'acqua vìva" ovvero l'amore di Dio, sicché anche lei alla fine non vede più in lui un "giudeo", ma un "uomo"; lo sguardo di Gesù aveva abbattuto le barriere etniche e religiose.

Il fatto è che tra il Tempio cattolico e il Cesare berlusconiano, sussiste un connubio mentale, che "il guardo esclude". Ascoltiamo Eugenio Scalfari (la Repubblica 17/5/08): "Dopo la vittoria di Berlusconi è scoppiata la sindrome delle ronde di strada, della repressione fai-da-te... C'è una logica nella follia di aver cavalcato la paura: poiché di miracoli in economia non se ne potranno fare, bisognava suscitare un nemico sul quale scaricare le tensioni". Suscitare un nemico: un meccanismo che la psicoanalisi chiama "identificazione proiettiva". Per essa - che è in relazione con la posizione paranoide/schizoide (Melanie Klein) - il soggetto nega il proprio "cattivo", lo espelle e lo incarna in un Altro, il quale, trasformato in discarica di rifiuti psichici altrui, viene suscitato come nemico, che fa paura e da cui occorre difendersi, magari con le ronde, ma che va anche attaccato, magari con i raid, perché incarnazione del Male. Di fronte a un inconscio collettivo malato che sta tracimando, non è urgente che maturi la consapevolezza dei rapporti tra politica e psicoanalisi, tra religione e psicoanalisi, visto che le sole categorie della politica sembrano insufficienti?
Francesco Natarelli, Pescara

II suo invito è nobile, ma penso che nessuno lo raccolga. La psicoanalisi, infatti, non può aiutare né la religione né la politica perché, a differenza degli anni '60 e 70 in cui la psicoanalisi svolgeva un ruolo anche di "analisi del sociale" (come già per altro era negli intenti di Freud, autore de !l disagio della civiltà), oggi è stata relegata o sì è relegata nell'ambito della cura individuale.

Per effetto di questa riduzione la psicoanalisi è diventata funzionale al potere sia politico sia religioso, ai quali non dispiace la medicalizzazione della condizione umana, perché questa comporta un'autolimitazione degli individui i quali, una volta persuasi di avere un sé fragile e debole, saranno loro stessi a chiedere non solo un ricorso alle pratiche terapeutiche, ma addirittura la gestione della loro esistenza, che è quanto di più desiderabile possa esistere per i poteri costituiti. E qui non sì fatica a intravedere le potenziali implicazioni autoritarie a cui inevitabilmente porta la diffusione generalizzata dell'etica terapeutica, che è la versione secolarizzata dell'etica della salvezza, con cui le religioni hanno sempre tenuto gli uomini sotto tutela.

Anzi, per Frank Furedi, sociologo ungherese che insegna all'università di Kent a Canterbury, autore de // nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (Feltrinelli), la patologizzazione di esperienze umane, fino a ieri ritenute normali, risponde all'esigenza di omologare gli individui non solo nel loro modo di "pensare" (a questo ha già provveduto il "pensiero unico" per cui, come già ammoniva Nietzsche: "Chi pensa diversamente, va spontaneamente in manicomio"), ma soprattutto nel loro modo di "sentire". Questo nuovo "conformismo emotivo", come lo chiama Furedi, è un governo degli uomini più sottile e pervasìvo dì quanto le religioni e le ideologie del passato siano mai riuscite a fare, perché attutisce le tensioni sociali, spegne i possibili conflitti, riduce al silenzio le voci che rifiutano di uniformarsi al sistema, risolve quelle che, in tutta evidenza, sono questioni pubbliche in problemi privati degli individui, i quali, se dissentono con le loro idee o con i loro comportamenti, possono sempre trovare un cognitivista o un comportamentista che li persuade che, non potendo cambiare il mondo, per vivere con meno problemi è meglio che cambino se stessi. E, in nome dì questo "sano realismo", il mondo resta tale qual è.

lunedì 1 settembre 2008

l’Unità 1.9.08
Non solo Roma: ecco la violenza fascista che viene dal basso
È allarme dopo l’accoltellamento di un ragazzo all’Ostiense
Lo storico: «C’è un clima di destra che favorisce i raid»
di Eduardo Di Blasi

LE CRONACHE degli ultimi due anni sono un campo di battaglia che conta morti e feriti, assalti e agguati che stanno a metà tra l’aggressione politica degli anni 70 e i futili motivi di questi tempi, il controllo di un territorio immateriale, da difendere con le lame contro chi è diverso. Parenti e amici piangono Renato Biagetti accoltellato all’uscita di un concerto a Focene (Roma) il 27 agosto del 2006 e Nicola Tomassoli, lasciato a terra dopo un pestaggio skinhead a Verona nella notte tra il 30 aprile e il primo di maggio scorso. Roma rimane colpita dall’assalto di Villa Ada del 28 giugno 2007, dalle cariche alle caserme del novembre successivo, dal raid al circolo Mario Mieli in piena campagna elettorale per le comunali, dall’ultimo episodio di violenza dell’altra notte, l’aggressione dei tre ragazzi che erano usciti dal concerto in memoria di Biagetti.
«Una puncicata. Era quello che volevano fare, non una rissa». Partendo da questo assunto investigativo sull’aggressione dell’altra notte a Roma, Ugo Maria Tassinari, l’autore di Fascisteria (testo fondamentale su cinquant’anni di neofascismo nel nostro Paese, riedito pochi mesi fa per Sperling & Kupfer), prova a spiegare cosa ci sia alla base di questa violenza cieca, ingiustificata, meno che politica. Dice bene la signora Stefania Zuccari, la madre di Renato Biagetti, quando chiede sicurezza: «Non vogliamo vedere i nostri figli a terra in una pozza di sangue», non perché hanno una militanza politica o mostrano un’appartenenza. Eppure, spiega Tassinari: «Non siamo negli anni Settanta, e nemmeno negli anni Novanta». E articola: «Esiste sicuramente una scrematura di fascisti che rifiutano il percorso di reinserimento politico che stanno tentando tutti i gruppi dirigenti dell’area. È naturale che questo percorso trovi resistenze in gruppi umani che hanno sicuramente degli addentellati fascisti ma che a questo punto non hanno più alcuna caratteristica politica». Siamo davanti a «una destra che mantiene un immaginario e uno stile di vita e di pratiche sociali che sono legate a una tradizione di genere, ma che non ha legami diretti con la politica». Cani sciolti, emarginati, figli di un’appartenenza che vuole essere «dura e pura» che si proclama in lotta contro chi, anche tra le proprie fila, ambisce al salotto buono della politica. Quel salotto che con Berlusconi ha già aperto le porte del Parlamento a chi un tempo si professava fascista: «Vincenzo Piso, Marcello De Angelis, Alessandra Mussolini, Giuseppe Ciarrapico, Marco Rondini, Cristiano De Eccher...».
Loro sono l’altra faccia della medaglia, «rigurgito marginale dell’area neofascista», che però sta accanto al «diffondersi di comportamenti violenti e xenofobi da parte del Paese profondo in cui non c’è responsabilità diretta della fascisteria, ma che sicuramente esprimono una fortissima spinta a destra». Quello che è successo al campo rom di Ponticelli, l’incendio del palazzo degli africani a Pianura sono i sintomi di un Paese che cambia. «Si sta diffondendo, in un clima generale di svolta a destra estremamente forte, di egemonia culturale della destra, un rigurgito di violenza sociale che è chiaramente connotato a destra, ma in cui è assolutamente irrilevante il ruolo della fascisteria».
Eccola l’altra parte della medaglia. Se vogliamo notare le differenze con gli anni Settanta, ma anche con gli anni Novanta, «allora le emergenze di destra erano fortemente connotate in senso politico neofascista. Oggi ci sta un’offensiva di destra di segno diverso, fatto di populismo xenofobo, identitario, di forte egoismo sociale ecc. Non fascista». Il resto è contorno. Violenza ingiustificata coperta da qualcosa che viene chiamata politica. «Restano gruppi minoritari, legati a questi stili e a queste pratiche violente che si manifestano a macchia di leopardo. L’episodio della puncicata che è chiaramente preordinata nell’anniversario della morte di Renato, è l’esempio di questa pochezza politica. Perché l’agguato nel giorno dell’anniversario della morte di Renato Biagetti non fa altro che rimarcare la natura fascista dell’agguato di Focene. Una cosa autolesionista dal punto di vista politico».
Il «trascinamento residuale di questa archeologia» ha per adesso un solo luogo di resistenza da anni noto: le curve degli stadi.

l’Unità 1.9.08
Livia Turco «Il Pd deve rilanciare la bandiera del voto agli immigrati»

«Bisogna rilanciare la bandiera del voto agli immigrati, perché il Pd l’ha ammainata». Lo ha dichiarato Livia Turco, partecipando ieri ad un dibattito alla Festa Democratica nazionale di Firenze.
Dibattito, in cui la deputata Pd ha proposto una legge di iniziativa popolare per il diritto di voto agli immigrati: «In Italia monta un clima di intolleranza verso l'immigrazione - ha detto - occorre dire basta e credo che un modo per farlo sia il diritto di voto agli immigrati. Proporrò al mio partito di fare una proposta di legge di iniziativa popolare, e quindi raccogliere 500mila firme attorno ad una proposta su diritti e doveri degli immigrati che pagano le tasse, rispettano le regole, e quindi è giusto che partecipino alla vita pubblica delle città».
La Turco è intervenuta anche sul tema del bullismo crescente nel nostro Paese. Per l’ex ministra una soluzione per mettere fine a tali episodi è proporre ai ragazzi sei mesi di servizio civile obbligatorio, sarebbe un modo per far conoscere loro il Paese in cui vivono e la realtà che li circonda.

l’Unità 1.9.08
Spagna, benvenuti nel paesino dove tutti si «sbattezzano»

Julia è stata battezzata due volte negli anni Trenta, la seconda volta dopo la Guerra Civile, in un orfanatrofio, la madrina era la moglie del generale Franco, Carmen Polo. È stato difficile riunire tutti i documenti ma ce l’ha fatta: il suo nome non figura più nelle liste della Chiesa spagnola.
A Rivas, comune amministrato da Izquierda Unida, l’Ufficio per la Difesa dei Diritti e delle Libertà è stato inaugurato a marzo scorso. Prima dell’estate si erano già registrate più di 300 richieste di apostasia, 2.500 consulenze telefoniche sul funzionamento del servizio di eliminazione delle generalità dei cittadini dalle liste della Curia. «Un vero e proprio boom, aiutato dal fatto che il Comune finanzia tutte le spese di invio degli atti», spiega Luis Miguel Sanguino, avvocato dell’ufficio. In Spagna, nel 2006 erano state emesse solo 47 richieste di apostasia, nel 2007 il numero si è moltiplicato per sei: 287. Nei primi sette mesi del 2008 sono già state presentate più di 2.000 domande. Quasi tutte verranno accettate dalla Chiesa perché garantite da due articoli della costituzione, da una promessa di disegno di legge del Governo e dall’azione militante dell’Agenzia per la Protezione dei Dati, che ha stabilito che i database della Chiesa sono uguali a quelli di qualsiasi altra agenzia di comunicazione o impresa. «Le richieste di apostasia vanno inviate direttamente al vescovo della città in cui si è registrato il battesimo», continua Sanguino. «A volte vengono accolte subito, soprattutto nelle città piccole, altre volte richiedono una negoziazione con la Curia o un appello all’Audiencia Nacional».
Maximiliano Peñuelas, 55 anni, residente a Madrid da più di 40, ha avuto la fortuna di ricevere il battesimo a Jaén, in Andalusia. La sua richiesta è stata accettata in tempi abbastanza brevi: cinque mesi. In agosto del 2005 Maximiliano aveva ricevuto l’e-mail di un amico che gli segnalava la possibilità di appellarsi all’articolo 16 della costituzione (Libertà Religiosa) e all’articolo 18 (Protezione dei Dati Personali) per sollecitare il riconoscimento della sua condizione di non credente. Ha subito scritto alla Curia di Jaén per richiedere l’invio del certificato di battesimo, ha mandato la richiesta di cancellazione al vescovo della città il quale gli ha risposto chiedendo anche la fotocopia della sua carta di identità e l’originale del suo certificato di nascita. Detto fatto. Il vescovo gli ha allora scritto una seconda lettera invitandolo a un incontro per verificare la sua convinzione nel ripudio del cattolicesimo. «È cosciente di quel che comporta la sua decisione, pecorella smarrita?», scriveva il vescovo. «Gli ho risposto di mio pugno con una lettera lunghissima», racconta Maximiliano. La sua domanda è stata accolta, costo totale dell’operazione 30 euro tra buste, francobolli, raccomandate.
Secondo l’ultimo barometro pubblicato dal Centro di Indagini Sociologiche (CIS), il 20,1% della popolazione spagnola si professa ateo o non credente. Il laicismo militante è un fenomeno in costante aumento. Sul web si moltiplicano i siti che promuovono l’apostasia. E le associazioni di atei e «libero-pensanti» non smettono di organizzare conferenze e manifestazioni per sensibilizzare i cittadini sul diritto al ripudio di una Chiesa alla quale sono stati iscritti senza esserne consapevoli. La «deriva laica» spagnola della quale tanto si è parlato in Italia ha anche un volto politico: la vicepresidente del Consiglio, Maria Teresa Fernández de la Vega, ex magistrato e attuale braccio destro di Zapatero. Ma è dal partito che governa a Rivas, Izquierda Unida, che arrivano tutte le pressioni per una rapida ed efficacie modifica della legge sulla Libertà Religiosa.
Dice Pepe Morales, portavoce di IU nel Congresso dei Deputati: «Bisogna cambiare il concordato con il Vaticano del 1978, è stato firmato prima della costituzione, ciò che prevede è illegale. So che sarà molto difficile ma abbiamo il diritto di pretendere che la Chiesa Cattolica non intervenga nel processo politico e che non riceva finanziamenti pubblici», dice. Il Psoe nel suo ultimo congresso ha indicato la sua linea in materia: diritto all’apostasia espressamente garantito per legge.

l’Unità 1.9.08
«In un mese e mezzo ho ottenuto la cancellazione del mio nome dal registro dei battezzati»
«Anche in Italia si può, ecco come»
di Maristella Iervasi

Il sacramento l’ha ricevuto da piccola, per volontà dei genitori. Ma oggi, a 40 anni, Giorgia N., impiegata a Milano, ha fatto cancellare il suo nome dal registro dei battezzati. «Non sono stata più praticante dall’adolescenza - racconta -. La spinta è stata un desiderio di coerenza. Mi considero atea e ho voluto che questa mia persuasione personale venisse riflessa nella rappresentatività che la Chiesa ha nel paese, vista l’ingerenza su tutto: dalla legge sulla fecondazione alle elezioni politiche».
Come è maturata questa scelta?
«Ho studiato nelle scuole cattoliche ma nessuna imposizione ho avuto dai miei genitori: fare la comunione e la cresima erano sacramenti erano tappe normalissime».
E dopo, cos’è accaduto?
«L’ateismo non è un risveglio. Crescendo, ho scelto per evoluzione intellettuale e mentale».
Come ha scoperto di “chiamarsi fuori”, l’apostasia?
«Ne avevo sentito genericamente parlare, ma non mi sono impegnata più di tanto: certo, ho frugato su Internet. Poi un giorno a pranzo con amici di amici ho conosciuto un avvocato che a sua volta l’aveva fatto. E allora mi son detta: “si può fare!”. Ed è andata: sono sbattezzata da un anno».
Una trafila lunga e burocratica?
«Per nulla. Personalmente nel giro di un mese e mezzo ho ottenuto la cancellazione del mio nome dal registro dei battezzati. E pensare che ho pure sbagliato parrocchia...».
Cioè?
«Per sbattezzarsi occorrono due raccomandate con ricevuta di ritorno indirizzate una alla diocesi di appartenenza e l’altra al parroco della chiesa dove si è ricevuto il sacramento. In base al modello fac-simile di domanda che mi inviò via e-mail il mio amico avvocato, ho presentato la mia istanza ai sensi dell’art-13 della legge n.675 del 1996».
Quale fu la motivazione?
«Recito testuale l’istanza inviata al responsabile del registro parrocchiale: Desidero venga rettificato il dato in suo possesso tramite annotazione sul registro dei battezzati, riconoscendo la mia inequivocabile volontà di non essere più considerata aderente alla confessione religiosa denominata Chiesa cattolica apostolica romana».
E quale fu la risposta?
«La curia di Milano mi rispose in tempi brevi scrivendomi: “Pur con certo rammarico desidero esprimere sentimenti di stima per questa sua scelta come segno di ricerca della verità a cui tutti siamo chiamati”. Sotto, però, si spiegava il mio errore: il mio nome non compariva nel registro di quella parrocchia».
Dunque, ha dovuto rifare tutto daccapo?
«Esattamente, ma è stato ugualmente rapido. Ho spedito la nuova istanza l’8 ottobre e prima di metà novembre ho ricevuto il responso: “Gentile signora, il suo desiderio è stato esaudito”. Sotto, una nota in 6 punti con le conseguenze di ordine giuridico. Cito solo l’ultima: “scomunica latae sententiae”».
Nella sua decisione ha pesato anche l’ingerenza della Chiesa sulle leggi del Parlamento e la vita politica. Ha cercato anche di fare proseliti?
«I miei amici mi hanno solo detto che ho avuto una bella idea».
Ha bambini?
«Si, un bimbo piccolo».
L’ha battezzato?
«Ovviamente no».

l’Unità 1.9.08
Un’Alba per il nuovo cinema italiano
di Gabriella Gallozzi

PERSONAGGI Alba Rohrwacher interpreta la sofferenza di Giovanna nel film di Avati. Ha fatto teatro, i registi riconoscono il suo talento, lei osserva: «Oggi si fa un uso strumentale del disagio, ma c’è, è profondo e non lo si vuole veder

Quel cognome così difficile da pronunciare, Rohrwacher, le viene da un papà tedesco apicoltore che, insieme a sua mamma insegnante, ha scelto di vivere nella campagna umbra. Forse anche la riservatezza, quel suo essere così gentilmente «appartata» le deriva proprio da questa infanzia «contadina», dalla quale è scivolata via quando ha scelto di fare l’attrice. È lei Giovanna, la «figlia» del film di Pupi Avati che ieri ha impegnato le cronache del festival, secondo italiano del concorso: Alba Rohrwacher, 29 anni, già nota come uno dei volti più interessanti e apprezzati del nostro cinema. Dopo piccole parti con registi noti (Mazzacurati, Guadagnino, Del Monte, Luchetti) l’exploit arriva con Giorni e nuvole di Soldini che le frutta un David di Donatello per il ruolo di figlia della coppia Buy-Albanese. Mentre da «segretaria» di Nanni Moretti in Caos calmo viene «notata» dalla grande platea. Risultato: un Ciak d’oro come rivelazione del 2008. E quindi copertine di magazine, interviste a dire soprattutto di questa sua bellezza così particolare: esile, elegante, un po’ alla Tilda Swinton di cui, effettivamente, vestirà i panni di figlia - ancora una volta - nel nuovo film di Luca Guadagnino, Io sono l’amore, storia di una grande passione.
Qui, invece, nel film di Avati sua madre è una bellissima Francesca Neri, alla quale Giovanna non assomiglia. Anzi, è stato fatto di tutto per imbruttirla, per darle quel carattere di ragazzina tormentata che arriverà persino ad uccidere...
«Alla base del disagio esistenziale di Giovanna c’è proprio il confronto con la bellezza di sua madre. Devo dire che Francesca è stata struggente nel dare carattere a questa donna che, apparentemente terribile, è in realtà incapace di esprimere tutto l’amore che prova per questa figlia così difficile».
Ma anche la tua interpretazione di Giovanna è struggente... Dare corpo al disagio mentale non deve essere stato facile.
«Sono stata molto sostenuta e protetta da Avati. Le riprese nel vecchio manicomio di Maggiano sono state davvero forti: sembrava che le mura emanassero tutta la sofferenza che è stata vissuta in quei luoghi. Del resto Giovanna impazzisce proprio quando la rinchiudono in manicomio, a contatto con quell’orrore. Come ho letto nel libro di Tobino, Libere donne di Magliano, i manicomi criminali erano veri luoghi di detenzione. Spesso le donne venivano buttate lì quando si ritenevano "scomode": mogli che tradivano i mariti, ragazze dai comportamenti non "adatti" per l’epoca. Ogni "diversità" ritenuta ingestibile finiva tra quelle mure. E lì accadeva di tutto, abusi sessuali, violenze, botte».
Oggi si parla tanto di disagio giovanile: come ti sembra che venga «gestito»?
«Per fortuna i manicomi non ci sono più. Però troppo spesso si fa un uso strumentale del disagio per sostenere il solito tema della sicurezza. Oppure si tende a nasconderlo. Vai a vedere poi quanta gente è depressa, sta male... Le ragazzine devono per forza seguire i canoni ufficiali, rincorrere il mito del successo. E il disagio è profondo, non solo tra i giovani, ma resta nascosto, non si vuole vedere».
A proposito di successo, si può dire che il tuo è arrivato....
«Non ho mai pensato di fare l’attrice aspettando il successo. A me interessa il mio lavoro. E sono stata fortunata perché ho fatto film interessanti. Aver raggiunto la notorietà mi permette di poter scegliere, questo sì. Ma quello che conta per me è dar voce a storie che valga la pena essere raccontate. Oggi il nostro cinema italiano sta davvero tornando a raccontare la realtà. Gomorra, Cover Boy e poi tanti documentari. Ne ho visto di intessantissimi in veste di giurata all’ultimo festival di Bellaria».
Prima del cinema hai cominciato col teatro. E come te c’è una nuova generazione di attrici, dalla Solarino di «Signorina F» alla Ragonese di «Tutta la vita davanti», che vengono da lì e sono «emerse» con film dai temi sociali forti. Finalmente stanno cambiando anche un po’ i canoni estetici richiesti per le attrici, non solo bellone con le labbra siliconate?
«È vero c’è una straordinaria generazione di nuovi attori. Quanto alla bellezza ho sempre pensato che sia piuttosto in uno sguardo, nel modo di muoversi, nell’interiorità. I miei modelli sono Bette Davis, Hanna Schygulla, Meryl Streep, la Magnani. Ma anche Isabelle Huppert, Monica Vitti, Valeria Golino e pure Francesca Neri».
Insomma, tanto teatro, il cinema, ti interessi al sociale. Si può dire un’attrice intellettuale?
«Mi sembra un complimento».
A tanti oggi appare un insulto...
«Per me rimane un complimento».

Repubblica 1.9.08
E Picasso rifece Las Meninas

A Barcellona le opere del maestro spagnolo e degli artisti che nel tempo si sono ispirati al suo capolavoro
Nell´Ottocento il mito della Spagna era vivissimo in Francia da Manet a Gautier e Bizet
Sono ben 44 le tele che l´autore di "Guernica" dedicò al capolavoro che oggi è al Prado
I sovrani giungono inattesi nell´atelier del pittore in abito nero con croce rossa sorprendendo tutti

BARCELLONA. Las Meninas, titolo attribuito alla grande tela di Diego Velázquez solo nel secolo decimonono, fu dipinta intorno al 1656 e fu un gesto d´ardimento senza pari: infatti il pittore pone sulla sinistra della composizione il suo ritratto a figura intera in grande evidenza nell´atto di dipingere, disponendo i ritratti di Filippo IV e della regina Mariana riflessi nello specchio che si scorge sul fondo della tela. I sovrani giungono inattesi nell´atelier sorprendendo tutti. L´eccezionalità della composizione, alta oltre 3 metri, è anche nella compresenza nel dipinto del pittore con i suoi sovrani. Evento unico al quel tempo, che si sappia. Velázquez, in abito nero con croce rossa sul petto, ponendo in atto una strategia sociale per la promozione delle arti liberali, sembra così voler sollecitare il titolo nobiliare di cavaliere che non era concesso ai pittori, ma solo agli aristocratici di sangue. Nel 1650 il pittore aveva posto la sua candidatura che gli fu concessa due anni dopo aver dipinto Las Meninas quando fu nominato cavaliere dell´Ordine militare di Santiago, tra i più prestigiosi di Spagna. Quella di Velázquez fu dunque un´ingegnosa sollecitazione in un dipinto dal significato enigmatico con al centro la piccola infanta Margarita María che volge lo sguardo, non la testa, verso i sovrani: ha accanto due damigelle d´onore, las meninas, più avanti una nana di casa a corte e un nano che molesta col piede un placido cane. Ancor più complessa e problematica la strategia degli sguardi e della conoscenza che Michel Foucault dipanò genialmente. Ma gli fu rimproverato di identificare la posizione dell´osservatore con quella dei sovrani mentre la loro immagine è il riflesso del ritratto che Velázquez sta dipingendo: distolto dall´arrivo dei sovrani il pittore ferma il suo pennello appena sollevato dalla tavolozza e guarda verso loro. Piuttosto lo sguardo dell´osservatore a me sembra coincida con quello del maestro di camera José Nieto che compare controluce nel riquadro della porta sul fondo. Infatti il cerimoniale di corte esige che sia lui ad aprire le porte quando i sovrani incedono negli appartamenti.
Dalla metà del Seicento dunque questa icona della pittura di ogni tempo è divenuto un enigma e un´ossessione per pittori di ogni civiltà e un rompicapo per la critica da Antonio Palomino a Carl Justi che nel 1888 pubblicò l´insuperata monografia sul maggiore pittore di Spagna. Attendo che Ezio Raimondi pubblichi il saggio promesso sul grande storico tedesco.
Poteva Pablo Picasso non misurarsi con questo ideale sodale, con questo hermano in spirito? Lo fece il pittore malaghegno dedicando molti dipinti alla pittura di Velázquez a cominciare dalla giovinezza, quando Pablo Ruiz giunto all´Accademia di San Fernando, si dispose a copiare le opere eccelse del maestro che sono al Prado. Concluse questo corpo a corpo molti anni dopo con 44 tele realizzate tra l´agosto e il dicembre del 1957 nel suo atelier di Cannes. Rese questo omaggio a Las Meninas a suo modo, «a su manera», Olvidando a Velázquez che è poi il titolo della mostra che il Museo Picasso (fino al 28 settembre) dedica al tema. Infatti il museo barcellonese ebbe in dono nel 1968 dal maestro 58 tele comprese la serie completa di cui s´è detto.
La mostra curata da Gertje R. Utley e Malén Guala s´apre con due sale nelle quali, acconto a celebri opere di Diego provenienti dal Prado, dal Metropolitan di New York e dal Kunsthistorisches di Vienna, figurano opere - da Juan Martinez del Mazo a Juan Carreño de Miranda - che sono testimonianza dell´influenza potente esercitata nella pittura spagnola dal grande sivigliano. Martinez del Mazo era il genero di Velázquez e l´assonanza con lui è intensamente vissuta. I ritratti dell´infanta Maria Teresa, di Marianna d´Austria, dell´infanta Margarita María di Velázquez si riflettono nei ritratti delle medesime dipinte dal genero e da Carreño.
La grande fiamma che è la pittura di Velázquez proietta la sua luce non solo nella pittura del Siglo de Oro ma fino a Goya che esplicita senza esitazione il debito contratto con il sivigliano.
Il grande aragonese giunto a Madrid nel 1775 incominciò la sua pratica di incisore traducendo in rame proprio Las Meninas e altre opere del maestro nel corso degli anni.
Ma a partire dall´Ottocento la pittura di Velázquez e la Spagna stessa diviene un´isola del desiderio da svelare alla pittura europea, in particolare francese: in cima a tutti le tele di Edouard Manet e di Eugéne Delacroix, il poema España di Theophile Gautier, la Carmen di Bizet che istituzionalizzano con le loro opere il mito della Spagna, ne segnano l´ingresso nella modernità e aprono la strada a Picasso.
Pablo Ruiz, partito dal lavoro di copista, si trasforma nel tempo della piena maturità in un giocoliere che destruttura Las Maninas, con una procedura che anticipa di dieci anni l´affilata diagnosi foucoltiana: l´opera viene aggredita e fagocitata dalla bulimia di Picasso. Elementi figurativi, immagini o dettagli sono rivisitati e debbono attraversare l´alambicco della scomposizione cubista e passare nel crogiolo di Guernica. Come ben si vede nel grande olio datato 17 agosto 1957 che apre la serie degli studi: in essi l´infanta Margarita ha un posto di rilievo accanto alle meninas, fino al disfacimento dello spazio della tela in un ticchettio cromatico e geometrico.
Picasso in questo lavoro non è certo solo: gli fanno corona Salvador Dalí, Josep Maria Sert, Antonio Saura, i tedeschi Franz von Stuck e Thomas Struth, il nostro Giulio Paolini e ancora altri artisti americani o inglesi come Richard Hamilton e Witkin a cui si devono versioni pop. È in definitiva una girandola di immagini nella quale frammenti figurativi, schegge o suggestioni oniriche ci fanno capire come Velázquez è sempre lì, capace di attrarre come una calamita pittori, fotografi, letterati e filosofi del nostro tempo come capita di rado e solo con la grande arte di ogni tempo.

domenica 31 agosto 2008

l’Unità 31.8.08
Proviamo a metterci nei panni dei matti
di Concita De Gregorio


TORNA in libreria Pecora nera di Ascanio Celestini, cantastorie di chi non ha mai voce in capitolo. Si tratta di un libro e di uno spettacolo teatrale sul tema degli ospedali psichiatrici raccontato in prima persona da chi il manicomio l’ha conosciuto

Il manicomio elettrico quello dove ti fanno l’elettroshock è come un condominio dice l’autore. Ci puoi capitare anche per caso
C’è la poesia di un malato che dice: «Lasciate a noi le tristezze, a noi che non vediamo il sole»
Pensiamoci un po’ su noi che vediamo il sole

«Ma esiste veramente un fuori sul quale e dal quale si possa agire prima che le istituzioni ci distruggano?» Franco Basaglia

C’è stato un tempo, mica tanto lontano, in cui c’insegnavano a scuola, e poi all’università e sui libri stampati all’estero, e poi al lavoro quando i vecchi ancora spiegavano le cose, c’è stato un tempo, che è quello della nostra giovinezza, in cui si diceva che per essere creduti, quando si racconta una storia, bisogna essere obiettivi. Che per essere ascoltati bisogna essere precisi, documentati, ordinati. Come gli inglesi, si diceva anche, e pazienza per quelli che di inglesi obiettivi non ne avevano mai conosciuto dal vivo - né letto, né visto in scena a teatro nei secoli dei secoli - neanche uno, anzi: tutti piuttosto di parte, anche bella, fantastica, indimenticabile, ma sempre parte. Pazienza anche se essere obiettivi essendo contemporaneamente persone - cioè persone in carne ed ossa, soggetti che più soggetti di così non si può - era una di quelle mete irrangiungibili, uno di quegli sforzi di astrazione che solo la filosofia teoretica può forse risolvere, ma non è sicuro, e comunque quando ti mettevi lì a raccontare una storia tutto concentrato (sono obiettivo, devo essere obiettivo) ecco che ti veniva sempre in mente un proverbio di tua nonna, un colore che ti ricordava casa, l’odore di lacca dei capelli di tua madre, tutte mosche da ammazzare con la mano perché invece niente nonna né casa né lacca, bisogna far finta di non essere nessuno per essere tutti, dimenticare, scarnificare, andare all’essenziale, e hai voglia a provarci! provateci voi, anche solo per cinque minuti, a dimenticarvi chi siete.
Poi è venuto un altro tempo, questo, in cui tutte le tabelle, le statistiche, i numeri e i «dati neutrali» del mondo sono qui, disponibili sul tuo computer basta fare clic. Non c’è più niente da immaginare, c’è solo da vedere: quattro milioni di morti nell’ultimo terremoto? Ecco la scena vista dall’alto, clic, ecco il primo piano di una bambina superstite, clic, ecco i soccorritori sporchi di fango, clic. Anche se non hai il computer, basta solo la tv: quattro milioni di morti, dice la voce, poi passa alla notizia successiva: erano quattrocento gli invitati al matrimonio della principessa, segue filmato. Quattro milioni però bisognerebbe contarli: uno due tre quattro fino a quattro milioni, che ci vorrà di certo più di un’ora e non lo fa nessuno, è ovvio, però invece bisognerebbe pensare, contando ogni numero, che quella è una persona, potrebbe essere tuo figlio, tua moglie, potresti essere tu quattro milioni di volte. È venuto un tempo, questo, in cui sono talmente tante le «verità obiettive» che nessuna ha più senso né importanza, nessuna è più capace di fermare il flusso e l’attenzione e l’indignazione e la pietà. Sono troppe, tante: sono tutte e tutte uguali. Sono vicinissime e remote, sono qui ma non sono tue, sono inutili. Servono solo a chiudersi, al massimo a pensare speriamo che non succeda a me, anche oggi non è successo a me, vestiamoci e usciamo.
È venuto il tempo di Ascanio Celestini, finalmente, e di quelli come lui che non ti dicono «adesso ti racconto come stanno le cose» e si mettono a «dare informazioni obiettive» ma ti portano nelle cose: ti ci portano per mano, ti accompagnano facendo una strada che è la loro strada, i vicoli, le salite, le scorciatoie, le soste che hanno deciso loro, però almeno è una strada di senso. È una strada come quella che se avessi avuto la forza, il coraggio, la voglia di metterti in cammino avresti potuto fare tu. Magari non è la stessa, magari tu saresti andato a destra invece che a sinistra e avresti visto un piede invece che una mano, ma anche tu, alla fine, avresti dovuto procedere così: a tentoni, passo dopo passo, stupito, spaventato, pieno di meraviglia, incerto. Ti fidi? Fidati. Vieni con me. Andiamo a vedere dove si arriva passando da qui. Chi si incontra, cosa si vede, che si sente. Ecco, un cammino.
Per magia, per incanto, per magnifico sollievo la fine dell’obiettività riempie di senso il racconto. Fa vivere storie lontanissime e remote. Dà voce a chi sta rintanato in un angolo e da quell’angolo dice «attenti, lì si inciampa». Non lo vedi, lo senti e capisci che sei nella storia. Sei anche tu un viandante, stai sulle spalle di quello che cammina. Porti la tua telecamera segreta attaccata al petto: filma quello che c’è, non sai cosa sta per filmare, non lo sai prima. Sei tu che segui, aspettandolo, quello che sta per succedere che è successo già. Lo aspetti per scoprirlo, non per averne notizia. Lo aspetti per sapere come va questo pezzo di vita.
Il manicomio elettrico, quello dove ti fanno l’elettrochoc, è come un condominio dice Celestini. Ci puoi capitare anche per caso o per sbaglio, tipo Nicola, ma poi cos’è uno sbaglio? Quando è andata così, la tua vita, è semplicemente quella e nessuno fa rewind come nei film in cassetta. Non c’è proprio bisogno di mettersi lì a dire quanti sono i manicomi, quanti erano e com’erano, quanta gente c’è dentro e con che disturbi in che percentuale, a dare numeri e fare grafici da proiettare ai convegni. No, no, quello non serve a niente, non è la storia di nessuno, non interessa nessuno se non chi ci lavora: i professori, forse, le famiglie dei malati, chissà. Invece Nicola è un ragazzino qualsiasi, potevi essere tu. È andata così. La mamma stava male, i fratelli erano grandi assenti altrove, la nonna regalava le uova alle maestre. Eri pazzo? Non eri pazzo. I pazzi del manicomio erano pazzi? Chi lo sa, forse al principio non lo erano nemmeno loro, forse ciascuno – diversamente, certo – forse ciascuno è stato Nicola. Al ‘condominio’ quando muoiono i santi, che sono quelli che ci abitano, gli aprono la testa e gli affettano il cervello per vedere cosa ci avevano dentro. Gli hanno dato talmente tanta corrente elettrica quando erano vivi che da morti continuano a fare luce. Se ti affacci alla finestra li vedi: sono le lucciole. Se vivi nel condomino e un giorno la suora ti porta al supermercato vedi che è tutto uguale anche lì, manicomio, supermarket e regno dei cieli funzionano uguale, è la stessa azienda. Marinella la bambina bellissima è diventata commessa ed è in prigione anche lei: ti ricordi Marinella quella volta da piccoli in sacrestia, che tu mi dicesti che avevi mangiato un ragnoma non era vero e allora io ti dissi: non è vero mangiane uno davvero? Tu ne mangiasti uno, Marinella, era schifoso e peloso, lo mangiasti guardandomi fisso negli occhi poi mi dicesti, seria di colpo e con gli occhi cattivi: «Io ti avrei anche amato per sempre ma tu mi dovevi credere. Ora non lo so più se ti amo». Ora non lo so più, dopo tutto questo, dopo la vita che è stata, non lo sappiamo più cosa sarebbe successo se avessimo avuto un altro destino – un’altra madre, un’altra nonna, un altro posto dove vivere, un’altra serata diversa da quella, quella notte nei boschi - ed è vero che la malattia dei bambini, mica solo dei bambini, è la paura del buio. «Si può morire di paura del buio e io ora ho capito perché non guarisco». Non si guarisce dalla paura per un motivo semplice: non è una malattia. L’elettricità cancella tutto, cancella anche quella come fanno oggi certe nuove gocce, certi farmaci: cancella ogni cosa non senti più niente, se ne va il piacere col dolore, te ne vai tu. C’è la voce di un paziente vero, di un uomo internato in un manicomio, nello spettacolo a teatro di Celestini: una voce fuori campo che legge «una poesia breve». S’intitola Come è possibile?, dice così. «Come è possibile camminare sui prati verdi e avere l’animo triste? Essere immersi nel caldo del sole mentre tutto intorno sorride e avere l’angoscia nel cuore? Lasciate a noi le nostre tristezze. A noi che non possiamo andare nei prati e non vediamo mai il sole». Così ci si può rimettere il cappotto la sera, uscire dal teatro e pensarci un po’ su. A noi che vediamo il sole, a quelli che non lo vedono, alle nostre tristezze e alle loro. Accostare le immagini, chiedersi come è possibile. Provare a mettersi nei panni di un altro, poi tornare nei propri e andare a casa.

l’Unità 31.8.08
«Il ritorno del maestro unico? Per i bambini è una sconfitta»
di Maristella Iervasi


«Come farò a gestire da solo una classe di 25 studenti? Andranno alle
medie che sapranno appena leggere e contare»
«Come farò a tener fermo Pallino, evitare che Caio picchi Talaltro e accudire il bambino diversamente abile?»

I suoi bambini sono ancora in vacanza. Ma è come se fossero già lì: li «sente» correre per le scale, buttare a terra zaini e giubbini, tirarsi le palle di pane a mensa, li vede pigiarsi il naso e girare un dito nell’orecchio per inghiottire gli spaghetti schizzando sugo sull’intera tavolata. Sorride il maestro Nicola Perfetto, 57 anni, ma lo sguardo non si stacca dal muro. C’è Pietro che cammina su due mani, il giandarme Gianmarco che tiene sottobraccio un burattino nella piazza del mercato. Il grillo che «sputa» saggezza e Martina con una telecamera in mano che «inghiotte» tutto. L’hanno intitolato Il Pinocchio della Garbatella: una riscrittura di Collodi, con tanto di girato e montaggio in Vhs. Il film dei bambini dell’elementare «Alonzi» di Roma: a turno registi, attori e tecnici del suono, coadiuvati dagli insegnanti delle due terze, in primis Andrea Pioppi.
E il maestro Nicola si commuove: «Tutto questo non sarà più possibile. Tutti gli approfondimenti letterari o storici-scientifici sui dinosauri, il ciclo della vita, l’acqua, le gite culturali con sempre gli studenti protagonisti, andranno a farsi benedire. I bambini andranno alle medie che sapranno appena leggere, scrivere e contare. Con un bagaglio nozionistico da far paura e senza più scambi con le classi parallele. E il trauma del passaggio alla scuola “dei grandi” sarà sempre di più una voragine».
Fine della maestra-mamma e del maestro «vice zio». Stop alla compresenza in classe. Si torna al passato, al maestro unico. All’insegnante generalista con la penna rossa, che sa poco di tutto.
Nicola Perfetto si siede in cattedra. E si proietta nel futuro. «Buongiorno bambini, sono il vostro maestro e staremo insieme per 5 anni». Scuote la testa, il maestro di matematica, geografia e scienze della Alonzi: «No, no... come lo spiegherò ai bambini? Speriamo che le famiglie ci aiutino». Per quest’anno le elementari - come le medie - riaprono con i voti. La pesante «cura dimagrante» alla scuola, con il «massacro» degli insegnanti voluta dal duetto Gelmini-Tremonti - 90 mila insegnanti e 43mila bidelli e segretari in meno entro il 2012 - debutterà invece successivamente. Ma è bene prepararsi per tempo. Perchè le conseguenze saranno a catena, per i docenti, i bambini e le stesse famiglie.
Scomparirà inevitabilmente il tempo pieno: una «parolina», questa, che la ministra dell’Istruzione si guarda bene dal pronunciare per non finire nel «tritacarne», come accadde a Letizia Moratti. Un addio si prefigura anche per le mense scolastiche e forse per tappare i disagi dei genitori che lavorano, spunteranno i doposcuola-parcheggio: tenuti magari da personale non statale, a collaborazione. Mentre al docente di ruolo in eccesso rimasto senza classe per la scelta del maestro unico non resta che sperare in un posto di supplente. È questo il futuro disegnato per la scuola dal Berlusconi IV. È questa l’istruzione per le nuove generazioni.
Sulla sedia dell’ultimo banco della 3 B, ora ribattezzata IV F - per continuità con la vicina elementare «Cesare Battisti», nota nel quartiere come la scuola de I Cesaroni -, c’è un grembiule bianco con in tasca pezzetti di foglio di quaderno. Il maestro Nicola si avvicina e ricompone il puzzle: una numerazione, la tabellina dell’otto. Una delle più difficili per i bambini da mandare a memoria. Sorride il maestro e ricorda: «La gara sulle tabelline è una costante. Un’interrogazione a mo’ di gioco». Ma mentre racconta degli aneddoti si fa subito serio: «Come farò a gestire da solo una classe di 25 studenti per 20 ore alla settimane? Come farò a tenere fermo nel banco Pallino, evitare che Caio picchi Talaltro e accudire nel frattempo il bambino diversamente abile che ha finito le ore con l’insegnante di sostegno? Come farò ad aiutare i bambini che restano indietro, che hanno difficoltà con la lingua perchè stranieri o a rispiegare con pazienza le divisioni a due cifre a chi arriva da un’altra scuola con problemi comportamentali e rifiuto dei nuovi compagni?. Quest’anno tutto questo è accaduto - sottolinea Nicola Perfetto - e con Simona, l’altra insegnante prevalente, siamo stati un po’ anche genitori, psicologi e dottori. Ma un domani? Come potrò lavorare bene da solo con il gruppo classe? Altro che maestro unico come esigenza pedogogica! È una vera debacle, la sconfitta del sapere per il bambino-studente».

Corriere della Sera 31.8.08
Salwa al-Neimi rivendica l'appartenenza a una tradizione che ha sempre esaltato il sesso
E la giovane araba scopre l'eros
Vietato in quasi tutto il mondo islamico, «La prova del miele» è già un caso
di Cecilia Zecchinelli


PARIGI — «Come posso gridare al mondo la mia passione per Georges Bataille, Henry Miller, il marchese de Sade, Casanova e il Kama Sutra e non nominare nemmeno Al Suyuti e Al Nafzawi?», si chiede la narratrice senza nome e senza pudori in La prova del miele (tradotto da Francesca Prevedello per Feltrinelli). «Perché tanta sorpresa in Occidente per un libro erotico in arabo, se non per il solito falso cliché che ci vede tutti nemici del sesso, le nostre donne vittime e oppresse? », ci chiede Salwa al-Neimi, autrice dell'opera diventata ormai caso letterario e campione di vendite (anche) nel mondo arabo. Nel cortile del prestigioso Institut du Monde Arabe di Parigi, dove lavora da anni dopo un passato da giornalista letteraria, Salwa ci parla di Al Suyuti e Al Nafzawi, di Al Tigani e Unsi Al Hajj. Ovvero dei grandi autori classici che secoli fa all'eros dedicarono studi e trattati, ne derivarono gloria e ammirazione. E molti di loro, ricorda, erano sheikh religiosi, credenti e pii. «Perché nel mondo arabo-islamico il sesso non è mai stato peccato, anzi il nostro è l'unico popolo, io credo, per cui l'eros è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio». Al punto che «tra gli effetti positivi del coito, dicevano i classici, c'è l'anticipazione del paradiso».
È tutta nel solco della (ri)scoperta dell'eredità erotica araba la prima opera in prosa («non è un romanzo, piuttosto un testo libero») della Neimi. Una sorta di diario- confessione di una giovane araba («non ha problemi di identità anche se vive in Francia, è libera») che nel sesso scopre davvero il suo paradiso. Leggiamo dal libro: «A importarmi è solo il desiderio, il mio prezioso desiderio». «Non ho altri modelli che me stessa. Non sono in cerca di una fatwa che mi dia il permesso di concedermi ai miei uomini». E ancora: «Chi desidera il mio corpo mi ama, chi ama il mio corpo mi desidera. È il solo amore che conosco, il resto è letteratura ». «Se il mistico Al Juneid scriveva "Ho fame di coito come ho fame di cibo", io dico "Ho sete di acqua, di sperma, e parole"».
Nelle centodue pagine della Prova del miele avvenimenti ce ne sono ben pochi: aneddoti, citazioni e molte riflessioni piuttosto, divisi in capitoletti dedicati come nei testi antichi ciascuno a un tema (l'hammam, la dissimulazione) o a una storia intrecciata a quella della protagonista (la massaggiatrice, il sesso arabo nella City). Ma nemmeno i personaggi (gli «amanti» dai nomi un po' pretenziosi, come il Viaggiatore o il Lontano) hanno personalità delineate e chiare. Ad eccezione del più desiderato e forse perfino amato, il Pensatore, che risveglia nella narratrice la vera passione (il miele), e con lei condivide l'amore, ancora una volta, per i classici e per la lingua araba. «Più di qualsiasi altra la lingua del sesso », che anche in traduzione a volte resiste. Come nella discussione tra lei e il Pensatore su che termine in arabo classico sia più adatto per descrivere la sodomia femminile (la narratrice finirà per inventarlo).
Non che sia tutto così facile, in realtà. La visione dell'Occidente di un mondo islamico sessuofobo oggi è più vera che in passato; moltissimi arabi non conoscono e nemmeno immaginano quei famosi trattati d'amore carnale compilati per giunta da uomini di fede; l'idea che una donna possa scriver di sesso per molti è uno scandalo. E La prova del miele, uscito a Beirut nel gennaio 2007 con la scritta «vietato ai minori» (e lì apprezzato perfino da Al Akhabr, quotidiano del Hezbollah) è stato infatti proibito quasi ovunque nel mondo arabo, esclusi solo il Maghreb e Dubai. «Perfino in Egitto e nella laica Siria, la mia patria, il libro è bandito, anche se per strada lo vendono di nascosto e con Internet arriva ovunque. E ho ricevuto minacce, insulti», dice la Neimi. Censura e attacchi, uniti all'etichetta «il primo libro erotico scritto in arabo da una donna» (record controverso ma in sostanza vero) che hanno però aiutato molto il libro in Occidente. Alla Fiera di Francoforte già 17 Paesi (dal Giappone alla Turchia) lo hanno comprato, in alcuni casi con aste e prezzi assai alti. «Pensare che nei cinque libri di poesie che ho pubblicato in passato l'erotismo era altrettanto presente, ma nessuno li ha mai trovati interessanti », sospira la Neimi.
A sentire lei il successo del Miele sta quindi, soprattutto, «nella lingua facile, moderna, diretta che riesce a parlare anche ai giovani ». Vero forse per la versione originale, in arabo. Mentre è difficile credere che in Occidente non abbia pesato e non pesi quel mix di censura-erotismo-orientalismo che volutamente l'accompagna: l'edizione italiana lo presenta come «le confessioni impertinenti di una Sheherazade contemporanea », cliché che le scrittrici arabe affermate rifiutano da tempo e con forza. Ma comunque sia, ben venga il Miele di Salwa. Per sfatare qualcuno dei tanti falsi miti dell'Occidente sul mondo arabo. Per ricordare a quest'ultimo un passato più libero e in fondo più gioioso. Per chiedersi (siamo umani e curiosi) se questa non sia un'autobiografia. Domanda a cui l'autrice risponde, sorridendo: «Magari».
Il diario-confessione
Dice la protagonista: «A importarmi è solo il desiderio, il mio prezioso desiderio»

Corriere della Sera 31.8.08
Il grande austriaco
Wittgenstein e la filosofia da ripulire in tre parole
di Armando Torno


Wittgenstein non studiò i grandi pensatori del passato, pubblicò in vita soltanto il Tractatus logico- philosophicus (tutti i libri che circolano con il suo nome sono sistemati da altri) e considerava la filosofia non una scienza ma un'attività. Forse per questo fece il maestro elementare, l'architetto, ricerche aeronautiche e l'aiuto giardiniere al convento di Hütteldorf. Su di lui fioccano aneddoti; di certo egli visse tutte le libertà possibili senza curarsi delle convenzioni, sino ad abitare — dopo aver insegnato a Cambridge — in una capanna a Galway, in completa solitudine, sulla costa irlandese occidentale. Noi italiani, poi, lo amiamo in modo particolare, forse perché lo ospitammo come prigioniero nel 1918 presso Montecassino. Combatteva nell'esercito austriaco e nello zaino aveva il manoscritto del Trattato.
Ray Monk, professore a Southampton, specialista di filosofia della matematica, dedicò al pensatore una fondamentale biografia ( Il dovere del genio, tradotta da Bompiani) e ora vede la luce da Vita & Pensiero un lavoro del 2005: Leggere Wittgenstein. È uno svelto libretto che spiega con quale spirito vada affrontata l'opera di chi voleva ripulire la filosofia in tre parole, che cosa significa raffigurare il mondo, quale rivoluzione linguistica ci sia nella sua eredità e che senso ebbe la rinuncia alla purezza cristallina della logica. Intuizioni che è possibile spiegare anche a un vasto pubblico, dalle quali è nata molta parte del pensiero attuale.
RAY MONK, Leggere Wittgenstein VITA & PENSIERO PP. 110, e 12