Assalti fascisti. Violenza a sangue freddo
di Vincenzo Vasile
È un ritorno al passato. Negli anni 60 i fascisti picchiavano e nessuno li fermava
Sui giornali quest’immagine capita di vederla sempre più spesso.
C’è un ragazzo per terra, insanguinato. Vestito come nostro figlio, nostro nipote. Lo prendono alle spalle, gli gridano: «negro», o «sporca zecca», che è un insetto abbastanza schifoso, infettivo, da eliminare con il fuoco. E le feriscono, le «zecche», a volte le uccidono. Davanti ai poliziotti, quando - raramente - c’è qualche arresto, gli assalitori si giustificano dicendo di non volere uccidere, ma soltanto fare una «puncicata», una puntura, una rissa.Violenza a sangue freddo
Sempre più spesso a Roma, ma non solo. E a Roma, ma non solo, già ci sono stati diversi - troppi - funerali e anche minuscoli cortei di protesta. I bersagli e le vittime di quella che si può considerare una nuova ondata squadristica vengono chiamati, soprattutto a Roma, appunto, “zecche”. Termine del gergo giovanile che in passato era usato in tono non solamente spregiativo, se a loro stessi, alle “zecche” il soprannome piaceva, in quanto originariamente era contrapposto per sbandierare fierezza in faccia ai “pariolini”, o “parioli” (a Firenze cabinotti, o a Milano San Karlini), per dire figli di “gente bene”, fighetti con gli abiti griffati.
Ma in verità fino a qualche tempo addietro c’erano in giro anche “parioli” che vestivano quasi come le “zecche”, e viceversa. E le treccine “rasta” - persino la kefia palestinese - possono essere ritenuti bipartisan, così come i pantaloni con la vita talmente bassa da sfiorare le ginocchia.
Fatto sta che le “zecche” di Roma, (altrove truzzi, sfattoni, rastoni, metallari, punk, gabber), ma non solo a Roma, sono diventate, senza una logica, senza un apparente perché, il bersaglio di spedizioni punitive sempre più sanguinose, all'arma bianca. Non c’è un episodio delle cronache di questi ultimi anni in cui i giovani assaliti possano essere sospettati di avere condiviso con gli assalitori intenzioni, pratiche, o abitudini violente. Erano ragazzi che defluivano da un concerto, gente a passeggio per strada, inerme. Gli aggressori, invece, girano sistematicamente, programmaticamente armati. Utilizzano coltelli come usava la vecchia delinquenza, ma adesso le lame sono seghettate, e nei manici compaiono scritte runiche. Nelle vetrine degli armaioli e dei negozi di articoli sportivi si vede anche un aggeggio mostruoso e micidiale, una ruota dentata che si lancia da lontano, come in un film o un videogioco: ne sequestrano decine nelle “curve” degli stadi, e nelle sedi “ultra”.
Indagini a zero: degli aggressori si sa poco più del fatto accertato che odiano profondamente e indifferentemente poliziotti, e stranieri, e naturalmente le “zecche”.
I contrassegni che ti fanno rischiare la pelle, all’uscita da un concerto, per strada, rimangono tuttavia ancora quell’abbigliamento, quei capelli, quelle abitudini che inducono nelle squadracce il sospetto che i tuoi figli, i tuoi nipoti frequentino centri sociali, divenuti spesso nelle città gli unici punti di ritrovo abbastanza economici per i ragazzi e con qualche contenuto culturale “alternativo”, e il sospetto conseguente che, quando votano, ma non sempre votano, scelgano la sinistra.
Ai tempi nostri (per le generazioni di quelli che si sono presi il morbillo degli anni del Vietnam, e poi la varicella della stagione del ‘68, e poi la rosolia degli anni ‘70) c’era qualche differenza. Una innanzitutto, fondamentale: i poveri ragazzi che insanguinarono i nostri marciapiedi bene o male conoscevano o intuivano - a volte condividevano da un’altra parte della barricata ideologica degli anni di piombo - il perché di tanta violenza. Che adesso viene inferta a sorpresa, a sangue freddo contro gente, contro giovani inermi.
Adesso, ecco la novità, la destra giovanile colpisce, infatti, nel mucchio. C’è da chiedersi il perché di questa strategia. La nuova “fascisteria” è soltanto composta da cani sciolti? Se è così perché non sta già in galera? Se davvero si tratta di quattro banditelli di quartiere, perché non si riesce a sconfiggerli?
Eppure si tratta di una novità solo apparente. Negli anni Sessanta fecero in maniera analoga il loro violento apprendistato, i futuri terroristi e stragisti neri, i Concutelli, i Mangiameli, la Mambro e i Fioravanti. Iniziarono il loro curriculum assaltando licei “rossi” o locali in cui si proiettavano film “comunisti”, dileggiando Pasolini e i “pasolini”. L’hanno scritto nelle loro memorie, hanno affidato la loro verità a libri e "interviste" senza domande, rivendicando purezza e atteggiandosi a sfortunati “comandanti” di un esercito che non combatté mai alcuna guerra, solo orribili agguati.
Non è certamente un caso se nei siti web e nei blog della nuova destra quei personaggi, questi fantasmi del nostro passato vengano a tutt’oggi indicati come modelli e maestri, e cristallizzati come miti in un lontano passato in cui - a metà tra il galoppinaggio elettorale e le spinte eversive - non avevano ancora preso contatti o stretto legami, come poi fecero metodicamente e in competizione tra loro, con i servizi segreti.
Più che una novità, è un ritorno al passato. I ragazzi fascisti negli anni Sessanta cominciarono con lo sparacchiare bastonate nel mucchio, e nessuno li fermava: poliziotti magistrati e giornali si baloccavano con la favola degli opposti estremismi. E molti di noi possono solo ringraziare il destino di essere, all’epoca, soltanto finiti a casa ammaccati o all’ospedale, prima che i “comandanti” militari della fascisteria imbracciassero i mitra e innescassero bombe. Molti di essi frequentavano le stesse sezioni missine da cui sarebbero poi usciti alcuni attuali ministri, sottosegretari, assessori e sindaci. E molte delle loro imprese più violente negli anni Sessanta erano in sotterranea polemica con i "doppiopettisti" dell'Msi, come un ricatto. Oggi gli eredi di Concutelli e di Fioravanti, dissotterrando manganelli e coltelli dello squadrismo, lanciano forse un analogo segnale cifrato ai loro più recenti apprendisti stregoni. Certificando con la violenza la propria esistenza. E reclamando probabilmente un ruolo, dopo un’insoddisfacente gavetta di promesse e di galoppinaggio elettorale.
l'Unità 2.9.08
La scuola di Mariastella: meno lezioni per tutti
Il nuovo slogan del ministro Gelmini: semplicità, autonomia, merito. Ma intanto taglia fondi e ore
Il GELMINI-PENSIERO val bene, così pensa lei, una vera strategia mediatica. Ed ecco che la ministra all’istruzione ha deciso di affidare a Famiglia Cristiana e a Radio City le sue riflessioni in materia scolastica. Che si declinano in uno slogan. Un po’ come «Tre parole: sole, cuore amore», la Gelmini riparte da «Tre parole: semplicità, autonomia, merito». Semplicità «significa chiudere tutti i cantieri lasciati aperti negli anni scorsi, mettere a sistema tutto quanto di positivo è stato fatto dai miei predecessori, a partire da Letizia Moratti e Giuseppe Fioroni: dai nuovi cicli scolastici al recupero dei debiti formativi, alla possibilità di frequentare il biennio di obbligo scolastico anche nel sistema di istruzione e formazione professionale, così che ogni giovane e ogni famiglia possano scegliere la scuola più adatta. Ma semplicità significa anche farla finita col burocratese... Per questo ho voluto reintrodurre i voti, compreso quello in condotta, perchè la scuola deve tornare a insegnare a leggere, scrivere, far di conto e aiutare ogni giovane a diventare un buon cittadino e a rispettare l'istituzione scolastica». Per Gelmini autonomia significa invece «valorizzare la libertà di insegnamento e la specificità delle singole scuole, statali e paritarie, che sono tutte pubbliche... Non è vero, inoltre, che la qualità della scuola dipende solo dalla quantità di fondi pubblici destinati all'istruzione. La spesa dell'Italia in questo settore infatti è in linea con quella degli altri Paesi europei, ma non lo è la qualità. Il problema dunque non è quanto, ma come spendere al meglio i soldi dei contribuenti...». Merito: «Significa premiare gli insegnanti e le scuole migliori. Significa anche dare finalmente attuazione al principio costituzionale che garantisce agli studenti 'capaci e meritevoli’, ma che non possono mantenersi agli studi, le risorse necessarie per studiare. È indispensabile che la scuola sia la più formidabile leva di emancipazione e di sviluppo sociale. La meritocrazia è la più alta forma di democrazia. La speranza di modificare le cose che non vanno deve sostituirsi alla rassegnazione».
Fin qui i cosiddetti buoni propositi. Nella realtà la ministra sembra piuttosto lavorare alla destrutturazione dell’istruzione. A cominciare dalla riduzione del numero delle ore di lezione, prevista dal piano di razionalizzazione della spesa per la scuola, messo a punto dal Governo durante l'estate, che verrà presentato ai sindacati nei prossimi giorni.
Sempre a Famiglia Cristiana, il ministro ha spiegato le ore di lezione saranno ridotte «non in base a una logica di risparmio, ma di necessità perchè in questi anni, con le sperimentazioni e il prolungamento a oltranza dell'orario, abbiamo ottenuto tutt’altro che un aumento della qualità».
Il predecessore di Gelmini, Giuseppe Fioroni del Pd, tutto questo lo definisce una «strategia della distorsione che il Governo mette in atto sulla scuola». «Il problema vero - osserva Fioroni alla Festa democratica a Milano - è che Tremonti applica assieme a Bossi un federalismo sull'istruzione» che comporta «tagli per 130mila docenti e 4mila scuole». Il che vuol dire che non è garantita pari opportunità di apprendimento ai diversamente abili, ai figli degli immigrati, e alle famiglie emarginate. «Si passa ad una scuola per pochi, garantita solo a chi ha soldi e a chi è nato nel posto giusto. E questo - a sessant'anni dalla Costituzione - significa lo smantellamento dell’istruzione pubblica in Italia».
Corriere della Sera 2.9.08
Svolta alle elementari dal prossimo anno
Scuola, il maestro unico è già diventato legge
Inserito nel decreto. I sindacati: aggressione alla qualità
La novità è contenuta nel provvedimento firmato dal presidente della Repubblica
di Giulio Benedetti
ROMA — Ritorna il maestro unico. Dal prossimo anno. Ormai è certo. E sempre dal prossimo anno scatta il divieto di adottare libri «usa e getta». Finora c'era stato soltanto l'annuncio, in coda al decreto del 5 in condotta, dei voti al posto dei giudizi alle elementari e medie e del ritorno dell'educazione civica appena approvato dal governo. «Ce ne occuperemo nella Finanziaria », ha detto il ministro, dopo la riunione del governo che aveva varato i tre provvedimenti. Poi è successo qualcosa. Il testo di quel provvedimento: «Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università» è stato ritoccato in tempo record, rispetto alle versione illustrata dalla Gelmini. Ieri il presidente della Repubblica ha firmato il provvedimento. Ci sono dentro, a sorpresa, anche il maestro unico e l'adozione dei libri con cadenza quinquennale.
Il senso della modifica del decreto? Anzitutto rendere più cogente il ritorno al modello tradizionale di scuola elementare. A quel maestro unico che per secoli ha insegnato a leggere e far di conto, sostituto agli inizi degli anni '90 dal team dei maestri.
Nel comma 4 dell'articolo 64 del decreto 112, approvato nei primi giorni di agosto, si parla genericamente di riorganizzazione della scuola primaria. Un'indicazione troppo vaga, per un tema scottante che vede nella maggioranza posizioni non sempre coincidenti. Il senso dell'integrazione è fin troppo chiaro: «Classi affidate a un unico insegnante e funzionanti con orario di ventiquattro ore settimanali». Si tratta di «paletti» che non potranno essere ignorati nelle prossime trattative tra ministro e sindacati dei prof. Secondo i dati del ministero dell'Istruzione le maestre assunte a tempo indeterminato sono 238 mila. Le classi ammontano a 137 mila 598: 33 mila 224 mila sono a tempo pieno e 104 mila 374 a tempo normale. L'adozione del maestro unico è destinata a ridurre il numero delle cattedre. In che tempi? Questo dipenderà dagli accordi tra i sindacati e il governo. «Abbiamo studiato un piano di razionalizzazione della spesa — ha dichiarato il ministro al settimanale Famiglia Cristiana — che ci consentirà di agire sul numero delle ore di lezione, che verrà abbassato. Così potremo far quadrare i conti e salvare le scuole di montagna. Ma attenzione: non agiremo in base a una logica di risparmio, ma di necessità, perché in questi anni, con le sperimentazioni e il prolungamento a oltranza dell'orario, abbiamo ottenuto tutt'altro che un aumento della qualità». Anche nel caso del ritorno al maestro unico, ha aggiunto la Gelmini, si tratta di «una scelta pedagogica, perché il bambino, almeno nei primi anni della primaria, ha bisogno non di discipline specifiche, ma di un punto di riferimento».
«La scuola farà sentire la sua voce — è la risposta di Francesco Scrima, segretario confederale della Cisl scuola , il sindacato leader nella primaria —. Siamo in presenza di un'aggressione alla qualità.
Il ministro sta destrutturando per decreto la migliore scuola che noi abbiano. Vuole essere ricordata per questo? ». I prof, ecco l'altra novità inserita nel decreto, potranno adottare soltanto testi per i quali gli editori si siano impegnati a mantenere inalterato il contenuto per un quinquennio, «salvo le appendici di aggiornamento eventualmente necessarie da rendere separatamente disponibili». «L'adozione dei libri di testo — si legge nel decreto — avviene con cadenza quinquennale, a valere per il successivo quinquennio». Un aiuto alle famiglie non attraverso il contenimento del prezzo ma, indirettamente, con l'allungamento della «vita» del libro. Dopo un anno o due non sarà più carta straccia. Potrà essere passato al fratello minore o rivenduto.
La norma contro il caro-libri
Dal prossimo anno scolastico scatterà anche la norma sui libri. I prof potranno adottare solo testi per i quali gli editori si siano impegnati a mantenere inalterato il contenuto per almeno cinque anni
Repubblica 2.9.08
Scuola, le riforme della Gelmini non toccano il cuore del problema
Nessuno può insegnare con 1200 euro al mese
di Pietro Citati
La naftalina mi è sempre piaciuta moltissimo: al contrario che a Michele Serra, il quale trova un forte odore di naftalina nelle riforme scolastiche proposte dal ministro Gelmini. Ricordo la beatitudine con cui, a tarda primavera, aprivo gli armadi dove mio padre e mia madre avevano chiuso i cappotti e le pellicce invernali, e aspiravo l´odore di naftalina, che mi rammentava profumi molto più squisiti.
Michele Serra ha perfettamente ragione su un punto capitale.
Non potrà esserci nessun rinnovamento della scuola italiana, se il governo non aumenterà in modo considerevole gli stipendi dei maestri elementari e dei professori delle medie e del liceo. Non è possibile insegnare con uno stipendio di 1200 euro al mese. Con questa somma non si possono comprare libri e nemmeno giornali: né si acquistano vestiti, cappotti e golf nuovi, senza i quali nessuno avrà mai il rispetto degli alunni, visto che oggi la dignità esiste solo se è accompagnata da danari. Leopardi con il vecchissimo cappotto sfilacciato e Baudelaire con le scarpe bucate non sono eroi del nostro tempo. Come il governo trovi i soldi, non so e non mi importa di sapere. So soltanto che dal 1945, quando qualcuno tocca questo argomento, la risposta è sempre la stessa: "Non c´è danaro". Mentre il danaro c´è, sempre, per le cose più sciocche.
Una di queste cose fu, appunto, quella di moltiplicare gli insegnanti nella scuola elementare: con un costo enorme. Un maestro solo (a parte l´insegnante di lingue straniere) è del tutto sufficiente. Ricordo maestre intelligenti ed eroiche che, nei piccoli paesi, fronteggiavano nello stesso tempo tre classi, alternando italiano e aritmetica, geografia e storia. Per quanto so, la scuola elementare italiana, negli anni dal 1935 al 1970, era piuttosto buona. Sarebbe sbagliato, invece, aumentare il numero degli scolari nelle classi, in specie nelle scuole elementari e medie. Non si può insegnare l´italiano a quaranta ragazzi contemporaneamente, come facevo negli anni tra il 1954 e il 1959, quando ero professore negli avviamenti. C´è un problema: i maestri e le maestre del 2008 sono ancora capaci di insegnare cinque o sei materie?
La scuola elementare e media non ha bisogno di computer, come diceva Silvio Berlusconi anni fa. Il computer è anche troppo usato, oggi, in Italia. Col risultato che ragazzi di tredici anni lo usano meravigliosamente, come un gioco spettacolare, ma non sanno scrivere una lettera in italiano.
Credo che tra voto e giudizio scolastico non ci sia una vera differenza. Tutti i professori sanno che i voti riflettevano un discussione tra professori e preside in camera di consiglio: "tu a quello togli due materie a settembre, e a questo ne aggiungo una io". Quanto ai giudizi psicologici, la pretesa di comprendere, analizzare e giudicare un bambino o un ragazzo, è completamente insensata. Nessun professore sa chi è veramente un alunno di otto o quindici anni: non lo sanno nemmeno il padre o la madre, e nessun altro essere umano. Settantacinque anni fa, Giorgio Manganelli, il quale è stato lo scrittore italiano più intelligente dell´ultimo mezzo secolo, veniva ritenuto da tutti (presidi, maestri, professori, compagni) un idiota. Dobbiamo dare pochissimo peso ai voti e ai giudizi della scuola: sono, fatalmente, un meno peggio.
I libri scolastici sono troppi, e spesso sono cattivi. Ricordo una immensa e mostruosa antologia per i ginnasi-licei, che non spiegava i testi, ma cercava di diffondere la terminologia strutturalista ("diegesi", "attante"). Forse sarebbe necessario istituire una specie di concorso statale, con cui stabilire quali libri scolastici sono adatti, e quali no. Capisco che si tratta di una proposta pericolosa, perché non ho fiducia negli eventuali giudici.
I ragazzi non leggono, o leggono troppo poco. Spesso, i professori non sono in grado di consigliare i libri giusti. Non è possibile far leggere a un quindicenne La coscienza di Zeno (libro per lui noioso e incomprensibile), invece che I ragazzi della via Paal o Delitto e castigo, che egli amerebbe appassionatamente. Forse è ingenuo sperare in una buona lista di libri, proposta dal Ministero dell´Istruzione.
l'Unità 2.9.08
Testamento biologico: cosa vuole la destra
di Mario Riccio
L’attuale maggioranza si sta impegnando a presentare entro l’anno ed approvare rapidamente una legge sul testamento di vita. Da sottolineare innanzitutto l’importante e sospetto cambiamento di rotta: quando era all’opposizione, l’attuale maggioranza sosteneva con forza che una legge sull’argomento non era necessaria, e che non era tra le “priorità” del Paese - riprendendo quanto asserito dai vescovi. Citava lo stesso caso Welby e come le leggi vigenti lo avevano risolto a riprova che l’attuale legislazione era già sufficiente a risolvere tutti i problemi del fine vita. Così facendo già si operava una discreta confusione, dal momento che il caso Welby era uno di quelli in cui il testamento di vita era inutile, essendo Welby stato cosciente fino alla morte.
Con gli ultimi sviluppi della vicenda Englaro, invece, la loro posizione è cambiata. Ma più precisamente dai recenti pronunciamenti della Cassazione e della Corte di Appello di Milano. Questa volta le decisioni, pur in punta di diritto, non sono state ritenute corrette ed esaustive, ma addirittura avrebbero creato conflitto di competenze fra organi istituzionali.
Quale è allora la legge che l’attuale maggioranza vuole e presto riuscirà ad approvare, anche con i voti dell’opposizione di centro e di alcuni esponenti del Pd? Si può già sin d’ora prevedere che la ratio della legge sarà la stessa di quella sulla procreazione assistita. Non una legge che permetta finalmente l’utilizzo di questo importante strumento giuridico, cioè i testamenti di vita, anche nel nostro Paese. Ma una legge che di fatto ne impedisca - svuotandone i contenuti e limitandone gli effetti - il reale esercizio. I punti cardine, già anticipati da diverse dichiarazioni di politici della maggioranza, autorevoli rappresentanti del pensiero confessionale nonché i soliti atei devoti, potrebbero essere i seguenti:
· negazione del diritto - peraltro invece ribadito dalla Cassazione nel caso Englaro - al rifiuto della terapia nutrizionale e, probabilmente, anche della terapia ventilatoria (come preteso nel caso Welby);
· limitazione della figura del decisore sostitutivo, cioè quella figura che, liberamente indicata dall’estensore del testamento di vita, diventa invece fondamentale nel decidere per tutte le situazioni cliniche che necessariamente non possono essere specificate nel testamento stesso;
· estrema burocratizzazione nella estensione e validità del testamento. Obbligando la compilazione in presenza di una sorta di tutore (medico, notaio, impiegato comunale). Reiterazione con scadenze fisse del documento, pena la perdita di validità dello stesso;
· totale discrezionalità del medico - nel nome di una malintesa obiezione di coscienza - nell’applicazione delle volontà del paziente. Pertanto il medico potrà comunque sia iniziare che non interrompere eventuali trattamenti sanitari che riterrà opportuno, anche se espressamente rifiutati dal paziente nel testamento di vita.
A queste condizioni è evidente che una legge sul testamento di vita si trasformerebbe in una legge contro il testamento di vita ed il diritto all’autodeterminazione. L’unica speranza, sostenuta però da un iter lungo e complesso, sarebbe rappresentata dal ricorso alla Corte Costituzionale almeno per alcune sue parti. Stesso destino che già attende la legge sulla procreazione assistita.
* medico chirurgo,
componente del Consiglio Direttivo della Consulta
di Bioetica Onlus
l'Unità 2.9.08
La famiglia Englaro diffida la Regione Lombardia
La battaglia giudiziaria sul caso di Eluana Englaro, in coma vegetativo dal 1992, si complica con un nuovo tassello: i legali della famiglia hanno infatti inviato una diffida alla Regione Lombardia per la mancata indicazione di una struttura che possa ospitare Eluana e in cui il padre, Beppino, decida di staccare le macchine che tengono in vita la figlia, dopo il pronunciamento in tal senso della Corte d’Appello di Milano. Nella diffida si chiede cioè che l’amministrazione indichi una struttura dove ospitare la donna, in stato vegetativo, per cui la Corte d’Appello ha permesso di staccare l’alimentazione artificiale. I legali della famiglia hanno precisato che il termine indicato nella diffida è di dieci giorni e che se entro i termini non si riceverà risposta si valuterà se agire con ulteriori iniziative legali. Ma la Regione precisa a distanza di poche ore che «il documento dei legali della famiglia Englaro è giunto in Regione Lombardia» e «gli uffici lo stanno valutando attentamente e nei prossimi giorni sarà fornita una risposta». «La faccenda è nelle nostre mani e comprendiamo la situazione della famiglia - ha spiegato, da parte sua, l’assessore alla Sanità Luciano Bresciani -. Abbiamo deciso di dare all’ufficio giuridico-legislativo la valutazione del caso al fine di avere un supporto tecnico puntuale e preciso per la successiva risposta politica».
La vicenda, insomma, si complica ulteriormente e le reazioni sono di segno opposto: «Non è compito nè della Regione Lombardia, nè di altre Regioni, assicurare le condizioni per l’esecuzione della sentenza», afferma il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, ricordando che la sentenza non è definitiva. Al contrario, è la replica di Ardemia Oriani, consigliere lombardo del Pd, «compete alla Regione Lombardia rispondere sollecitamente alla domanda formulata dalla famiglia».
Corriere della Sera 2.9.08
«Basta clandestinità»: il 26 a Bologna decidono Statuto e iniziative
Il primo meeting dei poliziotti gay
di Vera Schiavazzi
Agenti e militari fondano la prima associazione italiana
Venerdì 26 settembre, a Bologna, l'associazione riunirà il suo direttivo per darsi un nuovo Statuto.
Si chiama «Polis aperta» e in Italia è la prima del suo genere: un'associazione che riunisce uomini e donne omosessuali in divisa, poliziotti, carabinieri, finanzieri, militari delle Forze Armate. Il 26 settembre si riunirà a Bologna il direttivo per la stesura di un nuovo statuto e la messa a punto di un programma di iniziative che faccia uscire i gay in uniforme dalla clandestinità. Un coming out collettivo per vincere i timori di «una discriminazione strisciante», dice Nicola Cicchitti, presidente di «Polis aperta».
TORINO — Ministro La Russa aspettaci, stiamo arrivando. Poliziotti, Carabinieri, uomini e donne della Guardia di Finanza, dell'Esercito e dell'aeronautica gay e lesbiche escono allo scoperto anche in Italia, dopo una lunga stagione di incertezze e clandestinità. E venerdì 26 settembre, a Bologna, volteranno pagina: la loro associazione, «Polis Aperta», la prima e l'unica nel nostro Paese, riunirà il suo direttivo per darsi un nuovo Statuto e un programma di iniziative, in un grande coming out collettivo. Nonostante la decisione, presa anche in seguito alle pressioni degli altri gruppi europei, a cominciare dagli spagnoli di Gaylespol che hanno organizzato l'ultimo raduno internazionale a Barcellona, è ancora molto difficile trovare gay e lesbiche in divisa disposti a parlare, e non a caso per alcuni è più facile che per altri: Vito Raimondi, torinese, è un finanziere come il triestino Nicola Cicchitti, presidente di Polis Aperta. «Per molti di noi — racconta — il timore non è quello di una ritorsione violenta, quanto della discriminazione strisciante. E il disagio per il machismo quotidiano che chi è in divisa è costretto a vivere, fatto di battute e di linguaggi, lo stesso che le donne entrate nell'esercito e in Polizia hanno contribuito a cambiare, senza tuttavia riuscire a cancellarlo». Oggi, gli aderenti a Polis Aperta che hanno un nome e un cognome e partecipano liberamente alle prime attività pubbliche dell'associazione sono circa duecento. C'è chi ha fatto il suo coming out
personale pur essendo un Carabiniere, in uno dei corpi cioè ritenuti più tradizionali, e chi invece preferisce non comparire anche se nella vita fa il vigile urbano: «Non puoi sapere come reagiranno i superiori, ed è comunque difficile dimostrare che un trasferimento "punitivo" è arrivato perché si è scoperto che sei gay e non per "esigenze di servizio", come dice la motivazione ufficiale ». La regola italiana, dunque, è «non chiedere, non dire»: «Mi è capitato di incontrare in discoteca colleghi che appena mi vedevano si giravano dal-l'altra parte — spiega Raimondi —. Al Gay Pride di Biella ero con il mio compagno e un collega che fino a quel momento era rimasto ai margini della manifestazione vedendomi sotto il palco è venuto a salutarci. È stato un grande momento, la dimostrazione che dobbiamo renderci visibili».
Una richiesta che viaggia anche attraverso la rete, negli appelli accorati di chi è entrato — dopo una richiesta e un filtro iniziale — nei gruppi di discussione del sito web.tiscali. it/polisaperta. Scrive «Genova in divisa»: «Caro gruppo, faccio quest'ultimo tentativo poi la smetto, perché mi pare di essere rimasto l'unico in tutta la Liguria... Se c'è qualche collega di qualunque corpo, civile o militare, mi farebbe molto piacere scambiare idee con lui su come si vive e si lavora a Genova essendo gay e portando una divisa». Giulio, nuovo iscritto dal Sud, aggiunge: «Vorrei confrontarmi con altri militari che si trovano a vivere la loro omosessualità tra mille difficoltà nelle caserme italiane ».
Al ministro della Difesa, Polis Aperta chiede di poter essere riconosciuta come associazione mista e senza finalità sindacali, in modo da aggirare ogni divieto. All'ordine del giorno di Bologna c'è anche un programma di incontri e l'elezione di delegati regionali. Ma, soprattutto, l'idea di poter cambiare dall'interno una mentalità ancora prevalente tra le forze dell'ordine, creando gruppi di poliziotti gay («siamo una risorsa, non un problema») capaci di formare i colleghi insegnando loro a intervenire in caso di reati o violenze che riguardano gli omosessuali. Come già avviene in Spagna, dove sono i gay della Guardia Civil a tenere corsi anti- discriminazione.
Corriere della Sera 2.9.08
Un libro di testo russo
Stalin «riabilitato» «Le purghe? Mossa razionale»
Le purghe staliniane? Una risposta «razionale» per modernizzare la Russia. A definire così gli anni del terrore imposto dal dittatore sovietico è un nuovo manuale scolastico russo, Storia della Russia — 1900-1945. Il libro, per ora destinato solo agli insegnati, sarà proposto agli studenti a partire dal 2009. Non è certo che la discussa definizione rimanga: lo scorso anno un testo che definiva Stalin «un manager efficiente» fu emendato prima di finire sui banchi. Ma il tentativo di riabilitare il «piccolo padre» indica una tendenza diffusa. «Non stiamo difendendo Stalin — spiega l'editor del libro, Alexander Danilov —. Ma i giovani devono sapere le ragioni del suo comportamento».
In fondo, meno di un anno fa, l'allora presidente Putin disse che le purghe erano state «un momento buio della nostra storia. Ma chi ha bombardato Hiroshima e Nagasaki non pretenda di darci lezioni».
Affetto Una donna abbraccia il ritratto di Stalin
Repubblica 2.9.08
Il Cremlino ispira i nuovi manuali di storia
E Stalin viene giustificato
L´idea di Putin e Medvedev è quella di ridare ai giovani il senso dell´orgoglio patriottico edulcorando i giudizi negativi su purghe e stragi
Un anno fa le autorità scolastiche russe favorirono la diffusione di un ineffabile e controverso manuale di storia, destinato ai docenti, in cui si riabilitava la figura di Stalin, costretto a scelte dolorose - per esempio, le «purghe» - in nome della modernizzazione del Paese. Quel libro, che s´intitolava "Storia della Russia, 1945-2007" ed era consigliato dallo staff di Putin, scatenò polemiche a non finire. Che non servirono a nulla.
Anzi. La stessa casa editrice Prosvescenie (Istruzione) propone infatti per il nuovo anno scolastico un secondo manuale - stessi autori, coordinati da Aleksandr Filippov - che si avventura stavolta nella "Storia della Russia, 1900-1945", completando il primo volume. E´, in filigrana, la storia del potere russo, e la giustificazione delle sue azioni. Lo stalinismo è riletto in modo «razionale». Un tempo, nei manuali di storia sovietici le repressioni di Stalin semplicemente si tacevano, o venivano presentate come una specie di «deviazione» dalla linea generale del Pcus. Oggi, invece, il Cremlino - perché l´ispirazione storica e politica arriva da lì - vuole concentrare «l´attenzione degli studenti sulla spiegazione dei motivi e della logica delle azioni dell´autorità» (così si legge nella prefazione).
Quale scopo si cela dietro questa riscrittura della storia ispirata da Putin e Medvedev? Ridare ai giovani il senso dell´orgoglio patriottico; inculcargli il principio che la Russia è sempre stata, nel bene e nel male, una «grande nazione» destinata a rioccupare «la sua giusta posizione nel mondo»; riconoscere come scusabili le scelte dei suoi statisti, perché dettate dalla necessità di difendere la Grande Madre Russia.
Soprattutto, c´è il tentativo di cancellare dalla memoria collettiva il giudizio pesantemente negativo sul regime totalitario di Stalin. Ma non solo Stalin. Si «comprende» persino Nicola II. Lo zar era convinto che l´abbandono della monarchia assoluta, «l´indebolimento della verticale del potere» (guarda caso, la formula putiniana della gestione del potere: ecco la chiave di lettura) avrebbe condotto la Russia alla catastrofe, e «perciò rifiutava tutti i progetti di riforme che prevedevano cambiamenti di regime anche in una prospettiva più vaga»; nell´Urss non è mai stata organizzata una carestia nelle campagne, «tutto era condizionato sia dalle condizioni del tempo sfavorevoli, che dall´incompiutezza dei processi di collettivizzazione delle campagne»; alla fine degli anni ‘30, nel quadro della modernizzazione è stato costruito non il socialismo, né il capitalismo, ma un modello di società industriale.
Persino la versione del massacro di Katyn (la fucilazione dei prigionieri di guerra polacchi operata dagli agenti del Nkvd), è stravolta in un «castigo» storico: «Non era soltanto questione di opportunità politica, ma anche la risposta per la morte di tante (decine) di migliaia di soldati di Armata Rossa nella prigionia polacca subito dopo la guerra del 1920, provocata non dall´Urss, ma dalla Polonia».
Perciò, non desta meraviglia il modo in cui si illustra il Grande Terrore perpetrato da Stalin e dai suoi accoliti: «La resistenza opposta alla politica di Stalin di portare avanti una modernizzazione accelerata e le preoccupazioni del leader nazionale di perdere il controllo sulla situazione era il motivo principale per attuare "il grande terrore". Essendo l´unico partito, la VeKaPe (be) (il vecchio nome del PCUS, ndr) era per il potere anche l´unico canale "feed-back". Sotto l´influsso degli stati d´animo d´opposizione crescenti nella società il partito stava diventando terreno fertile per la formazione di vari gruppi e correnti politici di idee differenti», insomma perdeva il suo carattere monolitico e minacciava il controllo del potere. «Alla vigilia della guerra Stalin, tra competenza e fedeltà, ha scelto la fedeltà dei comandi delle Forze Armate e dei burocrati a lui fedeli». Chi non gli era fedele, pagò con la vita. Stalin «non sapeva da chi poteva aspettare un colpo», quindi ha sferrato lui «un colpo contro tutti i gruppi e le correnti conosciuti, nonché contro chi non era suo alleato o chi non la pensava come lui».
Comunque, scrivono gli autori del manuale, «è importante dimostrare che Stalin stava operando in una situazione storica concreta, stava agendo (come manager) in maniera ben razionale come protettore del sistema, come un coerente sostenitore della trasformazione del paese in una società industriale che potesse essere controllata dal centro unico, come leader della nazione minacciata nel brevissimo avvenire da una grande guerra».
Corriere della Sera 2.9.08
Pierre Cassou-Noguès ricostruisce la vita e l'opera di uno scienziato ossessionato dal complotto
Numeri e demoni, il teorema di Gödel
La deriva psicotica nel matematico che credeva negli emissari del Maligno
di Sandro Modeo
Secondo Kurt Gödel, il tessuto fenomenico della materia (gli alberi, le strade, le case, persino le persone, dalle anonime alle più care) è un tenace strato di copertura, e il cielo una calotta ingannevole che ci protegge e ci reclude come il «ventre della madre» col bambino. Al di là di questo strato, si estende — infinita e immobile, fuori dallo spazio e dal tempo — la vera «struttura del mondo»: un universo sovradeterminato da un Dio che nulla lascia al caso e osservabile per scorci solo dalla finestra chiusa del ragionamento logico-matematico, tra i cui spifferi — per scarti quasi inavvertibili, sorta di fruscii astratti — si rivelano, oltre a quelle angeliche e fantasmatiche, le presenze dei demoni e di altri emissari del Maligno.
Rigoroso ritratto intellettuale e insieme gelido referto clinico, I demoni di Gödel di Pierre Cassou-Noguès (matematico-filosofo del Cnrs) ci immette in uno degli snodi più perturbanti nella visione di molti matematici: il rapporto tra dualismo (mente versus materia) e disagio mentale, tra radicalità dell'astrazione e deriva psicotica. Gödel vede infatti nella «struttura del mondo» un esteso «dietro le quinte» di ogni fatto e aspetto della Storia e della propria vita: il che lo porterà a elaborare un complottismo sistemico (le carte di Leibniz distrutte da una società segreta e Eisenhower che elimina gli oppositori) e una fitta serie di fobie autodistruttive (quella di essere ipnotizzato a sua insaputa ma soprattutto quella di essere avvelenato, che lo condurrà a pesare 30 chili e alla morte per consunzione). E se Cassou- Noguès ricostruisce anche il caso parallelo del collega di Gödel, Emil Post (morto per infarto in seguito a un elettroshock, dopo un'esistenza di intuizioni geniali bloccate da collassi nervosi), avrebbe potuto citare — tra gli altri — anche l'indiano Ramanujan, morto a Cambridge nel 1920 a 33 anni, causa un'infezione intestinale da lui ricondotta alla «punta infinita» della funzione zeta (quella scoperta da Riemann sulla natura dei numeri primi) conficcata nel suo corpo; o il francese Grothendieck, a tutt'oggi in un villaggio sperduto dei Pirenei a delirare sul mondo indemoniato.
Il nucleo decisivo della questione consiste nell'inseparabilità tra la coerenza interna di un assunto scientifico e il suo riverberarsi sulla psicologia dello scienziato. E cioè — nel caso di Gödel, focalizzato da Cassou-Noguès attingendo a un vasto materiale inedito, a partire dalle carte di Princeton — tra il famoso «teorema di incompletezza » e la sua cupa teologia innervata di (inconsapevole) gnosticismo. Il teorema — annunciato per la prima volta nell'agosto del 1930 al Caffè Reichsrat di Vienna davanti a Carnap e ad altri membri del «Circolo » — prova come l'aritmetica non possa né dimostrare né confutare certi sistemi formali, lasciandoli sospesi e «indecidibili»; e cioè — su un piano filosofico — come la finestra possa sporgersi su un immenso paesaggio di oggetti immateriali necessariamente trascendenti. Se infatti né il cervello umano (col suo numero finito di connessioni sinaptiche) né l'archeo- computer della «macchina di Turing» (col suo numero finito di computazioni) sono in grado di afferrare l'infinito, solo la mente — in quanto speculazione pura — può fungere da interfaccia.
Lo spalancarsi di un simile «pensiero senza cervello» oltre i limiti della percezione sensoriale produce, ancora una volta, un ibrido di verità scientifiche e proiezioni paranoiche. Da un lato, la concezione gödeliana del tempo non come retta o freccia (passato-presente-futuro) ma come «superficie» (in cui tutto è contemporaneo a tutto, senza nessun divenire) è compatibile con quella einsteiniana; e in quanto tale, nega molte suggestioni fantastiche, dai cronoviaggi agli universi paralleli. Dall'altro, il fatto che l'uomo sia privo di libero arbitrio e possa solo intravedere l'«armonia prestabilita» del Sovramondo — quando non glielo vietano le deviazioni cognitive dei demoni, tesi a soffiare nel Sottomondo inganno e ignoranza — configura un senso di prigionia e claustrazione da racconto di Kafka, non a caso lettura di Gödel. Se è ovviamente impossibile e inutile trovare una direzionalità causale tra platonismo esasperato e psicosi, non lo è forse — partendo da Gödel — formulare un'ipotesi d'insieme. Il grande logico di origini ceche vede infatti il nostro mondo materiale come un transito tragico ma temporaneo, in attesa che il nostro corpo si apra (con la morte) alla verità intravista dalla matematica: «La vita può essere infelice per settant'anni e felice per un milione di anni». Nella sua prospettiva — come in quella di molti idealisti o di molti credenti — è intollerabile il pensiero opposto di una vita biologica nata nell'universo per caso, in cui le parabole individuali sono solo brevi segmenti finiti e le intuizioni logico-matematiche schemi interpretativi (a volte sovrabbondanti) elaborati da un cervello plasmato dall'evoluzione.
Alla fine, ogni negazione del mondo — anche la più vertiginosa, complessa e disperata — è un tentativo di elaborare l'impossibilità di accettarlo.
Repubblica 30.8.08
I testimoni di Gesù, le origini del cristianesimo
di Corrado Augias
Gesù non ha mai detto di voler fondare una religione, una Chiesa, che portassero il suo nome; mai ha detto di dover morire per sanare con il suo sangue il peccato di Adamo ed Eva, per ristabilire cioè l' alleanza fra Dio e gli uomini; non ha mai detto di essere nato da una vergine che lo aveva concepito per intervento di un dio; mai ha detto di essere unica e indistinta sostanza con suo padre, Dio in persona, e con una vaga entità immateriale denominata Spirito. Gesù non ha mai dato al battesimo un particolare valore; non ha istituito alcuna gerarchia ecclesiastica finché fu in vita; mai ha parlato di precetti, norme, cariche, vestimenti, ordini di successione, liturgie, formule; mai ha pensato di creare una sterminata falange di santi. Non è stato lui a chiedere che alcuni testi, i vangeli, riferissero i suoi discorsi e le sue azioni, né ha mai scritto personalmente alcunché, salvo poche parole vergate col dito nella polvere. Gesù era un ebreo, e lo è rimasto sempre; sia quando, in Matteo 5,17, ha detto: «Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento»; sia quando, sul punto ormai di spirare, ha ripetuto l' attacco straziante del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Davanti a queste incontestabili verità sorge con forza la domanda, la curiosità di sapere: ma allora com' è nato il cristianesimo? Chi e quando ne ha stabilito norme e procedure, riti e dogmi? Gesù non ha mai pensato di rendere obbligatori un comportamento o una verità certificati per decreto. Ha esortato, ha pregato, ha dato l' esempio. Soprattutto, nulla era più lontano da lui di una congerie di leggi, un' organizzazione monarchica, uno Stato sovrano dotato di territorio, moneta, esercito, polizia e giurisdizione, sia pure ridotti - ma solo dopo aspre lotte . a dimensioni simboliche. Torna di nuovo la domanda: ma allora chi ha elaborato tutto questo? perché? quando? La vicenda del cristianesimo, ricostruita nel suo effettivo svolgimento secondo le leggi della ricerca storica e non della teologia, rappresenta una complessa avventura umana ricca di drammi, di contrasti, di correnti d' opinione che si sono scontrate sui piani più diversi: la dialettica, l' invenzione ingegnosa, la ricostruzione ipotetica di eventi sconosciuti a costo di affrontare i più inverosimili paradossi; l' amore per gli uomini, certo, nella convinzione di fare il loro bene, ma anche gli interessi politici, gli arbitrii e gli inganni; non di rado l' opposizione al mutamento spinta fino allo spargimento di sangue. In breve: se si esaminano i fatti con la sola ottica della storia, nulla distingue la lenta e contrastata nascita di questa religione da quella di un qualsiasi altro movimento in grado di smuovere coscienze e interessi, di coinvolgere la società nel suo insieme e le singole persone che nella e della società vivono. Sigmund Freud ha scritto nel suo L' avvenire di un' illusione: «Dove sono coinvolte questioni religiose, gli uomini si rendono colpevoli di ogni sorta di disonestà e di illecito intellettuale». Forse l' espressione è eccessiva, nel senso che non sempre e non per tutti è stato così. E, se di disonestà si può parlare, si è spesso trattato di una «disonestà» particolare, concepita cioè per offrire agli esseri umani una consolazione che la vita raramente concede. Di sicuro, però, è vero il reciproco della frase di Freud e cioè che la ricerca storico-scientifica, condotta con criteri rigorosi, obbedendo solo alla propria deontologia, esclude ogni «disonestà», il suo fine essendo di arrivare a risultati certi. Momentaneamente certi, aggiungo. Certi, cioè, fino a quando altre ricerche, altre scoperte, altri documenti falsificheranno quei risultati per proporne di nuovi. La differenza fra la storia (e qualunque altra attività scientifica) e la teologia è infatti soprattutto in questo: la scienza tende a un instancabile avvicinamento a verità perfettibili, la teologia tende a considerare immutabile la sua verità perfino quando le scoperte della scienza la rendono palesemente inverosimile. La ricerca scientifica e la fede religiosa, il perfezionamento di conferme verificabili e la fiducia in verità assolute si muovono su piani distinti. Per ognuna delle due ci sono spazio e legittimità nella coscienza e nei sentimenti degli individui, assai meno nel campo delle attività razionali e pubbliche. La verità della politica e della convivenza, fatta di mediazioni e di incontri, è diversa dalla verità della fede, fatta di dogmi immutabili. Il filosofo Rousseau era arrivato a dire: «Il cristiano non può essere un buon cittadino. Se lo è, lo è di fatto, ma non di principio, perché la patria del cristiano non è di questo mondo». Vedremo quanto sia vero tale giudizio e quanto il principio abbia pesato nel momento in cui il cristianesimo lentamente si allontanò dal giudaismo originario per diventare una religione a sé. Il professor Remo Cacitti insegna Letteratura cristiana antica e Storia del cristianesimo antico alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell' Università degli Studi di Milano, materie su cui ha grande competenza. Nel dialogo raccolto in questo libro, egli ricostruisce le vicende che hanno caratterizzato la nascita del cristianesimo secondo i risultati della più attendibile e aggiornata ricerca. Nulla che non sia storicamente verificabile entra nel suo racconto. Non mancheranno quindi al lettore le sorprese, come non sono mancate a me, mentre lo ascoltavo raccogliendo le sue parole. Una narrazione basata su documenti è cosa molto diversa da una costruzione teologica, che per suscitare la fede deve trasformare i fatti, filtrarli attraverso categorie sottratte al controllo della ragione. * * * Quando e come comincia la nuova fede chiamata cristianesimo? è una domanda alla quale si risponde malvolentieri sia perché non è facile sia perché la materia è controversa, per taluni aspetti imbarazzante, basata su fonti aleatorie. Si può allora provare a formulare la questione in modo diverso: quando si conclude la fase che possiamo considerare originaria, aurorale, di questa religione? Ma soprattutto, per cominciare, a quale metodo si affidano gli storici per cercare di ricostruire con fedeltà le varie fasi degli avvenimenti? Per la dottrina esiste una data ufficiale di nascita della Chiesa: la Pentecoste. Cinquanta giorni dopo la morte di Gesù, lo Spirito santo si manifestò prima come un vento, poi in forma di fiammelle che si posarono sul capo di ciascuno dei discepoli riuniti in assemblea. Riattualizzando l' originale significato ebraico della ricorrenza (legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio sul monte Sinai), la Pentecoste cristiana viene vista come la nuova legge donata da Dio ai suoi fedeli. Questo nella dottrina. Nella realtà storica le origini della nuova religione sono molto più movimentate e incerte. Le due sole frasi che potrebbero far pensare all' intenzione di Gesù di fondare una sua Chiesa sono o male interpretate («Tu sei Pietro e su questa pietra~») o aggiunte in un secondo tempo al testo originario («Andate e predicate a tutte le genti~»). Per la cerchia dei seguaci la realtà della sua morte - di quella morte - dovette rappresentare uno shock tremendo. L' uomo, il profeta, se si vuole il messia tanto atteso, nel quale avevano riposto ogni speranza, al cui messaggio avevano creduto con pienezza di cuore, era finito su un patibolo ignominioso. Di colpo, tutti coloro che avevano creduto in lui erano diventati complici di un criminale giustiziato. La sventura si era abbattuta su di loro e, nello stesso tempo, il regno dei cieli, da lui annunciato come imminente, tardava ad arrivare. La loro risorsa, la loro salvezza fu rifugiarsi nelle antiche scritture della Bibbia, dov' era detto che i giusti secondo Dio sarebbero stati salvati. A questa consolazione si aggiunse la notizia che la sua tomba era stata trovata vuota: la salma martoriata era scomparsa. Gesù doveva, dunque, essere risorto a nuova vita. I vangeli affermano con assoluta certezza due cose: che Gesù era realmente morto sulla croce; che molte persone lo videro dopo la resurrezione. Videro, cioè, un essere capace di passare attraverso una porta chiusa, di materializzarsi all' improvviso davanti ai suoi seguaci proprio come fanno gli spiriti, ma anche di mangiare del pesce e di far toccare le sue piaghe come un vero essere umano. Secondo gli storici tali apparizioni non sono vere prove di un ritorno dalla morte, sono invece testimonianze molto convincenti della fede che i suoi discepoli avevano in lui. L' annuncio del risorto cominciò a diffondersi in un territorio sempre più vasto a mano a mano che coloro che avevano creduto in lui presero a viaggiare, utilizzando a fini religiosi la fitta rete di comunicazioni che l' Impero romano aveva creato a scopi militari e di commercio. Tutte le indagini storiche e archeologiche dimostrano che la nuova religione si sviluppò in luoghi diversi e con modalità differenti a seconda di come il racconto delle parole e delle azioni di Gesù veniva riferito passando di bocca in bocca. Come sostengono gli storici, e conferma con convinzione il professor Cacitti, all' inizio non ci fu un solo cristianesimo, ma diversi cristianesimi che avevano rilevanti diversità l' uno dall' altro, erano più o meno radicali, più o meno vicini all' originaria matrice ebraica. Alcune di queste differenze saranno dottrinalmente composte nel corso dei secoli, di altre continua a esserci traccia anche oggi nelle diverse confessioni che si dicono cristiane.
D-donna di Repubblica 30.8.08
La voce inascoltata
di Umberto Galimberti
Scrive Erich Fromm in Psicoanalisi della società contemporanea (Ed. Comunità): La salute mentale non può essere definita in termini di adattamento dell'individuo alla sua società, ma, al contrario, in termini di adattamento della società ai bisogni dell'uomo".
Il quasi silenzio del Vaticano di fronte ai campi Rom dati alle fiamme vicino Napoli ha turbato cattolici e non, per cui ci si è chiesti: "Perché tanta prudenza? Cristo si è fermato in Piazza San Pietro?" (Maurizio Chierici, l'Unità 19/5/08). La risposta forse può essere trovata se si tiene conto del tipo di assetto mentale delle gerarchie vaticane e non solo. Già la psicoanalista cattolica Francoise Dolto (Psicanalisi del Vangelo, Rizzoli) aveva affermato che l'educazione "cosiddetta cristiana" può far ammalare le persone, mentre Gesù le guarisce. Ma è stato lo psicoanalista cattolico Pierre Solignac (La nevrosi cristiana, Boria) a formulare una precisa diagnosi: "L'autorità romana si comporta come una personalità paranoica" in perenne contraddizione con Gesù, il cui messaggio "è stato quello del-l'antinevrosi". Così può accadere che il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, veda "estremismi" là dove a Ponticelli divampa un pogrom. Non vede donne e bambini in fuga verso l'ignoto. Lo sguardo di Gesù era diverso. Dove l'occhio del fariseo "vede" un "peccatore e pubblicano", Gesù "vede un uomo" (Matteo 9, 9-11). Al fariseo Simone che "vede una peccatrice" che gli insudicia la casa (Luca 7, 36-50), Gesù corregge lo sguardo: "Vedi questa donna?". E una donna vede Gesù quando incontra la samaritana, appartenente a un'altra etnìa (Giovanni 4, 1-29), a lei regala "l'acqua vìva" ovvero l'amore di Dio, sicché anche lei alla fine non vede più in lui un "giudeo", ma un "uomo"; lo sguardo di Gesù aveva abbattuto le barriere etniche e religiose.
Il fatto è che tra il Tempio cattolico e il Cesare berlusconiano, sussiste un connubio mentale, che "il guardo esclude". Ascoltiamo Eugenio Scalfari (la Repubblica 17/5/08): "Dopo la vittoria di Berlusconi è scoppiata la sindrome delle ronde di strada, della repressione fai-da-te... C'è una logica nella follia di aver cavalcato la paura: poiché di miracoli in economia non se ne potranno fare, bisognava suscitare un nemico sul quale scaricare le tensioni". Suscitare un nemico: un meccanismo che la psicoanalisi chiama "identificazione proiettiva". Per essa - che è in relazione con la posizione paranoide/schizoide (Melanie Klein) - il soggetto nega il proprio "cattivo", lo espelle e lo incarna in un Altro, il quale, trasformato in discarica di rifiuti psichici altrui, viene suscitato come nemico, che fa paura e da cui occorre difendersi, magari con le ronde, ma che va anche attaccato, magari con i raid, perché incarnazione del Male. Di fronte a un inconscio collettivo malato che sta tracimando, non è urgente che maturi la consapevolezza dei rapporti tra politica e psicoanalisi, tra religione e psicoanalisi, visto che le sole categorie della politica sembrano insufficienti?
Francesco Natarelli, Pescara
II suo invito è nobile, ma penso che nessuno lo raccolga. La psicoanalisi, infatti, non può aiutare né la religione né la politica perché, a differenza degli anni '60 e 70 in cui la psicoanalisi svolgeva un ruolo anche di "analisi del sociale" (come già per altro era negli intenti di Freud, autore de !l disagio della civiltà), oggi è stata relegata o sì è relegata nell'ambito della cura individuale.
Per effetto di questa riduzione la psicoanalisi è diventata funzionale al potere sia politico sia religioso, ai quali non dispiace la medicalizzazione della condizione umana, perché questa comporta un'autolimitazione degli individui i quali, una volta persuasi di avere un sé fragile e debole, saranno loro stessi a chiedere non solo un ricorso alle pratiche terapeutiche, ma addirittura la gestione della loro esistenza, che è quanto di più desiderabile possa esistere per i poteri costituiti. E qui non sì fatica a intravedere le potenziali implicazioni autoritarie a cui inevitabilmente porta la diffusione generalizzata dell'etica terapeutica, che è la versione secolarizzata dell'etica della salvezza, con cui le religioni hanno sempre tenuto gli uomini sotto tutela.
Anzi, per Frank Furedi, sociologo ungherese che insegna all'università di Kent a Canterbury, autore de // nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (Feltrinelli), la patologizzazione di esperienze umane, fino a ieri ritenute normali, risponde all'esigenza di omologare gli individui non solo nel loro modo di "pensare" (a questo ha già provveduto il "pensiero unico" per cui, come già ammoniva Nietzsche: "Chi pensa diversamente, va spontaneamente in manicomio"), ma soprattutto nel loro modo di "sentire". Questo nuovo "conformismo emotivo", come lo chiama Furedi, è un governo degli uomini più sottile e pervasìvo dì quanto le religioni e le ideologie del passato siano mai riuscite a fare, perché attutisce le tensioni sociali, spegne i possibili conflitti, riduce al silenzio le voci che rifiutano di uniformarsi al sistema, risolve quelle che, in tutta evidenza, sono questioni pubbliche in problemi privati degli individui, i quali, se dissentono con le loro idee o con i loro comportamenti, possono sempre trovare un cognitivista o un comportamentista che li persuade che, non potendo cambiare il mondo, per vivere con meno problemi è meglio che cambino se stessi. E, in nome dì questo "sano realismo", il mondo resta tale qual è.