mercoledì 3 settembre 2008

l'Unità 3.8.08
Morte cerebrale, per l’Osservatore non basta
Il quotidiano della Santa Sede: l’encefalogramma piatto non stabilisce il decesso. Poi il Vaticano smentisce
di Roberto Monteforte


LA DICHIARAZIONE di «morte cerebrale» non può sancire più la fine di una vita. Affermazione secca e perentoria che appare in bella evidenza sulla prima pagina del quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano. L’articolo a firma della storica e filo
sofa Lucetta Scaraffia è dedicato ai 40 anni del «Rapporto Harvard» con il quale si modificò la definizione di morte, passando da quella basata sull’arresto cardiocircolatorio a quella determinata dall’encefalogramma piatto. Una definizione sulla quale studiosi di formazione cattolica, la stessa Chiesa e la cultura scientifica laica avevano finito per convenire. Ora la Scaraffia che è anche membro del Comitato per la bioetica ed è stata vice presidente dell’Associazione Scienza e Vita la mette seriamente in discussione: «Quella definizione - afferma - va rivista in nome delle nuove ricerche scientifiche», per le quali - insiste citando studi recenti - «va messo in dubbio che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo».
Visto che la Chiesa è tenuta a muoversi in coerenza con la sua stessa dottrina a proposito del concetto di persona, comprese «le sue stesse direttive nei confronti dei casi di coma persistenti», allora dovrebbe rivedere la sua posizione sui trapianti di organo.
Un esplicito stop ai trapianti. Questa sarebbe la sua conclusione. Infatti ricorda come proprio il fatto di accettare la definizione di morte celebrale abbia avuto per la Chiesa quella di proclamarsi favorevole al prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti. «L’accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri». Ora, visto che i risultati più recenti della ricerca scientifica avrebbero acclarato che «la morte cerebrale non è la morte dell’essere umano» e messo in dubbio «il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo» - è la sua conclusione - tutto andrebbe ridiscusso. Insomma, non basterebbe più l’encefalogramma piatto per espiantare un organo, quando altri organi darebbero segni di vita. Si finirebbe così per «identificare la persona con le sole attività celebrali» e questo - assicura - «sarebbe in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente».
L’articolo dell’Osservatore lancia più di una provocazione. Si ipotizza anche che «forse aveva ragione chi sospettava che la nuova definizione di morte, più che da un reale avanzamento scientifico, fosse stata motivata dall’interesse, cioè dalla necessità di organi da trapiantare». Lo fa richiamando le preoccupazioni espresse nel lontano 1991 in un concistoro speciale dall’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Sulla frontiera delicatissima della bioetica si vuole aprire un nuovo fronte polemico con il mondo laico, con la comunità scientifica, oltre che interno alla Chiesa? È una preoccupazione legittima visto che le teorie espresse sono più di un sasso lanciato nello stagno del confronto scientifico. Finiscono per avere un peso politico, tanto più che alle Camere è in discussione il tema del testamento biologico, delicato anche per il mondo cattolico con settori della Chiesa nettamente contrari perché temono si scivoli verso l’eutanasia ed altri impegnati a definire il limite tra accanimento terapeutico e le necessarie pratiche di mantenimento dei malati terminali.
Prima che la polemica monti eccessivamente la Santa Sede si è affrettata a chiarire che la dottrina della Chiesa sull’espianto degli organi non cambia. «Le riflessioni pubblicate dall’Osservatore Romano in un articolo sul tema sono ascrivibili all’autrice del testo e non impegnano la Santa Sede», ha precisato il direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi. «L’articolo in questione - ha sottolineato - non è un atto magisteriale nè un documento di un organismo pontificio». «Non dico nulla sul contenuto dell’articolo - ha aggiunto -, che non è un’editoriale, se non che è firmato da una persona e che dunque porta l’autorevolezza della testata e di quella persona». Sul punto eticamente sensibile dei trapianti di organi, almeno per ora, la Chiesa non cambia linea.

l'Unità 3.8.08
Dove comincia la morte
di Carlo Defanti, Primario neurologo emerito


Il quarantennale del documento con cui una Commissione dell’Università di Harvard propose di considerare quello che al tempo veniva denominato «coma irreversibile» come un nuovo criterio di morte (e che da allora chiamiamo «morte cerebrale»), promette di essere foriero di tempeste nel già tormentato terreno della bioetica italiana. L’ultima l’ha sollevata ieri un articolo de l’Osservatore Romano (non un «editoriale» come ha precisato in serata il capo della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi, nel prendere le distanze da quanto scritto) a firma di Lucetta Scaraffia.
L’autrice argomenta la difficoltà di mantenere oggi questo concetto, le cui basi sono state minate da una serie di nuovi dati, fra i quali spicca il fatto che una donna incinta in morte cerebrale può essere mantenuta biologicamente viva anche per diverse settimane in modo da permettere la maturazione del feto e la nascita di un bambino sano. Gli oppositori del concetto di morte cerebrale, di cui il filosofo Hans Jonas è stato il precursore, sostengono che tale definizione fu concepita al solo scopo di rendere possibile il prelievo di organi.
La conclusione , è che sia stato un errore voler “risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica”, cioè ridefinendo la morte, mentre sarebbe stato più corretto “elaborare criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili” per l’attività di trapianto. L’autrice prosegue chiedendosi se allo stato dell’arte la Chiesa possa continuare a sostenere il concetto di morte cerebrale, come sostanzialmente ha fatto finora, e cita un vecchio intervento del cardinale Ratzinger (1992) in cui si criticava la “messa a morte” dei malati in coma allo scopo di prelevarne gli organi.
Che cosa pensare a questo punto? Rifletto su questo tema da oltre vent’anni e ho scritto su questo un libro (Soglie, Bollati Boringhieri 2007) nel quale ho esposto in modo approfondito la storia e il concetto della morte cerebrale e ho concluso auspicando una ridiscussione pubblica di questo tema che sembrava fin qui “assestato”. Tuttavia non prevedevo che la Chiesa volesse sollevare la questione in questo momento, anche se conoscevo le perplessità espresse da studiosi cattolici in seno alla Pontificia Accademia delle Scienze. In effetti se questo intervento desse il via a un nuovo dibattito sul tema e se si dovesse raggiungere la conclusione (da me condivisa) che il concetto di morte cerebrale non è scientificamente inattaccabile, ne discenderebbe per il Magistero, da sempre fautore della assoluta sacralità della vita, la non liceità dei prelievi di organo dai “cadaveri a cuore battente” e un danno incalcolabile per l’importantissima attività dei trapianto di organi (alla quale io sono invece del tutto favorevole). Credo che l’articolo in oggetto dimostri come l’intero argomento della fine della vita sia in piena evoluzione (e la precisazione in serata del portavoce della Santa Sede ne è, per altri aspetti, una ulteriore conferma). Il fatto fondamentale è che oggi, nelle nostre società la morte non è quasi mai un evento istantaneo, ma un processo più o meno lungo che viene profondamente influenzato dall’intervento medico. Si creano in questo processo diverse “soglie”, una delle quali è appunto la “morte cerebrale”; essa non coincide con la morte dell’organismo come un tutto (che si verifica solo dopo l’arresto cardiocircolatorio), ma è certamente un “punto di non ritorno” al di là del quale è superfluo continuare le terapie rianimatorie e al di là del quale è possibile, col previo consenso del malato o dei suoi familiari intesi come suoi portavoce, prelevare gli organi a scopo di trapianto.

l'Unità 3.8.08
Marino: quando il cervello si spegne l’individuo muore
di Natalia Lombardo


«Affermazioni di questo tipo possono causare gravi conseguenze su attività cliniche che ogni giorno salvano centinaia di vite umane», avverte Ignazio Marino, senatore del Pd, chirurgo e docente universitario specializzato in trapianti d’organo, capogruppo Pd in commissione Sanità.
Secondo lei mettere in discussione la morte cerebrale come fine della vita vuol essere una indicazione ai legislatori?
«Credo sia la posizione personale espressa da Lucetta Scaraffia, una persona che si occupa di bioetica e non una teologa; del resto la Santa Sede ha chiarito che non è una posizione ufficiale. Se così fosse, da domani non si potrebbero più prelevare degli organi da persone la cui morte cerebrale è stata accertata con criteri che derivano dal lavoro svolto nel ‘68 dall’Ad Hoc Committee di Harvard».
Criteri superati, per l’articolo dell’Osservatore Romano.
«Sono principi usati fino ad ora. Fino al ‘68 la morte era stata identificata con l’arresto del cuore e i conseguenti segni biologici, fino alla putrefazione. Nel ‘68, con i primi interventi di bypass, si fermava il cuore, si operava e lo si faceva ripartire; allora si è capito che la fine della vita non corrispondeva all’arresto del cuore, bensì al danno irreversibile al cervello, la morte cerebrale. Per accertare questa intuizione è stato riunito un comitato con medici e scienziati, uomini di legge e teologi. Ne uscì un lavoro molto rigoroso, una pietra miliare che da quarant'anni ha cambiato la definizione della morte e il modo di lavorare in ospedale. Da studente di medicina all’inizio degli anni ‘70 ricordo che si faceva un elettrocardiogramma di venti minuti prima di stabilire la morte. Oggi farebbe sorridere. I criteri di Harvard hanno cambiato anche la cultura: nell’arte e nella letteratura si è considerata la morte dell’uomo come la morte del cuore, spaccato dal dolore o fermato di colpo».
Nell’articolo si sospetta un interesse del comitato di Harvard, una sorta di fabbrica di trapianti. Un’offesa?
«Be' sarebbe riduttivo pensarlo. Come se gli scienziati, insieme a teologi e avvocati, si riunissero per trovare una giustificazione a quello che vogliono fare. Questa visione di una scienza che agisce nell’interesse di se stessa e non dell’uomo non è giusta».
Quante sono le vite salvate grazie ai trapianti?
«Siamo quasi al milione di vite salvate dal 23 dicembre 1954, con il primo trapianto di rene avvenuto con successo. Poi sono diventati una terapia corrente a fine anni ‘70».
Una dichiarazione del genere può essere pericolosa in un’epoca in cui si vuole rivedere tutto?
«Prendiamola come una provocazione, un’indicazione intellettuale e non morale. Se fosse morale io stesso, che ho dedicato venticinque anni della mia vita al trapianto di fegato, e tanti chirurghi nel mondo, dovremmo porci subito un quesito : se non fosse più valido l’accertamento di morte con l’elettroencefalogramma piatto ripetuto dopo sei ore, più una visita specialistica, vorrebbe dire fermare i trapianti e assumersi la responsabilità morale di migliaia di vite che morirebbero, senza più speranza».
E quello sì che sarebbe contrario a una logica cristiana...
«La Chiesa infatti ha sottolineato più volte l’importanza della solidarietà e della carità cristiana con la donazione degli organi. Far tornare a sorridere un bambino nato con un fegato malato è uno dei più straordinari passi fatti dalla scienza negli ultimi cento anni. Lucetta Scaraffia cita la donna alla quale è stata protratta la vita biologica per portare avanti la gravidanza: una scelta drammatica, ma quella donna era morta, il suo cervello si era spento e non si è risvegliato».
Un’attività biologica prolungata con la tecnica, mentre i trapianti restituiscono la vita. Non è una contraddizione per un cattolico?
«Io sono un credente, ho lavorato con i maggiori esperti di trapianti nella storia, come Thomas Starzl, anche atei, ma la definizione di morte cerebrale è solo scientifica: se il cervello è morto, lo è l’individuo».
Questo ripropone il problema del testamento biologico sul quale ha ripresentato la proposta di legge.
«Sì, firmata da 101 senatori, anche di centrodestra. Il fatto che esista una tecnologia non vuol dire che la si debba usare per forza. Se io posso dire che voglio spegnermi in modo naturale nel letto di casa mia, circondato dagli affetti, piuttosto che prolungare la mia agonia con una macchina, ecco, non credo che alcuna categoria morale possa impormi l’uso di una tecnologia. L’esaltazione della tecnica può diventare un’idolatria della scienza e, forse, una rinuncia all’umanesimo e alla carità cristiana».

l'Unità 3.8.08
Creare panico
di Maurizio Mori


La Consulta di Bioetica condivide che si debba ridiscutere la definizione di morte, come molti altri presupposti della tradizionale etica medica ippocratica. Ad esempio, si deve riconoscere che l'alimentazione e idratazione artificiali sono terapie mediche e possono essere sospese nei casi di SVP come Eluana Englaro. Forse si deve anche riconoscere che l'esatto confine del concetto di morte dipende da decisioni etiche più che da osservazioni fattuali - come osservato dal neurologo Carlo Defanti nel volume Soglie. Medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri, 2007).
Riteniamo che la bioetica comporti un ampio dibattito per rivedere proprio il tradizionale paradigma ippocratico, che non funziona più e va sostituito. Pertanto auspichiamo una più approfondita riflessione su tutte le questioni, avendo di mira l'ampliamento delle libertà individuali e la tutela delle persone.
Ma riteniamo altresì che l'articolo pubblicato da l'Osservatore Romano riveli la situazione di sbando della chiesa cattolica romana: non sapendo più come gestire le nuove tecniche e trovandosi in serissime difficoltà sul caso Englaro, preferisce gettare discredito su tutte le nuove tecnologie, venendo anche a rimettere in discussione i trapianti d'organo. Piuttosto che cedere su un punto, meglio distruggere tutto: muoia Sansone con tutti i filistei! Una tecnica antica per creare panico e favorire svolte conservatrici. L'obiettivo ultimo è chiaro: bloccare il caso Englaro e fissare delle barriere alla possibile legge sul testamento biologico, che sarà tanto restrittiva da essere inutilizzabile. In breve qualcosa di peggio della legge 40/2004.
La Consulta di Bioetica ritiene che ormai la chiesa cattolica stessa si ponga contro il progresso civile: è positivo che emerga la spirito conservatore promosso dalle gerarchie ecclesiastiche, ed invita a difendere i nuovi valori di libertà che vanno affermandosi nella società.
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus

l'Unità 3.8.08
A rischio 3000 trapianti l’anno se passa il Verbo della Chiesa
di Cristiana Pulcineli


Nel 2001 Adriano Celentano dichiarò, durante una trasmissione televisiva, di non credere al criterio di morte cerebrale. Nei giorni successivi i medici dei reparti di terapia intensiva degli ospedali di tutta Italia dovettero constatare una brusca caduta nella donazione degli organi. La cosa fu talmente clamorosa che è rimasta nella memoria degli addetti ai lavori con il nome di «effetto Celentano».
«Nei giorni successivo alla trasmissione - ricorda Mario Riccio, l’anestesista medico di Welby - mi trovai a chiedere al parente di un paziente l’autorizzazione per l’espianto degli organi. Il parente rifiutò dicendomi: ma ha sentito Celentano? L’effetto Celentano produsse nel giro di una settimana un crollo nelle donazioni che si tradusse nella morte di molte persone». Per ovviare al problema dovettero scendere in campo Umberto Veronesi, Renato Dulbecco e altri nomi della scienza italiana spiegando, dagli schermi televisivi, che la morte cerebrale è un criterio condiviso dai medici di tutto il mondo.
«Un effetto simile potrebbe essere prodotto dall’editoriale dell’Osservatore Romano», aggiunge Riccio. «Bisogna considerare che c’è moltissima gente che ha bisogno di un organo, e molti di essi non possono aspettare».
Ci sono due tipi di trapianti: quelli per i quali si può aspettare e quelli d’urgenza. Tra i primi c’è il trapianto di reni: il paziente può aspettare anche anni perché nel frattempo fa la dialisi. Tra i secondi ci sono una buona parte dei trapianti di cuore e di fegato. Ad esempio, un paziente con un’epatite fulminante che aspetta un trapianto di fegato non può aspettare oltre 48 ore. Un paziente con alcune patologie cardiache ha una settimana di tempo prima che il suo cuore ceda. In tutti questi casi un tentennamento dell’opinione pubblica che duri anche solo qualche giorno può essere fatale.
Come tutti sanno, del resto, la domanda di organi supera di molto l’offerta. In Italia si fanno oltre 3000 trapianti l’anno. La metà sono trapianti di rene, circa 1000 di fegato, 300 di cuore, 100 di polmone e solo una cifra esigua di pancreas e intestino.
Ma i trapianti dovrebbero essere molti di più: le liste d’attesa sono lunghe. Secondo i dati più recenti, 9400 pazienti italiani oggi aspettano un organo. Quelli che hanno bisogno di un rene sono 6813 e aspettano in media 3,1 anni. Per il fegato sono il lista d’attesa 1469 pazienti e attendono in media 1,9 anni. Per il cuore ci sono 864 pazienti e la loro attesa è di 2,5 anni.
Eppure, il criterio di morte cerebrale è stato stabilito quarant’anni fa e da allora non è stato messo in discussione. «Anche la Chiesa ha sposato il criterio di morte cerebrale», continua Riccio. Prima di quello spartiacque che fu il «rapporto di Harvard», la morte veniva diagnosticata quando il cuore smetteva di battere. Il 5 agosto 1968 la rivista scientifica JAMA pubblicò una ricerca della Harvard Medical School nella quale si riconosceva come alcuni casi di coma, la perdita irreversibile di qualsiasi funzionalità cerebrale e l’impossibilità di una respirazione autonoma fossero i nuovi criteri in grado di spostare il concetto di morte dal cuore al cervello. Un evento che ebbe un’importanza storica per i trapianti d’organo.
Gli organi, infatti, possono essere prelevati solo da un cadavere «a cuore battente»: se l’organo, che sia cuore, polmone o fegato, non viene irrorato dal sangue, muore e diventa inservibile. «Del resto, la morte cerebrale è uno stato transitorio che dura un periodo di tempo limitato e si conclude inevitabilmente con l’arresto cardiaco», spiega Riccio. A differenza dalla morte corticale, la morte cerebrale comporta il fatto che la persona non respira più autonomamente e perché il suo cuore batta è spesso necessario l’apporto dei farmaci.
«Oggi le regole in Italia per l’accertamento di morte cerebrale sono molto rigide. Ad esempio, dobbiamo tenere il soggetto adulto in osservazione per 6 ore prima di dichiararne la morte cerebrale. In altri paesi, ad esempio l’Inghilterra, i criteri sono meno stretti».
Le linee guida del resto sono in continua evoluzione: nell’aprile scorso un decreto ha aggiornato i criteri per l’accertamento della morte cerebrale. Tra i nuovi obiettivi c’è quello di rendere possibile l’esecuzione di tecniche strumentali diagnostiche permesse dell’odierno sviluppo tecnologico, inesistenti all’epoca del decreto originale.
Ma il tema è ancora molto delicato tanto che la famosa legge del 2001 riguardo il consenso al prelievo (la famosa regola del silenzio assenso) è bloccata. I decreti attuativi non sono ancora operativi e oggi l’assenso al prelievo degli organi (o, per maggiore precisione, la dichiarazione di non opposizione al prelievo) può essere data solo da un parente di chi si trova nello stato di morte cerebrale.

l'Unità 3.8.08
Centro nazionale trapianti
«Quei criteri non sono mai stati messi in discussione»


I criteri di Harvard che stabiliscono le modalità con cui si può dichiarare il decesso di un individuo a partire dall’accertamento della morte cerebrale «non sono mai stati messi in discussione in 40 anni dalla comunità scientifica, e vengono applicati in tutti i paesi scientificamente avanzati, dall’Europa all’America, dall’Asia all’Australia».
Il presidente del Centro Nazionale Trapianti, Alessandro Nanni Costa, ribadisce il valore del criterio della morte cerebrale per stabilire la fine di una vita. «I dubbi ci sono sempre stati - conferma Costa - ma da parte di frange minoritarie, che fanno critiche di carattere non scientifico». In 40 anni l’evoluzione tecnologica ha fatto passi da gigante, «ma questi criteri sono sempre stati confermati». La morte cerebrale è ben altra cosa dallo stato vegetativo: «Nel primo caso le cellule cerebrali non mandano più impulsi elettrici, non c’è respiro spontaneo nè il controllo delle funzioni vegetative come la diuresi, ed è assente il riflesso dei nervi cranici. Tutti elementi che sono invece presenti nello stato vegetativo». Secondo la legge, dunque, «la morte cerebrale significa di fatto la morte dell’individuo. Uno stato accertato da più medici, in un arco di sei ore, con procedure codificate estremamente precise e che non lasciano adito a dubbi».

l'Unità 3.8.08
Con un decreto cambiano le elementari
Maestro unico e solo 24 ore. Sparirà il tempo pieno, a rischio 80mila insegnanti. Gelmini: dal 2009 e solo in prima
di Maristella Iervasi


LA SIGNORA dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ha spiazzato tutti. Il maestro unico è già legge. Il decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale che doveva sancire solo il 5 in condotta, i voti in numeri in pagella e la nuova materia: Cittadinanza e Costituzione, riforma invece in toto la scuola elementare: uno dei modelli di qualità vantati in Europa. Un blitz in piena regola che ha spiazzato genitori e insegnanti e provocato un terremoto nelle scuole da ieri aperte per organizzare le classi, i programmi di studio, coprire i «buchi» sul sostegno e le malattie. Un mossa quella del duetto Gelmini-Tremonti «studiata» per blindare la restaurazione del ritorno dell’insegnante unico nella scuola primaria con un orario già fissato per decreto: 24 ore settimanali, 6 ore di lezione in meno rispetto ad oggi. Un modo per sancire la fine del modulo e la conseguente agonia del tempo pieno. Una strategia per dare «forza giuridica» al «massacro» della scuola - il taglio di 90mila docenti e 43 mila tra bidelli e segretari in meno entro il 2012. Ma che di fatto «tappa la bocca» al confronto e alla concertazione politica e sindacale. E fuori sacco è stata introdotta anche - con «raccapriccio» degli editori - la disposizione che i testi scolastici dovranno durare per 5 anni.
Mondo della scuola e famiglie in subbuglio. Così si è svegliata ieri l’Italia. 104mila le classi di primaria funzionanti a modulo (tre insegnanti per due classi); 33mila quelle a tempo pieno. Un totale di circa 245mila insegnanti, di cui 6mila non di ruolo. 5mila invece i pensionamenti previsti nell’anno. Se si aprisse la sperimentazione del maestro unico solo dalla prima elementare verrebbero spazzati via 16.640 posti docente. Se si partisse a regime su tutte e cinque le classi (modulo e tempo pieno), il «risparmio» conseguente del taglio sarebbe di 80mila posti per maestro. Una rivoluzione da restaurazione contro il sapere. Gli studenti imparerebbero appena a leggere, scrivere e contare. E con questo scarso bagaglio nozionistico entrerebbero poi alla scuola dei “grandi”, le medie. Un avvio d’anno scolastico, dunque, al cardiopalma. «Sciopero» unitario e mobilitazione dei docenti è la risposta del sindacato Flc-Cgil, Uil e Cisl-scuola. E non è detto che non coincida con l’ingresso o giù di lì degli studenti nelle aule. Mentre il tam tam corre anche su Internet e nelle città della penisola spuntano Comitati contro il ritorno al passato del maestro generalista: raccolte di firme e fax di protesta per «inondare» la Gelmini. Mentre i precari della scuola invitano gli italiani ad appendere un drappo nero sui balconi. «Un calcio nei denti ai bambini e alle bambine» commenta Enrico Panini, segretario nazionale della Federazione lavoratori della conoscenza. «Un attacco spietato del governo al loro diritto ad avere una scuola più ricca e non più povera di opportunità», precisa. Durissimo anche il sindacato degli insegnanti, il Gilda: «Un colpo di mano che fa tornare indietro di oltre 20 anni. Non è mai capitato nella storia d’Italia - sottolinea Rino Di Meglio - che una riforma dell’ordinamento scolastico venisse varata con un decreto legge». Massimo Di Menna della Uil, chiede chiarezza e trasparenza: «Il governo - dice - ha introdotto una rigidità prima ancora della discussione con i sindacati». E Fracesco Scrima della Cisl-scuola parla di «pedagogia da cassa». Intanto, leggendo l’art.4 del decreto salta agli occhi il mancato uso del congiuntivo: «è ulteriormente previsto che le istituzioni scolastiche costituiscono classi affidate ad un unico insegnante...». Ancora un errore da matita rossa blu per il ministero dell’Istruzione dopo la «gaffe» sulla poesia di Montale alla maturità?. Il ritorno del maestro unico in classe - mandato in pensione dal’90 dal ministro Mattarella - non scatterebbe subito solo per questioni organizzative ma l’insegnante sarebbe solo in cattedra dall’anno 2009-2010. La stessa Gelmini vista la «furia» della polemica e dello sconcerto in atto della popolazione è stata costretta a precisare: «Sarà un ritorno soft e verrà introdotto solo nella prima classe del ciclo. Quindi entrerà a regime gradualmente». Ha rassicurato anche sul tempo pieno: «Non è affatto incompatibile con il ritorno del maestro unico», ha detto la responsabile dell’Istruzione. Poi, a chiusa della nota è tornata sul bilancio della scuola, speso per il 97% per pagare gli stipendi di un milione e 300 mila dipendenti. «Così la scuola non ha futuro» - ha concluso Gelmini, ribadendo la sua litania: meno insegnanti ma meglio pagati».
Dure le reazioni del Piddì. «Il maestro unico non è un romantico ritorno al passato. Significa una settimana di 24 ore, senza pomeriggi a scuola, senza attività integrativa e bambini in casa», sottolineano il ministro ombra Maria Garvaglia e Maria Coscia, responsabile scuola del partito.

l'Unità 3.8.08
Luigi Guerra. Il preside di Scienza della Formazione a Bologna: se il progetto andrà avanti la scuola italiana rischia il black out
«È una follia, colpiranno le fasce più deboli»
di Alice Loreti


Luigi Guerra è preside di Scienze della Formazione, a Bologna. Nella sua facoltà, si formano (anche) i futuri docenti delle elementari. Ma con la reintroduzione del maestro unico e la cancellazione del tempo pieno, dice preoccupato, «la scuola italiana rischia il black-out».
Professore, qual è il valore del tempo pieno?
«Questo modello ha avuto e ha tutt’ora un valore enorme per la scuola italiana. Andando indietro nel tempo, alle sue origini, ha avuto un ruolo fondamentale. Storicamente, ha ridotto la disuguaglianza sociale. Prima, a seconda del territorio, della situazione familiare e della classe di appartenenza, i bambini avevano una diversa esposizione alle agenzie culturali. I figli dei ricchi, della borghesia, avevano accesso ad una ricca offerta formativa, al di là delle 4 ore di scuola. Quelli di famiglie operaie, invece, a quei tempi si limitavano all’apprendimento delle materie classiche, italiano e matematica, che avveniva solo a scuola. Non potevano avere nulla di più».
E il tempo pieno ha risolto questo, chiamiamolo così, problema riguardante i rapporti sociali e di classe?
«Il modello inaugurato in Emilia-Romagna ha elevato l’offerta formativa, arricchito le opportunità educative, rendendole accessibili a tutti. Ha svecchiato il sistema scolastico, non più depositario di saperi, creando un modello in cui la cultura si costruiva e in cui vi erano i tempi necessari per farlo. Insomma, si è tolto spazio alla mera riproduzione a memoria dei contenuti, per lasciarne alla ricerca, alla cultura, a nuovi linguaggi, come il teatro, la musica, l’arte figurativa. Aprire gli istituti nelle ore pomeridiane ha permesso di ampliare le discipline, suscitando una viva e sana dialettica formativa. Inoltre, ha provocato l’uscita della figura della maestra con la penna rossa e blu, grazie alla pluralità di figure docenti che il tempo pieno comporta».
Quella maestra con la penna blu e rossa rischia di tornare. Cosa ne pensa?
«Sono sgomento. Il ministro Gelmini si permette di presentare questo modello come un’innovazione, ma non è altro che un ritorno nostalgico al passato del dopoguerra. È una follia. Si stanno muovendo sul fronte universitario e scolastico come vogliono, facendo credere quello che vogliono, grazie alla padronanza dei media. Mi meraviglio di come troppe poche voci, anche universitarie, si siano alzate con sdegno contro questa proposta. Il Governo maschera il suo disimpegno ad investire per la scuola e la chiara volontà politica nel non voler proteggere le classi più deboli, con una soluzione di dignità per il sistema scolastico e le famiglie».
Cosa comporterà la reintroduzione del maestro unico?
«La perdita della dialettica pedagogica, l’impoverimento delle relazioni e degli insegnamenti. Il tuttologo cancella la cultura e la ricerca. Come può un docente conoscere bene tutte le discipline, compreso l’inglese ed insegnarle costruendo ricerca e cultura? È impossibile. E come riuscirà ad affrontare la pedagogia in classi eterogenee come sono quelle attuali? Sui banchi delle nostre scuole vi sono bambini pakistani, italiani, cinesi, indiani; ricchi e poveri. Un docente, da solo, non può relazionarsi con tutto questo con successo, con la qualità ed il tempo di cui c’è bisogno. Due docenti che lavorano nella stessa classe si confrontano, fanno la programmazione insieme. Se ad esempio uno è patito di Garibaldi, l’altro gli dirà di fare anche Napoleone. Se, ancora, uno insiste sulla matematica, l’altro gli ricorderà l’italiano. In due vi è più ricchezza, anche per gli alunni. Un bimbo che non si trova con un docente, e può capitare, ha la possibilità di avere un’altra figura adulta con cui dialogare. Con un solo maestro tutto questo viene a mancare. E parla uno che è contro la proliferazione delle figure. A mio avviso, due o tre insegnanti sono sufficienti».
Qual è il futuro della scuola? Crede sia a rischio?
«Se il progetto del ministro andrà avanti così come ha annunciato, la scuola italiana rischia un black-out. Sono molto preoccupato dal modello formativo che vogliono improntare. Le regioni in cui il tempo pieno è poco radicato, in cui c’è stato poco tempo per costruire una squadra di docenti, soffriranno maggiormente. In Emilia Romagna, il tempo pieno è diventato un modello culturale, vi sono più risorse. Sarà difficile distruggere tutto e subito. Per questo ritengo sarà il luogo in cui si combatterà di più, io per primo. Credo sia necessario che gli enti locali riprendano il loro protagonismo, creando una forte alleanza, per scongiurare tutto questo. Il vero rischio è che si tolga tempo e spazio per l’handicap, per i bambini che hanno bisogno di cure particolari. Saranno loro a risentirne maggiormente».

l'Unità 3.8.08
Il ministro: va studiato nelle scuole. Ma per il «collega» ombra: bisogna guardare avanti. Esilarante duetto sull’arte contemporanea
Se Bondi rivaluta Gramsci e Cerami lo scarica
di Andrea Carugati


Antonio Gramsci protagonista in un dibattito sulla cultura alla festa del Pd di Firenze. Detta così non è una notizia sconvolgente, ma la novità è che ieri i ruoli si sono ribaltati tra i due protagonisti del confronto, il ministro della Cultura Sandro Bondi e il suo collega «ombra» Vincenzo Cerami. «Gramsci è un intellettuale su cui tutti devono riflettere, non è solo un pensatore comunista, ma dell’Italia, per questo è giusto che venga studiato nelle scuole», ha detto Bondi. E Cerami: «Con Gramsci ho fatto colazione, pranzo e cena per 30 anni, se ci prendiamo una pausa non è male. Gramsci lo metto sul comodino e mi guardo intorno. Davanti abbiamo un orizzonte completamente nuovo, che non ha nessun legame con il passato. Dunque non possiamo guardare sempre indietro». Dunque Gramsci finisce nel cassetto? «Possiamo leggere e goderci la sua grande scrittura, studiarlo per capire da dove veniamo, ma poi guardare avanti», dice Cerami.
Il botta e risposta nasce da una provocazione del moderatore Marino Sinibaldi (autore e conduttore di Fahrenheit su Radiotre), che aveva sottolineato come questa estate fosse stata soprattutto la destra a parlare di Gramsci. E Cerami risponde: «Ogni tanto ci provano ad appropriarsene, ci aveva già provato Veneziani qualche anno fa. Ma sono gli eredi di quella destra che l’ha condannato a morire in carcere».
Si parte parlando dei massimi sistemi, di globalizzazione e fine delle ideologie, di una società frantumata in cui, dice Bondi, «l’uomo è solo» e «bisogna passare dall’io al noi». Cerami è d’accordo ma lo richiama rapidamente alla dura realtà: «Visti i soldi che il governo ha destinato alla cultura anche tu sei un ministro ombra. Il sapere è considerato una cosa superflua». Bondi se la cava storicizzando: «Le classi dirigenti italiane hanno sempre sottovalutato la cultura, lo diceva anche Spadolini…». Poi corregge il tiro: «Io sono d’accordo con Tremonti, la spesa pubblica deve diminuire». Ma il bello arriva sull’arte contemporanea. A Bondi certe opere viste al «Madre» di Napoli proprio non sono andate giù, soprattutto La Vasca dell’artista indiano Anish Kapoor: «Ho visto un tappeto nero e gente che per sembrare colta diceva “molto interessante”. Ma sfido chiunque...». «No, la prego», ribatte Cerami. «Quello era un trompe l’oeil, lo spettatore non sa se si tratta di un tappeto o di una voragine. È un’opera che si porta dietro mille metafore sullo smarrimento. Forse lei l’ha vista in modo troppo realistico e si è fermato al tappeto...». Bondi: «Io ho detto attenzione che qui qualcuno ci cade dentro». E la rana crocefissa del museo di Bolzano? «Offende i sentimenti cristiani e il buon senso, come ha detto il Santo Padre», si infervora Bondi. «Certe cose non so proprio se si dovrebbero chiamare arte, c’è tanta gente di sinistra che la pensa come me. Se l’obiettivo è provocare e dissacrare non è arte». Cerami allarga le braccia: «Da che mondo è mondo l’arte è dissacrazione. E se dipingessi un cardinale che bacia una monaca, una madonna a torso nudo con attorno uno sciame di spermatozoi o il culo di Dio?». Bondi quasi sviene: «Mio dio, come si è ridotta la sinistra oggi». Cerami lo rassicura: «Sono tre opere di Schiele. Munch, e Michelangelo nella Cappella Sistina». Bondi si rianima: «Ho solo espresso uno stato d’animo, non un giudizio...». La platea ride, poi c’è spazio anche per reciproche cortesie: «Sono venuto qui per rendere omaggio a lei come ministro ombra, come persona e scrittore», dice Bondi. E le poesie del ministro piacciono a Cerami? «È un poeta di cuore», è la risposta che il forzista accoglie come «un grande complimento».
Poi, dopo la fine del dibattito, Cerami aggiunge, con un sorriso: «Come poeta è un po’ prevertiano, ma sull’arte contemporanea è sprovveduto, come critico non avrebbe le carte in regola...».

Corriere della Sera 3.9.08
Anoressici e bulimici quattro su cento
Come cresce in Italia la fobia del cibo
di Margherita De Bac


Per non pensare al cibo Laura ha deciso di pensarci dalla mattina alla sera. No, non è una contraddizione, per lei come tante donne afflitte da anoressia. Dopo ripetuti tentativi di liberarsene, è arrivata alla conclusione che il sistema migliore di esorcizzare il rapporto con il mangiare sia dedicarsi a cucina, gastronomia, spesa.
Laura è diventata un'ottima cuoca. Prepara piatti sopraffini per i familiari, che non resistono a tanta bontà e ingrassano. Accumula ricette strappate dalle riviste, frequenta corsi per migliorarsi, resta incollata davanti alla televisione non appena trasmettono uno spazio sull'alimentazione e trascorre ore ai fornelli. Senza assaggiare mezzo cucchiaino, ovviamente. Inoltre, sa indicare la pasticceria che vende il migliori dolci della città. E' la sua cura, questa. Perché in realtà non ritiene sia necessario curarsi. Essere magra fino all'osso e nutrirsi d'aria dal suo punto di vista non è un problema. Stile di vita, scelta personale.
La stessa convinzione di Laura tiene lontane dai servizi oltre il 50% delle persone con disturbi del comportamento alimentare. Fenomeno molto preoccupante, visto che il successo dei trattamenti in questi casi dipende dalla precocità degli interventi.
E' uno dei dati che saltano agli occhi scorrendo la ricerca condotta da Esemed (European study of the epidemiology of mental disorders) e Organizzazione mondiale della sanità in sei Paesi europei, 500 milioni di euro investiti. Primo lavoro analitico sull'epidemiologia delle malattie mentali.
Ne sono derivati diversi approfondimenti tra i quali l'indagine specifica su anoressia nervosa, bulimia nervosa, iperalimentazione incontrollata (binge eating) e disordini «sottosoglia», meno catalogabili dal punto di vista diagnostico.
Oltre quattromila interviste a cittadini di età tra 18-50 anni (non gli adolescenti per una questione di consenso informato e si pensa che fra loro le percentuali siano più alte) effettuate con la stessa strategia analitica di Ron Kessler, uno dei maggiori psichiatri del mondo. Coordinatore del progetto globale, l'italiano Giovanni de Girolamo, psichiatra della Asl di Bologna.
E' stato possibile mettere a confronto le situazioni di Italia, Germania, Francia, Spagna, Belgio e Olanda. In questi sei paesi mediamente 5 adulti su 100 dichiarano di aver sofferto nel corso della vita di uno di questi disturbi.
La prevalenza è più alta in Francia (7%) e Belgio (5,15%), mentre l'Italia è al di sotto dell'asticella con poco più del 4%, tampinata da Olanda, Germania e Spagna.
Anoressia e bulimia nervosa incidono per l'1% circa, seguite con 1,85% da binge eating (incontrollata necessità di ingurgitare cibo a volontà, soprattutto di nascosto) e altri problemi 2,15%. L'esordio della malattia è spesso tra 10 e 20 anni, dopo la pubertà, con un picco tra 14 e 19 anni.
Le donne sono fino a 7 volte più numerose degli uomini.Dopo aver ricevuto la diagnosi però appena il 48% dei bulimici, il 37% degli anoressici e il 30% del resto del campione riferiscono di aver preso contatto con specialisti per valutare di intraprendere un trattamento.
Per Antonio Preti, psicologo dell'università di Cagliari, che ha lavorato con Esemed, la resistenza a farsi seguire dai servizi ha ragioni ben precise: «Chi soffre riconosce i sintomi come coerenti col personale stile di vita, col suo modo di pensare. Un atteggiamento che definiamo egosintonia. Se poi, avvertendo depressione o ansia, decide di chiedere aiuto, si rivolge allo psicologo o al medico di famiglia ma non allo psichiatra esperto di alimentazione. Anche quando sono presenti sconvolgimenti organici come lesioni allo stomaco, vomito, complicazioni cardiovascolari».
Molto spesso i non specialisti (generalisti, pediatri, dentisti, ginecologi) non sono capaci di andare oltre l'apparenza, di sospettare diagnosi più complicate. L'anoressia viene scambiata per «stranezza» nel 50% dei casi, la bulimia viene individuata in appena 1 caso su 10 perché non si manifesta con eccessiva magrezza.
Paola Miotto, responsabile del centro per i disturbi dell'alimentazione di Piave di Soligo Veneto, ha visto passare nel suo ambulatorio un centinaio di pazienti arrivati in ritardo, età media 17 anni: «I dentisti ancora oggi non si accorgono che l'erosione dello smalto può essere dovuta alla mancanza di cibo. I ginecologi non sospettano che dietro una amenorrea (assenza di ciclo mestruale) può nascondersi una forma di anoressia o di bulimia. C'è ancora molto da fare per sensibilizzare medici, insegnanti, genitori». Rispetto agli altri Paesi in Italia si riscontra una minore sovrapposizione di anoressia e bulimia con altre malattie mentali (comorbilità).
Il 30-40% degli intervistati raccontano di aver sofferto di depressione grave, di ansia (40%). «Schizofrenia e disturbi bipolari sono rari ma abbiamo notato un certo incremento», dice Preti.
Di solito ad accendere questi disturbi, latenti fin dalla nascita, quando viene avviato il processo dell'autostima, è l'interruttore di una dieta dimagrante. «Sono comportamenti di difesa da un disagio psichico profondo. Non credo che la spinta dipenda dal cercare di emulare modelli estetici imperanti, come la linea filiforme delle indossatrici. Attraverso il controllo del corpo e dell'io si pensa di riuscire a contrastare la sofferenza interiore. Ecco perché c'è resistenza a recarsi ai servizi. Hanno bassa stima di se stesse, queste ragazze non si accettano ».
L'unica cura efficace è la diagnosi precoce e l'avvio tempestivo di trattamenti integrati con psicologi, nutrizionisti, psichiatri. Rara la prescrizione di farmaci a meno che non emergano aspetti psicotici. Nel centro trevigiano la giornata dei pazienti seguiti in ambulatorio viene occupata da arteterapia, incontri di gruppo, equitazione, biodanza. L'obiettivo è la ristrutturazione interiore.

Corriere della Sera 3.9.08
L'esperto: «Il vero problema è l'alimentazione incontrollata»
di Mario Pappagallo


C'è abbuffata ed abbuffata. Se, però, si ripetono con frequenza elevata, diventando quasi un'abitudine, esse sono la spia di vere e proprie patologie. Infatti, a seconda che le abbuffate siano seguite o meno da comportamenti di compenso (vomito autoindotto, abuso di diuretici o lassativi, digiuno prolungato, eccessiva attività fisica), possono configurarsi i quadri clinici della bulimia nervosa o del binge eating disorder (nella traduzione non letterale italiana, disturbo da alimentazione incontrollata).
Di che cosa si tratta? Risponde Mario Maj, psichiatra della II università di Napoli e presidente della Società mondiale di psichiatria (Wpa): «Il binge eating disorder è caratterizzato, come la bulimia nervosa, da episodi di abbuffate o più spesso da giornate ricorrenti di alimentazione incontrollata, con ingestione di grandi quantità di cibo anche senza sentirsi affamati e con la sensazione di non riuscire a fermarsi o a controllare che cosa e quanto si sta mangiando. Dopo questi episodi, a differenza di quanto accade nella bulimia nervosa, le persone con binge eating disorder non mettono in atto comportamenti di compenso (quali vomito autoindotto, abuso di lassativi, digiuni o esercizio fisico eccessivo), che mirano ad eliminare le calorie ingerite. Di conseguenza, esse vanno incontro ad un aumento di peso, diventando obese e, spesso, si ritrovano tra i cosiddetti "grandi obesi". Sono presenti abitualmente sentimenti di sconfitta, di colpa e di disgusto per se stesso e per le proprie dimensioni corporee e vulnerabilità nelle relazioni interpersonali».
I numeri? Qual è l'entità del fenomeno? «La prevalenza del binge eating disorder nella popolazione generale viene valutata tra lo 0.7% e il 4%. Tra le persone che si sottopongono a programmi di controllo del peso, la prevalenza del disturbo è stimata tra il 15 e il 50%, in media 30%. In uno studio condotto negli Stati Uniti tra i frequentatori dell'Overeating Anonymous, un'associazione comprendente prevalentemente casi gravi di obesità, la percentuale delle persone con binge eating disorder era del 70%. In Italia, si stima che il disturbo interessi circa un milione e 300 mila persone. E' leggermente più frequente nelle donne che negli uomini (il rapporto è di 3 a 2)».
L'età a rischio? «L'insorgenza del disturbo avviene di solito nella tarda adolescenza o nella terza decade di vita, ma la diagnosi è di solito ritardata di diversi anni».
Quale la cura? «Il trattamento della bulimia nervosa e del binge eating disorder prevede un approccio integrato multidisciplinare, con l'intervento dello psichiatra, dello psicologo, del nutrizionista e, nei casi con complicazioni organiche, anche dell'internista. Al momento, si ritiene che le maggiori probabilità di successo terapeutico siano garantite dalla contemporanea pratica di un counselling dietetico-nutrizionale, di una farmacoterapia e della psicoterapia ».

Corriere della Sera 3.9.08
Spagna La decisione è figlia della Legge sulla memoria. E divide il Paese: a favore i socialisti, contro i popolari
Guerra civile, Garzón lancia «l'operazione verità»
Censimento di tutte le vittime: saranno setacciate anche le sacrestie di 23mila chiese
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — Per ora il giudice Baltasar Garzón vuole soltanto sapere quanti sono: quanti fucilati, quanti dispersi, quanti sepolti ignoti ci siano ancora nei cimiteri di campagna, nella terra nuda e, naturalmente, nel più imponente mausoleo della Guerra civile spagnola, il Valle de los Caidos, a poche decine di chilometri da Madrid, vicino all'Escorial. Il magistrato ha chiesto al governo, ai comuni di Madrid, Siviglia, Granada e Cordoba, alla conferenza episcopale, all'abate Anselmo Alvarez, custode della basilica e di 34 mila tombe, tra le quali quella di Francisco Franco, di collaborare al primo censimento «giudiziario» delle vittime di un conflitto che la Spagna ha preferito, per trent'anni, non rivangare. Né quantificare con precisione.
Ma, in virtù della legge sulla Memoria storica, approvata dal parlamento spagnolo alla fine del 2007, tredici associazioni che da anni si battono per disseppellire corpi e ricordi hanno chiesto al tribunale nazionale di far luce sulla sorte di migliaia di persone, in maggioranza appartenenti al bando repubblicano e ancora senza una lapide o un certificato di morte.
La richiesta del giudice a parrocchie, istituzioni, municipi, registri pubblici di fornire ogni dato o documento disponibile sulle fosse comuni o su altre sepolture provvisorie per combattenti e civili uccisi durante la repressione franchista, dovrebbe servire a stabilire la competenza di un'indagine che si apre oltre settant'anni dopo. Ancora non è un'inchiesta diretta a stabilire responsabilità o a emettere condanne. Ha un limite temporale: intende risalire fino al 17 luglio del 1936, il giorno della «Sollevazione nazionale», il golpe guidato da Franco, al tempo generale dell'esercito. Per la Procura è un caso da archiviare, un argomento di discussione soltanto storica o politica. Garzón potrà conformarsi a questa opinione o mandare la polizia giudiziaria a frugare nelle sacrestie di 22.827 chiese, negli schedari locali e nazionali, tra i verbali delle esecuzioni più o meno sommarie, per tentare di dare una risposta ai discendenti degli scomparsi.
A riflettere con calma sul dilemma non lo aiuterà il clima che ha generato la notizia. In Spagna sembra ancora troppo presto per dissigillare quel capitolo: «Riaprire le ferite del passato non porta a niente, chiunque lo faccia » si è schierato il presidente del Partito popolare, e leader dell'opposizione, Mariano Rajoy, che non ha mai nascosto il suo dissenso dalla legge sulla Memoria storica voluta dal governo socialista di José Luis Rodriguez Zapatero. Che, riguardo all'iniziativa del magistrato, ha espresso invece solo la sua «considerazione di rispetto ». Lo scopo della legge, secondo il premier, è di «ampliare e riconoscere i diritti di coloro che soffrirono le conseguenze della guerra civile e della dittatura». Non la vede così l'eurodeputato dei popolari, Jaime Mayor Oreja, secondo il quale è invece «una delle leggi più perniciose » elaborate dai rivali. Nemmeno le indagini online dei quotidiani danno risultati concordi: il 71% dei lettori di El Pais si dichiara favorevole al censimento dei desaparecidos, il 77% degli intervistati da El Mundo è invece contrario.

Corriere della Sera 3.9.08
Colonialismo, i conti che non si fanno
Resta il silenzio della destra sui crimini dei nostri soldati in Africa
di Gian Antonio Stella


Ha detto Mario Borghezio che Berlusconi è andato da Gheddafi «con il cappello in mano» e che l'accordo con la Libia «non è stata una pagina dignitosissima». Nessuna meraviglia: ogni tanto un rutto della giovanile fede fascista gli scappa. Di più: le cose che pensa (anche le più orrende) lui almeno le dice. A distanza di alcuni giorni di inossidabili silenzi, colpisce invece come la destra italiana abbia perduto un'altra occasione per riflettere pubblicamente sul proprio passato. Riflettere: non strappare. Nessuno mette in discussione come Gianfranco Fini (in nome di una An talora recalcitrante) abbia dato negli anni una serie di strappi radicali. Che hanno via via portato lui e il partito a lasciarsi alle spalle i tempi in cui teorizzavano che «per essere di nuovo determinante il Msi deve saper essere anche figlio di puttana » per approdare al Pdl e al Ppe. Ma si è trattato, appunto, di strappi. Positivi. Coraggiosi. Giusti. Ma strappi. Che spinsero perfino Marcello Veneziani a dire che i camerati si erano «liberati del fascismo come di un calcolo renale».
Pubblici lavacri, necessari a prendere coscienza fino in fondo e dolorosamente degli errori, pochini. Anzi, è sempre riaffiorata la tentazione di dire che il fascismo è stato una brutta cosa però, in fondo in fondo... Basti ricordare quanto sfuggì allo stesso Fini un paio di anni fa: «Se guardiamo a Somalia, Etiopia e Libia, a come sono ridotte adesso e a com' erano prima con l'Italia, credo che questa pagina della storia sarà riscritta e ci sarà una rivalutazione del ruolo dell'Italia ». Per non dire del compiacimento verso il Cavaliere quando sentenziò che «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno e i suoi avversari li mandava in vacanza nelle isole».
Ecco, le pubbliche scuse (sia pure vaghe) alla Libia sono un passo importante. Che anche Angelo Del Boca, tra i primi a smascherare le balle del bravo colonialista italiano, ha giustamente benedetto. Ma il silenzio assordante della destra sulle responsabilità dei nostri soldati giolittiani e soprattutto fascisti al comando di un macellaio come Rodolfo Graziani (a guerra finita eletto presidente del Msi) è davvero una nuova occasione perduta.
Ai tanti smemorati che si rifiutano di ricordare i bombardamenti proibiti con i gas tossici, le decine di migliaia di vecchi, donne e bambini morti nei campi di concentramento della Sirte e della Cirenaica, la spaventosa carneficina di Addis Abeba, offriamo da rileggere almeno un telegramma a Badoglio del 28 dicembre '35: «Dati sistemi nemico autorizzo V.E. all'impiego anche su vasta scala di qualunque gas et dei lanciafiamme. Firmato: Mussolini». E una pagina di «Ali sul deserto» dell'aviatore Vincenzo Biani del 1934: «Gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire le piste dei fuggiaschi e trovarono finalmente sotto di sé un formicolio di genti in fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si riscontra solo nelle masse sotto l'incubo di un cataclisma; una moltitudine che non aveva forma, come lo spavento e la disperazione di cui era preda; e su di essa piovve, con gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava. Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le mitragliatrici. Funzionavano benissimo (...) Nessuno voleva essere il primo ad andarsene, perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo».

Repubblica 3.9.08
"Carceri affollate come prima dell´indulto"
Uno studio allarma il governo. Alfano promette dialogo sulla giustizia, freddo il Pd
Il guardasigilli vede Maroni per discutere di "braccialetto" e di espulsioni
di Luana Milella


ROMA - Le proiezioni sono sul suo tavolo da alcuni giorni. E turbano le notti del Guardasigilli Angelino Alfano. Le ha messe a punto il Dipartimento delle carceri. Contengono una previsione che fa stare sulle spine il ministro e tutti coloro che, nelle sue consultazioni sulla riforma della giustizia, le hanno apprese. Capo dello Stato, colleghi di governo a partire dal ministro dell´Interno Roberto Maroni, Silvio Berlusconi, la presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno. Il rapporto dice che, giusto tra otto mesi, il numero dei detenuti in Italia supererà quota 63mila (oggi sono 55.369). È il tetto che, nel maggio 2006, portò il governo Prodi a imboccare la via dell´indulto. «Inutile», dunque, la misura di allora. «Improponibile» oggi.
Alfano l´ha detto una settimana fa al meeting di Cl, lo ha ripetuto ieri a Pier Ferdinando Casini durante il seminario a porte chiuse dell´Udc e del Ps di Riccardo Nencini sulla giustizia, dove c´era anche il consigliere giuridico del Colle Loris D´Ambrosio, quando ha rivelato che le carceri stanno di nuovo per scoppiare. «Che pensi di fare?» gli ha chiesto il leader centrista. Lui, di rimando: «Certo non possiamo pensare a un nuovo indulto». Anche perché, Alfano ne ha avuto la conferma dopo gli incontri con Bongiorno e Maroni, né An né la Lega sarebbero d´accordo su una misura svuota carceri. Eppure la situazione si preannuncia disperata. Al punto da fargli dire ieri: «È chiaro che se dovesse scoppiare una rivolta ne sarei il responsabile. Non c´è tempo da perdere, sono urgenti misure drastiche ed efficaci sul carcere».
Nell´"agenda" di Alfano, prima delle riforme costituzionali (Csm, carriere, obbligatorietà) e assieme agli interventi sul processo civile e penale, c´è il pacchetto carceri. Che non conterrà la via più semplice, costruire nuovi penitenziari, perché una verifica col ministro dell´Economia Tremonti ha confermato che la cassa della giustizia è vuota. Il ministro pensa a un ddl illustrato, nelle linee essenziali, a Napolitano. Di cui ha iniziato a discutere con Maroni, in un paio d´ore di colloquio al Viminale, dopo il lasciapassare di massima dell´aennina Bongiorno sulla filosofia d´intervento. Se l´obiettivo è far calare il numero dei detenuti le mosse di Alfano sono tre: rimandare nei paesi d´origine quelli condannati per reati lievi; rispolverare il braccialetto elettronico (varato nel 2001 in via sperimentale, non è mai decollato, i 500 esemplari disponibili giacciono inutilizzati); sanzioni sostitutive per le condanne sotto una certa pena (da stabilire).
Un progetto che potrebbe ottenere il placet dell´Udc di Casini, partito pronto al dialogo sulla giustizia, ma a patto che le riforme puntino ad accelerarne i tempi e non siano «uno scambio tra cannibali» come nella stagione delle leggi ad personam. Casini non considera urgente la separazione delle carriere, ma apre sul Csm nella formula del democratico Violante (tre fasce, scelte da capo dello Stato, Camere, toghe). Alfano offre il dialogo, ma nel Pd se Violante e Franceschini sono disponibili, la Finocchiaro accetta solo leggi sull´efficienza e boccia le modifiche costituzionali.

Repubblica 3.9.08
Uomini infedeli? Tutta colpa di un gene
La medicina trasformerà il seduttore in un compagno monogamo
di Enrico Franceschini


Una ricerca svedese scopre il rapporto tra il Dna e le relazioni extraconiugali Gli esperimenti effettuati sui roditori confermano. E ora la medicina può immaginare una cura

LONDRA. Sembra la scusa perfetta per il marito colto in flagrante: "Scusa, tesoro, ma sono nato così, non è mica colpa mia". Scienziati svedesi hanno infatti scoperto il gene dell´infedeltà: una specie di motorino che alcuni maschi hanno nel proprio Dna e altri no. Non è uno scherzo, e gli studiosi sono i primi ad ammettere che le relazioni extra-coniugali derivano da innumerevoli circostanze: quello genetico può essere soltanto un aspetto della molla che scatena il tradimento. Ma è comunque la prima volta che una ricerca individua un legame simile tra come sono fatti gli uomini e come interagiscono con le donne. Non solo: la scoperta include pure la possibilità di "curare" il gene malandrino, modificandolo in modo da bloccare il suo effetto, teoricamente al fine di salvare, o meglio proteggere, le unioni matrimoniali. La "medicina" che trasforma un seduttore impenitente nel compagno più fedele e monogamo, per adesso provata soltanto su topolini di laboratorio, ha dato risultati immediati: chissà se un giorno verrà somministrata anche ai playboy umani, e in che modo verranno eventualmente convinti a fare la cura.
La scoperta è opera di scienziati dell´Istituto Karolinska di Stoccolma, che l´hanno illustrata su un´autorevole rivista scientifica britannica, Proceedings of the National Academy of Sciences. Ieri è finita in prima pagina sul Daily Telegraph e sul Times di Londra col titolo: "Il gene che rende più probabile il divorzio". Il gene in questione agisce sulla vasopressina, un ormone di cruciale importanza nel processo di attaccamento sentimentale e sessuale tra un uomo e una donna. Esaminando un campione di oltre duemila persone, i ricercatori svedesi hanno verificato che gli uomini in possesso del gene restano più spesso scapoli oppure hanno una maggiore probabilità di avere relazioni extraconiugali, problemi matrimoniali e di divorziare, rispetto agli uomini che non ce l´hanno. Le mogli di uomini in possesso del gene, inoltre, sono mediamente meno soddisfatte del proprio matrimonio rispetto alle mogli di uomini che non hanno il gene in questione. Gli uomini con due copie del gene hanno avuto due volte più crisi matrimoniali nell´ultimo anno rispetto agli uomini senza il gene. «Naturalmente ci sono molte ragioni per cui una persona ha una relazione extramatrimoniale», osserva il professor Hasse Walum, autore del rapporto, «ma è la prima volta che una variante genetica viene associata al modo in cui gli uomini si legano a una donna». Studi compiuti due anni fa al St. Thomas Hospital di Londra, d´altronde, suggeriscono che anche l´infedeltà femminile ha una percentuale di base genetica.
Gli effetti del gene sono stati sperimentati su due tipi di piccoli roditori della famiglia dei criceti. L´arvicola della prateria è estremamente monogama: quando il maschio incontra una femmina, si accoppiano ininterrottamente per 36 ore, creando un legame che dura per tutta la vita e anche oltre, tant´è che quando uno dei due muore, l´altro sceglie di restare celibe anziché formare una nuova coppia. L´arvicola comune, viceversa, è estremamente promiscua. Gli scienziati hanno scoperto che il cervello dell´arvicola della prateria maschio ha una dose di vasopressina molto più alta dell´arvicola comune. Ebbene, intervenendo sul gene "dell´infedeltà", in modo da aumentare considerevolmente il livello di vasopressina, i ricercatori hanno assistito a uno stupefacente mutamento: il criceto che amava la promiscuità è diventato di colpo uno sposo mite e devoto. Nessuno ha potuto chiedergli, tuttavia, se è più felice di prima; e nemmeno alla moglie se è davvero contenta, ad avere un compagno finalmente fedele, non perché così lui vuole, ma grazie all´equivalente di una pillolina.

martedì 2 settembre 2008

l'Unità 2.9.08
Assalti fascisti. Violenza a sangue freddo
di Vincenzo Vasile


È un ritorno al passato. Negli anni 60 i fascisti picchiavano e nessuno li fermava

Sui giornali quest’immagine capita di vederla sempre più spesso.
C’è un ragazzo per terra, insanguinato. Vestito come nostro figlio, nostro nipote. Lo prendono alle spalle, gli gridano: «negro», o «sporca zecca», che è un insetto abbastanza schifoso, infettivo, da eliminare con il fuoco. E le feriscono, le «zecche», a volte le uccidono. Davanti ai poliziotti, quando - raramente - c’è qualche arresto, gli assalitori si giustificano dicendo di non volere uccidere, ma soltanto fare una «puncicata», una puntura, una rissa.Violenza a sangue freddo
Sempre più spesso a Roma, ma non solo. E a Roma, ma non solo, già ci sono stati diversi - troppi - funerali e anche minuscoli cortei di protesta. I bersagli e le vittime di quella che si può considerare una nuova ondata squadristica vengono chiamati, soprattutto a Roma, appunto, “zecche”. Termine del gergo giovanile che in passato era usato in tono non solamente spregiativo, se a loro stessi, alle “zecche” il soprannome piaceva, in quanto originariamente era contrapposto per sbandierare fierezza in faccia ai “pariolini”, o “parioli” (a Firenze cabinotti, o a Milano San Karlini), per dire figli di “gente bene”, fighetti con gli abiti griffati.
Ma in verità fino a qualche tempo addietro c’erano in giro anche “parioli” che vestivano quasi come le “zecche”, e viceversa. E le treccine “rasta” - persino la kefia palestinese - possono essere ritenuti bipartisan, così come i pantaloni con la vita talmente bassa da sfiorare le ginocchia.
Fatto sta che le “zecche” di Roma, (altrove truzzi, sfattoni, rastoni, metallari, punk, gabber), ma non solo a Roma, sono diventate, senza una logica, senza un apparente perché, il bersaglio di spedizioni punitive sempre più sanguinose, all'arma bianca. Non c’è un episodio delle cronache di questi ultimi anni in cui i giovani assaliti possano essere sospettati di avere condiviso con gli assalitori intenzioni, pratiche, o abitudini violente. Erano ragazzi che defluivano da un concerto, gente a passeggio per strada, inerme. Gli aggressori, invece, girano sistematicamente, programmaticamente armati. Utilizzano coltelli come usava la vecchia delinquenza, ma adesso le lame sono seghettate, e nei manici compaiono scritte runiche. Nelle vetrine degli armaioli e dei negozi di articoli sportivi si vede anche un aggeggio mostruoso e micidiale, una ruota dentata che si lancia da lontano, come in un film o un videogioco: ne sequestrano decine nelle “curve” degli stadi, e nelle sedi “ultra”.
Indagini a zero: degli aggressori si sa poco più del fatto accertato che odiano profondamente e indifferentemente poliziotti, e stranieri, e naturalmente le “zecche”.
I contrassegni che ti fanno rischiare la pelle, all’uscita da un concerto, per strada, rimangono tuttavia ancora quell’abbigliamento, quei capelli, quelle abitudini che inducono nelle squadracce il sospetto che i tuoi figli, i tuoi nipoti frequentino centri sociali, divenuti spesso nelle città gli unici punti di ritrovo abbastanza economici per i ragazzi e con qualche contenuto culturale “alternativo”, e il sospetto conseguente che, quando votano, ma non sempre votano, scelgano la sinistra.
Ai tempi nostri (per le generazioni di quelli che si sono presi il morbillo degli anni del Vietnam, e poi la varicella della stagione del ‘68, e poi la rosolia degli anni ‘70) c’era qualche differenza. Una innanzitutto, fondamentale: i poveri ragazzi che insanguinarono i nostri marciapiedi bene o male conoscevano o intuivano - a volte condividevano da un’altra parte della barricata ideologica degli anni di piombo - il perché di tanta violenza. Che adesso viene inferta a sorpresa, a sangue freddo contro gente, contro giovani inermi.
Adesso, ecco la novità, la destra giovanile colpisce, infatti, nel mucchio. C’è da chiedersi il perché di questa strategia. La nuova “fascisteria” è soltanto composta da cani sciolti? Se è così perché non sta già in galera? Se davvero si tratta di quattro banditelli di quartiere, perché non si riesce a sconfiggerli?
Eppure si tratta di una novità solo apparente. Negli anni Sessanta fecero in maniera analoga il loro violento apprendistato, i futuri terroristi e stragisti neri, i Concutelli, i Mangiameli, la Mambro e i Fioravanti. Iniziarono il loro curriculum assaltando licei “rossi” o locali in cui si proiettavano film “comunisti”, dileggiando Pasolini e i “pasolini”. L’hanno scritto nelle loro memorie, hanno affidato la loro verità a libri e "interviste" senza domande, rivendicando purezza e atteggiandosi a sfortunati “comandanti” di un esercito che non combatté mai alcuna guerra, solo orribili agguati.
Non è certamente un caso se nei siti web e nei blog della nuova destra quei personaggi, questi fantasmi del nostro passato vengano a tutt’oggi indicati come modelli e maestri, e cristallizzati come miti in un lontano passato in cui - a metà tra il galoppinaggio elettorale e le spinte eversive - non avevano ancora preso contatti o stretto legami, come poi fecero metodicamente e in competizione tra loro, con i servizi segreti.
Più che una novità, è un ritorno al passato. I ragazzi fascisti negli anni Sessanta cominciarono con lo sparacchiare bastonate nel mucchio, e nessuno li fermava: poliziotti magistrati e giornali si baloccavano con la favola degli opposti estremismi. E molti di noi possono solo ringraziare il destino di essere, all’epoca, soltanto finiti a casa ammaccati o all’ospedale, prima che i “comandanti” militari della fascisteria imbracciassero i mitra e innescassero bombe. Molti di essi frequentavano le stesse sezioni missine da cui sarebbero poi usciti alcuni attuali ministri, sottosegretari, assessori e sindaci. E molte delle loro imprese più violente negli anni Sessanta erano in sotterranea polemica con i "doppiopettisti" dell'Msi, come un ricatto. Oggi gli eredi di Concutelli e di Fioravanti, dissotterrando manganelli e coltelli dello squadrismo, lanciano forse un analogo segnale cifrato ai loro più recenti apprendisti stregoni. Certificando con la violenza la propria esistenza. E reclamando probabilmente un ruolo, dopo un’insoddisfacente gavetta di promesse e di galoppinaggio elettorale.

l'Unità 2.9.08
La scuola di Mariastella: meno lezioni per tutti
Il nuovo slogan del ministro Gelmini: semplicità, autonomia, merito. Ma intanto taglia fondi e ore


Il GELMINI-PENSIERO val bene, così pensa lei, una vera strategia mediatica. Ed ecco che la ministra all’istruzione ha deciso di affidare a Famiglia Cristiana e a Radio City le sue riflessioni in materia scolastica. Che si declinano in uno slogan. Un po’ come «Tre parole: sole, cuore amore», la Gelmini riparte da «Tre parole: semplicità, autonomia, merito». Semplicità «significa chiudere tutti i cantieri lasciati aperti negli anni scorsi, mettere a sistema tutto quanto di positivo è stato fatto dai miei predecessori, a partire da Letizia Moratti e Giuseppe Fioroni: dai nuovi cicli scolastici al recupero dei debiti formativi, alla possibilità di frequentare il biennio di obbligo scolastico anche nel sistema di istruzione e formazione professionale, così che ogni giovane e ogni famiglia possano scegliere la scuola più adatta. Ma semplicità significa anche farla finita col burocratese... Per questo ho voluto reintrodurre i voti, compreso quello in condotta, perchè la scuola deve tornare a insegnare a leggere, scrivere, far di conto e aiutare ogni giovane a diventare un buon cittadino e a rispettare l'istituzione scolastica». Per Gelmini autonomia significa invece «valorizzare la libertà di insegnamento e la specificità delle singole scuole, statali e paritarie, che sono tutte pubbliche... Non è vero, inoltre, che la qualità della scuola dipende solo dalla quantità di fondi pubblici destinati all'istruzione. La spesa dell'Italia in questo settore infatti è in linea con quella degli altri Paesi europei, ma non lo è la qualità. Il problema dunque non è quanto, ma come spendere al meglio i soldi dei contribuenti...». Merito: «Significa premiare gli insegnanti e le scuole migliori. Significa anche dare finalmente attuazione al principio costituzionale che garantisce agli studenti 'capaci e meritevoli’, ma che non possono mantenersi agli studi, le risorse necessarie per studiare. È indispensabile che la scuola sia la più formidabile leva di emancipazione e di sviluppo sociale. La meritocrazia è la più alta forma di democrazia. La speranza di modificare le cose che non vanno deve sostituirsi alla rassegnazione».
Fin qui i cosiddetti buoni propositi. Nella realtà la ministra sembra piuttosto lavorare alla destrutturazione dell’istruzione. A cominciare dalla riduzione del numero delle ore di lezione, prevista dal piano di razionalizzazione della spesa per la scuola, messo a punto dal Governo durante l'estate, che verrà presentato ai sindacati nei prossimi giorni.
Sempre a Famiglia Cristiana, il ministro ha spiegato le ore di lezione saranno ridotte «non in base a una logica di risparmio, ma di necessità perchè in questi anni, con le sperimentazioni e il prolungamento a oltranza dell'orario, abbiamo ottenuto tutt’altro che un aumento della qualità».
Il predecessore di Gelmini, Giuseppe Fioroni del Pd, tutto questo lo definisce una «strategia della distorsione che il Governo mette in atto sulla scuola». «Il problema vero - osserva Fioroni alla Festa democratica a Milano - è che Tremonti applica assieme a Bossi un federalismo sull'istruzione» che comporta «tagli per 130mila docenti e 4mila scuole». Il che vuol dire che non è garantita pari opportunità di apprendimento ai diversamente abili, ai figli degli immigrati, e alle famiglie emarginate. «Si passa ad una scuola per pochi, garantita solo a chi ha soldi e a chi è nato nel posto giusto. E questo - a sessant'anni dalla Costituzione - significa lo smantellamento dell’istruzione pubblica in Italia».

Corriere della Sera 2.9.08
Svolta alle elementari dal prossimo anno
Scuola, il maestro unico è già diventato legge
Inserito nel decreto. I sindacati: aggressione alla qualità
La novità è contenuta nel provvedimento firmato dal presidente della Repubblica
di Giulio Benedetti


ROMA — Ritorna il maestro unico. Dal prossimo anno. Ormai è certo. E sempre dal prossimo anno scatta il divieto di adottare libri «usa e getta». Finora c'era stato soltanto l'annuncio, in coda al decreto del 5 in condotta, dei voti al posto dei giudizi alle elementari e medie e del ritorno dell'educazione civica appena approvato dal governo. «Ce ne occuperemo nella Finanziaria », ha detto il ministro, dopo la riunione del governo che aveva varato i tre provvedimenti. Poi è successo qualcosa. Il testo di quel provvedimento: «Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università» è stato ritoccato in tempo record, rispetto alle versione illustrata dalla Gelmini. Ieri il presidente della Repubblica ha firmato il provvedimento. Ci sono dentro, a sorpresa, anche il maestro unico e l'adozione dei libri con cadenza quinquennale.
Il senso della modifica del decreto? Anzitutto rendere più cogente il ritorno al modello tradizionale di scuola elementare. A quel maestro unico che per secoli ha insegnato a leggere e far di conto, sostituto agli inizi degli anni '90 dal team dei maestri.
Nel comma 4 dell'articolo 64 del decreto 112, approvato nei primi giorni di agosto, si parla genericamente di riorganizzazione della scuola primaria. Un'indicazione troppo vaga, per un tema scottante che vede nella maggioranza posizioni non sempre coincidenti. Il senso dell'integrazione è fin troppo chiaro: «Classi affidate a un unico insegnante e funzionanti con orario di ventiquattro ore settimanali». Si tratta di «paletti» che non potranno essere ignorati nelle prossime trattative tra ministro e sindacati dei prof. Secondo i dati del ministero dell'Istruzione le maestre assunte a tempo indeterminato sono 238 mila. Le classi ammontano a 137 mila 598: 33 mila 224 mila sono a tempo pieno e 104 mila 374 a tempo normale. L'adozione del maestro unico è destinata a ridurre il numero delle cattedre. In che tempi? Questo dipenderà dagli accordi tra i sindacati e il governo. «Abbiamo studiato un piano di razionalizzazione della spesa — ha dichiarato il ministro al settimanale Famiglia Cristiana — che ci consentirà di agire sul numero delle ore di lezione, che verrà abbassato. Così potremo far quadrare i conti e salvare le scuole di montagna. Ma attenzione: non agiremo in base a una logica di risparmio, ma di necessità, perché in questi anni, con le sperimentazioni e il prolungamento a oltranza dell'orario, abbiamo ottenuto tutt'altro che un aumento della qualità». Anche nel caso del ritorno al maestro unico, ha aggiunto la Gelmini, si tratta di «una scelta pedagogica, perché il bambino, almeno nei primi anni della primaria, ha bisogno non di discipline specifiche, ma di un punto di riferimento».
«La scuola farà sentire la sua voce — è la risposta di Francesco Scrima, segretario confederale della Cisl scuola , il sindacato leader nella primaria —. Siamo in presenza di un'aggressione alla qualità.
Il ministro sta destrutturando per decreto la migliore scuola che noi abbiano. Vuole essere ricordata per questo? ». I prof, ecco l'altra novità inserita nel decreto, potranno adottare soltanto testi per i quali gli editori si siano impegnati a mantenere inalterato il contenuto per un quinquennio, «salvo le appendici di aggiornamento eventualmente necessarie da rendere separatamente disponibili». «L'adozione dei libri di testo — si legge nel decreto — avviene con cadenza quinquennale, a valere per il successivo quinquennio». Un aiuto alle famiglie non attraverso il contenimento del prezzo ma, indirettamente, con l'allungamento della «vita» del libro. Dopo un anno o due non sarà più carta straccia. Potrà essere passato al fratello minore o rivenduto.
La norma contro il caro-libri
Dal prossimo anno scolastico scatterà anche la norma sui libri. I prof potranno adottare solo testi per i quali gli editori si siano impegnati a mantenere inalterato il contenuto per almeno cinque anni

Repubblica 2.9.08
Scuola, le riforme della Gelmini non toccano il cuore del problema
Nessuno può insegnare con 1200 euro al mese
di Pietro Citati


La naftalina mi è sempre piaciuta moltissimo: al contrario che a Michele Serra, il quale trova un forte odore di naftalina nelle riforme scolastiche proposte dal ministro Gelmini. Ricordo la beatitudine con cui, a tarda primavera, aprivo gli armadi dove mio padre e mia madre avevano chiuso i cappotti e le pellicce invernali, e aspiravo l´odore di naftalina, che mi rammentava profumi molto più squisiti.
Michele Serra ha perfettamente ragione su un punto capitale.
Non potrà esserci nessun rinnovamento della scuola italiana, se il governo non aumenterà in modo considerevole gli stipendi dei maestri elementari e dei professori delle medie e del liceo. Non è possibile insegnare con uno stipendio di 1200 euro al mese. Con questa somma non si possono comprare libri e nemmeno giornali: né si acquistano vestiti, cappotti e golf nuovi, senza i quali nessuno avrà mai il rispetto degli alunni, visto che oggi la dignità esiste solo se è accompagnata da danari. Leopardi con il vecchissimo cappotto sfilacciato e Baudelaire con le scarpe bucate non sono eroi del nostro tempo. Come il governo trovi i soldi, non so e non mi importa di sapere. So soltanto che dal 1945, quando qualcuno tocca questo argomento, la risposta è sempre la stessa: "Non c´è danaro". Mentre il danaro c´è, sempre, per le cose più sciocche.
Una di queste cose fu, appunto, quella di moltiplicare gli insegnanti nella scuola elementare: con un costo enorme. Un maestro solo (a parte l´insegnante di lingue straniere) è del tutto sufficiente. Ricordo maestre intelligenti ed eroiche che, nei piccoli paesi, fronteggiavano nello stesso tempo tre classi, alternando italiano e aritmetica, geografia e storia. Per quanto so, la scuola elementare italiana, negli anni dal 1935 al 1970, era piuttosto buona. Sarebbe sbagliato, invece, aumentare il numero degli scolari nelle classi, in specie nelle scuole elementari e medie. Non si può insegnare l´italiano a quaranta ragazzi contemporaneamente, come facevo negli anni tra il 1954 e il 1959, quando ero professore negli avviamenti. C´è un problema: i maestri e le maestre del 2008 sono ancora capaci di insegnare cinque o sei materie?
La scuola elementare e media non ha bisogno di computer, come diceva Silvio Berlusconi anni fa. Il computer è anche troppo usato, oggi, in Italia. Col risultato che ragazzi di tredici anni lo usano meravigliosamente, come un gioco spettacolare, ma non sanno scrivere una lettera in italiano.
Credo che tra voto e giudizio scolastico non ci sia una vera differenza. Tutti i professori sanno che i voti riflettevano un discussione tra professori e preside in camera di consiglio: "tu a quello togli due materie a settembre, e a questo ne aggiungo una io". Quanto ai giudizi psicologici, la pretesa di comprendere, analizzare e giudicare un bambino o un ragazzo, è completamente insensata. Nessun professore sa chi è veramente un alunno di otto o quindici anni: non lo sanno nemmeno il padre o la madre, e nessun altro essere umano. Settantacinque anni fa, Giorgio Manganelli, il quale è stato lo scrittore italiano più intelligente dell´ultimo mezzo secolo, veniva ritenuto da tutti (presidi, maestri, professori, compagni) un idiota. Dobbiamo dare pochissimo peso ai voti e ai giudizi della scuola: sono, fatalmente, un meno peggio.
I libri scolastici sono troppi, e spesso sono cattivi. Ricordo una immensa e mostruosa antologia per i ginnasi-licei, che non spiegava i testi, ma cercava di diffondere la terminologia strutturalista ("diegesi", "attante"). Forse sarebbe necessario istituire una specie di concorso statale, con cui stabilire quali libri scolastici sono adatti, e quali no. Capisco che si tratta di una proposta pericolosa, perché non ho fiducia negli eventuali giudici.
I ragazzi non leggono, o leggono troppo poco. Spesso, i professori non sono in grado di consigliare i libri giusti. Non è possibile far leggere a un quindicenne La coscienza di Zeno (libro per lui noioso e incomprensibile), invece che I ragazzi della via Paal o Delitto e castigo, che egli amerebbe appassionatamente. Forse è ingenuo sperare in una buona lista di libri, proposta dal Ministero dell´Istruzione.

l'Unità 2.9.08
Testamento biologico: cosa vuole la destra
di Mario Riccio


L’attuale maggioranza si sta impegnando a presentare entro l’anno ed approvare rapidamente una legge sul testamento di vita. Da sottolineare innanzitutto l’importante e sospetto cambiamento di rotta: quando era all’opposizione, l’attuale maggioranza sosteneva con forza che una legge sull’argomento non era necessaria, e che non era tra le “priorità” del Paese - riprendendo quanto asserito dai vescovi. Citava lo stesso caso Welby e come le leggi vigenti lo avevano risolto a riprova che l’attuale legislazione era già sufficiente a risolvere tutti i problemi del fine vita. Così facendo già si operava una discreta confusione, dal momento che il caso Welby era uno di quelli in cui il testamento di vita era inutile, essendo Welby stato cosciente fino alla morte.
Con gli ultimi sviluppi della vicenda Englaro, invece, la loro posizione è cambiata. Ma più precisamente dai recenti pronunciamenti della Cassazione e della Corte di Appello di Milano. Questa volta le decisioni, pur in punta di diritto, non sono state ritenute corrette ed esaustive, ma addirittura avrebbero creato conflitto di competenze fra organi istituzionali.
Quale è allora la legge che l’attuale maggioranza vuole e presto riuscirà ad approvare, anche con i voti dell’opposizione di centro e di alcuni esponenti del Pd? Si può già sin d’ora prevedere che la ratio della legge sarà la stessa di quella sulla procreazione assistita. Non una legge che permetta finalmente l’utilizzo di questo importante strumento giuridico, cioè i testamenti di vita, anche nel nostro Paese. Ma una legge che di fatto ne impedisca - svuotandone i contenuti e limitandone gli effetti - il reale esercizio. I punti cardine, già anticipati da diverse dichiarazioni di politici della maggioranza, autorevoli rappresentanti del pensiero confessionale nonché i soliti atei devoti, potrebbero essere i seguenti:
· negazione del diritto - peraltro invece ribadito dalla Cassazione nel caso Englaro - al rifiuto della terapia nutrizionale e, probabilmente, anche della terapia ventilatoria (come preteso nel caso Welby);
· limitazione della figura del decisore sostitutivo, cioè quella figura che, liberamente indicata dall’estensore del testamento di vita, diventa invece fondamentale nel decidere per tutte le situazioni cliniche che necessariamente non possono essere specificate nel testamento stesso;
· estrema burocratizzazione nella estensione e validità del testamento. Obbligando la compilazione in presenza di una sorta di tutore (medico, notaio, impiegato comunale). Reiterazione con scadenze fisse del documento, pena la perdita di validità dello stesso;
· totale discrezionalità del medico - nel nome di una malintesa obiezione di coscienza - nell’applicazione delle volontà del paziente. Pertanto il medico potrà comunque sia iniziare che non interrompere eventuali trattamenti sanitari che riterrà opportuno, anche se espressamente rifiutati dal paziente nel testamento di vita.
A queste condizioni è evidente che una legge sul testamento di vita si trasformerebbe in una legge contro il testamento di vita ed il diritto all’autodeterminazione. L’unica speranza, sostenuta però da un iter lungo e complesso, sarebbe rappresentata dal ricorso alla Corte Costituzionale almeno per alcune sue parti. Stesso destino che già attende la legge sulla procreazione assistita.
* medico chirurgo,
componente del Consiglio Direttivo della Consulta
di Bioetica Onlus

l'Unità 2.9.08
La famiglia Englaro diffida la Regione Lombardia


La battaglia giudiziaria sul caso di Eluana Englaro, in coma vegetativo dal 1992, si complica con un nuovo tassello: i legali della famiglia hanno infatti inviato una diffida alla Regione Lombardia per la mancata indicazione di una struttura che possa ospitare Eluana e in cui il padre, Beppino, decida di staccare le macchine che tengono in vita la figlia, dopo il pronunciamento in tal senso della Corte d’Appello di Milano. Nella diffida si chiede cioè che l’amministrazione indichi una struttura dove ospitare la donna, in stato vegetativo, per cui la Corte d’Appello ha permesso di staccare l’alimentazione artificiale. I legali della famiglia hanno precisato che il termine indicato nella diffida è di dieci giorni e che se entro i termini non si riceverà risposta si valuterà se agire con ulteriori iniziative legali. Ma la Regione precisa a distanza di poche ore che «il documento dei legali della famiglia Englaro è giunto in Regione Lombardia» e «gli uffici lo stanno valutando attentamente e nei prossimi giorni sarà fornita una risposta». «La faccenda è nelle nostre mani e comprendiamo la situazione della famiglia - ha spiegato, da parte sua, l’assessore alla Sanità Luciano Bresciani -. Abbiamo deciso di dare all’ufficio giuridico-legislativo la valutazione del caso al fine di avere un supporto tecnico puntuale e preciso per la successiva risposta politica».
La vicenda, insomma, si complica ulteriormente e le reazioni sono di segno opposto: «Non è compito nè della Regione Lombardia, nè di altre Regioni, assicurare le condizioni per l’esecuzione della sentenza», afferma il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, ricordando che la sentenza non è definitiva. Al contrario, è la replica di Ardemia Oriani, consigliere lombardo del Pd, «compete alla Regione Lombardia rispondere sollecitamente alla domanda formulata dalla famiglia».

Corriere della Sera 2.9.08
«Basta clandestinità»: il 26 a Bologna decidono Statuto e iniziative
Il primo meeting dei poliziotti gay
di Vera Schiavazzi


Agenti e militari fondano la prima associazione italiana
Venerdì 26 settembre, a Bologna, l'associazione riunirà il suo direttivo per darsi un nuovo Statuto.

Si chiama «Polis aperta» e in Italia è la prima del suo genere: un'associazione che riunisce uomini e donne omosessuali in divisa, poliziotti, carabinieri, finanzieri, militari delle Forze Armate. Il 26 settembre si riunirà a Bologna il direttivo per la stesura di un nuovo statuto e la messa a punto di un programma di iniziative che faccia uscire i gay in uniforme dalla clandestinità. Un coming out collettivo per vincere i timori di «una discriminazione strisciante», dice Nicola Cicchitti, presidente di «Polis aperta».

TORINO — Ministro La Russa aspettaci, stiamo arrivando. Poliziotti, Carabinieri, uomini e donne della Guardia di Finanza, dell'Esercito e dell'aeronautica gay e lesbiche escono allo scoperto anche in Italia, dopo una lunga stagione di incertezze e clandestinità. E venerdì 26 settembre, a Bologna, volteranno pagina: la loro associazione, «Polis Aperta», la prima e l'unica nel nostro Paese, riunirà il suo direttivo per darsi un nuovo Statuto e un programma di iniziative, in un grande coming out collettivo. Nonostante la decisione, presa anche in seguito alle pressioni degli altri gruppi europei, a cominciare dagli spagnoli di Gaylespol che hanno organizzato l'ultimo raduno internazionale a Barcellona, è ancora molto difficile trovare gay e lesbiche in divisa disposti a parlare, e non a caso per alcuni è più facile che per altri: Vito Raimondi, torinese, è un finanziere come il triestino Nicola Cicchitti, presidente di Polis Aperta. «Per molti di noi — racconta — il timore non è quello di una ritorsione violenta, quanto della discriminazione strisciante. E il disagio per il machismo quotidiano che chi è in divisa è costretto a vivere, fatto di battute e di linguaggi, lo stesso che le donne entrate nell'esercito e in Polizia hanno contribuito a cambiare, senza tuttavia riuscire a cancellarlo». Oggi, gli aderenti a Polis Aperta che hanno un nome e un cognome e partecipano liberamente alle prime attività pubbliche dell'associazione sono circa duecento. C'è chi ha fatto il suo coming out
personale pur essendo un Carabiniere, in uno dei corpi cioè ritenuti più tradizionali, e chi invece preferisce non comparire anche se nella vita fa il vigile urbano: «Non puoi sapere come reagiranno i superiori, ed è comunque difficile dimostrare che un trasferimento "punitivo" è arrivato perché si è scoperto che sei gay e non per "esigenze di servizio", come dice la motivazione ufficiale ». La regola italiana, dunque, è «non chiedere, non dire»: «Mi è capitato di incontrare in discoteca colleghi che appena mi vedevano si giravano dal-l'altra parte — spiega Raimondi —. Al Gay Pride di Biella ero con il mio compagno e un collega che fino a quel momento era rimasto ai margini della manifestazione vedendomi sotto il palco è venuto a salutarci. È stato un grande momento, la dimostrazione che dobbiamo renderci visibili».
Una richiesta che viaggia anche attraverso la rete, negli appelli accorati di chi è entrato — dopo una richiesta e un filtro iniziale — nei gruppi di discussione del sito web.tiscali. it/polisaperta. Scrive «Genova in divisa»: «Caro gruppo, faccio quest'ultimo tentativo poi la smetto, perché mi pare di essere rimasto l'unico in tutta la Liguria... Se c'è qualche collega di qualunque corpo, civile o militare, mi farebbe molto piacere scambiare idee con lui su come si vive e si lavora a Genova essendo gay e portando una divisa». Giulio, nuovo iscritto dal Sud, aggiunge: «Vorrei confrontarmi con altri militari che si trovano a vivere la loro omosessualità tra mille difficoltà nelle caserme italiane ».
Al ministro della Difesa, Polis Aperta chiede di poter essere riconosciuta come associazione mista e senza finalità sindacali, in modo da aggirare ogni divieto. All'ordine del giorno di Bologna c'è anche un programma di incontri e l'elezione di delegati regionali. Ma, soprattutto, l'idea di poter cambiare dall'interno una mentalità ancora prevalente tra le forze dell'ordine, creando gruppi di poliziotti gay («siamo una risorsa, non un problema») capaci di formare i colleghi insegnando loro a intervenire in caso di reati o violenze che riguardano gli omosessuali. Come già avviene in Spagna, dove sono i gay della Guardia Civil a tenere corsi anti- discriminazione.

Corriere della Sera 2.9.08
Un libro di testo russo
Stalin «riabilitato» «Le purghe? Mossa razionale»


Le purghe staliniane? Una risposta «razionale» per modernizzare la Russia. A definire così gli anni del terrore imposto dal dittatore sovietico è un nuovo manuale scolastico russo, Storia della Russia — 1900-1945. Il libro, per ora destinato solo agli insegnati, sarà proposto agli studenti a partire dal 2009. Non è certo che la discussa definizione rimanga: lo scorso anno un testo che definiva Stalin «un manager efficiente» fu emendato prima di finire sui banchi. Ma il tentativo di riabilitare il «piccolo padre» indica una tendenza diffusa. «Non stiamo difendendo Stalin — spiega l'editor del libro, Alexander Danilov —. Ma i giovani devono sapere le ragioni del suo comportamento».
In fondo, meno di un anno fa, l'allora presidente Putin disse che le purghe erano state «un momento buio della nostra storia. Ma chi ha bombardato Hiroshima e Nagasaki non pretenda di darci lezioni».
Affetto Una donna abbraccia il ritratto di Stalin

Repubblica 2.9.08
Il Cremlino ispira i nuovi manuali di storia
E Stalin viene giustificato


L´idea di Putin e Medvedev è quella di ridare ai giovani il senso dell´orgoglio patriottico edulcorando i giudizi negativi su purghe e stragi

Un anno fa le autorità scolastiche russe favorirono la diffusione di un ineffabile e controverso manuale di storia, destinato ai docenti, in cui si riabilitava la figura di Stalin, costretto a scelte dolorose - per esempio, le «purghe» - in nome della modernizzazione del Paese. Quel libro, che s´intitolava "Storia della Russia, 1945-2007" ed era consigliato dallo staff di Putin, scatenò polemiche a non finire. Che non servirono a nulla.
Anzi. La stessa casa editrice Prosvescenie (Istruzione) propone infatti per il nuovo anno scolastico un secondo manuale - stessi autori, coordinati da Aleksandr Filippov - che si avventura stavolta nella "Storia della Russia, 1900-1945", completando il primo volume. E´, in filigrana, la storia del potere russo, e la giustificazione delle sue azioni. Lo stalinismo è riletto in modo «razionale». Un tempo, nei manuali di storia sovietici le repressioni di Stalin semplicemente si tacevano, o venivano presentate come una specie di «deviazione» dalla linea generale del Pcus. Oggi, invece, il Cremlino - perché l´ispirazione storica e politica arriva da lì - vuole concentrare «l´attenzione degli studenti sulla spiegazione dei motivi e della logica delle azioni dell´autorità» (così si legge nella prefazione).
Quale scopo si cela dietro questa riscrittura della storia ispirata da Putin e Medvedev? Ridare ai giovani il senso dell´orgoglio patriottico; inculcargli il principio che la Russia è sempre stata, nel bene e nel male, una «grande nazione» destinata a rioccupare «la sua giusta posizione nel mondo»; riconoscere come scusabili le scelte dei suoi statisti, perché dettate dalla necessità di difendere la Grande Madre Russia.
Soprattutto, c´è il tentativo di cancellare dalla memoria collettiva il giudizio pesantemente negativo sul regime totalitario di Stalin. Ma non solo Stalin. Si «comprende» persino Nicola II. Lo zar era convinto che l´abbandono della monarchia assoluta, «l´indebolimento della verticale del potere» (guarda caso, la formula putiniana della gestione del potere: ecco la chiave di lettura) avrebbe condotto la Russia alla catastrofe, e «perciò rifiutava tutti i progetti di riforme che prevedevano cambiamenti di regime anche in una prospettiva più vaga»; nell´Urss non è mai stata organizzata una carestia nelle campagne, «tutto era condizionato sia dalle condizioni del tempo sfavorevoli, che dall´incompiutezza dei processi di collettivizzazione delle campagne»; alla fine degli anni ‘30, nel quadro della modernizzazione è stato costruito non il socialismo, né il capitalismo, ma un modello di società industriale.
Persino la versione del massacro di Katyn (la fucilazione dei prigionieri di guerra polacchi operata dagli agenti del Nkvd), è stravolta in un «castigo» storico: «Non era soltanto questione di opportunità politica, ma anche la risposta per la morte di tante (decine) di migliaia di soldati di Armata Rossa nella prigionia polacca subito dopo la guerra del 1920, provocata non dall´Urss, ma dalla Polonia».
Perciò, non desta meraviglia il modo in cui si illustra il Grande Terrore perpetrato da Stalin e dai suoi accoliti: «La resistenza opposta alla politica di Stalin di portare avanti una modernizzazione accelerata e le preoccupazioni del leader nazionale di perdere il controllo sulla situazione era il motivo principale per attuare "il grande terrore". Essendo l´unico partito, la VeKaPe (be) (il vecchio nome del PCUS, ndr) era per il potere anche l´unico canale "feed-back". Sotto l´influsso degli stati d´animo d´opposizione crescenti nella società il partito stava diventando terreno fertile per la formazione di vari gruppi e correnti politici di idee differenti», insomma perdeva il suo carattere monolitico e minacciava il controllo del potere. «Alla vigilia della guerra Stalin, tra competenza e fedeltà, ha scelto la fedeltà dei comandi delle Forze Armate e dei burocrati a lui fedeli». Chi non gli era fedele, pagò con la vita. Stalin «non sapeva da chi poteva aspettare un colpo», quindi ha sferrato lui «un colpo contro tutti i gruppi e le correnti conosciuti, nonché contro chi non era suo alleato o chi non la pensava come lui».
Comunque, scrivono gli autori del manuale, «è importante dimostrare che Stalin stava operando in una situazione storica concreta, stava agendo (come manager) in maniera ben razionale come protettore del sistema, come un coerente sostenitore della trasformazione del paese in una società industriale che potesse essere controllata dal centro unico, come leader della nazione minacciata nel brevissimo avvenire da una grande guerra».

Corriere della Sera 2.9.08
Pierre Cassou-Noguès ricostruisce la vita e l'opera di uno scienziato ossessionato dal complotto
Numeri e demoni, il teorema di Gödel
La deriva psicotica nel matematico che credeva negli emissari del Maligno
di Sandro Modeo


Secondo Kurt Gödel, il tessuto fenomenico della materia (gli alberi, le strade, le case, persino le persone, dalle anonime alle più care) è un tenace strato di copertura, e il cielo una calotta ingannevole che ci protegge e ci reclude come il «ventre della madre» col bambino. Al di là di questo strato, si estende — infinita e immobile, fuori dallo spazio e dal tempo — la vera «struttura del mondo»: un universo sovradeterminato da un Dio che nulla lascia al caso e osservabile per scorci solo dalla finestra chiusa del ragionamento logico-matematico, tra i cui spifferi — per scarti quasi inavvertibili, sorta di fruscii astratti — si rivelano, oltre a quelle angeliche e fantasmatiche, le presenze dei demoni e di altri emissari del Maligno.
Rigoroso ritratto intellettuale e insieme gelido referto clinico, I demoni di Gödel di Pierre Cassou-Noguès (matematico-filosofo del Cnrs) ci immette in uno degli snodi più perturbanti nella visione di molti matematici: il rapporto tra dualismo (mente versus materia) e disagio mentale, tra radicalità dell'astrazione e deriva psicotica. Gödel vede infatti nella «struttura del mondo» un esteso «dietro le quinte» di ogni fatto e aspetto della Storia e della propria vita: il che lo porterà a elaborare un complottismo sistemico (le carte di Leibniz distrutte da una società segreta e Eisenhower che elimina gli oppositori) e una fitta serie di fobie autodistruttive (quella di essere ipnotizzato a sua insaputa ma soprattutto quella di essere avvelenato, che lo condurrà a pesare 30 chili e alla morte per consunzione). E se Cassou- Noguès ricostruisce anche il caso parallelo del collega di Gödel, Emil Post (morto per infarto in seguito a un elettroshock, dopo un'esistenza di intuizioni geniali bloccate da collassi nervosi), avrebbe potuto citare — tra gli altri — anche l'indiano Ramanujan, morto a Cambridge nel 1920 a 33 anni, causa un'infezione intestinale da lui ricondotta alla «punta infinita» della funzione zeta (quella scoperta da Riemann sulla natura dei numeri primi) conficcata nel suo corpo; o il francese Grothendieck, a tutt'oggi in un villaggio sperduto dei Pirenei a delirare sul mondo indemoniato.
Il nucleo decisivo della questione consiste nell'inseparabilità tra la coerenza interna di un assunto scientifico e il suo riverberarsi sulla psicologia dello scienziato. E cioè — nel caso di Gödel, focalizzato da Cassou-Noguès attingendo a un vasto materiale inedito, a partire dalle carte di Princeton — tra il famoso «teorema di incompletezza » e la sua cupa teologia innervata di (inconsapevole) gnosticismo. Il teorema — annunciato per la prima volta nell'agosto del 1930 al Caffè Reichsrat di Vienna davanti a Carnap e ad altri membri del «Circolo » — prova come l'aritmetica non possa né dimostrare né confutare certi sistemi formali, lasciandoli sospesi e «indecidibili»; e cioè — su un piano filosofico — come la finestra possa sporgersi su un immenso paesaggio di oggetti immateriali necessariamente trascendenti. Se infatti né il cervello umano (col suo numero finito di connessioni sinaptiche) né l'archeo- computer della «macchina di Turing» (col suo numero finito di computazioni) sono in grado di afferrare l'infinito, solo la mente — in quanto speculazione pura — può fungere da interfaccia.
Lo spalancarsi di un simile «pensiero senza cervello» oltre i limiti della percezione sensoriale produce, ancora una volta, un ibrido di verità scientifiche e proiezioni paranoiche. Da un lato, la concezione gödeliana del tempo non come retta o freccia (passato-presente-futuro) ma come «superficie» (in cui tutto è contemporaneo a tutto, senza nessun divenire) è compatibile con quella einsteiniana; e in quanto tale, nega molte suggestioni fantastiche, dai cronoviaggi agli universi paralleli. Dall'altro, il fatto che l'uomo sia privo di libero arbitrio e possa solo intravedere l'«armonia prestabilita» del Sovramondo — quando non glielo vietano le deviazioni cognitive dei demoni, tesi a soffiare nel Sottomondo inganno e ignoranza — configura un senso di prigionia e claustrazione da racconto di Kafka, non a caso lettura di Gödel. Se è ovviamente impossibile e inutile trovare una direzionalità causale tra platonismo esasperato e psicosi, non lo è forse — partendo da Gödel — formulare un'ipotesi d'insieme. Il grande logico di origini ceche vede infatti il nostro mondo materiale come un transito tragico ma temporaneo, in attesa che il nostro corpo si apra (con la morte) alla verità intravista dalla matematica: «La vita può essere infelice per settant'anni e felice per un milione di anni». Nella sua prospettiva — come in quella di molti idealisti o di molti credenti — è intollerabile il pensiero opposto di una vita biologica nata nell'universo per caso, in cui le parabole individuali sono solo brevi segmenti finiti e le intuizioni logico-matematiche schemi interpretativi (a volte sovrabbondanti) elaborati da un cervello plasmato dall'evoluzione.
Alla fine, ogni negazione del mondo — anche la più vertiginosa, complessa e disperata — è un tentativo di elaborare l'impossibilità di accettarlo.

Repubblica 30.8.08
I testimoni di Gesù, le origini del cristianesimo
di Corrado Augias


Gesù non ha mai detto di voler fondare una religione, una Chiesa, che portassero il suo nome; mai ha detto di dover morire per sanare con il suo sangue il peccato di Adamo ed Eva, per ristabilire cioè l' alleanza fra Dio e gli uomini; non ha mai detto di essere nato da una vergine che lo aveva concepito per intervento di un dio; mai ha detto di essere unica e indistinta sostanza con suo padre, Dio in persona, e con una vaga entità immateriale denominata Spirito. Gesù non ha mai dato al battesimo un particolare valore; non ha istituito alcuna gerarchia ecclesiastica finché fu in vita; mai ha parlato di precetti, norme, cariche, vestimenti, ordini di successione, liturgie, formule; mai ha pensato di creare una sterminata falange di santi. Non è stato lui a chiedere che alcuni testi, i vangeli, riferissero i suoi discorsi e le sue azioni, né ha mai scritto personalmente alcunché, salvo poche parole vergate col dito nella polvere. Gesù era un ebreo, e lo è rimasto sempre; sia quando, in Matteo 5,17, ha detto: «Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento»; sia quando, sul punto ormai di spirare, ha ripetuto l' attacco straziante del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Davanti a queste incontestabili verità sorge con forza la domanda, la curiosità di sapere: ma allora com' è nato il cristianesimo? Chi e quando ne ha stabilito norme e procedure, riti e dogmi? Gesù non ha mai pensato di rendere obbligatori un comportamento o una verità certificati per decreto. Ha esortato, ha pregato, ha dato l' esempio. Soprattutto, nulla era più lontano da lui di una congerie di leggi, un' organizzazione monarchica, uno Stato sovrano dotato di territorio, moneta, esercito, polizia e giurisdizione, sia pure ridotti - ma solo dopo aspre lotte . a dimensioni simboliche. Torna di nuovo la domanda: ma allora chi ha elaborato tutto questo? perché? quando? La vicenda del cristianesimo, ricostruita nel suo effettivo svolgimento secondo le leggi della ricerca storica e non della teologia, rappresenta una complessa avventura umana ricca di drammi, di contrasti, di correnti d' opinione che si sono scontrate sui piani più diversi: la dialettica, l' invenzione ingegnosa, la ricostruzione ipotetica di eventi sconosciuti a costo di affrontare i più inverosimili paradossi; l' amore per gli uomini, certo, nella convinzione di fare il loro bene, ma anche gli interessi politici, gli arbitrii e gli inganni; non di rado l' opposizione al mutamento spinta fino allo spargimento di sangue. In breve: se si esaminano i fatti con la sola ottica della storia, nulla distingue la lenta e contrastata nascita di questa religione da quella di un qualsiasi altro movimento in grado di smuovere coscienze e interessi, di coinvolgere la società nel suo insieme e le singole persone che nella e della società vivono. Sigmund Freud ha scritto nel suo L' avvenire di un' illusione: «Dove sono coinvolte questioni religiose, gli uomini si rendono colpevoli di ogni sorta di disonestà e di illecito intellettuale». Forse l' espressione è eccessiva, nel senso che non sempre e non per tutti è stato così. E, se di disonestà si può parlare, si è spesso trattato di una «disonestà» particolare, concepita cioè per offrire agli esseri umani una consolazione che la vita raramente concede. Di sicuro, però, è vero il reciproco della frase di Freud e cioè che la ricerca storico-scientifica, condotta con criteri rigorosi, obbedendo solo alla propria deontologia, esclude ogni «disonestà», il suo fine essendo di arrivare a risultati certi. Momentaneamente certi, aggiungo. Certi, cioè, fino a quando altre ricerche, altre scoperte, altri documenti falsificheranno quei risultati per proporne di nuovi. La differenza fra la storia (e qualunque altra attività scientifica) e la teologia è infatti soprattutto in questo: la scienza tende a un instancabile avvicinamento a verità perfettibili, la teologia tende a considerare immutabile la sua verità perfino quando le scoperte della scienza la rendono palesemente inverosimile. La ricerca scientifica e la fede religiosa, il perfezionamento di conferme verificabili e la fiducia in verità assolute si muovono su piani distinti. Per ognuna delle due ci sono spazio e legittimità nella coscienza e nei sentimenti degli individui, assai meno nel campo delle attività razionali e pubbliche. La verità della politica e della convivenza, fatta di mediazioni e di incontri, è diversa dalla verità della fede, fatta di dogmi immutabili. Il filosofo Rousseau era arrivato a dire: «Il cristiano non può essere un buon cittadino. Se lo è, lo è di fatto, ma non di principio, perché la patria del cristiano non è di questo mondo». Vedremo quanto sia vero tale giudizio e quanto il principio abbia pesato nel momento in cui il cristianesimo lentamente si allontanò dal giudaismo originario per diventare una religione a sé. Il professor Remo Cacitti insegna Letteratura cristiana antica e Storia del cristianesimo antico alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell' Università degli Studi di Milano, materie su cui ha grande competenza. Nel dialogo raccolto in questo libro, egli ricostruisce le vicende che hanno caratterizzato la nascita del cristianesimo secondo i risultati della più attendibile e aggiornata ricerca. Nulla che non sia storicamente verificabile entra nel suo racconto. Non mancheranno quindi al lettore le sorprese, come non sono mancate a me, mentre lo ascoltavo raccogliendo le sue parole. Una narrazione basata su documenti è cosa molto diversa da una costruzione teologica, che per suscitare la fede deve trasformare i fatti, filtrarli attraverso categorie sottratte al controllo della ragione. * * * Quando e come comincia la nuova fede chiamata cristianesimo? è una domanda alla quale si risponde malvolentieri sia perché non è facile sia perché la materia è controversa, per taluni aspetti imbarazzante, basata su fonti aleatorie. Si può allora provare a formulare la questione in modo diverso: quando si conclude la fase che possiamo considerare originaria, aurorale, di questa religione? Ma soprattutto, per cominciare, a quale metodo si affidano gli storici per cercare di ricostruire con fedeltà le varie fasi degli avvenimenti? Per la dottrina esiste una data ufficiale di nascita della Chiesa: la Pentecoste. Cinquanta giorni dopo la morte di Gesù, lo Spirito santo si manifestò prima come un vento, poi in forma di fiammelle che si posarono sul capo di ciascuno dei discepoli riuniti in assemblea. Riattualizzando l' originale significato ebraico della ricorrenza (legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio sul monte Sinai), la Pentecoste cristiana viene vista come la nuova legge donata da Dio ai suoi fedeli. Questo nella dottrina. Nella realtà storica le origini della nuova religione sono molto più movimentate e incerte. Le due sole frasi che potrebbero far pensare all' intenzione di Gesù di fondare una sua Chiesa sono o male interpretate («Tu sei Pietro e su questa pietra~») o aggiunte in un secondo tempo al testo originario («Andate e predicate a tutte le genti~»). Per la cerchia dei seguaci la realtà della sua morte - di quella morte - dovette rappresentare uno shock tremendo. L' uomo, il profeta, se si vuole il messia tanto atteso, nel quale avevano riposto ogni speranza, al cui messaggio avevano creduto con pienezza di cuore, era finito su un patibolo ignominioso. Di colpo, tutti coloro che avevano creduto in lui erano diventati complici di un criminale giustiziato. La sventura si era abbattuta su di loro e, nello stesso tempo, il regno dei cieli, da lui annunciato come imminente, tardava ad arrivare. La loro risorsa, la loro salvezza fu rifugiarsi nelle antiche scritture della Bibbia, dov' era detto che i giusti secondo Dio sarebbero stati salvati. A questa consolazione si aggiunse la notizia che la sua tomba era stata trovata vuota: la salma martoriata era scomparsa. Gesù doveva, dunque, essere risorto a nuova vita. I vangeli affermano con assoluta certezza due cose: che Gesù era realmente morto sulla croce; che molte persone lo videro dopo la resurrezione. Videro, cioè, un essere capace di passare attraverso una porta chiusa, di materializzarsi all' improvviso davanti ai suoi seguaci proprio come fanno gli spiriti, ma anche di mangiare del pesce e di far toccare le sue piaghe come un vero essere umano. Secondo gli storici tali apparizioni non sono vere prove di un ritorno dalla morte, sono invece testimonianze molto convincenti della fede che i suoi discepoli avevano in lui. L' annuncio del risorto cominciò a diffondersi in un territorio sempre più vasto a mano a mano che coloro che avevano creduto in lui presero a viaggiare, utilizzando a fini religiosi la fitta rete di comunicazioni che l' Impero romano aveva creato a scopi militari e di commercio. Tutte le indagini storiche e archeologiche dimostrano che la nuova religione si sviluppò in luoghi diversi e con modalità differenti a seconda di come il racconto delle parole e delle azioni di Gesù veniva riferito passando di bocca in bocca. Come sostengono gli storici, e conferma con convinzione il professor Cacitti, all' inizio non ci fu un solo cristianesimo, ma diversi cristianesimi che avevano rilevanti diversità l' uno dall' altro, erano più o meno radicali, più o meno vicini all' originaria matrice ebraica. Alcune di queste differenze saranno dottrinalmente composte nel corso dei secoli, di altre continua a esserci traccia anche oggi nelle diverse confessioni che si dicono cristiane.

D-donna di Repubblica 30.8.08
La voce inascoltata
di Umberto Galimberti


Scrive Erich Fromm in Psicoanalisi della società contemporanea (Ed. Comunità): La salute mentale non può essere definita in termini di adattamento dell'individuo alla sua società, ma, al contrario, in termini di adattamento della società ai bisogni dell'uomo".

Il quasi silenzio del Vaticano di fronte ai campi Rom dati alle fiamme vicino Napoli ha turbato cattolici e non, per cui ci si è chiesti: "Perché tanta prudenza? Cristo si è fermato in Piazza San Pietro?" (Maurizio Chierici, l'Unità 19/5/08). La risposta forse può essere trovata se si tiene conto del tipo di assetto mentale delle gerarchie vaticane e non solo. Già la psicoanalista cattolica Francoise Dolto (Psicanalisi del Vangelo, Rizzoli) aveva affermato che l'educazione "cosiddetta cristiana" può far ammalare le persone, mentre Gesù le guarisce. Ma è stato lo psicoanalista cattolico Pierre Solignac (La nevrosi cristiana, Boria) a formulare una precisa diagnosi: "L'autorità romana si comporta come una personalità paranoica" in perenne contraddizione con Gesù, il cui messaggio "è stato quello del-l'antinevrosi". Così può accadere che il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, veda "estremismi" là dove a Ponticelli divampa un pogrom. Non vede donne e bambini in fuga verso l'ignoto. Lo sguardo di Gesù era diverso. Dove l'occhio del fariseo "vede" un "peccatore e pubblicano", Gesù "vede un uomo" (Matteo 9, 9-11). Al fariseo Simone che "vede una peccatrice" che gli insudicia la casa (Luca 7, 36-50), Gesù corregge lo sguardo: "Vedi questa donna?". E una donna vede Gesù quando incontra la samaritana, appartenente a un'altra etnìa (Giovanni 4, 1-29), a lei regala "l'acqua vìva" ovvero l'amore di Dio, sicché anche lei alla fine non vede più in lui un "giudeo", ma un "uomo"; lo sguardo di Gesù aveva abbattuto le barriere etniche e religiose.

Il fatto è che tra il Tempio cattolico e il Cesare berlusconiano, sussiste un connubio mentale, che "il guardo esclude". Ascoltiamo Eugenio Scalfari (la Repubblica 17/5/08): "Dopo la vittoria di Berlusconi è scoppiata la sindrome delle ronde di strada, della repressione fai-da-te... C'è una logica nella follia di aver cavalcato la paura: poiché di miracoli in economia non se ne potranno fare, bisognava suscitare un nemico sul quale scaricare le tensioni". Suscitare un nemico: un meccanismo che la psicoanalisi chiama "identificazione proiettiva". Per essa - che è in relazione con la posizione paranoide/schizoide (Melanie Klein) - il soggetto nega il proprio "cattivo", lo espelle e lo incarna in un Altro, il quale, trasformato in discarica di rifiuti psichici altrui, viene suscitato come nemico, che fa paura e da cui occorre difendersi, magari con le ronde, ma che va anche attaccato, magari con i raid, perché incarnazione del Male. Di fronte a un inconscio collettivo malato che sta tracimando, non è urgente che maturi la consapevolezza dei rapporti tra politica e psicoanalisi, tra religione e psicoanalisi, visto che le sole categorie della politica sembrano insufficienti?
Francesco Natarelli, Pescara

II suo invito è nobile, ma penso che nessuno lo raccolga. La psicoanalisi, infatti, non può aiutare né la religione né la politica perché, a differenza degli anni '60 e 70 in cui la psicoanalisi svolgeva un ruolo anche di "analisi del sociale" (come già per altro era negli intenti di Freud, autore de !l disagio della civiltà), oggi è stata relegata o sì è relegata nell'ambito della cura individuale.

Per effetto di questa riduzione la psicoanalisi è diventata funzionale al potere sia politico sia religioso, ai quali non dispiace la medicalizzazione della condizione umana, perché questa comporta un'autolimitazione degli individui i quali, una volta persuasi di avere un sé fragile e debole, saranno loro stessi a chiedere non solo un ricorso alle pratiche terapeutiche, ma addirittura la gestione della loro esistenza, che è quanto di più desiderabile possa esistere per i poteri costituiti. E qui non sì fatica a intravedere le potenziali implicazioni autoritarie a cui inevitabilmente porta la diffusione generalizzata dell'etica terapeutica, che è la versione secolarizzata dell'etica della salvezza, con cui le religioni hanno sempre tenuto gli uomini sotto tutela.

Anzi, per Frank Furedi, sociologo ungherese che insegna all'università di Kent a Canterbury, autore de // nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (Feltrinelli), la patologizzazione di esperienze umane, fino a ieri ritenute normali, risponde all'esigenza di omologare gli individui non solo nel loro modo di "pensare" (a questo ha già provveduto il "pensiero unico" per cui, come già ammoniva Nietzsche: "Chi pensa diversamente, va spontaneamente in manicomio"), ma soprattutto nel loro modo di "sentire". Questo nuovo "conformismo emotivo", come lo chiama Furedi, è un governo degli uomini più sottile e pervasìvo dì quanto le religioni e le ideologie del passato siano mai riuscite a fare, perché attutisce le tensioni sociali, spegne i possibili conflitti, riduce al silenzio le voci che rifiutano di uniformarsi al sistema, risolve quelle che, in tutta evidenza, sono questioni pubbliche in problemi privati degli individui, i quali, se dissentono con le loro idee o con i loro comportamenti, possono sempre trovare un cognitivista o un comportamentista che li persuade che, non potendo cambiare il mondo, per vivere con meno problemi è meglio che cambino se stessi. E, in nome dì questo "sano realismo", il mondo resta tale qual è.