Repubblica 4.9.08
Intervista a Giovanni Jervis
I miei conti con Basaglia
di Luciana SicaEsce "La razionalità negata", un discorso su psichiatria e antipsichiatria che discute la cultura degli anni Settanta
Il libro è costruito in forma di dialogo con lo storico della medicina Gilberto Corbellini
"Il mio Manuale contrapponeva ai miti antipsichiatrici qualche nozione sensata"
"Andai a Gorizia nel ´66 affascinato dalla sua personalità, ma avevamo opinioni diverse"
Le aggettivazioni sono tutte al negativo: «vaga, poco chiara, generica». E poi, per trent´anni l´abbiamo chiamata legge Basaglia, ma sbagliando. Non perché l´avremmo dovuta indicare più correttamente con il numero "180" - e ai numeri siamo sempre un po´ ostici, si sa. Il punto è un altro: si doveva chiamare con un altro nome! Il vero padre di quella legge - «fatta all´italiana» - non sarebbe Basaglia, ma un medico psichiatra, un parlamentare democristiano: a Bruno Orsini si deve «la formulazione e la promulgazione» della celebre normativa che ha cancellato i manicomi.
«Lo sanno tutti!», si sorprende Giovanni Jervis, in questa intervista. «Tutti quelli che se ne sono occupati, ne sono perfettamente a conoscenza. Orsini ha raccolto le esigenze di cambiamento, certe idee che avevano conquistato un largo consenso nell´opinione pubblica, ma la sintesi è stata sua, e Basaglia non era mica d´accordo, lo ha detto subito, non gli piaceva per niente l´ispirazione generale favorevole alla medicalizzazione, considerava la psichiatria una disciplina sbagliata e oppressiva proprio per un eccesso nell´impostazione medico-biologica - quella che aveva permesso i peggiori abusi. Per dire, Basaglia non avrebbe mai voluto strutture psichiatriche come i reparti negli ospedali: immaginava piuttosto "un network di appartamenti anti-crisi"... Lui e il movimento antipsichiatrico erano violentemente contrari all´interpretazione del problema psichiatrico in termini medici - per loro era piuttosto una questione politica. Al contrario, l´impostazione di Orsini era del tipo: basta con i matti che turbano l´ordine pubblico, questa è gente che ha disturbi, insomma sono malati e come tali vanno trattati...».
"Jervis contro Basaglia"? Messa così, non si coglie il senso del nuovo libro di Giovanni Jervis che si presta poco a una lettura tanto riduttiva, a una semplificazione così sciatta, anacronistica e anche un po´ brutale, restituendo l´immagine di un duello con un´ombra (il grande psichiatra veneziano è morto nell´estate del 1980 a cinquantasei anni, per un tumore al cervello). È un pamphlet - senz´altro discutibile e decisamente destinato a far discutere - che Jervis firma con Gilberto Corbellini, un cinquantenne storico della medicina, e infatti si presenta sotto forma di dialogo: si chiama
La razionalità negata - sottotitolo "Psichiatria e antipsichiatria in Italia" (esce giovedì 11 da Bollati Boringhieri, pagg. 174, euro 12).
Corbellini svolge un ruolo d´interlocutore dello studioso settantacinquenne, autore di saggi importanti che spesso hanno come oggetto temi sociali e politici, oggi più coinvolto nel mestiere di analista, dopo aver lasciato molto tempo fa la psichiatria "attiva" e nel 2005 l´insegnamento universitario alla "Sapienza" di Roma. È Corbellini, nelle ultime righe dell´introduzione, che incoraggia «a prendere consapevolezza dei danni, delle sofferenze e dei ritardi che una serie di irragionevoli controversie ideologiche stanno causando da quasi mezzo secolo alla vita civile italiana». Un invito genericamente rivolto a chi si occupa delle innumerevoli varianti del disturbo mentale, ma anche - e forse soprattutto - «a politici e intellettuali». Sia per la questione che si solleva - gli ideologismi che indubbiamente hanno segnato la nostra storia recente - sia per i destinatari della riflessione inevitabilmente rapida, in ballo c´è qualcosa di più di una valutazione più o meno condivisibile della legge Basaglia. L´impressione generale è quella di una presa di distanza nettissima, radicale, inequivocabile da un certo clima politico e culturale in cui si era sempre e comunque "con" o "contro" qualcuno o qualcosa.
Professor Jervis, la sua ripulsa degli anni Settanta è priva di sfumature: sembra viscerale, oltre che razionale... È vero?
«Certo, e per molte buone ragioni: ho maturato un giudizio negativo di quella stagione per quel suo gusto dell´astrattezza, la tendenza al trionfalismo e alla retorica, i settarismi, le contrapposizioni, gli schematismi, ignorando totalmente la realtà fattuale, il rigore dell´analisi, la previsione delle conseguenze di azioni o anche solo di parole... Una stagione incline alla violenza - non solo verbale, come sappiamo - intrisa anche di romanticherie vagamente spiritualiste, di confusi esistenzialismi, d´improbabili sperimentazioni, e molto più spesso di eccessi tutt´altro che innocui... Del resto, sappiamo anche come le follie collettive possano essere terribilmente normali».
La razionalità negata fa vistosamente il verso a
L´istituzione negata, il famoso volume collettaneo uscito nel ´68 da Einaudi. Il sottotitolo di quel libro era "Rapporto da un ospedale psichiatrico", e infatti si raccontava la straordinaria esperienza di Gorizia. "A cura di Franco Basaglia" era l´unica dizione che appariva in copertina. Come mai non figurava anche il suo nome?
«Perché era giusto così. Perché Basaglia era il vero artefice di quell´esperienza, era lui il capo dell´équipe. In quegli anni io ero consulente della casa editrice Einaudi e andai a Gorizia nel ´66 - avendo già in mente il progetto di quel libro - affascinato dalla personalità di Basaglia, uomo di grande intelligenza, con uno sguardo sulle cose penetrante, perspicace, spiritoso, spregiudicato in senso buono. Non si può dire che avesse un buon carattere, non era sempre facilissimo andare d´accordo con lui, ma non era mai una persona mediocre. In ogni caso io non l´ho idolatrato e molto presto è venuto fuori che avevamo opinioni diverse - mai però c´è stata una lite tra noi. Del resto, il mio maestro era già stato Ernesto De Martino, l´antropologo della devianza: non mi sono mai considerato un allievo di Basaglia, e di fatto non lo ero».
L´istituzione negata ha un successo enorme e Basaglia diventa di colpo una star. Lei che ha ammirato il modello goriziano "razionale e moderato", nello stile delle comunità terapeutiche britanniche, detesta invece il movimento antipsichiatrico degli anni Settanta che in Italia avrà un indiscusso capo carismatico: Franco Basaglia, appunto. È questo a rendere il vostro rapporto sempre più ambivalente?
«Basaglia era un uomo ambizioso, sanamente ambizioso, e fino a quel momento con una vita professionale un po´ frustrata perché lui avrebbe voluto fare la carriera universitaria e inoltre non amava né Gorizia né i goriziani. Ma lui, uomo di forte carattere, lì aveva fatto una scommessa: voleva trasformare in un´esperienza-pilota quel vecchio ospedale retrivo in un angolo periferico d´Italia - con pochi mezzi, senza l´appoggio delle amministrazioni locali, con un paio di medici che lo spalleggiavano. E quella scommessa, lui l´ha vinta. Dopo, nulla è stato più uguale a prima, di fatto Basaglia è stato un po´ travolto dal successo, dal culto della sua personalità e dalle ubriacature ideologiche di quegli anni».
Certi suoi modi di fare non lo nobilitano: ad esempio, il rapporto piuttosto autoritario con gli infermieri, a volte con gli stessi medici... Ma che senso ha dissacrarne il mito tirando fuori questi aspetti un po´ meschini della personalità?
«Io non li considero meschini, perché Basaglia - per quanto egocentrico - non era mai un uomo volgare. Piuttosto apparteneva a una famiglia abituata a comandare. Le racconterò un aneddoto: un giorno andammo insieme a prendere la sua macchina, nel garage accanto alla stazione di Venezia. Per qualche ragione la sua auto gliel´avevano spostata, in un posto non suo e comunque molto meno prestigioso. Lui si era scocciato, e non poco. "Noi", mi disse in quell´occasione, "certi privilegi sociali, abbiamo il difetto di prenderli un po´ per dovuti"...».
Nel ´75, da Feltrinelli, esce il
Manuale critico di psichiatria. Piace molto quel suo libro, ma a Basaglia no. Perché?
«Il mio
Manuale contrapponeva ai miti antipsichiatrici qualche nozione sensata, neppure troppo originale, spiegava che parole come delirio, allucinazione, psicosi non sono designazioni arbitrarie ma fenomeni tragicamente reali. Per Basaglia, era un´operazione culturale sbagliata: il punto è che non accettava volentieri nessun comprimario, dire che era un accentratore è dire niente. Se uno pubblicava una cosa per conto suo, era automaticamente diffidente».
Il suo
Manuale rispecchia in pieno un certo linguaggio degli anni Settanta, è un libro "contro le istituzioni, contro la scienza borghese, contro le gerarchie e l´autorità", in cui neppure manca quella frase-simbolo per eccellenza: "ciò che è personale è politico". Oggi, ne
La razionalità negata, lei dice "ammettiamolo, siamo tutti cambiati, anche noi studiosi...". Ammetterebbe di essere cambiato un pochino più di altri?
«Il discorso politico è sempre rimasto al centro dei miei interessi, ma prima del Sessantotto credevo di più nel mondo della politica e dopo, mano a mano, com´è accaduto anche ad altri, sempre meno. Io ero un po´ filocinese, ma non sono mai andato a un´assemblea o a un corteo, non sono mai stato un militante, un organizzatore, un uomo d´apparato... Io ero un intellettuale conficcato nei libri, m´interessava la psicoanalisi seppure con molte riserve, e non disperavo di finire all´università, come poi è accaduto. Sapevo perfettamente che l´esperienza della psichiatria "attiva" sarebbe stata a termine, e lo dissi subito a Basaglia nel ´66: io vedevo il mio futuro come quello di un clinico e di uno studioso... Sì, lo ammetto: ho molto annacquato il vino politico, ma chi non l´ha fatto?».
Lei e Corbellini menate fendenti in più direzioni: sono attaccati, quasi ridicolizzati non solo gli antipsichiatri, ma anche tutti quelli che anche oggi non disdegnano la letteratura e la filosofia per la comprensione della "follia", tenendo magari poco conto delle categorie nosografiche o delle ricerche epidemiologiche. L´intellettuale per il quale lei mostra la più totale idiosincrasia è Michel Foucault: è stato davvero un cattivo maestro?
«Di Ronald Laing, non lo direi mai: lo definirei senz´altro un antipsichiatra, ma anche un poeta, un mistico, un rinnovatore, uno spontaneista, uno che navigava su territori politico-culturali rarefatti. Foucault invece è stato proprio un cattivo maestro: uno che generalizzava molto e analizzava pochissimo, con il grave demerito di aver idealizzato la devianza sociale. È vero che non è stato il solo, ma lui l´ha fatto in modo particolarmente convincente. Non per me, comunque».
Torniamo all´oggi, con l´aiuto dei dati che fornisce Corbellini nelle ultime pagine del libro. Particolarmente sconfortanti sono quelli che confermano in modo inequivocabile l´eccessivo peso del settore privato nella cura dei malati. Nel Sud - si legge - i letti privati sono addirittura il doppio di quelli pubblici. Ma se in questo Paese regna il malaffare, se le Regioni privilegiano le cliniche convenzionate piuttosto che rafforzare le strutture territoriali pubbliche, Franco Basaglia cosa c´entra?
«Assolutamente niente. Se oggi la psichiatria continua a zoppicare, se l´assistenza ai malati è ancora quella che è, i motivi vanno fatti risalire alle derive della politica e della cultura, ai fallimenti delle Regioni, alla vulgata di certe idee antipsichiatriche. Non a Franco Basaglia, che ne è del tutto innocente... Questa è l´Italia».
l'Unità 4.9.08
Quel che penso di Gramsci
di Vincenzo CeramiIn un passaggio del mio incontro con il ministro Sandro Bondi alla Festa Nazionale del Pd, si è accennato alla figura di Antonio Gramsci. Il ministro ha lodato il nostro grande intellettuale con toni che gli sono propri, edificanti, crepuscolari, concilianti. Non potevo non essere d’accordo con le sue belle parole ma ho sentito il bisogno di far capire al ministro in carica che noi, proprio perché ci siamo nutriti per più di mezzo secolo dell’intelligenza e dell’insegnamento di Gramsci, puntiamo criticamente lo sguardo al presente e al futuro che molto ci preoccupano.
Qualcuno ha voluto interpretare il mio intervento come una presa di distanza dal dettato gramsciano niente di più assurdo. Gramsci è per noi un caposaldo, un punto di partenza etico fondamentale per una concezione alta della lotta politica. Quando fui chiamato dal partito per ricoprire il ruolo di responsabile della cultura nell’esecutivo, alla domanda dei giornalisti che mi hanno chiesto a quale figura di intellettuale il Pd dovrebbe ispirarsi, ho risposto senza esitazione: Antonio Gramsci. Qualche giornale ha ironizzato sulla mia scelta che a loro è parsa fin troppo scontata. Ma ho lasciato correre.
L’opera di Gramsci, anche grazie al mio maestro Pasolini, è parte di me come di tutta la sinistra italiana. Negli anni Settanta ho perfino fondato una rivista di poesia a lui dedicata nel cui titolo «I tre giganti» era tratto dai suoi scritti familiari. Ed è la sua lezione che mi ha fatto dire l’altra sera che bisogna guardare il presente per capirlo e per meglio agire politicamente e culturalmente.
La vitalità del fondatore del Pci e de l’Unità sta proprio nell’attualità della sua voce. Ma l’omologazione pasoliniana si è compiuta e l’Italia è diventata ben altra cosa rispetto agli anni del fascismo. Si impone in questi giorni un’analisi nuova della nostra società, che ha ben pochi agganci con il passato. A mio avviso siamo alla vigilia di una profonda e inedita trasformazione degli assetti sociali, e quindi culturali. Giorno dopo giorno emerge la nuova classe degli «impoveriti», una classe che i linguisti chiamerebbero «sincretica».
Noi dovremo essere in grado di offrire a queste persone la sicurezza reale e non quella plateale, di facciata, del governo. Dobbiamo prospettare un’Italia giusta, serena, fiduciosa del futuro. Abbiamo risorse e intelligenze per questo. Gramsci, con i suoi scritti e con il suo esempio, esorta gli uomini a non rassegnarsi mai, a non accettare supinamente lo stato delle cose. Insieme con gli altri padri delle nostre idealità, laici e cattolici progressisti, ci dice di studiare, di organizzarci, di agire per «cambiare il mondo».
Parole quantomai sacrosante in questo periodo di depressione sociale. Non dimentichiamo certamente i nostri padri, ma neanche i nostri figli.
l'Unità 4.9.08
1931, giustiziato il «leone del deserto» libico
Anche allora l’Italia preferì mentireIL DOCUMENTO
Ordine del giorno del generale Graziani«Omar el Mukhtar, il capo politico e militare dei ribelli, è caduto nella rete che da diciassette mesi sul Gebel cinquanta volte si era aperta e chiusa per afferralo: c’è caduto alfine!E non è fortuita circostanza: è la tenacia, la fede, il valore, lo spirito di sacrificio dei comandanti e delle truppe che hanno trionfato!È il metodo che si è venuto affinando in tutti gli atti dell’operazione bellica, dall’esplorazione aerea a quella terrestre, dal concetto di manovra alla esecuzione nel campo tattico!È lo strumento che è stato lubrificato in tutte le sue articolazioni! È l’armonica azione dell’aviazione, dei battaglioni, degli squadroni!Ufficiali, soldati, Siamo a una svolta decisiva! Siamo alla frusta! Avanti, per la grandezza d’Italia!»Non furono «la tenacia, la fede, il valore, lo spirito!» come scrisse il generale Rodolfo Graziani nel suo enfatico messaggio alle truppe. Fu, più semplicemente, un delatore a consentire l’arresto del «leone del deserto» Omar El Mukhtar, l’eroe nazionale libico. È quanto emerge, quasi 80 anni dopo, dall’esame delle carte conservate dai familiari di Giuseppe Franceschino, il giudice istruttore del Tribunale del Corpo d’Armata territoriale di Bengasi, cioè della corte che, dopo un processo-farsa, condannò El Mukhtar all’impiccagione.
Era il 1931. Ma il fantasma di El Mukhtar è comparso più di una volta nella storia tormentata dei rapporti italo-libici. Nel 1981 il colossal americano «Il leone del deserto» - dove la parte di El Mukhtar era interpretata da Antony Quinn - fu denunciato per «vilipendio alle forze armate» e gli italiani poterono vederlo in modo semiclandestino solo nei circuiti alternativi. Da allora molte cose sono cambiate. Tanto che solo l’agenzia libanese As Safir ha registrato, nelle cronaca della visita di Berlusconi a Tripoli, una stretta di mano tra Berlusconi e il figlio del «leone del deserto».
Omar el Mukthar fu catturato l’11 settembre del 1931 durante un trasferimento. Un episodio chiarisce a che genere di processo fu sottoposto: alla fine fu condannato anche il suo avvocato, il capitano Roberto Lontano, colpevole di aver difeso il suo assistito con troppo zelo. La condanna a morte mediante impiccagione fu eseguita il 16 settembre, alla presenza di 20.000 deportati libici. Pochi mesi dopo la ribellione cessò definitivamente.
Qualcuno (fra cui il gerarca Emilio De Bono) avanzò il dubbio che la cattura fosse stata consentita dal tradimento di un altro capo della rivolta. Ma all’ipotesi non fu mai trovata alcuna conferma. Quella che, oggi, arriva dalle carte del giudice istruttore e in particolare dai verbali dell’interrogatorio di Hamed Bu Seif, un trentacinquenne mulesem aul (sottotenente) del dor di Abid, che comparve davanti al magistrato il 12 maggio 1931, poco più di tre mesi prima dell’arresto.
L’incipit racconta non solo l’avvio della collaborazione da parte di Hamed Bu Seif ma anche di altri rivoltosi: «Confermo quanto ho già dichiarato... nulla ho fatto contro il Governo, sottomettendomi al quale, son sicuro di avere la tranquillità... Mi sono sottomesso perché ho visto che Saad Fannusc sottomessosi è stato lasciato tranquillo e, al Dor gli altri che hanno intenzione di sottomettersi, vogliono prima vedere come sono trattato anch’io».
Dunque, l’avvio di una azione di gruppo, di cui Bu Seif era solo l’avanguardia. L’interrogatorio, ripreso anche nei giorni seguenti, produceva molte informazioni sull’organizzazione della resistenza: armamenti, organigrammi e una raffica di decine di nomi con le rispettive azioni compiute, sino a riempire 25 fitte pagine di verbale. In particolare colpiscono molti passaggi riguardanti Omar el Mukhtar:
« ...il drappello che è a guardia personale di Omar Mukhtar non ha caimacan, ma un Bimbasci comandar: egli è Bubacher Zigri....si distinguono dagli altri perché: sono tutti della stessa cabila di Omar e perchè vestono barracani di seta, e tachie rosse... Quando la carovana si muove ...poiché con essa si muove anche Omar Mukhtar è scortata anche dai suoi cavalieri... Omar non cavalca un cavallo sempre dello stesso colore, quando lo lasciai cavalcava un cavallo bianco... la tenda di Omar Mukhtar è a 4 teli, italiana, ed è come quella che adoperiamo noi ascari. Egli non ha più la tenda conica...».
Tutte notizie utili a individuare il capo guerrigliero e la sua guardia del corpo, magari dall’alto di una ricognizione aerea.
Ignoriamo che fine abbia fatto Hamed Bu Seif e se sia mai stato processato, ma sembra decisamente improbabile che il comando militare italiano abbia lasciato cadere una così rilevante offerta di collaborazione che, probabilmente, riguardava un gruppo non piccolo. C’è da credere che la promessa di impunità sia stata mantenuta. La pelle del «leone del deserto» valeva moltissimo.
Benché ultrasessantenne divenne rapidamente il capo indiscusso della resistenza libica e si guadagnò una fama di invincibilità. Per fermarlo le truppe di Graziani compirono atrocità al limite del genocidio, deportando oltre 80.000 libici in campi di concentramento. Lo stesso Rodolfo Graziani, riconobbe che si trattava di misure di eccezionale crudeltà (e, detto da lui...). Nel gennaio 1931, l’oasi di Kufra venne presa con un eccezionale spiegamento di forze (20 aerei, 300 autocarri, 7.000 cammelli), ma la speranza di catturare Omar andò delusa. In settembre il «dor» era ridotto in condizioni disperate, ma, data la vastità del territorio, non era facile dire per quanto tempo ancora sarebbe durata la caccia. Inoltre, esisteva un rischio molto serio: Omar -già sfuggito alla cattura infinite volte- avrebbe potuto superare il reticolo di filo spinato e raggiungere l’Egitto con parte dei suoi. Lì sarebbe stato imprendibile e avrebbe potuto riorganizzarsi. Un rischio che il governo fascista -in lotta col tempo- doveva assolutamente evitare.
l'Unità 4.9.08
Mussi: «Da trapiantato dico che l’Osservatore non mostra carità cristiana»
di Roberto Monteforte«Avrei voluto farle vedere i bambini appena nati trapiantati di cuore. La cura e l’amore con cui le mamme se li cullavano. Bambini vivi, non morti, perché c’era qualcuno che gli ha donato il cuore». Così Fabio Mussi, già parlamentare di lungo corso, 60 anni e un doppio trapianto di reni, risponde all’autrice dell’articolo dell’Osservatore Romano che contestando la morte cerebrale metteva in discussione i trapianti. Che invece per Mussi sono un esempio altissimo del concetto di carità cristiana.
«Nel portafoglio ho la tessera dei donatori di organi. Sono tra quelli che hanno firmato l’autorizzazione per l’espianto degli organi. L’ho presa subito. Quando nella legislatura 1996-2001 il Parlamento ha approvato la legge che regolamenta i trapianti. Chi lo avrebbe mai detto che poi sarei stato, invece, un “ricevitore” di organi. Uno che il trapianto lo ha subito». Parla Fabio Mussi, politico di lungo corso, presidente del consiglio nazionale di Sinistra democratica, sessant’anni tondi tondi e un doppio trapianto ai reni subito lo scorso febbraio che lo ha fatto rivivere. «Quando arrivi sull’orlo della dialisi quello che ti scorre nelle vene solo per convenzione lo chiami sangue: è veleno».
Mussi ha tante buone ragioni per essere un convinto difensore del trapianto di organi. «Penso sia una cosa di altissima civiltà. La donazione di organi è una delle più alte manifestazioni di simpatia verso il prossimo. Io sono grato a quella persona che non ho mai conosciuto e che terminando la sua vita ha consentito alla mia di poter continuare».
Per questo non riesce proprio a trattenere la critica per l’articolo dell’Osservatore Romano che mettendo in discussione il concetto di morte celebrale finisce per bloccare il trapianto degli organi. «Senza trapianto sarei andato in dialisi e poi avrei atteso anni prima di avere una possibilità. Già ora la gente aspetta tempi lunghissimi, perché i donatori sono meno del fabbisogno». All’autrice dell’articolo lo dice chiaro: «Avrei voluto farle vedere i bambini appena nati trapiantati di cuore. La cura e l’amore con cui le mamme se li cullavano. Bambini vivi, non morti, perché c’era qualcuno che gli ha donato il cuore». «Quell’articolo - insiste - è uno dei segni di regressione che si affollano di questi tempi».
Storia di un trapiantato. Era ministro dell’Università e della Ricerca scientifica. Ma per lui nessuna corsia preferenziale. Ha fatto riferimento ad un programma particolare e lo scorso 11 febbraio è stato operato all’ospedale di Bergamo, struttura pubblica e centro di grande eccellenza. «Struttura pubblica e centro di eccellenza internazionale - ci tiene a sottolineare -. In Italia è nel pubblico che si concentra l’eccellenza». Attende poco, quattro mesi, per il doppio trapianto. «È perché sono entrato in un programma preventive list”, una lista preventiva, che consente di sottoporsi ad un trapianto prima di entrare in dialisi se si sono superati i 60 anni. Invece di ricevere un rene da una persona giovane - spiega - si ricevono due organi da una persona anziana, quindi più usurati». Le liste sono molto più corte. «Quando mi sono iscritto a questa lista eravamo in otto in attesa. Ho aspettato quattro mesi. L’intervento è più complesso. C’è il doppio dell’anestesia. È tutto doppio: due i tagli, due gli organi. I reni sono più usurati perché di persone più anziane. Prima venivano scartati. Non tutti azzardano, anche se i dati statistici rassicurano. Dicono che hanno un rendimento pressoché analogo ai reni più giovani e più efficienti. Questa scelta mi ha consentito il trapianto prima di entrare in dialisi». Un dato lo allarma: «Gli organi disponibili sono solo un terzo di quelli necessari per i trapianti. Già da diversi anni si registra un calo nelle donazioni». Commenta: «È un brutto segno dei tempi, di quando torna ad essere in voga “il mio è mio e il tuo è tuo”, l’egoismo sociale. Questo si riflette in tutti gli ambiti. C’è meno disponibilità verso il prossimo e meno generosità».
L’effetto di tutto questo? Si fanno sempre più lunghi i tempi di attesa per un trapianto. È per questo che condivide la critica di Ignazio Marino: «L’articolo pubblicato dall’Osservatore Romano è irresponsabile». «È vero - riconosce - che il Vaticano ha fatto una mezza marcia indietro, ma tuttavia dal quotidiano ufficiale della Santa Sede è stato lanciato un bel sasso nello stagno. È un segnale grave perché la Chiesa ha faticato a maturare una posizione sul tema dei trapianti. È arrivata ad una posizione nitida, favorevole solo con un famoso discorso di Giovanni Paolo II nel 2000». Non ha dubbi Mussi: «Se si mette in discussione il concetto di morte come morte celebrale, praticamente si dà lo stop ai trapianti. Si toglie la speranza ad un numero crescente di persone». Questo è inaccettabile. «Cristo di Galilea lanciò al mondo il più straordinario messaggio di tutti i tempi: ama il prossimo tuo, amalo come te stesso. È una delle formule più rivoluzionarie nelle formule di società che mai siano state pensate. Una Chiesa che sottomette questo straordinario principio ad altri pregiudizi - conclude - mi preoccupa». Spera che sia solo un incidente.
Tra qualche giorno il «trapiantato» Mussi si sottoporrà alla sua verifica semestrale. Il suo organismo comincia a convivere sempre meglio con questo «nuovo filtro». Può riprendere la vita di sempre. «Il corpo funziona. Sono già andato a pescare, in barca a vela, al mare. Mi sono occupato delle mie nipotine». Ne parla con gioia. È una felicità che non vuole tenersi per sé. Vuole che sia possibile anche per chi è in lista e attende con speranza un cuore, un fegato, un rene nuovi.
l'Unità 4.9.08
Eluana, no della Lombardia: avanti con l’alimentazione
«Se si interrompesse, il personale sanitario verrebbe meno ai suoi obblighi». Il padre: non mi fermeranno«L’alimentazione di Eluana continua». La Regione Lombardia nega ad Eluana Englaro di morire. L’ennesimo ostacolo per Beppino Englaro nella lunga strada per l’esecuzione della sentenza della Corte d’Appello di Milano che lo autorizza a staccare le macchine alla figlia Eluana, da 16 anni in stato vegetativo, arriva dalla direzione sanitaria della Regione Lombardia. «Il personale sanitario non può sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiale del paziente: verrebbe meno ai suoi obblighi professionali e di servizio» è la risposta del direttore sanitario Carlo Lucchina. Ma il papà di Eluana lui non si ferma: «Per il decreto del 9 luglio scorso ho speso una vita, figuriamoci se posso fermarmi ora», afferma. E promette: «Rispetterò il decreto. Se gli altri oppongono ostacoli risponderanno per quello che fanno. Noi andremo avanti fino in fondo. Ora vedremo dal punto di vista legale come superare quest’altro ostacolo».
La decisione della Regione Lombardia è la risposta sollecitata con una diffida dei legali del signor Englaro per la mancata indicazione di una struttura che potesse ospitare Eluana per procedere con la sospensione della alimentazione e della idratazione artificiali. Il 9 luglio scorso per il padre Beppino sembrava chiudersi un percorso tortuoso iniziato nel 1999 quando chiese per la prima volta l’interruzione dei trattamenti per la figlia. Con quella sentenza i giudici della Corte d’Appello di Milano autorizzavano Englaro in qualità di tutore della figlia, a interrompere i trattamenti. Per quanto un provvedimento immediatamente esecutivo, da subito si prospettarono una serie di difficoltà. Anzitutto il fatto che la Procura generale aveva 60 giorni di tempo per ricorrere in Cassazione. E il ricorso era poi arrivato il 31 luglio scorso con tanto di richiesta di sospensiva del provvedimento da parte della Procura generale. Si era poi fatta avanti la possibilità della obiezione di coscienza dei medici chiamati a staccare la spina. In questo caso per legge la direzione sanitaria della struttura avrebbe dovuto provvedere a trovare un medico non obiettore. Ma ieri dalla direzione sanitaria regionale è giunta una più autorevole risposta: «La richiesta avanzata da lei non può essere esaudita in quanto le strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico diagnostico-assistenziale dei pazienti», ha scritto Lucchina in una lettera al signor Englaro.
Intorno al nuovo capitolo del caso Englaro sono tornati a farsi sentire le voci della politica. La stessa alla Camera aveva sollevato il tema del conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte Costituzionale in merito alla vicenda. «Sono assolutamente e totalmente d’accordo» con la decisione della Regione Lombardia ha detto la teodem Paola Binetti del Pd. E anche la Chiesa ha fatto sentire la sua voce, attraverso il cardinale Javier Lozano Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la Pastorale della salute. «Sono molto contento della decisione della Lombardia - afferma il porporato -. Nessuno ha il potere di decidere sulla vita, dal suo concepimento al tramonto naturale».
Corriere della Sera 4.9.08
Il dottor Morino: «Pronti ad accoglierla in una struttura toscana»
di Gra. Mot.MILANO — «Alimentazione e idratazione artificiale come assistenza di base?
Quello che scrive la Regione Lombardia è arbitrario, su questo punto c'è un dibattito aperto dal punto di vista etico e scientifico». Entra nel merito della lettera della Regione Lombardia, Piero Morino, medico palliativista, responsabile dell'hospice fiorentino delle ex Oblate, quello per il quale si era ipotizzato un possibile ricovero di Eluana Englaro. «Se fosse come ha scritto Lucchina, significherebbe che anche nelle strutture come quelle che io dirigo i moribondi dovrebbero essere costretti a mangiare prima di morire. Ma non funziona così.
Basta leggere le linee guida della Società scientifica di nutrizione: non è affatto scontato che alimentazione e idratazione artificiale siano considerate assistenza di base». Sull'eventuale accoglienza di Eluana in Toscana, le porte sembrano essere ancora aperte, ma il medico non si sbilancia: «Dico solo che esiste una sentenza e questo non è un fatto trascurabile».
Corriere della Sera 4.9.08
Gli studiosi De Mattei e Becchi: le nuove ricerche per ridefinire il momento della fine della vita
«E se il cervello si potesse rianimare?»
di Adriana BazziMILANO — Paradossalmente: se la medicina trovasse il modo per «rianimare » un cervello da elettroencefalogramma piatto (per dire, con un trapianto di staminali o un pacemaker cerebrale o qualche farmaco che lo rivitalizzi, anche senza pensare a stravaganti trapianti di testa), il criterio di morte cerebrale andrebbe davvero cambiato.
Il rapporto di Harvard nel 1968 aveva superato il concetto di morte cardiaca, arrivando alla definizione di morte cerebrale, anche perché i progressi scientifici dell'epoca avevano messo a disposizione dei medici le tecniche di rianimazione.
«Non è solo quello — commenta Roberto de Mattei, professore di Storia moderna all'Università europea di Roma, il cui volume, insieme a quello del professor Paolo Becchi, è stato utilizzato da Lucetta Scaraffia per sostenere la propria tesi sull'Osservatore Romano —. Non dimentichiamo che, qualche mese prima della pubblicazione del rapporto di Harvard, Christian Barnard aveva eseguito il primo trapianto di cuore e dal momento che un cuore da trapiantare può essere ancora battente, con il vecchio criterio si rischiava di compiere un omicidio. La scelta di cambiare, dunque, è stata dettata più da esigenze etiche che scientifiche ».
Scienza, etica e filosofia si mescolano quando si parla di fine della vita come quando si parla di inizio. Anche quest'ultimo non è ben definibile in termini biologici perché è un processo graduale: «La condanna dell'aborto — commenta de Mattei che, da vice-presidente del Cnr, ha curato il libro Finis vitae. La morte cerebrale è la fine dell'individuo? (Rubettino editore), spunto dell'attuale dibattito — è una posizione garantista: nell'ipotesi scientifica che si tratti di vita umana, si considera l'embrione come essere umano. Ecco, vorrei dire che mentre la Santa Sede è garantista nella difesa dell'embrione, non lo è altrettanto nelle difesa dei momenti terminali della vita».
La definizione di morte cerebrale, dunque, non sarebbe scientifica, perché, mentre con la morte cardiaca ci si limitava ad «accertare» la morte, con i criteri di Harvard si pretende di «definirne » il momento. «Ma il cervello non è l'organo integratore del corpo, o almeno la scienza non lo ha ancora dimostrato — continua de Mattei — e non è detto che quando il corpo perde un organo con funzioni direttive, come il cervello, vada inevitabilmente incontro a dissoluzione».
Alcune ricerche scientifiche lo dimostrano. Alan Shewmon, neurologo dell'Università della California a Los Angeles, descrive il caso Tk, di un bambino che a 4 anni aveva avuto una diagnosi di morte cerebrale e che oggi a 18 continua a vivere. Joseph Evers, pediatra dell'American Academy of Pediatricians ricorda che embrioni, ancora privi di un organo integratore centrale, sono esseri viventi. E Paolo Becchi, professore di Filosofia del Diritto all'Università di Genova, autore del libro Morte cerebrale e trapianti di organi (Morcelliana Editore), dice: «Anche in caso di morte cerebrale accertata secondo i criteri usuali, alcune funzioni rimangono attive: per esempio, due ghiandole che si trovano nell'encefalo, l'ipofisi e l'ipotalamo, continuano a secernere ormoni. Il sospetto che i criteri di morte cerebrale siano stati stabiliti per facilitare gli espianti esistono».
A questo punto, scientificamente parlando, andrebbero incoraggiati gli studi e le ricerche sul cervello e sulla rivitalizzazione degli organi. E magari capire, dal momento che il principio vitale non sarebbe il cervello, che cos'è davvero la vita. In un film statunitense del 2003, firmato dal regista Alejandro Gonzales Inarritu, che parla di incidenti stradali e trapianti, di inseminazioni artificiali e di aborti, di morte e di vita, quest'ultima è qualcosa che pesa «21 grammi», tanto quanto l'anima che se ne va.
Repubblica 4.9.08
La tribuna dei teocon
di Adriano ProsperiL´ultimo no a Eluana Englaro dalla Regione Lombardia contraddice la sentenza della magistratura, e l´editoriale dell´Osservatore Romano che avanza dubbi sulla morte cerebrale, riaprono il drammatico confronto su chi decide del nostro ultimo respiro.
A quanto pare, la Santa Sede che ne è la proprietaria lascia al direttore di turno la responsabilità delle sue scelte, né più né meno di quel che accade normalmente nella grande stampa di informazione. Del resto, nella nostra epoca di crisi delle ideologie è già accaduto di veder sbiadire in altri quotidiani le certezze precostituite di verità offerte come chiavi di lettura dei fatti del giorno. Ma sarebbe bene che le autorità vaticane lo spiegassero con chiarezza. Se il direttore di quel quotidiano decide di ospitare e di dare risalto all´opinione di chi, forte di una sua rispettabile convinzione religiosa più che di una specifica autorità in materia, revoca in dubbio il criterio fondamentale su cui opera la medicina dei trapianti, non per questo i medici, gli anestesisti e gli infermieri cattolici debbono correre a fare obbiezione di coscienza. È così? Come ha ricordato su Repubblica il professor Ignazio Marino, la cosa è importante per chi ha la vita appesa al filo di un trapianto di organi. È qui che si svolgono quotidianamente drammi silenziosi e si combattono battaglie in difesa non della vita in generale – come quelle sulle questioni dell´aborto e dell´eutanasia – ma di precise esistenze individuali. C´è, poi, un problema più generale di scelte della Chiesa che si è clamorosamente profilato in questo ultimo episodio ma che avevamo già intravisto nella precedente questione dei giudizi di Famiglia cristiana sulla politica del governo attuale: la contraddizione sempre più evidente tra l´alleanza strumentale della Chiesa con le truppe di sfondamento dei "teocon" nella battaglia coi valori della democrazia laica e quella che costituisce la sostanza civile e storica di tanta presenza cattolica nel nostro mondo. Bisognerà seguire con attenzione questa vicenda, aspetto inedito della situazione per certi aspetti grottesca dell´Italia politica attuale: un paese dove l´opposizione di sinistra è semplicemente scomparsa e valori della solidarietà sociale si affidano direttamente all´ispirazione dei singoli e al fiume sotterraneo del volontariato.
Tuttavia l´episodio mostra indirettamente l´urgenza di un problema che richiede l´attenzione del potere legislativo: quello del testamento biologico. Materia delicata, delicatissima. Il testamento è stato e resta un documento importante per quanto riguarda le disposizioni sui beni di fortuna: intere categorie professionali vivono in grazia di quel documento, per interpretarlo, contestarlo, attuarlo. L´esperienza quotidiana e la letteratura d´ogni paese insegnano che i testamenti si fanno e si disfano, che le ultime volontà possono sempre diventare le penultime. L´incertezza degli umori, la variabilità degli stati d´animo e degli affetti dominano nell´operazione del disporre dei propri beni. Anche la vita è un bene: un bene supremo, si dice. Per tutti, si pretende. E questo non è vero. "A me la vita è male": parole di Giacomo Leopardi. Così vere e così suggestive che nemmeno il censore d´ufficio della Sacra Congregazione dell´Indice se la sentì di condannare quel suddito degli Stati Pontifici che aveva così radicalmente divorziato dalla religione obbligatoria. Quanti oggi nel mondo sottoscriverebbero quelle parole? meglio non saperlo. Ma in cambio gli ottimisti per professione, i credenti nel valore obbligatorio della vita anche a dispetto dei sentimenti e delle volontà dei viventi abbassino almeno la voce. Un fatto è certo: l´avanzata della legge tocca oggi l´ultimo dei beni disponibili, la vita L´inarrestabile processo di giuridicizzazione di ogni aspetto dell´esistenza bussa a questa ultima porta. Bisognerà che ci si decida ad aprirla. Certo, qui si aprirà la lotta fra chi chiede una legge e chi non la vuole. Fino a non molto fa, la linea divisoria passava tra i credenti in un Dio provvidente e benevolo, erogatore di un´altra vita e chi non condivideva quella fede. Ai non credenti l´invito degli uomini della religione è stato fatto rovesciando l´atto di nascita della civiltà moderna e chiedendo di accettare in mancanza di meglio una regola di vita fondata sull´esistenza di Dio: come ipotesi, come scommessa. Ma da quella scommessa metafisica che piaceva a Pascal la struttura di potere che il clero cattolico ha costruito su fondamenta di diritto romano ha ricavato la conseguenza di imporre anche ai cittadini di uno Stato moderno la sudditanza alla loro legge. Da qui gli inviti alla disobbedienza alle leggi dello Stato, la difesa delle cosiddette obiezioni di coscienza di medici e farmacisti.
E tuttavia anche per la religione cattolica bisognerà avere presenti i lati positivi dell´opera sua e dell´influsso che esercita specialmente in Italia dove è radicata capillarmente e svolge compiti fondamentali di assistenza e di protezione: anche di cultura e di presenza civile, supplendo a istituzioni assenti e portando parole coraggiose e ricche di echi, come ha mostrato di saper fare di recente Famiglia cristiana. La resistenza alle sbrigative soluzioni legali di problemi delicatissimi di vita e di morte merita sicuramente attenzione. Anche per il "testamento biologico", come già per la legge sull´aborto terapeutico, si tratta di averne ben presenti i limiti.
Come ogni altro bene, più di ogni altro bene, la vita subisce le fluttuazioni del mercato ed è esposta alla legge della domanda e dell´offerta. Anche alla legge della propensione al rischio del padrone di quel bene: da giovani si è pronti a regalarlo o a disfarsene con levità di spirito, da vecchi lo si risparmia. L´avarizia del vecchio che resiste alla natura con tutti i mezzi è stata raccontata in uno tra i più belli dei racconti di Cechov, "Una storia noiosa". Quando resta poco del giorno, ogni istante diventa prezioso; quando si sa che è il nostro turno di andarcene, si spia con ansia ogni goccia d´olio nella lampada. Se ne ricava una banalissima conclusione: che un testamento vale per il momento in cui lo si detta anche se è pensato per decidere qualcosa che avverrà in futuro. È molto probabile che l´ultimo fremito di vita del malato terminale sarà di rimpianto e di attaccamento estremo a quello che in piena salute aveva chiesto di essere aiutato ad abbandonare. Tenendo conto di questo, la legge non potrà andare oltre la sua funzione che è quella di essere fatta per gli individui: dunque per tutelarne i diritti, non per sottometterli ad altra e superiore potestà. Se questo è chiaro, allora si può certamente trovare una formula giuridica adeguata. Che vi si arrivi è necessario, anzi è gran tempo che lo si faccia. Lo impone la necessità di tutelare ciascuno di noi dalla prepotenza di regole che privano l´individuo della disponibilità di ciò che solo è suo, il tempo di vivere e di morire.
Nessuna delega incontrollata a terzi, nessun diritto di mettere le mani sui nostri corpi ancora viventi giocando con le parole di una legge. Ma anche la fine di quegli osceni clamori che abbiamo tante volte ascoltato sui casi di chi lucidamente chiedeva di essere aiutato a concludere una vita intollerabile. E soprattutto si dovrà incoraggiare lo sviluppo di quelle forme di assistenza che esistono per rendere meno intollerabili le malattie che tolgono memoria e conoscenza, che rendono l´essere umano una minaccia per sé e per chi vive con lui; cure palliative, incremento dei luoghi dove si possa terminare in modo umano una vita che se ne va e andare incontro a una morte annunciata. Tutto questo significa spostare l´attenzione alla carenza vera dell´Italia: le istituzioni dell´assistenza. È alla medicina come sistema di tecniche e di culture che si rivolge oggi chi ha realmente bisogno di tutelare vita e morte sue e di chi da lui dipende. Gli altri parlano e gridano da pulpiti vistosi.
I medici sanno, operano, fanno le cose che possono e sanno fare. Ma con quali mezzi? E combattendo con quali pregiudizi, propri e altrui? In quali contesti? Perché è evidente che altro è l´ospedale locale altra è la grande clinica privata, altro è il Sud e altro il Nord del mondo, non della sola Italia, visto che i soli confini che l´emigrazione in cerca di ospedali oggi conosce sono quelli della ricchezza individuale e del mondo intero. Così come ogni altra forma di emigrazione.
Repubblica 4.9.08
I padroni della vita
di Umberto Veronesi"A ciascuno il suo": il motto dell´Osservatore Romano significa forse che ognuno può scegliere quello che preferisce nell´offerta di notizie e commenti del giornale vaticano? Così si direbbe, a giudicare dalla pubblicazione di un articolo che mette in discussione il criterio della morte cerebrale.
La gente ha paura della propria morte, ma allo stesso tempo la vuole, o meglio vuole sapere che quando il momento verrà, se ne andrà in pace. Io sono d´accordo con il filosofo Hans Jonas, che, riflettendo sul problema della morte cerebrale, scrive: «Non è necessaria una ridefinizione della morte, ma forse soltanto una revisione del presunto dovere del medico di prolungare la vita ad ogni costo». Di fronte a un paziente che ha lesioni così gravi da non avere alcuna prospettiva di recupero, la domanda non è "il paziente è morto?" ma: "Che fare di lui?".
A questa domanda non si può certo rispondere con una definizione di morte ma con una definizione dell´uomo e di cos´è una vita «umana». In altre parole, il problema della nostra morte si è spostato dalla scienza (che ha il ruolo di definire i criteri per determinare la morte in base alle sue conoscenze) alla bioetica (che ha il compito di stabilire un equilibrio fra applicazione delle conoscenze della scienza e vita dell´uomo). La scienza continua a spostare i limiti della morte, ma al di là di questi confini non c´è la nostra esistenza naturale, in cui noi amiamo, ci emozioniamo, pensiamo, soffriamo; quella che noi medici difendiamo con tutte le nostre energie, la nostra intelligenza e il nostro amore.
C´è un limbo opaco e inquietante a metà fra la non-morte e la non-vita. Va ricordato che la bioetica è nata nel 1970 con Von Potter che, nel suo "Bioethics: a bridge to the future", sostiene che l´etica deve ispirarsi alla biologia dell´uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell´esistenza umana. Una tempesta si è abbattuta su questi equilibri con l´introduzione della vita artificiale, cioè quando a metà del secolo scorso sono state introdotte nei reparti di rianimazione delle macchine in grado di mantenere l´ossigenazione del sangue e il battito del cuore, anche se le funzioni cerebrali sono cessate.
Nasce così l´incubo della vita artificiale, come esito non voluto dei progressi della tecnologia. Per millenni l´uomo ha avuto paura di morire per le guerre, le malattie, le carestie, invece negli ultimi decenni ha iniziato a sviluppare una nuova paura che è ancora agli esordi del suo manifestarsi: la paura di vivere oltre il limite naturale della biologia. Molti si stanno rendendo conto della progressiva invasione della tecnologia nella vita umana fino a spostarne i confini all´infinito. Ha ragione l´Osservatore Romano: i principi del rapporto di Harvard che ha introdotto i criteri neurologici nella definizione di morte (da allora basata non solo sull´arresto cardiocircolatorio, ma anche sull´encefalogramma piatto), se non superati, sono in evoluzione. Troveremo altri criteri più sofisticati forse, e tecnologie ancora più potenti, ma dovremo allora rinunciare alla morte? È una prospettiva agghiacciante, che si associa all´immagine di un esercito crescente di corpi vegetanti chiusi nelle loro prigioni.
Come fare allora a ritrovare la nostra morte? Ritorniamo a Hans Jonas e riflettiamo sul concetto di vita. La svolta alla definizione di vita è venuta a fine ´900, quando è stata identificata la vita biologica con il pensiero: se l´elettroencefalogramma è piatto, non c´è attività cerebrale e dunque non c´è vita. In Italia l´introduzione dei criteri neurologici per accertare la morte (sulla base dei parametri di Harvard) avvenne nel 1969 e nel 1970, con due decreti che poi vennero incorporati in una legge relativa al prelievo e al trapianto d´organo nel 1975.
Se i parametri di Harvard fossero superati e se effettivamente, dal punto di vista fisiopatologico, la morte cerebrale non provocasse la disintegrazione del corpo, ciò che non viene né superato né messo in discussione è l´irreversibilità dello stato che la morte cerebrale provoca. Per fare un esempio concreto pensiamo a Terry Schiavo, il caso americano che ha infiammato le cronache internazionali perché, dopo grandi polemiche, la sua vita artificiale fu interrotta. Ebbene, all´autopsia il cervello di Terry è risultato completamente devastato per cui è dimostrato che la ragazza non vedeva, non sentiva, non provava né fame né sete, né null´altro. La ricerca scientifica ci offre dei parametri certi, come appunto la morte cerebrale, oltre i quali la vita irreversibilmente non sarà mai più quella che noi conosciamo e chiamiamo vita. Dovrebbe spettare ad ognuno di noi decidere che fare.
l'Unità 4.9.08
Il «filo nero» che lega le curve alla criminalitàL’ombra della camorra sugli ultras non è una novità. Dei legami tra criminalità organizzata e frange del tifo violento napoletano si conoscono dettagli perfino inquietanti, a base di intercettazioni e mezze ammissioni. L’ultima inchiesta è del pm di Napoli Antonio Ardituro e riguarda i disordini a Pianura dello scorso gennaio. All’epoca la Direzione Distrettuale Antimafia ipotizzò la ”manovalanza” degli ultras, una presenza prezzolata da un esponente di destra della ”bassa politica” campana che avrebbe pagato perché i ”guaglioni” provocassero gli incidenti nei pressi della discarica. Molotov, bus incendiati, botte ai giornalisti di Rai e Sky. Accanto agli hooligans anche esponenti più o meno noti dei clan. Tutto torna, dunque. Il ”filo nero” che unisce le curve alla criminalità sembra sempre più consistente, spesso, perfino indissolubile. Un ”salto” in avanti rispetto alla gestione degli stadi da parte della destra estrema. La celtica ultrà, insomma, non basta più. L’obiettivo è il business, l’esportazione dei modelli di guerriglia urbana nel territorio. Possibilmente a pagamento. Il know how della violenza appreso sugli spalti, domenica dopo domenica, lascia il campo di gioco ed emigra nelle piazze, negli autogrill, nei vagoni di un treno. E se serve perfino nelle discariche. Non è una novità, appunto, e non è la prima volta che gli ultras usano i metodi da curva lontano dalla curva. A gennaio tra i facinorosi che a Cagliari tentarono l’assalto della casa del governatore della Sardegna, Soru, furono individuati alcuni degli ”Sconvolts”, supporter della squadra rossoblù. Contestavano l’arrivo in Sardegna dei rifiuti napoletani. Accadde il finimondo, quella notte: molti dei teppisti avevano il volto coperto dalle sciarpe ultras. La tifoseria si dissociò: ”Cani sciolti, con loro non c’entriamo”. Ma l’idea che le frange più esagitate del tifo possano diventare la ”manovalanza” di altre organizzazioni criminali trova riscontro anche in altri episodi. Lo sostiene il capo della Polizia, Antonio Manganelli, lo conferma il questore di Napoli Puglisi dopo il raid dei tifosi napoletani in trasferta a Roma domenica scorsa.
Nega il problema soltanto Ignazio La Russa che taglia corto e minimizza. Eppure il problema esiste in tutta la sua allarmante gravità. Di mezzo non c’è solo ”il gusto del devastare” che il ministro tira in ballo con piglio pseudo sociologico. Ci sono i soldi, di mezzo. C’è il controllo di interi pezzi di stadio, del business delle trasferte e del merchandising. Perfino le scalate delle società. Come nel caso degli Irriducibili della Lazio. Dietro le intimidazioni al presidente Lotito esisteva un disegno ben preciso che vedeva in campo addirittura il clan dei Casalesi, uno dei più potenti della criminalità campana. Perché impadronirsi di un club calcistico? Per esempio per pulire denare sporco. La camorra ordina, i ”guaglioni” terrorizzano e devastano e il gioco è quasi fatto. A luglio il Gip di Roma, Guglielmo Muntoni, ha emesso dieci ordinanze di custodia cautelare. Coinvolti nell’operazione (fallita) di riciclaggio i capi della curva nord laziale, noti per l’acclarata passione per svastiche e striscioni contro ebrei, un’ex bandiera biancoceleste come Giorgio Chinaglia e un personaggio del calibro del boss Giuseppe Diana.
D’altra parte proprio a Roma si sono verificati alcuni degli episodi più inquietanti della violenza ultras: dalla guerriglia dell’11 novembre dopo l’omicidio di Gabriele Sandri fino al derby interrotto del 21 marzo 2004. In quell’occasione bastò far girare la voce che un bambino era stato ucciso dalla polizia per scatenare l’inferno. Non ci scappò il morto vero per un miracolo. Ma la strategia apparve subito chiara: gli hooligans avevano dimostrato di essere così potenti da riuscire a mettere in ginocchio una città. Una macchina oliata, che si muove come un piccolo esercito distruttivo. Credenziali che contano quando ci si confronta con la delinquenza organizzata. Solo il ministro La Russa non se n’è accorto.
Corriere della Sera 4.9.08
La lotta Le associazioni umanitarie hanno creato una Coalizione per tentare di far rispettare la Convenzione di Ginevra
Le leggi Sono 63 i Paesi dove è consentito l'arruolamento di volontari minori nelle forze armate. Ma i ragazzi vengono rapiti
Le 24 guerre dei bambini soldato
Sono i conflitti nei quali combattono i minorenni Un esercito di 300 mila ragazzini dagli 8 ai 16 anni
di Marco NesePer controllare i movimenti di protesta vengono usati migliaia di bambini rapiti all'uscita da scuola
Sul nostro pianeta sono in corso ben 31 guerre. In 24 di questi conflitti stanno combattendo anche i bambini. Sono arruolati dagli eserciti come veri soldati, oppure costretti ad andare in battaglia al fianco di guerriglieri e bande paramilitari che si infischiano della Convenzione di Ginevra, che considera il coinvolgimento di minorenni un crimine di guerra.
E' un orrore al quale non si riesce a mettere fine. Secondo le stime dell'Unicef sono almeno 300 mila i bambini soldato obbligati a uccidere, torturare e farsi a loro volta uccidere. Hanno un'età compresa fra gli 8 e i 16 anni. Le varie associazioni umanitarie hanno unito gli sforzi creando una Coalizione internazionale per fermare lo scandalo dei child soldiers. La Coalizione ha presentato un rapporto col quale dimostra, appunto, che in vari Paesi i bambini sono attualmente impegnati in «zone di combattimento ».
I funzionari di Amnesty International raccontano storie agghiaccianti, come quella di Gaston, un ragazzo rapito in Congo quando aveva 11 anni e trasformato in un killer. «La prima volta, per farmi superare la paura, dovetti uccidere una persona. Una notte mi portarono qualcuno, mentre ero di guardia. Era un bambino col volto coperto. Mi dissero che era un ribelle, un nemico, e dovevo ucciderlo. Lo ammazzai col coltello. Mi fecero bagnare col suo sangue. Quella notte non potei dormire».
Anche Thomas fu rapito. Lo presero i guerriglieri a Goma, nel Congo, quando aveva 13 anni, insieme col fratello di 8 anni mentre andavano a scuola. Oggi Thomas ha le gambe paralizzate a causa delle percosse che gli infliggevano. «Il comandante mi picchiava ogni mattina col calcio del fucile sulla schiena perché non facevo gli esercizi correttamente. Vidi altri due bambini morire in seguito alle bastonate. Li gettarono nelle latrine».
La giunta militare al potere nel Myanmar (ex Birmania), per controllare i numerosi movimenti di protesta ha gonfiato gli organici dell'esercito: ha più di 450 mila uomini in divisa. Secondo Human Rights Watch, «almeno 70 mila sono bambini». Yan Paing Soe era uno di loro. A Radio Free Asia ha raccontato che i soldati lo rapirono all'uscita della scuola e per sette anni non ha più visto la famiglia. «Nel Myanmar — si legge nel rapporto della Coalizione internazionale — decine di minori sono impiegati in lunghe operazioni contro una vasta gamma di gruppi antigovernativi».
Sono ben 63 i Paesi dove è consentito l'arruolamento di volontari minori nelle forze armate. Ma in genere i bambini non sono volontari. Spesso sono ragazzi di strada convinti con la promessa di un tozzo di pane. Esiste anche una vera e propria tratta dei minori, bambini rapiti e costretti a imbracciare un fucile. Nei conflitti tribali in alcuni Paesi africani, per esempio in Mozambico, abbiamo casi di genitori uccisi allo scopo di creare orfani che poi sono resi facilmente schiavi. Negli anni Novanta, prima dell'attacco alle Torri Gemelle, Osama bin Laden faceva rapire bambini in Somalia per trasferirli in Afghanistan a combattere al fianco dei talebani. Susan oggi ha 16 anni. Ne aveva 10 quando fu catturata dai militari in Uganda insieme con altri bambini. Uno di loro cercò di fuggire. Lo riacciuffarono e obbligarono Susan a ucciderlo. «Mi puntarono il fucile alla testa. O gli sparavo, oppure mi ammazzavano. Certe volte di notte lo sogno e mi sveglio gridando». Alcuni bambini che hanno osato ribellarsi sono stati obbligati a uccidere i genitori come punizione.
I capi militari sono felici di avere nei ranghi bambini soldato, perché nel giro di poco tempo si abbrutiscono e diventano docili, fedeli, pronti a eseguire qualsiasi ordine. Gli affidano missioni rischiose, in prima linea, come nel 2006 nel Chad, dove schiere di bambini furono piazzati attorno alla capitale, una prima barriera destinata a fronteggiare gli assalti dei ribelli. Il film Blood Diamond, con Leonardo Di Caprio, racconta la guerra in Sierra Leone in cui hanno combattuto migliaia di bambini. Nel film il piccolo Dia subisce un lavaggio del cervello e diventa uno spietato killer.
In Sudan i baby soldato sono attivi nella sventurata area del Darfur. Nelle Filippine li impiegano contro i rivoltosi. Nello Sri Lanka il governo chiude un occhio sul rapimento di bambini che vengono inseriti nei reparti paramilitari. In Nigeria, in Kenia e ad Haiti i bambini sono aggregati alle bande armate di criminali che fanno lavori sporchi per conto di capi politici. Terribile quello che capita alle bambine. I capi delle Farc, il gruppo armato rivoluzionario della Colombia, le tengono per sé, sottoponendole a violenze sessuali. Natalia aveva 12 anni quando entrò nell'esercito del Congo. «Mi picchiarono e mi violentarono ogni notte. A 14 anni ebbi un figlio senza neanche sapere chi fosse il padre».
In Iraq e Afghanistan usano bambini suicidi. Durante la guerra fra Iran e Iraq, la frontiera era cosparsa di mine e l'esercito iraniano non poteva avanzare, allora l'ayatollah Khomeini fece radunare centinaia di bambini e li mandò a correre all'impazzata sui campi minati con al collo la sua foto, che doveva essere il lasciapassare per il paradiso.
Qualcuno comincia a pagare. Charles Taylor, ex presidente della Liberia, e Thomas Lubanga, ex capo di una milizia in Congo, sono stati trascinati davanti al Tribunale internazionale dell'Aia. Il primo è responsabile del coinvolgimento nella guerra civile che ha insanguinato la Liberia di 20 mila bambini, molti dei quali sono stati poi inviati a combattere in Costa d'Avorio. Quanto a Lubanga gli vengono attribuite atrocità orribili contro i minori, omicidi, torture e violenze sessuali.
Corriere della Sera 4.9.08
China Keitetsi ha raccontato in un libro la sua infanzia con il Kalashnikov
«In battaglia ero più feroce e spietata degli adulti»
Nata in Uganda, a otto anni finì nell'esercito del generale Museveni. Ora vive in Danimarca
di M.Ne.ROMA — China Keitetsi aveva 8 anni quando divenne soldato. «Mi insegnarono a montare e smontare un Kalashnikov come fosse un gioco, mi dissero che il fucile era la mia nuova madre, e mi spiegarono come usare quell'arma micidiale per ammazzare esseri umani». Oggi China ha 32 anni, ha scritto un libro sconvolgente, Una bambina soldato (edito in Italia da Marsilio), in cui racconta la sua storia e le atrocità delle quali è stata testimone.
Nata in un villaggio dell'Uganda, è stata vittima prima di tutto della sua famiglia che la nutriva a bastonate. Picchiata quasi tutti i giorni. Una volta il padre le spezzò le dita a furia di colpirla. La nonna paterna era una specie di megera, un giorno la picchiò tanto da romperle il gomito di un braccio.
Cresciuta in un ambiente così ostile, lei ormai covava soltanto odio e a un certo punto pensò che l'unica salvezza fosse la fuga. Si inoltrò nella boscaglia dove si ritrovò circondata da un gruppo di uomini armati, i quali furono felici di accoglierla e trasformarla in una bambina soldato.
«Non ero sola, i guerriglieri avevano reclutato centinaia di bambini, alcuni anche più piccoli di me, sporchi, malaticci, coi vestiti laceri. La cosa mostruosa è che nelle battaglie gli adulti mandavano avanti i piccoli, i quali venivano spesso falciati senza pietà».
Siamo a metà degli anni Ottanta. In Uganda domina il dittatore Obote. Il generale Museveni con un suo esercito privato vuole abbattere Obote e prendere lui il potere.
«Museveni non aveva scrupoli a mandare al macello centinaia di bambini soldati. E purtroppo i bambini, assistendo ogni giorno a scene di crudeltà bestiale, si abbrutivano completamente e diventavano più feroci dei grandi. Erano sempre i primi a gettarsi sui nemici caduti per strappargli i vestiti, invece di soccorrere i feriti li prendevano a calci, picchiavano e riempivano di sputi i prigionieri. Gli ufficiali erano contenti perché i bambini erano fedeli, ubbidienti, bravi a uccidere e torturare. Noi bambini eravamo capaci di commettere brutalità inaudite solo per compiacere i capi e salire di grado».
Museveni conquistò il potere nel 1986, e siede ancora sul trono ugandese. «Molti dei bambini che avevano combattuto per lui furono abbandonati al loro destino, alcuni erano diventati pazzi a causa delle cose orribili alle quali avevano assistito, altri erano mutilati, quasi tutti finirono a rubare e a mendicare per strada».
China rimase nell'esercito, dove fu costretta a subire continue violenze. «Ero convinta — scrive nel suo libro — che le donne non fossero altro che strumenti di piacere che Museveni dava in pasto alle bestie affamate che ci facevano da superiori».
Aveva 13 anni quando fu scelta come guardia del corpo da un importante personaggio del regime. Andò bene finché il suo protettore rimase a galla, ma in Uganda bastava poco, una parola fuori posto, un passo falso, per essere rovinati. L'uomo al quale faceva da scorta cadde in disgrazia, fu arrestato, e di riflesso anche lei da quel momento fu guardata con crescente sospetto. «Prima o poi sarei finita in prigione. Cominciai a nascondermi cercando disperatamente un modo per andarmene dal mio Paese».
Ci riuscì nel 1995 dopo essersi procurato un passaporto falso. Attraversò la frontiera. Dopo 5 giorni di viaggio in pullman attraverso Kenia, Tanzania, Zambia e Zimbabwe arrivò in Sud Africa. Ma gli uomini di Museveni la trovarono anche lì, la sequestrarono, la torturarono e la caricarono in macchina per riportarla in Uganda. Si salvò gettandosi fuori quando l'auto si fermò ad un semaforo. Visse quattro anni come una sbandata e finalmente un'anima buona si prese cura di lei, un funzionario delle Nazioni Unite si mise alla ricerca di un Paese disposto ad accoglierla come rifugiata.
«La Danimarca accettò di diventare la mia nuova patria. Ora vivo a Copenhagen, un paradiso. Voglio solo dimenticare e guardare al futuro. L'Unicef mi ha nominata sua ambasciatrice, dedicherò il resto della mia vita ai bambini che soffrono, cercherò di evitare a tanti innocenti di subire i traumi che ho patito io. Ho parlato con Clinton, ho incontrato il Papa, ho pianto sulla spalla di Nelson Mandela. Tutti mi incoraggiano a fare qualcosa per salvare i nuovi bambini soldato».
Corriere della Sera 4.9.08
Gelmini e la prova facile
E il ministro fece l'esame da avvocato in Calabria
Nella città calabrese l'anno precedente il record di ammessi con il 93 per cento
di Gian Antonio StellaDa Brescia a Reggio Calabria Così la Gelmini diventò avvocato
L'esame di abilitazione nel 2001: «Dovevo lavorare subito»
Novantatré per cento di ammessi agli orali! Come resistere alla tentazione? E così, tra i furbetti che nel 2001 scesero dal profondo Nord a fare gli esami da avvocato a Reggio Calabria si infilò anche Mariastella Gelmini. Ignara delle polemiche che, nelle vesti di ministro, avrebbe sollevato con i (giusti) sermoni sulla necessità di ripristinare il merito e la denuncia delle condizioni in cui versano le scuole meridionali. Scuole disastrose in tutte le classifiche «scientifiche» internazionali a dispetto della generosità con cui a fine anno vengono quasi tutti promossi.
La notizia, stupefacente proprio per lo strascico di polemiche sulla preparazione, la permissività, la necessità di corsi di aggiornamento, il bagaglio culturale dei professori del Mezzogiorno, polemiche che hanno visto battagliare, sull'uno o sull'altro fronte, gran parte delle intelligenze italiane, è stata data nella sua rubrica su laStampa.it da Flavia Amabile. La reazione degli internauti che l'hanno intercettata è facile da immaginare. Una per tutti, quella di Peppino Calabrese: «Un po' di dignità ministro: si dimetta!!» Direte: possibile che sia tutto vero? La risposta è nello stesso blog della giornalista. Dove la Gelmini ammette. E spiega le sue ragioni.
Un passo indietro. È il 2001. Mariastella, astro nascente di Forza Italia, presidente del consiglio comunale di Desenzano ma non ancora lanciata come assessore al Territorio della provincia di Brescia, consigliere regionale lombarda, coordinatrice azzurra per la Lombardia, è una giovane e ambiziosa laureata in giurisprudenza che deve affrontare uno dei passaggi più delicati: l'esame di Stato.
Per diventare avvocati, infatti, non basta la laurea. Occorre iscriversi all'albo dei praticanti procuratori, passare due anni nello studio di un avvocato, «battere» i tribunali per accumulare esperienza, raccogliere via via su un libretto i timbri dei cancellieri che accertino l'effettiva frequenza alle udienze e infine superare appunto l'esame indetto anno per anno nelle sedi regionali delle corti d'Appello con una prova scritta (tre temi: diritto penale, civile e pratica di atti giudiziari) e una (successiva) prova orale. Un ostacolo vero. Sul quale si infrangono le speranze, mediamente, della metà dei concorrenti. La media nazionale, però, vale e non vale. Tradizionalmente ostico in larga parte delle sedi settentrionali, con picchi del 94% di respinti, l'esame è infatti facile o addirittura facilissimo in alcune sedi meridionali.
Un esempio? Catanzaro. Dove negli anni Novanta l'«esamificio» diventa via via una industria. I circa 250 posti nei cinque alberghi cittadini vengono bloccati con mesi d'anticipo, nascono bed&breakfast per accogliere i pellegrini giudiziari, riaprono in pieno inverno i villaggi sulla costa che a volte propongono un pacchetto «all-included»: camera, colazione, cena e minibus andata ritorno per la sede dell'esame.
Ma proprio alla vigilia del turno della Gelmini scoppia lo scandalo dell'esame taroccato nella sede d'Appello catanzarese. Inchiesta della magistratura: come hanno fatto 2.295 su 2.301 partecipanti, a fare esattamente lo stesso identico compito perfino, in tantissimi casi, con lo stesso errore («recisamente» al posto di «precisamente», con la «p» iniziale cancellata) come se si fosse corretto al volo chi stava dettando la soluzione? Polemiche roventi. Commissari in trincea: «I candidati — giura il presidente della «corte» forense Francesco Granata — avevano perso qualsiasi autocontrollo, erano come impazziti». «Come vuole che sia andata? — spiega anonimamente una dei concorrenti imbroglioni —. Entra un commissario e fa: "Scrivete". E comincia a dettare il tema. Bello e fatto. Piano piano. Per dar modo a tutti di non perdere il filo».
Le polemiche si trascinano per mesi e mesi al punto che il governo Berlusconi non vede alternative: occorre riformare il sistema con cui si fanno questi esami. Un paio di anni e nel 2003 verrà varata, per le sessioni successive, una nuova regola: gli esami saranno giudicati estraendo a sorte le commissioni così che i compiti pugliesi possano essere corretti in Liguria o quelli sardi in Friuli e così via. Riforma sacrosanta. Che già al primo anno rovescerà tradizioni consolidate: gli aspiranti avvocati lombardi ad esempio, valutati da commissari d'esame napoletani, vedranno la loro quota di idonei raddoppiare dal 30 al 69%.
Per contro, i messinesi esaminati a Brescia saranno falciati del 34% o i reggini ad Ancona del 37%. Quanto a Catanzaro, dopo certi record arrivati al 94% di promossi, ecco il crollo: un quinto degli ammessi precedenti.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria».
I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti.
Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme.
Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare».
Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano.
Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Da oggi, dopo la scoperta che anche lei si è infilata tra i furbetti che cercavano l'esame facile, le sarà però un po' più difficile invocare il ripristino del merito, della severità, dell'importanza educativa di una scuola che sappia farsi rispettare. Tutte battaglie giuste. Giustissime. Ma anche chi condivide le scelte sul grembiule, sul sette in condotta, sull'imposizione dell'educazione civica e perfino sulla necessità di mettere mano con coraggio alla scuola a partire da quella meridionale, non può che chiedersi: non sarebbero battaglie meno difficili se perfino chi le ingaggia non avesse cercato la scorciatoia facile?
Repubblica 4.9.08
Germania, è sorpasso a sinistra i "rossi" battono i socialdemocratici
Per la prima volta Lafontaine e Gysi in testa all´Ovest
L'ala massimalista socialdemocratica ora chiede la sconfessione del riformismo
di Andrea TarquiniBERLINO - Diciannove anni dopo la caduta del Muro, la sinistra radicale di Oskar Lafontaine e Gregor Gysi vola in Germania, si prende una storica rivincita sulla socialdemocrazia e divide le opinioni. Per la prima volta la Linke, il partito nato dalla fusione tra i transfughi Spd seguaci di Lafontaine e avversari delle riforme dell´allora cancelliere Schroeder e i postcomunisti dell´ex Ddr sorpassa la Spd in un sondaggio in uno Stato dell´ex Germania ovest. I socialdemocratici tremano, e la loro ala massimalista chiede una svolta a sinistra e l´apertura a una collaborazione con la Linke a livello nazionale. Crisi e svolte a sinistra minacciano la stabilità politica della prima potenza Ue.
Il sondaggio di Stern è una doccia fredda per il più antico e illustre partito della sinistra democratica europea. Nella Saar, il Bundesland dell´ovest di cui Oskar Lafontaine fu governatore, la Linke sale al 20% contro il 19 della Spd. E la Cdu della cancelliera Angela Merkel, che guida la Saar col governatore Peter Mueller, scende in picchiata dal 47 al 37%. Il sondaggio è il secondo schiaffo in pochi giorni per la socialdemocrazia. Martedì un´indagine aveva indicato che la Linke sorpasserebbe la Spd anche a Berlino città. Ma la capitale federale è in una situazione speciale: nella sua parte orientale simpatie verso la sinistra radicale e nostalgie per la Ddr sono forti.
Orfana della leadership di Schroeder, stretta tra la partecipazione alla Grosse Koalition (di cui si avvantaggia solo la Merkel) e la sfida della Linke, la Spd è esposta a un´emorragia di consensi e iscritti. Sessanta esponenti dell´ala sinistra hanno rivolto un appello al leader del partito, il debole Kurt Beck. Chiedono una svolta a sinistra, un avvicinamento alla Linke e la sconfessione del riformismo schroederiano.
Sono scelte difficili, quelle che i capi socialdemocratici affrontano. Le elezioni politiche federali si terranno nel settembre 2009. Un mese prima si voterà nella Saar con la Linke favorita. A livello nazionale Merkel avrebbe il 37% dei sondaggi, i liberali (Fdp) il 13. La cancelliera potrebbe quindi comodamente formare un centrodestra con la Fdp. Mentre ormai la lotta Spd-Linke per la leadership della sinistra è aperta. Domenica il vertice socialdemocratico sceglierà il suo candidato alla cancelleria in vista delle politiche. Favorito è il vicecancelliere e ministro degli Esteri, Frank Walter Steinmeier, riformista convinto lontano dalla Linke. Ma intanto in Assia, un altro Stato dell´Ovest, è possibile la formazione d´un governo a guida Spd ma sostenuto dall´appoggio parlamentare della sinistra radicale.
il Riformista 4.9.08
Darfur. Halima, donna, medico e testimone delle "lacrime nel deserto"
"Ora, quando parli di strupri, sai di che cosa parli"
di Mario RicciardiHalima Bashir appartiene a una tribù orgogliosa delle proprie virtù guerriere, gli Zaghawa, che vive nel Darfur. In questa regione, che si trova nella parte meridionale del Sudan, Halima è nata nel 1979, in una famiglia di fede islamica. A differenza di buona parte delle donne del suo paese, che sono escluse dai benefici dell'istruzione, la giovane di cui parliamo ha studiato. Un padre benestante le ha consentito, nonostante l'opposizione di altri familiari, di conseguire la laurea, prima abitante del suo villaggio a raggiungere questo traguardo. Un successo esemplare per una persona che appartiene alla minoranza africana in un paese controllato dagli arabi. Tuttavia, quella di Halima non è solo una storia di emancipazione. Ben presto, le fosche previsioni dei tradizionalisti - convinti che per una donna "niente di buono viene dal leggere libri" - si sono avverate. Parlare con la stampa internazionale dei costi umani della guerra in Darfur non è una cosa che passa inosservata in Sudan. Soprattutto se a farlo è una donna. Halima viene prelevata dalla polizia segreta, minacciata, e spedita a svolgere il proprio lavoro di medico in un remoto villaggio. Nella nuova sede la giovane dottoressa scopre un altro aspetto del conflitto, che è destinato a cambiare la sua vita per sempre. Un giorno i Janjawid - le milizie arabe armate dal regime sudanese - attaccano una scuola femminile. Le studentesse, alcune sono bambine, vengono violentate a turno dagli aggressori.
Halima deve occuparsi delle vittime, la più giovane delle quali ha otto anni. Cerca di rimediare come può allo strazio delle carni, ma non riesce a liberarle dalla paura, dall'umiliazione, dall'impossibilità di capire perché sono state oggetto di tanta violenza. La giovane parla ancora - come può fare una donna emancipata - e racconta la propria esperienza agli operatori internazionali che sono accorsi sul luogo dell'aggressione dei predoni arabi armati dal governo. Stavolta la reazione del regime è ancora più violenta. Halima viene sequestrata, ma i carcerieri non si limitano a minacciarla. La picchiano e la violentano a turno. La chiamano "schiava" e "cagna nera". Le dicono che ora può parlare con competenza di stupri perché ha avuto buoni insegnanti. Lo scopo di tanto accanimento è farla tacere per sempre. Per le donne del Darfur, infatti, la violenza carnale è una vergogna da nascondere, un'onta che colpisce sia la vittima sia la sua famiglia. La mentalità di queste regioni opera quella che ai nostri occhi appare come una crudele inversione degli standard di valutazione morale: è la vittima e non il carnefice a portare il peso della colpa.
Ma gli agenti della polizia segreta non hanno fatto i conti con la trasformazione che gli anni di studio e l'esperienza sul campo hanno operato nella mente di Halima. Certo, lei è una Coube della tribù Zaghawa, ma è anche un medico qualificato. Una donna africana in grado di leggere e scrivere, di ragionare sul suo passato e sul destino del suo popolo, di reagire alla violenza che ha subito con la consapevolezza dei propri diritti di essere umano che manca a molte sue compagne di sventura. Halima lascia il Sudan per rifugiarsi nel Regno Unito, dove può far sentire la propria voce senza temere di essere prelevata ancora una volta dagli sgherri del regime. Chi è interessato alla testimonianza di prima mano di Halima sull'inferno del Darfur può leggere il libro che ella ha scritto con Damien Lewis, un corrispondente della Bbc, che è uscito in Gran Bretagna e viene pubblicato in questi giorni anche negli Stati Uniti. Per chi crede che ci sono diritti umani universali c'è da riflettere dopo l'immersione nell'orrore di cui Tears in the Desert. A Memoir of Survival in Darfur è la cronaca. Per esempio, c'è da chiedersi come mai il regime islamista del Sudan possa violare sistematicamente il diritto internazionale. Come è possibile che esso si faccia gioco di un mandato emesso dalla Corte penale internazionale che chiede l'arresto del presidente, generale Omar al-Bashir, per i crimini commessi nel Darfur. Perché i militanti islamici si sentano così sicuri della propria impunità da minacciare la presenza delle Nazioni Unite e delle forze di pace presenti nel paese. Forse la risposta a questi interrogativi non si trova in Sudan ma in Europa. Nei sensi di colpa che paralizzano la nostra capacità di intervenire - anche con la forza - in quel continente quando sarebbe necessario per arrestare un genocidio.