giovedì 4 settembre 2008

Focus 3 Settembre 2008
Dimitri Nicolau: un libro edito a Bari racconta il compositore di origini greche
di Ermes di Gregorio


E' da poco tempo uscito a Bari per la Papageno, casa editrice che annovera un ampio catalogo di volumi in materia musicale, il libro intitolato "Dimitri Nicolau: una ricerca personale" (Collana 'Tamino' - 324 p. - 18 eu), una rilevante monografia dedicata ad uno dei compositori contemporanei più interessanti, scomparso a Roma nel marzo di quest'anno. La curatrice, Maria Cristina Caldarola, docente di pianoforte presso il Conservatorio di Bari, alla quale è stata affidata la ricognizione ed il riordino dell'archivio del compositore, attraverso quest'opera offre per la prima volta ai lettori appassionati di musica la possibilità di conoscere la figura di un artista decisamente versatile. Nato a Keratea in Grecia nel 1946, ma ormai cittadino italiano, Dimitri Nicolau fu infatti non solo compositore, ma anche didatta, librettista e pittore. Non a caso è una delle sue opere grafiche del 2003, intitolata 'Lovers', ad illustrare la copertina del volume.
Dopo aver compiuto studi musicali in Grecia ed in Francia, si era trasferito come rifugiato politico in Italia, in quanto oppositore del regime greco 'dei colonnelli'. A Roma studiò Lettere all'Università La Sapienza, diplomandosi anche in ripresa cinematografica presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Attento studioso della musica polare greca e balcanica, ha coltivato, nell'ambito della sua ricerca artistica, un interesse attento per la psicanalisi e la psicoterapia. Fatto il suo precoce esordio nel campo della composizione all'età di 13 anni, lascia un catalogo di più di 300 opere, tra opere liriche, musica da camera, musica sinfonica, colonne sonore e musiche di scena per il teatro di prosa, spesso frutto di numerose commissioni da parte di istituzioni concertistiche, orchestre e solisti.
Volendo esporre qualche anticipazione sul volume ricco di informazioni che ora di Nicolau svela la personalità di artista a tutto tondo, abbiamo chiesto a Nicola Scardicchio, compositore nonchè docente di Storia ed Estetica musicale presso il conservatorio 'Niccolò Piccinni' di Bari, tra i curatori della presentazione al pubblico del libro, di fornirci qualche breve nota critica, che pubblichiamo di seguito, su questo stimolante lavoro.
"Il bel libro, curato con amore ed intelligenza da Maria Cristina Caldarola, ci giunge come una sorta di omaggio al compositore scomparso ai primi del 2008. Il volume è caratterizzato dalla vivacità e dalla varietà degli scritti che compongono il testo pubblicato nel 2007 da Papageno nella serie 'Tamino' ed oggi finalmente disponibile per chi voglia conoscere la figura e l'opera del compositore.
Particolarmente efficace risulta l'aver concepito l'opera come una sorta di antologia di scritti/interviste in cui musicisti e musicologi incontrano Nicolau. Proprio nella differente natura e concezione dei diversi interventi, emerge con grande evidenza la chiarezza delle idee e la solidità del carattere dell'uomo, e quindi del compositore, che infatti spesso afferma di "non 'essere' compositore, ma di 'fare' il compositore".
Figura poliedrica ma insieme coerentissima di artista che è stato più che mai musicista, ma anche pittore, regista, direttore di fotografia, docente di drammaturgia e tecnica vocale, Dimitri Nicolau non si è privato di alcuna occasione, di alcuno stimolo o suggestione per scavare a fondo in se stesso ed operare con una consapevolezza che, su solide basi filosofiche, mira ad interloquire senza mediazioni intellettualistiche con il suo pubblico.
Formatosi compiutamente sul piano accademico, Nicolau ha svolto con impegno tutti i generi di ricerca sul linguaggio ed i generi della musica contemporanea e, pur ragionevolmente sensibile alle istanze delle avanguardie, che ha frequentato ed assimilato attentamente, presto ha preso le distanze da un modo di concepire la modernità in senso spesso coercitivo ed ideologico.
Per Nicolau la musica doveva essere un mezzo per comunicare i sentimenti e per lui questo poteva avvenire solo senza la prevedibilità paralizzante dell'adesione pedissequa ai dictat delle nuove accademie. La sua reazione sconcertata alle letterali bacchettate sulla dita somministrate dai "bidelli" di Darmstadt a chiunque avesse osato mettere insieme dei suoni espessivi o, peggio, consonanti, rivela l'uomo libero che sente nella propria libertà la garanzia dell'onestà e dell'organicità del proprio lavoro di compositore: di uno che è un uomo e che quindi ha un'esperienza della vita da condividere tramite il linguaggio dei suoni.
Nelle testimonianze che compongono il libro emergono palesemente l'onestà intellettuale e la sensibilità e generosità di Nicolau di darsi senza riserve o maschere tramite le proprie opere e, quindi, la validità di questa collazione ragionata e ragionante, opportunamente consegue il doppio scopo di celebrare degnamente e senza retorismi di maniera un compositore di valore e nello stesso tempo di contribuire ad approfondire l'osservazione della musica del nostro tempo e finalmente a demistificare pseudo-filosofie ed estetiche improbabili: e credo che per una riconquistata funzione sociale della musica, accanto al lavoro onesto e trasparente degli autori sarà utile e necessaria anche una più leale e filosoficamente solida presenza della critica e della musicologia"
da Cannibali.it
Repubblica 4.9.08
Intervista a Giovanni Jervis
I miei conti con Basaglia
di Luciana Sica


Esce "La razionalità negata", un discorso su psichiatria e antipsichiatria che discute la cultura degli anni Settanta
Il libro è costruito in forma di dialogo con lo storico della medicina Gilberto Corbellini
"Il mio Manuale contrapponeva ai miti antipsichiatrici qualche nozione sensata"
"Andai a Gorizia nel ´66 affascinato dalla sua personalità, ma avevamo opinioni diverse"

Le aggettivazioni sono tutte al negativo: «vaga, poco chiara, generica». E poi, per trent´anni l´abbiamo chiamata legge Basaglia, ma sbagliando. Non perché l´avremmo dovuta indicare più correttamente con il numero "180" - e ai numeri siamo sempre un po´ ostici, si sa. Il punto è un altro: si doveva chiamare con un altro nome! Il vero padre di quella legge - «fatta all´italiana» - non sarebbe Basaglia, ma un medico psichiatra, un parlamentare democristiano: a Bruno Orsini si deve «la formulazione e la promulgazione» della celebre normativa che ha cancellato i manicomi.
«Lo sanno tutti!», si sorprende Giovanni Jervis, in questa intervista. «Tutti quelli che se ne sono occupati, ne sono perfettamente a conoscenza. Orsini ha raccolto le esigenze di cambiamento, certe idee che avevano conquistato un largo consenso nell´opinione pubblica, ma la sintesi è stata sua, e Basaglia non era mica d´accordo, lo ha detto subito, non gli piaceva per niente l´ispirazione generale favorevole alla medicalizzazione, considerava la psichiatria una disciplina sbagliata e oppressiva proprio per un eccesso nell´impostazione medico-biologica - quella che aveva permesso i peggiori abusi. Per dire, Basaglia non avrebbe mai voluto strutture psichiatriche come i reparti negli ospedali: immaginava piuttosto "un network di appartamenti anti-crisi"... Lui e il movimento antipsichiatrico erano violentemente contrari all´interpretazione del problema psichiatrico in termini medici - per loro era piuttosto una questione politica. Al contrario, l´impostazione di Orsini era del tipo: basta con i matti che turbano l´ordine pubblico, questa è gente che ha disturbi, insomma sono malati e come tali vanno trattati...».
"Jervis contro Basaglia"? Messa così, non si coglie il senso del nuovo libro di Giovanni Jervis che si presta poco a una lettura tanto riduttiva, a una semplificazione così sciatta, anacronistica e anche un po´ brutale, restituendo l´immagine di un duello con un´ombra (il grande psichiatra veneziano è morto nell´estate del 1980 a cinquantasei anni, per un tumore al cervello). È un pamphlet - senz´altro discutibile e decisamente destinato a far discutere - che Jervis firma con Gilberto Corbellini, un cinquantenne storico della medicina, e infatti si presenta sotto forma di dialogo: si chiama La razionalità negata - sottotitolo "Psichiatria e antipsichiatria in Italia" (esce giovedì 11 da Bollati Boringhieri, pagg. 174, euro 12).
Corbellini svolge un ruolo d´interlocutore dello studioso settantacinquenne, autore di saggi importanti che spesso hanno come oggetto temi sociali e politici, oggi più coinvolto nel mestiere di analista, dopo aver lasciato molto tempo fa la psichiatria "attiva" e nel 2005 l´insegnamento universitario alla "Sapienza" di Roma. È Corbellini, nelle ultime righe dell´introduzione, che incoraggia «a prendere consapevolezza dei danni, delle sofferenze e dei ritardi che una serie di irragionevoli controversie ideologiche stanno causando da quasi mezzo secolo alla vita civile italiana». Un invito genericamente rivolto a chi si occupa delle innumerevoli varianti del disturbo mentale, ma anche - e forse soprattutto - «a politici e intellettuali». Sia per la questione che si solleva - gli ideologismi che indubbiamente hanno segnato la nostra storia recente - sia per i destinatari della riflessione inevitabilmente rapida, in ballo c´è qualcosa di più di una valutazione più o meno condivisibile della legge Basaglia. L´impressione generale è quella di una presa di distanza nettissima, radicale, inequivocabile da un certo clima politico e culturale in cui si era sempre e comunque "con" o "contro" qualcuno o qualcosa.
Professor Jervis, la sua ripulsa degli anni Settanta è priva di sfumature: sembra viscerale, oltre che razionale... È vero?
«Certo, e per molte buone ragioni: ho maturato un giudizio negativo di quella stagione per quel suo gusto dell´astrattezza, la tendenza al trionfalismo e alla retorica, i settarismi, le contrapposizioni, gli schematismi, ignorando totalmente la realtà fattuale, il rigore dell´analisi, la previsione delle conseguenze di azioni o anche solo di parole... Una stagione incline alla violenza - non solo verbale, come sappiamo - intrisa anche di romanticherie vagamente spiritualiste, di confusi esistenzialismi, d´improbabili sperimentazioni, e molto più spesso di eccessi tutt´altro che innocui... Del resto, sappiamo anche come le follie collettive possano essere terribilmente normali».
La razionalità negata fa vistosamente il verso a L´istituzione negata, il famoso volume collettaneo uscito nel ´68 da Einaudi. Il sottotitolo di quel libro era "Rapporto da un ospedale psichiatrico", e infatti si raccontava la straordinaria esperienza di Gorizia. "A cura di Franco Basaglia" era l´unica dizione che appariva in copertina. Come mai non figurava anche il suo nome?
«Perché era giusto così. Perché Basaglia era il vero artefice di quell´esperienza, era lui il capo dell´équipe. In quegli anni io ero consulente della casa editrice Einaudi e andai a Gorizia nel ´66 - avendo già in mente il progetto di quel libro - affascinato dalla personalità di Basaglia, uomo di grande intelligenza, con uno sguardo sulle cose penetrante, perspicace, spiritoso, spregiudicato in senso buono. Non si può dire che avesse un buon carattere, non era sempre facilissimo andare d´accordo con lui, ma non era mai una persona mediocre. In ogni caso io non l´ho idolatrato e molto presto è venuto fuori che avevamo opinioni diverse - mai però c´è stata una lite tra noi. Del resto, il mio maestro era già stato Ernesto De Martino, l´antropologo della devianza: non mi sono mai considerato un allievo di Basaglia, e di fatto non lo ero».
L´istituzione negata ha un successo enorme e Basaglia diventa di colpo una star. Lei che ha ammirato il modello goriziano "razionale e moderato", nello stile delle comunità terapeutiche britanniche, detesta invece il movimento antipsichiatrico degli anni Settanta che in Italia avrà un indiscusso capo carismatico: Franco Basaglia, appunto. È questo a rendere il vostro rapporto sempre più ambivalente?
«Basaglia era un uomo ambizioso, sanamente ambizioso, e fino a quel momento con una vita professionale un po´ frustrata perché lui avrebbe voluto fare la carriera universitaria e inoltre non amava né Gorizia né i goriziani. Ma lui, uomo di forte carattere, lì aveva fatto una scommessa: voleva trasformare in un´esperienza-pilota quel vecchio ospedale retrivo in un angolo periferico d´Italia - con pochi mezzi, senza l´appoggio delle amministrazioni locali, con un paio di medici che lo spalleggiavano. E quella scommessa, lui l´ha vinta. Dopo, nulla è stato più uguale a prima, di fatto Basaglia è stato un po´ travolto dal successo, dal culto della sua personalità e dalle ubriacature ideologiche di quegli anni».
Certi suoi modi di fare non lo nobilitano: ad esempio, il rapporto piuttosto autoritario con gli infermieri, a volte con gli stessi medici... Ma che senso ha dissacrarne il mito tirando fuori questi aspetti un po´ meschini della personalità?
«Io non li considero meschini, perché Basaglia - per quanto egocentrico - non era mai un uomo volgare. Piuttosto apparteneva a una famiglia abituata a comandare. Le racconterò un aneddoto: un giorno andammo insieme a prendere la sua macchina, nel garage accanto alla stazione di Venezia. Per qualche ragione la sua auto gliel´avevano spostata, in un posto non suo e comunque molto meno prestigioso. Lui si era scocciato, e non poco. "Noi", mi disse in quell´occasione, "certi privilegi sociali, abbiamo il difetto di prenderli un po´ per dovuti"...».
Nel ´75, da Feltrinelli, esce il Manuale critico di psichiatria. Piace molto quel suo libro, ma a Basaglia no. Perché?
«Il mio Manuale contrapponeva ai miti antipsichiatrici qualche nozione sensata, neppure troppo originale, spiegava che parole come delirio, allucinazione, psicosi non sono designazioni arbitrarie ma fenomeni tragicamente reali. Per Basaglia, era un´operazione culturale sbagliata: il punto è che non accettava volentieri nessun comprimario, dire che era un accentratore è dire niente. Se uno pubblicava una cosa per conto suo, era automaticamente diffidente».
Il suo Manuale rispecchia in pieno un certo linguaggio degli anni Settanta, è un libro "contro le istituzioni, contro la scienza borghese, contro le gerarchie e l´autorità", in cui neppure manca quella frase-simbolo per eccellenza: "ciò che è personale è politico". Oggi, ne La razionalità negata, lei dice "ammettiamolo, siamo tutti cambiati, anche noi studiosi...". Ammetterebbe di essere cambiato un pochino più di altri?
«Il discorso politico è sempre rimasto al centro dei miei interessi, ma prima del Sessantotto credevo di più nel mondo della politica e dopo, mano a mano, com´è accaduto anche ad altri, sempre meno. Io ero un po´ filocinese, ma non sono mai andato a un´assemblea o a un corteo, non sono mai stato un militante, un organizzatore, un uomo d´apparato... Io ero un intellettuale conficcato nei libri, m´interessava la psicoanalisi seppure con molte riserve, e non disperavo di finire all´università, come poi è accaduto. Sapevo perfettamente che l´esperienza della psichiatria "attiva" sarebbe stata a termine, e lo dissi subito a Basaglia nel ´66: io vedevo il mio futuro come quello di un clinico e di uno studioso... Sì, lo ammetto: ho molto annacquato il vino politico, ma chi non l´ha fatto?».
Lei e Corbellini menate fendenti in più direzioni: sono attaccati, quasi ridicolizzati non solo gli antipsichiatri, ma anche tutti quelli che anche oggi non disdegnano la letteratura e la filosofia per la comprensione della "follia", tenendo magari poco conto delle categorie nosografiche o delle ricerche epidemiologiche. L´intellettuale per il quale lei mostra la più totale idiosincrasia è Michel Foucault: è stato davvero un cattivo maestro?
«Di Ronald Laing, non lo direi mai: lo definirei senz´altro un antipsichiatra, ma anche un poeta, un mistico, un rinnovatore, uno spontaneista, uno che navigava su territori politico-culturali rarefatti. Foucault invece è stato proprio un cattivo maestro: uno che generalizzava molto e analizzava pochissimo, con il grave demerito di aver idealizzato la devianza sociale. È vero che non è stato il solo, ma lui l´ha fatto in modo particolarmente convincente. Non per me, comunque».
Torniamo all´oggi, con l´aiuto dei dati che fornisce Corbellini nelle ultime pagine del libro. Particolarmente sconfortanti sono quelli che confermano in modo inequivocabile l´eccessivo peso del settore privato nella cura dei malati. Nel Sud - si legge - i letti privati sono addirittura il doppio di quelli pubblici. Ma se in questo Paese regna il malaffare, se le Regioni privilegiano le cliniche convenzionate piuttosto che rafforzare le strutture territoriali pubbliche, Franco Basaglia cosa c´entra?
«Assolutamente niente. Se oggi la psichiatria continua a zoppicare, se l´assistenza ai malati è ancora quella che è, i motivi vanno fatti risalire alle derive della politica e della cultura, ai fallimenti delle Regioni, alla vulgata di certe idee antipsichiatriche. Non a Franco Basaglia, che ne è del tutto innocente... Questa è l´Italia».

l'Unità 4.9.08
Quel che penso di Gramsci
di Vincenzo Cerami


In un passaggio del mio incontro con il ministro Sandro Bondi alla Festa Nazionale del Pd, si è accennato alla figura di Antonio Gramsci. Il ministro ha lodato il nostro grande intellettuale con toni che gli sono propri, edificanti, crepuscolari, concilianti. Non potevo non essere d’accordo con le sue belle parole ma ho sentito il bisogno di far capire al ministro in carica che noi, proprio perché ci siamo nutriti per più di mezzo secolo dell’intelligenza e dell’insegnamento di Gramsci, puntiamo criticamente lo sguardo al presente e al futuro che molto ci preoccupano.
Qualcuno ha voluto interpretare il mio intervento come una presa di distanza dal dettato gramsciano niente di più assurdo. Gramsci è per noi un caposaldo, un punto di partenza etico fondamentale per una concezione alta della lotta politica. Quando fui chiamato dal partito per ricoprire il ruolo di responsabile della cultura nell’esecutivo, alla domanda dei giornalisti che mi hanno chiesto a quale figura di intellettuale il Pd dovrebbe ispirarsi, ho risposto senza esitazione: Antonio Gramsci. Qualche giornale ha ironizzato sulla mia scelta che a loro è parsa fin troppo scontata. Ma ho lasciato correre.
L’opera di Gramsci, anche grazie al mio maestro Pasolini, è parte di me come di tutta la sinistra italiana. Negli anni Settanta ho perfino fondato una rivista di poesia a lui dedicata nel cui titolo «I tre giganti» era tratto dai suoi scritti familiari. Ed è la sua lezione che mi ha fatto dire l’altra sera che bisogna guardare il presente per capirlo e per meglio agire politicamente e culturalmente.
La vitalità del fondatore del Pci e de l’Unità sta proprio nell’attualità della sua voce. Ma l’omologazione pasoliniana si è compiuta e l’Italia è diventata ben altra cosa rispetto agli anni del fascismo. Si impone in questi giorni un’analisi nuova della nostra società, che ha ben pochi agganci con il passato. A mio avviso siamo alla vigilia di una profonda e inedita trasformazione degli assetti sociali, e quindi culturali. Giorno dopo giorno emerge la nuova classe degli «impoveriti», una classe che i linguisti chiamerebbero «sincretica».
Noi dovremo essere in grado di offrire a queste persone la sicurezza reale e non quella plateale, di facciata, del governo. Dobbiamo prospettare un’Italia giusta, serena, fiduciosa del futuro. Abbiamo risorse e intelligenze per questo. Gramsci, con i suoi scritti e con il suo esempio, esorta gli uomini a non rassegnarsi mai, a non accettare supinamente lo stato delle cose. Insieme con gli altri padri delle nostre idealità, laici e cattolici progressisti, ci dice di studiare, di organizzarci, di agire per «cambiare il mondo».
Parole quantomai sacrosante in questo periodo di depressione sociale. Non dimentichiamo certamente i nostri padri, ma neanche i nostri figli.

l'Unità 4.9.08
1931, giustiziato il «leone del deserto» libico
Anche allora l’Italia preferì mentire


IL DOCUMENTO
Ordine del giorno del generale Graziani
«Omar el Mukhtar, il capo politico e militare dei ribelli, è caduto nella rete che da diciassette mesi sul Gebel cinquanta volte si era aperta e chiusa per afferralo: c’è caduto alfine!
E non è fortuita circostanza: è la tenacia, la fede, il valore, lo spirito di sacrificio dei comandanti e delle truppe che hanno trionfato!
È il metodo che si è venuto affinando in tutti gli atti dell’operazione bellica, dall’esplorazione aerea a quella terrestre, dal concetto di manovra alla esecuzione nel campo tattico!
È lo strumento che è stato lubrificato in tutte le sue articolazioni! È l’armonica azione dell’aviazione, dei battaglioni, degli squadroni!
Ufficiali, soldati, Siamo a una svolta decisiva! Siamo alla frusta! Avanti, per la grandezza d’Italia!»

Non furono «la tenacia, la fede, il valore, lo spirito!» come scrisse il generale Rodolfo Graziani nel suo enfatico messaggio alle truppe. Fu, più semplicemente, un delatore a consentire l’arresto del «leone del deserto» Omar El Mukhtar, l’eroe nazionale libico. È quanto emerge, quasi 80 anni dopo, dall’esame delle carte conservate dai familiari di Giuseppe Franceschino, il giudice istruttore del Tribunale del Corpo d’Armata territoriale di Bengasi, cioè della corte che, dopo un processo-farsa, condannò El Mukhtar all’impiccagione.
Era il 1931. Ma il fantasma di El Mukhtar è comparso più di una volta nella storia tormentata dei rapporti italo-libici. Nel 1981 il colossal americano «Il leone del deserto» - dove la parte di El Mukhtar era interpretata da Antony Quinn - fu denunciato per «vilipendio alle forze armate» e gli italiani poterono vederlo in modo semiclandestino solo nei circuiti alternativi. Da allora molte cose sono cambiate. Tanto che solo l’agenzia libanese As Safir ha registrato, nelle cronaca della visita di Berlusconi a Tripoli, una stretta di mano tra Berlusconi e il figlio del «leone del deserto».
Omar el Mukthar fu catturato l’11 settembre del 1931 durante un trasferimento. Un episodio chiarisce a che genere di processo fu sottoposto: alla fine fu condannato anche il suo avvocato, il capitano Roberto Lontano, colpevole di aver difeso il suo assistito con troppo zelo. La condanna a morte mediante impiccagione fu eseguita il 16 settembre, alla presenza di 20.000 deportati libici. Pochi mesi dopo la ribellione cessò definitivamente.
Qualcuno (fra cui il gerarca Emilio De Bono) avanzò il dubbio che la cattura fosse stata consentita dal tradimento di un altro capo della rivolta. Ma all’ipotesi non fu mai trovata alcuna conferma. Quella che, oggi, arriva dalle carte del giudice istruttore e in particolare dai verbali dell’interrogatorio di Hamed Bu Seif, un trentacinquenne mulesem aul (sottotenente) del dor di Abid, che comparve davanti al magistrato il 12 maggio 1931, poco più di tre mesi prima dell’arresto.
L’incipit racconta non solo l’avvio della collaborazione da parte di Hamed Bu Seif ma anche di altri rivoltosi: «Confermo quanto ho già dichiarato... nulla ho fatto contro il Governo, sottomettendomi al quale, son sicuro di avere la tranquillità... Mi sono sottomesso perché ho visto che Saad Fannusc sottomessosi è stato lasciato tranquillo e, al Dor gli altri che hanno intenzione di sottomettersi, vogliono prima vedere come sono trattato anch’io».
Dunque, l’avvio di una azione di gruppo, di cui Bu Seif era solo l’avanguardia. L’interrogatorio, ripreso anche nei giorni seguenti, produceva molte informazioni sull’organizzazione della resistenza: armamenti, organigrammi e una raffica di decine di nomi con le rispettive azioni compiute, sino a riempire 25 fitte pagine di verbale. In particolare colpiscono molti passaggi riguardanti Omar el Mukhtar:
« ...il drappello che è a guardia personale di Omar Mukhtar non ha caimacan, ma un Bimbasci comandar: egli è Bubacher Zigri....si distinguono dagli altri perché: sono tutti della stessa cabila di Omar e perchè vestono barracani di seta, e tachie rosse... Quando la carovana si muove ...poiché con essa si muove anche Omar Mukhtar è scortata anche dai suoi cavalieri... Omar non cavalca un cavallo sempre dello stesso colore, quando lo lasciai cavalcava un cavallo bianco... la tenda di Omar Mukhtar è a 4 teli, italiana, ed è come quella che adoperiamo noi ascari. Egli non ha più la tenda conica...».
Tutte notizie utili a individuare il capo guerrigliero e la sua guardia del corpo, magari dall’alto di una ricognizione aerea.
Ignoriamo che fine abbia fatto Hamed Bu Seif e se sia mai stato processato, ma sembra decisamente improbabile che il comando militare italiano abbia lasciato cadere una così rilevante offerta di collaborazione che, probabilmente, riguardava un gruppo non piccolo. C’è da credere che la promessa di impunità sia stata mantenuta. La pelle del «leone del deserto» valeva moltissimo.
Benché ultrasessantenne divenne rapidamente il capo indiscusso della resistenza libica e si guadagnò una fama di invincibilità. Per fermarlo le truppe di Graziani compirono atrocità al limite del genocidio, deportando oltre 80.000 libici in campi di concentramento. Lo stesso Rodolfo Graziani, riconobbe che si trattava di misure di eccezionale crudeltà (e, detto da lui...). Nel gennaio 1931, l’oasi di Kufra venne presa con un eccezionale spiegamento di forze (20 aerei, 300 autocarri, 7.000 cammelli), ma la speranza di catturare Omar andò delusa. In settembre il «dor» era ridotto in condizioni disperate, ma, data la vastità del territorio, non era facile dire per quanto tempo ancora sarebbe durata la caccia. Inoltre, esisteva un rischio molto serio: Omar -già sfuggito alla cattura infinite volte- avrebbe potuto superare il reticolo di filo spinato e raggiungere l’Egitto con parte dei suoi. Lì sarebbe stato imprendibile e avrebbe potuto riorganizzarsi. Un rischio che il governo fascista -in lotta col tempo- doveva assolutamente evitare.

l'Unità 4.9.08
Mussi: «Da trapiantato dico che l’Osservatore non mostra carità cristiana»
di Roberto Monteforte


«Avrei voluto farle vedere i bambini appena nati trapiantati di cuore. La cura e l’amore con cui le mamme se li cullavano. Bambini vivi, non morti, perché c’era qualcuno che gli ha donato il cuore». Così Fabio Mussi, già parlamentare di lungo corso, 60 anni e un doppio trapianto di reni, risponde all’autrice dell’articolo dell’Osservatore Romano che contestando la morte cerebrale metteva in discussione i trapianti. Che invece per Mussi sono un esempio altissimo del concetto di carità cristiana.

«Nel portafoglio ho la tessera dei donatori di organi. Sono tra quelli che hanno firmato l’autorizzazione per l’espianto degli organi. L’ho presa subito. Quando nella legislatura 1996-2001 il Parlamento ha approvato la legge che regolamenta i trapianti. Chi lo avrebbe mai detto che poi sarei stato, invece, un “ricevitore” di organi. Uno che il trapianto lo ha subito». Parla Fabio Mussi, politico di lungo corso, presidente del consiglio nazionale di Sinistra democratica, sessant’anni tondi tondi e un doppio trapianto ai reni subito lo scorso febbraio che lo ha fatto rivivere. «Quando arrivi sull’orlo della dialisi quello che ti scorre nelle vene solo per convenzione lo chiami sangue: è veleno».
Mussi ha tante buone ragioni per essere un convinto difensore del trapianto di organi. «Penso sia una cosa di altissima civiltà. La donazione di organi è una delle più alte manifestazioni di simpatia verso il prossimo. Io sono grato a quella persona che non ho mai conosciuto e che terminando la sua vita ha consentito alla mia di poter continuare».
Per questo non riesce proprio a trattenere la critica per l’articolo dell’Osservatore Romano che mettendo in discussione il concetto di morte celebrale finisce per bloccare il trapianto degli organi. «Senza trapianto sarei andato in dialisi e poi avrei atteso anni prima di avere una possibilità. Già ora la gente aspetta tempi lunghissimi, perché i donatori sono meno del fabbisogno». All’autrice dell’articolo lo dice chiaro: «Avrei voluto farle vedere i bambini appena nati trapiantati di cuore. La cura e l’amore con cui le mamme se li cullavano. Bambini vivi, non morti, perché c’era qualcuno che gli ha donato il cuore». «Quell’articolo - insiste - è uno dei segni di regressione che si affollano di questi tempi».
Storia di un trapiantato. Era ministro dell’Università e della Ricerca scientifica. Ma per lui nessuna corsia preferenziale. Ha fatto riferimento ad un programma particolare e lo scorso 11 febbraio è stato operato all’ospedale di Bergamo, struttura pubblica e centro di grande eccellenza. «Struttura pubblica e centro di eccellenza internazionale - ci tiene a sottolineare -. In Italia è nel pubblico che si concentra l’eccellenza». Attende poco, quattro mesi, per il doppio trapianto. «È perché sono entrato in un programma preventive list”, una lista preventiva, che consente di sottoporsi ad un trapianto prima di entrare in dialisi se si sono superati i 60 anni. Invece di ricevere un rene da una persona giovane - spiega - si ricevono due organi da una persona anziana, quindi più usurati». Le liste sono molto più corte. «Quando mi sono iscritto a questa lista eravamo in otto in attesa. Ho aspettato quattro mesi. L’intervento è più complesso. C’è il doppio dell’anestesia. È tutto doppio: due i tagli, due gli organi. I reni sono più usurati perché di persone più anziane. Prima venivano scartati. Non tutti azzardano, anche se i dati statistici rassicurano. Dicono che hanno un rendimento pressoché analogo ai reni più giovani e più efficienti. Questa scelta mi ha consentito il trapianto prima di entrare in dialisi». Un dato lo allarma: «Gli organi disponibili sono solo un terzo di quelli necessari per i trapianti. Già da diversi anni si registra un calo nelle donazioni». Commenta: «È un brutto segno dei tempi, di quando torna ad essere in voga “il mio è mio e il tuo è tuo”, l’egoismo sociale. Questo si riflette in tutti gli ambiti. C’è meno disponibilità verso il prossimo e meno generosità».
L’effetto di tutto questo? Si fanno sempre più lunghi i tempi di attesa per un trapianto. È per questo che condivide la critica di Ignazio Marino: «L’articolo pubblicato dall’Osservatore Romano è irresponsabile». «È vero - riconosce - che il Vaticano ha fatto una mezza marcia indietro, ma tuttavia dal quotidiano ufficiale della Santa Sede è stato lanciato un bel sasso nello stagno. È un segnale grave perché la Chiesa ha faticato a maturare una posizione sul tema dei trapianti. È arrivata ad una posizione nitida, favorevole solo con un famoso discorso di Giovanni Paolo II nel 2000». Non ha dubbi Mussi: «Se si mette in discussione il concetto di morte come morte celebrale, praticamente si dà lo stop ai trapianti. Si toglie la speranza ad un numero crescente di persone». Questo è inaccettabile. «Cristo di Galilea lanciò al mondo il più straordinario messaggio di tutti i tempi: ama il prossimo tuo, amalo come te stesso. È una delle formule più rivoluzionarie nelle formule di società che mai siano state pensate. Una Chiesa che sottomette questo straordinario principio ad altri pregiudizi - conclude - mi preoccupa». Spera che sia solo un incidente.
Tra qualche giorno il «trapiantato» Mussi si sottoporrà alla sua verifica semestrale. Il suo organismo comincia a convivere sempre meglio con questo «nuovo filtro». Può riprendere la vita di sempre. «Il corpo funziona. Sono già andato a pescare, in barca a vela, al mare. Mi sono occupato delle mie nipotine». Ne parla con gioia. È una felicità che non vuole tenersi per sé. Vuole che sia possibile anche per chi è in lista e attende con speranza un cuore, un fegato, un rene nuovi.

l'Unità 4.9.08
Eluana, no della Lombardia: avanti con l’alimentazione
«Se si interrompesse, il personale sanitario verrebbe meno ai suoi obblighi». Il padre: non mi fermeranno


«L’alimentazione di Eluana continua». La Regione Lombardia nega ad Eluana Englaro di morire. L’ennesimo ostacolo per Beppino Englaro nella lunga strada per l’esecuzione della sentenza della Corte d’Appello di Milano che lo autorizza a staccare le macchine alla figlia Eluana, da 16 anni in stato vegetativo, arriva dalla direzione sanitaria della Regione Lombardia. «Il personale sanitario non può sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiale del paziente: verrebbe meno ai suoi obblighi professionali e di servizio» è la risposta del direttore sanitario Carlo Lucchina. Ma il papà di Eluana lui non si ferma: «Per il decreto del 9 luglio scorso ho speso una vita, figuriamoci se posso fermarmi ora», afferma. E promette: «Rispetterò il decreto. Se gli altri oppongono ostacoli risponderanno per quello che fanno. Noi andremo avanti fino in fondo. Ora vedremo dal punto di vista legale come superare quest’altro ostacolo».
La decisione della Regione Lombardia è la risposta sollecitata con una diffida dei legali del signor Englaro per la mancata indicazione di una struttura che potesse ospitare Eluana per procedere con la sospensione della alimentazione e della idratazione artificiali. Il 9 luglio scorso per il padre Beppino sembrava chiudersi un percorso tortuoso iniziato nel 1999 quando chiese per la prima volta l’interruzione dei trattamenti per la figlia. Con quella sentenza i giudici della Corte d’Appello di Milano autorizzavano Englaro in qualità di tutore della figlia, a interrompere i trattamenti. Per quanto un provvedimento immediatamente esecutivo, da subito si prospettarono una serie di difficoltà. Anzitutto il fatto che la Procura generale aveva 60 giorni di tempo per ricorrere in Cassazione. E il ricorso era poi arrivato il 31 luglio scorso con tanto di richiesta di sospensiva del provvedimento da parte della Procura generale. Si era poi fatta avanti la possibilità della obiezione di coscienza dei medici chiamati a staccare la spina. In questo caso per legge la direzione sanitaria della struttura avrebbe dovuto provvedere a trovare un medico non obiettore. Ma ieri dalla direzione sanitaria regionale è giunta una più autorevole risposta: «La richiesta avanzata da lei non può essere esaudita in quanto le strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico diagnostico-assistenziale dei pazienti», ha scritto Lucchina in una lettera al signor Englaro.
Intorno al nuovo capitolo del caso Englaro sono tornati a farsi sentire le voci della politica. La stessa alla Camera aveva sollevato il tema del conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte Costituzionale in merito alla vicenda. «Sono assolutamente e totalmente d’accordo» con la decisione della Regione Lombardia ha detto la teodem Paola Binetti del Pd. E anche la Chiesa ha fatto sentire la sua voce, attraverso il cardinale Javier Lozano Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la Pastorale della salute. «Sono molto contento della decisione della Lombardia - afferma il porporato -. Nessuno ha il potere di decidere sulla vita, dal suo concepimento al tramonto naturale».

Corriere della Sera 4.9.08
Il dottor Morino: «Pronti ad accoglierla in una struttura toscana»
di Gra. Mot.


MILANO — «Alimentazione e idratazione artificiale come assistenza di base?
Quello che scrive la Regione Lombardia è arbitrario, su questo punto c'è un dibattito aperto dal punto di vista etico e scientifico». Entra nel merito della lettera della Regione Lombardia, Piero Morino, medico palliativista, responsabile dell'hospice fiorentino delle ex Oblate, quello per il quale si era ipotizzato un possibile ricovero di Eluana Englaro. «Se fosse come ha scritto Lucchina, significherebbe che anche nelle strutture come quelle che io dirigo i moribondi dovrebbero essere costretti a mangiare prima di morire. Ma non funziona così.
Basta leggere le linee guida della Società scientifica di nutrizione: non è affatto scontato che alimentazione e idratazione artificiale siano considerate assistenza di base». Sull'eventuale accoglienza di Eluana in Toscana, le porte sembrano essere ancora aperte, ma il medico non si sbilancia: «Dico solo che esiste una sentenza e questo non è un fatto trascurabile».

Corriere della Sera 4.9.08
Gli studiosi De Mattei e Becchi: le nuove ricerche per ridefinire il momento della fine della vita
«E se il cervello si potesse rianimare?»
di Adriana Bazzi


MILANO — Paradossalmente: se la medicina trovasse il modo per «rianimare » un cervello da elettroencefalogramma piatto (per dire, con un trapianto di staminali o un pacemaker cerebrale o qualche farmaco che lo rivitalizzi, anche senza pensare a stravaganti trapianti di testa), il criterio di morte cerebrale andrebbe davvero cambiato.
Il rapporto di Harvard nel 1968 aveva superato il concetto di morte cardiaca, arrivando alla definizione di morte cerebrale, anche perché i progressi scientifici dell'epoca avevano messo a disposizione dei medici le tecniche di rianimazione.
«Non è solo quello — commenta Roberto de Mattei, professore di Storia moderna all'Università europea di Roma, il cui volume, insieme a quello del professor Paolo Becchi, è stato utilizzato da Lucetta Scaraffia per sostenere la propria tesi sull'Osservatore Romano —. Non dimentichiamo che, qualche mese prima della pubblicazione del rapporto di Harvard, Christian Barnard aveva eseguito il primo trapianto di cuore e dal momento che un cuore da trapiantare può essere ancora battente, con il vecchio criterio si rischiava di compiere un omicidio. La scelta di cambiare, dunque, è stata dettata più da esigenze etiche che scientifiche ».
Scienza, etica e filosofia si mescolano quando si parla di fine della vita come quando si parla di inizio. Anche quest'ultimo non è ben definibile in termini biologici perché è un processo graduale: «La condanna dell'aborto — commenta de Mattei che, da vice-presidente del Cnr, ha curato il libro Finis vitae. La morte cerebrale è la fine dell'individuo? (Rubettino editore), spunto dell'attuale dibattito — è una posizione garantista: nell'ipotesi scientifica che si tratti di vita umana, si considera l'embrione come essere umano. Ecco, vorrei dire che mentre la Santa Sede è garantista nella difesa dell'embrione, non lo è altrettanto nelle difesa dei momenti terminali della vita».
La definizione di morte cerebrale, dunque, non sarebbe scientifica, perché, mentre con la morte cardiaca ci si limitava ad «accertare» la morte, con i criteri di Harvard si pretende di «definirne » il momento. «Ma il cervello non è l'organo integratore del corpo, o almeno la scienza non lo ha ancora dimostrato — continua de Mattei — e non è detto che quando il corpo perde un organo con funzioni direttive, come il cervello, vada inevitabilmente incontro a dissoluzione».
Alcune ricerche scientifiche lo dimostrano. Alan Shewmon, neurologo dell'Università della California a Los Angeles, descrive il caso Tk, di un bambino che a 4 anni aveva avuto una diagnosi di morte cerebrale e che oggi a 18 continua a vivere. Joseph Evers, pediatra dell'American Academy of Pediatricians ricorda che embrioni, ancora privi di un organo integratore centrale, sono esseri viventi. E Paolo Becchi, professore di Filosofia del Diritto all'Università di Genova, autore del libro Morte cerebrale e trapianti di organi (Morcelliana Editore), dice: «Anche in caso di morte cerebrale accertata secondo i criteri usuali, alcune funzioni rimangono attive: per esempio, due ghiandole che si trovano nell'encefalo, l'ipofisi e l'ipotalamo, continuano a secernere ormoni. Il sospetto che i criteri di morte cerebrale siano stati stabiliti per facilitare gli espianti esistono».
A questo punto, scientificamente parlando, andrebbero incoraggiati gli studi e le ricerche sul cervello e sulla rivitalizzazione degli organi. E magari capire, dal momento che il principio vitale non sarebbe il cervello, che cos'è davvero la vita. In un film statunitense del 2003, firmato dal regista Alejandro Gonzales Inarritu, che parla di incidenti stradali e trapianti, di inseminazioni artificiali e di aborti, di morte e di vita, quest'ultima è qualcosa che pesa «21 grammi», tanto quanto l'anima che se ne va.

Repubblica 4.9.08
La tribuna dei teocon
di Adriano Prosperi


L´ultimo no a Eluana Englaro dalla Regione Lombardia contraddice la sentenza della magistratura, e l´editoriale dell´Osservatore Romano che avanza dubbi sulla morte cerebrale, riaprono il drammatico confronto su chi decide del nostro ultimo respiro.
A quanto pare, la Santa Sede che ne è la proprietaria lascia al direttore di turno la responsabilità delle sue scelte, né più né meno di quel che accade normalmente nella grande stampa di informazione. Del resto, nella nostra epoca di crisi delle ideologie è già accaduto di veder sbiadire in altri quotidiani le certezze precostituite di verità offerte come chiavi di lettura dei fatti del giorno. Ma sarebbe bene che le autorità vaticane lo spiegassero con chiarezza. Se il direttore di quel quotidiano decide di ospitare e di dare risalto all´opinione di chi, forte di una sua rispettabile convinzione religiosa più che di una specifica autorità in materia, revoca in dubbio il criterio fondamentale su cui opera la medicina dei trapianti, non per questo i medici, gli anestesisti e gli infermieri cattolici debbono correre a fare obbiezione di coscienza. È così? Come ha ricordato su Repubblica il professor Ignazio Marino, la cosa è importante per chi ha la vita appesa al filo di un trapianto di organi. È qui che si svolgono quotidianamente drammi silenziosi e si combattono battaglie in difesa non della vita in generale – come quelle sulle questioni dell´aborto e dell´eutanasia – ma di precise esistenze individuali. C´è, poi, un problema più generale di scelte della Chiesa che si è clamorosamente profilato in questo ultimo episodio ma che avevamo già intravisto nella precedente questione dei giudizi di Famiglia cristiana sulla politica del governo attuale: la contraddizione sempre più evidente tra l´alleanza strumentale della Chiesa con le truppe di sfondamento dei "teocon" nella battaglia coi valori della democrazia laica e quella che costituisce la sostanza civile e storica di tanta presenza cattolica nel nostro mondo. Bisognerà seguire con attenzione questa vicenda, aspetto inedito della situazione per certi aspetti grottesca dell´Italia politica attuale: un paese dove l´opposizione di sinistra è semplicemente scomparsa e valori della solidarietà sociale si affidano direttamente all´ispirazione dei singoli e al fiume sotterraneo del volontariato.
Tuttavia l´episodio mostra indirettamente l´urgenza di un problema che richiede l´attenzione del potere legislativo: quello del testamento biologico. Materia delicata, delicatissima. Il testamento è stato e resta un documento importante per quanto riguarda le disposizioni sui beni di fortuna: intere categorie professionali vivono in grazia di quel documento, per interpretarlo, contestarlo, attuarlo. L´esperienza quotidiana e la letteratura d´ogni paese insegnano che i testamenti si fanno e si disfano, che le ultime volontà possono sempre diventare le penultime. L´incertezza degli umori, la variabilità degli stati d´animo e degli affetti dominano nell´operazione del disporre dei propri beni. Anche la vita è un bene: un bene supremo, si dice. Per tutti, si pretende. E questo non è vero. "A me la vita è male": parole di Giacomo Leopardi. Così vere e così suggestive che nemmeno il censore d´ufficio della Sacra Congregazione dell´Indice se la sentì di condannare quel suddito degli Stati Pontifici che aveva così radicalmente divorziato dalla religione obbligatoria. Quanti oggi nel mondo sottoscriverebbero quelle parole? meglio non saperlo. Ma in cambio gli ottimisti per professione, i credenti nel valore obbligatorio della vita anche a dispetto dei sentimenti e delle volontà dei viventi abbassino almeno la voce. Un fatto è certo: l´avanzata della legge tocca oggi l´ultimo dei beni disponibili, la vita L´inarrestabile processo di giuridicizzazione di ogni aspetto dell´esistenza bussa a questa ultima porta. Bisognerà che ci si decida ad aprirla. Certo, qui si aprirà la lotta fra chi chiede una legge e chi non la vuole. Fino a non molto fa, la linea divisoria passava tra i credenti in un Dio provvidente e benevolo, erogatore di un´altra vita e chi non condivideva quella fede. Ai non credenti l´invito degli uomini della religione è stato fatto rovesciando l´atto di nascita della civiltà moderna e chiedendo di accettare in mancanza di meglio una regola di vita fondata sull´esistenza di Dio: come ipotesi, come scommessa. Ma da quella scommessa metafisica che piaceva a Pascal la struttura di potere che il clero cattolico ha costruito su fondamenta di diritto romano ha ricavato la conseguenza di imporre anche ai cittadini di uno Stato moderno la sudditanza alla loro legge. Da qui gli inviti alla disobbedienza alle leggi dello Stato, la difesa delle cosiddette obiezioni di coscienza di medici e farmacisti.
E tuttavia anche per la religione cattolica bisognerà avere presenti i lati positivi dell´opera sua e dell´influsso che esercita specialmente in Italia dove è radicata capillarmente e svolge compiti fondamentali di assistenza e di protezione: anche di cultura e di presenza civile, supplendo a istituzioni assenti e portando parole coraggiose e ricche di echi, come ha mostrato di saper fare di recente Famiglia cristiana. La resistenza alle sbrigative soluzioni legali di problemi delicatissimi di vita e di morte merita sicuramente attenzione. Anche per il "testamento biologico", come già per la legge sull´aborto terapeutico, si tratta di averne ben presenti i limiti.
Come ogni altro bene, più di ogni altro bene, la vita subisce le fluttuazioni del mercato ed è esposta alla legge della domanda e dell´offerta. Anche alla legge della propensione al rischio del padrone di quel bene: da giovani si è pronti a regalarlo o a disfarsene con levità di spirito, da vecchi lo si risparmia. L´avarizia del vecchio che resiste alla natura con tutti i mezzi è stata raccontata in uno tra i più belli dei racconti di Cechov, "Una storia noiosa". Quando resta poco del giorno, ogni istante diventa prezioso; quando si sa che è il nostro turno di andarcene, si spia con ansia ogni goccia d´olio nella lampada. Se ne ricava una banalissima conclusione: che un testamento vale per il momento in cui lo si detta anche se è pensato per decidere qualcosa che avverrà in futuro. È molto probabile che l´ultimo fremito di vita del malato terminale sarà di rimpianto e di attaccamento estremo a quello che in piena salute aveva chiesto di essere aiutato ad abbandonare. Tenendo conto di questo, la legge non potrà andare oltre la sua funzione che è quella di essere fatta per gli individui: dunque per tutelarne i diritti, non per sottometterli ad altra e superiore potestà. Se questo è chiaro, allora si può certamente trovare una formula giuridica adeguata. Che vi si arrivi è necessario, anzi è gran tempo che lo si faccia. Lo impone la necessità di tutelare ciascuno di noi dalla prepotenza di regole che privano l´individuo della disponibilità di ciò che solo è suo, il tempo di vivere e di morire.
Nessuna delega incontrollata a terzi, nessun diritto di mettere le mani sui nostri corpi ancora viventi giocando con le parole di una legge. Ma anche la fine di quegli osceni clamori che abbiamo tante volte ascoltato sui casi di chi lucidamente chiedeva di essere aiutato a concludere una vita intollerabile. E soprattutto si dovrà incoraggiare lo sviluppo di quelle forme di assistenza che esistono per rendere meno intollerabili le malattie che tolgono memoria e conoscenza, che rendono l´essere umano una minaccia per sé e per chi vive con lui; cure palliative, incremento dei luoghi dove si possa terminare in modo umano una vita che se ne va e andare incontro a una morte annunciata. Tutto questo significa spostare l´attenzione alla carenza vera dell´Italia: le istituzioni dell´assistenza. È alla medicina come sistema di tecniche e di culture che si rivolge oggi chi ha realmente bisogno di tutelare vita e morte sue e di chi da lui dipende. Gli altri parlano e gridano da pulpiti vistosi.
I medici sanno, operano, fanno le cose che possono e sanno fare. Ma con quali mezzi? E combattendo con quali pregiudizi, propri e altrui? In quali contesti? Perché è evidente che altro è l´ospedale locale altra è la grande clinica privata, altro è il Sud e altro il Nord del mondo, non della sola Italia, visto che i soli confini che l´emigrazione in cerca di ospedali oggi conosce sono quelli della ricchezza individuale e del mondo intero. Così come ogni altra forma di emigrazione.

Repubblica 4.9.08
I padroni della vita
di Umberto Veronesi


"A ciascuno il suo": il motto dell´Osservatore Romano significa forse che ognuno può scegliere quello che preferisce nell´offerta di notizie e commenti del giornale vaticano? Così si direbbe, a giudicare dalla pubblicazione di un articolo che mette in discussione il criterio della morte cerebrale.
La gente ha paura della propria morte, ma allo stesso tempo la vuole, o meglio vuole sapere che quando il momento verrà, se ne andrà in pace. Io sono d´accordo con il filosofo Hans Jonas, che, riflettendo sul problema della morte cerebrale, scrive: «Non è necessaria una ridefinizione della morte, ma forse soltanto una revisione del presunto dovere del medico di prolungare la vita ad ogni costo». Di fronte a un paziente che ha lesioni così gravi da non avere alcuna prospettiva di recupero, la domanda non è "il paziente è morto?" ma: "Che fare di lui?".
A questa domanda non si può certo rispondere con una definizione di morte ma con una definizione dell´uomo e di cos´è una vita «umana». In altre parole, il problema della nostra morte si è spostato dalla scienza (che ha il ruolo di definire i criteri per determinare la morte in base alle sue conoscenze) alla bioetica (che ha il compito di stabilire un equilibrio fra applicazione delle conoscenze della scienza e vita dell´uomo). La scienza continua a spostare i limiti della morte, ma al di là di questi confini non c´è la nostra esistenza naturale, in cui noi amiamo, ci emozioniamo, pensiamo, soffriamo; quella che noi medici difendiamo con tutte le nostre energie, la nostra intelligenza e il nostro amore.
C´è un limbo opaco e inquietante a metà fra la non-morte e la non-vita. Va ricordato che la bioetica è nata nel 1970 con Von Potter che, nel suo "Bioethics: a bridge to the future", sostiene che l´etica deve ispirarsi alla biologia dell´uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell´esistenza umana. Una tempesta si è abbattuta su questi equilibri con l´introduzione della vita artificiale, cioè quando a metà del secolo scorso sono state introdotte nei reparti di rianimazione delle macchine in grado di mantenere l´ossigenazione del sangue e il battito del cuore, anche se le funzioni cerebrali sono cessate.
Nasce così l´incubo della vita artificiale, come esito non voluto dei progressi della tecnologia. Per millenni l´uomo ha avuto paura di morire per le guerre, le malattie, le carestie, invece negli ultimi decenni ha iniziato a sviluppare una nuova paura che è ancora agli esordi del suo manifestarsi: la paura di vivere oltre il limite naturale della biologia. Molti si stanno rendendo conto della progressiva invasione della tecnologia nella vita umana fino a spostarne i confini all´infinito. Ha ragione l´Osservatore Romano: i principi del rapporto di Harvard che ha introdotto i criteri neurologici nella definizione di morte (da allora basata non solo sull´arresto cardiocircolatorio, ma anche sull´encefalogramma piatto), se non superati, sono in evoluzione. Troveremo altri criteri più sofisticati forse, e tecnologie ancora più potenti, ma dovremo allora rinunciare alla morte? È una prospettiva agghiacciante, che si associa all´immagine di un esercito crescente di corpi vegetanti chiusi nelle loro prigioni.
Come fare allora a ritrovare la nostra morte? Ritorniamo a Hans Jonas e riflettiamo sul concetto di vita. La svolta alla definizione di vita è venuta a fine ´900, quando è stata identificata la vita biologica con il pensiero: se l´elettroencefalogramma è piatto, non c´è attività cerebrale e dunque non c´è vita. In Italia l´introduzione dei criteri neurologici per accertare la morte (sulla base dei parametri di Harvard) avvenne nel 1969 e nel 1970, con due decreti che poi vennero incorporati in una legge relativa al prelievo e al trapianto d´organo nel 1975.
Se i parametri di Harvard fossero superati e se effettivamente, dal punto di vista fisiopatologico, la morte cerebrale non provocasse la disintegrazione del corpo, ciò che non viene né superato né messo in discussione è l´irreversibilità dello stato che la morte cerebrale provoca. Per fare un esempio concreto pensiamo a Terry Schiavo, il caso americano che ha infiammato le cronache internazionali perché, dopo grandi polemiche, la sua vita artificiale fu interrotta. Ebbene, all´autopsia il cervello di Terry è risultato completamente devastato per cui è dimostrato che la ragazza non vedeva, non sentiva, non provava né fame né sete, né null´altro. La ricerca scientifica ci offre dei parametri certi, come appunto la morte cerebrale, oltre i quali la vita irreversibilmente non sarà mai più quella che noi conosciamo e chiamiamo vita. Dovrebbe spettare ad ognuno di noi decidere che fare.

l'Unità 4.9.08
Il «filo nero» che lega le curve alla criminalità


L’ombra della camorra sugli ultras non è una novità. Dei legami tra criminalità organizzata e frange del tifo violento napoletano si conoscono dettagli perfino inquietanti, a base di intercettazioni e mezze ammissioni. L’ultima inchiesta è del pm di Napoli Antonio Ardituro e riguarda i disordini a Pianura dello scorso gennaio. All’epoca la Direzione Distrettuale Antimafia ipotizzò la ”manovalanza” degli ultras, una presenza prezzolata da un esponente di destra della ”bassa politica” campana che avrebbe pagato perché i ”guaglioni” provocassero gli incidenti nei pressi della discarica. Molotov, bus incendiati, botte ai giornalisti di Rai e Sky. Accanto agli hooligans anche esponenti più o meno noti dei clan. Tutto torna, dunque. Il ”filo nero” che unisce le curve alla criminalità sembra sempre più consistente, spesso, perfino indissolubile. Un ”salto” in avanti rispetto alla gestione degli stadi da parte della destra estrema. La celtica ultrà, insomma, non basta più. L’obiettivo è il business, l’esportazione dei modelli di guerriglia urbana nel territorio. Possibilmente a pagamento. Il know how della violenza appreso sugli spalti, domenica dopo domenica, lascia il campo di gioco ed emigra nelle piazze, negli autogrill, nei vagoni di un treno. E se serve perfino nelle discariche. Non è una novità, appunto, e non è la prima volta che gli ultras usano i metodi da curva lontano dalla curva. A gennaio tra i facinorosi che a Cagliari tentarono l’assalto della casa del governatore della Sardegna, Soru, furono individuati alcuni degli ”Sconvolts”, supporter della squadra rossoblù. Contestavano l’arrivo in Sardegna dei rifiuti napoletani. Accadde il finimondo, quella notte: molti dei teppisti avevano il volto coperto dalle sciarpe ultras. La tifoseria si dissociò: ”Cani sciolti, con loro non c’entriamo”. Ma l’idea che le frange più esagitate del tifo possano diventare la ”manovalanza” di altre organizzazioni criminali trova riscontro anche in altri episodi. Lo sostiene il capo della Polizia, Antonio Manganelli, lo conferma il questore di Napoli Puglisi dopo il raid dei tifosi napoletani in trasferta a Roma domenica scorsa.
Nega il problema soltanto Ignazio La Russa che taglia corto e minimizza. Eppure il problema esiste in tutta la sua allarmante gravità. Di mezzo non c’è solo ”il gusto del devastare” che il ministro tira in ballo con piglio pseudo sociologico. Ci sono i soldi, di mezzo. C’è il controllo di interi pezzi di stadio, del business delle trasferte e del merchandising. Perfino le scalate delle società. Come nel caso degli Irriducibili della Lazio. Dietro le intimidazioni al presidente Lotito esisteva un disegno ben preciso che vedeva in campo addirittura il clan dei Casalesi, uno dei più potenti della criminalità campana. Perché impadronirsi di un club calcistico? Per esempio per pulire denare sporco. La camorra ordina, i ”guaglioni” terrorizzano e devastano e il gioco è quasi fatto. A luglio il Gip di Roma, Guglielmo Muntoni, ha emesso dieci ordinanze di custodia cautelare. Coinvolti nell’operazione (fallita) di riciclaggio i capi della curva nord laziale, noti per l’acclarata passione per svastiche e striscioni contro ebrei, un’ex bandiera biancoceleste come Giorgio Chinaglia e un personaggio del calibro del boss Giuseppe Diana.
D’altra parte proprio a Roma si sono verificati alcuni degli episodi più inquietanti della violenza ultras: dalla guerriglia dell’11 novembre dopo l’omicidio di Gabriele Sandri fino al derby interrotto del 21 marzo 2004. In quell’occasione bastò far girare la voce che un bambino era stato ucciso dalla polizia per scatenare l’inferno. Non ci scappò il morto vero per un miracolo. Ma la strategia apparve subito chiara: gli hooligans avevano dimostrato di essere così potenti da riuscire a mettere in ginocchio una città. Una macchina oliata, che si muove come un piccolo esercito distruttivo. Credenziali che contano quando ci si confronta con la delinquenza organizzata. Solo il ministro La Russa non se n’è accorto.

Corriere della Sera 4.9.08
La lotta Le associazioni umanitarie hanno creato una Coalizione per tentare di far rispettare la Convenzione di Ginevra
Le leggi Sono 63 i Paesi dove è consentito l'arruolamento di volontari minori nelle forze armate. Ma i ragazzi vengono rapiti
Le 24 guerre dei bambini soldato
Sono i conflitti nei quali combattono i minorenni Un esercito di 300 mila ragazzini dagli 8 ai 16 anni
di Marco Nese


Per controllare i movimenti di protesta vengono usati migliaia di bambini rapiti all'uscita da scuola

Sul nostro pianeta sono in corso ben 31 guerre. In 24 di questi conflitti stanno combattendo anche i bambini. Sono arruolati dagli eserciti come veri soldati, oppure costretti ad andare in battaglia al fianco di guerriglieri e bande paramilitari che si infischiano della Convenzione di Ginevra, che considera il coinvolgimento di minorenni un crimine di guerra.
E' un orrore al quale non si riesce a mettere fine. Secondo le stime dell'Unicef sono almeno 300 mila i bambini soldato obbligati a uccidere, torturare e farsi a loro volta uccidere. Hanno un'età compresa fra gli 8 e i 16 anni. Le varie associazioni umanitarie hanno unito gli sforzi creando una Coalizione internazionale per fermare lo scandalo dei child soldiers. La Coalizione ha presentato un rapporto col quale dimostra, appunto, che in vari Paesi i bambini sono attualmente impegnati in «zone di combattimento ».
I funzionari di Amnesty International raccontano storie agghiaccianti, come quella di Gaston, un ragazzo rapito in Congo quando aveva 11 anni e trasformato in un killer. «La prima volta, per farmi superare la paura, dovetti uccidere una persona. Una notte mi portarono qualcuno, mentre ero di guardia. Era un bambino col volto coperto. Mi dissero che era un ribelle, un nemico, e dovevo ucciderlo. Lo ammazzai col coltello. Mi fecero bagnare col suo sangue. Quella notte non potei dormire».
Anche Thomas fu rapito. Lo presero i guerriglieri a Goma, nel Congo, quando aveva 13 anni, insieme col fratello di 8 anni mentre andavano a scuola. Oggi Thomas ha le gambe paralizzate a causa delle percosse che gli infliggevano. «Il comandante mi picchiava ogni mattina col calcio del fucile sulla schiena perché non facevo gli esercizi correttamente. Vidi altri due bambini morire in seguito alle bastonate. Li gettarono nelle latrine».
La giunta militare al potere nel Myanmar (ex Birmania), per controllare i numerosi movimenti di protesta ha gonfiato gli organici dell'esercito: ha più di 450 mila uomini in divisa. Secondo Human Rights Watch, «almeno 70 mila sono bambini». Yan Paing Soe era uno di loro. A Radio Free Asia ha raccontato che i soldati lo rapirono all'uscita della scuola e per sette anni non ha più visto la famiglia. «Nel Myanmar — si legge nel rapporto della Coalizione internazionale — decine di minori sono impiegati in lunghe operazioni contro una vasta gamma di gruppi antigovernativi».
Sono ben 63 i Paesi dove è consentito l'arruolamento di volontari minori nelle forze armate. Ma in genere i bambini non sono volontari. Spesso sono ragazzi di strada convinti con la promessa di un tozzo di pane. Esiste anche una vera e propria tratta dei minori, bambini rapiti e costretti a imbracciare un fucile. Nei conflitti tribali in alcuni Paesi africani, per esempio in Mozambico, abbiamo casi di genitori uccisi allo scopo di creare orfani che poi sono resi facilmente schiavi. Negli anni Novanta, prima dell'attacco alle Torri Gemelle, Osama bin Laden faceva rapire bambini in Somalia per trasferirli in Afghanistan a combattere al fianco dei talebani. Susan oggi ha 16 anni. Ne aveva 10 quando fu catturata dai militari in Uganda insieme con altri bambini. Uno di loro cercò di fuggire. Lo riacciuffarono e obbligarono Susan a ucciderlo. «Mi puntarono il fucile alla testa. O gli sparavo, oppure mi ammazzavano. Certe volte di notte lo sogno e mi sveglio gridando». Alcuni bambini che hanno osato ribellarsi sono stati obbligati a uccidere i genitori come punizione.
I capi militari sono felici di avere nei ranghi bambini soldato, perché nel giro di poco tempo si abbrutiscono e diventano docili, fedeli, pronti a eseguire qualsiasi ordine. Gli affidano missioni rischiose, in prima linea, come nel 2006 nel Chad, dove schiere di bambini furono piazzati attorno alla capitale, una prima barriera destinata a fronteggiare gli assalti dei ribelli. Il film Blood Diamond, con Leonardo Di Caprio, racconta la guerra in Sierra Leone in cui hanno combattuto migliaia di bambini. Nel film il piccolo Dia subisce un lavaggio del cervello e diventa uno spietato killer.
In Sudan i baby soldato sono attivi nella sventurata area del Darfur. Nelle Filippine li impiegano contro i rivoltosi. Nello Sri Lanka il governo chiude un occhio sul rapimento di bambini che vengono inseriti nei reparti paramilitari. In Nigeria, in Kenia e ad Haiti i bambini sono aggregati alle bande armate di criminali che fanno lavori sporchi per conto di capi politici. Terribile quello che capita alle bambine. I capi delle Farc, il gruppo armato rivoluzionario della Colombia, le tengono per sé, sottoponendole a violenze sessuali. Natalia aveva 12 anni quando entrò nell'esercito del Congo. «Mi picchiarono e mi violentarono ogni notte. A 14 anni ebbi un figlio senza neanche sapere chi fosse il padre».
In Iraq e Afghanistan usano bambini suicidi. Durante la guerra fra Iran e Iraq, la frontiera era cosparsa di mine e l'esercito iraniano non poteva avanzare, allora l'ayatollah Khomeini fece radunare centinaia di bambini e li mandò a correre all'impazzata sui campi minati con al collo la sua foto, che doveva essere il lasciapassare per il paradiso.
Qualcuno comincia a pagare. Charles Taylor, ex presidente della Liberia, e Thomas Lubanga, ex capo di una milizia in Congo, sono stati trascinati davanti al Tribunale internazionale dell'Aia. Il primo è responsabile del coinvolgimento nella guerra civile che ha insanguinato la Liberia di 20 mila bambini, molti dei quali sono stati poi inviati a combattere in Costa d'Avorio. Quanto a Lubanga gli vengono attribuite atrocità orribili contro i minori, omicidi, torture e violenze sessuali.

Corriere della Sera 4.9.08
China Keitetsi ha raccontato in un libro la sua infanzia con il Kalashnikov
«In battaglia ero più feroce e spietata degli adulti»
Nata in Uganda, a otto anni finì nell'esercito del generale Museveni. Ora vive in Danimarca
di M.Ne.


ROMA — China Keitetsi aveva 8 anni quando divenne soldato. «Mi insegnarono a montare e smontare un Kalashnikov come fosse un gioco, mi dissero che il fucile era la mia nuova madre, e mi spiegarono come usare quell'arma micidiale per ammazzare esseri umani». Oggi China ha 32 anni, ha scritto un libro sconvolgente, Una bambina soldato (edito in Italia da Marsilio), in cui racconta la sua storia e le atrocità delle quali è stata testimone.
Nata in un villaggio dell'Uganda, è stata vittima prima di tutto della sua famiglia che la nutriva a bastonate. Picchiata quasi tutti i giorni. Una volta il padre le spezzò le dita a furia di colpirla. La nonna paterna era una specie di megera, un giorno la picchiò tanto da romperle il gomito di un braccio.
Cresciuta in un ambiente così ostile, lei ormai covava soltanto odio e a un certo punto pensò che l'unica salvezza fosse la fuga. Si inoltrò nella boscaglia dove si ritrovò circondata da un gruppo di uomini armati, i quali furono felici di accoglierla e trasformarla in una bambina soldato.
«Non ero sola, i guerriglieri avevano reclutato centinaia di bambini, alcuni anche più piccoli di me, sporchi, malaticci, coi vestiti laceri. La cosa mostruosa è che nelle battaglie gli adulti mandavano avanti i piccoli, i quali venivano spesso falciati senza pietà».
Siamo a metà degli anni Ottanta. In Uganda domina il dittatore Obote. Il generale Museveni con un suo esercito privato vuole abbattere Obote e prendere lui il potere.
«Museveni non aveva scrupoli a mandare al macello centinaia di bambini soldati. E purtroppo i bambini, assistendo ogni giorno a scene di crudeltà bestiale, si abbrutivano completamente e diventavano più feroci dei grandi. Erano sempre i primi a gettarsi sui nemici caduti per strappargli i vestiti, invece di soccorrere i feriti li prendevano a calci, picchiavano e riempivano di sputi i prigionieri. Gli ufficiali erano contenti perché i bambini erano fedeli, ubbidienti, bravi a uccidere e torturare. Noi bambini eravamo capaci di commettere brutalità inaudite solo per compiacere i capi e salire di grado».
Museveni conquistò il potere nel 1986, e siede ancora sul trono ugandese. «Molti dei bambini che avevano combattuto per lui furono abbandonati al loro destino, alcuni erano diventati pazzi a causa delle cose orribili alle quali avevano assistito, altri erano mutilati, quasi tutti finirono a rubare e a mendicare per strada».
China rimase nell'esercito, dove fu costretta a subire continue violenze. «Ero convinta — scrive nel suo libro — che le donne non fossero altro che strumenti di piacere che Museveni dava in pasto alle bestie affamate che ci facevano da superiori».
Aveva 13 anni quando fu scelta come guardia del corpo da un importante personaggio del regime. Andò bene finché il suo protettore rimase a galla, ma in Uganda bastava poco, una parola fuori posto, un passo falso, per essere rovinati. L'uomo al quale faceva da scorta cadde in disgrazia, fu arrestato, e di riflesso anche lei da quel momento fu guardata con crescente sospetto. «Prima o poi sarei finita in prigione. Cominciai a nascondermi cercando disperatamente un modo per andarmene dal mio Paese».
Ci riuscì nel 1995 dopo essersi procurato un passaporto falso. Attraversò la frontiera. Dopo 5 giorni di viaggio in pullman attraverso Kenia, Tanzania, Zambia e Zimbabwe arrivò in Sud Africa. Ma gli uomini di Museveni la trovarono anche lì, la sequestrarono, la torturarono e la caricarono in macchina per riportarla in Uganda. Si salvò gettandosi fuori quando l'auto si fermò ad un semaforo. Visse quattro anni come una sbandata e finalmente un'anima buona si prese cura di lei, un funzionario delle Nazioni Unite si mise alla ricerca di un Paese disposto ad accoglierla come rifugiata.
«La Danimarca accettò di diventare la mia nuova patria. Ora vivo a Copenhagen, un paradiso. Voglio solo dimenticare e guardare al futuro. L'Unicef mi ha nominata sua ambasciatrice, dedicherò il resto della mia vita ai bambini che soffrono, cercherò di evitare a tanti innocenti di subire i traumi che ho patito io. Ho parlato con Clinton, ho incontrato il Papa, ho pianto sulla spalla di Nelson Mandela. Tutti mi incoraggiano a fare qualcosa per salvare i nuovi bambini soldato».

Corriere della Sera 4.9.08
Gelmini e la prova facile
E il ministro fece l'esame da avvocato in Calabria
Nella città calabrese l'anno precedente il record di ammessi con il 93 per cento
di Gian Antonio Stella


Da Brescia a Reggio Calabria Così la Gelmini diventò avvocato
L'esame di abilitazione nel 2001: «Dovevo lavorare subito»

Novantatré per cento di ammessi agli orali! Come resistere alla tentazione? E così, tra i furbetti che nel 2001 scesero dal profondo Nord a fare gli esami da avvocato a Reggio Calabria si infilò anche Mariastella Gelmini. Ignara delle polemiche che, nelle vesti di ministro, avrebbe sollevato con i (giusti) sermoni sulla necessità di ripristinare il merito e la denuncia delle condizioni in cui versano le scuole meridionali. Scuole disastrose in tutte le classifiche «scientifiche» internazionali a dispetto della generosità con cui a fine anno vengono quasi tutti promossi.
La notizia, stupefacente proprio per lo strascico di polemiche sulla preparazione, la permissività, la necessità di corsi di aggiornamento, il bagaglio culturale dei professori del Mezzogiorno, polemiche che hanno visto battagliare, sull'uno o sull'altro fronte, gran parte delle intelligenze italiane, è stata data nella sua rubrica su laStampa.it da Flavia Amabile. La reazione degli internauti che l'hanno intercettata è facile da immaginare. Una per tutti, quella di Peppino Calabrese: «Un po' di dignità ministro: si dimetta!!» Direte: possibile che sia tutto vero? La risposta è nello stesso blog della giornalista. Dove la Gelmini ammette. E spiega le sue ragioni.
Un passo indietro. È il 2001. Mariastella, astro nascente di Forza Italia, presidente del consiglio comunale di Desenzano ma non ancora lanciata come assessore al Territorio della provincia di Brescia, consigliere regionale lombarda, coordinatrice azzurra per la Lombardia, è una giovane e ambiziosa laureata in giurisprudenza che deve affrontare uno dei passaggi più delicati: l'esame di Stato.
Per diventare avvocati, infatti, non basta la laurea. Occorre iscriversi all'albo dei praticanti procuratori, passare due anni nello studio di un avvocato, «battere» i tribunali per accumulare esperienza, raccogliere via via su un libretto i timbri dei cancellieri che accertino l'effettiva frequenza alle udienze e infine superare appunto l'esame indetto anno per anno nelle sedi regionali delle corti d'Appello con una prova scritta (tre temi: diritto penale, civile e pratica di atti giudiziari) e una (successiva) prova orale. Un ostacolo vero. Sul quale si infrangono le speranze, mediamente, della metà dei concorrenti. La media nazionale, però, vale e non vale. Tradizionalmente ostico in larga parte delle sedi settentrionali, con picchi del 94% di respinti, l'esame è infatti facile o addirittura facilissimo in alcune sedi meridionali.
Un esempio? Catanzaro. Dove negli anni Novanta l'«esamificio» diventa via via una industria. I circa 250 posti nei cinque alberghi cittadini vengono bloccati con mesi d'anticipo, nascono bed&breakfast per accogliere i pellegrini giudiziari, riaprono in pieno inverno i villaggi sulla costa che a volte propongono un pacchetto «all-included»: camera, colazione, cena e minibus andata ritorno per la sede dell'esame.
Ma proprio alla vigilia del turno della Gelmini scoppia lo scandalo dell'esame taroccato nella sede d'Appello catanzarese. Inchiesta della magistratura: come hanno fatto 2.295 su 2.301 partecipanti, a fare esattamente lo stesso identico compito perfino, in tantissimi casi, con lo stesso errore («recisamente» al posto di «precisamente», con la «p» iniziale cancellata) come se si fosse corretto al volo chi stava dettando la soluzione? Polemiche roventi. Commissari in trincea: «I candidati — giura il presidente della «corte» forense Francesco Granata — avevano perso qualsiasi autocontrollo, erano come impazziti». «Come vuole che sia andata? — spiega anonimamente una dei concorrenti imbroglioni —. Entra un commissario e fa: "Scrivete". E comincia a dettare il tema. Bello e fatto. Piano piano. Per dar modo a tutti di non perdere il filo».
Le polemiche si trascinano per mesi e mesi al punto che il governo Berlusconi non vede alternative: occorre riformare il sistema con cui si fanno questi esami. Un paio di anni e nel 2003 verrà varata, per le sessioni successive, una nuova regola: gli esami saranno giudicati estraendo a sorte le commissioni così che i compiti pugliesi possano essere corretti in Liguria o quelli sardi in Friuli e così via. Riforma sacrosanta. Che già al primo anno rovescerà tradizioni consolidate: gli aspiranti avvocati lombardi ad esempio, valutati da commissari d'esame napoletani, vedranno la loro quota di idonei raddoppiare dal 30 al 69%.
Per contro, i messinesi esaminati a Brescia saranno falciati del 34% o i reggini ad Ancona del 37%. Quanto a Catanzaro, dopo certi record arrivati al 94% di promossi, ecco il crollo: un quinto degli ammessi precedenti.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria».
I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti.
Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme.
Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare».
Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano.
Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Da oggi, dopo la scoperta che anche lei si è infilata tra i furbetti che cercavano l'esame facile, le sarà però un po' più difficile invocare il ripristino del merito, della severità, dell'importanza educativa di una scuola che sappia farsi rispettare. Tutte battaglie giuste. Giustissime. Ma anche chi condivide le scelte sul grembiule, sul sette in condotta, sull'imposizione dell'educazione civica e perfino sulla necessità di mettere mano con coraggio alla scuola a partire da quella meridionale, non può che chiedersi: non sarebbero battaglie meno difficili se perfino chi le ingaggia non avesse cercato la scorciatoia facile?

Repubblica 4.9.08
Germania, è sorpasso a sinistra i "rossi" battono i socialdemocratici
Per la prima volta Lafontaine e Gysi in testa all´Ovest
L'ala massimalista socialdemocratica ora chiede la sconfessione del riformismo
di Andrea Tarquini


BERLINO - Diciannove anni dopo la caduta del Muro, la sinistra radicale di Oskar Lafontaine e Gregor Gysi vola in Germania, si prende una storica rivincita sulla socialdemocrazia e divide le opinioni. Per la prima volta la Linke, il partito nato dalla fusione tra i transfughi Spd seguaci di Lafontaine e avversari delle riforme dell´allora cancelliere Schroeder e i postcomunisti dell´ex Ddr sorpassa la Spd in un sondaggio in uno Stato dell´ex Germania ovest. I socialdemocratici tremano, e la loro ala massimalista chiede una svolta a sinistra e l´apertura a una collaborazione con la Linke a livello nazionale. Crisi e svolte a sinistra minacciano la stabilità politica della prima potenza Ue.
Il sondaggio di Stern è una doccia fredda per il più antico e illustre partito della sinistra democratica europea. Nella Saar, il Bundesland dell´ovest di cui Oskar Lafontaine fu governatore, la Linke sale al 20% contro il 19 della Spd. E la Cdu della cancelliera Angela Merkel, che guida la Saar col governatore Peter Mueller, scende in picchiata dal 47 al 37%. Il sondaggio è il secondo schiaffo in pochi giorni per la socialdemocrazia. Martedì un´indagine aveva indicato che la Linke sorpasserebbe la Spd anche a Berlino città. Ma la capitale federale è in una situazione speciale: nella sua parte orientale simpatie verso la sinistra radicale e nostalgie per la Ddr sono forti.
Orfana della leadership di Schroeder, stretta tra la partecipazione alla Grosse Koalition (di cui si avvantaggia solo la Merkel) e la sfida della Linke, la Spd è esposta a un´emorragia di consensi e iscritti. Sessanta esponenti dell´ala sinistra hanno rivolto un appello al leader del partito, il debole Kurt Beck. Chiedono una svolta a sinistra, un avvicinamento alla Linke e la sconfessione del riformismo schroederiano.
Sono scelte difficili, quelle che i capi socialdemocratici affrontano. Le elezioni politiche federali si terranno nel settembre 2009. Un mese prima si voterà nella Saar con la Linke favorita. A livello nazionale Merkel avrebbe il 37% dei sondaggi, i liberali (Fdp) il 13. La cancelliera potrebbe quindi comodamente formare un centrodestra con la Fdp. Mentre ormai la lotta Spd-Linke per la leadership della sinistra è aperta. Domenica il vertice socialdemocratico sceglierà il suo candidato alla cancelleria in vista delle politiche. Favorito è il vicecancelliere e ministro degli Esteri, Frank Walter Steinmeier, riformista convinto lontano dalla Linke. Ma intanto in Assia, un altro Stato dell´Ovest, è possibile la formazione d´un governo a guida Spd ma sostenuto dall´appoggio parlamentare della sinistra radicale.

il Riformista 4.9.08
Darfur. Halima, donna, medico e testimone delle "lacrime nel deserto"
"Ora, quando parli di strupri, sai di che cosa parli"
di Mario Ricciardi


Halima Bashir appartiene a una tribù orgogliosa delle proprie virtù guerriere, gli Zaghawa, che vive nel Darfur. In questa regione, che si trova nella parte meridionale del Sudan, Halima è nata nel 1979, in una famiglia di fede islamica. A differenza di buona parte delle donne del suo paese, che sono escluse dai benefici dell'istruzione, la giovane di cui parliamo ha studiato. Un padre benestante le ha consentito, nonostante l'opposizione di altri familiari, di conseguire la laurea, prima abitante del suo villaggio a raggiungere questo traguardo. Un successo esemplare per una persona che appartiene alla minoranza africana in un paese controllato dagli arabi. Tuttavia, quella di Halima non è solo una storia di emancipazione. Ben presto, le fosche previsioni dei tradizionalisti - convinti che per una donna "niente di buono viene dal leggere libri" - si sono avverate. Parlare con la stampa internazionale dei costi umani della guerra in Darfur non è una cosa che passa inosservata in Sudan. Soprattutto se a farlo è una donna. Halima viene prelevata dalla polizia segreta, minacciata, e spedita a svolgere il proprio lavoro di medico in un remoto villaggio. Nella nuova sede la giovane dottoressa scopre un altro aspetto del conflitto, che è destinato a cambiare la sua vita per sempre. Un giorno i Janjawid - le milizie arabe armate dal regime sudanese - attaccano una scuola femminile. Le studentesse, alcune sono bambine, vengono violentate a turno dagli aggressori.
Halima deve occuparsi delle vittime, la più giovane delle quali ha otto anni. Cerca di rimediare come può allo strazio delle carni, ma non riesce a liberarle dalla paura, dall'umiliazione, dall'impossibilità di capire perché sono state oggetto di tanta violenza. La giovane parla ancora - come può fare una donna emancipata - e racconta la propria esperienza agli operatori internazionali che sono accorsi sul luogo dell'aggressione dei predoni arabi armati dal governo. Stavolta la reazione del regime è ancora più violenta. Halima viene sequestrata, ma i carcerieri non si limitano a minacciarla. La picchiano e la violentano a turno. La chiamano "schiava" e "cagna nera". Le dicono che ora può parlare con competenza di stupri perché ha avuto buoni insegnanti. Lo scopo di tanto accanimento è farla tacere per sempre. Per le donne del Darfur, infatti, la violenza carnale è una vergogna da nascondere, un'onta che colpisce sia la vittima sia la sua famiglia. La mentalità di queste regioni opera quella che ai nostri occhi appare come una crudele inversione degli standard di valutazione morale: è la vittima e non il carnefice a portare il peso della colpa.
Ma gli agenti della polizia segreta non hanno fatto i conti con la trasformazione che gli anni di studio e l'esperienza sul campo hanno operato nella mente di Halima. Certo, lei è una Coube della tribù Zaghawa, ma è anche un medico qualificato. Una donna africana in grado di leggere e scrivere, di ragionare sul suo passato e sul destino del suo popolo, di reagire alla violenza che ha subito con la consapevolezza dei propri diritti di essere umano che manca a molte sue compagne di sventura. Halima lascia il Sudan per rifugiarsi nel Regno Unito, dove può far sentire la propria voce senza temere di essere prelevata ancora una volta dagli sgherri del regime. Chi è interessato alla testimonianza di prima mano di Halima sull'inferno del Darfur può leggere il libro che ella ha scritto con Damien Lewis, un corrispondente della Bbc, che è uscito in Gran Bretagna e viene pubblicato in questi giorni anche negli Stati Uniti. Per chi crede che ci sono diritti umani universali c'è da riflettere dopo l'immersione nell'orrore di cui Tears in the Desert. A Memoir of Survival in Darfur è la cronaca. Per esempio, c'è da chiedersi come mai il regime islamista del Sudan possa violare sistematicamente il diritto internazionale. Come è possibile che esso si faccia gioco di un mandato emesso dalla Corte penale internazionale che chiede l'arresto del presidente, generale Omar al-Bashir, per i crimini commessi nel Darfur. Perché i militanti islamici si sentano così sicuri della propria impunità da minacciare la presenza delle Nazioni Unite e delle forze di pace presenti nel paese. Forse la risposta a questi interrogativi non si trova in Sudan ma in Europa. Nei sensi di colpa che paralizzano la nostra capacità di intervenire - anche con la forza - in quel continente quando sarebbe necessario per arrestare un genocidio.

mercoledì 3 settembre 2008

l'Unità 3.8.08
Morte cerebrale, per l’Osservatore non basta
Il quotidiano della Santa Sede: l’encefalogramma piatto non stabilisce il decesso. Poi il Vaticano smentisce
di Roberto Monteforte


LA DICHIARAZIONE di «morte cerebrale» non può sancire più la fine di una vita. Affermazione secca e perentoria che appare in bella evidenza sulla prima pagina del quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano. L’articolo a firma della storica e filo
sofa Lucetta Scaraffia è dedicato ai 40 anni del «Rapporto Harvard» con il quale si modificò la definizione di morte, passando da quella basata sull’arresto cardiocircolatorio a quella determinata dall’encefalogramma piatto. Una definizione sulla quale studiosi di formazione cattolica, la stessa Chiesa e la cultura scientifica laica avevano finito per convenire. Ora la Scaraffia che è anche membro del Comitato per la bioetica ed è stata vice presidente dell’Associazione Scienza e Vita la mette seriamente in discussione: «Quella definizione - afferma - va rivista in nome delle nuove ricerche scientifiche», per le quali - insiste citando studi recenti - «va messo in dubbio che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo».
Visto che la Chiesa è tenuta a muoversi in coerenza con la sua stessa dottrina a proposito del concetto di persona, comprese «le sue stesse direttive nei confronti dei casi di coma persistenti», allora dovrebbe rivedere la sua posizione sui trapianti di organo.
Un esplicito stop ai trapianti. Questa sarebbe la sua conclusione. Infatti ricorda come proprio il fatto di accettare la definizione di morte celebrale abbia avuto per la Chiesa quella di proclamarsi favorevole al prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti. «L’accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri». Ora, visto che i risultati più recenti della ricerca scientifica avrebbero acclarato che «la morte cerebrale non è la morte dell’essere umano» e messo in dubbio «il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo» - è la sua conclusione - tutto andrebbe ridiscusso. Insomma, non basterebbe più l’encefalogramma piatto per espiantare un organo, quando altri organi darebbero segni di vita. Si finirebbe così per «identificare la persona con le sole attività celebrali» e questo - assicura - «sarebbe in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente».
L’articolo dell’Osservatore lancia più di una provocazione. Si ipotizza anche che «forse aveva ragione chi sospettava che la nuova definizione di morte, più che da un reale avanzamento scientifico, fosse stata motivata dall’interesse, cioè dalla necessità di organi da trapiantare». Lo fa richiamando le preoccupazioni espresse nel lontano 1991 in un concistoro speciale dall’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Sulla frontiera delicatissima della bioetica si vuole aprire un nuovo fronte polemico con il mondo laico, con la comunità scientifica, oltre che interno alla Chiesa? È una preoccupazione legittima visto che le teorie espresse sono più di un sasso lanciato nello stagno del confronto scientifico. Finiscono per avere un peso politico, tanto più che alle Camere è in discussione il tema del testamento biologico, delicato anche per il mondo cattolico con settori della Chiesa nettamente contrari perché temono si scivoli verso l’eutanasia ed altri impegnati a definire il limite tra accanimento terapeutico e le necessarie pratiche di mantenimento dei malati terminali.
Prima che la polemica monti eccessivamente la Santa Sede si è affrettata a chiarire che la dottrina della Chiesa sull’espianto degli organi non cambia. «Le riflessioni pubblicate dall’Osservatore Romano in un articolo sul tema sono ascrivibili all’autrice del testo e non impegnano la Santa Sede», ha precisato il direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi. «L’articolo in questione - ha sottolineato - non è un atto magisteriale nè un documento di un organismo pontificio». «Non dico nulla sul contenuto dell’articolo - ha aggiunto -, che non è un’editoriale, se non che è firmato da una persona e che dunque porta l’autorevolezza della testata e di quella persona». Sul punto eticamente sensibile dei trapianti di organi, almeno per ora, la Chiesa non cambia linea.

l'Unità 3.8.08
Dove comincia la morte
di Carlo Defanti, Primario neurologo emerito


Il quarantennale del documento con cui una Commissione dell’Università di Harvard propose di considerare quello che al tempo veniva denominato «coma irreversibile» come un nuovo criterio di morte (e che da allora chiamiamo «morte cerebrale»), promette di essere foriero di tempeste nel già tormentato terreno della bioetica italiana. L’ultima l’ha sollevata ieri un articolo de l’Osservatore Romano (non un «editoriale» come ha precisato in serata il capo della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi, nel prendere le distanze da quanto scritto) a firma di Lucetta Scaraffia.
L’autrice argomenta la difficoltà di mantenere oggi questo concetto, le cui basi sono state minate da una serie di nuovi dati, fra i quali spicca il fatto che una donna incinta in morte cerebrale può essere mantenuta biologicamente viva anche per diverse settimane in modo da permettere la maturazione del feto e la nascita di un bambino sano. Gli oppositori del concetto di morte cerebrale, di cui il filosofo Hans Jonas è stato il precursore, sostengono che tale definizione fu concepita al solo scopo di rendere possibile il prelievo di organi.
La conclusione , è che sia stato un errore voler “risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica”, cioè ridefinendo la morte, mentre sarebbe stato più corretto “elaborare criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili” per l’attività di trapianto. L’autrice prosegue chiedendosi se allo stato dell’arte la Chiesa possa continuare a sostenere il concetto di morte cerebrale, come sostanzialmente ha fatto finora, e cita un vecchio intervento del cardinale Ratzinger (1992) in cui si criticava la “messa a morte” dei malati in coma allo scopo di prelevarne gli organi.
Che cosa pensare a questo punto? Rifletto su questo tema da oltre vent’anni e ho scritto su questo un libro (Soglie, Bollati Boringhieri 2007) nel quale ho esposto in modo approfondito la storia e il concetto della morte cerebrale e ho concluso auspicando una ridiscussione pubblica di questo tema che sembrava fin qui “assestato”. Tuttavia non prevedevo che la Chiesa volesse sollevare la questione in questo momento, anche se conoscevo le perplessità espresse da studiosi cattolici in seno alla Pontificia Accademia delle Scienze. In effetti se questo intervento desse il via a un nuovo dibattito sul tema e se si dovesse raggiungere la conclusione (da me condivisa) che il concetto di morte cerebrale non è scientificamente inattaccabile, ne discenderebbe per il Magistero, da sempre fautore della assoluta sacralità della vita, la non liceità dei prelievi di organo dai “cadaveri a cuore battente” e un danno incalcolabile per l’importantissima attività dei trapianto di organi (alla quale io sono invece del tutto favorevole). Credo che l’articolo in oggetto dimostri come l’intero argomento della fine della vita sia in piena evoluzione (e la precisazione in serata del portavoce della Santa Sede ne è, per altri aspetti, una ulteriore conferma). Il fatto fondamentale è che oggi, nelle nostre società la morte non è quasi mai un evento istantaneo, ma un processo più o meno lungo che viene profondamente influenzato dall’intervento medico. Si creano in questo processo diverse “soglie”, una delle quali è appunto la “morte cerebrale”; essa non coincide con la morte dell’organismo come un tutto (che si verifica solo dopo l’arresto cardiocircolatorio), ma è certamente un “punto di non ritorno” al di là del quale è superfluo continuare le terapie rianimatorie e al di là del quale è possibile, col previo consenso del malato o dei suoi familiari intesi come suoi portavoce, prelevare gli organi a scopo di trapianto.

l'Unità 3.8.08
Marino: quando il cervello si spegne l’individuo muore
di Natalia Lombardo


«Affermazioni di questo tipo possono causare gravi conseguenze su attività cliniche che ogni giorno salvano centinaia di vite umane», avverte Ignazio Marino, senatore del Pd, chirurgo e docente universitario specializzato in trapianti d’organo, capogruppo Pd in commissione Sanità.
Secondo lei mettere in discussione la morte cerebrale come fine della vita vuol essere una indicazione ai legislatori?
«Credo sia la posizione personale espressa da Lucetta Scaraffia, una persona che si occupa di bioetica e non una teologa; del resto la Santa Sede ha chiarito che non è una posizione ufficiale. Se così fosse, da domani non si potrebbero più prelevare degli organi da persone la cui morte cerebrale è stata accertata con criteri che derivano dal lavoro svolto nel ‘68 dall’Ad Hoc Committee di Harvard».
Criteri superati, per l’articolo dell’Osservatore Romano.
«Sono principi usati fino ad ora. Fino al ‘68 la morte era stata identificata con l’arresto del cuore e i conseguenti segni biologici, fino alla putrefazione. Nel ‘68, con i primi interventi di bypass, si fermava il cuore, si operava e lo si faceva ripartire; allora si è capito che la fine della vita non corrispondeva all’arresto del cuore, bensì al danno irreversibile al cervello, la morte cerebrale. Per accertare questa intuizione è stato riunito un comitato con medici e scienziati, uomini di legge e teologi. Ne uscì un lavoro molto rigoroso, una pietra miliare che da quarant'anni ha cambiato la definizione della morte e il modo di lavorare in ospedale. Da studente di medicina all’inizio degli anni ‘70 ricordo che si faceva un elettrocardiogramma di venti minuti prima di stabilire la morte. Oggi farebbe sorridere. I criteri di Harvard hanno cambiato anche la cultura: nell’arte e nella letteratura si è considerata la morte dell’uomo come la morte del cuore, spaccato dal dolore o fermato di colpo».
Nell’articolo si sospetta un interesse del comitato di Harvard, una sorta di fabbrica di trapianti. Un’offesa?
«Be' sarebbe riduttivo pensarlo. Come se gli scienziati, insieme a teologi e avvocati, si riunissero per trovare una giustificazione a quello che vogliono fare. Questa visione di una scienza che agisce nell’interesse di se stessa e non dell’uomo non è giusta».
Quante sono le vite salvate grazie ai trapianti?
«Siamo quasi al milione di vite salvate dal 23 dicembre 1954, con il primo trapianto di rene avvenuto con successo. Poi sono diventati una terapia corrente a fine anni ‘70».
Una dichiarazione del genere può essere pericolosa in un’epoca in cui si vuole rivedere tutto?
«Prendiamola come una provocazione, un’indicazione intellettuale e non morale. Se fosse morale io stesso, che ho dedicato venticinque anni della mia vita al trapianto di fegato, e tanti chirurghi nel mondo, dovremmo porci subito un quesito : se non fosse più valido l’accertamento di morte con l’elettroencefalogramma piatto ripetuto dopo sei ore, più una visita specialistica, vorrebbe dire fermare i trapianti e assumersi la responsabilità morale di migliaia di vite che morirebbero, senza più speranza».
E quello sì che sarebbe contrario a una logica cristiana...
«La Chiesa infatti ha sottolineato più volte l’importanza della solidarietà e della carità cristiana con la donazione degli organi. Far tornare a sorridere un bambino nato con un fegato malato è uno dei più straordinari passi fatti dalla scienza negli ultimi cento anni. Lucetta Scaraffia cita la donna alla quale è stata protratta la vita biologica per portare avanti la gravidanza: una scelta drammatica, ma quella donna era morta, il suo cervello si era spento e non si è risvegliato».
Un’attività biologica prolungata con la tecnica, mentre i trapianti restituiscono la vita. Non è una contraddizione per un cattolico?
«Io sono un credente, ho lavorato con i maggiori esperti di trapianti nella storia, come Thomas Starzl, anche atei, ma la definizione di morte cerebrale è solo scientifica: se il cervello è morto, lo è l’individuo».
Questo ripropone il problema del testamento biologico sul quale ha ripresentato la proposta di legge.
«Sì, firmata da 101 senatori, anche di centrodestra. Il fatto che esista una tecnologia non vuol dire che la si debba usare per forza. Se io posso dire che voglio spegnermi in modo naturale nel letto di casa mia, circondato dagli affetti, piuttosto che prolungare la mia agonia con una macchina, ecco, non credo che alcuna categoria morale possa impormi l’uso di una tecnologia. L’esaltazione della tecnica può diventare un’idolatria della scienza e, forse, una rinuncia all’umanesimo e alla carità cristiana».

l'Unità 3.8.08
Creare panico
di Maurizio Mori


La Consulta di Bioetica condivide che si debba ridiscutere la definizione di morte, come molti altri presupposti della tradizionale etica medica ippocratica. Ad esempio, si deve riconoscere che l'alimentazione e idratazione artificiali sono terapie mediche e possono essere sospese nei casi di SVP come Eluana Englaro. Forse si deve anche riconoscere che l'esatto confine del concetto di morte dipende da decisioni etiche più che da osservazioni fattuali - come osservato dal neurologo Carlo Defanti nel volume Soglie. Medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri, 2007).
Riteniamo che la bioetica comporti un ampio dibattito per rivedere proprio il tradizionale paradigma ippocratico, che non funziona più e va sostituito. Pertanto auspichiamo una più approfondita riflessione su tutte le questioni, avendo di mira l'ampliamento delle libertà individuali e la tutela delle persone.
Ma riteniamo altresì che l'articolo pubblicato da l'Osservatore Romano riveli la situazione di sbando della chiesa cattolica romana: non sapendo più come gestire le nuove tecniche e trovandosi in serissime difficoltà sul caso Englaro, preferisce gettare discredito su tutte le nuove tecnologie, venendo anche a rimettere in discussione i trapianti d'organo. Piuttosto che cedere su un punto, meglio distruggere tutto: muoia Sansone con tutti i filistei! Una tecnica antica per creare panico e favorire svolte conservatrici. L'obiettivo ultimo è chiaro: bloccare il caso Englaro e fissare delle barriere alla possibile legge sul testamento biologico, che sarà tanto restrittiva da essere inutilizzabile. In breve qualcosa di peggio della legge 40/2004.
La Consulta di Bioetica ritiene che ormai la chiesa cattolica stessa si ponga contro il progresso civile: è positivo che emerga la spirito conservatore promosso dalle gerarchie ecclesiastiche, ed invita a difendere i nuovi valori di libertà che vanno affermandosi nella società.
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus

l'Unità 3.8.08
A rischio 3000 trapianti l’anno se passa il Verbo della Chiesa
di Cristiana Pulcineli


Nel 2001 Adriano Celentano dichiarò, durante una trasmissione televisiva, di non credere al criterio di morte cerebrale. Nei giorni successivi i medici dei reparti di terapia intensiva degli ospedali di tutta Italia dovettero constatare una brusca caduta nella donazione degli organi. La cosa fu talmente clamorosa che è rimasta nella memoria degli addetti ai lavori con il nome di «effetto Celentano».
«Nei giorni successivo alla trasmissione - ricorda Mario Riccio, l’anestesista medico di Welby - mi trovai a chiedere al parente di un paziente l’autorizzazione per l’espianto degli organi. Il parente rifiutò dicendomi: ma ha sentito Celentano? L’effetto Celentano produsse nel giro di una settimana un crollo nelle donazioni che si tradusse nella morte di molte persone». Per ovviare al problema dovettero scendere in campo Umberto Veronesi, Renato Dulbecco e altri nomi della scienza italiana spiegando, dagli schermi televisivi, che la morte cerebrale è un criterio condiviso dai medici di tutto il mondo.
«Un effetto simile potrebbe essere prodotto dall’editoriale dell’Osservatore Romano», aggiunge Riccio. «Bisogna considerare che c’è moltissima gente che ha bisogno di un organo, e molti di essi non possono aspettare».
Ci sono due tipi di trapianti: quelli per i quali si può aspettare e quelli d’urgenza. Tra i primi c’è il trapianto di reni: il paziente può aspettare anche anni perché nel frattempo fa la dialisi. Tra i secondi ci sono una buona parte dei trapianti di cuore e di fegato. Ad esempio, un paziente con un’epatite fulminante che aspetta un trapianto di fegato non può aspettare oltre 48 ore. Un paziente con alcune patologie cardiache ha una settimana di tempo prima che il suo cuore ceda. In tutti questi casi un tentennamento dell’opinione pubblica che duri anche solo qualche giorno può essere fatale.
Come tutti sanno, del resto, la domanda di organi supera di molto l’offerta. In Italia si fanno oltre 3000 trapianti l’anno. La metà sono trapianti di rene, circa 1000 di fegato, 300 di cuore, 100 di polmone e solo una cifra esigua di pancreas e intestino.
Ma i trapianti dovrebbero essere molti di più: le liste d’attesa sono lunghe. Secondo i dati più recenti, 9400 pazienti italiani oggi aspettano un organo. Quelli che hanno bisogno di un rene sono 6813 e aspettano in media 3,1 anni. Per il fegato sono il lista d’attesa 1469 pazienti e attendono in media 1,9 anni. Per il cuore ci sono 864 pazienti e la loro attesa è di 2,5 anni.
Eppure, il criterio di morte cerebrale è stato stabilito quarant’anni fa e da allora non è stato messo in discussione. «Anche la Chiesa ha sposato il criterio di morte cerebrale», continua Riccio. Prima di quello spartiacque che fu il «rapporto di Harvard», la morte veniva diagnosticata quando il cuore smetteva di battere. Il 5 agosto 1968 la rivista scientifica JAMA pubblicò una ricerca della Harvard Medical School nella quale si riconosceva come alcuni casi di coma, la perdita irreversibile di qualsiasi funzionalità cerebrale e l’impossibilità di una respirazione autonoma fossero i nuovi criteri in grado di spostare il concetto di morte dal cuore al cervello. Un evento che ebbe un’importanza storica per i trapianti d’organo.
Gli organi, infatti, possono essere prelevati solo da un cadavere «a cuore battente»: se l’organo, che sia cuore, polmone o fegato, non viene irrorato dal sangue, muore e diventa inservibile. «Del resto, la morte cerebrale è uno stato transitorio che dura un periodo di tempo limitato e si conclude inevitabilmente con l’arresto cardiaco», spiega Riccio. A differenza dalla morte corticale, la morte cerebrale comporta il fatto che la persona non respira più autonomamente e perché il suo cuore batta è spesso necessario l’apporto dei farmaci.
«Oggi le regole in Italia per l’accertamento di morte cerebrale sono molto rigide. Ad esempio, dobbiamo tenere il soggetto adulto in osservazione per 6 ore prima di dichiararne la morte cerebrale. In altri paesi, ad esempio l’Inghilterra, i criteri sono meno stretti».
Le linee guida del resto sono in continua evoluzione: nell’aprile scorso un decreto ha aggiornato i criteri per l’accertamento della morte cerebrale. Tra i nuovi obiettivi c’è quello di rendere possibile l’esecuzione di tecniche strumentali diagnostiche permesse dell’odierno sviluppo tecnologico, inesistenti all’epoca del decreto originale.
Ma il tema è ancora molto delicato tanto che la famosa legge del 2001 riguardo il consenso al prelievo (la famosa regola del silenzio assenso) è bloccata. I decreti attuativi non sono ancora operativi e oggi l’assenso al prelievo degli organi (o, per maggiore precisione, la dichiarazione di non opposizione al prelievo) può essere data solo da un parente di chi si trova nello stato di morte cerebrale.

l'Unità 3.8.08
Centro nazionale trapianti
«Quei criteri non sono mai stati messi in discussione»


I criteri di Harvard che stabiliscono le modalità con cui si può dichiarare il decesso di un individuo a partire dall’accertamento della morte cerebrale «non sono mai stati messi in discussione in 40 anni dalla comunità scientifica, e vengono applicati in tutti i paesi scientificamente avanzati, dall’Europa all’America, dall’Asia all’Australia».
Il presidente del Centro Nazionale Trapianti, Alessandro Nanni Costa, ribadisce il valore del criterio della morte cerebrale per stabilire la fine di una vita. «I dubbi ci sono sempre stati - conferma Costa - ma da parte di frange minoritarie, che fanno critiche di carattere non scientifico». In 40 anni l’evoluzione tecnologica ha fatto passi da gigante, «ma questi criteri sono sempre stati confermati». La morte cerebrale è ben altra cosa dallo stato vegetativo: «Nel primo caso le cellule cerebrali non mandano più impulsi elettrici, non c’è respiro spontaneo nè il controllo delle funzioni vegetative come la diuresi, ed è assente il riflesso dei nervi cranici. Tutti elementi che sono invece presenti nello stato vegetativo». Secondo la legge, dunque, «la morte cerebrale significa di fatto la morte dell’individuo. Uno stato accertato da più medici, in un arco di sei ore, con procedure codificate estremamente precise e che non lasciano adito a dubbi».

l'Unità 3.8.08
Con un decreto cambiano le elementari
Maestro unico e solo 24 ore. Sparirà il tempo pieno, a rischio 80mila insegnanti. Gelmini: dal 2009 e solo in prima
di Maristella Iervasi


LA SIGNORA dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ha spiazzato tutti. Il maestro unico è già legge. Il decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale che doveva sancire solo il 5 in condotta, i voti in numeri in pagella e la nuova materia: Cittadinanza e Costituzione, riforma invece in toto la scuola elementare: uno dei modelli di qualità vantati in Europa. Un blitz in piena regola che ha spiazzato genitori e insegnanti e provocato un terremoto nelle scuole da ieri aperte per organizzare le classi, i programmi di studio, coprire i «buchi» sul sostegno e le malattie. Un mossa quella del duetto Gelmini-Tremonti «studiata» per blindare la restaurazione del ritorno dell’insegnante unico nella scuola primaria con un orario già fissato per decreto: 24 ore settimanali, 6 ore di lezione in meno rispetto ad oggi. Un modo per sancire la fine del modulo e la conseguente agonia del tempo pieno. Una strategia per dare «forza giuridica» al «massacro» della scuola - il taglio di 90mila docenti e 43 mila tra bidelli e segretari in meno entro il 2012. Ma che di fatto «tappa la bocca» al confronto e alla concertazione politica e sindacale. E fuori sacco è stata introdotta anche - con «raccapriccio» degli editori - la disposizione che i testi scolastici dovranno durare per 5 anni.
Mondo della scuola e famiglie in subbuglio. Così si è svegliata ieri l’Italia. 104mila le classi di primaria funzionanti a modulo (tre insegnanti per due classi); 33mila quelle a tempo pieno. Un totale di circa 245mila insegnanti, di cui 6mila non di ruolo. 5mila invece i pensionamenti previsti nell’anno. Se si aprisse la sperimentazione del maestro unico solo dalla prima elementare verrebbero spazzati via 16.640 posti docente. Se si partisse a regime su tutte e cinque le classi (modulo e tempo pieno), il «risparmio» conseguente del taglio sarebbe di 80mila posti per maestro. Una rivoluzione da restaurazione contro il sapere. Gli studenti imparerebbero appena a leggere, scrivere e contare. E con questo scarso bagaglio nozionistico entrerebbero poi alla scuola dei “grandi”, le medie. Un avvio d’anno scolastico, dunque, al cardiopalma. «Sciopero» unitario e mobilitazione dei docenti è la risposta del sindacato Flc-Cgil, Uil e Cisl-scuola. E non è detto che non coincida con l’ingresso o giù di lì degli studenti nelle aule. Mentre il tam tam corre anche su Internet e nelle città della penisola spuntano Comitati contro il ritorno al passato del maestro generalista: raccolte di firme e fax di protesta per «inondare» la Gelmini. Mentre i precari della scuola invitano gli italiani ad appendere un drappo nero sui balconi. «Un calcio nei denti ai bambini e alle bambine» commenta Enrico Panini, segretario nazionale della Federazione lavoratori della conoscenza. «Un attacco spietato del governo al loro diritto ad avere una scuola più ricca e non più povera di opportunità», precisa. Durissimo anche il sindacato degli insegnanti, il Gilda: «Un colpo di mano che fa tornare indietro di oltre 20 anni. Non è mai capitato nella storia d’Italia - sottolinea Rino Di Meglio - che una riforma dell’ordinamento scolastico venisse varata con un decreto legge». Massimo Di Menna della Uil, chiede chiarezza e trasparenza: «Il governo - dice - ha introdotto una rigidità prima ancora della discussione con i sindacati». E Fracesco Scrima della Cisl-scuola parla di «pedagogia da cassa». Intanto, leggendo l’art.4 del decreto salta agli occhi il mancato uso del congiuntivo: «è ulteriormente previsto che le istituzioni scolastiche costituiscono classi affidate ad un unico insegnante...». Ancora un errore da matita rossa blu per il ministero dell’Istruzione dopo la «gaffe» sulla poesia di Montale alla maturità?. Il ritorno del maestro unico in classe - mandato in pensione dal’90 dal ministro Mattarella - non scatterebbe subito solo per questioni organizzative ma l’insegnante sarebbe solo in cattedra dall’anno 2009-2010. La stessa Gelmini vista la «furia» della polemica e dello sconcerto in atto della popolazione è stata costretta a precisare: «Sarà un ritorno soft e verrà introdotto solo nella prima classe del ciclo. Quindi entrerà a regime gradualmente». Ha rassicurato anche sul tempo pieno: «Non è affatto incompatibile con il ritorno del maestro unico», ha detto la responsabile dell’Istruzione. Poi, a chiusa della nota è tornata sul bilancio della scuola, speso per il 97% per pagare gli stipendi di un milione e 300 mila dipendenti. «Così la scuola non ha futuro» - ha concluso Gelmini, ribadendo la sua litania: meno insegnanti ma meglio pagati».
Dure le reazioni del Piddì. «Il maestro unico non è un romantico ritorno al passato. Significa una settimana di 24 ore, senza pomeriggi a scuola, senza attività integrativa e bambini in casa», sottolineano il ministro ombra Maria Garvaglia e Maria Coscia, responsabile scuola del partito.

l'Unità 3.8.08
Luigi Guerra. Il preside di Scienza della Formazione a Bologna: se il progetto andrà avanti la scuola italiana rischia il black out
«È una follia, colpiranno le fasce più deboli»
di Alice Loreti


Luigi Guerra è preside di Scienze della Formazione, a Bologna. Nella sua facoltà, si formano (anche) i futuri docenti delle elementari. Ma con la reintroduzione del maestro unico e la cancellazione del tempo pieno, dice preoccupato, «la scuola italiana rischia il black-out».
Professore, qual è il valore del tempo pieno?
«Questo modello ha avuto e ha tutt’ora un valore enorme per la scuola italiana. Andando indietro nel tempo, alle sue origini, ha avuto un ruolo fondamentale. Storicamente, ha ridotto la disuguaglianza sociale. Prima, a seconda del territorio, della situazione familiare e della classe di appartenenza, i bambini avevano una diversa esposizione alle agenzie culturali. I figli dei ricchi, della borghesia, avevano accesso ad una ricca offerta formativa, al di là delle 4 ore di scuola. Quelli di famiglie operaie, invece, a quei tempi si limitavano all’apprendimento delle materie classiche, italiano e matematica, che avveniva solo a scuola. Non potevano avere nulla di più».
E il tempo pieno ha risolto questo, chiamiamolo così, problema riguardante i rapporti sociali e di classe?
«Il modello inaugurato in Emilia-Romagna ha elevato l’offerta formativa, arricchito le opportunità educative, rendendole accessibili a tutti. Ha svecchiato il sistema scolastico, non più depositario di saperi, creando un modello in cui la cultura si costruiva e in cui vi erano i tempi necessari per farlo. Insomma, si è tolto spazio alla mera riproduzione a memoria dei contenuti, per lasciarne alla ricerca, alla cultura, a nuovi linguaggi, come il teatro, la musica, l’arte figurativa. Aprire gli istituti nelle ore pomeridiane ha permesso di ampliare le discipline, suscitando una viva e sana dialettica formativa. Inoltre, ha provocato l’uscita della figura della maestra con la penna rossa e blu, grazie alla pluralità di figure docenti che il tempo pieno comporta».
Quella maestra con la penna blu e rossa rischia di tornare. Cosa ne pensa?
«Sono sgomento. Il ministro Gelmini si permette di presentare questo modello come un’innovazione, ma non è altro che un ritorno nostalgico al passato del dopoguerra. È una follia. Si stanno muovendo sul fronte universitario e scolastico come vogliono, facendo credere quello che vogliono, grazie alla padronanza dei media. Mi meraviglio di come troppe poche voci, anche universitarie, si siano alzate con sdegno contro questa proposta. Il Governo maschera il suo disimpegno ad investire per la scuola e la chiara volontà politica nel non voler proteggere le classi più deboli, con una soluzione di dignità per il sistema scolastico e le famiglie».
Cosa comporterà la reintroduzione del maestro unico?
«La perdita della dialettica pedagogica, l’impoverimento delle relazioni e degli insegnamenti. Il tuttologo cancella la cultura e la ricerca. Come può un docente conoscere bene tutte le discipline, compreso l’inglese ed insegnarle costruendo ricerca e cultura? È impossibile. E come riuscirà ad affrontare la pedagogia in classi eterogenee come sono quelle attuali? Sui banchi delle nostre scuole vi sono bambini pakistani, italiani, cinesi, indiani; ricchi e poveri. Un docente, da solo, non può relazionarsi con tutto questo con successo, con la qualità ed il tempo di cui c’è bisogno. Due docenti che lavorano nella stessa classe si confrontano, fanno la programmazione insieme. Se ad esempio uno è patito di Garibaldi, l’altro gli dirà di fare anche Napoleone. Se, ancora, uno insiste sulla matematica, l’altro gli ricorderà l’italiano. In due vi è più ricchezza, anche per gli alunni. Un bimbo che non si trova con un docente, e può capitare, ha la possibilità di avere un’altra figura adulta con cui dialogare. Con un solo maestro tutto questo viene a mancare. E parla uno che è contro la proliferazione delle figure. A mio avviso, due o tre insegnanti sono sufficienti».
Qual è il futuro della scuola? Crede sia a rischio?
«Se il progetto del ministro andrà avanti così come ha annunciato, la scuola italiana rischia un black-out. Sono molto preoccupato dal modello formativo che vogliono improntare. Le regioni in cui il tempo pieno è poco radicato, in cui c’è stato poco tempo per costruire una squadra di docenti, soffriranno maggiormente. In Emilia Romagna, il tempo pieno è diventato un modello culturale, vi sono più risorse. Sarà difficile distruggere tutto e subito. Per questo ritengo sarà il luogo in cui si combatterà di più, io per primo. Credo sia necessario che gli enti locali riprendano il loro protagonismo, creando una forte alleanza, per scongiurare tutto questo. Il vero rischio è che si tolga tempo e spazio per l’handicap, per i bambini che hanno bisogno di cure particolari. Saranno loro a risentirne maggiormente».

l'Unità 3.8.08
Il ministro: va studiato nelle scuole. Ma per il «collega» ombra: bisogna guardare avanti. Esilarante duetto sull’arte contemporanea
Se Bondi rivaluta Gramsci e Cerami lo scarica
di Andrea Carugati


Antonio Gramsci protagonista in un dibattito sulla cultura alla festa del Pd di Firenze. Detta così non è una notizia sconvolgente, ma la novità è che ieri i ruoli si sono ribaltati tra i due protagonisti del confronto, il ministro della Cultura Sandro Bondi e il suo collega «ombra» Vincenzo Cerami. «Gramsci è un intellettuale su cui tutti devono riflettere, non è solo un pensatore comunista, ma dell’Italia, per questo è giusto che venga studiato nelle scuole», ha detto Bondi. E Cerami: «Con Gramsci ho fatto colazione, pranzo e cena per 30 anni, se ci prendiamo una pausa non è male. Gramsci lo metto sul comodino e mi guardo intorno. Davanti abbiamo un orizzonte completamente nuovo, che non ha nessun legame con il passato. Dunque non possiamo guardare sempre indietro». Dunque Gramsci finisce nel cassetto? «Possiamo leggere e goderci la sua grande scrittura, studiarlo per capire da dove veniamo, ma poi guardare avanti», dice Cerami.
Il botta e risposta nasce da una provocazione del moderatore Marino Sinibaldi (autore e conduttore di Fahrenheit su Radiotre), che aveva sottolineato come questa estate fosse stata soprattutto la destra a parlare di Gramsci. E Cerami risponde: «Ogni tanto ci provano ad appropriarsene, ci aveva già provato Veneziani qualche anno fa. Ma sono gli eredi di quella destra che l’ha condannato a morire in carcere».
Si parte parlando dei massimi sistemi, di globalizzazione e fine delle ideologie, di una società frantumata in cui, dice Bondi, «l’uomo è solo» e «bisogna passare dall’io al noi». Cerami è d’accordo ma lo richiama rapidamente alla dura realtà: «Visti i soldi che il governo ha destinato alla cultura anche tu sei un ministro ombra. Il sapere è considerato una cosa superflua». Bondi se la cava storicizzando: «Le classi dirigenti italiane hanno sempre sottovalutato la cultura, lo diceva anche Spadolini…». Poi corregge il tiro: «Io sono d’accordo con Tremonti, la spesa pubblica deve diminuire». Ma il bello arriva sull’arte contemporanea. A Bondi certe opere viste al «Madre» di Napoli proprio non sono andate giù, soprattutto La Vasca dell’artista indiano Anish Kapoor: «Ho visto un tappeto nero e gente che per sembrare colta diceva “molto interessante”. Ma sfido chiunque...». «No, la prego», ribatte Cerami. «Quello era un trompe l’oeil, lo spettatore non sa se si tratta di un tappeto o di una voragine. È un’opera che si porta dietro mille metafore sullo smarrimento. Forse lei l’ha vista in modo troppo realistico e si è fermato al tappeto...». Bondi: «Io ho detto attenzione che qui qualcuno ci cade dentro». E la rana crocefissa del museo di Bolzano? «Offende i sentimenti cristiani e il buon senso, come ha detto il Santo Padre», si infervora Bondi. «Certe cose non so proprio se si dovrebbero chiamare arte, c’è tanta gente di sinistra che la pensa come me. Se l’obiettivo è provocare e dissacrare non è arte». Cerami allarga le braccia: «Da che mondo è mondo l’arte è dissacrazione. E se dipingessi un cardinale che bacia una monaca, una madonna a torso nudo con attorno uno sciame di spermatozoi o il culo di Dio?». Bondi quasi sviene: «Mio dio, come si è ridotta la sinistra oggi». Cerami lo rassicura: «Sono tre opere di Schiele. Munch, e Michelangelo nella Cappella Sistina». Bondi si rianima: «Ho solo espresso uno stato d’animo, non un giudizio...». La platea ride, poi c’è spazio anche per reciproche cortesie: «Sono venuto qui per rendere omaggio a lei come ministro ombra, come persona e scrittore», dice Bondi. E le poesie del ministro piacciono a Cerami? «È un poeta di cuore», è la risposta che il forzista accoglie come «un grande complimento».
Poi, dopo la fine del dibattito, Cerami aggiunge, con un sorriso: «Come poeta è un po’ prevertiano, ma sull’arte contemporanea è sprovveduto, come critico non avrebbe le carte in regola...».

Corriere della Sera 3.9.08
Anoressici e bulimici quattro su cento
Come cresce in Italia la fobia del cibo
di Margherita De Bac


Per non pensare al cibo Laura ha deciso di pensarci dalla mattina alla sera. No, non è una contraddizione, per lei come tante donne afflitte da anoressia. Dopo ripetuti tentativi di liberarsene, è arrivata alla conclusione che il sistema migliore di esorcizzare il rapporto con il mangiare sia dedicarsi a cucina, gastronomia, spesa.
Laura è diventata un'ottima cuoca. Prepara piatti sopraffini per i familiari, che non resistono a tanta bontà e ingrassano. Accumula ricette strappate dalle riviste, frequenta corsi per migliorarsi, resta incollata davanti alla televisione non appena trasmettono uno spazio sull'alimentazione e trascorre ore ai fornelli. Senza assaggiare mezzo cucchiaino, ovviamente. Inoltre, sa indicare la pasticceria che vende il migliori dolci della città. E' la sua cura, questa. Perché in realtà non ritiene sia necessario curarsi. Essere magra fino all'osso e nutrirsi d'aria dal suo punto di vista non è un problema. Stile di vita, scelta personale.
La stessa convinzione di Laura tiene lontane dai servizi oltre il 50% delle persone con disturbi del comportamento alimentare. Fenomeno molto preoccupante, visto che il successo dei trattamenti in questi casi dipende dalla precocità degli interventi.
E' uno dei dati che saltano agli occhi scorrendo la ricerca condotta da Esemed (European study of the epidemiology of mental disorders) e Organizzazione mondiale della sanità in sei Paesi europei, 500 milioni di euro investiti. Primo lavoro analitico sull'epidemiologia delle malattie mentali.
Ne sono derivati diversi approfondimenti tra i quali l'indagine specifica su anoressia nervosa, bulimia nervosa, iperalimentazione incontrollata (binge eating) e disordini «sottosoglia», meno catalogabili dal punto di vista diagnostico.
Oltre quattromila interviste a cittadini di età tra 18-50 anni (non gli adolescenti per una questione di consenso informato e si pensa che fra loro le percentuali siano più alte) effettuate con la stessa strategia analitica di Ron Kessler, uno dei maggiori psichiatri del mondo. Coordinatore del progetto globale, l'italiano Giovanni de Girolamo, psichiatra della Asl di Bologna.
E' stato possibile mettere a confronto le situazioni di Italia, Germania, Francia, Spagna, Belgio e Olanda. In questi sei paesi mediamente 5 adulti su 100 dichiarano di aver sofferto nel corso della vita di uno di questi disturbi.
La prevalenza è più alta in Francia (7%) e Belgio (5,15%), mentre l'Italia è al di sotto dell'asticella con poco più del 4%, tampinata da Olanda, Germania e Spagna.
Anoressia e bulimia nervosa incidono per l'1% circa, seguite con 1,85% da binge eating (incontrollata necessità di ingurgitare cibo a volontà, soprattutto di nascosto) e altri problemi 2,15%. L'esordio della malattia è spesso tra 10 e 20 anni, dopo la pubertà, con un picco tra 14 e 19 anni.
Le donne sono fino a 7 volte più numerose degli uomini.Dopo aver ricevuto la diagnosi però appena il 48% dei bulimici, il 37% degli anoressici e il 30% del resto del campione riferiscono di aver preso contatto con specialisti per valutare di intraprendere un trattamento.
Per Antonio Preti, psicologo dell'università di Cagliari, che ha lavorato con Esemed, la resistenza a farsi seguire dai servizi ha ragioni ben precise: «Chi soffre riconosce i sintomi come coerenti col personale stile di vita, col suo modo di pensare. Un atteggiamento che definiamo egosintonia. Se poi, avvertendo depressione o ansia, decide di chiedere aiuto, si rivolge allo psicologo o al medico di famiglia ma non allo psichiatra esperto di alimentazione. Anche quando sono presenti sconvolgimenti organici come lesioni allo stomaco, vomito, complicazioni cardiovascolari».
Molto spesso i non specialisti (generalisti, pediatri, dentisti, ginecologi) non sono capaci di andare oltre l'apparenza, di sospettare diagnosi più complicate. L'anoressia viene scambiata per «stranezza» nel 50% dei casi, la bulimia viene individuata in appena 1 caso su 10 perché non si manifesta con eccessiva magrezza.
Paola Miotto, responsabile del centro per i disturbi dell'alimentazione di Piave di Soligo Veneto, ha visto passare nel suo ambulatorio un centinaio di pazienti arrivati in ritardo, età media 17 anni: «I dentisti ancora oggi non si accorgono che l'erosione dello smalto può essere dovuta alla mancanza di cibo. I ginecologi non sospettano che dietro una amenorrea (assenza di ciclo mestruale) può nascondersi una forma di anoressia o di bulimia. C'è ancora molto da fare per sensibilizzare medici, insegnanti, genitori». Rispetto agli altri Paesi in Italia si riscontra una minore sovrapposizione di anoressia e bulimia con altre malattie mentali (comorbilità).
Il 30-40% degli intervistati raccontano di aver sofferto di depressione grave, di ansia (40%). «Schizofrenia e disturbi bipolari sono rari ma abbiamo notato un certo incremento», dice Preti.
Di solito ad accendere questi disturbi, latenti fin dalla nascita, quando viene avviato il processo dell'autostima, è l'interruttore di una dieta dimagrante. «Sono comportamenti di difesa da un disagio psichico profondo. Non credo che la spinta dipenda dal cercare di emulare modelli estetici imperanti, come la linea filiforme delle indossatrici. Attraverso il controllo del corpo e dell'io si pensa di riuscire a contrastare la sofferenza interiore. Ecco perché c'è resistenza a recarsi ai servizi. Hanno bassa stima di se stesse, queste ragazze non si accettano ».
L'unica cura efficace è la diagnosi precoce e l'avvio tempestivo di trattamenti integrati con psicologi, nutrizionisti, psichiatri. Rara la prescrizione di farmaci a meno che non emergano aspetti psicotici. Nel centro trevigiano la giornata dei pazienti seguiti in ambulatorio viene occupata da arteterapia, incontri di gruppo, equitazione, biodanza. L'obiettivo è la ristrutturazione interiore.

Corriere della Sera 3.9.08
L'esperto: «Il vero problema è l'alimentazione incontrollata»
di Mario Pappagallo


C'è abbuffata ed abbuffata. Se, però, si ripetono con frequenza elevata, diventando quasi un'abitudine, esse sono la spia di vere e proprie patologie. Infatti, a seconda che le abbuffate siano seguite o meno da comportamenti di compenso (vomito autoindotto, abuso di diuretici o lassativi, digiuno prolungato, eccessiva attività fisica), possono configurarsi i quadri clinici della bulimia nervosa o del binge eating disorder (nella traduzione non letterale italiana, disturbo da alimentazione incontrollata).
Di che cosa si tratta? Risponde Mario Maj, psichiatra della II università di Napoli e presidente della Società mondiale di psichiatria (Wpa): «Il binge eating disorder è caratterizzato, come la bulimia nervosa, da episodi di abbuffate o più spesso da giornate ricorrenti di alimentazione incontrollata, con ingestione di grandi quantità di cibo anche senza sentirsi affamati e con la sensazione di non riuscire a fermarsi o a controllare che cosa e quanto si sta mangiando. Dopo questi episodi, a differenza di quanto accade nella bulimia nervosa, le persone con binge eating disorder non mettono in atto comportamenti di compenso (quali vomito autoindotto, abuso di lassativi, digiuni o esercizio fisico eccessivo), che mirano ad eliminare le calorie ingerite. Di conseguenza, esse vanno incontro ad un aumento di peso, diventando obese e, spesso, si ritrovano tra i cosiddetti "grandi obesi". Sono presenti abitualmente sentimenti di sconfitta, di colpa e di disgusto per se stesso e per le proprie dimensioni corporee e vulnerabilità nelle relazioni interpersonali».
I numeri? Qual è l'entità del fenomeno? «La prevalenza del binge eating disorder nella popolazione generale viene valutata tra lo 0.7% e il 4%. Tra le persone che si sottopongono a programmi di controllo del peso, la prevalenza del disturbo è stimata tra il 15 e il 50%, in media 30%. In uno studio condotto negli Stati Uniti tra i frequentatori dell'Overeating Anonymous, un'associazione comprendente prevalentemente casi gravi di obesità, la percentuale delle persone con binge eating disorder era del 70%. In Italia, si stima che il disturbo interessi circa un milione e 300 mila persone. E' leggermente più frequente nelle donne che negli uomini (il rapporto è di 3 a 2)».
L'età a rischio? «L'insorgenza del disturbo avviene di solito nella tarda adolescenza o nella terza decade di vita, ma la diagnosi è di solito ritardata di diversi anni».
Quale la cura? «Il trattamento della bulimia nervosa e del binge eating disorder prevede un approccio integrato multidisciplinare, con l'intervento dello psichiatra, dello psicologo, del nutrizionista e, nei casi con complicazioni organiche, anche dell'internista. Al momento, si ritiene che le maggiori probabilità di successo terapeutico siano garantite dalla contemporanea pratica di un counselling dietetico-nutrizionale, di una farmacoterapia e della psicoterapia ».

Corriere della Sera 3.9.08
Spagna La decisione è figlia della Legge sulla memoria. E divide il Paese: a favore i socialisti, contro i popolari
Guerra civile, Garzón lancia «l'operazione verità»
Censimento di tutte le vittime: saranno setacciate anche le sacrestie di 23mila chiese
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — Per ora il giudice Baltasar Garzón vuole soltanto sapere quanti sono: quanti fucilati, quanti dispersi, quanti sepolti ignoti ci siano ancora nei cimiteri di campagna, nella terra nuda e, naturalmente, nel più imponente mausoleo della Guerra civile spagnola, il Valle de los Caidos, a poche decine di chilometri da Madrid, vicino all'Escorial. Il magistrato ha chiesto al governo, ai comuni di Madrid, Siviglia, Granada e Cordoba, alla conferenza episcopale, all'abate Anselmo Alvarez, custode della basilica e di 34 mila tombe, tra le quali quella di Francisco Franco, di collaborare al primo censimento «giudiziario» delle vittime di un conflitto che la Spagna ha preferito, per trent'anni, non rivangare. Né quantificare con precisione.
Ma, in virtù della legge sulla Memoria storica, approvata dal parlamento spagnolo alla fine del 2007, tredici associazioni che da anni si battono per disseppellire corpi e ricordi hanno chiesto al tribunale nazionale di far luce sulla sorte di migliaia di persone, in maggioranza appartenenti al bando repubblicano e ancora senza una lapide o un certificato di morte.
La richiesta del giudice a parrocchie, istituzioni, municipi, registri pubblici di fornire ogni dato o documento disponibile sulle fosse comuni o su altre sepolture provvisorie per combattenti e civili uccisi durante la repressione franchista, dovrebbe servire a stabilire la competenza di un'indagine che si apre oltre settant'anni dopo. Ancora non è un'inchiesta diretta a stabilire responsabilità o a emettere condanne. Ha un limite temporale: intende risalire fino al 17 luglio del 1936, il giorno della «Sollevazione nazionale», il golpe guidato da Franco, al tempo generale dell'esercito. Per la Procura è un caso da archiviare, un argomento di discussione soltanto storica o politica. Garzón potrà conformarsi a questa opinione o mandare la polizia giudiziaria a frugare nelle sacrestie di 22.827 chiese, negli schedari locali e nazionali, tra i verbali delle esecuzioni più o meno sommarie, per tentare di dare una risposta ai discendenti degli scomparsi.
A riflettere con calma sul dilemma non lo aiuterà il clima che ha generato la notizia. In Spagna sembra ancora troppo presto per dissigillare quel capitolo: «Riaprire le ferite del passato non porta a niente, chiunque lo faccia » si è schierato il presidente del Partito popolare, e leader dell'opposizione, Mariano Rajoy, che non ha mai nascosto il suo dissenso dalla legge sulla Memoria storica voluta dal governo socialista di José Luis Rodriguez Zapatero. Che, riguardo all'iniziativa del magistrato, ha espresso invece solo la sua «considerazione di rispetto ». Lo scopo della legge, secondo il premier, è di «ampliare e riconoscere i diritti di coloro che soffrirono le conseguenze della guerra civile e della dittatura». Non la vede così l'eurodeputato dei popolari, Jaime Mayor Oreja, secondo il quale è invece «una delle leggi più perniciose » elaborate dai rivali. Nemmeno le indagini online dei quotidiani danno risultati concordi: il 71% dei lettori di El Pais si dichiara favorevole al censimento dei desaparecidos, il 77% degli intervistati da El Mundo è invece contrario.

Corriere della Sera 3.9.08
Colonialismo, i conti che non si fanno
Resta il silenzio della destra sui crimini dei nostri soldati in Africa
di Gian Antonio Stella


Ha detto Mario Borghezio che Berlusconi è andato da Gheddafi «con il cappello in mano» e che l'accordo con la Libia «non è stata una pagina dignitosissima». Nessuna meraviglia: ogni tanto un rutto della giovanile fede fascista gli scappa. Di più: le cose che pensa (anche le più orrende) lui almeno le dice. A distanza di alcuni giorni di inossidabili silenzi, colpisce invece come la destra italiana abbia perduto un'altra occasione per riflettere pubblicamente sul proprio passato. Riflettere: non strappare. Nessuno mette in discussione come Gianfranco Fini (in nome di una An talora recalcitrante) abbia dato negli anni una serie di strappi radicali. Che hanno via via portato lui e il partito a lasciarsi alle spalle i tempi in cui teorizzavano che «per essere di nuovo determinante il Msi deve saper essere anche figlio di puttana » per approdare al Pdl e al Ppe. Ma si è trattato, appunto, di strappi. Positivi. Coraggiosi. Giusti. Ma strappi. Che spinsero perfino Marcello Veneziani a dire che i camerati si erano «liberati del fascismo come di un calcolo renale».
Pubblici lavacri, necessari a prendere coscienza fino in fondo e dolorosamente degli errori, pochini. Anzi, è sempre riaffiorata la tentazione di dire che il fascismo è stato una brutta cosa però, in fondo in fondo... Basti ricordare quanto sfuggì allo stesso Fini un paio di anni fa: «Se guardiamo a Somalia, Etiopia e Libia, a come sono ridotte adesso e a com' erano prima con l'Italia, credo che questa pagina della storia sarà riscritta e ci sarà una rivalutazione del ruolo dell'Italia ». Per non dire del compiacimento verso il Cavaliere quando sentenziò che «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno e i suoi avversari li mandava in vacanza nelle isole».
Ecco, le pubbliche scuse (sia pure vaghe) alla Libia sono un passo importante. Che anche Angelo Del Boca, tra i primi a smascherare le balle del bravo colonialista italiano, ha giustamente benedetto. Ma il silenzio assordante della destra sulle responsabilità dei nostri soldati giolittiani e soprattutto fascisti al comando di un macellaio come Rodolfo Graziani (a guerra finita eletto presidente del Msi) è davvero una nuova occasione perduta.
Ai tanti smemorati che si rifiutano di ricordare i bombardamenti proibiti con i gas tossici, le decine di migliaia di vecchi, donne e bambini morti nei campi di concentramento della Sirte e della Cirenaica, la spaventosa carneficina di Addis Abeba, offriamo da rileggere almeno un telegramma a Badoglio del 28 dicembre '35: «Dati sistemi nemico autorizzo V.E. all'impiego anche su vasta scala di qualunque gas et dei lanciafiamme. Firmato: Mussolini». E una pagina di «Ali sul deserto» dell'aviatore Vincenzo Biani del 1934: «Gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire le piste dei fuggiaschi e trovarono finalmente sotto di sé un formicolio di genti in fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si riscontra solo nelle masse sotto l'incubo di un cataclisma; una moltitudine che non aveva forma, come lo spavento e la disperazione di cui era preda; e su di essa piovve, con gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava. Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le mitragliatrici. Funzionavano benissimo (...) Nessuno voleva essere il primo ad andarsene, perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo».

Repubblica 3.9.08
"Carceri affollate come prima dell´indulto"
Uno studio allarma il governo. Alfano promette dialogo sulla giustizia, freddo il Pd
Il guardasigilli vede Maroni per discutere di "braccialetto" e di espulsioni
di Luana Milella


ROMA - Le proiezioni sono sul suo tavolo da alcuni giorni. E turbano le notti del Guardasigilli Angelino Alfano. Le ha messe a punto il Dipartimento delle carceri. Contengono una previsione che fa stare sulle spine il ministro e tutti coloro che, nelle sue consultazioni sulla riforma della giustizia, le hanno apprese. Capo dello Stato, colleghi di governo a partire dal ministro dell´Interno Roberto Maroni, Silvio Berlusconi, la presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno. Il rapporto dice che, giusto tra otto mesi, il numero dei detenuti in Italia supererà quota 63mila (oggi sono 55.369). È il tetto che, nel maggio 2006, portò il governo Prodi a imboccare la via dell´indulto. «Inutile», dunque, la misura di allora. «Improponibile» oggi.
Alfano l´ha detto una settimana fa al meeting di Cl, lo ha ripetuto ieri a Pier Ferdinando Casini durante il seminario a porte chiuse dell´Udc e del Ps di Riccardo Nencini sulla giustizia, dove c´era anche il consigliere giuridico del Colle Loris D´Ambrosio, quando ha rivelato che le carceri stanno di nuovo per scoppiare. «Che pensi di fare?» gli ha chiesto il leader centrista. Lui, di rimando: «Certo non possiamo pensare a un nuovo indulto». Anche perché, Alfano ne ha avuto la conferma dopo gli incontri con Bongiorno e Maroni, né An né la Lega sarebbero d´accordo su una misura svuota carceri. Eppure la situazione si preannuncia disperata. Al punto da fargli dire ieri: «È chiaro che se dovesse scoppiare una rivolta ne sarei il responsabile. Non c´è tempo da perdere, sono urgenti misure drastiche ed efficaci sul carcere».
Nell´"agenda" di Alfano, prima delle riforme costituzionali (Csm, carriere, obbligatorietà) e assieme agli interventi sul processo civile e penale, c´è il pacchetto carceri. Che non conterrà la via più semplice, costruire nuovi penitenziari, perché una verifica col ministro dell´Economia Tremonti ha confermato che la cassa della giustizia è vuota. Il ministro pensa a un ddl illustrato, nelle linee essenziali, a Napolitano. Di cui ha iniziato a discutere con Maroni, in un paio d´ore di colloquio al Viminale, dopo il lasciapassare di massima dell´aennina Bongiorno sulla filosofia d´intervento. Se l´obiettivo è far calare il numero dei detenuti le mosse di Alfano sono tre: rimandare nei paesi d´origine quelli condannati per reati lievi; rispolverare il braccialetto elettronico (varato nel 2001 in via sperimentale, non è mai decollato, i 500 esemplari disponibili giacciono inutilizzati); sanzioni sostitutive per le condanne sotto una certa pena (da stabilire).
Un progetto che potrebbe ottenere il placet dell´Udc di Casini, partito pronto al dialogo sulla giustizia, ma a patto che le riforme puntino ad accelerarne i tempi e non siano «uno scambio tra cannibali» come nella stagione delle leggi ad personam. Casini non considera urgente la separazione delle carriere, ma apre sul Csm nella formula del democratico Violante (tre fasce, scelte da capo dello Stato, Camere, toghe). Alfano offre il dialogo, ma nel Pd se Violante e Franceschini sono disponibili, la Finocchiaro accetta solo leggi sull´efficienza e boccia le modifiche costituzionali.

Repubblica 3.9.08
Uomini infedeli? Tutta colpa di un gene
La medicina trasformerà il seduttore in un compagno monogamo
di Enrico Franceschini


Una ricerca svedese scopre il rapporto tra il Dna e le relazioni extraconiugali Gli esperimenti effettuati sui roditori confermano. E ora la medicina può immaginare una cura

LONDRA. Sembra la scusa perfetta per il marito colto in flagrante: "Scusa, tesoro, ma sono nato così, non è mica colpa mia". Scienziati svedesi hanno infatti scoperto il gene dell´infedeltà: una specie di motorino che alcuni maschi hanno nel proprio Dna e altri no. Non è uno scherzo, e gli studiosi sono i primi ad ammettere che le relazioni extra-coniugali derivano da innumerevoli circostanze: quello genetico può essere soltanto un aspetto della molla che scatena il tradimento. Ma è comunque la prima volta che una ricerca individua un legame simile tra come sono fatti gli uomini e come interagiscono con le donne. Non solo: la scoperta include pure la possibilità di "curare" il gene malandrino, modificandolo in modo da bloccare il suo effetto, teoricamente al fine di salvare, o meglio proteggere, le unioni matrimoniali. La "medicina" che trasforma un seduttore impenitente nel compagno più fedele e monogamo, per adesso provata soltanto su topolini di laboratorio, ha dato risultati immediati: chissà se un giorno verrà somministrata anche ai playboy umani, e in che modo verranno eventualmente convinti a fare la cura.
La scoperta è opera di scienziati dell´Istituto Karolinska di Stoccolma, che l´hanno illustrata su un´autorevole rivista scientifica britannica, Proceedings of the National Academy of Sciences. Ieri è finita in prima pagina sul Daily Telegraph e sul Times di Londra col titolo: "Il gene che rende più probabile il divorzio". Il gene in questione agisce sulla vasopressina, un ormone di cruciale importanza nel processo di attaccamento sentimentale e sessuale tra un uomo e una donna. Esaminando un campione di oltre duemila persone, i ricercatori svedesi hanno verificato che gli uomini in possesso del gene restano più spesso scapoli oppure hanno una maggiore probabilità di avere relazioni extraconiugali, problemi matrimoniali e di divorziare, rispetto agli uomini che non ce l´hanno. Le mogli di uomini in possesso del gene, inoltre, sono mediamente meno soddisfatte del proprio matrimonio rispetto alle mogli di uomini che non hanno il gene in questione. Gli uomini con due copie del gene hanno avuto due volte più crisi matrimoniali nell´ultimo anno rispetto agli uomini senza il gene. «Naturalmente ci sono molte ragioni per cui una persona ha una relazione extramatrimoniale», osserva il professor Hasse Walum, autore del rapporto, «ma è la prima volta che una variante genetica viene associata al modo in cui gli uomini si legano a una donna». Studi compiuti due anni fa al St. Thomas Hospital di Londra, d´altronde, suggeriscono che anche l´infedeltà femminile ha una percentuale di base genetica.
Gli effetti del gene sono stati sperimentati su due tipi di piccoli roditori della famiglia dei criceti. L´arvicola della prateria è estremamente monogama: quando il maschio incontra una femmina, si accoppiano ininterrottamente per 36 ore, creando un legame che dura per tutta la vita e anche oltre, tant´è che quando uno dei due muore, l´altro sceglie di restare celibe anziché formare una nuova coppia. L´arvicola comune, viceversa, è estremamente promiscua. Gli scienziati hanno scoperto che il cervello dell´arvicola della prateria maschio ha una dose di vasopressina molto più alta dell´arvicola comune. Ebbene, intervenendo sul gene "dell´infedeltà", in modo da aumentare considerevolmente il livello di vasopressina, i ricercatori hanno assistito a uno stupefacente mutamento: il criceto che amava la promiscuità è diventato di colpo uno sposo mite e devoto. Nessuno ha potuto chiedergli, tuttavia, se è più felice di prima; e nemmeno alla moglie se è davvero contenta, ad avere un compagno finalmente fedele, non perché così lui vuole, ma grazie all´equivalente di una pillolina.