Misure anti-rom. La Ue non ha assolto Berlusconi
Non c’è nessun documento della Commissione europea
Dietro il polverone l’operazione «salvate il soldato Maroni»
di Paolo Soldini
NON ESISTE una «presa di posizione della Commissione Ue» sulle misure anti-rom del governo italiano. Esiste solo una lettera che il commissario alla Giustizia Jacques Barrot ha scritto al ministro Maroni. Sono i contenuti di questa missiva sconosciuta quelli che sono stati anticipati giovedì da Michele Cercone, portavoce dello stesso Barrot, accendendo il tripudio del centrodestra e i titoloni dei giornali. Ma una lettera, della quale neppure lo stesso ministro ha mostrato di essere a conoscenza, non è un giudizio politico dell’esecutivo brussellese: è l’iniziativa di un singolo commissario, sia pure importante e attualmente in carica come uno dei 5 vicepresidenti della stessa Commissione. Per il resto la partita tra Roma e Bruxelles è ancora tutta da giocare. Mentre dagli uffici dell’altro commissario interessato alla questione, il responsabile degli Affari sociali Vladimir Špidla, fanno sapere che per quanto li riguarda non c’è alcuna novità (il che è un modo elegante per prendere le distanze da Barrot), proprio ieri si è saputo che la commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni dell’europarlamento ha chiesto a Barrot di riferire martedì prossimo sulla vicenda e sul senso del suo giudizio, che contrasta in modo del tutto evidente con la risoluzione che l’assemblea aveva approvato a larga maggioranza (e con i voti di non pochi esponenti del Ppe) il 10 luglio scorso. Fino a martedì, dunque, non esiste nulla di ufficiale né della Commissione né del suo vicepresidente. Anche perché, a quanto pare, Barrot si sarebbe rifiutato di anticipare ai deputati la sostanza della sua «comunicazione» come molti di loro avevano chiesto per poter, almeno, cominciare a farsene un’idea. Intanto, il presidente della commissione parlamentare, il deputato liberale belga Gérard Duprez, ha organizzato, dal 18 al 20 settembre, una visita a Roma, nell’ambito della quale ha chiesto un colloquio ufficiale con il ministro Maroni e con i presidenti di Camera e Senato e ha previsto una ricognizione nei campi rom e una serie di incontri con le comunità che vi vivono. Conoscendo Duprez, un uomo molto attento al rispetto dei diritti civili, la tournée italiana si annuncia pepata.
Insomma, la «soddisfazione» del capo del Viminale, dei suoi colleghi e del suo capo per l’«assoluzione» di Bruxelles rischia di essere quanto meno prematura. Anche perché l’operazione «Salvate il soldato Maroni», che ha avuto per teatro nei giorni scorsi Roma, Bruxelles e con ogni probabilità Parigi ed è, a quanto pare, ancora in corso, rischia infatti di essere compromessa da una delle solite gaffe in cui il ministro è solito tuffarsi con gioiosa inconsapevolezza. Giovedì, nella sua dichiarazione sul placet del vicepresidente della Commissione, Cercone aveva testualmente affermato che «la collaborazione con il governo italiano ha permesso di correggere ogni disposizione o misura che poteva essere contestabile ("corriger toute disposition ou mesure qui pouvait être contestable"). Detto in buon italiano questo significa che alla Commissione di Bruxelles è arrivato dal governo italiano un testo, che questo testo è stato giudicato insufficiente in materia di salvaguardia dei diritti civili, che quindi è stato rimandato indietro e che da Roma ne è arrivato uno nuovo «non discriminatorio». Maroni, invece, ha sostenuto, in almeno due diverse occasioni, che il 1° agosto ha inviato sic et simpliciter il testo dell’ordinanza (quella contestatissima) e che è quindi l’ordinanza in quanto tale ad aver ricevuto la benedizione di Bruxelles. Evidente il perché della bugia: il ministro leghista non vuole fare la figura di chi si rimangia le sue sparate, dopo aver cavalcato con tanto gusto la demagogia del duro zerotollerante.
Sollecitato a spiegare l’aporia, il portavoce di Barrot ha dovuto ammettere che sì, in effetti, il governo italiano il 1° agosto, alla terza (leggasi: terza) richiesta di «spiegazioni» inviata dalla Commissione, ha inviato il «testo legislativo» dell’ordinanza accompagnato, però, da una relazione interpretativa sulla sua applicazione e dalle linee-guida. È su queste che Maroni ha «addolcito» talmente le proprie posizioni da non poterlo ammettere oggi, tant’è che ha imposto un segreto assoluto (e altrimenti inspiegabile) al vero testo della sua comunicazione del 1° agosto. Esattamente quello che hanno sostenuto, ieri, molti esponenti della sinistra e questo giornale.
Resta da indagare come e da chi - il perché è ovvio - è stata messa in moto l’operazione «salvare Maroni». Jacques Barrot proviene dalle file del centrodestra francese, milita nell’Ump del presidente Sarkozy e ha avuto in tempi recenti una intensa frequentazione con il centrodestra italiano. È stato quando la «chiamata» a Roma di Franco Frattini lo ha portato ad assumere i suoi incarichi, commissario alla Giustizia e vicepresidente, lasciando ad Antonio Tajani il posto di commissario ai Trasporti, in un complicato negoziato che si è dipanato tra Roma, Bruxelles e Parigi e al quale non sono rimasti estranei due dossier fondamentali: l’Alitalia, che già occupava la mente di Berlusconi con la necessità di assicurarsi un parrinage nella Commissione, e l’inizio delle grandi manovre per la nomina dei successori di Barroso, dei 27 commissari e, ovviamente, dei vicepresidenti, il cui mandato scadrà a novembre dell’anno prossimo. Di una «calda raccomandazione» di Sarkozy a Barrot, perché non maltrattasse troppo il ministro di Roma, si era parlato a Bruxelles e a Parigi già il 7 luglio scorso, quando Maroni tornò trionfante da Cannes, dove lo aveva incontrato, sostenendo che tutto era stato «chiarito». Sarà stata la prima «raccomandazione»? E, soprattutto, l’ultima?
Corriere della Sera 6.9.08
Il governo vuol rendere l'interruzione di gravidanza libera fino al 4˚ mese
Spagna, cambia la legge sull'aborto. Protesta la Chiesa: «Scelta triste»
di Mario Porqueddu
Il prefetto per la Dottrina della Fede, cardinal Levada: «L'aborto non è solo una questione politica: tocca le radici dell'uomo»
MADRID — Nel 2006, centomila donne spagnole hanno abortito. I dati del ministero della Salute dicono che nel 96% dei casi l'interruzione di gravidanza è stata motivata da un medico con il «rischio per la salute psichica della madre». In Spagna non è previsto che una donna interrompa la gravidanza perché ha deciso di non mettere al mondo un figlio. Giovedì il governo di Madrid ha annunciato che alla fine del 2009, o al più tardi all'inizio del 2010, entrerà in vigore una nuova legge sull'aborto. Ieri la vicepremier Maria Teresa Fernandez de la Vega ha spiegato che «l'attuale normativa è superata dagli eventi e in parte può risultare ambigua ».
L'aborto in Spagna è entrato nel dibattito pubblico nel 1979, quando undici donne finirono davanti a un giudice a Bilbao per aver interrotto la gravidanza. Furono assolte, il tribunale decise che avevano agito in base a «una necessità sociale». Sei anni più tardi, nel 1985, fu approvata la legge che regola tuttora la materia e depenalizza l'aborto in tre casi: se la gravidanza è frutto di violenza sessuale (con un limite fissato entro 12 settimane), se si individuano «gravi tare fisiche o psichiche» nel nascituro (entro 22 settimane, previo parere di uno specialista) o se c'è un «grave pericolo per la vita o la salute psichica della madre » (senza limiti di tempo, ma dietro parere medico vincolante). Nei fatti, però, capita che il trattamento per chi affronta l'aborto cambi da regione a regione — con casi come quello della Navarra, dove non c'è neanche un medico disposto a praticarlo —, e che si possano giustificare con «rischi psichici» anche interruzioni di gravidanza tardive, fino al sesto o al settimo mese. Cosa che per qualcuno equivale a negare i diritti dei prematuri. La maggioranza degli interventi, infine, avviene in cliniche private.
Il governo socialista di Zapatero vuole cambiare. Il ministro dell'Uguaglianza Bibiana Aìdo ha detto che la nuova legge dovrà incorporare «il meglio del panorama internazionale in materia», e tutelare «diritti fondamentali e sicurezza delle donne e dei medici». L'idea, secondo le indiscrezioni riportate dai principali quotidiani, è di consentire alle donne di abortire senza bisogno di giustificazioni entro le prime 14 o 16 settimane. Mentre interrompere la gravidanza dopo la ventiduesima o ventiquattresima settimana diventerebbe più difficile, a meno di gravi evidenze mediche. È stato formato un comitato di esperti che affiancherà i membri del Parlamento chiamati a elaborare le norme. Ne fanno parte giuristi, ginecologi e tecnici di vari ministeri. «È una squadra di abortisti, vicina ai socialisti» scriveva ieri El Mundo, che ha dato voce alle perplessità del Partito Popolare, pronto a opporsi, e a quelle dei collettivi femministi, rimasti fuori dall'organismo tecnico. Protesta anche la Chiesa. «Sono intristito — ha detto il prefetto della Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, cardinale William Levada —. L'aborto non è questione meramente politica, ma anche religiosa, culturale, sociale, tocca le radici dell'essere umano». Il governo ha assicurato che la futura legge «sarà frutto del maggior consenso possibile e di un dibattito completo, ragionevole, senza dogmi o posizioni preconcette. Nel solco della Costituzione ».
Corriere della Sera 6.9.08
La responsabile dell'Istruzione: tanti stranieri, devono conoscere i nostri valori
«Ora di religione obbligatoria» Bufera sulla giunta del Veneto
Proposta di un assessore di An. Ma Galan frena
Contrario Vian, docente cattolico di Ca' Foscari: le tradizioni di riferimento sono anche islamiche
di Marisa Fumagalli
VENEZIA — Il laico, liberale e disincantato presidente del Veneto bacchetta la giovane assessora all'Istruzione: «Insegnamento obbligatorio della religione? Nulla che vi assomigli rientra nel programma del governo regionale ». E precisa: «La sua è una proposta che coinvolge più istituzioni, più competenze oltre agli aspetti legati a principi di libertà e di rispetto del pensiero e delle credenze altrui». Insomma, Giancarlo Galan, mette i puntini sulle i.
Nei giorni scorsi era entrato nel merito della querelle tra gli immigrati islamici e il comune di Treviso («qui non hanno diritto di pregare», Gentilini dixit), invitando alla tolleranza e al buon senso, ora affronta a viso aperto un'altra questione «sensibile ». È successo, infatti, che Elena Donazzan, 36 anni, assessore regionale (An), discettando in materia di istruzione, abbia lanciato l'idea di inserire nella riforma regionale dell'Istruzione, l'obbligo nelle scuole venete dello studio della religione cristiano/cattolica. Argomento tutt'altro che locale. Oppure, c'è da ritenere che, in tempi di invocato federalismo fiscale, si debba passare anche al federalismo ecclesiale? Elisa Donazzan la prende alla larga, ma non arretra. «Premesso che non sto parlando di studio del catechismo — spiega al Corriere — la mia proposta s'inserisce nel tema più ampio dell'integrazione. Che coinvolge particolarmente la nostra regione dove il tasso di immigrati extracomunitari è elevato. Ora, se il ministro Mariastella Gelmini pensa, giustamente, di riportare a scuola l'Educazione civica, io credo che di tale materia possa far parte l'insegnamento della religione cattolica, fondamento indiscusso dei valori dell'Occidente. Che dovrebbero conoscere anche gli stranieri che hanno deciso di risiedere nel nostro Paese ». «Del resto — aggiunge — non è di Benedetto Croce la frase non possiamo essere italiani senza dirci cristiani?». Youssef Tadil, portavoce della comunità islamica di Treviso (in lotta per la rivendicazione di un luogo di culto), si richiama alla libertà di fede, sancita dalla Costituzione dello Stato italiano. «Avrebbe senso, semmai, insegnare le varie religioni — osserva — non soltanto la cristiana. Poi, gli alunni decideranno il percorso religioso che preferiscono». «La mia sensazione — continua — è che proposte come quella dell'assessore non giovino a rasserenare il clima interetnico ». Al fianco della Donazzan si schiera don Sandro Vigani, direttore del periodico Gente veneta. Osserva: «Poiché il cattolicesimo ha fatto la nostra storia e poiché l'80 per cento degli italiani sono cattolici, trovo giusto che questa religione diventi materia scolastica. Anche i musulmani dovrebbero studiarla». Ma Giovanni Vian (cattolico), docente a Ca' Foscari di Storia delle Chiese cristiane, dissente: «Piuttosto sarebbe doveroso inserire nelle scuole la Storia delle religioni, con un taglio laico/critico, non confessionale — dice —. E se vogliamo riferirci al contesto italiano ed europeo, le tradizioni di riferimento sono quelle giudaico-cristiane, ma anche quelle islamiche».
«Sono contrario, invece — conclude —, ad agganciare le religioni all'insegnamento dell'Educazione civica. I valori civili di uno Stato democratico sono altra cosa».
Corriere della Sera 6.9.08
Colloquio con lo scienziato che ha studiato con Sperry la separazione degli emisferi cerebrali
Cervello, conta la parte sinistra
Gazzaniga: «L'uomo può vivere anche se la destra è lesionata»
di Massimo Piattelli Palmarini
In un giorno del 1956, al White Memorial Medical Center, alla periferia di Los Angeles, i neurologi esaminarono il triste caso di un ex paracadutista americano, il quale aveva riportato nel 1944 un grave trauma cranico. Questo paziente, poi divenuto ultra-celebre nella letteratura clinica, è noto mediante le iniziali W. J. Il poveretto soffriva di frequenti convulsioni epilettiche resistenti ai farmaci. I neurochirurghi Joseph Bogen e Phillip Vogel, nel 1962, decisero di sezionare il ponte calloso che connette i due emisferi cerebrali. Due neuropsicologi del vicino California Institute of Technology vennero chiamati a seguire la successiva rieducazione e ad effettuare un'attenta analisi delle conseguenze psicologiche, cognitive e comportamentali dell'intervento. Essi erano il ben noto e allora cinquantenne professor Roger Walcott Sperry e il suo giovane assistente Michael S. Gazzaniga. Penso che tutti abbiamo sentito parlare del cervello diviso, dello «split brain», e abbiamo una qualche nozione della diversità tra emisfero sinistro (logico, linguistico, metodico, riflessivo) e emisfero destro (artistico, attento alle forme e alle melodie, intuitivo). Ebbene, tutto è partito proprio dal caso W. J. e dai lavori di Sperry e Gazzaniga. Mike Gazzaniga è oggi direttore del Centro SAGE per lo Studio della Mente all'Università di California a Santa Barbara. E' appena uscito il suo ultimo libro, dal semplicissimo titolo «Human», e dal sottotitolo «la scienza che è alla base di ciò che ci rende unici».
In che cosa siamo così unici nel mondo animale? Lo lascio dire a Gazzaniga, in esclusiva per il Corriere Scienza: «E' perché abbiamo un cervello capace di conoscere, apprezzare e desiderare le arti e governare i nostri atteggiamenti sociali e morali. Su un punto Darwin aveva torto, cioè noi non siamo in continuità con gli altri primati, la differenza tra noi e loro e qualitativa, non puramente quantitativa».
Gli chiedo di essere più esplicito: «Dal punto di vista cognitivo, noi abitiamo in una nicchia ecologica del tutto speciale. Evoluzionisticamente parlando, siamo come un treno senza freni. Possiamo modificare l'ambiente quasi senza limiti, il nostro cervello è molto meno modulare di quello di specie anche a noi vicine. Il passato del nostro cervello, della nostra mente e del nostro corpo ci condiziona assai poco. In altre parole, non possiamo liberamente cambiare la nostra natura, ma possiamo cambiare i nostri comportamenti. Dobbiamo sperare solo di sapere bene quello che stiamo facendo». L'idea del cervello sinistro e destro è diventata moneta corrente. Che cosa c'è di vero e di esagerato oggi in questa idea? «Ciò che più ci preme, nella nostra esistenza, è la capacità di pensare e di trovare soluzioni, essere creativi e comunicativi. Tutto ciò è provincia dell'emisfero sinistro. Quello destro gioca anch'esso un ruolo importante, ma si è visto che la vita ordinaria può continuare anche quando viene colpito». Dopo quasi mezzo secolo, quali lezioni possiamo trarre da questa lunga avventura clinica e scientifica? «Che gli esseri umani possiedono, nel loro emisfero sinistro, un dispositivo particolare che ci consente di dare un senso ai nostri propri comportamenti e umori, ci consente di interpretarli. Molti sono prodotti da meccanismi cerebrali impermeabili alla coscienza. Questo dispositivo è il loro interprete ci consente di raccontare a noi stessi la favola che siamo un'entità unica e consapevole, a dispetto di un sistema cerebrale che è di fatto distribuito e in parte modulare».
Gazzaniga è riconosciuto come un padre fondatore delle neuroscienze cognitive: «Sono quel neuroscienziato irrequieto, che ha sempre guardato verso il futuro e ha non solo dato contributi al problema dei rapporti tra mente e cervello, ma ha anche creato il settore della neuro-etica». Il suo libro «Il Cervello Etico» lo testimonia; inoltre è a capo di un vasto progetto di neuroetica sovvenzionato dalla Fondazione McArthur e darà l'anno prossimo in Scozia le prestigiose Gifford Lectures, venerabile istituzione che esiste dal 1887. Che cosa ci riserverà il futuro? «C'è stato il continuo progresso, proprio da voi in Italia, da Camillo Golgi a Giacomo Rizzolatti, dall'identificazione delle singole cellule nervose alle reti di neuroni e alla comprensione di come il cervello capisce le intenzioni altrui. Il futuro delle neuroscienze sta tutto nella scoperta di nuovi strumenti di indagine e nuovi metodi per capire i sistemi complessi ».
Corriere della Sera 6.9.08
Dallo studio degli zuccheri la scoperta di un ricercatore indiano che apre nuove ipotesi sull'evoluzione
Uomo-scimmia, la proteina «sapiens»
Ci ha diviso dai primati ma ci ha reso più vulnerabili alle malattie
di Giuseppe Remuzzi
C'era un ragazzo indiano, Ajit Varki, voleva fare il medico, ma non voleva fare il dottore e basta, voleva occuparsi di ricerca. E' andato negli Stati Uniti verso la fine degli anni '70 per lavorare con Stuart Kornfeld alla Washington University di Saint Louis. A quel tempo lì, Kornfeld lavorava sull'acido sialico (viene da sialos, saliva in greco) è uno zucchero a 9 atomi di carbonio. Nell'82 Varki si trasferisce a San Diego in California per mettere su un suo laboratorio di biologia degli zuccheri. Nel corso dei suoi studi Varki si accorge che il nostro sistema immune reagisce contro un certo acido sialico, si chiama acido N-glicolil neuraminico (Neu5Gc). «Che strano — pensa— acido sialico ce n'è sulla superficie di tutte le cellule di tutti i mammiferi e ha tantissime funzioni». Ma presto si rende conto che l'uomo fra tutti gli animali è l'unico a non avere Neu5Gc e non solo l'uomo di oggi. Anche gli ominidi di 900 mila anni fa erano senza Neu5Gc. Per saperlo Varki s'è messo a lavorare col paleontologo Juan Luis Arsuaga: hanno studiato ossa fossili prese a Atapuerca. A un certo punto dell'evoluzione insomma si è perso Neu5Gc: al suo posto gli uomini hanno un altro tipo di acido sialico, Neu5Ac.
La differenza è molto piccola, solo un gruppo OH appiccicato ad uno dei due rami della molecola. Le scimmie come tutti gli altri mammiferi hanno Neu5Gc, e Varki si era messo in testa di voler capire perché. Neu5Ac (quello dell'uomo) è il precursore di Neu5Gc e c'è una proteina — enzima — che trasforma Neu5Ac in Neu5Gc. Ma il gene che serve alla sintesi di questa proteina nell'uomo è mutato, la corrispondente proteina non funziona e così non si forma Neu5Gc. Varki si stava convincendo che forse è proprio questa proteina appena diversa a far sì che l'uomo sia uomo e lo scimpanzé scimpanzé. Possibile? Forse. Ma per capirlo bisogna fare un passo indietro. C'è un parassita della malaria, il plasmodio reichenowi, che infetta gli scimpanzé ma non l'uomo. E' perché quel plasmodio lì si appiccica a Neu5Gc sulla superficie dei globuli rossi degli scimpanzé.
L'uomo Neu5Gc non ne ha e così non si ammala di quel tipo di malaria. Neu5Gc è comparso da due a tre milioni di anni fa, proprio quando sulla terra è arrivato l'homo erectus.
C'era già la malaria allora, ma chi aveva la proteina mutata non formava Neu5Gc, così il parassita non riusciva ad attaccarsi ai globuli rossi e quell'individuo non si ammalava. Questo ha consentito a certi nostri antenati di evolvere fino all'homo
antecessor. A questo punto Varki e Gagneux hanno voluto la controprova. «Prendiamo un topo — si sono detti — modifichiamolo geneticamente in modo che sulla superficie delle sue cellule non ci sia acido sialico di tipo Neu5Gc, chissà che non prenda ad assomigliare in qualche modo all'uomo». L'hanno fatto, rispetto ai topi normali, quelli senza Neu5Gc perdono il pelo.
Adesso i ricercatori vogliono capire se questi topi sono capaci di riprodursi con quelli che invece Neu5Gc ce l'hanno ancora. O se, come sembra, si riproducono solo fra loro. E forse anche milioni di anni fa i nostri antenati Neu5Ac si accoppiavano solo fra loro. Così si sarebbe arrivati all'homo sapiens. Ma c'è di più, l'uomo è diverso dalle scimmie anche per la suscettibilità a certe malattie del sistema immune: artrite reumatoide, asma o sclerosi multipla colpiscono solo l'uomo, mai le scimmie. Cosa c'entra con l'acido sialico? C'entra.
L'uomo non ha Neu5Gc ma da secoli mangia prodotti animali pieni di Neu5Gc, carne e latte per esempio. Così nel nostro sangue si formano anticorpi anti Neu5Gc che determinano poi reazioni infiammatorie, ma anche le malattie del cuore e il cancro potrebbe avere quell'origine lì. Varki e Gagneux si sono precipitati in un supermercato, hanno preso agnello, maiale e manzo, pieni di Neu5Gc, e ne hanno mangiato quanto potevano. Nei giorni successivi si sono accorti che nel loro sangue cominciavano ad esserci anticorpi contro queste Neu5Gc che nel frattempo si incorporavano nelle membrane delle loro cellule. Insomma, ammesso che sia solo una proteina mutata a rendere gli uomini uomini, la stessa ci renderebbe più vulnerabili delle scimmie a tante malattie.
Corriere della Sera 6.9.08
Il commento. Da piccole differenze, grandi cambiamenti
di Telmo Piovani
La scoperta ha una sua amara ironia. Se Varki ha ragione, la mutazione che ci ha salvati da una forma di malaria, contribuendo alla nascita del genere Homo, è diventata poi la causa, tramite l'alimentazione, di altre terribili malattie.
L'evoluzione è una questione di vantaggi iniziali e di effetti collaterali, e quasi mai mira alla perfezione.
Un tempo, pensavamo che le evidenti differenze morfologiche fra noi e gli scimpanzé avrebbero trovato un corrispettivo in grosse differenze genetiche. Non è così: bastano piccoli cambiamenti utili, nel posto giusto al momento giusto. Ma le propagazioni sono imprevedibili e ciò che ci protegge dalla malaria può essere connesso anche alla perdita del pelo, all'isolamento riproduttivo e, oggi, alla reazione di rigetto verso organi provenienti da altri animali. Non è scontato, poi, che le nostre mutazioni abbiano portato sempre un'acquisizione in più. Come nella metafora del film «Il pianeta delle scimmie» il genere Homo si sarebbe qui differenziato per sottrazione, perdendo una molecola e mantenendo solo il precursore Neu5Ac.
Dopo tutto è improbabile che una sola mutazione puntiforme ci abbia reso umani, ma di sicuro siamo quel che siamo oggi perché in passato piccole differenze hanno fatto la differenza.
Corriere della Sera 6.9.08
Fascismo e berlusconismo, la trappola dei confronti
Sergio Romano risponde a Lucio Villari
Nelle elezioni del 6 novembre l932, le ultime avvenute in regime democratico in Germania, il partito nazionalsocialista di Hitler ebbe circa 12 milioni di voti (il 33,1 per cento) e 196 seggi al Reichstag mentre il Centro cattolico di von Papen (che forse era più a destra di Hitler) ebbe 70 seggi e un'altra formazione di destra, i tedesco-nazionali, 52. La destra ebbe in tutto 318 seggi, mentre i socialdemocratici ebbero 121 seggi e i comunisti l00. Il quadro era chiaro e il presidente Hindenburg, sollecitato anche da industriali, banchieri, armatori, proprietari terrieri, nominò cancelliere Hitler grazie anche alla copertura e alla legittimazione politica che di Hitler diede il cattolico von Papen. È questo dunque l'avvento «democratico» di Hitler al potere di cui parlavo in un mio intervento di alcuni giorni or sono sul Corriere della Sera e di cui si è stupito Gianfranco Pasquino.
Hitler guidava il maggior partito della coalizione di destra e dunque l'incarico spettò, dopo tentativi vari e scorciatoie (sempre di destra), a lui. Lo confermò anche il
Times di Londra in un articolo, che certamente lascia perplesso un fine giurista come Pasquino ma non stupisce chi studia con attenzione i travagli della democrazia europea negli anni Trenta del Novecento.
L'autorevole giornale inglese salutava la nomina di Hitler come un «ritorno alla democrazia parlamentare» in Germania. Una chiara polemica nei confronti della agitata ma viva Repubblica di Weimar dove invece la democrazia tedesca era nata.
Lucio Villari, Roma
Caro Villari,
Per la verità Gianfranco Pasquino ha anche sostenuto con ragione che Hitler e il suo partito, finché le elezioni tedesche furono libere, non ebbero mai la maggioranza assoluta dei voti. Ma la ricostruzione che lei fa del modo in cui i nazisti conquistarono il potere è impeccabile e presenta il vantaggio di completare il quadro della nostra discussione a tre sulla morte della Repubblica di Weimar. Non varrebbe quindi la pena di tornare sul tema se i frequenti riferimenti a Weimar, ai dittatori eletti con vasto consenso popolare, al fascismo e ai suoi rigurgiti non fossero diventati il pane quotidiano del dibattito politico italiano: un dibattito in cui si parla di storia, in realtà, per parlare anzitutto dell' attualità nazionale.
Il vero tema, quindi, è quello dei confronti storici. Quando ricerchiamo le analogie fra il presente e il passato cediamo a una tentazione naturale e comprensibile. I confronti servono a collocare un avvenimento nella storia, a individuare peculiarità e somiglianze, a meglio circoscrivere un fenomeno e, come avrebbe detto Benedetto Croce, a «parlare il mondo». Senza ricorso al paragone, in tutte le circostanze della vita, i nostri argomenti sarebbero astratti e difficilmente comprensibili. Quando dico che un certo vino ha un bouquet di fragole, aiuto pragmaticamente chi mi ascolta a separarlo mentalmente da altri vini con cui ha maggiore familiarità.
Il guaio, caro Villari, è che il confronto non è tra due avvenimenti, ma fra due interpretazioni. Il detto, così frequentemente ripetuto, secondo cui occorre studiare la storia per evitare di ripeterla, è in realtà un pericoloso sofisma. Ci serviamo del passato per meglio accreditare presso coloro che ci ascoltano un particolare giudizio sul presente; e per essere più convincenti usiamo un passato tagliato su misura. Penso in particolare all'uso continuo del fascismo come minaccia incombente sulla politica nazionale. Dietro questa pratica, così frequente nella bocca di certi pubblicisti, vi sono almeno due assunti. In primo luogo vi è la tesi secondo cui il fascismo sarebbe un virus indistruttibile, continuamente presente nel corpo delle società umane. E in secondo luogo vi è la presunzione che fascismo, nazismo, falangismo e tutti gli altri ismi autoritari o totalitari del XX secolo siano i differenti nomi di una stessa cosa. Renzo De Felice ha impiegato la sua intera vita a spiegare il fascismo come fenomeno italiano di una particolare congiuntura storica, ma si direbbe, a giudicare dalle polemiche delle scorse settimane, che abbia perduto il suo tempo. La faccenda avrebbe poca importanza se il partito comunista italiano non si fosse servito della «perenne minaccia fascista » per presentarsi al Paese come una grande forza democratica, indispensabile per la sua libertà.
Aggiungo che questo uso dei confronti storici presenta un altro inconveniente: rende del tutto inutile il mestiere dello storico. Che senso ha cercare di comprendere un avvenimento nella sua individualità e concretezza se la storia è soltanto una lunga litania di fatti già visti e già accaduti?
Corriere della Sera 6.9.08
Un pamphlet di Michele Martelli accusa la gerarchia ecclesiastica di voler dettare legge in ogni settore della vita pubblica
Se anche Dio entra in politica
La Chiesa e la democrazia: un relativismo che si vergogna di se stesso
di Giulio Giorello
Contro i teocon
S'intitola Quando Dio entra in politica (Fazi, pp. 228, e 16) il libro in cui Michele Martelli, studioso di filosofia e docente dell'Università di Urbino, critica le tendenze clericali che si manifestano nella vita italiana. Il testo di Giulio Giorello qui pubblicato è la prefazione al volume.
La Chiesa? «Non è democratica, ma sacramentale, dunque gerarchica», scriveva a suo tempo Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Fede. E oggi, con Joseph ormai salito al Soglio di Pietro, sotto il nome di Benedetto XVI? Mi pare notevole merito del volume di Michele Martelli Quando Dio entra in politica il fatto che l'autore, fin dal primo capitolo, metta a fuoco il nocciolo della questione. «La fallibilità, l'incertezza, l'errore, l'umile e incessante ricerca della verità, il dialogo, il dubbio socratico e scettico, l'autocorrezione e l'autocritica», si chiede Martelli, sarebbero dunque «estranei a chi la verità definitiva la possiede in Cristo, di cui è sostituto terreno»? Attenzione a rispondere Sì o No immediatamente. Una notevole tradizione di pensiero — da Charles Sanders Peirce a Ernst Mach, per non dire di Karl Popper e Willard Van Orman Quine, pur con le più diverse sfumature — ha messo in luce come quei tratti di «fallibilismo» (il termine è di Peirce), ovvero quell'impasto di «conoscenze ed errore» (l'endiade è di Mach), scandiscono tanto la crescita della scienza moderna quanto l'articolarsi della democrazia. La tensione principale non si situa allora tra fede e ragione, tra scienza e religione, tra credenti e non credenti, ma tra chi fa ricerca — non solo circa «la natura delle cose», poniamo in fisica o in biologia, ma persino circa la propria «salute spirituale» — con un atteggiamento che insiste sul carattere fallibile e provvisorio delle proprie conquiste e chi invece non esita a presentarle come dogmi irrinunciabili, ormai immuni a qualsiasi spirito critico.
So bene che, se ci si esprime così, si rischia — al solito — di essere tacciati di «relativismo», il genio maligno dell'Occidente, la cui «dittatura» è stata autorevolmente denunciata dallo stesso Ratzinger poco prima di essere eletto Papa. Ma anche qui, cautela: la posta in gioco non è epistemologica (o lo è solo in parte), ma (soprattutto) politica.
Lo avevano intuito, ai tempi della contrapposizione di Riforma e Controriforma, ancor prima dei «filosofi naturali» (noi oggi diremmo «scienziati ») quei teologi insofferenti alla costellazione dei pregiudizi stabiliti, che avevano rivendicato diritto all'amore e alla tolleranza per le forme di vita (religiosa, ma non solo) più diverse. Figure come — a metà del Seicento — John Milton, che aveva dichiarato che «la verità ha più di una faccia», o come John Goodwin, che aveva sostenuto che reprimere le differenze può rivelarsi la forma più perversa di «lotta contro Dio». Particolare non trascurabile: si trattava di protestanti (anche se, assai spesso, devianti rispetto al
mainstream del protestantesimo: eretici nell'eresia, agli occhi di quei cattolici che avevano dimenticato che eresia vuol dire solamente scelta e che a sua volta ragionare non è che un sinonimo di scegliere). Karl Popper, in un bellissimo intervento del lontano 1958, riconosceva quanto debbano le attuali società aperte e democratiche a questo tipo di protestantesimo. Ma non stiamo cercando qui delle più o meno fondate «radici»! Il gusto per la disputa, la pregnanza dell'argomentazione, il valore della competenza tecnica, il considerare una differenza di opinioni o di stile di vita non un disastro ma un'occasione sono elementi che possiamo ritrovare nelle più svariate civiltà, dalla grande cultura sumerica e accadica della Mesopotamia alla Grecia dei Sofisti e di Socrate, dall'India capace di logiche (al plurale) di estrema raffinatezza al mondo «arabo- islamico» così attento, prima dell'epoca della sua chiusura che coincide con la sua decadenza, alla valorizzazione degli esperimenti intellettuali e morali più disparati… Siamo disposti a sacrificare tutto questo per la «verità dell'Uno» di cui la Chiesa Cattolica Romana pretende di avere il monopolio? Michele Martelli ci ripropone un interrogativo che in passato è più volte emerso nelle tormentate vicende dell'Occidente. Il «ritorno di Dio nella politica» vuol dire proprio questo. Di mio, non sono così drastico come alcuni che ritengono di poter liquidare la stessa esperienza del cattolicesimo come antiscientifica e antidemocratica. Il fatto è che non penso che le varie tradizioni religiose — e in particolare le diverse denominations cristiane, e dunque la stessa confessione cattolica — costituiscano delle «essenze» date una volta per tutte come idee immutabili dell'iperuranio di Platone. Piuttosto, mi paiono simili a organismi viventi, in continuo mutamento, soggette quindi sia alla pressione dell'ambiente sia alle decisioni degli individui che in tali tradizioni si riconoscono. Così, sono disposto a riconoscere che persino una Chiesa «non democratica, ma sacramentale » possa evolvere, dando prova nella pratica di quel relativismo di cui in teoria si vergogna. Dopotutto, il «relativismo» è il contrario dell'«assolutismo » — e tutto possono essere i dittatori, tranne che dei relativisti! Pensiero debole — come ci ripetono teocon, teodem e atei devoti, così nostalgici della «forza del fondamento»? Niente affatto: il relativismo non è una dottrina, ma una scelta personale e politica per un tipo di struttura in cui ogni idea o forma di vita abbia il diritto a una difesa pubblica — in questo sta tutto il suo coraggio!
Michele Martelli non risparmia i suoi strali polemici a pretese teoriche e morali avanzate in nome delle più diverse religioni, pur concentrandosi soprattutto su quelle che ci vengono dal cattolicesimo romano. Non possiamo che augurarci che coloro che si sentono colpiti dalla sua vis polemica sappiano rispondergli con altrettanta decisione sul piano dell'argomentazione.
Di nuovo, questo tipo di conflitto è un'occasione di crescere per tutti «i litiganti».
Una cosa, però, dev'essere chiara. Mai mai mai saremo disposti a cedere — in cambio delle nebbiose consolazioni di questa o quella religione — il libero cielo dell'Illuminismo, quello della tolleranza comprensiva e simpatetica di John Toland, o dell'appassionata mitezza di Voltaire, o dello «scetticismo spensierato» di David Hume, o dell'elogio di Immanuel Kant dell'autogoverno di cui è capace la persona «uscita dallo stato di minorità» in cui i dogmatici di ogni risma vorrebbero ricacciarla. A scanso di equivoci: questi non sono vincoli che ci legano al passato, sono premesse che ci indirizzano al futuro.
Corriere della Sera 6.9.08
Resistenza. Un saggio di Massimo Storchi
Le vendette e l'impunità nel dopoguerra reggiano
di Antonio Carioti
Il titolo non lascia dubbi: Il sangue dei vincitori, saggio di Massimo Storchi sulla Resistenza a Reggio Emilia, vuole mostrare l'altra faccia della medaglia rispetto ad alcune opere di Giampaolo Pansa. L'autore non nega certo la realtà delle vendette partigiane seguite alla Liberazione, con l'uccisione di oltre quattrocento persone nel Reggiano tra aprile e maggio del 1945, ma sostiene che si trattò di una vampata insurrezionale, di una giustizia sommaria e selvaggia tesa a chiudere i conti aperti durante la dittatura e la guerra. Un'azione cui non corrispondeva, a suo parere, un disegno rivoluzionario del Pci. A riprova di questa tesi, l'autore nota come la violenza cali vistosamente subito dopo gli eccidi insurrezionali, con una trentina di omicidi (non tutti di matrice partigiana) da giugno a dicembre 1945 e dodici nel corso del 1946.
La parte più ampia del libro è però dedicata a illustrare le premesse delle vendette partigiane, cioè le atrocità compiute in provincia di Reggio da personaggi e gruppi del fascismo di Salò. Solo una parte dei responsabili pagò, mentre l'amnistia e alcune discusse sentenze passarono un colpo di spugna su gravi crimini. Venne sparso il sangue di molti vinti, non di rado innocenti, ma parecchi altri, ben più colpevoli, rimasero impuniti. Un fattore che va considerato nel valutare il dopoguerra emiliano.
MASSIMO STORCHI, Il sangue dei vincitori ALIBERTI PP. 286, e 16
Corriere della Sera 6.9.08
Analfabetismo. Il linguista Tullio De Mauro: «Ma la colpa questa volta non è della scuola»
di Giulio Benedetti
L'accusa: È una sconfitta della società che non è in grado di occuparsi, come avviene in tutti i Paesi del mondo, dell'educazione degli adulti
ROMA - E' difficile sorprendere, in materia di analfabetismo, originario o di ritorno, un linguista come Tullio De Mauro, che dell'argomento sa tutto o quasi. C'è riuscita, nel 2005, Statistic Canada, una delle più importanti centrali di indagini demografiche del pianeta. Il prof, nel leggere i risultati, fece un salto sulla sedia. Il motivo? Secondo la ricerca sulle condizioni di alfabetizzazione in età lavorativa, da 16 a 65 anni, noi italiani eravamo più o meno allo stesso livello di alcuni paesi africani. Sono passati tre anni. E in materia di lotta all'analfabetismo la strada è ancora tutta in salita. Soprattutto in Africa, ma anche nel nostro Paese.
I dati di Statistic Canada 2005: solo il 29% degli italiani aveva dimostrato una capacità — stiamo parlando di livelli minimi — di controllo della lettura e della scrittura o capacità di calcolo sufficienti per affrontare la vita quotidiana.
«Problemi simili esistono in tutti i paesi sviluppati — spiega De Mauro — ma in percentuali modeste. Difficoltà di quelle proporzioni sono emerse solo per l'Italia e la Sierra Leone. Dall'indagine è risultato che il 5% della popolazione adulta era preda di un analfabetismo completo. C'era poi un 33% che invece riusciva a decifrare più o meno bene le risposte del primo questionario ma non arrivava al secondo. Un altro 33% si fermava al secondo, insomma non raggiungeva il livello del terzo questionario al di sotto del quale ci sono l'analfabetismo oppure un enorme difficoltà a comprendere ciò che si legge in una tabella, su un avviso pubblico, in un giornale».
L'Italia come l'ex colonia portoghese dell'Africa occidentale. Partiamo da questo dato che non dovrebbe consentire sonni tranquilli a quanti hanno responsabilità di governo per capire cosa può essere accaduto, professore. Verrebbe da dire: la scuola non funziona. «Se la scuola italiana non funzionasse avremmo ancora oggi lo stesso analfabetismo primario degli anni Cinquanta. Arrivava a sfiorare il 40% della popolazione ma poi, grazie all'istruzione generalizzata, si è progressivamente contratto fino a ridursi nel 2001 a meno di due punti percentuali, come risulta dall'ultimo dei censimenti che l'Istat conduce con cadenza decennale.
Non dimentichiamo che la scuola elementare italiana, secondo gli studi comparativi Ocse, si colloca nel mondo tra l'ottavo e il quinto posto. Diversa la situazione delle superiori. In Italia, a differenza degli altri stati europei che hanno lavorato a fondo per riorganizzare i corsi, non è passata una sola riforma. Siamo ancora al 1925».
«Qualcosa — continua il professore — la povera nostra elementare comunque ha fatto, anche se ricorrono titoli di saggi sulla disfatta della scuola. Il fatto è che era e resta l'unica a combattere sul fronte dell'analfabetismo in un panorama desolante, dove mancano le biblioteche, i dati sulla lettura sono catastrofici e manca un sistema di educazione per gli adulti».
E qui dobbiamo fare i conti con la regola dei cinque anni, ben nota a quanti, cominciando dall'Unla, si battono contro l'analfabetismo. «Accade dappertutto — dice ancora De Mauro —. Se in età adulta non esercitiamo le competenze acquisite a scuola regrediamo di almeno 5 anni. Il nostro analfabetismo è una sconfitta della società, non della scuola. Se proprio dobbiamo scoprire l'assassino, questo è la mancata educazione degli adulti».
«Negli altri paesi europei e negli Usa — spiega il linguista — ogni anno tra il 60 e l'80 per cento della popolazione frequenta un corso di uno o tre mesi per aggiornarsi professionalmente o culturalmente: dall'astronomia alla lingua straniera. Un sostituto fai da te, in Italia, potrebbe essere un centro di lettura. Noi abbiamo illustri biblioteche di conservazione ma pochissime biblioteche di quartiere. Nei nostri 8000 comuni ne esistono solo duemila concentrate a Roma e Milano. A Roma, per una popolazione di circa tre milioni di abitanti, ce ne sono 20».
Come avvicinare i cittadini al piacere della lettura e dell'aggiornamento? «Il linguista russo Roman Jakobson diceva che il gusto del gorgonzola non può essere spiegato con le parole del vocabolario, va mangiato e basta. Bisogna cominciare a fare qualcosa. Qualche buon esempio non manca. Ricordo un'iniziativa organizzata dal comune di Scandicci in tema di formazione permanente degli adulti alla quale ha partecipato anche Roberto Benigni. Servono tanti buoni centri culturali permanenti dove sia possibile imparare l'informatica o la topografia, l'inglese o la statistica. L'importante è che non ci sia scritto: scuola per analfabeti».
Repubblica 6.9.08
Scuola, la rivolta contro il maestro unico
Assemblee e petizioni, precari in piazza il 27 settembre: ci rubano il futuro
Sindacati e genitori pronti alla mobilitazione. I Cobas: sciopero il 17 ottobre. La Sicilia: diremo no ai tagli
di Mario Reggio
ROMA - Assemblee nelle scuole, volantinaggi, raccolte di firme. Insegnanti e genitori si mobilitano contro il ritorno del maestro unico alle elementari ed il taglio di 87 mila cattedre nei prossimi tre anni. I Cobas stanno preparando un fitto calendario d´iniziative: il 27 settembre a Roma convegno nazionale dei precari, il 17 ottobre sciopero nazionale e manifestazione nella Capitale. E davanti alle scuole, il giorno d´inizio delle lezioni, mobilitazione "frozen", in italiano congelamento: gli insegnanti si sdraieranno in strada per simulare la morte della scuola pubblica. Anche la Cgil sta affilando le armi: ieri, assieme a Cisl e Uil, a Venezia ha affittato cinque vaporetti che sono sfilati davanti alla Mostra del Cinema per protestare contro i tagli nella scuola e la politica del ministro Brunetta, vessillifero della crociata governativa contro i fannulloni nel pubblico impiego. Domani sempre a Venezia, in occasione della Regata, storica verranno stesi lungo il Canal Grande quattro striscioni dei confederali sui temi della scuola e dell´università. Per il ministro Mariastella Gelmini non sarà un autunno tranquillo. L´idea di tornare al maestro unico alle elementari, rassicurando che il tempo pieno non verrà toccato, anzi potenziato, non convince il mondo della scuola e molti genitori. Padri e madri degli oltre 850 mila bambini che frequentano le elementari statali dalle 8 e mezza di mattina alle quattro e mezzo di pomeriggio. Ma non sono solo le organizzazioni sindacali a protestare. Il segretario regionale del Movimento per l´Autonomia Lino Leanza, il partito del presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo, ha annunciato: «Ci opporremo ai tagli previsti dal ministero della Pubblica Istruzione. Saremo al fianco di docenti, studenti e sindacati per le grandi mobilitazioni già previste alla ripresa dell´anno scolastico e per tutto l´autunno. Dopo le sue poco felici dichiarazioni sulla qualità dell´istruzione in Sicilia - conclude Leanza - adesso la Gelmini conferma i timori paventati, tagliando 2.500 insegnanti e 160 non docenti, e di questo passo la Sicilia perderà nei prossimi tra anni 15 docenti».
Insorgono anche i sindaci dei piccoli Comuni: «I sindaci sono giustamente preoccupati - si legge in un comunicato della Lega autonomie - dal progetto di accorpamento per molte scuole elementari nei territori collinari e montani, con gravi disagi per gli studenti che già a sei anni si troveranno nella condizione di pendolari. E i costi ricadranno sulle famiglie e le casse dei Comuni che dovranno organizzare i servizi di scuola bus».
Ma serve davvero tornare al maestro unico? «È una vera patacca ad uso e consumo dell´opinione pubblica, una pura operazione di propaganda - commenta Benedetto Vertecchi, ordinario di Pedagogia Sperimentale a Roma Tre - quando tenteranno di farlo si accorgeranno che anziché degli attuali tre, i maestri diventeranno cinque». Ecco la spiegazione: «Il maestro unico dovrebbe essere competente ed in grado di insegnare la lingua italiana, le norme sul traffico, la salute, la matematica, le scienze, la geografia - afferma Vertecchi - e chi lo dice sarebbe un ciarlatano. Allora dovranno trovare altri maestri che siano in grado di insegnare una lingua straniera, la musica, la ginnastica e coprire l´ora di religione. In tutti i Paesi moderni esiste un sistema di presenze multiple di insegnanti, perché a differenza di 30 o 40 anni fa la società è mutata e le conoscenze si sono moltiplicate. Leggere, scrivere e far di conto non basta più».
Repubblica 5.9.08
Dopo le polemiche sulla morte cerebrale siamo andati tra i medici anestesisti. Ecco i loro racconti sulla fine della vita
L’ultimo minuto. Quando la vita finisce
di Maurizio Crosetti
Mentre la morte cerebrale continua a far discutere, i medici anestesisti raccontano il momento delicato del passaggio dall´esistenza alla morte Come avviene e, soprattutto, come spiegarlo alle famiglie che spesso non sono preparate al distacco
"Il vero problema è l´ignoranza, è non sapere di cosa stiamo parlando", spiega il primario
"In tutti questi anni non ho trovato un solo individuo che non abbia capito"
TORINO. Forse la morte abita dentro questo schermo di computer che il professore mostra con delicatezza, voltandolo un po´: è un arcipelago di isole blu notte, appena cerchiate di un pallido azzurro. «L´azzurro è l´ossigeno, vede, ormai è solo all´esterno del cervello, tutto il resto non esiste più». Da quell´arcipelago non si torna: è la morte cerebrale vista da una "spect", vale a dire una scintigrafia (liquido di contrasto, immagine, verdetto). Il professor Pier Paolo Donadio, primario di anestesia e rianimazione all´ospedale Molinette di Torino, non ha dubbi: «Io non sono un filosofo e neppure un teologo, pur essendo un credente. Non so cos´è la morte, ma so quando è avvenuta. E so cosa dice la legge, per la quale la morte cerebrale è "cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell´encefalo". Una condizione dalla quale non si riemerge, mai».
Un cervello che muore, un corpo che ancora pulsa ma solo perché lo fanno pulsare le macchine, il respiratore, i farmaci. I parenti che aspettano la risposta tremenda, un medico che è testimone infallibile, a presidio di quell´ultimo confine come una sentinella che ha combattuto, più spesso ha vinto («La rianimazione è un luogo di vita, qui si salvano sette, otto persone su dieci») e qualche volta ha perso. Ma dove abita la morte, professore? «Nel cervello. Il quale si gonfia, per un trauma o una malattia, e la pressione non lascia più entrare sangue e ossigeno. Dopo venti minuti circa, le cellule muoiono e marciscono. L´encefalo si disfa, diventa poltiglia e siamo di fronte a un cadavere che respira artificialmente, però un cadavere senza dubbio».
Gli ultimi istanti di una vita sono quasi sempre preceduti da quella che tecnicamente si chiama "tempesta neurovegetativa": è il momento in cui, in un certo senso, il cervello si rifiuta di morire anche se è già quasi morto. È il punto di non ritorno che il medico rianimatore segue e accompagna, avendo prima tentato tutto il possibile per evitarlo. «È l´ultima scarica di adrenalina, manifestata da un picco di segni: alterazione del ritmo cardiaco, ipertensione, una sorta di estrema codata del pesce ormai quasi senza ossigeno». Da lì in avanti si è morti anche se non lo è il cuore, non ancora.
Nell´ufficio del professor Donadio c´è una macchinetta per l´espresso. «Porto qui i parenti, preparo il caffè e accendo il computer». Ecco l´arcipelago della morte blu. «Parlo con loro, spiego con le immagini e mi rendo conto di quanto sia difficile accettare non dico la fine, ma la fine di un corpo che è ancora caldo, che sembra solo dormire, che fa la pipì. Duemila persone sono in quello stato ogni anno in Italia, 200 mila nel mondo e mai nessuno si è svegliato, perché è impossibile».
Cosa succede quando il medico deve scostarsi e far passare la fine? Come la certifica? Come ne prende atto, senza tema di smentita? «Ogni malattia cerebrale, così come ogni malattia, ha una storia clinica. Io la conosco e parto da lì. Poi verifico l´assenza di determinati riflessi. Illumino l´occhio, e la pupilla non si restringe. Tocco la laringe, e niente tosse. Verso dell´acqua gelata nel timpano, e l´occhio resta immobile. Oltre, naturalmente, all´assenza di respiro spontaneo. L´osservazione di questi dati dura sei ore e viene ripetuta per tre volte. Si effettuano gli elettroencefalogrammi e i riflessi del tronco, lo fanno il rianimatore, il neurologo e il medico legale. Se è il caso si procede alla scintigrafia, ma certamente il percorso è segnato. Una cosa diversissima dal coma, dove il cervello non funziona ma è ancora vivo. Qui, lo ripeto, si tratta di cadaveri».
Torniamo per un momento davanti alla macchinetta del caffè. La luce del giorno entra filtrata, qui al terzo piano, nello studio del primario. Un pacchetto di Gauloises sulla scrivania, le foto della moglie e dei tre figli alle pareti, un crocifisso, un´icona. Sulle sedie, i parenti di quel cadavere che ancora respira. Capiranno? Perché in quei momenti si parla anche di donazione d´organi. «In tutti questi anni non ho trovato un solo individuo che non abbia capito, poi elaborare il lutto è un´altra faccenda. Mi chiedono se il loro caro è morto davvero, se è stato fatto il possibile e se c´è trasparenza nell´assegnazione degli organi, in caso di eventuale donazione. Le tre risposte sono altrettanti sì. Al massimo, il parente dice: aspettiamo il miracolo. E io pacatamente rispondo, da credente tra l´altro, che il miracolo non contempla la resurrezione».
In quella terra di nessuno che è la vita sospesa, in realtà una vita già morta che però mantiene alcuni preziosissimi organi, si inserisce il gigantesco tema dei trapianti. Che in Italia nel 2007 sono stati 3.020, per un totale di 1.084 donatori. Il dottor Riccardo Bosco, anestesista, è il responsabile del coordinamento prelievi della regione Piemonte. «Abbiamo una rete di coordinatori locali, specialisti che si occupano di donazioni e dei rapporti con le famiglie dei defunti. Prima di tutto, però, conta la formazione: e noi la facciamo per il nostro personale, compresi i centralinisti e gli addetti alle pulizie». Le ultime polemiche sulla morte cerebrale vi complicheranno il lavoro? «È presto per dirlo. Di sicuro dovremo informare sempre meglio, usando anche quel grande strumento che è Internet». Navigando nel sito "www. donalavita. net" è possibile saperne di più.
«Lo confermo, le persone che puliscono le nostre sale operatorie sanno perfettamente cos´è la morte cerebrale». Maurizio Berardino, camice celeste (è appena salito dal reparto) è il primario di rianimazione della neurochirurgia delle Molinette. Anche lui, ogni giorno, sentinella sul confine della morte. «La quale, non ho dubbi, abita là dove non si può tornare indietro. Il cuore è un muscolo, il cervello è la sede della nostra identità biologica. La morte cerebrale non ci coglie mai di sorpresa, è un evento atteso che si sviluppa con passaggi segnati e prevedibili, non è un arresto cardiaco. Ma questi reparti non sono l´anticamera dell´obitorio, qui si salvano migliaia di persone e si lotta per garantire la qualità della vita migliore possibile a chi sarà dimesso. Il vero problema è l´ignoranza, è non sapere di cosa stiamo parlando. In fondo, la medicina è fatta di cose semplici». Ma la morte, dottore, la morte del cervello si vede arrivare? «È quell´ultima scarica di adrenalina, è quella tempesta. Il problema diventa raccontarlo alle famiglie, dando loro il tempo di abituarsi all´idea. Spesso bastano quarantotto ore, altre volte non sarà sufficiente un´intera vita».
Macchine che soffiano come il respiro, monitor che pulsano con gentilezza. Ma poi cosa succede, professor Donadio? Come si varca la soglia ultima, un minuto dopo le sei ore di osservazione? «In quel momento, il medico è di fronte a un preparato biologico dagli occhi in giù. Faccio sempre un esempio: quando muore una nonna in corsia, mica si tiene la flebo nella vena, dopo. Per la morte cerebrale è lo stesso: si staccano i tubi». A quel punto, l´ultimo secondo di vita del cervello è già trascorso, non quello del cuore. «Io spengo il monitor. Perché mi sembra un´inutile agonia anche visiva, quell´onda elettrica sul monitor che perde il passo». Siamo alla fine, adesso sì. «Il cuore, anche senza il respiro continua a battere di norma per cinque o sei minuti, che nel caso dei giovani possono diventare venti. Ma quella, da molte ore non era più una persona viva». Perché poi l´ultimo passo è sempre il penultimo. Restano ben vivi coloro che soffrono la perdita. Resta il dovere e il bisogno delle parole per dirlo, per rispondere e chiarire, per confortare. «Però le persone capiscono. Io gli voglio bene, ma bene sul serio, e loro lo sanno».
noi medici sappiamo che quando il cervello non risponde più agli stimoli non c’è più nulla da fare
Repubblica 5.9.08
Un medico e gli ultimi istanti di un paziente
Il nostro dolore tra quei corpi spenti
di Carlo Alberto Defanti
Il camice bianco non è una corazza che mette al riparo i medici dalla sofferenza. Assistere agli ultimi momenti di vita di un paziente ti commuove, ti tocca dentro. Profondamente. Quando ti rendi conto che la fine è vicina, che il paziente sta attraversando quella soglia dalla quale non si torna, si prova dolore. E, insieme, ai parenti, si accompagna il malato agli ultimi istanti della sua vita. Ma c´è una morte che la gente fa fatica ad accettare. Ed è la "morte cerebrale". Sì perché questa morte è qualcosa di invisibile, che non tocchi con mano. Nella nostra testa, un morto è un cadavere immobile, freddo e privo di vita. Ma la "morte cerebrale" è paradossale. Sì, perché quel corpo è caldo e respira grazie alle macchine. Così la gente pensa e spera che da un momento all´altro quella persona possa risvegliarsi e tornare a vivere. Ma noi medici sappiamo che quando il cervello non risponde più agli stimoli e si spengono i riflessi del tronco cerebrale, non c´è più nulla da fare.
La scienza è una cosa e quel che crede la gente un´altra. Io che sono neurologo, anni fa fui chiamato a consulto dai familiari di una giovane ricoverata in coma, in rianimazione. Loro si aspettavano il salvatore, l´uomo dei miracoli. Ma quando, con delicatezza, spiegai che non c´era più nulla da fare, confermando la diagnosi dei miei colleghi, se la presero con me, diventarono aggressivi. Certo, è difficile sopportare l´idea che una persona cara, magari tuo figlio o tua madre, con il corpo ancora caldo, apparentemente solo in coma, sia di fatto morta. Ma la scienza, i medici, hanno gli strumenti per valutare la situazione. Le sei ore di osservazione dopo la "morte cerebrale" che servono a captare anche la più debole traccia di vita, sono una garanzia per tutti.
È arduo il compito dei medici che devono spiegare ai parenti queste cose. I rianimatori che lavorano in prima linea, non solo devono dare il triste annuncio ai parenti, ma spesso devono poter chiedere il consenso anche per il prelievo degli organi. Organi che servono per dare vita ad altre persone. Ma la richiesta, a volte, è vissuta dai parenti come un atto predatorio. Sono nel pieno di una tragedia familiare e non vogliono sentire altro.
Le polemiche e gli scontri cessano invece quando il paziente si avvia verso la morte dopo una malattia cronica, che debilita e segna, giorno dopo giorno, il suo fisico. Quando la medicina era orientata in senso tradizionale, era cioè volta unicamente alla cura della malattia, il medico si sentiva impotente di fronte al malato senza speranze e spesso aveva con lui un rapporto formale e distante. Gli prescriveva i farmaci e basta. Oggi non è più così. Da quando abbiamo adottato le cure palliative e ricorriamo di più alla morfina, che allevia il dolore, noi medici riusciamo a stare a fianco del malato sino alla fine. Io, personalmente sono per dire sempre la verità al paziente. E se un malato, in fase terminale, mi dice: "Dottore, sento che sto per morire", io non gli rispondo "ma non è vero, cosa dice". Mentire è sbagliato e preferisco dire: "Stai sereno, io ti starò sempre vicino, non sarai solo". E allora stare al letto del malato, accarezzargli un mano quando occorre, dare conforto ai suoi parenti diventa un modo per affrontare la morte con più serenità. Perché è qualcosa a cui si va incontro in maniera consapevole. Diverso è il trauma, l´incidente, che, all´improvviso, trascina una persona verso il coma irreversibile, con la "morte cerebrale" che sopraggiunge e con i parenti attorno a lui sconvolti e increduli di fronte alla tragedia. La morte invisibile li ha privati di una persona cara, i medici confermano che non ci sono più speranze ma loro non si vogliono arrendere. È una reazione molto umana questa ma la "morte cerebrale" c´è, esiste, si misura scientificamente e va spiegata con tutta la delicatezza possibile ai parenti. Io personalmente, non sono lontano dalle posizioni di Lucetta Scaraffia, autrice dell´articolo sull´Osservatore romano che ha sollevato la polemica sulla morte cerebrale: è vero che noi medici dovremmo poterci confrontare e aggiornare sul concetto di morte cerebrale, elaborato 40 anni fa. Questo però senza mettere in forse i trapianti.
L´autore, neurologo, ha scritto il libro "Soglie, medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri)
ed è stato il neurologo di Eluana Englaro
Testo raccolto da Laura Asnaghi
l’Unità 3.9.08
40 anni fa
Con il rapporto Harvard nacque la morte cerebrale
Il 5 agosto 1968 la prestigiosa rivista «Journal of the American Medical Association» (Jama) pubblica il documento della Harvard Medical School che riconosce il criterio della morte cerebrale. Coma, perdita irreversibile di qualsiasi funzionalità cerebrale, impossibilità di una respirazione autonoma: sono questi i criteri che quarant’anni fa spostarono il concetto di morte di un individuo dal cuore al cervello. Prima di allora, la morte veniva diagnosticata usando criteri cardiologici.
Il rapporto di Harvard, invece, ha stabilito che la fine della vita è definibile con la morte di tutto il cervello, stabilendo dei criteri ancora oggi attuali. Il documento è considerato dalla maggioranza degli esperti uno «spartiacque» per la medicina, rivestendo un’«importanza storica» per i trapianti d’organo, visto che la morte cerebrale è la condizione essenziale per procedere al prelievo.
Prima dello storico rapporto di Harvard, la vita finiva quando il cuore cessava di battere. Dopo questo documento spartiacque, la fine è decretata con la morte di tutto il cervello, quando cioè si verificano tre condizioni: il coma, la perdita irreversibile di qualsiasi funzionalità cerebrale e l’impossibilità di respirazione autonoma.
Perché «Psiche»?
«Psiche come interiorità del nostro pensiero. Nella canzone omonima, quasi tutta strumentale, ho cercato di immaginare la psiche che illumina la mia scrittura, difatti l’ho paragonata ad una lampada araba. Araba perché mi riferisco all’influenza di grandi pensatori come Averroè ed Avicenna»
l'Unità 6.9.08
Conte: «Sotto le stelle del jazz oggi c’è il gelo»
di Silvia Boschero
MUSICA Con un concerto parigino insieme a band e a un’orchestra Paolo Conte ha lanciato il suo cd «Psiche»: a sorpresa è un album avaro di tonalità jazz ed è invece venato di elettronica. «Mi sono buttato con spensieratezza nei suoni sintetici»
È uno spazio rutilante di personaggi, avventure, romanticismi e luoghi immaginari. È un quadro dalle tinte forti, niente pastelli. Stavolta Paolo Conte ha steso le tempere con mano pesante, ha usato i colori primari, incendiandoli in una tela che porta il nome di Psiche, il suo nuovo disco di inediti in uscita internazionale il 19 settembre. È a Parigi per presentarlo, in una piovosa giornata che anticipa sorprendentemente l’autunno, a un passo dall’Arco di Trionfo e dalla sala Pleyel, che lo attende per l’anteprima dell’album; la prima parte con la band, aperta da Hemingway e il brano più pop del cd Il cerchio, e la seconda, avviata da Psiche e il classico Dancing, accompagnato dall’Orchestre National Ile-de-France diretta da Bruno Fontane. «Fanno sempre le cose in grande qui. Però l’esperimento può essere ripetibile anche altrove, a patto che si trovino spazi adatti», sorride sornione. Intanto sarà in tour in Italia (14-19 ottobre allo Smeraldo di Milano, 18-23 novembre al Sistina di Roma). Psiche è l’ennesimo viaggio immaginifico del nostro Kipling della canzone d’autore. È popolato di un’umanità varia: pellerossa, trasformiste slave del circo, casanova, lampade arabe, donne misteriose inseguite o che fuggono sinuose. E soprattutto c’è musica e arrangiamenti che non ci aspettavamo: poco, pochissimo jazz, e un nuovo esperimento con l’elettronica.
Ci sorprende signor Conte…
«È stata una scoperta tardiva la mia, devo ammetterlo. Mentre tanti lo facevano molto tempo fa, ero scettico. Ora invece anche nella gomma ho trovato qualcosa di poetico e mi sono buttato con spensieratezza nei suoni sintetici, neutri, artificiali».
Lei mette da parte il jazz in un momento in cui in Italia questo genere vive una grande rinascita. Lei lo ascolta?
«No, anche perché mi sto interrogando se questo di cui parliamo sia jazz o meno. Il jazz che amo non è quello che sento oggi. Sicuramente sono migliorate le condizioni organizzative (ai miei tempi si cercava disperatamente una cantina per suonare davanti a quattro gatti), sicuramente ci sono degli ottimi strumentisti, molti dei quali vengono dal Conservatorio (ai miei tempi invece eravamo tutti dilettanti), così come si sono sviluppati questi festival cosiddetti di jazz che poi stanno in piedi grazie a qualcos’altro. Ma… è finito qualcosa, lo spirito con cui il jazz è partito. È come se si fosse voluto combatterlo, combattere il suo romanticismo fino a farlo diventare freddo, gelato e con un vizio. Quello di voler affermare continuamente se stesso».
Venerdì esce il cd «Conte plays jazz» che ripesca le sue scorribande nel jazz da ragazzo assieme anche a Bruno Lauzi. Che jazz facevate?
«Di che disco parla? Ah, non ne ero al corrente! Queste case discografiche hanno sempre qualcosa da tirar fuori al momento giusto! Comunque non è che facessimo jazz. Lui in una session registrò degli standard e mi chiamò a suonare il vibrafono. Era molto tempo fa»
Perché «Psiche»?
«Psiche come interiorità del nostro pensiero. Nella canzone omonima, quasi tutta strumentale, ho cercato di immaginare la psiche che illumina la mia scrittura, difatti l’ho paragonata ad una lampada araba. Araba perché mi riferisco all’influenza di grandi pensatori come Averroè ed Avicenna».
C’è una regia, un canovaccio dietro alle storie e ai personaggi?
«No, sono un compositore vecchia maniera, non studio nulla a tavolino, non faccio strategie. Poi però, stranamente, i personaggi che disegno finiscono per imparentarsi senza che me ne sia accorto. Il fatto è che tutte le mie canzoni sono una sorta di affreschi pittorici, sono immagini…»
Come sempre nei suoi dischi, non c’è aderenza esplicita con l’oggi, il presente. Del futuro invece non parla mai?
«Credo che noi artisti siamo già proiettati per nostra natura nel futuro. Ma non credo sia necessariamente una qualità. Anzi, talvolta può essere sbagliato arrivare un attimo prima».
In Italia ai cantautori (a patto che possa chiamarli così) non si perdona mai la «non-appartenenza» politica. A lei sì. Come lo spiega?
«Ce ne ho messo a convincerli… Alla fine hanno capito che ero in buona fede, che ciò che mi interessa è il rispetto per l’arte. L’arte non va accesa con altre fiamme, perché l’arte stessa in modo invisibile già comunica i suoi significati».
Nell’album ci sono canzoni d’amore spassionato (come l’intensissima «L’amore che», scelta per la scaletta del concerto sinfonico) o l’enigmatica e altisonante «Leggenda e popolo». Sembra che lei, signor Conte, abbia perduto qualche inibizione…
«È vero, stavolta mi sono lasciato andare. Mi son detto: perché contenermi sempre? Ed ecco ad esempio Leggenda e popolo, un pezzo sulla donna, o sulla madonna, o sulla patria, non so, ma sicuramente un pezzo esagerato, così come è esagerato il romanticismo di L’amore che…»
C’è anche un brano dal titolo «Danza della vanità». Conte, lei è vanitoso?
«Non lo escludo. Ogni tanto una bella cravatta o un buon profumo me li concedo. Ma è per sedurre me stesso, allo specchio».