domenica 7 settembre 2008

l’Unità 7.9.08
Sulla pelle degli studenti
di Concita De Gregorio


Sono un insegnante precario meridionale della scuola statale della provincia di Pordenone apprezzato dai miei alunni e dai loro genitori che ogni anno si battono per la mia riconferma. Dall'anno prossimo sicuramente a causa della riforma del maestro unico non lavorerò più.
Sergio Catalano

Comincia così una lunga lettera che racconta come dal tempo del «maestro unico» i saperi si siano allargati e specializzati, le classi cresciute di numero, la presenza di bambini stranieri aumentata, le risorse per il sostegno ai disabili diminuite ma come intatto resti invece il bisogno di chi ha sei anni o ne ha dieci di essere «seguito dalla presenza costante e attenta di uno sguardo adulto». Inoltre, dice il maestro Sergio, «i bambini di oggi non sono più quelli di vent’anni fa». Non lo sono più, non c’è dubbio, e a nulla servirà imporre loro di alzarsi in piedi quando entra l’insegnante, di mettersi il grembiule col fiocco, di imparare il Padre Nostro per obbligo come propone l’assessore veneto, di andare tutti il 4 novembre alla parata come suggerisce La Russa. È il mondo fuori che è cambiato, il mondo che i bambini delle elementari si portano in aula sugli schermi dei videofonini forniti da genitori ansiosi e assenti, di solito ansiosi in quanto assenti, e che gli insegnanti fino all’altro giorno non potevano sequestrare all’ingresso in classe perché sarebbe stato, appunto, un attentato alla proprietà privata. Intendiamoci. Cambiare la scuola ad ogni cambio di ministro è un’antica tradizione che ha prodotto guasti in ogni epoca e sotto ogni bandiera. L’assemblearismo e le «conquiste di libertà» non sempre hanno garantito progresso.
La decisione di non esporre i quadri coi risultati degli esami «per la tutela della privacy» è semplicemente grottesca, dice per esempio in una lettera il professor Mario Mirri da Pisa. Ha ragione. I miei figli hanno fatto le elementari andando uno in prima a cinque anni con la sperimentazione Berlinguer, uno a sette perché è nato a febbraio e la Moratti stabiliva al 30 gennaio il limite di ingresso, uno col tempo pieno, uno coi moduli, uno con la settimana corta l’altro con la giornata breve. Posso dire con certezza che cambia solo il grado di nevrosi dell’organizzazione domestica. Di nevrosi e di bisogno: una donna su cinque, ci dicono le cifre di ieri, quando fa un figlio smette di lavorare. A parte le implicazioni culturali e sociali (enormi) il danno è economico, vorrei dire a Tremonti: il lavoro femminile, per usare il linguaggio berlusconiano, «muove l’economia». Dal punto di vista della didattica però - dal punto di vista dei bambini - quello che conta non sono i voti né i grembiuli. Sono gli insegnanti, le persone. Va bene il grembiule, ha il vantaggio di non scempiare una maglietta al giorno col pennarello indelebile. Vanno bene i voti, i giudizi, il debito o il credito, l’esame a settembre: è lo stesso. Va bene persino farli alzare quando entra il maestro, se la palestra a scuola non c’è almeno si sgranchiscono le gambe. Dev’essere chiaro questo, però: il taglio di 87 mila insegnanti non ha nessuna motivazione culturale. È il taglio di 87 mila stipendi, tutto qui. È un risparmio giocato sull’unica cosa che in Italia funziona ancora meglio che nel resto del mondo: la competenza la passione e il talento delle persone che lavorano nella scuola elementare. Un governo che fa economia sui maestri è irresponsabile. Fa quadrare oggi conti che pagheremo tutti noi domani. L’unica risorsa di cui disponiamo è il futuro. Risparmiare sulla pelle dei bambini è criminale.

l’Unità 7.9.08
Bersani: la Gelmini si deve dimettere
Il Pd: «Lanceremo un’offensiva contro la distruzione della scuola: dobbiamo parlare a tutti gli italiani»
di Andrea Carugati


DALLA FESTA DEL PD di Firenze piovono bordate sul ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Sui tagli alla scuola annunciati dal governo e sul «sabotaggio» delle elementari non c’è traccia di dialogo, ma un’opposizione intransigente, che pensa anche all’ostruzionismo. «Da qui parte un’offensiva, la scuola diventare l’ossessione del nostro Paese, dobbiamo andare all’arrembaggio», annuncia il ministro ombra Maria Pia Garavaglia durante l’iniziativa «Salva la scuola, salva l’università, salva la ricerca», benedetta da Veltroni che nella sua intervista serale ha messo la scuola al primo punto nella campagna d’autunno del Pd.
Tutti contro la Gelmini, dunque. Pierluigi Bersani chiede le sue dimissioni per la nota vicenda del concorso da avvocato sostenuto a Reggio Calabria: «Non può pretendere di fare il ministro dell’Istruzione, non ha credibilità per rivolgersi ai giovani. Da quale pulpito arrivano le prediche sul merito e il valore delle persone, degli studenti, degli insegnanti. Ci vuole coerenza tra parole e fatti». «Predica bene e razzola male», va all’attacco la giovane ministra ombra Pina Picierno che giudica «una follia» il 7 in condotta.
Ma qui a Firenze è chiaro a tutti che, come dice Vincenzo Vita, «l’attacco alla scuola, la privatizzazione del sapere sono il cuore del berlusconismo, e la Germini è solo l’interprete». Di un disegno non banale, avvertono i leader dei sindacati confederali della scuola, a partire da Enrico Panini della Cgil: «L’ipotesi che c’è dietro non è un semplice ritorno agli anni 50: siamo all’inizio di una nuova éra di glaciazione sociale, con la formazione professionale ridotta alle botteghe degli anni 30 dove si imparava un mestiere e i bambini delle elementari sempre più divisi tra italiani e stranieri, tra ricchi e poveri. Stanno riscrivendo la Costituzione materiale». «Quello che non farà più la scuola pubblica, altri soggetti privati sono pronti a farlo sotto l’aureola della sussidiarietà», dice Francesco Scrima della Cisl. «Il ministro Gelmini non è stata in grado di citare neppure un pedagogista favorevole al suo disegno che è un atto di macelleria educativa». Cgil, Cisl e Uil parlano di una «mobilitazione che sarà molto forte», ma per ora non ci sono scioperi in vista. Panini però è ottimista: «Ai tempi della riforma Moratti si cominciò a protestare a fine ottobre, stavolta siamo solo ai primi di settembre e già ci sono decine di iniziative». «Da oggi non ci sono alibi per il Pd», spiega Garavaglia. «La scuola deve diventare la nostra priorità assoluta: dobbiamo parlare a tutti gli italiani, anche a quelli che hanno votato centrodestra. Lanciamo un appello alla mobilitazione contro i tagli alle elementari, che sono il fiore all’occhiello della scuola italiana, siamo all’ottavo posto nel mondo». «Dobbiamo trovare delle parole d’ordine per bucare una comunicazione che ci ha messo in sordina, per due mesi abbiamo sputato sangue in Parlamento ma nessuno se n’è accorto», si infervora la Garavaglia.
C’è anche chi, come Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd in Commissione Cultura alla Camera, arriva a rimpiangere la Moratti: «Almeno la sua riforma è arrivata a piccoli passi, è stata più democratica. Invece adesso vanno avanti con i decreti-legge per costruire una scuola autoritaria: ma anche se avremo pochissimo tempo in parlamento lo grideremo che si torna alla scuola degli anni 60». Angela Cortese, assessore all’Istruzione della provincia di Napoli, racconta: «La ministra voleva venire ad aprire l’anno scolastico a Napoli ma ci ha ripensato perché ha capito che non è aria: con tutta la disoccupazione che c’è pensano di tagliare 4mila posti da insegnanti...». Nadia Masini, sindaco di Forlì, si fa una domanda: «Con questi tagli come faremo a integrare i bambini stranieri che sono sempre più numerosi?». Pessimismo sull’esito dell’iter parlamentare del decreto: «Non so quanto riusciremo a frenarli», dice la stessa Masini. Ma non mancano voci autocritiche. Luciano Modica, ex sottosegretario all’Università nel governo Prodi, ricorda l’esperienza degli anni passati: «Tra il 2004 e il 2006 le nostre proposte avevano trovato grande consenso nel mondo dell’Università. Ma appena siamo andati al governo quel feeling si è perduto». E oggi, con un sondaggio di Consortium che vede la Gelmini prima tra i ministri con il 60% di fiducia, gli esperti del Pd sudano freddo: «Dobbiamo darci una mossa».

l’Unità 7.9.08
Donne e Sharia. La notte dei diritti negati
Matrimoni forzati e lapidazioni. Aumentano i delitti d’onore
In Arabia Saudita un milione e mezzo di schiave
di Umberto De Giovannageli


Le drammatiche cifre della condizione femminile nei rapporti di Amnesty e Human Right Watch
Almeno dodicimila i casi di bambine date in spose a uomini dell’età dei loro padri o nonni

LE CIFRE DELL’INFERNO:
1.500.000 sono le donne, in maggioranza asiatiche, ridotte a una condizione di schiavitù in Arabia Saudita. Costrette a orari di lavoro massacranti, sottopagate, spesso violentate, quando «osano» ribellarsi vengono incarcerate e condannate alla fustigazione.
8 sono i paesi islamici in cui l'adulterio da parte della donna è punibile con la pena di morte mediante lapidazione.
12.000 è un calcolo per difetto del numero delle spose bambine costrette a unirsi a uomini che possono essere loro padri o nonni.
12.500 nel solo kurdistan iracheno, è il numero di donne vittime di «delitti d'onore» tra il 1991 e il 2007. Un fenomeno che investe la maggior parte dei Paesi arabi.
In nome della Sharia sono esposte a matrimoni forzati, carcere o pena di morte in caso di stupro. In nome dell'Islam che si fa Legge negano alla donna il diritto di scegliersi il marito e di divorziare; ribadiscono il diritto maschile alla poligamia e al ripudio; sanciscono la disparità in tema di eredità; rifiutano alle donne il diritto alla custodia dei figli in caso di divorzio. In nome di una visione sessuofobia e asfissiante dell'Islam, spesso subordinano la libertà di movimento della donna e il suo accesso al lavoro salariato all'autorizzazione del marito o del padre. Infine si occupano, invadendola, della vita sessuale delle donne, e in alcuni Stati (8) dove vige la «dittatura della Sharia», i rapporti fuori dal matrimonio sono puniti con la pena di morte mediante lapidazione. È la condizione della donna nel mondo islamico. Disperante. Disperata. Una realtà contro la quale donne coraggiose, in Iraq, Egitto, Giordania, Iran, si sono ribellate rivendicando una via di uscita nel principio della separazione tra religione e diritti civili. Un esercito di schiave - oltre 1 milione e mezzo - in Arabia Saudita. I delitti «d'onore» aumentati del 27% rispetto al 2007; la crescita considerevole, calcolabile in decine di migliaia di casi, dell'utilizzo della Sharia (la legge islamica) per legittimare che una ragazza possa essere chiesta in sposa dal momento della prima mestruazione. Sono dati che l'Unità ha estrapolato da recenti, e dettagliati rapporti delle più importanti organizzazioni umanitarie, da Human Right Watch (HRW) ad Amnesty International.
Nei Paesi in cui vige la legge islamica, le spose bambine sono una realtà diffusa. Una realtà che si vorrebbe oscurare da parte dei regimi teocratici ma che, nonostante la censura imposta agli organi di informazione, prende corpo attraverso coraggiosi e coraggiose blogger. Ebbene, in un conto in difetto, sono almeno dodicimila i casi di donne bambine date in spose a uomini che potevano essere i loro padri o i loro nonni. Violentate e sfruttate. Emblematico, e agghiacciante, è il racconto che Khadija al Salami, una giovane yemenita data in sposa a undici anni, fa nel suo libro «The Tears of Sheba». Khadija narra la «prova» che dovette subire, a 11 anni, per dimostrare la sua verginità: «Ahmed (il marito imposto, di quarant'anni più vecchio, ndr.) mi balzò addosso come un gatto. Facendo scivolare la mano tra le mie gambe, si spinse nella mia vagina con le dita, poi si ritrasse. Il sangue che aveva sulla punta della dita sembrò soddisfarlo, lo strofinò su un fazzoletto bianco che aveva in tasca. Se ne andò lasciandomi urlante sul letto». Spesso costrette a lavorare per quattordici ore di fila, sette giorni su sette, per poi vedersi rifiutato il salario e, se protestano, incarcerate e condannate a sessanta-settanta frustrate prima di essere rispedite nei Paesi di origine: è ciò che avviene in Arabia Saudita: nel suo ultimo rapporto, HRW ha documentato venticinque casi di donne, in maggior parte filippine, chiamate in Arabia Saudita per svolgere lavori domestici, e dentro le mura domestiche vessate, picchiate, in dodici dei venticinque casi documentati, violentate. Dove la Sharia è Legge di Stato, la donna è, sul piano dei diritti, una paria. Se vuole divorziare, la donna deve recarsi in tribunale e dimostrare che il marito non provvede alle sue esigenze materiali, che non è fertile e che è impotente. Una volta sancito il divorzio, la custodia dei bambini viene assegnata automaticamente al padre (per i figli maschi di almeno 7 anni e per le figlie femmine già nel periodo mestruale). Per quanto riguarda le eredità, la Sharia prevede che la moglie riceva solo una piccola parte della proprietà del marito e che le figlie femmine ricevano la metà di quanto spetta ai fratelli maschi. Il ripudio continua ad essere un diritto esclusivo del marito e rappresenta anche la causa principale di divorzio in Marocco, Algeria, Iran, Yemen, Arabia Saudita. Un'altra piaga diffusa e scioccante è quella dei «delitti d'onore». Per dar conto della dimensione di questo fenomeno, basta un dato che riguarda il solo Kurdistan iracheno: dal 1991 al 2007, 12.500 donne sono state assassinate per motivi di «onore» o si sono suicidate nelle tre province curde, 435 nei primi sei mesi del 2008. La maggior parte di quei delitti è rimasta impunita. Storie di «ordinaria criminalità» nei confronti di donne nelle società islamiche: storie di atrocità rimaste impunite. Come quello, riportato dal sito on-line della tv saudita al Arabiya, consumato nei giorni scorsi in Pakistan: «Cinque donne sono state sepolte vive dagli abitanti di un villaggio sperduto nella frazione di Jaafarabad nella provincia di Belugistan» a sud ovest del Paese asiatico. Secondo quanto scrive il sito web dell'emittente araba, che riporta la denuncia del deputato pachistano Sardar Asrarallah «le donne accusate di avere leso all'onorabilità della tribù erano: tre adolescenti tra le 16 e 18 anni che sfidando le tradizioni vigenti avevano espresso il desiderio di scegliere liberamente il compagno della loro vita». Due «signore che avevano osato di difendere le tre ragazze - scrive al Arabiya - sono state sepolte assieme alle altre, mentre erano ancora in vita». Il deputato, portando all'attenzione del Parlamento di Islamabad, ha denunciato che «nessun arresto è stato effettuato dalla polizia locale».

Corriere della Sera 7.9.08
Saint-Tropez. Anarchico tutto Luce
di Andrea Genovese


È un gavroche tredicenne durante la Comune di Parigi. Nato in una modesta famiglia, Maximilien Luce (1858-1941) sarà anarchico e socialista per fedeltà al ricordo infantile. Ispirandosi a un naturalismo zoliano ma nutrito dell'humus impressionista, farà di minatori e umili artigiani (Il calzolaio) i suoi soggetti preferiti. Si vedano i 60 dipinti esposti. Cantiere sul lungofiume,
con enormi gru e ponteggi fra palazzi in costruzione, testimonia la selvaggia urbanizzazione della capitale francese. Sedotto dalla tecnica pointilliste,
Luce è, con Signac e Seurat, uno dei massimi esponenti del Neoimpressionismo, per un raffinato dosaggio del colore e della luce in paesaggi d'un lirismo soffuso e delicato (Spiaggia di Méricourt, Sul lungofiume a Camaret).
MAXIMILIEN LUCE Saint-Tropez, Musée de l'Annonciade, sino al 13 ottobre. Tel. +33/49417841

Corriere Fiorentino 7.9.08
Il cantautore incontra il pubblico a Prato e presenta «Icaro», il suo ultimo libro di racconti
Compagno, dove sei?
Francesco Guccini: «La sinistra gioca a dividersi Aumenta la confusione. È un cupio dissolvi»
di Edoardo Semmola


Impegnato. Francesco Guccini stasera è l'ospite di Prato Nord Festival
Sceriffi La tendenza dei sindaci di imporre divieti assurdi è ormai inarrestabile
Sicurezza Il mondo è cambiato certo, ma ora c'è solo smania politica Nessuno risolve niente

«Che mi chiederanno? Dell'Argentina, del Brasile, di qualche altro posto esotico?» Guccini, l'uomo di montagna. Guccini ‘‘l'orso'' per una volta scende a valle, a Prato. Parla della parola, scritta. Guccini narratore, aedo traduttore delle storie della sua Pavana, al confine tra Toscana ed Emilia.
Guccini l'esotico, che ama il tango e canta ‘‘Gulliver'', che viaggia per mare con Hemingway o sulle Ande con Borges, è l'ospite dell'ultimo appuntamento letterario del Prato Nord Festival, stasera alla Casa del Popolo di Coiano, 21.30, ingresso libero. Nell'incontro presenterà la sua raccolta di racconti, «Icaro». Il tema, a lui caro, è «Viaggio a ritroso tra storia e memoria». «Ho scritto i racconti di ‘‘Icaro'' in momenti diversi della mia vita — spiega — e lì sono rimasti, nel cassetto, per anni. Non pensavo che li avrei mai pubblicati. Poi, col tempo, sono diventati un numero tale che il mio editore ha detto ‘‘via, è l'ora di pubblicarli''. L'idea era raccontare una serie di luoghi, dalle Mauritius al Brasile, che ho visitato e conosco, ma nei quali non hai mai vissuto: e in questo contesto vago inventare personaggi e storie».
Se parliamo di Guccini, storia e memoria, parliamo della montagna pistoiese, da dove proviene la sua famiglia e dove lui ora risiede. Pavana ha spento questo agosto 1009 candeline. E di storie da raccontare ne ha parecchie. Ma «in Icaro c'è poco o niente di pavanese ». Trentacinque anni fa, uno dei suoi album più famosi prese nome ‘‘Radici'': la sua Bologna, come Firenze, lo preoccupano per la nuova ansia-sicurezza. Stanno forse perdendo le ‘‘radici'' di città dell'accoglienza? «Non conosco bene la Firenze di oggi - commenta - conoscevo invece i fiorentini che negli anni Cinquanta sceglievano Pavana come luogo di villeggiatura. Allora la gente era contenta di avere un posto fresco dove si sta bene, non aveva bisogno di partire per le Seichelles o le Maldive». Entrando nel merito: «La tendenza dei sindaci in tutta Italia, di sinistra come di destra, di trasformarsi in ‘‘sceriffi'' e imporre divieti assurdi, è ormai inarrestabile. Leggendo dei nuovi strani divieti vengono in mente le notizie bizzarre della Settimana Enigmistica, tipo ‘‘paesino del midwest statunitense: proibito portare un certo tipo di mutande''. Se iniziamo ad indignarci, saremmo tutti indignati da mattina a sera».
Guccini e la letteratura, altro capitolo. Che Prato Nord Festival apre volentieri in una serata dedicata alla ‘‘parola scritta'': molte sue canzoni traggono ispirazione dalla letteratura: dalla ‘‘Canzone dei dodici mesi'' a ‘‘Signora Bovary'' passando per ‘‘Ophelia''. «Tra cultura popolare e letteratura non c'è mai stato un gran legame — commenta — la cultura popolare, poi, è morta dagli anni Cinquanta. In Italia si leggeva e si legge pochissimo, si parla di medie incredibili come un libro all'anno: sbalordisco quando sento queste cifre». A proposito di perdita della memoria, Guccini ricorda «quando noi eravamo i rom a cui prendere le impronte e all'estero ci lanciavano i pesci in faccia», senza però scendere in facili semplificazioni: «Non è neanche così semplice far finta che il problema sicurezza non esista: il mondo è cambiato molto e se negli anni Sessanta a Bologna insegnavo agli studenti americani che la nostra città non era come le loro, che potevano uscire la sera da soli, anche le ragazze, oggi non lo direi più. Ma è anche vero che questa smania della sicurezza è solo una clava politica, nessuno risolve niente».
Altro tema a lui caro, a 35 anni da ‘‘Piccola storia ignobile'', è quello dell'aborto, che in Italia, anche a sinistra, ma soprattutto in Usa, è tornato materia di campagna elettorale: «Nel paese dalla Bibbia sul comodino e dei teocon, è più comprensibile che continui ad essere terreno di scontro. In Italia di teocon ne esistono pochi, c'è però una destra che cerca di appoggiare la Chiesa su qualsiasi cosa per strappare voti». Però confessa: «Non ho idea di come votare: la sinistra gioca a divedersi fin dal '21 e da allora è andata avanti così. Aumenta la confusione e la disaffezione degli elettori.
È un cupio dissolvi». E buttando un occhio sulla realtà fiorentina, dove si discute di primarie, l'orso delle montagne pistoiesi si domanda: «Alle ultime elezioni non si è potuto scegliere chi votare con la propria testa, ci hanno costretto ad una scelta forzata, non ad una vera riflessione. State facendo la stessa cosa anche a Firenze?».

La Stampa Tuttolibri 6.9.08
Ritorno a Loudun, dove si svolse uno fra i più clamorosi processi di stregoneria di quel secolo
Il diavolo al rogo nel Seicento è un curato libertino
Il romanzo di Huxley che ispirò tra l’altro la commedia di Whiling, il film di Ken Russell, l’opera di Penderecki
di Masolino D'Amico


Nel terzo decennio del Seicento Loudun, cittadina del Poitou a una cinquantina di chilometri di Parigi, fu teatro di uno dei più clamorosi processi di stregoneria di quel secolo, semidimenticato in quello successivo, molto indagato dai positivisti ottocenteschi, infine esplorato in tutte le sue sfaccettature da Aldous Huxley in un libro che ispirò tra l’altro una commedia (Whiting), un film (Russell), un’opera lirica (Penderecki).
Suor Jeanne des Anges, giovane priora di un piccolo convento, monacata perché deforme - era quasi nana - e quindi difficile da maritare, si dichiarò improvvisamente posseduta dei demoni inviatile da Urbain Grandier, curato della cittadina; il quale Grandier era aitante, intelligente, eloquente, e notoriamente libertino, avendo un’amante semiufficiale e almeno un figlio illegittimo, sia pure disconosciuto.
Suor Jeanne conosceva Grandier solo per fama, non avendolo mai visto, ma lo aveva invitato per iscritto a diventare confessore della sua comunità ottenendone un rifiuto. Ora l’uomo popolava i suoi sogni; e le sue ossessioni-frustrazioni, condivise con le diciassette tra suore e novizie che dipendevano da lei, esplosero. Le accuse furono avidamente ascoltate sia dalla Chiesa, che prontamente mandò esorcisti, sia dai nemici locali di Grandier.
Gli esorcismi, pubblici e violenti (per prima cosa a suor Jeanne fu somministrato un enorme clistere di acqua benedetta), ebbero l’effetto di esasperare le manifestazioni di squilibrio delle indemoniate, che si svilupparono in veri e propri spettacoli a richiesta, con bestemmie, contorcimenti acrobatici e mostra di nudità. Tenuti a intervalli regolari per alcuni anni, questi diventarono una grande attrazione turistica della cittadina, attirando migliaia di persone anche di alto rango. Alla fine della lunga kermesse, che da Parigi Richelieu non fece nulla per scoraggiare (voleva dare una lezione agli ugonotti di Loudun, non gli dispiaceva saggiare il terreno in vista del restauro di un qualche tipo di Inquisizione, e nutriva rancore verso Grandier, dal quale una volta aveva subito uno sgarbo), l’imputato, mai ascoltato dai giudici, fu atrocemente torturato e bruciato vivo.
Dal canto suo suor Jeanne continuò a lottare coi demoni, dai quali si dichiarò definitivamente liberata solo dopo molto tempo, dando inizio a una carriera di star della santità, prima viaggiando e poi ricevendo in sede, impartendo consigli che venivano dai suoi protettori celesti, infine scrivendo un paio di compiaciute autobiografie.
Unico neo nel complotto dei cacciatori di diavoli, Grandier si rifiutò fino all’ultimo di firmare una confessione di colpevolezza: i tempi non avevano ancora scoperto, commenta Huxley, quei sistemi di fiaccamento della volontà individuale con cui i moderni totalitarismi ottengono invece, sempre, l’autoaccusa delle loro vittime.
Non è questo l’unico raffronto che l’autore promuove tra l’epoca di Luigi XIII e la sua, e qualcuno gli ha rimproverato un eccesso di mentalità scientifica, per esempio di essere stato troppo severo col gesuita Surin, il mistico che tentò di liberare suor Jeanne e che finì semiindemoniato a sua volta, preda di tremendi mali psicosomatici, internato in manicomio e tentato suicida prima di un lento e doloroso recupero. Dopotutto, si obietta, Surin credeva quello che (quasi) tutti credevano ai tempi suoi. Sì, certo: maHuxley fa osservarecome nella propria incrollabile convinzione il gesuita violasse precisi precetti della Chiesa stessa, che ammoniva a non accettare per oro colato niente di provenienza diabolica. Ansiosi di dimostrare il loro teorema, Surin e compagni invece presero per buone le accuse delle suore possedute (se interrogato nel modo giusto, il diavolo non può mentire), e ignorarono le argomentazioni a discarico (il diavolo in questo caso mentiva).
Noi non diamo più credito alla stregoneria, mail punto è che neanche con gli strumenti di allora il processo contro Grandier avrebbe dovuto essere celebrato.
La lezione che Huxley lucidamente ne trae è, guai al fondamentalismo; guai a chi, ritenendosi in possesso della verità, si considera in diritto di calpestare qualsiasi principio o persona. Ma quando nasce il fondamentalismo (religioso, ma anche politico, economico, ecc.)? Secondo Huxley, quando l’uomoperde il contatto con la natura; quando le parole travalicano il rapporto con le cose e si investono di un’autorità propria e dispotica. L’ammonimento appare ancora più attuale oggi di quando il libro fu scritto, più di mezzo secolo fa.

Repubblica Bologna 7.9.08
Ritalin, inchiesta bis. Caccia a centro medico abusivo


Il pm Persico aveva appena chiuso il fascicolo sul farmaco per ragazzi iperattivi, ma da un sito Internet sarebbero emersi nuovi indizi

La Procura ha aperto una nuova inchiesta sul Ritalin, lo psicofarmaco usato sui ragazzi affetti da deficit di attenzione ed iperattività. A finire sotto accusa è di nuovo Monica Pavan, portavoce dell´associazione Agap (amici di Paolo), nei cui confronti qualche giorno fa il pm Persico aveva chiesto l´archiviazione dall’accusa di esercizio abusivo della professione di psicologa.
Chiuso un fascicolo ne spunta un altro. La Procura ha disposto una nuova inchiesta sul Ritalin, lo psicofarmaco usato sui ragazzi affetti dalla sindrome di Adhd (Attention deficit hyperactivity disorder), ovvero il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività. A finire sotto accusa è ancora Monica Pavan, portavoce dell´associazione Agap (amici di Paolo), nei cui confronti qualche giorno fa il pm Luigi Persico aveva chiesto l´archiviazione dall´accusa di esercizio abusivo della professione di psicologa.
Se allora l´inchiesta, aperta dopo le polemiche sollevate dalle associazioni che si battono per la messa al bando del farmaco, ipotizzava un´attività di propaganda sull´uso del farmaco Ritalin nel corso di incontri avvenuti in alcune scuole elementari bolognesi, stavolta è stata una telefonata pubblicata in rete far scattare le indagini delegate ai carabinieri del Nas. Nella conversazione, registrata e inserita sul sito Internet dell´associazione "Giù le mani dai bambini", tra le più attive nella battaglia contro l´utilizzo degli psicofarmaci sui minori, la portavoce dell´Agap viene contattata da un genitore che finge di chiedere consigli per risolvere i problemi del figlio. Luca Poma, dell´associazione "Giù le mani dai bambini", spiega di essere entrato in possesso del materiale il 1° settembre e di averlo inviato in Procura giorni fa. «Eravamo a conoscenza della registrazione già quest´inverno - dice Poma -, e senza sentirla avevamo consigliato al genitore di rivolgersi ai carabinieri». Fino a ieri però in piazza Trento e Trieste del materiale non c´era traccia e quindi Persico ha acquisito il file audio dal web. Nel corso della telefonata, la Pavan parlerebbe di un centro "operativo" a Bologna dove portare i ragazzi: «Noi siamo quelli che facciamo il lavoro effettivo, li prendiamo in carico noi», dice la donna all´interlocutore attaccando anche l´Ausl. Nella conversazione si parla nuovamente del centro di San Donà di Piave (Venezia), una struttura dove sarebbero più "propensi", rispetto ad altri, nel prescrivere il farmaco. Il sospetto alla base della nuova inchiesta è relativo proprio all´esistenza di un presunto centro diagnostico abusivo dove verrebbero visitati i bambini. Una struttura che se esiste veramente, spetterà al Nas scovare. Nella registrazione, la «sedicente esperta - spiega Poma - si fa chiamare "dottore" dall´interlocutore, discute dell´ordine dei medici e parla di psicofarmaci con grande leggerezza». Infatti, «ne spiega gli effetti sul cervello dissertando di genetica e di diagnosi sui bimbi, di fatto invogliando il suo interlocutore ad adottarli come terapia in quanto "stracollaudati ed utilissimi" ed "usati in passato - sostiene lei - anche da dentisti e pneumologi"». Ma non è tutto. La donna parlerebbe poi anche di «intercettare genitori a Bologna, Mantova, Ferrara» per «portarli a San Donà di Piave». Affermazioni tutte da verificare, che hanno imposto al pm Persico di avviare nuove indagini per lo stesso reato: esercizio abusivo della professione medica. La Procura, che acquisirà la trascrizione della telefonata, dovrà valutare se le indicazioni fornite dalla donna siano semplici suggerimenti o se ci siano elementi penalmente rilevanti. Nella vecchia inchiesta il Nas non aveva trovato traccia di abusi o prescrizioni illecite. Tra le carte del nuovo fascicolo aperto dal pm c´è anche un´interrogazione firmata da un deputato di Forza Italia, Mariella Bocciardo, sostenitrice di un progetto di legge per vietare l´uso di psicofarmaci sui bambini. «Ciò che emerge dalla telefonata - scrive la parlamentare - è inquietante. Una situazione di organizzata ingerenza da parte di soggetti che millantano competenze e titoli che non hanno».
(ale.co.)

Il Sole 24 Ore Domenica 7.9.08
Staminali, miracoli o cure?
Quella che è stata annunciata come la rivoluzione medica del XXI secolo in Italia è ostacolata da preclusioni etiche e false contrapposizioni...
di Umberto Veronesi


La rivoluzione scientifica ed etica della medicina negli ultimi trent'anni è stata scandita da cinque grandi tappe: l'esplosione della diagnostica per immagini, che ci ha permesso di esplorare virtualmente prima tutto il corpo umano, poi ogni suo organo, poi ogni cellula e infine l'attività delle singole molecole; la decodifica del Dna, che ci ha consegnato l'alfabeto della vita, offrendoci per la prima volta la possibilità di capire la sua stessa origine e persino intervenire sulla sua sJUttura più intima; l'affermarsi della trapiantologia, che ha spinto sempre più in là i limiti naturali della chirurgia e la sua capacità di riparare tessuti e aree danneggiate o malate; la definizione dei nuovi diritti del malato, nel passaggio da un modello paternalistico a un modello condiviso nel rapporto medico-paziente.
La quinta è la scoperta delle cellule staminali, che ancora non ha dato i suoi risultati migliori perché pesa su queste cellule l'aspettativa e insieme la paura del mondo sull'uso che la scienza potrebbe fare della loro straordinaria potenzialità.
Sui conflitti e le speranze della ricerca, frenata (e in alcuni Paesi immobilizzata) dai lacci di un'etica della scienza incerta o inesistente, punta i riflettori, con profonde riflessioni e punte di amara ironia, il bel libro di Armando Massarenti Staminalia. Le cellule «etiche» e i nemici della ricerca.
Che cosa rende queste cellule così affascinanti e così temute? Il loro immenso spettro di capacità evolutiva, che fa sì che possano trasformarsi in tessuti di organi diversi. Inrealtà le cellule staminali vanno divise in due grandi famiglie. Quelle di un organismo in formazione, come un embrione, sono multipotenti - e quelle del pre-embrione, o blastocisti, addirittura totipotenti - cioè in grado di trasformarsi in qualsiasi tipo di cellula o tessuto e di proliferare a una velocità impressionante. Quelle di un organismo adulto, invece, hanno un compito diverso: controllano l'integrità del corpo, dedicandosi alla riparazione dei guasti dovuti al logoramento naturale dei tessuti o a una malattia.
Sull'impiego delle staminali adulte, il problema etico parrebbe non porsi. Il primo utilizzo di queste cellule (e tuttora il più diffuso) è stato nella cura del cancro, come terapia di sostegno dopo la chemioterapia e la radioterapia, che, se particolarmente aggressive, possono condurre a una rapida: diminuzione delle cellule del sangue, mettendo il malato in pericolo di vita. Si prelevano allora le staminali dal midollo osseo del paziente o dal sangue periferico prima della terapia oncologica, per poireintrodurle (trapianto autologo) nel midollo, che riprende così a funzionare e a produrre nuove cellule.
Altri utilizzi clinici delle staminali avvengono oggi anche in aree diverse. In cardiologia negli Stati Uniti, in Germania e in Italia (in particolare al Centro Cardiologico Monzino di Milano) si sono già compiuti i primi autotrapianti di staminali per riparare cuori gravemente, compromessi, ma è un ambito nel quale c'è ancora molto da capire.
Altre applicazioni sperimentali sono in corso con cellule staminali della pelle, del cervello e del midollo (per la cura del morbo di Alzheimer e Parkinson, Corea di Huntington, epilessia sclerosi laterale amiotrofica, danni da traumi, paralisi), dei reni, e del pancreas e altri studi ancora indagano le proprietà delle staminali per le ossa, le strutture dell'occhio e dell'orecchio e sui vasi danneggiati dall'ipertensione.
Nessuno nega l'importanza di queste ricerche, che però si sono rivelate tra le più soggette alla produzione di notizie miracolistiche, che possono anche - sottolinea Massarenti - «ingannare crudelmente i pazienti». E ciò in nome di un'etica interamente incentrata sulla salvaguardia dell'embrione (o addirittura della blastocisti), tesa a offuscare il fatto, indubbio, che molti progressi terapeutici verranno anche dalle stamil1ali embrionali, perché è evidente che più la scienza medica risale all'indietro nell'evoluzione, più ha probabilità di essere efficace nel capire e, si spera poi, nel curare.
Nessuno si sogna di utilizzare a scopi di ricerca gli embrioni destinati alla procreazione, ma ovunque nel mondo, a seguito dello sviluppo delle tecniche di procreazione assistita, si rendono disponibili all'indagine scientifica ovuli fecondati umani, definiti pre-embrioni o embrioni sovrannumerari, che sono destinati a non essere impiantati e dunque essere sacrificati.
In Italia si stima siano 30mila gli embrioni conservati nei frigoriferi delle cliniche ginecologiche a meno 80 gradi e la logica vorrebbe che venissero utilizzati a scopi di ricerca invece di essere buttati nel lavandino (perché questo succede nella realtà quotidiana) o essere lasciati morire (quando questa morte o perdita di capacità riproduttiva avvenga, non si sa). Invece questo utilizzo è vietato in Italia dalla legge 40, che comunque non dà indicazioni di nessun tipo circa il loro destino. Ora sono state scoperte anche le cellule staminali pluripotenti indotte, le quali, avendo caratteristiche simili - ma non uguali - alle embrionali, forse potranno portare a importanti scoperte.
Si tratta di possibilità di studio da perseguire a tutto campo. Ci troviamo invece, proprio in uno dei settori di ricerca più strategico e più promettente, in uno stato di confusione, tipico, purtroppo, di questo Paese, che viene fotografato e analizzato con sapienza da Massarenti. Emerge, con una punta di amarezza, come «il secolo delle staminali deve ancora trovare la sua bussola etica» e per trovarla deve cominciare da una informazione corretta, equilibrata e scevra di pregiudizi e magiche promesse. Staminalia è un contributo importante in questa impresa.
Armando Massarenti, «5taminalia. Le cellule "etiche" e i nemici della ricerca», Guanda, Milano, pagg.210, € 14,50,

Il Sole 24 Ore Domenica 7.9.08
E Aby scoprì Bruno. Warburg era rimasto profondamente colpito dalla figura del filosofo condannato al rogo
In un quaderno di appunti inediti arrivò a definirlo un anticipatore di Nietzsche
di Carlo Ossola


Il secondo volume dègli scritti di Aby Warburg - il primo apparve nel 2004 presso lo stesso editore - presenta non solo una vasta antologia dell'ultima parte dell'attività di ricerca e della vita di Warburg, ma offre al lettore un prezioso manipolo di inediti, principali dei quali sono le tre versioni della conferenza su Ghirlandaio tenuta alla Biblioteca Hertziana di Roma nel maggio del 1929 e un quaderno febbrile di appunti su Giordano Bruno, che accompagnerà lo studioso - come ha finemente ricostruito Maurizio Ghelardi nella sua Introduzione - sino alla vigilia della morte, quando i126 ottobre 1929, alle 4 della mattina, annoterà: «Perseo, oppure "Estetica energetica come funzione logica nel problema dell'orientamento in Giordano Bruno": ho finalmente scelto il titolo della mia prolusione». Poche ore dopo sopravvenne la morte.
Ora l'opera di Warburg e la sua importanza sono troppo note per ritornare sull'emblematica conferenza "hertziana" (alla quale SilviaDe Laude ha dedicato importanti studi, in rapporto anche alla presenza romana di Curtius). Merita qui prestare una prima attenzione al quaderno bruniano. Si tratta di 45 fogli di appunti che risalgono al soggiorno in Italia di Warburg e di Gertrud Bing (Rimini, Orvieto, Roma, Napoli, Capua, tra l'autunno del 1928 e la primavera del 1929). Gli appunti indicano subito umi direzione forte di lettura di Giordano Bruno: «Rafforzamento della rivolta attraverso l'afferrare»; ascesa e indiamento attraverso il ricorso al mito orfico di conoscenza e sacrificio: «L'ascesa immaginaria e sacrificio-pratica» (20.V.1929). E negli stessi giorni: «Un giorno: Spaccio delle tenebre grazie alla luce esterna (Mitra) e a quella, interna (G. Bruno)».
La figura del Nolano lo cattura al punto che Warburg si troverà indeciso se collocarlo, a fronte del Don Chisciotte, tra ifondatori dell'imperativo categorico: «Don Chisciotte / Chevalier errant / del concetto di infinità/ "Sfida" / imperativo categorico / / Giordano Bruno /Igino moralizzato / sul fondamento umano / individuale / attraverso / una emulsione dinamica / la riforma della umana/causalltàfigurativa / Sorgere dell'imperativo / categorico» (Roma 2. XII. 1928), o se porlo come un antesignano di un dionisismo non luttuoso: «Ripristino della dinamica / umana (non si tratta della luttuosità) passionale/ Giordano Bruno» (f. 28), sino a figurarlo come un precursore di Nietzsche: «Negli Eroici Furori giunto al punto in cui Atteone da predatore diventa preda della solitudine pensante».
Ora quando si consideri l'importanza che Warburg attribuisce, nel suo sistema, al pensiero di Nietzsche, e proprio nelle stesse settimane "bruniane" in cui preparail resoconto (18 maggio 1929) suL'antico romano nella bottega di Ghirlandaio, che così comincia: «Nietzsche, nellaNascita della tragedia (1886), ci ha insegnato a considerare l'Antico attraverso il simbolo della doppia erma di Dioniso e Apollo»; quando ancora si ricordi che sin dal 1908 il Nietzsche che lo cattura è quello dionisiaco: «Ogni epoca, in base allo sviluppo della sua visione interiore, può comprendere ciò che dei simboli olimpici è in grado di riconoscere e di sopportare. Al nostro tempo, ad esempio, Nietzsche ha insegnato a vedere Dioniso» (voI. I, 504); non sarà allora indebito supporre che Giordano Bruno venga, nel pensiero di Warburg, a colmare l'aporia di un "nietzschianesimo senza Nietzsche" ormai vigente dopo le coloriture wagneriane e i miti ariani sempre più presenti nella coeva propaganda nazionalsocialista (e che lambiscono, problematicamente, anche il quaderno di Warburg: «Spaccio della Bestia I I Venerazione dell'energetica socialmente utile» (1O.VLI929). Dostoevskij, di fronte alle stesse aporie del come «emergere dal caos», aveva scelto l'Idiota -Don Chisciotte, Warburg il furore orfico, e rigeneratore, brunian-nietzschiano.
Giordano Bruno veniva così a compiere (con conseguenze che si proietteranno su tutta la scuola warburghiana, a cominciare da Frances Yates, e sulla recente ricezione italiana, satura di miti bruniani) la parabola iniziata nel primo soggiorno italiano di Warburg e ricordata anche nell'ultimo quaderno: «Botticelli (arazzo) I Poliziano I Urbino I GiordanoBruno» (24,XILI928).
È tempo di interrogarci, come storici, sulla "funzione Giordano Bruno" nell'Italia unita e nella determinazione dei miti che reggeranno il senso del letterario da fine Ottocento a fine Novecento. Indubbiamente la lettura warburghiana, seppure sul versante del «ripristino della dinamica passionale», corrobora quella proposta dal De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana (1870-71), ove il Bruno 1 incarna - accanto a Galileo - il modello della "Nuova scienza" -una scienza politico-filosofica coesa a Machiave1li: «Machiavelli aveva già parlato di uno spirito del mondo immortale e immutabile, fattore della storia secondo le sue leggi costitutive. Q,uello spirito della storia nella speculazione di Bruno è il fabbro del mondo, il suo artefice interno».
«Materia assoluta»: bene si vede come le patrie lettere siano state orientate da questa lettura, sì che esaurite le aure del materialismo storico, la letteratura italiana e la sua critica (dopo Gramsci e Vittorini, Fortini e epigoni) giacciano.
Era possibile altra via? Warburg stesso l'aveva suggerita nelle note a La "Nascita di Venere" e la "Primavera" di Sandro Botticelli (1893), in cui richiama i debiti contratti con l'edizione di G. Carducci, Le Stanze, l'Orfeo e le Rime diM.A. Poliziano (Firenze, Barbera, 1863). Recentemente Giovanna Cordibella (in «Lettere Italiane», n.4, zo07) ha evocato l'importanza di quel debito; ma si dovrebbe andare ben oltre: la formula stessa «rinascita del paganesimo antico» sembra debitrice al Carducci il quale, chiudendo il capitolo dedicato a Firenze nell'ultimo Quattrocento, così si congedava da Savonarola: «E non sentiva che la riforma d'Italia era ilrinascimento pagano, che la riforma puramente religiosa era riservata ad altri popoli più sinceramente cristiani».
Sappiamo che lo splendido saggio carducciano Dello svolgimento della letteratura nazionale (1868-1871), da cui è tratta la citazione, fu soccombente e s'imposegrazie anche alle funzioni di ministro dell'Istruzione più volte esercitate dal suo autore - il coevo profilo del De Sanctis, nel quale la condanna in blocco del Cinquecento è senza appello: «Quello era il tempo che i grandi stati d'Europa prendevano stabile assetto, e fondavano ciascuno la patria. E quello era il tempo che l'Italia non solo non riusciva a fondare la patria, ma perdeva affatto la sua indipendenza, la sua libertà, il suo primato nella storia del mondo. Di questa catastrofe non ci era una coscienza nazionale, anzi ci era una certa soddisfazione» (cap. XVII. Torquato Tasso).
Carducci, più sensibile alla continuità storica di una grande civiltà classica nel nostro Cinquecento, ben diversamente lo giudicava, opponendosi esplicitamente al De Sanctis: «Spettacolo che altri potrà dir vergognoso e che a me apparisce pieno di sacra pietà, cotesto d'un popolo di filosofi di poeti di artisti, che in mezzo ai soldati stranieri d'ogni parte irrompenti séguita accorato e sicuro l'opera sua di civiltà. E il canto de' poeti supera il triste squillo delle trombe straniere, e i torchi di Venezia di Firenze di Roma stridono all'opera d'illuminare il mondo. Cara e santa patria! Ella aprì alle menti un mondo superiore di libertà e di ragione; e di tutto fe' dono all'Europa».
Dei due Warburg, quello giovanile fiorentino-carducciano e quello senile nolano-nietzschiano, oggi - in tempi nei quali accade di dover contemplare di nuovo il "paese guasto" - verrebbe voglia di tener caro il primo, quello della pagana pietas piuttosto che degli schiavi ed eroici furori. Non la politica, ma la poesia. In stagioni (quanto dureranno?) nelle quali la prima è squallida, servirebbe, come insegna Carducci, salvare almeno la seconda, per le future generazioni e per la nostra dignità.
Aby Warburg, «Opere. II: La rinascita del paganesimo antico e altri scritti (1917-1929»), a cura di Maurizio Ghelardi, Torino, Aragno, pagg.1.006, € 65,00.

Il Sole 24 Ore Domenica 7.9.08
A trent'anni dalla legge 180. Cosa resta dell'antipsichiatria
Il movimento attaccò giustamente l'eccesso di precrizione di farmaci e l'arretratezza delle cure. Ma sbagliò ad accanirsi contro il biologismo in nome di pratiche alternative retoriche e inefficaci
Jervis: «I tormenti interiori venivano spostati sul terreno dei sentimenti elevati, spirituali, e la sofferenza dimenticata»
di Gilberto Corbellini e Giovanni Jervis


«La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia» (in uscita per Bollati Boringhieri, pagg.174,€12,00 è un dialogo tra lo psichiatra Giovanni Jervis e Gilberto Corbellini, storico-della medicina e collaboratore del Domenicale. Aspira a fornire, a chi è nato dopo il 1970 e si trova o si troverà investito dal dovere civile di pronunciarsi su programmi di sanità pubblica relativi alla prevenzione e al trattamento delle malattie mentali, un inquadramento il più possibile comprensivo e obiettivo di comesi è arrivati alla situazione attuale. Esso ricostruisce quindi le vicende culturali e le esperienze sanitarie che hanno caratterizzato lagenesi e l'evoluzione del movimento antipsichiatrico, sia in Italia che all'estero. Inoltre, ripercorre criticamente le origini della Legge 180, ne spiega la natura e illustra quali sono state le conseguenze che essa ha prodotto, senza rinunciare e dire cosa si potrebbe fare per migliorare la cura ela prevenzione delle malattie mentali.
Anticipiamo qui uno stralcio del dialogo tra i due autori, nel quale essi riflettono sulle cause, interne ed esterne al mondo della malattia mentale, che determinarono la nascita del movimento antipsichiatrico.


di Gilberto Corbellini
Il movimento antipsichiatrico sembra essere scaturito dal confluire di due correnti: daun lato da una serie di temi culturali esterni alla Psichiatria, e da un altro lato, invece, da temi e problemi interni a questa disciplina. Penso che l'antipsichiatria sia stata, fra altre cose, conseguenza di una crisi reale dellà Psichiatria. Quest'ultima avvertiva il suo ritardo scientifico rispetto ad altre branche della Medicina, e soffriva della mancanza persistente di terapie veramente efficaci contro i disturbi del comportamento, soprattutto se gravi. Di conseguenza il medico psichiatra, povero di scienza, poverissimo di virtù terapeutiche, si trovava a essere identificato con un mandato autoritario, con la sua funzione custodialistica, rappresentata tradizionalmente dalla istituzione manicomiale e dalla sua possibilità di privare una persona qualsiasi, sulla base di una diagnosi clinica, dei diritti civili.
Personalmente, ho sempre trovato sacrosanta l'idea che lo psichiatra avrebbe dovuto occuparsi un po' meno di prescrivere a piene mani farmaci sedativi o di firmare pile di certificati di ricovero o dichiarazioni di infermità mentale, per dedicare invece una parte maggiore del suo tempo all'ascolto di chi si trovava in una situazione di grave sofferenza. Ma non ho mai capito, o meglio non ho mai condiviso, la tesi secondo cui l'inadeguatezza della Psichiatria tradizionale dipendeva direttamente dal fatto che essa aspirava a fornire una spiegazione del comportamento umano in termini biologici, cioè nei termini del funzionamento o malfunzionamento eventuale del cervello.
L'inadeguatezza della Psichiatria dipendeva invece, io credo, da una varietà di fattori scientifici e culturali, fra cui, naturalmente, ammettiamolo pure, gli eccessi di biologismo, soprattutto in passato. Ma già nel 1970 o 1980 il biologismo degli studiosi e dei clinici più avvertiti era ben diverso e più raffinato di quello dei loro padri di cinquant'anni prima. Comunque non si è trattato solo di questo. Il "disagio della Psichiatria" e la "crisi della Psichiatria" di cui si cominciò seriamente a discutere negli anni Cinquanta e Sessanta non nascevano dall' eccesso di biologismo. La crisi della Psichiatria riguardava invece in primo luogo il mandato sociale dello psichiatra e l'aspetto oppressivo della reclusione manicomiale; in secondo luogo, riguardava le incertezze scientifiche, le eccessive divisioni in scuole e correnti, e la scarsa efficacia delle terapie. E a questo punto si dovette fare i conti con la classica risposta estremistica. «La psichiatria è in crisi?», dicevano gli antipsichiatri, «Certo. Ma è solo perché sono errate tutte le sue premesse, perché non stanno in piedi i suoi fondamenti!». Quindi, concludevano, va buttata alle ortiche.
Accettiamo dunque che ci sia stata una seria crisi della Psichiatria. Il problema però, col passare del tempo è diventato ur altro, e riguarda proprio l'avvento dell'antipsichiatria. Purtroppo, per molti anni le critiche agli aspetti impersonali e inumani del biologismo psichiatrico si sono mescolate a eccessi di spontaneismo romantico-sentimentale, a duri attacchi contro la scienza, e a spunti di demagogia populista contro gli orrori dei manicomi. In queste ambito se da un lato era facile, anzi facilissimo, formulare dure critiche agli scienziati e ai biologi, e infine alla Psichiatria stessa, d'altro lato era assai più difficile proporre, e soprattutto praticare, attendibili alternative per quanto riguardava l'assistenza ai malati di mente.
Oggi, per fortuna, non si parla più dell'ipotesi che la Psichiatria sia solo un problema di controllo sociale, né vi è più chi sostiene che sia solo un problema politico di controllo sociale. Persiste però la tendenza ad accomunare in un'unica condanna tutti i tentativi di esaminare con una metodica scientifica i problemi della mente, della soggettività, del comportamento. Tuttora non manca chi, o ingenuamente o strumentalmente, è del parere che per occuparsi validamente di persone sofferenti sarebbe più utile sapere di Filosofia o di Letteratura piuttosto che di Medicina o di Scienze moderne della mente. E questa a me sembra, per dirlo francamente, una sciocchezza.

di Giovanni Jervis
Oggi ci sono perfino quelli che credono che i nostri disagi interiori vadano curati con la Filosofia, invece che facendo appello alle moderne discipline psicologiche. Questa proposta di inedite terapie filosofiche rimane, per fortuna, marginale. Va invece preso in seria considerazione un più vasto problema di linguaggi e di mentalità. Non pochi intellettuali di ottima cultura amano sedurre il loro pubblico trasferendo - o trasfigurando - alcuni temi, come la follia in generale, o la malinconia patologica, sul terreno dei discorsi letterari. La ri-descrizione del disturbo mentale in chiave di poesia o di letteratura nobilita le esperienze della mente, anche quelle patologiche, collocandole in un universo" alto". E questo, evidentemente, è confortante. I tormenti interiori sono trasferiti su un terreno dove i sentimenti elevati, o "spirituali", sono presenti, garantiti e apprezzati. Un simile modo di ragionare può avere il suo fascino; raramente, però, ne emergono veri chiarimenti sui problemi delle persone. Ora, a mio parere non è difficile capire in che modo a partire da posizioni del genere si possa approdare all'antipsichiatria. Qui entra in gioco la figura stessa deU'antipsichiatra come personaggio: questi si presenta come anticonformista e libertario, è suadente nel linguaggio, vuole essere portatore di un messaggio positivo. Egli dubita che vi possano essere, nella mente e nell'esistere spontaneo di noi tutti, insufficienze drammatiche delle emozioni, storture cognitive, e guasti seri del modo di ragionare. L'idea che egli suggerisce è che se non ci fossero cattive interferenze sociali la nostra mente sarebbe accettabilmente sana e felice. In questo modo i suoi ascoltatori si convincono che il male stia sempre altrove, e pensano che tutti i guai nascano dai pregiudizi della società borghese o dalle macchinazioni dei medici, dei biologi, e - naturalmente - degli psichiatri.
Ecco appunto l'antipsichiatria. Nemica della concretezza, nemica della sobrietà, lontana mille miglia dalle cautele del modo scientifico di indagare, sembra che l'antipsichiatria abbia bisogno, per crescere, di un terreno culturale dove non si rifugge dalla retorica. La capacità di sedurre il pubblico con perorazioni, più o meno forbite o più o meno enfatiche, è sempre stata una caratteristica degli antipsichiatri, soprattutto quando essi spostavano i problemi psicologici e clinici non tanto verso i territori della Letteratura o della Filosofia quanto verso il terreno dei più facili e sentimentali appelli morali. Anche qui c'era sempre un largo pubblico disposto a scambiare per problemi semplici talune questioni, in realtà, assai complesse, e a vedere tutto il nero da una parte e il bianco dall'altra.
L'antipsichiatria, è vero, è stata soprattutto un fenomeno del passato: da un quarto di secolo ormai, questa corrente culturale non esiste praticamente più. Ma ancora oggi ve ne sono i residui, e comunque ci può interessare, per vari motivi, comprendere quale fu il suo successo.

Il Sole 24 Ore Domenica 7.9.08
La morte e l'etica del dono
di Armando Massarenti


«Così la morte ci aprì il cuore» si intitolava l'articolo pubblicato su «Il Sole 24 Ore Domenica» del 3 agosto in cui Gilberto Corbellini, ricordando i quarant'anni dal "Rapporto di Harvard" che definiva la «morte cerebrale» (5 agosto 1968), la collegava alla rivoluzione medica dei trapianti notando che quel documento si rispecchiava perfettamente nella tradizione dell'etica medica cattolica. Alla luce delle polemiche suscitate da un infelice articolo pubblicato nei giomi scorsi dall' «Osservatore Romano», forse è utile aggiungere qualche altro elemento "minimo" relativo a questa tradizione. Pio XII aveva incontrato il futuro estensore del Rapporto a un Congresso sulla rianimazione a Roma, nel 1957. Disse che non spettava alla Chiesa determinare il momento della morte, e che non bisogna utilizzare mezzi straordinari nelle situazioni senza speranza. Nel 1985 la Pontificia Accademia delle Scienze produsse un documento dove si legge che «una persona è morta quando ha subito una perdita irreversibile di ogni capacità di integrare e di coordinare le funzioni fisiche e mentali del corpo. La morte sopravviene quando: le funzioni spontanee cardiache e respiratorie sono definitivamente cessate o si è verificata una cessazione irreversibile di ogni funzione cerebrale» («Osservatore Romano», 31 ottobre 1985). Nel suo libro «Nuova Bioetica Cristiana» (Piemme, 2000), il cardinale Dionigi Tettamanzi, riferendosi a quel documento, scrive che «la morte cerebrale è il vero criterio della morte, giacché l'arresto definitivo delle funzioni cardiorespiratorie conduce molto rapidamente alla morte cerebrale». In forza di una elaborazione dell'etica del dono, la Chiesa superò, a partire dagli anni Sessanta, anche l'atteggiamento di sospetto che, nel nome del principio di totalità e indisponibilità del corpo, a lungo aveva mantenuto sui trapianti. Sarà ancora il gruppo di lavoro del 1985 a collegare la definizione di morte con la donazione di organi, espressione di solidarietà. Giovanni Paolo II, nel 1991, aggiunse che l'intervento medico nei trapianti «è inseparabile da un atto umano di donazione». E il cardinale Tettamanzi scrive: «La donazione di organi, in vita o dopo morte, è una forma concreta secondo la quale vivere il comandamento della carità: quasi il tentativo di avvicinarsi al gesto del Signore Gesù: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici"».

Il Sole 24 Ore Domenica 7.9.08
Capolavori etruschi dall'Ermitage
di Cinzia Dal Maso


Finalmente l'hanno riportato a casa. È chiamato «il giovane» e sta disteso su un letto, raffinato guardiano delle proprie ceneri. È insomma un'urna cineraria etrusca che, unica al mondo, è fatta di bronzo e non di pietra. E da oggi è in mstra a Cortona assieme ad altri 30 capolavori etruschi dall'Ermitage di San Pietroburgo. Altri bronzi elegantissimi come la placca che raffigura il dio del sole alato e pregevoli specchi. E poi vasi splendidi che, pur fatti in Etruria, riproducono non solo forme e stili greci ma anche temi dell'immaginario greco.
Tutti capolavori eccelsi in perfetto stato di conservazione perché «gli emissari dello zar acquistavano solo cose splendide e perfette», come ricorda Paolo Giulierini, conservatore al Museo dell'Accademia etrusca e della città di Cortona.
Buona parte dell'attuale collezione etrusca dell'Ermitage fu infatti acquistata nel 1861 dal marchese Giampietro Campana, famoso collezionista e cercatore di antichità che si ridusse in bolletta (ricorrendo anche a pratiche illegali) e fu costretto a vendere. L'agente russo Stepan Gedeonov riuscì ad aggiudicarsi la prima scelta vincendo una vera e propria guerra diplomatica con il Louvre e il British Museum. Fu scandalo. Fioccarono le proteste. Inutili. Giovinetto e compari approdarono in riva alla Neva. E tornano solo ora a respirar aria d'Etruria nella città che dell'Etruria è madre, Perché dicevano gli antichi che Cortona fu fondata dai leggendari Pelasgi che approdarono a Spina alla foce del Po e poi scesero verso il centro della Penisola, forse per giungere alla foce del Tevere. Fermandosi a metà strada, a Cortona per l'appunto, l'ombelico d'Italia secondo gli antichi. E da lì molti narrano che nacquero le città etrusche. E non solo quelle.
Secondo Virgilio vi nacque quel Dardano che tornò poi a oriente e fondò Troia. Il capostipite, dunque. della casata troiana a cui apparteneva Enea progenitore dei Romani. Ecco che il cerchio si chiude. Anche Enea, secondo Virgilio, ha fatto il suo «ritorno a casa». E per Licofrone si è persino incontrato con Ulisse, una volta tornato a casa. Perché altre leggende narrano che Ulisse abbandonò a un certo punto Itaca per recarsi proprio a Cortona dove terminò i suoi giorni, e lì fu sepolto e onorato. C'è insomma un fiorire di antiche storie che fanno confluire a Cortona i grandi eroi del mito e mostrano la città come il centro della Penisola e quasi del mondo intero. «Forse fu abilità dei Cortonesi di allora - commenta Giulierini -. Hanno saputo vendere bene la propria immagine, far breccia nell'immaginario antico, entrare di prepotenza nei miti ».
Miti troppo belli perché i Cortonesi li scordassero, Tornarono a galla nel Quattrocento quando la città fu assorbita nell'orbita fiorentina e reagì rivendicando le proprie antiche e nobili origini. E poi ancora nel clima illuministico settecentesco in cui nacque la prestigiosa Accademia Etrusca. Accademia che fu fruttifero cenacolo di letterati e liberi pensatori, e col tempo anche pregevole collezione cii opere antiche e libri rari. L'attuale museo cortonese ha associato a tale collezicne la presentazione della storia della città così com'è emersa dalle ricerche archeologiche più recenti. E le sei nuove sale che aprono oggi mostrano per la prima volta le scoperte ultime e sensazionali: le tombe e rispettivi corredi dei due tumuli venuti alla luce nel 2005 nella zona del Sodo. a due passi grande tumulo «Melone II» che ha da poco rivelato una tomba ancora inviolata e quell'altare così spettacolare e forse non casualmente vicino nello stile a modelli microasiatici. E ancora le scoperte nei magazzini del Museo archeologico di Firenze da dove sono appena emersi i corredi recuperati già ai primi del Novecento dal Melone I e poi creduti dispersi con l'alluvione del 1966.
Ci sono anche ceramiche attiche a figure nere, tra le prime in assoluto apparse sul mercato mondiale del VI secolo a.C. Prova che allora a Cortona, come a Chiusi, arrivava ogni novità, il meglio. Così come oggi arriva il meglio delle collezioni etrusche: la mostra dei tesori dell'Ermitage promette di essere la prima di una serie dedicata agli Etruschi nei grandi musei del mondo. Oggi come un tempo, Cortona è al centro.

sabato 6 settembre 2008

l’Unità 6.9.08
Misure anti-rom. La Ue non ha assolto Berlusconi
Non c’è nessun documento della Commissione europea
Dietro il polverone l’operazione «salvate il soldato Maroni»
di Paolo Soldini


NON ESISTE una «presa di posizione della Commissione Ue» sulle misure anti-rom del governo italiano. Esiste solo una lettera che il commissario alla Giustizia Jacques Barrot ha scritto al ministro Maroni. Sono i contenuti di questa missiva sconosciuta quelli che sono stati anticipati giovedì da Michele Cercone, portavoce dello stesso Barrot, accendendo il tripudio del centrodestra e i titoloni dei giornali. Ma una lettera, della quale neppure lo stesso ministro ha mostrato di essere a conoscenza, non è un giudizio politico dell’esecutivo brussellese: è l’iniziativa di un singolo commissario, sia pure importante e attualmente in carica come uno dei 5 vicepresidenti della stessa Commissione. Per il resto la partita tra Roma e Bruxelles è ancora tutta da giocare. Mentre dagli uffici dell’altro commissario interessato alla questione, il responsabile degli Affari sociali Vladimir Špidla, fanno sapere che per quanto li riguarda non c’è alcuna novità (il che è un modo elegante per prendere le distanze da Barrot), proprio ieri si è saputo che la commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni dell’europarlamento ha chiesto a Barrot di riferire martedì prossimo sulla vicenda e sul senso del suo giudizio, che contrasta in modo del tutto evidente con la risoluzione che l’assemblea aveva approvato a larga maggioranza (e con i voti di non pochi esponenti del Ppe) il 10 luglio scorso. Fino a martedì, dunque, non esiste nulla di ufficiale né della Commissione né del suo vicepresidente. Anche perché, a quanto pare, Barrot si sarebbe rifiutato di anticipare ai deputati la sostanza della sua «comunicazione» come molti di loro avevano chiesto per poter, almeno, cominciare a farsene un’idea. Intanto, il presidente della commissione parlamentare, il deputato liberale belga Gérard Duprez, ha organizzato, dal 18 al 20 settembre, una visita a Roma, nell’ambito della quale ha chiesto un colloquio ufficiale con il ministro Maroni e con i presidenti di Camera e Senato e ha previsto una ricognizione nei campi rom e una serie di incontri con le comunità che vi vivono. Conoscendo Duprez, un uomo molto attento al rispetto dei diritti civili, la tournée italiana si annuncia pepata.
Insomma, la «soddisfazione» del capo del Viminale, dei suoi colleghi e del suo capo per l’«assoluzione» di Bruxelles rischia di essere quanto meno prematura. Anche perché l’operazione «Salvate il soldato Maroni», che ha avuto per teatro nei giorni scorsi Roma, Bruxelles e con ogni probabilità Parigi ed è, a quanto pare, ancora in corso, rischia infatti di essere compromessa da una delle solite gaffe in cui il ministro è solito tuffarsi con gioiosa inconsapevolezza. Giovedì, nella sua dichiarazione sul placet del vicepresidente della Commissione, Cercone aveva testualmente affermato che «la collaborazione con il governo italiano ha permesso di correggere ogni disposizione o misura che poteva essere contestabile ("corriger toute disposition ou mesure qui pouvait être contestable"). Detto in buon italiano questo significa che alla Commissione di Bruxelles è arrivato dal governo italiano un testo, che questo testo è stato giudicato insufficiente in materia di salvaguardia dei diritti civili, che quindi è stato rimandato indietro e che da Roma ne è arrivato uno nuovo «non discriminatorio». Maroni, invece, ha sostenuto, in almeno due diverse occasioni, che il 1° agosto ha inviato sic et simpliciter il testo dell’ordinanza (quella contestatissima) e che è quindi l’ordinanza in quanto tale ad aver ricevuto la benedizione di Bruxelles. Evidente il perché della bugia: il ministro leghista non vuole fare la figura di chi si rimangia le sue sparate, dopo aver cavalcato con tanto gusto la demagogia del duro zerotollerante.
Sollecitato a spiegare l’aporia, il portavoce di Barrot ha dovuto ammettere che sì, in effetti, il governo italiano il 1° agosto, alla terza (leggasi: terza) richiesta di «spiegazioni» inviata dalla Commissione, ha inviato il «testo legislativo» dell’ordinanza accompagnato, però, da una relazione interpretativa sulla sua applicazione e dalle linee-guida. È su queste che Maroni ha «addolcito» talmente le proprie posizioni da non poterlo ammettere oggi, tant’è che ha imposto un segreto assoluto (e altrimenti inspiegabile) al vero testo della sua comunicazione del 1° agosto. Esattamente quello che hanno sostenuto, ieri, molti esponenti della sinistra e questo giornale.
Resta da indagare come e da chi - il perché è ovvio - è stata messa in moto l’operazione «salvare Maroni». Jacques Barrot proviene dalle file del centrodestra francese, milita nell’Ump del presidente Sarkozy e ha avuto in tempi recenti una intensa frequentazione con il centrodestra italiano. È stato quando la «chiamata» a Roma di Franco Frattini lo ha portato ad assumere i suoi incarichi, commissario alla Giustizia e vicepresidente, lasciando ad Antonio Tajani il posto di commissario ai Trasporti, in un complicato negoziato che si è dipanato tra Roma, Bruxelles e Parigi e al quale non sono rimasti estranei due dossier fondamentali: l’Alitalia, che già occupava la mente di Berlusconi con la necessità di assicurarsi un parrinage nella Commissione, e l’inizio delle grandi manovre per la nomina dei successori di Barroso, dei 27 commissari e, ovviamente, dei vicepresidenti, il cui mandato scadrà a novembre dell’anno prossimo. Di una «calda raccomandazione» di Sarkozy a Barrot, perché non maltrattasse troppo il ministro di Roma, si era parlato a Bruxelles e a Parigi già il 7 luglio scorso, quando Maroni tornò trionfante da Cannes, dove lo aveva incontrato, sostenendo che tutto era stato «chiarito». Sarà stata la prima «raccomandazione»? E, soprattutto, l’ultima?

Corriere della Sera 6.9.08
Il governo vuol rendere l'interruzione di gravidanza libera fino al 4˚ mese
Spagna, cambia la legge sull'aborto. Protesta la Chiesa: «Scelta triste»
di Mario Porqueddu


Il prefetto per la Dottrina della Fede, cardinal Levada: «L'aborto non è solo una questione politica: tocca le radici dell'uomo»

MADRID — Nel 2006, centomila donne spagnole hanno abortito. I dati del ministero della Salute dicono che nel 96% dei casi l'interruzione di gravidanza è stata motivata da un medico con il «rischio per la salute psichica della madre». In Spagna non è previsto che una donna interrompa la gravidanza perché ha deciso di non mettere al mondo un figlio. Giovedì il governo di Madrid ha annunciato che alla fine del 2009, o al più tardi all'inizio del 2010, entrerà in vigore una nuova legge sull'aborto. Ieri la vicepremier Maria Teresa Fernandez de la Vega ha spiegato che «l'attuale normativa è superata dagli eventi e in parte può risultare ambigua ».
L'aborto in Spagna è entrato nel dibattito pubblico nel 1979, quando undici donne finirono davanti a un giudice a Bilbao per aver interrotto la gravidanza. Furono assolte, il tribunale decise che avevano agito in base a «una necessità sociale». Sei anni più tardi, nel 1985, fu approvata la legge che regola tuttora la materia e depenalizza l'aborto in tre casi: se la gravidanza è frutto di violenza sessuale (con un limite fissato entro 12 settimane), se si individuano «gravi tare fisiche o psichiche» nel nascituro (entro 22 settimane, previo parere di uno specialista) o se c'è un «grave pericolo per la vita o la salute psichica della madre » (senza limiti di tempo, ma dietro parere medico vincolante). Nei fatti, però, capita che il trattamento per chi affronta l'aborto cambi da regione a regione — con casi come quello della Navarra, dove non c'è neanche un medico disposto a praticarlo —, e che si possano giustificare con «rischi psichici» anche interruzioni di gravidanza tardive, fino al sesto o al settimo mese. Cosa che per qualcuno equivale a negare i diritti dei prematuri. La maggioranza degli interventi, infine, avviene in cliniche private.
Il governo socialista di Zapatero vuole cambiare. Il ministro dell'Uguaglianza Bibiana Aìdo ha detto che la nuova legge dovrà incorporare «il meglio del panorama internazionale in materia», e tutelare «diritti fondamentali e sicurezza delle donne e dei medici». L'idea, secondo le indiscrezioni riportate dai principali quotidiani, è di consentire alle donne di abortire senza bisogno di giustificazioni entro le prime 14 o 16 settimane. Mentre interrompere la gravidanza dopo la ventiduesima o ventiquattresima settimana diventerebbe più difficile, a meno di gravi evidenze mediche. È stato formato un comitato di esperti che affiancherà i membri del Parlamento chiamati a elaborare le norme. Ne fanno parte giuristi, ginecologi e tecnici di vari ministeri. «È una squadra di abortisti, vicina ai socialisti» scriveva ieri El Mundo, che ha dato voce alle perplessità del Partito Popolare, pronto a opporsi, e a quelle dei collettivi femministi, rimasti fuori dall'organismo tecnico. Protesta anche la Chiesa. «Sono intristito — ha detto il prefetto della Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, cardinale William Levada —. L'aborto non è questione meramente politica, ma anche religiosa, culturale, sociale, tocca le radici dell'essere umano». Il governo ha assicurato che la futura legge «sarà frutto del maggior consenso possibile e di un dibattito completo, ragionevole, senza dogmi o posizioni preconcette. Nel solco della Costituzione ».

Corriere della Sera 6.9.08
La responsabile dell'Istruzione: tanti stranieri, devono conoscere i nostri valori
«Ora di religione obbligatoria» Bufera sulla giunta del Veneto
Proposta di un assessore di An. Ma Galan frena
Contrario Vian, docente cattolico di Ca' Foscari: le tradizioni di riferimento sono anche islamiche
di Marisa Fumagalli


VENEZIA — Il laico, liberale e disincantato presidente del Veneto bacchetta la giovane assessora all'Istruzione: «Insegnamento obbligatorio della religione? Nulla che vi assomigli rientra nel programma del governo regionale ». E precisa: «La sua è una proposta che coinvolge più istituzioni, più competenze oltre agli aspetti legati a principi di libertà e di rispetto del pensiero e delle credenze altrui». Insomma, Giancarlo Galan, mette i puntini sulle i.
Nei giorni scorsi era entrato nel merito della querelle tra gli immigrati islamici e il comune di Treviso («qui non hanno diritto di pregare», Gentilini dixit), invitando alla tolleranza e al buon senso, ora affronta a viso aperto un'altra questione «sensibile ». È successo, infatti, che Elena Donazzan, 36 anni, assessore regionale (An), discettando in materia di istruzione, abbia lanciato l'idea di inserire nella riforma regionale dell'Istruzione, l'obbligo nelle scuole venete dello studio della religione cristiano/cattolica. Argomento tutt'altro che locale. Oppure, c'è da ritenere che, in tempi di invocato federalismo fiscale, si debba passare anche al federalismo ecclesiale? Elisa Donazzan la prende alla larga, ma non arretra. «Premesso che non sto parlando di studio del catechismo — spiega al Corriere — la mia proposta s'inserisce nel tema più ampio dell'integrazione. Che coinvolge particolarmente la nostra regione dove il tasso di immigrati extracomunitari è elevato. Ora, se il ministro Mariastella Gelmini pensa, giustamente, di riportare a scuola l'Educazione civica, io credo che di tale materia possa far parte l'insegnamento della religione cattolica, fondamento indiscusso dei valori dell'Occidente. Che dovrebbero conoscere anche gli stranieri che hanno deciso di risiedere nel nostro Paese ». «Del resto — aggiunge — non è di Benedetto Croce la frase non possiamo essere italiani senza dirci cristiani?». Youssef Tadil, portavoce della comunità islamica di Treviso (in lotta per la rivendicazione di un luogo di culto), si richiama alla libertà di fede, sancita dalla Costituzione dello Stato italiano. «Avrebbe senso, semmai, insegnare le varie religioni — osserva — non soltanto la cristiana. Poi, gli alunni decideranno il percorso religioso che preferiscono». «La mia sensazione — continua — è che proposte come quella dell'assessore non giovino a rasserenare il clima interetnico ». Al fianco della Donazzan si schiera don Sandro Vigani, direttore del periodico Gente veneta. Osserva: «Poiché il cattolicesimo ha fatto la nostra storia e poiché l'80 per cento degli italiani sono cattolici, trovo giusto che questa religione diventi materia scolastica. Anche i musulmani dovrebbero studiarla». Ma Giovanni Vian (cattolico), docente a Ca' Foscari di Storia delle Chiese cristiane, dissente: «Piuttosto sarebbe doveroso inserire nelle scuole la Storia delle religioni, con un taglio laico/critico, non confessionale — dice —. E se vogliamo riferirci al contesto italiano ed europeo, le tradizioni di riferimento sono quelle giudaico-cristiane, ma anche quelle islamiche».
«Sono contrario, invece — conclude —, ad agganciare le religioni all'insegnamento dell'Educazione civica. I valori civili di uno Stato democratico sono altra cosa».

Corriere della Sera 6.9.08
Colloquio con lo scienziato che ha studiato con Sperry la separazione degli emisferi cerebrali
Cervello, conta la parte sinistra
Gazzaniga: «L'uomo può vivere anche se la destra è lesionata»
di Massimo Piattelli Palmarini


In un giorno del 1956, al White Memorial Medical Center, alla periferia di Los Angeles, i neurologi esaminarono il triste caso di un ex paracadutista americano, il quale aveva riportato nel 1944 un grave trauma cranico. Questo paziente, poi divenuto ultra-celebre nella letteratura clinica, è noto mediante le iniziali W. J. Il poveretto soffriva di frequenti convulsioni epilettiche resistenti ai farmaci. I neurochirurghi Joseph Bogen e Phillip Vogel, nel 1962, decisero di sezionare il ponte calloso che connette i due emisferi cerebrali. Due neuropsicologi del vicino California Institute of Technology vennero chiamati a seguire la successiva rieducazione e ad effettuare un'attenta analisi delle conseguenze psicologiche, cognitive e comportamentali dell'intervento. Essi erano il ben noto e allora cinquantenne professor Roger Walcott Sperry e il suo giovane assistente Michael S. Gazzaniga. Penso che tutti abbiamo sentito parlare del cervello diviso, dello «split brain», e abbiamo una qualche nozione della diversità tra emisfero sinistro (logico, linguistico, metodico, riflessivo) e emisfero destro (artistico, attento alle forme e alle melodie, intuitivo). Ebbene, tutto è partito proprio dal caso W. J. e dai lavori di Sperry e Gazzaniga. Mike Gazzaniga è oggi direttore del Centro SAGE per lo Studio della Mente all'Università di California a Santa Barbara. E' appena uscito il suo ultimo libro, dal semplicissimo titolo «Human», e dal sottotitolo «la scienza che è alla base di ciò che ci rende unici».
In che cosa siamo così unici nel mondo animale? Lo lascio dire a Gazzaniga, in esclusiva per il Corriere Scienza: «E' perché abbiamo un cervello capace di conoscere, apprezzare e desiderare le arti e governare i nostri atteggiamenti sociali e morali. Su un punto Darwin aveva torto, cioè noi non siamo in continuità con gli altri primati, la differenza tra noi e loro e qualitativa, non puramente quantitativa».
Gli chiedo di essere più esplicito: «Dal punto di vista cognitivo, noi abitiamo in una nicchia ecologica del tutto speciale. Evoluzionisticamente parlando, siamo come un treno senza freni. Possiamo modificare l'ambiente quasi senza limiti, il nostro cervello è molto meno modulare di quello di specie anche a noi vicine. Il passato del nostro cervello, della nostra mente e del nostro corpo ci condiziona assai poco. In altre parole, non possiamo liberamente cambiare la nostra natura, ma possiamo cambiare i nostri comportamenti. Dobbiamo sperare solo di sapere bene quello che stiamo facendo». L'idea del cervello sinistro e destro è diventata moneta corrente. Che cosa c'è di vero e di esagerato oggi in questa idea? «Ciò che più ci preme, nella nostra esistenza, è la capacità di pensare e di trovare soluzioni, essere creativi e comunicativi. Tutto ciò è provincia dell'emisfero sinistro. Quello destro gioca anch'esso un ruolo importante, ma si è visto che la vita ordinaria può continuare anche quando viene colpito». Dopo quasi mezzo secolo, quali lezioni possiamo trarre da questa lunga avventura clinica e scientifica? «Che gli esseri umani possiedono, nel loro emisfero sinistro, un dispositivo particolare che ci consente di dare un senso ai nostri propri comportamenti e umori, ci consente di interpretarli. Molti sono prodotti da meccanismi cerebrali impermeabili alla coscienza. Questo dispositivo è il loro interprete ci consente di raccontare a noi stessi la favola che siamo un'entità unica e consapevole, a dispetto di un sistema cerebrale che è di fatto distribuito e in parte modulare».
Gazzaniga è riconosciuto come un padre fondatore delle neuroscienze cognitive: «Sono quel neuroscienziato irrequieto, che ha sempre guardato verso il futuro e ha non solo dato contributi al problema dei rapporti tra mente e cervello, ma ha anche creato il settore della neuro-etica». Il suo libro «Il Cervello Etico» lo testimonia; inoltre è a capo di un vasto progetto di neuroetica sovvenzionato dalla Fondazione McArthur e darà l'anno prossimo in Scozia le prestigiose Gifford Lectures, venerabile istituzione che esiste dal 1887. Che cosa ci riserverà il futuro? «C'è stato il continuo progresso, proprio da voi in Italia, da Camillo Golgi a Giacomo Rizzolatti, dall'identificazione delle singole cellule nervose alle reti di neuroni e alla comprensione di come il cervello capisce le intenzioni altrui. Il futuro delle neuroscienze sta tutto nella scoperta di nuovi strumenti di indagine e nuovi metodi per capire i sistemi complessi ».

Corriere della Sera 6.9.08
Dallo studio degli zuccheri la scoperta di un ricercatore indiano che apre nuove ipotesi sull'evoluzione
Uomo-scimmia, la proteina «sapiens»
Ci ha diviso dai primati ma ci ha reso più vulnerabili alle malattie
di Giuseppe Remuzzi


C'era un ragazzo indiano, Ajit Varki, voleva fare il medico, ma non voleva fare il dottore e basta, voleva occuparsi di ricerca. E' andato negli Stati Uniti verso la fine degli anni '70 per lavorare con Stuart Kornfeld alla Washington University di Saint Louis. A quel tempo lì, Kornfeld lavorava sull'acido sialico (viene da sialos, saliva in greco) è uno zucchero a 9 atomi di carbonio. Nell'82 Varki si trasferisce a San Diego in California per mettere su un suo laboratorio di biologia degli zuccheri. Nel corso dei suoi studi Varki si accorge che il nostro sistema immune reagisce contro un certo acido sialico, si chiama acido N-glicolil neuraminico (Neu5Gc). «Che strano — pensa— acido sialico ce n'è sulla superficie di tutte le cellule di tutti i mammiferi e ha tantissime funzioni». Ma presto si rende conto che l'uomo fra tutti gli animali è l'unico a non avere Neu5Gc e non solo l'uomo di oggi. Anche gli ominidi di 900 mila anni fa erano senza Neu5Gc. Per saperlo Varki s'è messo a lavorare col paleontologo Juan Luis Arsuaga: hanno studiato ossa fossili prese a Atapuerca. A un certo punto dell'evoluzione insomma si è perso Neu5Gc: al suo posto gli uomini hanno un altro tipo di acido sialico, Neu5Ac.
La differenza è molto piccola, solo un gruppo OH appiccicato ad uno dei due rami della molecola. Le scimmie come tutti gli altri mammiferi hanno Neu5Gc, e Varki si era messo in testa di voler capire perché. Neu5Ac (quello dell'uomo) è il precursore di Neu5Gc e c'è una proteina — enzima — che trasforma Neu5Ac in Neu5Gc. Ma il gene che serve alla sintesi di questa proteina nell'uomo è mutato, la corrispondente proteina non funziona e così non si forma Neu5Gc. Varki si stava convincendo che forse è proprio questa proteina appena diversa a far sì che l'uomo sia uomo e lo scimpanzé scimpanzé. Possibile? Forse. Ma per capirlo bisogna fare un passo indietro. C'è un parassita della malaria, il plasmodio reichenowi, che infetta gli scimpanzé ma non l'uomo. E' perché quel plasmodio lì si appiccica a Neu5Gc sulla superficie dei globuli rossi degli scimpanzé.
L'uomo Neu5Gc non ne ha e così non si ammala di quel tipo di malaria. Neu5Gc è comparso da due a tre milioni di anni fa, proprio quando sulla terra è arrivato l'homo erectus.
C'era già la malaria allora, ma chi aveva la proteina mutata non formava Neu5Gc, così il parassita non riusciva ad attaccarsi ai globuli rossi e quell'individuo non si ammalava. Questo ha consentito a certi nostri antenati di evolvere fino all'homo
antecessor. A questo punto Varki e Gagneux hanno voluto la controprova. «Prendiamo un topo — si sono detti — modifichiamolo geneticamente in modo che sulla superficie delle sue cellule non ci sia acido sialico di tipo Neu5Gc, chissà che non prenda ad assomigliare in qualche modo all'uomo». L'hanno fatto, rispetto ai topi normali, quelli senza Neu5Gc perdono il pelo.
Adesso i ricercatori vogliono capire se questi topi sono capaci di riprodursi con quelli che invece Neu5Gc ce l'hanno ancora. O se, come sembra, si riproducono solo fra loro. E forse anche milioni di anni fa i nostri antenati Neu5Ac si accoppiavano solo fra loro. Così si sarebbe arrivati all'homo sapiens. Ma c'è di più, l'uomo è diverso dalle scimmie anche per la suscettibilità a certe malattie del sistema immune: artrite reumatoide, asma o sclerosi multipla colpiscono solo l'uomo, mai le scimmie. Cosa c'entra con l'acido sialico? C'entra.
L'uomo non ha Neu5Gc ma da secoli mangia prodotti animali pieni di Neu5Gc, carne e latte per esempio. Così nel nostro sangue si formano anticorpi anti Neu5Gc che determinano poi reazioni infiammatorie, ma anche le malattie del cuore e il cancro potrebbe avere quell'origine lì. Varki e Gagneux si sono precipitati in un supermercato, hanno preso agnello, maiale e manzo, pieni di Neu5Gc, e ne hanno mangiato quanto potevano. Nei giorni successivi si sono accorti che nel loro sangue cominciavano ad esserci anticorpi contro queste Neu5Gc che nel frattempo si incorporavano nelle membrane delle loro cellule. Insomma, ammesso che sia solo una proteina mutata a rendere gli uomini uomini, la stessa ci renderebbe più vulnerabili delle scimmie a tante malattie.

Corriere della Sera 6.9.08
Il commento. Da piccole differenze, grandi cambiamenti
di Telmo Piovani


La scoperta ha una sua amara ironia. Se Varki ha ragione, la mutazione che ci ha salvati da una forma di malaria, contribuendo alla nascita del genere Homo, è diventata poi la causa, tramite l'alimentazione, di altre terribili malattie.
L'evoluzione è una questione di vantaggi iniziali e di effetti collaterali, e quasi mai mira alla perfezione.
Un tempo, pensavamo che le evidenti differenze morfologiche fra noi e gli scimpanzé avrebbero trovato un corrispettivo in grosse differenze genetiche. Non è così: bastano piccoli cambiamenti utili, nel posto giusto al momento giusto. Ma le propagazioni sono imprevedibili e ciò che ci protegge dalla malaria può essere connesso anche alla perdita del pelo, all'isolamento riproduttivo e, oggi, alla reazione di rigetto verso organi provenienti da altri animali. Non è scontato, poi, che le nostre mutazioni abbiano portato sempre un'acquisizione in più. Come nella metafora del film «Il pianeta delle scimmie» il genere Homo si sarebbe qui differenziato per sottrazione, perdendo una molecola e mantenendo solo il precursore Neu5Ac.
Dopo tutto è improbabile che una sola mutazione puntiforme ci abbia reso umani, ma di sicuro siamo quel che siamo oggi perché in passato piccole differenze hanno fatto la differenza.

Corriere della Sera 6.9.08
Fascismo e berlusconismo, la trappola dei confronti
Sergio Romano risponde a Lucio Villari


Nelle elezioni del 6 novembre l932, le ultime avvenute in regime democratico in Germania, il partito nazionalsocialista di Hitler ebbe circa 12 milioni di voti (il 33,1 per cento) e 196 seggi al Reichstag mentre il Centro cattolico di von Papen (che forse era più a destra di Hitler) ebbe 70 seggi e un'altra formazione di destra, i tedesco-nazionali, 52. La destra ebbe in tutto 318 seggi, mentre i socialdemocratici ebbero 121 seggi e i comunisti l00. Il quadro era chiaro e il presidente Hindenburg, sollecitato anche da industriali, banchieri, armatori, proprietari terrieri, nominò cancelliere Hitler grazie anche alla copertura e alla legittimazione politica che di Hitler diede il cattolico von Papen. È questo dunque l'avvento «democratico» di Hitler al potere di cui parlavo in un mio intervento di alcuni giorni or sono sul Corriere della Sera e di cui si è stupito Gianfranco Pasquino.
Hitler guidava il maggior partito della coalizione di destra e dunque l'incarico spettò, dopo tentativi vari e scorciatoie (sempre di destra), a lui. Lo confermò anche il
Times di Londra in un articolo, che certamente lascia perplesso un fine giurista come Pasquino ma non stupisce chi studia con attenzione i travagli della democrazia europea negli anni Trenta del Novecento.
L'autorevole giornale inglese salutava la nomina di Hitler come un «ritorno alla democrazia parlamentare» in Germania. Una chiara polemica nei confronti della agitata ma viva Repubblica di Weimar dove invece la democrazia tedesca era nata.
Lucio Villari, Roma

Caro Villari,
Per la verità Gianfranco Pasquino ha anche sostenuto con ragione che Hitler e il suo partito, finché le elezioni tedesche furono libere, non ebbero mai la maggioranza assoluta dei voti. Ma la ricostruzione che lei fa del modo in cui i nazisti conquistarono il potere è impeccabile e presenta il vantaggio di completare il quadro della nostra discussione a tre sulla morte della Repubblica di Weimar. Non varrebbe quindi la pena di tornare sul tema se i frequenti riferimenti a Weimar, ai dittatori eletti con vasto consenso popolare, al fascismo e ai suoi rigurgiti non fossero diventati il pane quotidiano del dibattito politico italiano: un dibattito in cui si parla di storia, in realtà, per parlare anzitutto dell' attualità nazionale.
Il vero tema, quindi, è quello dei confronti storici. Quando ricerchiamo le analogie fra il presente e il passato cediamo a una tentazione naturale e comprensibile. I confronti servono a collocare un avvenimento nella storia, a individuare peculiarità e somiglianze, a meglio circoscrivere un fenomeno e, come avrebbe detto Benedetto Croce, a «parlare il mondo». Senza ricorso al paragone, in tutte le circostanze della vita, i nostri argomenti sarebbero astratti e difficilmente comprensibili. Quando dico che un certo vino ha un bouquet di fragole, aiuto pragmaticamente chi mi ascolta a separarlo mentalmente da altri vini con cui ha maggiore familiarità.
Il guaio, caro Villari, è che il confronto non è tra due avvenimenti, ma fra due interpretazioni. Il detto, così frequentemente ripetuto, secondo cui occorre studiare la storia per evitare di ripeterla, è in realtà un pericoloso sofisma. Ci serviamo del passato per meglio accreditare presso coloro che ci ascoltano un particolare giudizio sul presente; e per essere più convincenti usiamo un passato tagliato su misura. Penso in particolare all'uso continuo del fascismo come minaccia incombente sulla politica nazionale. Dietro questa pratica, così frequente nella bocca di certi pubblicisti, vi sono almeno due assunti. In primo luogo vi è la tesi secondo cui il fascismo sarebbe un virus indistruttibile, continuamente presente nel corpo delle società umane. E in secondo luogo vi è la presunzione che fascismo, nazismo, falangismo e tutti gli altri ismi autoritari o totalitari del XX secolo siano i differenti nomi di una stessa cosa. Renzo De Felice ha impiegato la sua intera vita a spiegare il fascismo come fenomeno italiano di una particolare congiuntura storica, ma si direbbe, a giudicare dalle polemiche delle scorse settimane, che abbia perduto il suo tempo. La faccenda avrebbe poca importanza se il partito comunista italiano non si fosse servito della «perenne minaccia fascista » per presentarsi al Paese come una grande forza democratica, indispensabile per la sua libertà.
Aggiungo che questo uso dei confronti storici presenta un altro inconveniente: rende del tutto inutile il mestiere dello storico. Che senso ha cercare di comprendere un avvenimento nella sua individualità e concretezza se la storia è soltanto una lunga litania di fatti già visti e già accaduti?

Corriere della Sera 6.9.08
Un pamphlet di Michele Martelli accusa la gerarchia ecclesiastica di voler dettare legge in ogni settore della vita pubblica
Se anche Dio entra in politica
La Chiesa e la democrazia: un relativismo che si vergogna di se stesso
di Giulio Giorello


Contro i teocon
S'intitola Quando Dio entra in politica (Fazi, pp. 228, e 16) il libro in cui Michele Martelli, studioso di filosofia e docente dell'Università di Urbino, critica le tendenze clericali che si manifestano nella vita italiana. Il testo di Giulio Giorello qui pubblicato è la prefazione al volume.

La Chiesa? «Non è democratica, ma sacramentale, dunque gerarchica», scriveva a suo tempo Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Fede. E oggi, con Joseph ormai salito al Soglio di Pietro, sotto il nome di Benedetto XVI? Mi pare notevole merito del volume di Michele Martelli Quando Dio entra in politica il fatto che l'autore, fin dal primo capitolo, metta a fuoco il nocciolo della questione. «La fallibilità, l'incertezza, l'errore, l'umile e incessante ricerca della verità, il dialogo, il dubbio socratico e scettico, l'autocorrezione e l'autocritica», si chiede Martelli, sarebbero dunque «estranei a chi la verità definitiva la possiede in Cristo, di cui è sostituto terreno»? Attenzione a rispondere Sì o No immediatamente. Una notevole tradizione di pensiero — da Charles Sanders Peirce a Ernst Mach, per non dire di Karl Popper e Willard Van Orman Quine, pur con le più diverse sfumature — ha messo in luce come quei tratti di «fallibilismo» (il termine è di Peirce), ovvero quell'impasto di «conoscenze ed errore» (l'endiade è di Mach), scandiscono tanto la crescita della scienza moderna quanto l'articolarsi della democrazia. La tensione principale non si situa allora tra fede e ragione, tra scienza e religione, tra credenti e non credenti, ma tra chi fa ricerca — non solo circa «la natura delle cose», poniamo in fisica o in biologia, ma persino circa la propria «salute spirituale» — con un atteggiamento che insiste sul carattere fallibile e provvisorio delle proprie conquiste e chi invece non esita a presentarle come dogmi irrinunciabili, ormai immuni a qualsiasi spirito critico.
So bene che, se ci si esprime così, si rischia — al solito — di essere tacciati di «relativismo», il genio maligno dell'Occidente, la cui «dittatura» è stata autorevolmente denunciata dallo stesso Ratzinger poco prima di essere eletto Papa. Ma anche qui, cautela: la posta in gioco non è epistemologica (o lo è solo in parte), ma (soprattutto) politica.
Lo avevano intuito, ai tempi della contrapposizione di Riforma e Controriforma, ancor prima dei «filosofi naturali» (noi oggi diremmo «scienziati ») quei teologi insofferenti alla costellazione dei pregiudizi stabiliti, che avevano rivendicato diritto all'amore e alla tolleranza per le forme di vita (religiosa, ma non solo) più diverse. Figure come — a metà del Seicento — John Milton, che aveva dichiarato che «la verità ha più di una faccia», o come John Goodwin, che aveva sostenuto che reprimere le differenze può rivelarsi la forma più perversa di «lotta contro Dio». Particolare non trascurabile: si trattava di protestanti (anche se, assai spesso, devianti rispetto al
mainstream del protestantesimo: eretici nell'eresia, agli occhi di quei cattolici che avevano dimenticato che eresia vuol dire solamente scelta e che a sua volta ragionare non è che un sinonimo di scegliere). Karl Popper, in un bellissimo intervento del lontano 1958, riconosceva quanto debbano le attuali società aperte e democratiche a questo tipo di protestantesimo. Ma non stiamo cercando qui delle più o meno fondate «radici»! Il gusto per la disputa, la pregnanza dell'argomentazione, il valore della competenza tecnica, il considerare una differenza di opinioni o di stile di vita non un disastro ma un'occasione sono elementi che possiamo ritrovare nelle più svariate civiltà, dalla grande cultura sumerica e accadica della Mesopotamia alla Grecia dei Sofisti e di Socrate, dall'India capace di logiche (al plurale) di estrema raffinatezza al mondo «arabo- islamico» così attento, prima dell'epoca della sua chiusura che coincide con la sua decadenza, alla valorizzazione degli esperimenti intellettuali e morali più disparati… Siamo disposti a sacrificare tutto questo per la «verità dell'Uno» di cui la Chiesa Cattolica Romana pretende di avere il monopolio? Michele Martelli ci ripropone un interrogativo che in passato è più volte emerso nelle tormentate vicende dell'Occidente. Il «ritorno di Dio nella politica» vuol dire proprio questo. Di mio, non sono così drastico come alcuni che ritengono di poter liquidare la stessa esperienza del cattolicesimo come antiscientifica e antidemocratica. Il fatto è che non penso che le varie tradizioni religiose — e in particolare le diverse denominations cristiane, e dunque la stessa confessione cattolica — costituiscano delle «essenze» date una volta per tutte come idee immutabili dell'iperuranio di Platone. Piuttosto, mi paiono simili a organismi viventi, in continuo mutamento, soggette quindi sia alla pressione dell'ambiente sia alle decisioni degli individui che in tali tradizioni si riconoscono. Così, sono disposto a riconoscere che persino una Chiesa «non democratica, ma sacramentale » possa evolvere, dando prova nella pratica di quel relativismo di cui in teoria si vergogna. Dopotutto, il «relativismo» è il contrario dell'«assolutismo » — e tutto possono essere i dittatori, tranne che dei relativisti! Pensiero debole — come ci ripetono teocon, teodem e atei devoti, così nostalgici della «forza del fondamento»? Niente affatto: il relativismo non è una dottrina, ma una scelta personale e politica per un tipo di struttura in cui ogni idea o forma di vita abbia il diritto a una difesa pubblica — in questo sta tutto il suo coraggio!
Michele Martelli non risparmia i suoi strali polemici a pretese teoriche e morali avanzate in nome delle più diverse religioni, pur concentrandosi soprattutto su quelle che ci vengono dal cattolicesimo romano. Non possiamo che augurarci che coloro che si sentono colpiti dalla sua vis polemica sappiano rispondergli con altrettanta decisione sul piano dell'argomentazione.
Di nuovo, questo tipo di conflitto è un'occasione di crescere per tutti «i litiganti».
Una cosa, però, dev'essere chiara. Mai mai mai saremo disposti a cedere — in cambio delle nebbiose consolazioni di questa o quella religione — il libero cielo dell'Illuminismo, quello della tolleranza comprensiva e simpatetica di John Toland, o dell'appassionata mitezza di Voltaire, o dello «scetticismo spensierato» di David Hume, o dell'elogio di Immanuel Kant dell'autogoverno di cui è capace la persona «uscita dallo stato di minorità» in cui i dogmatici di ogni risma vorrebbero ricacciarla. A scanso di equivoci: questi non sono vincoli che ci legano al passato, sono premesse che ci indirizzano al futuro.

Corriere della Sera 6.9.08
Resistenza. Un saggio di Massimo Storchi
Le vendette e l'impunità nel dopoguerra reggiano
di Antonio Carioti


Il titolo non lascia dubbi: Il sangue dei vincitori, saggio di Massimo Storchi sulla Resistenza a Reggio Emilia, vuole mostrare l'altra faccia della medaglia rispetto ad alcune opere di Giampaolo Pansa. L'autore non nega certo la realtà delle vendette partigiane seguite alla Liberazione, con l'uccisione di oltre quattrocento persone nel Reggiano tra aprile e maggio del 1945, ma sostiene che si trattò di una vampata insurrezionale, di una giustizia sommaria e selvaggia tesa a chiudere i conti aperti durante la dittatura e la guerra. Un'azione cui non corrispondeva, a suo parere, un disegno rivoluzionario del Pci. A riprova di questa tesi, l'autore nota come la violenza cali vistosamente subito dopo gli eccidi insurrezionali, con una trentina di omicidi (non tutti di matrice partigiana) da giugno a dicembre 1945 e dodici nel corso del 1946.
La parte più ampia del libro è però dedicata a illustrare le premesse delle vendette partigiane, cioè le atrocità compiute in provincia di Reggio da personaggi e gruppi del fascismo di Salò. Solo una parte dei responsabili pagò, mentre l'amnistia e alcune discusse sentenze passarono un colpo di spugna su gravi crimini. Venne sparso il sangue di molti vinti, non di rado innocenti, ma parecchi altri, ben più colpevoli, rimasero impuniti. Un fattore che va considerato nel valutare il dopoguerra emiliano.
MASSIMO STORCHI, Il sangue dei vincitori ALIBERTI PP. 286, e 16

Corriere della Sera 6.9.08
Analfabetismo. Il linguista Tullio De Mauro: «Ma la colpa questa volta non è della scuola»
di Giulio Benedetti


L'accusa: È una sconfitta della società che non è in grado di occuparsi, come avviene in tutti i Paesi del mondo, dell'educazione degli adulti

ROMA - E' difficile sorprendere, in materia di analfabetismo, originario o di ritorno, un linguista come Tullio De Mauro, che dell'argomento sa tutto o quasi. C'è riuscita, nel 2005, Statistic Canada, una delle più importanti centrali di indagini demografiche del pianeta. Il prof, nel leggere i risultati, fece un salto sulla sedia. Il motivo? Secondo la ricerca sulle condizioni di alfabetizzazione in età lavorativa, da 16 a 65 anni, noi italiani eravamo più o meno allo stesso livello di alcuni paesi africani. Sono passati tre anni. E in materia di lotta all'analfabetismo la strada è ancora tutta in salita. Soprattutto in Africa, ma anche nel nostro Paese.
I dati di Statistic Canada 2005: solo il 29% degli italiani aveva dimostrato una capacità — stiamo parlando di livelli minimi — di controllo della lettura e della scrittura o capacità di calcolo sufficienti per affrontare la vita quotidiana.
«Problemi simili esistono in tutti i paesi sviluppati — spiega De Mauro — ma in percentuali modeste. Difficoltà di quelle proporzioni sono emerse solo per l'Italia e la Sierra Leone. Dall'indagine è risultato che il 5% della popolazione adulta era preda di un analfabetismo completo. C'era poi un 33% che invece riusciva a decifrare più o meno bene le risposte del primo questionario ma non arrivava al secondo. Un altro 33% si fermava al secondo, insomma non raggiungeva il livello del terzo questionario al di sotto del quale ci sono l'analfabetismo oppure un enorme difficoltà a comprendere ciò che si legge in una tabella, su un avviso pubblico, in un giornale».
L'Italia come l'ex colonia portoghese dell'Africa occidentale. Partiamo da questo dato che non dovrebbe consentire sonni tranquilli a quanti hanno responsabilità di governo per capire cosa può essere accaduto, professore. Verrebbe da dire: la scuola non funziona. «Se la scuola italiana non funzionasse avremmo ancora oggi lo stesso analfabetismo primario degli anni Cinquanta. Arrivava a sfiorare il 40% della popolazione ma poi, grazie all'istruzione generalizzata, si è progressivamente contratto fino a ridursi nel 2001 a meno di due punti percentuali, come risulta dall'ultimo dei censimenti che l'Istat conduce con cadenza decennale.
Non dimentichiamo che la scuola elementare italiana, secondo gli studi comparativi Ocse, si colloca nel mondo tra l'ottavo e il quinto posto. Diversa la situazione delle superiori. In Italia, a differenza degli altri stati europei che hanno lavorato a fondo per riorganizzare i corsi, non è passata una sola riforma. Siamo ancora al 1925».
«Qualcosa — continua il professore — la povera nostra elementare comunque ha fatto, anche se ricorrono titoli di saggi sulla disfatta della scuola. Il fatto è che era e resta l'unica a combattere sul fronte dell'analfabetismo in un panorama desolante, dove mancano le biblioteche, i dati sulla lettura sono catastrofici e manca un sistema di educazione per gli adulti».
E qui dobbiamo fare i conti con la regola dei cinque anni, ben nota a quanti, cominciando dall'Unla, si battono contro l'analfabetismo. «Accade dappertutto — dice ancora De Mauro —. Se in età adulta non esercitiamo le competenze acquisite a scuola regrediamo di almeno 5 anni. Il nostro analfabetismo è una sconfitta della società, non della scuola. Se proprio dobbiamo scoprire l'assassino, questo è la mancata educazione degli adulti».
«Negli altri paesi europei e negli Usa — spiega il linguista — ogni anno tra il 60 e l'80 per cento della popolazione frequenta un corso di uno o tre mesi per aggiornarsi professionalmente o culturalmente: dall'astronomia alla lingua straniera. Un sostituto fai da te, in Italia, potrebbe essere un centro di lettura. Noi abbiamo illustri biblioteche di conservazione ma pochissime biblioteche di quartiere. Nei nostri 8000 comuni ne esistono solo duemila concentrate a Roma e Milano. A Roma, per una popolazione di circa tre milioni di abitanti, ce ne sono 20».
Come avvicinare i cittadini al piacere della lettura e dell'aggiornamento? «Il linguista russo Roman Jakobson diceva che il gusto del gorgonzola non può essere spiegato con le parole del vocabolario, va mangiato e basta. Bisogna cominciare a fare qualcosa. Qualche buon esempio non manca. Ricordo un'iniziativa organizzata dal comune di Scandicci in tema di formazione permanente degli adulti alla quale ha partecipato anche Roberto Benigni. Servono tanti buoni centri culturali permanenti dove sia possibile imparare l'informatica o la topografia, l'inglese o la statistica. L'importante è che non ci sia scritto: scuola per analfabeti».

Repubblica 6.9.08
Scuola, la rivolta contro il maestro unico
Assemblee e petizioni, precari in piazza il 27 settembre: ci rubano il futuro
Sindacati e genitori pronti alla mobilitazione. I Cobas: sciopero il 17 ottobre. La Sicilia: diremo no ai tagli
di Mario Reggio


ROMA - Assemblee nelle scuole, volantinaggi, raccolte di firme. Insegnanti e genitori si mobilitano contro il ritorno del maestro unico alle elementari ed il taglio di 87 mila cattedre nei prossimi tre anni. I Cobas stanno preparando un fitto calendario d´iniziative: il 27 settembre a Roma convegno nazionale dei precari, il 17 ottobre sciopero nazionale e manifestazione nella Capitale. E davanti alle scuole, il giorno d´inizio delle lezioni, mobilitazione "frozen", in italiano congelamento: gli insegnanti si sdraieranno in strada per simulare la morte della scuola pubblica. Anche la Cgil sta affilando le armi: ieri, assieme a Cisl e Uil, a Venezia ha affittato cinque vaporetti che sono sfilati davanti alla Mostra del Cinema per protestare contro i tagli nella scuola e la politica del ministro Brunetta, vessillifero della crociata governativa contro i fannulloni nel pubblico impiego. Domani sempre a Venezia, in occasione della Regata, storica verranno stesi lungo il Canal Grande quattro striscioni dei confederali sui temi della scuola e dell´università. Per il ministro Mariastella Gelmini non sarà un autunno tranquillo. L´idea di tornare al maestro unico alle elementari, rassicurando che il tempo pieno non verrà toccato, anzi potenziato, non convince il mondo della scuola e molti genitori. Padri e madri degli oltre 850 mila bambini che frequentano le elementari statali dalle 8 e mezza di mattina alle quattro e mezzo di pomeriggio. Ma non sono solo le organizzazioni sindacali a protestare. Il segretario regionale del Movimento per l´Autonomia Lino Leanza, il partito del presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo, ha annunciato: «Ci opporremo ai tagli previsti dal ministero della Pubblica Istruzione. Saremo al fianco di docenti, studenti e sindacati per le grandi mobilitazioni già previste alla ripresa dell´anno scolastico e per tutto l´autunno. Dopo le sue poco felici dichiarazioni sulla qualità dell´istruzione in Sicilia - conclude Leanza - adesso la Gelmini conferma i timori paventati, tagliando 2.500 insegnanti e 160 non docenti, e di questo passo la Sicilia perderà nei prossimi tra anni 15 docenti».
Insorgono anche i sindaci dei piccoli Comuni: «I sindaci sono giustamente preoccupati - si legge in un comunicato della Lega autonomie - dal progetto di accorpamento per molte scuole elementari nei territori collinari e montani, con gravi disagi per gli studenti che già a sei anni si troveranno nella condizione di pendolari. E i costi ricadranno sulle famiglie e le casse dei Comuni che dovranno organizzare i servizi di scuola bus».
Ma serve davvero tornare al maestro unico? «È una vera patacca ad uso e consumo dell´opinione pubblica, una pura operazione di propaganda - commenta Benedetto Vertecchi, ordinario di Pedagogia Sperimentale a Roma Tre - quando tenteranno di farlo si accorgeranno che anziché degli attuali tre, i maestri diventeranno cinque». Ecco la spiegazione: «Il maestro unico dovrebbe essere competente ed in grado di insegnare la lingua italiana, le norme sul traffico, la salute, la matematica, le scienze, la geografia - afferma Vertecchi - e chi lo dice sarebbe un ciarlatano. Allora dovranno trovare altri maestri che siano in grado di insegnare una lingua straniera, la musica, la ginnastica e coprire l´ora di religione. In tutti i Paesi moderni esiste un sistema di presenze multiple di insegnanti, perché a differenza di 30 o 40 anni fa la società è mutata e le conoscenze si sono moltiplicate. Leggere, scrivere e far di conto non basta più».

Repubblica 5.9.08
Dopo le polemiche sulla morte cerebrale siamo andati tra i medici anestesisti. Ecco i loro racconti sulla fine della vita
L’ultimo minuto. Quando la vita finisce
di Maurizio Crosetti


Mentre la morte cerebrale continua a far discutere, i medici anestesisti raccontano il momento delicato del passaggio dall´esistenza alla morte Come avviene e, soprattutto, come spiegarlo alle famiglie che spesso non sono preparate al distacco
"Il vero problema è l´ignoranza, è non sapere di cosa stiamo parlando", spiega il primario
"In tutti questi anni non ho trovato un solo individuo che non abbia capito"

TORINO. Forse la morte abita dentro questo schermo di computer che il professore mostra con delicatezza, voltandolo un po´: è un arcipelago di isole blu notte, appena cerchiate di un pallido azzurro. «L´azzurro è l´ossigeno, vede, ormai è solo all´esterno del cervello, tutto il resto non esiste più». Da quell´arcipelago non si torna: è la morte cerebrale vista da una "spect", vale a dire una scintigrafia (liquido di contrasto, immagine, verdetto). Il professor Pier Paolo Donadio, primario di anestesia e rianimazione all´ospedale Molinette di Torino, non ha dubbi: «Io non sono un filosofo e neppure un teologo, pur essendo un credente. Non so cos´è la morte, ma so quando è avvenuta. E so cosa dice la legge, per la quale la morte cerebrale è "cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell´encefalo". Una condizione dalla quale non si riemerge, mai».
Un cervello che muore, un corpo che ancora pulsa ma solo perché lo fanno pulsare le macchine, il respiratore, i farmaci. I parenti che aspettano la risposta tremenda, un medico che è testimone infallibile, a presidio di quell´ultimo confine come una sentinella che ha combattuto, più spesso ha vinto («La rianimazione è un luogo di vita, qui si salvano sette, otto persone su dieci») e qualche volta ha perso. Ma dove abita la morte, professore? «Nel cervello. Il quale si gonfia, per un trauma o una malattia, e la pressione non lascia più entrare sangue e ossigeno. Dopo venti minuti circa, le cellule muoiono e marciscono. L´encefalo si disfa, diventa poltiglia e siamo di fronte a un cadavere che respira artificialmente, però un cadavere senza dubbio».
Gli ultimi istanti di una vita sono quasi sempre preceduti da quella che tecnicamente si chiama "tempesta neurovegetativa": è il momento in cui, in un certo senso, il cervello si rifiuta di morire anche se è già quasi morto. È il punto di non ritorno che il medico rianimatore segue e accompagna, avendo prima tentato tutto il possibile per evitarlo. «È l´ultima scarica di adrenalina, manifestata da un picco di segni: alterazione del ritmo cardiaco, ipertensione, una sorta di estrema codata del pesce ormai quasi senza ossigeno». Da lì in avanti si è morti anche se non lo è il cuore, non ancora.
Nell´ufficio del professor Donadio c´è una macchinetta per l´espresso. «Porto qui i parenti, preparo il caffè e accendo il computer». Ecco l´arcipelago della morte blu. «Parlo con loro, spiego con le immagini e mi rendo conto di quanto sia difficile accettare non dico la fine, ma la fine di un corpo che è ancora caldo, che sembra solo dormire, che fa la pipì. Duemila persone sono in quello stato ogni anno in Italia, 200 mila nel mondo e mai nessuno si è svegliato, perché è impossibile».
Cosa succede quando il medico deve scostarsi e far passare la fine? Come la certifica? Come ne prende atto, senza tema di smentita? «Ogni malattia cerebrale, così come ogni malattia, ha una storia clinica. Io la conosco e parto da lì. Poi verifico l´assenza di determinati riflessi. Illumino l´occhio, e la pupilla non si restringe. Tocco la laringe, e niente tosse. Verso dell´acqua gelata nel timpano, e l´occhio resta immobile. Oltre, naturalmente, all´assenza di respiro spontaneo. L´osservazione di questi dati dura sei ore e viene ripetuta per tre volte. Si effettuano gli elettroencefalogrammi e i riflessi del tronco, lo fanno il rianimatore, il neurologo e il medico legale. Se è il caso si procede alla scintigrafia, ma certamente il percorso è segnato. Una cosa diversissima dal coma, dove il cervello non funziona ma è ancora vivo. Qui, lo ripeto, si tratta di cadaveri».
Torniamo per un momento davanti alla macchinetta del caffè. La luce del giorno entra filtrata, qui al terzo piano, nello studio del primario. Un pacchetto di Gauloises sulla scrivania, le foto della moglie e dei tre figli alle pareti, un crocifisso, un´icona. Sulle sedie, i parenti di quel cadavere che ancora respira. Capiranno? Perché in quei momenti si parla anche di donazione d´organi. «In tutti questi anni non ho trovato un solo individuo che non abbia capito, poi elaborare il lutto è un´altra faccenda. Mi chiedono se il loro caro è morto davvero, se è stato fatto il possibile e se c´è trasparenza nell´assegnazione degli organi, in caso di eventuale donazione. Le tre risposte sono altrettanti sì. Al massimo, il parente dice: aspettiamo il miracolo. E io pacatamente rispondo, da credente tra l´altro, che il miracolo non contempla la resurrezione».
In quella terra di nessuno che è la vita sospesa, in realtà una vita già morta che però mantiene alcuni preziosissimi organi, si inserisce il gigantesco tema dei trapianti. Che in Italia nel 2007 sono stati 3.020, per un totale di 1.084 donatori. Il dottor Riccardo Bosco, anestesista, è il responsabile del coordinamento prelievi della regione Piemonte. «Abbiamo una rete di coordinatori locali, specialisti che si occupano di donazioni e dei rapporti con le famiglie dei defunti. Prima di tutto, però, conta la formazione: e noi la facciamo per il nostro personale, compresi i centralinisti e gli addetti alle pulizie». Le ultime polemiche sulla morte cerebrale vi complicheranno il lavoro? «È presto per dirlo. Di sicuro dovremo informare sempre meglio, usando anche quel grande strumento che è Internet». Navigando nel sito "www. donalavita. net" è possibile saperne di più.
«Lo confermo, le persone che puliscono le nostre sale operatorie sanno perfettamente cos´è la morte cerebrale». Maurizio Berardino, camice celeste (è appena salito dal reparto) è il primario di rianimazione della neurochirurgia delle Molinette. Anche lui, ogni giorno, sentinella sul confine della morte. «La quale, non ho dubbi, abita là dove non si può tornare indietro. Il cuore è un muscolo, il cervello è la sede della nostra identità biologica. La morte cerebrale non ci coglie mai di sorpresa, è un evento atteso che si sviluppa con passaggi segnati e prevedibili, non è un arresto cardiaco. Ma questi reparti non sono l´anticamera dell´obitorio, qui si salvano migliaia di persone e si lotta per garantire la qualità della vita migliore possibile a chi sarà dimesso. Il vero problema è l´ignoranza, è non sapere di cosa stiamo parlando. In fondo, la medicina è fatta di cose semplici». Ma la morte, dottore, la morte del cervello si vede arrivare? «È quell´ultima scarica di adrenalina, è quella tempesta. Il problema diventa raccontarlo alle famiglie, dando loro il tempo di abituarsi all´idea. Spesso bastano quarantotto ore, altre volte non sarà sufficiente un´intera vita».
Macchine che soffiano come il respiro, monitor che pulsano con gentilezza. Ma poi cosa succede, professor Donadio? Come si varca la soglia ultima, un minuto dopo le sei ore di osservazione? «In quel momento, il medico è di fronte a un preparato biologico dagli occhi in giù. Faccio sempre un esempio: quando muore una nonna in corsia, mica si tiene la flebo nella vena, dopo. Per la morte cerebrale è lo stesso: si staccano i tubi». A quel punto, l´ultimo secondo di vita del cervello è già trascorso, non quello del cuore. «Io spengo il monitor. Perché mi sembra un´inutile agonia anche visiva, quell´onda elettrica sul monitor che perde il passo». Siamo alla fine, adesso sì. «Il cuore, anche senza il respiro continua a battere di norma per cinque o sei minuti, che nel caso dei giovani possono diventare venti. Ma quella, da molte ore non era più una persona viva». Perché poi l´ultimo passo è sempre il penultimo. Restano ben vivi coloro che soffrono la perdita. Resta il dovere e il bisogno delle parole per dirlo, per rispondere e chiarire, per confortare. «Però le persone capiscono. Io gli voglio bene, ma bene sul serio, e loro lo sanno».

noi medici sappiamo che quando il cervello non risponde più agli stimoli non c’è più nulla da fare
Repubblica 5.9.08
Un medico e gli ultimi istanti di un paziente
Il nostro dolore tra quei corpi spenti
di Carlo Alberto Defanti


Il camice bianco non è una corazza che mette al riparo i medici dalla sofferenza. Assistere agli ultimi momenti di vita di un paziente ti commuove, ti tocca dentro. Profondamente. Quando ti rendi conto che la fine è vicina, che il paziente sta attraversando quella soglia dalla quale non si torna, si prova dolore. E, insieme, ai parenti, si accompagna il malato agli ultimi istanti della sua vita. Ma c´è una morte che la gente fa fatica ad accettare. Ed è la "morte cerebrale". Sì perché questa morte è qualcosa di invisibile, che non tocchi con mano. Nella nostra testa, un morto è un cadavere immobile, freddo e privo di vita. Ma la "morte cerebrale" è paradossale. Sì, perché quel corpo è caldo e respira grazie alle macchine. Così la gente pensa e spera che da un momento all´altro quella persona possa risvegliarsi e tornare a vivere. Ma noi medici sappiamo che quando il cervello non risponde più agli stimoli e si spengono i riflessi del tronco cerebrale, non c´è più nulla da fare.
La scienza è una cosa e quel che crede la gente un´altra. Io che sono neurologo, anni fa fui chiamato a consulto dai familiari di una giovane ricoverata in coma, in rianimazione. Loro si aspettavano il salvatore, l´uomo dei miracoli. Ma quando, con delicatezza, spiegai che non c´era più nulla da fare, confermando la diagnosi dei miei colleghi, se la presero con me, diventarono aggressivi. Certo, è difficile sopportare l´idea che una persona cara, magari tuo figlio o tua madre, con il corpo ancora caldo, apparentemente solo in coma, sia di fatto morta. Ma la scienza, i medici, hanno gli strumenti per valutare la situazione. Le sei ore di osservazione dopo la "morte cerebrale" che servono a captare anche la più debole traccia di vita, sono una garanzia per tutti.
È arduo il compito dei medici che devono spiegare ai parenti queste cose. I rianimatori che lavorano in prima linea, non solo devono dare il triste annuncio ai parenti, ma spesso devono poter chiedere il consenso anche per il prelievo degli organi. Organi che servono per dare vita ad altre persone. Ma la richiesta, a volte, è vissuta dai parenti come un atto predatorio. Sono nel pieno di una tragedia familiare e non vogliono sentire altro.
Le polemiche e gli scontri cessano invece quando il paziente si avvia verso la morte dopo una malattia cronica, che debilita e segna, giorno dopo giorno, il suo fisico. Quando la medicina era orientata in senso tradizionale, era cioè volta unicamente alla cura della malattia, il medico si sentiva impotente di fronte al malato senza speranze e spesso aveva con lui un rapporto formale e distante. Gli prescriveva i farmaci e basta. Oggi non è più così. Da quando abbiamo adottato le cure palliative e ricorriamo di più alla morfina, che allevia il dolore, noi medici riusciamo a stare a fianco del malato sino alla fine. Io, personalmente sono per dire sempre la verità al paziente. E se un malato, in fase terminale, mi dice: "Dottore, sento che sto per morire", io non gli rispondo "ma non è vero, cosa dice". Mentire è sbagliato e preferisco dire: "Stai sereno, io ti starò sempre vicino, non sarai solo". E allora stare al letto del malato, accarezzargli un mano quando occorre, dare conforto ai suoi parenti diventa un modo per affrontare la morte con più serenità. Perché è qualcosa a cui si va incontro in maniera consapevole. Diverso è il trauma, l´incidente, che, all´improvviso, trascina una persona verso il coma irreversibile, con la "morte cerebrale" che sopraggiunge e con i parenti attorno a lui sconvolti e increduli di fronte alla tragedia. La morte invisibile li ha privati di una persona cara, i medici confermano che non ci sono più speranze ma loro non si vogliono arrendere. È una reazione molto umana questa ma la "morte cerebrale" c´è, esiste, si misura scientificamente e va spiegata con tutta la delicatezza possibile ai parenti. Io personalmente, non sono lontano dalle posizioni di Lucetta Scaraffia, autrice dell´articolo sull´Osservatore romano che ha sollevato la polemica sulla morte cerebrale: è vero che noi medici dovremmo poterci confrontare e aggiornare sul concetto di morte cerebrale, elaborato 40 anni fa. Questo però senza mettere in forse i trapianti.
L´autore, neurologo, ha scritto il libro "Soglie, medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri)
ed è stato il neurologo di Eluana Englaro
Testo raccolto da Laura Asnaghi

l’Unità 3.9.08
40 anni fa
Con il rapporto Harvard nacque la morte cerebrale


Il 5 agosto 1968 la prestigiosa rivista «Journal of the American Medical Association» (Jama) pubblica il documento della Harvard Medical School che riconosce il criterio della morte cerebrale. Coma, perdita irreversibile di qualsiasi funzionalità cerebrale, impossibilità di una respirazione autonoma: sono questi i criteri che quarant’anni fa spostarono il concetto di morte di un individuo dal cuore al cervello. Prima di allora, la morte veniva diagnosticata usando criteri cardiologici.
Il rapporto di Harvard, invece, ha stabilito che la fine della vita è definibile con la morte di tutto il cervello, stabilendo dei criteri ancora oggi attuali. Il documento è considerato dalla maggioranza degli esperti uno «spartiacque» per la medicina, rivestendo un’«importanza storica» per i trapianti d’organo, visto che la morte cerebrale è la condizione essenziale per procedere al prelievo.
Prima dello storico rapporto di Harvard, la vita finiva quando il cuore cessava di battere. Dopo questo documento spartiacque, la fine è decretata con la morte di tutto il cervello, quando cioè si verificano tre condizioni: il coma, la perdita irreversibile di qualsiasi funzionalità cerebrale e l’impossibilità di respirazione autonoma.

Perché «Psiche»?
«Psiche come interiorità del nostro pensiero. Nella canzone omonima, quasi tutta strumentale, ho cercato di immaginare la psiche che illumina la mia scrittura, difatti l’ho paragonata ad una lampada araba. Araba perché mi riferisco all’influenza di grandi pensatori come Averroè ed Avicenna»
l'Unità 6.9.08
Conte: «Sotto le stelle del jazz oggi c’è il gelo»
di Silvia Boschero


MUSICA Con un concerto parigino insieme a band e a un’orchestra Paolo Conte ha lanciato il suo cd «Psiche»: a sorpresa è un album avaro di tonalità jazz ed è invece venato di elettronica. «Mi sono buttato con spensieratezza nei suoni sintetici»

È uno spazio rutilante di personaggi, avventure, romanticismi e luoghi immaginari. È un quadro dalle tinte forti, niente pastelli. Stavolta Paolo Conte ha steso le tempere con mano pesante, ha usato i colori primari, incendiandoli in una tela che porta il nome di Psiche, il suo nuovo disco di inediti in uscita internazionale il 19 settembre. È a Parigi per presentarlo, in una piovosa giornata che anticipa sorprendentemente l’autunno, a un passo dall’Arco di Trionfo e dalla sala Pleyel, che lo attende per l’anteprima dell’album; la prima parte con la band, aperta da Hemingway e il brano più pop del cd Il cerchio, e la seconda, avviata da Psiche e il classico Dancing, accompagnato dall’Orchestre National Ile-de-France diretta da Bruno Fontane. «Fanno sempre le cose in grande qui. Però l’esperimento può essere ripetibile anche altrove, a patto che si trovino spazi adatti», sorride sornione. Intanto sarà in tour in Italia (14-19 ottobre allo Smeraldo di Milano, 18-23 novembre al Sistina di Roma). Psiche è l’ennesimo viaggio immaginifico del nostro Kipling della canzone d’autore. È popolato di un’umanità varia: pellerossa, trasformiste slave del circo, casanova, lampade arabe, donne misteriose inseguite o che fuggono sinuose. E soprattutto c’è musica e arrangiamenti che non ci aspettavamo: poco, pochissimo jazz, e un nuovo esperimento con l’elettronica.
Ci sorprende signor Conte…
«È stata una scoperta tardiva la mia, devo ammetterlo. Mentre tanti lo facevano molto tempo fa, ero scettico. Ora invece anche nella gomma ho trovato qualcosa di poetico e mi sono buttato con spensieratezza nei suoni sintetici, neutri, artificiali».
Lei mette da parte il jazz in un momento in cui in Italia questo genere vive una grande rinascita. Lei lo ascolta?
«No, anche perché mi sto interrogando se questo di cui parliamo sia jazz o meno. Il jazz che amo non è quello che sento oggi. Sicuramente sono migliorate le condizioni organizzative (ai miei tempi si cercava disperatamente una cantina per suonare davanti a quattro gatti), sicuramente ci sono degli ottimi strumentisti, molti dei quali vengono dal Conservatorio (ai miei tempi invece eravamo tutti dilettanti), così come si sono sviluppati questi festival cosiddetti di jazz che poi stanno in piedi grazie a qualcos’altro. Ma… è finito qualcosa, lo spirito con cui il jazz è partito. È come se si fosse voluto combatterlo, combattere il suo romanticismo fino a farlo diventare freddo, gelato e con un vizio. Quello di voler affermare continuamente se stesso».
Venerdì esce il cd «Conte plays jazz» che ripesca le sue scorribande nel jazz da ragazzo assieme anche a Bruno Lauzi. Che jazz facevate?
«Di che disco parla? Ah, non ne ero al corrente! Queste case discografiche hanno sempre qualcosa da tirar fuori al momento giusto! Comunque non è che facessimo jazz. Lui in una session registrò degli standard e mi chiamò a suonare il vibrafono. Era molto tempo fa»
Perché «Psiche»?
«Psiche come interiorità del nostro pensiero. Nella canzone omonima, quasi tutta strumentale, ho cercato di immaginare la psiche che illumina la mia scrittura, difatti l’ho paragonata ad una lampada araba. Araba perché mi riferisco all’influenza di grandi pensatori come Averroè ed Avicenna».
C’è una regia, un canovaccio dietro alle storie e ai personaggi?
«No, sono un compositore vecchia maniera, non studio nulla a tavolino, non faccio strategie. Poi però, stranamente, i personaggi che disegno finiscono per imparentarsi senza che me ne sia accorto. Il fatto è che tutte le mie canzoni sono una sorta di affreschi pittorici, sono immagini…»
Come sempre nei suoi dischi, non c’è aderenza esplicita con l’oggi, il presente. Del futuro invece non parla mai?
«Credo che noi artisti siamo già proiettati per nostra natura nel futuro. Ma non credo sia necessariamente una qualità. Anzi, talvolta può essere sbagliato arrivare un attimo prima».
In Italia ai cantautori (a patto che possa chiamarli così) non si perdona mai la «non-appartenenza» politica. A lei sì. Come lo spiega?
«Ce ne ho messo a convincerli… Alla fine hanno capito che ero in buona fede, che ciò che mi interessa è il rispetto per l’arte. L’arte non va accesa con altre fiamme, perché l’arte stessa in modo invisibile già comunica i suoi significati».
Nell’album ci sono canzoni d’amore spassionato (come l’intensissima «L’amore che», scelta per la scaletta del concerto sinfonico) o l’enigmatica e altisonante «Leggenda e popolo». Sembra che lei, signor Conte, abbia perduto qualche inibizione…
«È vero, stavolta mi sono lasciato andare. Mi son detto: perché contenermi sempre? Ed ecco ad esempio Leggenda e popolo, un pezzo sulla donna, o sulla madonna, o sulla patria, non so, ma sicuramente un pezzo esagerato, così come è esagerato il romanticismo di L’amore che…»
C’è anche un brano dal titolo «Danza della vanità». Conte, lei è vanitoso?
«Non lo escludo. Ogni tanto una bella cravatta o un buon profumo me li concedo. Ma è per sedurre me stesso, allo specchio».