lunedì 8 settembre 2008

l’Unità 8.9.08
Leggi razziali
Non si gioca con la Storia
di Nicola Tranfaglia


È difficile crederlo. Ma Gianni Alemanno, vincitore delle elezioni di aprile e nuovo sindaco di Roma si è dimostrato più fascista del capo di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini. Questi, cinque anni fa, in visita a Gerusalemme, aveva parlato del fascismo come epoca del «male assoluto». Per Alemanno (diventato, grazie ad alcuni dirigenti della comunità ebraica di Roma, vicepresidente della Fondazione del Museo della Shoà fondato nella capitale) le cose non stanno così.
In un’intervista al Corriere della Sera di ieri definisce le leggi razziali come il «male assoluto» ma, nello stesso tempo, giudica il fascismo «un fenomeno più complesso». Se il regime mussoliniano adottò quelle leggi, dice in sostanza Alemanno, fu per un cedimento alla Germania nazista e non in conseguenza di un carattere essenziale dell’Italia fascista.
Per gli studiosi, non solo italiani, le dichiarazioni del sindaco di Roma corrispondono a una visione del fascismo che non ha un effettivo fondamento storico. Chi conosce, sulla base dei documenti a disposizione, la nascita e l’evoluzione del movimento fascista non può avere oggi la visione semplicistica e assolutoria che ci propone il sindaco di Roma.
Innanzitutto ad Alemanno occorre ricordare che una corrente antisemita c’è sempre stata nel movimento fascista dagli anni dell’esordio. Un personaggio come Giovanni Preziosi, direttore della rivista antisemita La vita italiana e negli ultimi anni esponente importante del fascismo trionfante e poi della Repubblica Sociale Italiana, ha militato sempre nel movimento mussoliniano e ha detto con chiarezza fin dagli anni venti che cosa pensava degli ebrei.
In secondo luogo, la campagna di discriminazione razziale non incomincia in Italia nell’ottobre 1938 ma parte, sul piano culturale, almeno quattro anni prima con la circolare di Mussolini del 3 aprile 1934 sulla censura e il sequestro dei libri proibiti: il primo libro sequestrato è il romanzo Sambadù amore negro della scrittrice Maria Volpi alias Mura che mostrava in copertina un’italiana che baciava un africano nero.
L’inizio punta, insomma, sul contrasto tra neri e bianchi che, con l’impresa di Etiopia, provoca decreti razzisti di discriminazione nella nuova colonia italiana che è all’origine dell’impero fascista.
Quanto al 1938, l’Italia fascista anticipa e precorre con le sue leggi razziali la legislazione nazionalsocialista, introducendo divieti e misure che escludono drasticamente dalla società italiana tutti gli ebrei.
Ma, a parte quella che è una ricostruzione, sia pure sintetica, della vicenda italiana che sfocerà qualche anno dopo nella Shoà consumata nell’alleanza con Hitler, ha senso staccare la storia del fascismo da quella del razzismo antisemita?
A nostro avviso non ha nessun senso perché il legame tra fascismo e antisemitismo ha percorso dall’inizio l’evoluzione del movimento mussoliniano e ne ha segnato in maniera tragica la terribile conclusione. In tutta l’Europa dove il fascismo non ha vinto non abbiamo mai assistito a fenomeni di razzismo e antisemitismo paragonabili a quelli dell’Italia fascista e della Germania nazista. E dunque non si può liquidare il fascismo come «un fenomeno più complesso» e non sottolineare il legame tra i due fenomeni. Nè ha senso alcuno difendere il fascismo come se nulla avesse a che fare con l’antisemitismo né liquidare quelli che vi aderirono parlando della loro supposta buona fede.
Alemanno, sempre nell’intervista al Corriere della Sera, non nega di portare sul petto la catena con la croce celtica e si ostina a parlarne come di un simbolo esclusivamente religioso quando l’esperienza storica del Novecento sa bene che quello fu un simbolo dei movimenti fascisti e, in particolare, del nazionalsocialismo.
Reticenze e piccole ambiguità, insieme ad errori storici di fondo, poco si addicono, mi pare, a chi in questo momento è sindaco di una grande capitale come Roma.

l’Unità 8.9.08
Il valore della memoria
di Tobia Zevi


Fascismo, leggi razziali, Olocausto. Termini che vengono continuamente evocati - nel dibattito culturale come nella polemica politica - ma a cui non sempre si è in grado di attribuire il giusto significato. Le dichiarazioni di Alemanno da Israele, che vogliono attenuare quelle di Fini sul fascismo (definito «male assoluto»), inducono a riflettere sul tema della memoria, soprattutto nell’ottica delle nuove generazioni.
Tra le tante ragioni che rendono questa discussione urgente, ce ne è una “tecnica”: anno dopo anno si riduce il numero dei sopravvissuti, ed il testimone passa necessariamente nelle mani di persone che non furono investite direttamente dalla tragedia, e che quindi hanno verso quest’ultima un atteggiamento critico e mediato.
Negli ultimi anni si è assistito ad un proliferare di manifestazioni pubbliche sulla Shoah. Eventi istituzionali, arricchiti dal lavoro prezioso portato avanti nelle scuole da presidi e docenti spesso assai motivati e preparati. Si può affermare che i giovani sono stati interessati da una mole di iniziative sull’Olocausto, favorite dallo spazio che i media dedicano al tema per la Giornata della Memoria (27 gennaio, legge dello Stato). Ovviamente, se da questo punto di vista possiamo essere soddisfatti, conviene però interrogarsi sull’efficacia di questo lavoro, messa seriamente in discussione dalle inchieste che periodicamente evidenziano l’enorme ignoranza dei ragazzi sulla storia di quegli anni.
Almeno tre sono a mio parere i punti critici. In primo luogo è lecito domandarsi se il carattere istituzionale delle manifestazioni pubbliche non allontani da una percezione individuale, empatica e tragica dei fatti narrati. Mentre il contatto con i sopravvissuti consente ai giovani una immedesimazione sincera con le vittime, ciò non sempre accade nelle cerimonie “consacrate”. D’altra parte è opportuno ragionare anche sulla figura del testimone, come ha tra gli altri mirabilmente fatto Annette Wievorka. L’urgenza di avvalersi il più possibile - e giustamente - della disponibilità dei sopravvissuti, li ha però resi assolutamente preponderanti. Alla significativa presenza di ex-deportati nelle scuole non ha fatto riscontro un approfondimento della vicenda storica, delle cause che condussero alla tragedia e delle varie e molteplici responsabilità che la resero attuabile.
E proprio la dimensione delle responsabilità mette in luce il terzo pericolo fondamentale, evidenziato dalle parole del sindaco di Roma. Nel tentativo di edulcorare a fini politici un’epoca - ai postfascisti viene chiesto conto solo dell’antisemitismo, e non del carattere autoritario e dittatoriale del Ventennio - si contribuisce a distogliere l’attenzione da quelle che furono le colpe reali. Si cerca di scaricare interamente sui nazisti il peso della Shoah o a ridurre la portata razzista del colonialismo italiano, invece di indurre i giovani a porsi la domanda più importante: cosa avrei fatto io non al posto della vittima, ma della persona qualunque? Perché è doveroso ricordare i “giusti”, coloro che eroicamente misero a repentaglio la propria vita per salvare esseri umani senza chiedere nulla in cambio; ma non si può omettere che solo dodici (12!) furono i professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al regime, unici a non preoccuparsi esclusivamente della propria carriera accademica. Anche questo fu il degrado etico e culturale che chiamiamo fascismo, frutto di vent’anni di asservimento intellettuale e di privazione della libertà.
Una memoria che sappia guardare al futuro, dunque, una memoria per i giovani, non può essere un monumento, un cristallo: deve essere attualizzata e declinata ogni giorno per i diritti e le libertà di quanti oggi, nel mondo, soffrono persecuzioni ed ingiustizie. Solo se, ragionando sul passato, ci si muoverà con questa stella polare, noi giovani saremo nella condizione di rispondere efficacemente alla più decisiva delle domande: che cosa avrei fatto io? E, dunque, cosa posso fare oggi?

l’Unità 8.9.08
Epifani contro Gelmini: «È la peggiore legge sulla scuola»
Bossi contro Gelmini: «Per fare il ministro bisogna aver insegnato. Prima il federalismo e poi la cambiamo»
di Oreste Pivetta


PROTESTE Mentre la professoressa Gelmini illustrava la sua ricetta (tagli, efficienza, meritocrazia) per cancellare qualche decina di migliaia di maestri delle scuole elementari, senza mai sprecare una sola parola per chiarire quali siano i suoi riferimenti pedagogici a parte Reggio Calabria (chi sceglierebbe insomma tra Montessori, Codignola, Borghi... o Rudolf Steiner, l’inventore delle scuole frequentate dai figlioli del nostro presidente del consiglio), in un altro lato del guardino di Villa d’Este, per il Workshop Ambrosetti, Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, pronunciava parole forti, dopo quelle caute sui contratti, a proposito della nuova riforma scolastica: «La più grave - diceva Epifani - tra le scelte fatte finora dal governo». Con una conseguenza: una protesta molto estesa tra le famiglie. Alla vigilia dell’anno scolastico. «Il ritorno al maestro unico sta generando preoccupazione tra i ragazzi e nelle famiglie. È un problema serio - aggiungeva Epifani - e costituirà il punto di una protesta molto estesa perché sapere se un bambino può restare a scuola dalle 8 di mattina alle 16.30 o meno è una questione che riguarda la vita e la condizione delle famiglie». E finalmente reintroduceva nella discussione il concetto di qualità: «La scuola non può vivere in logiche solo quantitative e dove la qualità non conta mai».
La Gelmini con lo sguardo fisso ripeteva ai più svariati microfoni la stessa solfa: la scuola non è il parcheggio dei disoccupati, la scuola non è un ammortizzatore sociale, il merito in prima linea, non toccheremo il tempo pieno, voglio una scuola con meno professori. Poi via libera all’orgoglio gelminiano: «Questo è un governo rivoluzionario, un governo che vuole rivoltare la pubblica amministrazione come un calzino. Un governo che vuole eliminare gli sprechi e riformare il Paese». Infine la vendetta: «Veltroni non mi pare che abbia un curriculum scolastico per cui possa dare lezioni». Sì, è vero, Veltroni, che aveva ricordato come la Gelmini fosse andata «a fare gli esami per diventare avvocato dove è più facile farli», non è laureato. Walter Veltroni non è tornato sull’argomento. Ha parlato, invece, sottolineando l’assurdità della partenza: si comincia, mettendo mano ad una scuola, quella elementare, che ancora funziona bene. Una scuola, peraltro, fondamentale nell’arco della formazione di un bambino. Tagliare, senza alcuna riflessione sui metodi, sui contenuti: «Mentre sarebbe indispensabile un’idea complessiva di rilancio e il primo passo sarebbe motivare gli insegnanti e restituire sicurezza ai ragazzi».
La sua idea della scuola l’ha esposta anche il ministro Tremonti. Ha scelto una formula da supermercato: «Maestro unico, libro unico, voto». Poi s’è lasciato prendere dalla nostalgia, ricordando i bei tempi in cui il sillabario veniva conservato con cura e trapassato da fratello a fratello, da padre a figlio. Nostalgia non infondata: riveda il ministro le strategie delle case editrici, che cambiano i loro testi scolastici di una virgola, proprio per impedire il riciclaggio. Preso dall’entusiasmo per i tagli riformatori, Tremonti s’è infine lasciato andare ad un giudizio definitivo sulla scuola italiana: «Macchina distruttiva». Giudizio, purtroppo, esatto o quasi, soprattutto se si corre dalle superiori alle università, ai cepu, agli iulm, al degrado che ha coinvolto tanta parte dell’istruzione in Italia. Il ministro s’è fermato allo slogan, avrebbe avuto la responsabilità di indicare le cause di tanta rovina, perché una politica e una cultura di primordine non siano riusciti a dare risposte adatte alla nuova, inevitabile, domanda di scolarità di massa.
Le ore più «calde» della domenica però, per il ministro Gelmini, sono state quelle serali. Da Torino le arriva un attacco fortissimo da parte di Umberto Bossi. Nel corso di una manifestazione della Lega il senatur, dopo aver dichiarato che «un ministro dell’Istruzione deve essere stato prima come minimo un insegnante», ad una donna che lo invitava a «mandare a casa la Gelmnini», ha risposto: «Se comincio a mandare a casa un ministro è facile che si ingrippi il governo. Facci fare il federalismo figliola, poi ci pensiamo». Bossi ha infine aggiunto: «La scuola magari, la prossima volta, la chiederà la Lega, chi lo sa... ». Pronta la replica della Gelmini: «Sono stupefatta della confusione mentale di Umberto Bossi, che a metà agosto ha detto che tre maestri erano troppi e ne bastava uno perché serviva un riferimento unico. Il 7 settembre dice esattamente l’opposto. Si metta d’accordo con se stesso prima di parlare di scuola».

Repubblica 8.9.08
La titolare dell'Istruzione: sulla scuola 30 anni di politica irresponsabile
"Mi dispiace per i 200 mila precari ma il loro futuro non dipende da me"
di Mario Reggio


ROMA - Se non è una vera dichiarazione di guerra ci siamo vicini. Ieri, a Cernobbio, Mariastella Gelmini, da pochi mesi ministro della Pubblica Istruzione, ha lanciato un messaggio chiaro ai sindacati: «Per la scuola è finita un´epoca, non sarà più un ammortizzatore sociale se lo mettano in testa tutti, sindacati compresi se non vogliono risultare impopolari al Paese. Basta melina».
Anche se la Gelmini sa che Cgil, Cisl e Uil stanno affilando le armi contro gli 8 miliardi di tagli nei prossimi tre anni e la cancellazione di 110 mila insegnanti e 40 mila non docenti, ha deciso la linea dura. Ma si troverà di fronte anche i Cobas, che nella storia della scuola hanno spesso trainato la protesta. «Nella scuola c´è troppa ideologia, negli ultimi 30 anni la politica si è comportata in maniera irresponsabile, per troppi anni sindacati e governi compiacenti hanno ribaltato la missione della scuola - continua Mariastella Gelmini - che è fatta per gli studenti e non per pagare una cifra spropositata di stipendi che sono pure da fame, così come gli ospedali non sono fatti per pagare i medici ma per i malati». Passi per Luigi Berlinguer e Giuseppe Fioroni, ma chissà come reagirà Letizia Moratti.
L´atteggiamento è quello di una donna decisa, che non ha paura dei moti di piazza, perché è convinta che l´opinione pubblica sia dalla sua parte. Ma il tour de force al quale si è sottoposta comincia a far affiorare segni di stanchezza. Ogni tanto si toglie gli occhiali e si stropiccia gli occhi. Ma è giovane e a 35 anni le energie si recuperano in fretta.
Eppure il mondo della scuola è molto complesso, difficile da capire, e le riforme fatte dai "ragionieri" hanno il fiato corto, se non altro perché comprende un milione e trecentomila esseri umani, senza contare i quasi 200 mila precari che dovranno cercarsi un altro lavoro. «È un problema molto grave, ma è anche il frutto delle cattive politiche dei decenni passati - risponde Mariastella Gelmini - non dipende certo da me. Dovremo sforzarci di trovare nuove figure professionali dove inserirli».
Passano le ore e lo scontro frontale s´avvicina. Da domani, piano piano, riapriranno le aule, più di 7 milioni di studenti vivranno per la prima volta o proseguiranno un´esperienza storica e irripetibile nella vita: i professori, i libri, le paure, le interrogazioni, la noia, le gioie e le passioni della giovinezza. Scarse le speranze per il futuro. E che scuola troveranno? Una scuola nervosa, insegnanti pronti a spiegare ai giovani quanto le novità che si avvicinano saranno un vero tsunami.
Il ministro della Pubblica Istruzione sembra tranquilla: «L´opinione pubblica è con me, la politica irresponsabile del passato ha rubato il futuro ai giovani della mia generazione, ma sui cittadini italiani del 2020 non si deve scherzare. Il loro destino non può essere oggetto di bassa speculazione politica».
Ma è davvero così tranquilla? La storia racconta come Luigi Berlinguer, quando s´inventò la valutazione degli insegnanti, venne sonoramente sconfitto dalla piazza e questo gli costò caro. Letizia Moratti restò 5 anni, ma la dura opposizione di docenti e studenti sconfisse il suo progetto.
E poi, perché tutta questa fretta di mettere in campo misure così drastiche e traumatiche? «La scuola italiana è al collasso, anche io pensavo che si potesse intervenire con gradualità - risponde - invece non è possibile. È indispensabile agire subito. Le parole che si levano contro di me e il ministro Tremonti sono di chi vuole che nulla cambi e che la scuola rimanga un luogo che scontenta professori e studenti».

l’Unità 8.9.08
Eutanasia e aborto: Zapatero accelera, la Chiesa attacca
Sui due spinosi dossier istituiti comitati di saggi per mettere a punto le riforme. Il premier aumenta del 6% le pensioni minime
di Toni Fontana


A due mesi esatti dal 37° congresso del Psoe e due giorni da un importante appuntamento in Parlamento, Zapatero rilancia sui temi della laicità e apre un nuovo terreno di confronto con le gerarchie ecclesiastiche, sempre più allarmate. Nei giorni scorsi la più giovane delle ministre del governo di Madrid, l’andalusa Bibiana Aìdo, responsabile per l’Uguaglianza, aveva annunciato la costituzione di un comitato di saggi incaricato di individuare i criteri ai quali si ispirerà la nuova legge sull’aborto che l’esecutivo intende approvare e fare entrare in vigore «entro la fine del 2009». Ieri è sceso un campo il titolare del dicastero della Sanità, Bernat Soria che, in un’intervista a El Paìs, ha fatto sapere che la riflessione sull’eutanasia «è già aperta, ma ci vorrà tempo».
Anche in questo caso, come per l’aborto, i ministri di Zapatero non sembrano pressati dalla fretta e anche i dicasteri della Sanità e della Giustizia hanno riunito «un’équipe di esperti» incaricati di lavorare senza clamori e di riferire «in modo confidenziale». L’introduzione dell’eutanasia non è questione di settimane; il ministro ha spiegato che potrebbe avvenire «entro il 2012». Le due iniziative era attese. Il congresso del Psoe, che si è tenuto ai primi di luglio, aveva sancito una nuova svolta «izquierdista» di Zapatero e del gruppo dirigente. Aborto, eutanasia, rimozione dei simboli religiosi dai luoghi pubblici erano stati i tempi maggiormente trattati nell’assise e quelli che avevano attirato l’attenzione dei delegati. La svolta non aveva tuttavia convinto tutti anche tra coloro che sostengono il nuovo corso di Zapatero. La destra ha accusato il leader di puntare sulla laicità per far dimenticare le crescenti difficoltà economiche ed anche un quotidiano attento alle ragioni dei socialisti come El Paìs non ha lesinato le critiche al premier, incerto nella risposta alla crisi economica e contraddittorio sui temi della laicità (il programma del Psoe alle recenti elezioni non menzionava la questione dell’aborto). Tutti comunque, anche gli irritatissimi vescovi, concordano sul fatto che - come ha detto la vice di Zapatero, Maria Teresa Fernandez de la Vega - «l’attuale normativa è superata dagli eventi e in parte può risultare ambigua». Le ricette per superarla ovviamente divergono, ma anche i vescovi che si schierano, manco a dirlo, per una legislazione più restrittiva, pur attaccando Zapatero chiedono «il dialogo». L’attuale legislazione restringe l’interruzione della gravidanza a tre casi: stupro (12 settimane), «gravi tare psichiche o fisiche del nascituro» (22 settimane con parere del medico) e «grave pericolo per la vita e la salute psichica della madre» (senza limiti, ma con parere vincolante del medico). La maggior parte (oltre il 90%) degli aborti che avvengono in Spagna viene giustificato con la terza possibilità offerta dalla legge. Ciò ha scatenato le ire dei conservatori e ispirato alcune inchieste della magistratura che hanno visto molte donne sul banco degli accusati. Anche la legislazione sull’eutanasia è restrittiva. Attualmente le leggi spagnole riconoscono ai malati il diritto di rifiutare le cure, ma puniscono chi aiuta qualcuno a porre fine ai suoi giorni.
In un caso e nell’altro, cioè su aborto ed eutanasia, la Spagna di Zapatero avvia il dibattito, ma prevede tempi lunghi o comunque non brevi per individuare una soluzione. La stampa, con toni diversi a seconda degli orientamenti, rilancia il sospetto che il leader stia cercando di «depistare» il dibattito politico. Il leader però non si scompone. Mercoledì Zapatero parlerà dei temi economici al Congresso dove gli avversari lo stanno aspettando per attaccarlo. Ieri Zapatero ha rivendicato con orgoglio il lavoro fatto dal suo governo «di fronte alle difficoltà economiche» ed ha annunciato che entro il 2009 le pensioni minime saranno aumentate del 6% (del 25% entro il 2012). Zapatero ha soprattutto ribadito che, anche in presenza di una situazione economica sempre più preoccupante, il suo governo «continuerà a portare avanti politiche progressiste». In tal modo ha anche rimproverato il suo ministro del Lavoro Celestino Corbacho che aveva adombrato uno stop alla contrattazione con i paesi di origine degli immigrati per definire le quote. Corbacho, esponente dell’ala moderata del Psoe e membro della delegazione catalana nel governo, era già stato smentito dalla de la Vega e ieri, indirettamente, da Zapatero.

Repubblica 8.9.08
Ignazio Marino, senatore e chirurgo, è promotore di un disegno di legge sul testamento biologico
"Da medico non farei mai quell´iniezione ma in Italia si trascura il dolore dei malati"
di Elena Dusi


L´Italia scossa delle polemiche si aggrappa all´unico scoglio che sembra restare saldo. L´articolo 32 della Costituzione prevede che nessuno possa essere obbligato a un determinato trattamento sanitario. «Ma ora nel nostro paese rischiamo di vedere intaccato anche questo principio» lamenta Ignazio Marino, chirurgo specializzato in trapianti e senatore del Partito democratico.
Lei ha presentato un disegno di legge sul testamento biologico che ha lo scopo di evitare l´accanimento terapeutico. Perché ora teme un passo indietro?
«Esistono altri disegni di legge concorrenti che limitano la libertà di un cittadino di disporre di se stesso. Il mio obiettivo è che una persona lucida e cosciente possa dire: "Questo trattamento non lo voglio". Altre proposte in parlamento vogliono invece imporre la nutrizione artificiale nel caso in cui un malato non sia più in grado di mangiare. Questo stravolge la nostra norma, che da tre legislature cerca di farsi strada in parlamento. È un passo indietro perché si unisce a un uso scarso degli antidolorifici e a una grave mancanza di assistenza dei malati terminali nel sud Italia. Dei 120 hospice presenti nel nostro paese, 103 sono al nord. Questo vuol dire disattenzione di fronte alla sofferenza dei malati. E invece il discorso del ministro della salute spagnolo ruota tutto intorno alla riduzione del dolore».
In Italia si arriverà mai a parlare di suicidio assistito?
«Spero di no. Sospendere una terapia quando non c´è più nessuna speranza è un conto. Praticare un´iniezione letale, anche se su richiesta di un malato, è qualcosa che va oltre il rapporto che si instaura fra un paziente e il suo medico. Da chirurgo specializzato in trapianti di fegato mi sono trovato spesso di fronte alla morte e alle scelte dolorose, ma non sarei mai in grado di praticare un suicidio assistito».
Quindi è contrario alla proposta del ministro Soria?
«Sì, ma due aspetti mi piacciono molto: l´idea di discutere di argomenti così complessi con calma e all´interno di una commissione (purché tutti siano disposti ad ascoltare gli altri). E l´attenzione che si presta alla lotta contro la sofferenza».

l’Unità 8.9.08
«Guerra civile, ancora aspettiamo la verità»
di Maria Serena Palieri


BERNARDO AXTAGA Si è chiuso ieri il Festivaletteratura di Mantova che ha ospitato, tra gli altri, il cinquantenne scrittore basco: «L’inchiesta aperta dal giudice Garzòn per ottenere le liste dei fucilati - dice - forse può aiutarci a scoprire qualcosa in più»

Bernardo Axtaga ha trascorso gli ultimi undici mesi a Reno, nel Nevada, grazie a una borsa di studio offerta dal centro di studi baschi dell’università locale. Nel singolare scenario della città nel deserto ha lavorato a due libri, uno di giorno a l’altro di notte. Ora racconta che un pomeriggio in cui ne aveva abbastanza di scrivere si è messo davanti alla tv a giocare col telecomando, finché la sua attenzione è stata catturata da un documentario. Era Mondovino, il film-inchiesta di Jonathan Nassiter sulle follie della globalizzazione dell’industria enologica. Una visione che il cinquantasettenne scrittore basco ora consiglia a tutti. È lì che ha scoperto, tra l’altro, un surreale scenario custodito in un angolo della penisola iberica: «Nella Rioja, la regione produttrice dei grandi vini, in mezzo a un villaggio di case tradizionali marroncine, si erge l’equivalente di un piccolo Guggenheim: è una scintillante enoteca disegnata, come il museo di Bilbao, dallo stesso Frank O. Gehry» spiega. «Dentro è un bunker. E quale rapporto hanno con essa gli abitanti del luogo? Nessuno. Dobbiamo cominciare ad avere consapevolezza che esiste un mondo dentro il nostro mondo: quello dell’élite che transita dall’aeroporto all’hotel a sei stelle al campo da golf e che per essa si sta disegnando nel pianeta una geografia esclusiva». Atxaga, all’anagrafe iscritto come Joseba Irazu Garmendia, nato nel 1951 ad Asteasu, Guipúzcoa, ha vissuto per diversi anni a Bilbao. Cosa pensa del capolavoro di titanio firmato Gehry col quale, dal 1997, volente o nolente la città basca viene identificata? «In molte città europee oggi ci si cimenta con lo stesso dilemma: in quell’area centrale e dismessa cosa facciamo? Alloggi popolari o un campo da golf o un museo firmato da una star internazionale e finanziato con capitali multinazionali? Sono due ideologie che si confrontano. Nel caso di Bilbao, però, nonostante le mie convizioni, penso che la vecchia città, che ho conosciuto operaia con le sue enormi fabbriche, aveva bisogno di rinascere e con il Guggenheim ha vinto la scommessa».
Atxaga da quasi quarant’anni combatte la battaglia per la sopravvivenza delle diversità culturali scrivendo in euskera, la lingua parlata da meno di un milione di persone e che il caudillo Franco aveva condannato alla cancellazione. Impegno vincente, visto che viene periodicamente inserito nelle liste degli scrittori più importanti del pianeta. E solo con l’ultimo romanzo, Il libro di mio fratello (Einaudi, 2007), e solo in Italia, quest’anno ha conseguito due riconoscimenti di spicco, il premio Mondello e il Grinzane Cavour.
Nel Libro di mio fratello David e Joseba, i due amici fraterni, condividono un’abitudine: si scambiano parole in euskera scritte su rotolini di carta e, messele in una scatoletta, le seppelliscono, perché la lingua non vada perduta. Da quest’anno il Festivaletteratura ha varato la scrittura di un dizionario europeo, le cui voci sono parole multilingui «regalate» dagli scrittori che partecipano. Le hanno rubato l’idea?
«No, ma constato che si allarga la reazione contro l’inglese, il Sole di un sistema dove le altre lingue si sentono relegate al ruolo di pianeta. Su Le Monde Diplomatique un articolo osservava come sia assurdo che un turista francese a Roma chieda informazioni in inglese. E proponeva di cominciare a pensare a una lingua comune per la koiné latina, spagnoli, francesi, italiani. Altri, come già noi baschi, cominciano a sperimentare sulla propria pelle cosa significhi l’omologazione linguistica».
A questo si oppone il gioco di David e Joseba?
«Una scatoletta di parole è anche simbolo di altro: è il libro. Chi scrive, romanziere o giornalista, lotta con le parole. Ci sono poteri molto grandi che si servono di esse. C’è un linguaggio che nasconde e ci sono romanzi e poesie che svelano. In Nevada ho assistito ai funerali di due soldati morti nella guerra in Iraq. Il pastore usava parole come “duty”, “honour”, “sacrifice”. Ma erano due venticinquenni morti in una guerra brutale e senza prestigio, per il petrolio. Lottare con le parole significa parlare della vita nel modo più esatto possibile».
Nel dopo Franco la parola d’ordine in Spagna è stata «riconciliazione». Ora il giudice Balthazar Garzòn ha aperto un’inchiesta per ottenere le liste dei fucilati durante la Guerra civile. E nella narrativa la Guerra torna con insistenza, con lei, Julio Llamazares, Javier Cercas. C’è una verità che ancora va detta?
«Questo mio ultimo romanzo in realtà vuole parlare dell’amicizia tra due ragazzi baschi e autonomisti negli anni Sessanta e Settanta. È l’equivalente di un romanzo ambientato in Italia ai tempi di Autonomia Operaia. E, certo, traccio un filo dalla Guerra Civile a quel dopo. Nella riconciliazione non ho mai creduto. Credo nel conflitto che bisogna cercare di mantenere, però, incruento. Perciò non condivido la linea narrativa riconciliatoria di Cercas. È un fatto, la Destra con Aznar negli ultimi dieci anni ha resuscitato un linguaggio aggressivo come quello dei “nacionales” di allora. Ha minacciato di inviare carrarmati nei Paesi Baschi. C’è una verità da dire, ancora. Quella a cui tra l’altro - Dio a volte scrive giusto, con le righe storte degli uomini...- vuole contribuire giudice Garzòn».
Qual è il suo giudizio sul governo Zapatero?
«Ho votato Izquierda Unida. Zapatero è incomparabilmente meglio di Aznar. Ma gioca in difesa, è lento, iperprudente. Gli do zero, come voto, sulla negoziazione con l’Eta. I seguaci di Batasuna sono giovanissimi sensibili ai simboli: cosa gli sarebbe costato, per esempio, riavvicinare i detenuti politici ora rinchiusi lontanissimo, alle Canarie?»
Cosa ha scritto in Nevada?
«Una riscrittura umoristica e sinistra di Cuore di tenebra di Conrad. Un romanzo sui soldati. È stata un’esperienza di metamorfosi di stile. E cambiare è la cosa più difficile da fare».

l’Unità 8.9.08
LHC, parte il viaggio verso le origini dell’universo
di Cristiana Pulcinelli


TRA DUE GIORNI prova di funzionamento per la macchina più potente costruita dall’uomo. Un’impresa durata 14 anni che impegna 10.000 scienziati. Ci farà capire come si è formato il mondo che ci circonda?

Ci siamo: tra due giorni sapremo se LHC funziona. Mercoledì 10 settembre un primo fascio di protoni farà un giro di prova nell’acceleratore di particelle più potente del mondo. Chi sta lavorando alla costruzione di questa macchina da 14 anni proverà un tuffo al cuore. Ma anche per noi che seguiamo l’avvenimento da spettatori l’emozione sarà forte.
LHC è un progetto del Cern. Il suo nome per esteso è Large Hadron Collider. Large perché è grande, così grande che i fisici sono convinti che una macchina così grande non verrà costruita mai più. Hadron perché accelera protoni e ioni, particelle della materia che rientrano nella categoria degli adroni. Collider perché queste particelle vengono fatte collidere, ovvero scontrare tra loro.
Com’è fatto
A 100 metri sotto il livello del suolo, LHC corre a cavallo tra la Svizzera e la Francia in un tunnel circolare lungo 27 chilometri. Il tunnel era stato costruito per il vecchio acceleratore del Cern, il Lep, che è stato smantellato nel 2000. LHC però è 100 volte più potente del Lep. Al suo interno 2 fasci di particelle circoleranno in direzioni opposte in un vuoto paragonabile a quello dello spazio intergalattico e a una velocità pari al 99,9999991 % di quella della luce. Per ottenere questo risultato LHC utilizza 9000 magneti il cui scopo è mantenere i protoni concentrati in un fascio di spessore inferiore a quello di un capello e far curvare questi fasci. I magneti lavorano al freddo, la temperatura all’interno di LHC è la più bassa che potrete trovare nell’universo: -271 gradi Celsius. Si calcola che se LHC utilizzasse magneti tradizionali dovrebbe misurare 120 chilometri per raggiungere la stessa energia. In quattro punti della circonferenza i fasci vengono fatti scontrare: lì si aprono enormi caverne che ospitano gli esperimenti, ovvero i rivelatori di particelle: ATLAS, CMS, ALICE e LHCb. Anche qui le dimensioni sono enormi: ATLAS è una macchina lunga 46 metri e alta 25, come mezza cattedrale di Notre Dame, mentre il magnete centrale di CMS contiene più ferro della Torre Eiffel.
Cosa cerca
LHC accelera i protoni e gli ioni per poi farli scontrare ad altissima velocità. Nello scontro nascono moltissime particelle che vengono registrate dai rivelatori e analizzate dai fisici. Ma cosa ci possono rivelare queste particelle? Il fatto è che molte cose dell’universo ci sono ancora poco chiare. Ad esempio, perché le particelle elementari sono dotate di massa e perché le loro masse sono diverse le une dalle altre? La fisica teorica ha supposto l’esistenza di una particella, chiamata il bosone di Higgs, che spieghi questo fatto: l’interazione delle particelle con questo bosone determinerebbe la loro massa. Ma purtroppo il bosone di Higgs finora non è mai stato visto. I fisici sperano che LHC ci permetta di provarne l’esistenza.
Un altro mistero da svelare riguarda l’antimateria. L’antimateria è l’immagine speculare della materia: se per strada incontraste un’automobile fatta di antimateria non la distinguereste da quella fatta di materia. Ma se i due oggetti entrassero in contatto l’uno con l’altro, si annichilerebbero a vicenda lasciandosi alle spalle solo energia. I fisici ritengono che al momento della nascita dell’universo materia e antimateria siano state prodotte nella stessa quantità. Quando materia e antimateria si scontravano si annullavano a vicenda. Oggi però il nostro universo è fatto tutto di materia. Dove è finita l’antimateria? E perché la materia ha prevalso? Se potessimo vedere l’antimateria prodotta dal Big Bang, forse ne sapremmo di più.
Sempre in tema di questioni irrisolte, c’è il problema della materia oscura. Secondo i calcoli dei fisici, tutta la materia che noi vediamo è solo il 4% della massa totale dell’universo. Per spiegare alcuni effetti gravitazionali, si deve supporre l’esistenza di una materia oscura e una energia oscura che non possiamo vedere. Si pensa che l’universo sia composto per il 30% da materia oscura. Ma dove sono le sue particelle?
E ancora, alcuni fisici teorici ipotizzano che le nostre quattro dimensioni (le tre conosciute più il tempo) siano troppo poche per descrivere l’universo. Ce ne sarebbero altre che però non possiamo vedere. Aumentando l’energia saremo in grado di individuarle?
Gli esperimenti di LHC cercano risposte a queste domande. Le collisioni tra protoni, infatti, generano un’energia molto intensa, pari a quella che si poteva misurare qualche frazione di secondo dopo il Big Bang, l’evento che 14 miliardi di anni fa portò alla genesi dell’universo. Questo permette a particelle che oggi non ci sono più di tornare in vita. Ma la loro sopravvivenza dura una piccolissima frazione di secondo, poi si disintegrano dando vita a particelle conosciute. Ebbene, gli esperimenti di LHC vogliono vedere queste particelle prima che scompaiano di nuovo.
Chi partecipa
Si dice che sui paesi che collaborano all’esperimento ATLAS non tramonti mai il sole perché gli scienziati vengono da tutte le aree del mondo, escluso l’Antartide. Il progetto LHC impegna nel suo complesso oltre 10.000 scienziati e ingegneri da tutto il mondo. Oltre ai fondi provenienti da moltissime nazioni. I suoi costi, del resto, sono elevati: nel marzo 2007 si calcolava che solo la macchina dell’acceleratore sarebbe costata 3 miliardi di euro, ma le spese sono poi salite. L’Italia ha un peso rilevante, non solo perché in quanto membro del Cern vi investe soldi, ma anche perché molti scienziati italiani partecipano all’impresa. L’Istituto nazionale di fisica nucleare coordina i circa 600 scienziati italiani che lavorano a LHC. Inoltre, l’industria italiana ha prodotto molte componenti di precisione.
I pericoli
Benché la concentrazione di energia nella collisione delle particelle sia la più alta prodotta in laboratorio, in termini assoluti l’energia sprigionata è molto più bassa di quella con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. Tuttavia, LHC riproduce la densità di energia che esisteva pochi istanti dopo il Big Bang. Per questo ci si riferisce alle collisioni come a dei mini Big Bang.
Secondo alcune teorie, nelle collisioni tra particelle possono prodursi dei piccoli buchi neri. Se anche così fosse, dicono i fisici, questi mini buchi neri evaporerebbero molto presto lasciandosi dietro solo radiazioni. E per avvalorare la loro tesi fanno notare che anche i raggi cosmici, che hanno molta più energia di quella sprigionata da LHC, potrebbero produrre buchi neri, ma nessuno ha mai assistito a questo fenomeno.
Il rilascio di radiazioni invece è inevitabile, ma al Cern assicurano che i raggi prodotti nelle viscere della terra non raggiungeranno la superficie.

il Riformista 8.9.08
Osservatore romano. A proposito dell'articolo della Scaraffia
Si muore con la morte cerebrale, non c'è dubbio
I principi di Harvard, accettati dal magistero della Chiesa, oggi non possono essere rimessi in discussione
di Enrico Geraci


La morte cerebrale, intesa come strumento tecnico-scientifico e legale per la determinazione della morte dell'intero organismo, è argomento non solo dibattuto tra esperti di varie discipline, umanistiche e scientifiche, ma anche di grande interesse per l'opinione pubblica. Anche l'articolo a firma di Lucetta Scaraffia, pubblicato nei giorni scorsi dall'Osservatore romano, partecipa a questo dibattito, offrendo un contributo che può ritenersi certamente interessante, se posto nell'ottica di una discussione etica, antropologica e perfino giuridica, ma sul quale si evidenziano varie debolezze e rischi sul piano più propriamente scientifico. Se, infatti, è condivisibile l'intento di riportare la comunità sul confronto costante circa le nuove acquisizioni della ricerca e della scienza, non lo è altrettanto il tentativo di farlo a partire dal mettere in discussione un principio, quello di morte cerebrale definita con i criteri di Harvard.
Infatti una tappa significativa in questo percorso, e storicamente molto nota, avvenne il 5 agosto 1968, quando una commissione ad hoc, istituita l'anno precedente presso la Harvard Medical School, pubblicò il rapporto finale. Nel rapporto si indica l'encefalo come organo critico dell'integrazione corporea e la morte cerebrale come criterio corretto per individuare la morte, intesa come "momento in cui il sistema fisiologico dell'organismo cessa di costituire un tutto integrato". La morte biologica colpisce infatti gradualmente e in modo diverso le cellule dei diversi tessuti sulla base della differente resistenza alla carenza di ossigeno. L'ischemia e l'anossia provocano rapidamente la morte delle cellule cerebrali. La Commissione analizzò anche i diversi metodi clinici e strumentali che permettono di constatare l'arresto irreversibile delle funzioni cerebrali. La dichiarazione di Harvard riconosce nel cervello l'origine di tutti i processi vitali: il respiro, il battito cardiaco, la termoregolazione, la fame, la sete. Quando, a causa di un danno cerebrale, le cellule che generano tali funzioni muoiono, la conseguenza è la morte cerebrale del paziente.
La morte si identifica, quindi, con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo. Le nuove tecnologie, rese disponibili negli ultimi 40 anni per la diagnostica delle patologie cerebrali, hanno costantemente e pienamente confermato tale definizione mostrando che essa non può in alcun modo confondersi con il coma o con lo stato vegetativo persistente. Vi è infatti una fondamentale differenza tra queste condizioni: nello stato vegetativo persistente le cellule cerebrali sono vive e mandano segnali elettrici evidenziati in modo chiaro dall'elettroencefalogramma, mentre nella morte encefalica le cellule cerebrali sono morte, non mandano segnale elettrico e l'encefalogramma risulta piatto.
Le conclusioni della Commissione di Harvard sono poi state confermate da autorevoli istituzioni, da società scientifiche, da gruppi di studio. In un documento sull'argomento approvato dal Comitato Nazionale per la Bioetica il 15 febbraio 1991 si legge che, senza escludere la possibilità di adottare criteri basati su altri parametri, "per quanto riguarda i criteri neurologici, il Comitato ritiene accettabile solo quello che fa riferimento alla cosiddetta "morte cerebrale".
Dal 19 al 21 ottobre 1985 la Pontificia Accademia delle Scienze radunò appositamente un "Working Group on the Artificial Prolongation of Life and the Determination of the Exact Moment of Death". Al termine dei lavori fu adottata una Dichiarazione in cui si legge: "Dal dibattito è emerso che la morte cerebrale è il vero criterio della morte, giacché l'arresto definitivo delle funzioni cardio-respiratorie conduce molto rapidamente alla morte cerebrale". La medesima Accademia confermò tale posizione anche in successive sessioni di studio nel 1989 e nel 2006. Più in generale, il Magistero della Chiesa ha esplicitamente accettato il criterio della morte cerebrale. Tra gli interventi in proposito si può ricordare, come esempio, quanto affermato dal Papa Giovanni Paolo II nel discorso rivolto il 29 agosto 2000 ai partecipanti al Congresso Internazionale sui Trapianti. Ribadendo che la Chiesa non fa opzioni scientifiche, ma si limita a confrontare i risultati proposti dalla scienza con la concezione cristiana della persona, il Papa così si esprimeva: "Si può affermare che il recente criterio di accertamento della morte sopra menzionato, cioè la cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica, se applicato scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica."
Il secondo fraintendimento in cui incorre l'articolo della Scaraffia è quello inerente la definizione della persona in rapporto al corpo, in cui sembra insinuarsi il dubbio che la definizione di morte sia stata adeguata alle esigenze della medicina piuttosto che a servizio della vita e dell'uomo. Ora, la medicina ha come principale obiettivo la cura dell'individuo malato e mai la pretesa di addentrarsi nella definizione dell'uomo in quanto persona, compito che spetta invece ad altri ambiti di studio. Ne consegue che affermare che la morte dell'individuo avviene al momento della morte del cervello non punta a ridurre la persona alle sue sole funzioni cerebrali ma definisce in modo scientificamente comprovato e condiviso l'accertamento della morte dell'individuo.
Infatti, è essenziale ricordare che il momento della morte è soltanto uno, e consiste nella perdita totale e irreversibile dell'unitarietà funzionale dell'organismo. Il criterio della morte cerebrale è quindi compatibile con concezioni della persona umana diverse tra loro, e ciò giustifica il fatto che esso sia accettato da scuole di pensiero assai differenti: è compatibile con la concezione cristiana dell'uomo come "unitotalità di corpo e spirito", ma anche con visioni organiciste dell'uomo, così come con posizioni che vedono nell'attività psichica e mentale il carattere qualificante dell'essere umano. Sgombrato il campo da questi possibili equivoci, rimane aperto lo stimolo alla discussione che va tuttavia affrontata, per il bene comune, con toni sereni e appropriatezza di argomentazioni. Pena, il rischio di arrivare a conclusioni che allontanino, invece di avvicinare, la probabilità di trovare sintesi feconde tra scienza e bioetica.

Presidente dell'Istituto Superiore di Sanità


domenica 7 settembre 2008

l’Unità 7.9.08
Sulla pelle degli studenti
di Concita De Gregorio


Sono un insegnante precario meridionale della scuola statale della provincia di Pordenone apprezzato dai miei alunni e dai loro genitori che ogni anno si battono per la mia riconferma. Dall'anno prossimo sicuramente a causa della riforma del maestro unico non lavorerò più.
Sergio Catalano

Comincia così una lunga lettera che racconta come dal tempo del «maestro unico» i saperi si siano allargati e specializzati, le classi cresciute di numero, la presenza di bambini stranieri aumentata, le risorse per il sostegno ai disabili diminuite ma come intatto resti invece il bisogno di chi ha sei anni o ne ha dieci di essere «seguito dalla presenza costante e attenta di uno sguardo adulto». Inoltre, dice il maestro Sergio, «i bambini di oggi non sono più quelli di vent’anni fa». Non lo sono più, non c’è dubbio, e a nulla servirà imporre loro di alzarsi in piedi quando entra l’insegnante, di mettersi il grembiule col fiocco, di imparare il Padre Nostro per obbligo come propone l’assessore veneto, di andare tutti il 4 novembre alla parata come suggerisce La Russa. È il mondo fuori che è cambiato, il mondo che i bambini delle elementari si portano in aula sugli schermi dei videofonini forniti da genitori ansiosi e assenti, di solito ansiosi in quanto assenti, e che gli insegnanti fino all’altro giorno non potevano sequestrare all’ingresso in classe perché sarebbe stato, appunto, un attentato alla proprietà privata. Intendiamoci. Cambiare la scuola ad ogni cambio di ministro è un’antica tradizione che ha prodotto guasti in ogni epoca e sotto ogni bandiera. L’assemblearismo e le «conquiste di libertà» non sempre hanno garantito progresso.
La decisione di non esporre i quadri coi risultati degli esami «per la tutela della privacy» è semplicemente grottesca, dice per esempio in una lettera il professor Mario Mirri da Pisa. Ha ragione. I miei figli hanno fatto le elementari andando uno in prima a cinque anni con la sperimentazione Berlinguer, uno a sette perché è nato a febbraio e la Moratti stabiliva al 30 gennaio il limite di ingresso, uno col tempo pieno, uno coi moduli, uno con la settimana corta l’altro con la giornata breve. Posso dire con certezza che cambia solo il grado di nevrosi dell’organizzazione domestica. Di nevrosi e di bisogno: una donna su cinque, ci dicono le cifre di ieri, quando fa un figlio smette di lavorare. A parte le implicazioni culturali e sociali (enormi) il danno è economico, vorrei dire a Tremonti: il lavoro femminile, per usare il linguaggio berlusconiano, «muove l’economia». Dal punto di vista della didattica però - dal punto di vista dei bambini - quello che conta non sono i voti né i grembiuli. Sono gli insegnanti, le persone. Va bene il grembiule, ha il vantaggio di non scempiare una maglietta al giorno col pennarello indelebile. Vanno bene i voti, i giudizi, il debito o il credito, l’esame a settembre: è lo stesso. Va bene persino farli alzare quando entra il maestro, se la palestra a scuola non c’è almeno si sgranchiscono le gambe. Dev’essere chiaro questo, però: il taglio di 87 mila insegnanti non ha nessuna motivazione culturale. È il taglio di 87 mila stipendi, tutto qui. È un risparmio giocato sull’unica cosa che in Italia funziona ancora meglio che nel resto del mondo: la competenza la passione e il talento delle persone che lavorano nella scuola elementare. Un governo che fa economia sui maestri è irresponsabile. Fa quadrare oggi conti che pagheremo tutti noi domani. L’unica risorsa di cui disponiamo è il futuro. Risparmiare sulla pelle dei bambini è criminale.

l’Unità 7.9.08
Bersani: la Gelmini si deve dimettere
Il Pd: «Lanceremo un’offensiva contro la distruzione della scuola: dobbiamo parlare a tutti gli italiani»
di Andrea Carugati


DALLA FESTA DEL PD di Firenze piovono bordate sul ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Sui tagli alla scuola annunciati dal governo e sul «sabotaggio» delle elementari non c’è traccia di dialogo, ma un’opposizione intransigente, che pensa anche all’ostruzionismo. «Da qui parte un’offensiva, la scuola diventare l’ossessione del nostro Paese, dobbiamo andare all’arrembaggio», annuncia il ministro ombra Maria Pia Garavaglia durante l’iniziativa «Salva la scuola, salva l’università, salva la ricerca», benedetta da Veltroni che nella sua intervista serale ha messo la scuola al primo punto nella campagna d’autunno del Pd.
Tutti contro la Gelmini, dunque. Pierluigi Bersani chiede le sue dimissioni per la nota vicenda del concorso da avvocato sostenuto a Reggio Calabria: «Non può pretendere di fare il ministro dell’Istruzione, non ha credibilità per rivolgersi ai giovani. Da quale pulpito arrivano le prediche sul merito e il valore delle persone, degli studenti, degli insegnanti. Ci vuole coerenza tra parole e fatti». «Predica bene e razzola male», va all’attacco la giovane ministra ombra Pina Picierno che giudica «una follia» il 7 in condotta.
Ma qui a Firenze è chiaro a tutti che, come dice Vincenzo Vita, «l’attacco alla scuola, la privatizzazione del sapere sono il cuore del berlusconismo, e la Germini è solo l’interprete». Di un disegno non banale, avvertono i leader dei sindacati confederali della scuola, a partire da Enrico Panini della Cgil: «L’ipotesi che c’è dietro non è un semplice ritorno agli anni 50: siamo all’inizio di una nuova éra di glaciazione sociale, con la formazione professionale ridotta alle botteghe degli anni 30 dove si imparava un mestiere e i bambini delle elementari sempre più divisi tra italiani e stranieri, tra ricchi e poveri. Stanno riscrivendo la Costituzione materiale». «Quello che non farà più la scuola pubblica, altri soggetti privati sono pronti a farlo sotto l’aureola della sussidiarietà», dice Francesco Scrima della Cisl. «Il ministro Gelmini non è stata in grado di citare neppure un pedagogista favorevole al suo disegno che è un atto di macelleria educativa». Cgil, Cisl e Uil parlano di una «mobilitazione che sarà molto forte», ma per ora non ci sono scioperi in vista. Panini però è ottimista: «Ai tempi della riforma Moratti si cominciò a protestare a fine ottobre, stavolta siamo solo ai primi di settembre e già ci sono decine di iniziative». «Da oggi non ci sono alibi per il Pd», spiega Garavaglia. «La scuola deve diventare la nostra priorità assoluta: dobbiamo parlare a tutti gli italiani, anche a quelli che hanno votato centrodestra. Lanciamo un appello alla mobilitazione contro i tagli alle elementari, che sono il fiore all’occhiello della scuola italiana, siamo all’ottavo posto nel mondo». «Dobbiamo trovare delle parole d’ordine per bucare una comunicazione che ci ha messo in sordina, per due mesi abbiamo sputato sangue in Parlamento ma nessuno se n’è accorto», si infervora la Garavaglia.
C’è anche chi, come Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd in Commissione Cultura alla Camera, arriva a rimpiangere la Moratti: «Almeno la sua riforma è arrivata a piccoli passi, è stata più democratica. Invece adesso vanno avanti con i decreti-legge per costruire una scuola autoritaria: ma anche se avremo pochissimo tempo in parlamento lo grideremo che si torna alla scuola degli anni 60». Angela Cortese, assessore all’Istruzione della provincia di Napoli, racconta: «La ministra voleva venire ad aprire l’anno scolastico a Napoli ma ci ha ripensato perché ha capito che non è aria: con tutta la disoccupazione che c’è pensano di tagliare 4mila posti da insegnanti...». Nadia Masini, sindaco di Forlì, si fa una domanda: «Con questi tagli come faremo a integrare i bambini stranieri che sono sempre più numerosi?». Pessimismo sull’esito dell’iter parlamentare del decreto: «Non so quanto riusciremo a frenarli», dice la stessa Masini. Ma non mancano voci autocritiche. Luciano Modica, ex sottosegretario all’Università nel governo Prodi, ricorda l’esperienza degli anni passati: «Tra il 2004 e il 2006 le nostre proposte avevano trovato grande consenso nel mondo dell’Università. Ma appena siamo andati al governo quel feeling si è perduto». E oggi, con un sondaggio di Consortium che vede la Gelmini prima tra i ministri con il 60% di fiducia, gli esperti del Pd sudano freddo: «Dobbiamo darci una mossa».

l’Unità 7.9.08
Donne e Sharia. La notte dei diritti negati
Matrimoni forzati e lapidazioni. Aumentano i delitti d’onore
In Arabia Saudita un milione e mezzo di schiave
di Umberto De Giovannageli


Le drammatiche cifre della condizione femminile nei rapporti di Amnesty e Human Right Watch
Almeno dodicimila i casi di bambine date in spose a uomini dell’età dei loro padri o nonni

LE CIFRE DELL’INFERNO:
1.500.000 sono le donne, in maggioranza asiatiche, ridotte a una condizione di schiavitù in Arabia Saudita. Costrette a orari di lavoro massacranti, sottopagate, spesso violentate, quando «osano» ribellarsi vengono incarcerate e condannate alla fustigazione.
8 sono i paesi islamici in cui l'adulterio da parte della donna è punibile con la pena di morte mediante lapidazione.
12.000 è un calcolo per difetto del numero delle spose bambine costrette a unirsi a uomini che possono essere loro padri o nonni.
12.500 nel solo kurdistan iracheno, è il numero di donne vittime di «delitti d'onore» tra il 1991 e il 2007. Un fenomeno che investe la maggior parte dei Paesi arabi.
In nome della Sharia sono esposte a matrimoni forzati, carcere o pena di morte in caso di stupro. In nome dell'Islam che si fa Legge negano alla donna il diritto di scegliersi il marito e di divorziare; ribadiscono il diritto maschile alla poligamia e al ripudio; sanciscono la disparità in tema di eredità; rifiutano alle donne il diritto alla custodia dei figli in caso di divorzio. In nome di una visione sessuofobia e asfissiante dell'Islam, spesso subordinano la libertà di movimento della donna e il suo accesso al lavoro salariato all'autorizzazione del marito o del padre. Infine si occupano, invadendola, della vita sessuale delle donne, e in alcuni Stati (8) dove vige la «dittatura della Sharia», i rapporti fuori dal matrimonio sono puniti con la pena di morte mediante lapidazione. È la condizione della donna nel mondo islamico. Disperante. Disperata. Una realtà contro la quale donne coraggiose, in Iraq, Egitto, Giordania, Iran, si sono ribellate rivendicando una via di uscita nel principio della separazione tra religione e diritti civili. Un esercito di schiave - oltre 1 milione e mezzo - in Arabia Saudita. I delitti «d'onore» aumentati del 27% rispetto al 2007; la crescita considerevole, calcolabile in decine di migliaia di casi, dell'utilizzo della Sharia (la legge islamica) per legittimare che una ragazza possa essere chiesta in sposa dal momento della prima mestruazione. Sono dati che l'Unità ha estrapolato da recenti, e dettagliati rapporti delle più importanti organizzazioni umanitarie, da Human Right Watch (HRW) ad Amnesty International.
Nei Paesi in cui vige la legge islamica, le spose bambine sono una realtà diffusa. Una realtà che si vorrebbe oscurare da parte dei regimi teocratici ma che, nonostante la censura imposta agli organi di informazione, prende corpo attraverso coraggiosi e coraggiose blogger. Ebbene, in un conto in difetto, sono almeno dodicimila i casi di donne bambine date in spose a uomini che potevano essere i loro padri o i loro nonni. Violentate e sfruttate. Emblematico, e agghiacciante, è il racconto che Khadija al Salami, una giovane yemenita data in sposa a undici anni, fa nel suo libro «The Tears of Sheba». Khadija narra la «prova» che dovette subire, a 11 anni, per dimostrare la sua verginità: «Ahmed (il marito imposto, di quarant'anni più vecchio, ndr.) mi balzò addosso come un gatto. Facendo scivolare la mano tra le mie gambe, si spinse nella mia vagina con le dita, poi si ritrasse. Il sangue che aveva sulla punta della dita sembrò soddisfarlo, lo strofinò su un fazzoletto bianco che aveva in tasca. Se ne andò lasciandomi urlante sul letto». Spesso costrette a lavorare per quattordici ore di fila, sette giorni su sette, per poi vedersi rifiutato il salario e, se protestano, incarcerate e condannate a sessanta-settanta frustrate prima di essere rispedite nei Paesi di origine: è ciò che avviene in Arabia Saudita: nel suo ultimo rapporto, HRW ha documentato venticinque casi di donne, in maggior parte filippine, chiamate in Arabia Saudita per svolgere lavori domestici, e dentro le mura domestiche vessate, picchiate, in dodici dei venticinque casi documentati, violentate. Dove la Sharia è Legge di Stato, la donna è, sul piano dei diritti, una paria. Se vuole divorziare, la donna deve recarsi in tribunale e dimostrare che il marito non provvede alle sue esigenze materiali, che non è fertile e che è impotente. Una volta sancito il divorzio, la custodia dei bambini viene assegnata automaticamente al padre (per i figli maschi di almeno 7 anni e per le figlie femmine già nel periodo mestruale). Per quanto riguarda le eredità, la Sharia prevede che la moglie riceva solo una piccola parte della proprietà del marito e che le figlie femmine ricevano la metà di quanto spetta ai fratelli maschi. Il ripudio continua ad essere un diritto esclusivo del marito e rappresenta anche la causa principale di divorzio in Marocco, Algeria, Iran, Yemen, Arabia Saudita. Un'altra piaga diffusa e scioccante è quella dei «delitti d'onore». Per dar conto della dimensione di questo fenomeno, basta un dato che riguarda il solo Kurdistan iracheno: dal 1991 al 2007, 12.500 donne sono state assassinate per motivi di «onore» o si sono suicidate nelle tre province curde, 435 nei primi sei mesi del 2008. La maggior parte di quei delitti è rimasta impunita. Storie di «ordinaria criminalità» nei confronti di donne nelle società islamiche: storie di atrocità rimaste impunite. Come quello, riportato dal sito on-line della tv saudita al Arabiya, consumato nei giorni scorsi in Pakistan: «Cinque donne sono state sepolte vive dagli abitanti di un villaggio sperduto nella frazione di Jaafarabad nella provincia di Belugistan» a sud ovest del Paese asiatico. Secondo quanto scrive il sito web dell'emittente araba, che riporta la denuncia del deputato pachistano Sardar Asrarallah «le donne accusate di avere leso all'onorabilità della tribù erano: tre adolescenti tra le 16 e 18 anni che sfidando le tradizioni vigenti avevano espresso il desiderio di scegliere liberamente il compagno della loro vita». Due «signore che avevano osato di difendere le tre ragazze - scrive al Arabiya - sono state sepolte assieme alle altre, mentre erano ancora in vita». Il deputato, portando all'attenzione del Parlamento di Islamabad, ha denunciato che «nessun arresto è stato effettuato dalla polizia locale».

Corriere della Sera 7.9.08
Saint-Tropez. Anarchico tutto Luce
di Andrea Genovese


È un gavroche tredicenne durante la Comune di Parigi. Nato in una modesta famiglia, Maximilien Luce (1858-1941) sarà anarchico e socialista per fedeltà al ricordo infantile. Ispirandosi a un naturalismo zoliano ma nutrito dell'humus impressionista, farà di minatori e umili artigiani (Il calzolaio) i suoi soggetti preferiti. Si vedano i 60 dipinti esposti. Cantiere sul lungofiume,
con enormi gru e ponteggi fra palazzi in costruzione, testimonia la selvaggia urbanizzazione della capitale francese. Sedotto dalla tecnica pointilliste,
Luce è, con Signac e Seurat, uno dei massimi esponenti del Neoimpressionismo, per un raffinato dosaggio del colore e della luce in paesaggi d'un lirismo soffuso e delicato (Spiaggia di Méricourt, Sul lungofiume a Camaret).
MAXIMILIEN LUCE Saint-Tropez, Musée de l'Annonciade, sino al 13 ottobre. Tel. +33/49417841

Corriere Fiorentino 7.9.08
Il cantautore incontra il pubblico a Prato e presenta «Icaro», il suo ultimo libro di racconti
Compagno, dove sei?
Francesco Guccini: «La sinistra gioca a dividersi Aumenta la confusione. È un cupio dissolvi»
di Edoardo Semmola


Impegnato. Francesco Guccini stasera è l'ospite di Prato Nord Festival
Sceriffi La tendenza dei sindaci di imporre divieti assurdi è ormai inarrestabile
Sicurezza Il mondo è cambiato certo, ma ora c'è solo smania politica Nessuno risolve niente

«Che mi chiederanno? Dell'Argentina, del Brasile, di qualche altro posto esotico?» Guccini, l'uomo di montagna. Guccini ‘‘l'orso'' per una volta scende a valle, a Prato. Parla della parola, scritta. Guccini narratore, aedo traduttore delle storie della sua Pavana, al confine tra Toscana ed Emilia.
Guccini l'esotico, che ama il tango e canta ‘‘Gulliver'', che viaggia per mare con Hemingway o sulle Ande con Borges, è l'ospite dell'ultimo appuntamento letterario del Prato Nord Festival, stasera alla Casa del Popolo di Coiano, 21.30, ingresso libero. Nell'incontro presenterà la sua raccolta di racconti, «Icaro». Il tema, a lui caro, è «Viaggio a ritroso tra storia e memoria». «Ho scritto i racconti di ‘‘Icaro'' in momenti diversi della mia vita — spiega — e lì sono rimasti, nel cassetto, per anni. Non pensavo che li avrei mai pubblicati. Poi, col tempo, sono diventati un numero tale che il mio editore ha detto ‘‘via, è l'ora di pubblicarli''. L'idea era raccontare una serie di luoghi, dalle Mauritius al Brasile, che ho visitato e conosco, ma nei quali non hai mai vissuto: e in questo contesto vago inventare personaggi e storie».
Se parliamo di Guccini, storia e memoria, parliamo della montagna pistoiese, da dove proviene la sua famiglia e dove lui ora risiede. Pavana ha spento questo agosto 1009 candeline. E di storie da raccontare ne ha parecchie. Ma «in Icaro c'è poco o niente di pavanese ». Trentacinque anni fa, uno dei suoi album più famosi prese nome ‘‘Radici'': la sua Bologna, come Firenze, lo preoccupano per la nuova ansia-sicurezza. Stanno forse perdendo le ‘‘radici'' di città dell'accoglienza? «Non conosco bene la Firenze di oggi - commenta - conoscevo invece i fiorentini che negli anni Cinquanta sceglievano Pavana come luogo di villeggiatura. Allora la gente era contenta di avere un posto fresco dove si sta bene, non aveva bisogno di partire per le Seichelles o le Maldive». Entrando nel merito: «La tendenza dei sindaci in tutta Italia, di sinistra come di destra, di trasformarsi in ‘‘sceriffi'' e imporre divieti assurdi, è ormai inarrestabile. Leggendo dei nuovi strani divieti vengono in mente le notizie bizzarre della Settimana Enigmistica, tipo ‘‘paesino del midwest statunitense: proibito portare un certo tipo di mutande''. Se iniziamo ad indignarci, saremmo tutti indignati da mattina a sera».
Guccini e la letteratura, altro capitolo. Che Prato Nord Festival apre volentieri in una serata dedicata alla ‘‘parola scritta'': molte sue canzoni traggono ispirazione dalla letteratura: dalla ‘‘Canzone dei dodici mesi'' a ‘‘Signora Bovary'' passando per ‘‘Ophelia''. «Tra cultura popolare e letteratura non c'è mai stato un gran legame — commenta — la cultura popolare, poi, è morta dagli anni Cinquanta. In Italia si leggeva e si legge pochissimo, si parla di medie incredibili come un libro all'anno: sbalordisco quando sento queste cifre». A proposito di perdita della memoria, Guccini ricorda «quando noi eravamo i rom a cui prendere le impronte e all'estero ci lanciavano i pesci in faccia», senza però scendere in facili semplificazioni: «Non è neanche così semplice far finta che il problema sicurezza non esista: il mondo è cambiato molto e se negli anni Sessanta a Bologna insegnavo agli studenti americani che la nostra città non era come le loro, che potevano uscire la sera da soli, anche le ragazze, oggi non lo direi più. Ma è anche vero che questa smania della sicurezza è solo una clava politica, nessuno risolve niente».
Altro tema a lui caro, a 35 anni da ‘‘Piccola storia ignobile'', è quello dell'aborto, che in Italia, anche a sinistra, ma soprattutto in Usa, è tornato materia di campagna elettorale: «Nel paese dalla Bibbia sul comodino e dei teocon, è più comprensibile che continui ad essere terreno di scontro. In Italia di teocon ne esistono pochi, c'è però una destra che cerca di appoggiare la Chiesa su qualsiasi cosa per strappare voti». Però confessa: «Non ho idea di come votare: la sinistra gioca a divedersi fin dal '21 e da allora è andata avanti così. Aumenta la confusione e la disaffezione degli elettori.
È un cupio dissolvi». E buttando un occhio sulla realtà fiorentina, dove si discute di primarie, l'orso delle montagne pistoiesi si domanda: «Alle ultime elezioni non si è potuto scegliere chi votare con la propria testa, ci hanno costretto ad una scelta forzata, non ad una vera riflessione. State facendo la stessa cosa anche a Firenze?».

La Stampa Tuttolibri 6.9.08
Ritorno a Loudun, dove si svolse uno fra i più clamorosi processi di stregoneria di quel secolo
Il diavolo al rogo nel Seicento è un curato libertino
Il romanzo di Huxley che ispirò tra l’altro la commedia di Whiling, il film di Ken Russell, l’opera di Penderecki
di Masolino D'Amico


Nel terzo decennio del Seicento Loudun, cittadina del Poitou a una cinquantina di chilometri di Parigi, fu teatro di uno dei più clamorosi processi di stregoneria di quel secolo, semidimenticato in quello successivo, molto indagato dai positivisti ottocenteschi, infine esplorato in tutte le sue sfaccettature da Aldous Huxley in un libro che ispirò tra l’altro una commedia (Whiting), un film (Russell), un’opera lirica (Penderecki).
Suor Jeanne des Anges, giovane priora di un piccolo convento, monacata perché deforme - era quasi nana - e quindi difficile da maritare, si dichiarò improvvisamente posseduta dei demoni inviatile da Urbain Grandier, curato della cittadina; il quale Grandier era aitante, intelligente, eloquente, e notoriamente libertino, avendo un’amante semiufficiale e almeno un figlio illegittimo, sia pure disconosciuto.
Suor Jeanne conosceva Grandier solo per fama, non avendolo mai visto, ma lo aveva invitato per iscritto a diventare confessore della sua comunità ottenendone un rifiuto. Ora l’uomo popolava i suoi sogni; e le sue ossessioni-frustrazioni, condivise con le diciassette tra suore e novizie che dipendevano da lei, esplosero. Le accuse furono avidamente ascoltate sia dalla Chiesa, che prontamente mandò esorcisti, sia dai nemici locali di Grandier.
Gli esorcismi, pubblici e violenti (per prima cosa a suor Jeanne fu somministrato un enorme clistere di acqua benedetta), ebbero l’effetto di esasperare le manifestazioni di squilibrio delle indemoniate, che si svilupparono in veri e propri spettacoli a richiesta, con bestemmie, contorcimenti acrobatici e mostra di nudità. Tenuti a intervalli regolari per alcuni anni, questi diventarono una grande attrazione turistica della cittadina, attirando migliaia di persone anche di alto rango. Alla fine della lunga kermesse, che da Parigi Richelieu non fece nulla per scoraggiare (voleva dare una lezione agli ugonotti di Loudun, non gli dispiaceva saggiare il terreno in vista del restauro di un qualche tipo di Inquisizione, e nutriva rancore verso Grandier, dal quale una volta aveva subito uno sgarbo), l’imputato, mai ascoltato dai giudici, fu atrocemente torturato e bruciato vivo.
Dal canto suo suor Jeanne continuò a lottare coi demoni, dai quali si dichiarò definitivamente liberata solo dopo molto tempo, dando inizio a una carriera di star della santità, prima viaggiando e poi ricevendo in sede, impartendo consigli che venivano dai suoi protettori celesti, infine scrivendo un paio di compiaciute autobiografie.
Unico neo nel complotto dei cacciatori di diavoli, Grandier si rifiutò fino all’ultimo di firmare una confessione di colpevolezza: i tempi non avevano ancora scoperto, commenta Huxley, quei sistemi di fiaccamento della volontà individuale con cui i moderni totalitarismi ottengono invece, sempre, l’autoaccusa delle loro vittime.
Non è questo l’unico raffronto che l’autore promuove tra l’epoca di Luigi XIII e la sua, e qualcuno gli ha rimproverato un eccesso di mentalità scientifica, per esempio di essere stato troppo severo col gesuita Surin, il mistico che tentò di liberare suor Jeanne e che finì semiindemoniato a sua volta, preda di tremendi mali psicosomatici, internato in manicomio e tentato suicida prima di un lento e doloroso recupero. Dopotutto, si obietta, Surin credeva quello che (quasi) tutti credevano ai tempi suoi. Sì, certo: maHuxley fa osservarecome nella propria incrollabile convinzione il gesuita violasse precisi precetti della Chiesa stessa, che ammoniva a non accettare per oro colato niente di provenienza diabolica. Ansiosi di dimostrare il loro teorema, Surin e compagni invece presero per buone le accuse delle suore possedute (se interrogato nel modo giusto, il diavolo non può mentire), e ignorarono le argomentazioni a discarico (il diavolo in questo caso mentiva).
Noi non diamo più credito alla stregoneria, mail punto è che neanche con gli strumenti di allora il processo contro Grandier avrebbe dovuto essere celebrato.
La lezione che Huxley lucidamente ne trae è, guai al fondamentalismo; guai a chi, ritenendosi in possesso della verità, si considera in diritto di calpestare qualsiasi principio o persona. Ma quando nasce il fondamentalismo (religioso, ma anche politico, economico, ecc.)? Secondo Huxley, quando l’uomoperde il contatto con la natura; quando le parole travalicano il rapporto con le cose e si investono di un’autorità propria e dispotica. L’ammonimento appare ancora più attuale oggi di quando il libro fu scritto, più di mezzo secolo fa.

Repubblica Bologna 7.9.08
Ritalin, inchiesta bis. Caccia a centro medico abusivo


Il pm Persico aveva appena chiuso il fascicolo sul farmaco per ragazzi iperattivi, ma da un sito Internet sarebbero emersi nuovi indizi

La Procura ha aperto una nuova inchiesta sul Ritalin, lo psicofarmaco usato sui ragazzi affetti da deficit di attenzione ed iperattività. A finire sotto accusa è di nuovo Monica Pavan, portavoce dell´associazione Agap (amici di Paolo), nei cui confronti qualche giorno fa il pm Persico aveva chiesto l´archiviazione dall’accusa di esercizio abusivo della professione di psicologa.
Chiuso un fascicolo ne spunta un altro. La Procura ha disposto una nuova inchiesta sul Ritalin, lo psicofarmaco usato sui ragazzi affetti dalla sindrome di Adhd (Attention deficit hyperactivity disorder), ovvero il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività. A finire sotto accusa è ancora Monica Pavan, portavoce dell´associazione Agap (amici di Paolo), nei cui confronti qualche giorno fa il pm Luigi Persico aveva chiesto l´archiviazione dall´accusa di esercizio abusivo della professione di psicologa.
Se allora l´inchiesta, aperta dopo le polemiche sollevate dalle associazioni che si battono per la messa al bando del farmaco, ipotizzava un´attività di propaganda sull´uso del farmaco Ritalin nel corso di incontri avvenuti in alcune scuole elementari bolognesi, stavolta è stata una telefonata pubblicata in rete far scattare le indagini delegate ai carabinieri del Nas. Nella conversazione, registrata e inserita sul sito Internet dell´associazione "Giù le mani dai bambini", tra le più attive nella battaglia contro l´utilizzo degli psicofarmaci sui minori, la portavoce dell´Agap viene contattata da un genitore che finge di chiedere consigli per risolvere i problemi del figlio. Luca Poma, dell´associazione "Giù le mani dai bambini", spiega di essere entrato in possesso del materiale il 1° settembre e di averlo inviato in Procura giorni fa. «Eravamo a conoscenza della registrazione già quest´inverno - dice Poma -, e senza sentirla avevamo consigliato al genitore di rivolgersi ai carabinieri». Fino a ieri però in piazza Trento e Trieste del materiale non c´era traccia e quindi Persico ha acquisito il file audio dal web. Nel corso della telefonata, la Pavan parlerebbe di un centro "operativo" a Bologna dove portare i ragazzi: «Noi siamo quelli che facciamo il lavoro effettivo, li prendiamo in carico noi», dice la donna all´interlocutore attaccando anche l´Ausl. Nella conversazione si parla nuovamente del centro di San Donà di Piave (Venezia), una struttura dove sarebbero più "propensi", rispetto ad altri, nel prescrivere il farmaco. Il sospetto alla base della nuova inchiesta è relativo proprio all´esistenza di un presunto centro diagnostico abusivo dove verrebbero visitati i bambini. Una struttura che se esiste veramente, spetterà al Nas scovare. Nella registrazione, la «sedicente esperta - spiega Poma - si fa chiamare "dottore" dall´interlocutore, discute dell´ordine dei medici e parla di psicofarmaci con grande leggerezza». Infatti, «ne spiega gli effetti sul cervello dissertando di genetica e di diagnosi sui bimbi, di fatto invogliando il suo interlocutore ad adottarli come terapia in quanto "stracollaudati ed utilissimi" ed "usati in passato - sostiene lei - anche da dentisti e pneumologi"». Ma non è tutto. La donna parlerebbe poi anche di «intercettare genitori a Bologna, Mantova, Ferrara» per «portarli a San Donà di Piave». Affermazioni tutte da verificare, che hanno imposto al pm Persico di avviare nuove indagini per lo stesso reato: esercizio abusivo della professione medica. La Procura, che acquisirà la trascrizione della telefonata, dovrà valutare se le indicazioni fornite dalla donna siano semplici suggerimenti o se ci siano elementi penalmente rilevanti. Nella vecchia inchiesta il Nas non aveva trovato traccia di abusi o prescrizioni illecite. Tra le carte del nuovo fascicolo aperto dal pm c´è anche un´interrogazione firmata da un deputato di Forza Italia, Mariella Bocciardo, sostenitrice di un progetto di legge per vietare l´uso di psicofarmaci sui bambini. «Ciò che emerge dalla telefonata - scrive la parlamentare - è inquietante. Una situazione di organizzata ingerenza da parte di soggetti che millantano competenze e titoli che non hanno».
(ale.co.)

Il Sole 24 Ore Domenica 7.9.08
Staminali, miracoli o cure?
Quella che è stata annunciata come la rivoluzione medica del XXI secolo in Italia è ostacolata da preclusioni etiche e false contrapposizioni...
di Umberto Veronesi


La rivoluzione scientifica ed etica della medicina negli ultimi trent'anni è stata scandita da cinque grandi tappe: l'esplosione della diagnostica per immagini, che ci ha permesso di esplorare virtualmente prima tutto il corpo umano, poi ogni suo organo, poi ogni cellula e infine l'attività delle singole molecole; la decodifica del Dna, che ci ha consegnato l'alfabeto della vita, offrendoci per la prima volta la possibilità di capire la sua stessa origine e persino intervenire sulla sua sJUttura più intima; l'affermarsi della trapiantologia, che ha spinto sempre più in là i limiti naturali della chirurgia e la sua capacità di riparare tessuti e aree danneggiate o malate; la definizione dei nuovi diritti del malato, nel passaggio da un modello paternalistico a un modello condiviso nel rapporto medico-paziente.
La quinta è la scoperta delle cellule staminali, che ancora non ha dato i suoi risultati migliori perché pesa su queste cellule l'aspettativa e insieme la paura del mondo sull'uso che la scienza potrebbe fare della loro straordinaria potenzialità.
Sui conflitti e le speranze della ricerca, frenata (e in alcuni Paesi immobilizzata) dai lacci di un'etica della scienza incerta o inesistente, punta i riflettori, con profonde riflessioni e punte di amara ironia, il bel libro di Armando Massarenti Staminalia. Le cellule «etiche» e i nemici della ricerca.
Che cosa rende queste cellule così affascinanti e così temute? Il loro immenso spettro di capacità evolutiva, che fa sì che possano trasformarsi in tessuti di organi diversi. Inrealtà le cellule staminali vanno divise in due grandi famiglie. Quelle di un organismo in formazione, come un embrione, sono multipotenti - e quelle del pre-embrione, o blastocisti, addirittura totipotenti - cioè in grado di trasformarsi in qualsiasi tipo di cellula o tessuto e di proliferare a una velocità impressionante. Quelle di un organismo adulto, invece, hanno un compito diverso: controllano l'integrità del corpo, dedicandosi alla riparazione dei guasti dovuti al logoramento naturale dei tessuti o a una malattia.
Sull'impiego delle staminali adulte, il problema etico parrebbe non porsi. Il primo utilizzo di queste cellule (e tuttora il più diffuso) è stato nella cura del cancro, come terapia di sostegno dopo la chemioterapia e la radioterapia, che, se particolarmente aggressive, possono condurre a una rapida: diminuzione delle cellule del sangue, mettendo il malato in pericolo di vita. Si prelevano allora le staminali dal midollo osseo del paziente o dal sangue periferico prima della terapia oncologica, per poireintrodurle (trapianto autologo) nel midollo, che riprende così a funzionare e a produrre nuove cellule.
Altri utilizzi clinici delle staminali avvengono oggi anche in aree diverse. In cardiologia negli Stati Uniti, in Germania e in Italia (in particolare al Centro Cardiologico Monzino di Milano) si sono già compiuti i primi autotrapianti di staminali per riparare cuori gravemente, compromessi, ma è un ambito nel quale c'è ancora molto da capire.
Altre applicazioni sperimentali sono in corso con cellule staminali della pelle, del cervello e del midollo (per la cura del morbo di Alzheimer e Parkinson, Corea di Huntington, epilessia sclerosi laterale amiotrofica, danni da traumi, paralisi), dei reni, e del pancreas e altri studi ancora indagano le proprietà delle staminali per le ossa, le strutture dell'occhio e dell'orecchio e sui vasi danneggiati dall'ipertensione.
Nessuno nega l'importanza di queste ricerche, che però si sono rivelate tra le più soggette alla produzione di notizie miracolistiche, che possono anche - sottolinea Massarenti - «ingannare crudelmente i pazienti». E ciò in nome di un'etica interamente incentrata sulla salvaguardia dell'embrione (o addirittura della blastocisti), tesa a offuscare il fatto, indubbio, che molti progressi terapeutici verranno anche dalle stamil1ali embrionali, perché è evidente che più la scienza medica risale all'indietro nell'evoluzione, più ha probabilità di essere efficace nel capire e, si spera poi, nel curare.
Nessuno si sogna di utilizzare a scopi di ricerca gli embrioni destinati alla procreazione, ma ovunque nel mondo, a seguito dello sviluppo delle tecniche di procreazione assistita, si rendono disponibili all'indagine scientifica ovuli fecondati umani, definiti pre-embrioni o embrioni sovrannumerari, che sono destinati a non essere impiantati e dunque essere sacrificati.
In Italia si stima siano 30mila gli embrioni conservati nei frigoriferi delle cliniche ginecologiche a meno 80 gradi e la logica vorrebbe che venissero utilizzati a scopi di ricerca invece di essere buttati nel lavandino (perché questo succede nella realtà quotidiana) o essere lasciati morire (quando questa morte o perdita di capacità riproduttiva avvenga, non si sa). Invece questo utilizzo è vietato in Italia dalla legge 40, che comunque non dà indicazioni di nessun tipo circa il loro destino. Ora sono state scoperte anche le cellule staminali pluripotenti indotte, le quali, avendo caratteristiche simili - ma non uguali - alle embrionali, forse potranno portare a importanti scoperte.
Si tratta di possibilità di studio da perseguire a tutto campo. Ci troviamo invece, proprio in uno dei settori di ricerca più strategico e più promettente, in uno stato di confusione, tipico, purtroppo, di questo Paese, che viene fotografato e analizzato con sapienza da Massarenti. Emerge, con una punta di amarezza, come «il secolo delle staminali deve ancora trovare la sua bussola etica» e per trovarla deve cominciare da una informazione corretta, equilibrata e scevra di pregiudizi e magiche promesse. Staminalia è un contributo importante in questa impresa.
Armando Massarenti, «5taminalia. Le cellule "etiche" e i nemici della ricerca», Guanda, Milano, pagg.210, € 14,50,

Il Sole 24 Ore Domenica 7.9.08
E Aby scoprì Bruno. Warburg era rimasto profondamente colpito dalla figura del filosofo condannato al rogo
In un quaderno di appunti inediti arrivò a definirlo un anticipatore di Nietzsche
di Carlo Ossola


Il secondo volume dègli scritti di Aby Warburg - il primo apparve nel 2004 presso lo stesso editore - presenta non solo una vasta antologia dell'ultima parte dell'attività di ricerca e della vita di Warburg, ma offre al lettore un prezioso manipolo di inediti, principali dei quali sono le tre versioni della conferenza su Ghirlandaio tenuta alla Biblioteca Hertziana di Roma nel maggio del 1929 e un quaderno febbrile di appunti su Giordano Bruno, che accompagnerà lo studioso - come ha finemente ricostruito Maurizio Ghelardi nella sua Introduzione - sino alla vigilia della morte, quando i126 ottobre 1929, alle 4 della mattina, annoterà: «Perseo, oppure "Estetica energetica come funzione logica nel problema dell'orientamento in Giordano Bruno": ho finalmente scelto il titolo della mia prolusione». Poche ore dopo sopravvenne la morte.
Ora l'opera di Warburg e la sua importanza sono troppo note per ritornare sull'emblematica conferenza "hertziana" (alla quale SilviaDe Laude ha dedicato importanti studi, in rapporto anche alla presenza romana di Curtius). Merita qui prestare una prima attenzione al quaderno bruniano. Si tratta di 45 fogli di appunti che risalgono al soggiorno in Italia di Warburg e di Gertrud Bing (Rimini, Orvieto, Roma, Napoli, Capua, tra l'autunno del 1928 e la primavera del 1929). Gli appunti indicano subito umi direzione forte di lettura di Giordano Bruno: «Rafforzamento della rivolta attraverso l'afferrare»; ascesa e indiamento attraverso il ricorso al mito orfico di conoscenza e sacrificio: «L'ascesa immaginaria e sacrificio-pratica» (20.V.1929). E negli stessi giorni: «Un giorno: Spaccio delle tenebre grazie alla luce esterna (Mitra) e a quella, interna (G. Bruno)».
La figura del Nolano lo cattura al punto che Warburg si troverà indeciso se collocarlo, a fronte del Don Chisciotte, tra ifondatori dell'imperativo categorico: «Don Chisciotte / Chevalier errant / del concetto di infinità/ "Sfida" / imperativo categorico / / Giordano Bruno /Igino moralizzato / sul fondamento umano / individuale / attraverso / una emulsione dinamica / la riforma della umana/causalltàfigurativa / Sorgere dell'imperativo / categorico» (Roma 2. XII. 1928), o se porlo come un antesignano di un dionisismo non luttuoso: «Ripristino della dinamica / umana (non si tratta della luttuosità) passionale/ Giordano Bruno» (f. 28), sino a figurarlo come un precursore di Nietzsche: «Negli Eroici Furori giunto al punto in cui Atteone da predatore diventa preda della solitudine pensante».
Ora quando si consideri l'importanza che Warburg attribuisce, nel suo sistema, al pensiero di Nietzsche, e proprio nelle stesse settimane "bruniane" in cui preparail resoconto (18 maggio 1929) suL'antico romano nella bottega di Ghirlandaio, che così comincia: «Nietzsche, nellaNascita della tragedia (1886), ci ha insegnato a considerare l'Antico attraverso il simbolo della doppia erma di Dioniso e Apollo»; quando ancora si ricordi che sin dal 1908 il Nietzsche che lo cattura è quello dionisiaco: «Ogni epoca, in base allo sviluppo della sua visione interiore, può comprendere ciò che dei simboli olimpici è in grado di riconoscere e di sopportare. Al nostro tempo, ad esempio, Nietzsche ha insegnato a vedere Dioniso» (voI. I, 504); non sarà allora indebito supporre che Giordano Bruno venga, nel pensiero di Warburg, a colmare l'aporia di un "nietzschianesimo senza Nietzsche" ormai vigente dopo le coloriture wagneriane e i miti ariani sempre più presenti nella coeva propaganda nazionalsocialista (e che lambiscono, problematicamente, anche il quaderno di Warburg: «Spaccio della Bestia I I Venerazione dell'energetica socialmente utile» (1O.VLI929). Dostoevskij, di fronte alle stesse aporie del come «emergere dal caos», aveva scelto l'Idiota -Don Chisciotte, Warburg il furore orfico, e rigeneratore, brunian-nietzschiano.
Giordano Bruno veniva così a compiere (con conseguenze che si proietteranno su tutta la scuola warburghiana, a cominciare da Frances Yates, e sulla recente ricezione italiana, satura di miti bruniani) la parabola iniziata nel primo soggiorno italiano di Warburg e ricordata anche nell'ultimo quaderno: «Botticelli (arazzo) I Poliziano I Urbino I GiordanoBruno» (24,XILI928).
È tempo di interrogarci, come storici, sulla "funzione Giordano Bruno" nell'Italia unita e nella determinazione dei miti che reggeranno il senso del letterario da fine Ottocento a fine Novecento. Indubbiamente la lettura warburghiana, seppure sul versante del «ripristino della dinamica passionale», corrobora quella proposta dal De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana (1870-71), ove il Bruno 1 incarna - accanto a Galileo - il modello della "Nuova scienza" -una scienza politico-filosofica coesa a Machiave1li: «Machiavelli aveva già parlato di uno spirito del mondo immortale e immutabile, fattore della storia secondo le sue leggi costitutive. Q,uello spirito della storia nella speculazione di Bruno è il fabbro del mondo, il suo artefice interno».
«Materia assoluta»: bene si vede come le patrie lettere siano state orientate da questa lettura, sì che esaurite le aure del materialismo storico, la letteratura italiana e la sua critica (dopo Gramsci e Vittorini, Fortini e epigoni) giacciano.
Era possibile altra via? Warburg stesso l'aveva suggerita nelle note a La "Nascita di Venere" e la "Primavera" di Sandro Botticelli (1893), in cui richiama i debiti contratti con l'edizione di G. Carducci, Le Stanze, l'Orfeo e le Rime diM.A. Poliziano (Firenze, Barbera, 1863). Recentemente Giovanna Cordibella (in «Lettere Italiane», n.4, zo07) ha evocato l'importanza di quel debito; ma si dovrebbe andare ben oltre: la formula stessa «rinascita del paganesimo antico» sembra debitrice al Carducci il quale, chiudendo il capitolo dedicato a Firenze nell'ultimo Quattrocento, così si congedava da Savonarola: «E non sentiva che la riforma d'Italia era ilrinascimento pagano, che la riforma puramente religiosa era riservata ad altri popoli più sinceramente cristiani».
Sappiamo che lo splendido saggio carducciano Dello svolgimento della letteratura nazionale (1868-1871), da cui è tratta la citazione, fu soccombente e s'imposegrazie anche alle funzioni di ministro dell'Istruzione più volte esercitate dal suo autore - il coevo profilo del De Sanctis, nel quale la condanna in blocco del Cinquecento è senza appello: «Quello era il tempo che i grandi stati d'Europa prendevano stabile assetto, e fondavano ciascuno la patria. E quello era il tempo che l'Italia non solo non riusciva a fondare la patria, ma perdeva affatto la sua indipendenza, la sua libertà, il suo primato nella storia del mondo. Di questa catastrofe non ci era una coscienza nazionale, anzi ci era una certa soddisfazione» (cap. XVII. Torquato Tasso).
Carducci, più sensibile alla continuità storica di una grande civiltà classica nel nostro Cinquecento, ben diversamente lo giudicava, opponendosi esplicitamente al De Sanctis: «Spettacolo che altri potrà dir vergognoso e che a me apparisce pieno di sacra pietà, cotesto d'un popolo di filosofi di poeti di artisti, che in mezzo ai soldati stranieri d'ogni parte irrompenti séguita accorato e sicuro l'opera sua di civiltà. E il canto de' poeti supera il triste squillo delle trombe straniere, e i torchi di Venezia di Firenze di Roma stridono all'opera d'illuminare il mondo. Cara e santa patria! Ella aprì alle menti un mondo superiore di libertà e di ragione; e di tutto fe' dono all'Europa».
Dei due Warburg, quello giovanile fiorentino-carducciano e quello senile nolano-nietzschiano, oggi - in tempi nei quali accade di dover contemplare di nuovo il "paese guasto" - verrebbe voglia di tener caro il primo, quello della pagana pietas piuttosto che degli schiavi ed eroici furori. Non la politica, ma la poesia. In stagioni (quanto dureranno?) nelle quali la prima è squallida, servirebbe, come insegna Carducci, salvare almeno la seconda, per le future generazioni e per la nostra dignità.
Aby Warburg, «Opere. II: La rinascita del paganesimo antico e altri scritti (1917-1929»), a cura di Maurizio Ghelardi, Torino, Aragno, pagg.1.006, € 65,00.

Il Sole 24 Ore Domenica 7.9.08
A trent'anni dalla legge 180. Cosa resta dell'antipsichiatria
Il movimento attaccò giustamente l'eccesso di precrizione di farmaci e l'arretratezza delle cure. Ma sbagliò ad accanirsi contro il biologismo in nome di pratiche alternative retoriche e inefficaci
Jervis: «I tormenti interiori venivano spostati sul terreno dei sentimenti elevati, spirituali, e la sofferenza dimenticata»
di Gilberto Corbellini e Giovanni Jervis


«La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia» (in uscita per Bollati Boringhieri, pagg.174,€12,00 è un dialogo tra lo psichiatra Giovanni Jervis e Gilberto Corbellini, storico-della medicina e collaboratore del Domenicale. Aspira a fornire, a chi è nato dopo il 1970 e si trova o si troverà investito dal dovere civile di pronunciarsi su programmi di sanità pubblica relativi alla prevenzione e al trattamento delle malattie mentali, un inquadramento il più possibile comprensivo e obiettivo di comesi è arrivati alla situazione attuale. Esso ricostruisce quindi le vicende culturali e le esperienze sanitarie che hanno caratterizzato lagenesi e l'evoluzione del movimento antipsichiatrico, sia in Italia che all'estero. Inoltre, ripercorre criticamente le origini della Legge 180, ne spiega la natura e illustra quali sono state le conseguenze che essa ha prodotto, senza rinunciare e dire cosa si potrebbe fare per migliorare la cura ela prevenzione delle malattie mentali.
Anticipiamo qui uno stralcio del dialogo tra i due autori, nel quale essi riflettono sulle cause, interne ed esterne al mondo della malattia mentale, che determinarono la nascita del movimento antipsichiatrico.


di Gilberto Corbellini
Il movimento antipsichiatrico sembra essere scaturito dal confluire di due correnti: daun lato da una serie di temi culturali esterni alla Psichiatria, e da un altro lato, invece, da temi e problemi interni a questa disciplina. Penso che l'antipsichiatria sia stata, fra altre cose, conseguenza di una crisi reale dellà Psichiatria. Quest'ultima avvertiva il suo ritardo scientifico rispetto ad altre branche della Medicina, e soffriva della mancanza persistente di terapie veramente efficaci contro i disturbi del comportamento, soprattutto se gravi. Di conseguenza il medico psichiatra, povero di scienza, poverissimo di virtù terapeutiche, si trovava a essere identificato con un mandato autoritario, con la sua funzione custodialistica, rappresentata tradizionalmente dalla istituzione manicomiale e dalla sua possibilità di privare una persona qualsiasi, sulla base di una diagnosi clinica, dei diritti civili.
Personalmente, ho sempre trovato sacrosanta l'idea che lo psichiatra avrebbe dovuto occuparsi un po' meno di prescrivere a piene mani farmaci sedativi o di firmare pile di certificati di ricovero o dichiarazioni di infermità mentale, per dedicare invece una parte maggiore del suo tempo all'ascolto di chi si trovava in una situazione di grave sofferenza. Ma non ho mai capito, o meglio non ho mai condiviso, la tesi secondo cui l'inadeguatezza della Psichiatria tradizionale dipendeva direttamente dal fatto che essa aspirava a fornire una spiegazione del comportamento umano in termini biologici, cioè nei termini del funzionamento o malfunzionamento eventuale del cervello.
L'inadeguatezza della Psichiatria dipendeva invece, io credo, da una varietà di fattori scientifici e culturali, fra cui, naturalmente, ammettiamolo pure, gli eccessi di biologismo, soprattutto in passato. Ma già nel 1970 o 1980 il biologismo degli studiosi e dei clinici più avvertiti era ben diverso e più raffinato di quello dei loro padri di cinquant'anni prima. Comunque non si è trattato solo di questo. Il "disagio della Psichiatria" e la "crisi della Psichiatria" di cui si cominciò seriamente a discutere negli anni Cinquanta e Sessanta non nascevano dall' eccesso di biologismo. La crisi della Psichiatria riguardava invece in primo luogo il mandato sociale dello psichiatra e l'aspetto oppressivo della reclusione manicomiale; in secondo luogo, riguardava le incertezze scientifiche, le eccessive divisioni in scuole e correnti, e la scarsa efficacia delle terapie. E a questo punto si dovette fare i conti con la classica risposta estremistica. «La psichiatria è in crisi?», dicevano gli antipsichiatri, «Certo. Ma è solo perché sono errate tutte le sue premesse, perché non stanno in piedi i suoi fondamenti!». Quindi, concludevano, va buttata alle ortiche.
Accettiamo dunque che ci sia stata una seria crisi della Psichiatria. Il problema però, col passare del tempo è diventato ur altro, e riguarda proprio l'avvento dell'antipsichiatria. Purtroppo, per molti anni le critiche agli aspetti impersonali e inumani del biologismo psichiatrico si sono mescolate a eccessi di spontaneismo romantico-sentimentale, a duri attacchi contro la scienza, e a spunti di demagogia populista contro gli orrori dei manicomi. In queste ambito se da un lato era facile, anzi facilissimo, formulare dure critiche agli scienziati e ai biologi, e infine alla Psichiatria stessa, d'altro lato era assai più difficile proporre, e soprattutto praticare, attendibili alternative per quanto riguardava l'assistenza ai malati di mente.
Oggi, per fortuna, non si parla più dell'ipotesi che la Psichiatria sia solo un problema di controllo sociale, né vi è più chi sostiene che sia solo un problema politico di controllo sociale. Persiste però la tendenza ad accomunare in un'unica condanna tutti i tentativi di esaminare con una metodica scientifica i problemi della mente, della soggettività, del comportamento. Tuttora non manca chi, o ingenuamente o strumentalmente, è del parere che per occuparsi validamente di persone sofferenti sarebbe più utile sapere di Filosofia o di Letteratura piuttosto che di Medicina o di Scienze moderne della mente. E questa a me sembra, per dirlo francamente, una sciocchezza.

di Giovanni Jervis
Oggi ci sono perfino quelli che credono che i nostri disagi interiori vadano curati con la Filosofia, invece che facendo appello alle moderne discipline psicologiche. Questa proposta di inedite terapie filosofiche rimane, per fortuna, marginale. Va invece preso in seria considerazione un più vasto problema di linguaggi e di mentalità. Non pochi intellettuali di ottima cultura amano sedurre il loro pubblico trasferendo - o trasfigurando - alcuni temi, come la follia in generale, o la malinconia patologica, sul terreno dei discorsi letterari. La ri-descrizione del disturbo mentale in chiave di poesia o di letteratura nobilita le esperienze della mente, anche quelle patologiche, collocandole in un universo" alto". E questo, evidentemente, è confortante. I tormenti interiori sono trasferiti su un terreno dove i sentimenti elevati, o "spirituali", sono presenti, garantiti e apprezzati. Un simile modo di ragionare può avere il suo fascino; raramente, però, ne emergono veri chiarimenti sui problemi delle persone. Ora, a mio parere non è difficile capire in che modo a partire da posizioni del genere si possa approdare all'antipsichiatria. Qui entra in gioco la figura stessa deU'antipsichiatra come personaggio: questi si presenta come anticonformista e libertario, è suadente nel linguaggio, vuole essere portatore di un messaggio positivo. Egli dubita che vi possano essere, nella mente e nell'esistere spontaneo di noi tutti, insufficienze drammatiche delle emozioni, storture cognitive, e guasti seri del modo di ragionare. L'idea che egli suggerisce è che se non ci fossero cattive interferenze sociali la nostra mente sarebbe accettabilmente sana e felice. In questo modo i suoi ascoltatori si convincono che il male stia sempre altrove, e pensano che tutti i guai nascano dai pregiudizi della società borghese o dalle macchinazioni dei medici, dei biologi, e - naturalmente - degli psichiatri.
Ecco appunto l'antipsichiatria. Nemica della concretezza, nemica della sobrietà, lontana mille miglia dalle cautele del modo scientifico di indagare, sembra che l'antipsichiatria abbia bisogno, per crescere, di un terreno culturale dove non si rifugge dalla retorica. La capacità di sedurre il pubblico con perorazioni, più o meno forbite o più o meno enfatiche, è sempre stata una caratteristica degli antipsichiatri, soprattutto quando essi spostavano i problemi psicologici e clinici non tanto verso i territori della Letteratura o della Filosofia quanto verso il terreno dei più facili e sentimentali appelli morali. Anche qui c'era sempre un largo pubblico disposto a scambiare per problemi semplici talune questioni, in realtà, assai complesse, e a vedere tutto il nero da una parte e il bianco dall'altra.
L'antipsichiatria, è vero, è stata soprattutto un fenomeno del passato: da un quarto di secolo ormai, questa corrente culturale non esiste praticamente più. Ma ancora oggi ve ne sono i residui, e comunque ci può interessare, per vari motivi, comprendere quale fu il suo successo.

Il Sole 24 Ore Domenica 7.9.08
La morte e l'etica del dono
di Armando Massarenti


«Così la morte ci aprì il cuore» si intitolava l'articolo pubblicato su «Il Sole 24 Ore Domenica» del 3 agosto in cui Gilberto Corbellini, ricordando i quarant'anni dal "Rapporto di Harvard" che definiva la «morte cerebrale» (5 agosto 1968), la collegava alla rivoluzione medica dei trapianti notando che quel documento si rispecchiava perfettamente nella tradizione dell'etica medica cattolica. Alla luce delle polemiche suscitate da un infelice articolo pubblicato nei giomi scorsi dall' «Osservatore Romano», forse è utile aggiungere qualche altro elemento "minimo" relativo a questa tradizione. Pio XII aveva incontrato il futuro estensore del Rapporto a un Congresso sulla rianimazione a Roma, nel 1957. Disse che non spettava alla Chiesa determinare il momento della morte, e che non bisogna utilizzare mezzi straordinari nelle situazioni senza speranza. Nel 1985 la Pontificia Accademia delle Scienze produsse un documento dove si legge che «una persona è morta quando ha subito una perdita irreversibile di ogni capacità di integrare e di coordinare le funzioni fisiche e mentali del corpo. La morte sopravviene quando: le funzioni spontanee cardiache e respiratorie sono definitivamente cessate o si è verificata una cessazione irreversibile di ogni funzione cerebrale» («Osservatore Romano», 31 ottobre 1985). Nel suo libro «Nuova Bioetica Cristiana» (Piemme, 2000), il cardinale Dionigi Tettamanzi, riferendosi a quel documento, scrive che «la morte cerebrale è il vero criterio della morte, giacché l'arresto definitivo delle funzioni cardiorespiratorie conduce molto rapidamente alla morte cerebrale». In forza di una elaborazione dell'etica del dono, la Chiesa superò, a partire dagli anni Sessanta, anche l'atteggiamento di sospetto che, nel nome del principio di totalità e indisponibilità del corpo, a lungo aveva mantenuto sui trapianti. Sarà ancora il gruppo di lavoro del 1985 a collegare la definizione di morte con la donazione di organi, espressione di solidarietà. Giovanni Paolo II, nel 1991, aggiunse che l'intervento medico nei trapianti «è inseparabile da un atto umano di donazione». E il cardinale Tettamanzi scrive: «La donazione di organi, in vita o dopo morte, è una forma concreta secondo la quale vivere il comandamento della carità: quasi il tentativo di avvicinarsi al gesto del Signore Gesù: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici"».

Il Sole 24 Ore Domenica 7.9.08
Capolavori etruschi dall'Ermitage
di Cinzia Dal Maso


Finalmente l'hanno riportato a casa. È chiamato «il giovane» e sta disteso su un letto, raffinato guardiano delle proprie ceneri. È insomma un'urna cineraria etrusca che, unica al mondo, è fatta di bronzo e non di pietra. E da oggi è in mstra a Cortona assieme ad altri 30 capolavori etruschi dall'Ermitage di San Pietroburgo. Altri bronzi elegantissimi come la placca che raffigura il dio del sole alato e pregevoli specchi. E poi vasi splendidi che, pur fatti in Etruria, riproducono non solo forme e stili greci ma anche temi dell'immaginario greco.
Tutti capolavori eccelsi in perfetto stato di conservazione perché «gli emissari dello zar acquistavano solo cose splendide e perfette», come ricorda Paolo Giulierini, conservatore al Museo dell'Accademia etrusca e della città di Cortona.
Buona parte dell'attuale collezione etrusca dell'Ermitage fu infatti acquistata nel 1861 dal marchese Giampietro Campana, famoso collezionista e cercatore di antichità che si ridusse in bolletta (ricorrendo anche a pratiche illegali) e fu costretto a vendere. L'agente russo Stepan Gedeonov riuscì ad aggiudicarsi la prima scelta vincendo una vera e propria guerra diplomatica con il Louvre e il British Museum. Fu scandalo. Fioccarono le proteste. Inutili. Giovinetto e compari approdarono in riva alla Neva. E tornano solo ora a respirar aria d'Etruria nella città che dell'Etruria è madre, Perché dicevano gli antichi che Cortona fu fondata dai leggendari Pelasgi che approdarono a Spina alla foce del Po e poi scesero verso il centro della Penisola, forse per giungere alla foce del Tevere. Fermandosi a metà strada, a Cortona per l'appunto, l'ombelico d'Italia secondo gli antichi. E da lì molti narrano che nacquero le città etrusche. E non solo quelle.
Secondo Virgilio vi nacque quel Dardano che tornò poi a oriente e fondò Troia. Il capostipite, dunque. della casata troiana a cui apparteneva Enea progenitore dei Romani. Ecco che il cerchio si chiude. Anche Enea, secondo Virgilio, ha fatto il suo «ritorno a casa». E per Licofrone si è persino incontrato con Ulisse, una volta tornato a casa. Perché altre leggende narrano che Ulisse abbandonò a un certo punto Itaca per recarsi proprio a Cortona dove terminò i suoi giorni, e lì fu sepolto e onorato. C'è insomma un fiorire di antiche storie che fanno confluire a Cortona i grandi eroi del mito e mostrano la città come il centro della Penisola e quasi del mondo intero. «Forse fu abilità dei Cortonesi di allora - commenta Giulierini -. Hanno saputo vendere bene la propria immagine, far breccia nell'immaginario antico, entrare di prepotenza nei miti ».
Miti troppo belli perché i Cortonesi li scordassero, Tornarono a galla nel Quattrocento quando la città fu assorbita nell'orbita fiorentina e reagì rivendicando le proprie antiche e nobili origini. E poi ancora nel clima illuministico settecentesco in cui nacque la prestigiosa Accademia Etrusca. Accademia che fu fruttifero cenacolo di letterati e liberi pensatori, e col tempo anche pregevole collezione cii opere antiche e libri rari. L'attuale museo cortonese ha associato a tale collezicne la presentazione della storia della città così com'è emersa dalle ricerche archeologiche più recenti. E le sei nuove sale che aprono oggi mostrano per la prima volta le scoperte ultime e sensazionali: le tombe e rispettivi corredi dei due tumuli venuti alla luce nel 2005 nella zona del Sodo. a due passi grande tumulo «Melone II» che ha da poco rivelato una tomba ancora inviolata e quell'altare così spettacolare e forse non casualmente vicino nello stile a modelli microasiatici. E ancora le scoperte nei magazzini del Museo archeologico di Firenze da dove sono appena emersi i corredi recuperati già ai primi del Novecento dal Melone I e poi creduti dispersi con l'alluvione del 1966.
Ci sono anche ceramiche attiche a figure nere, tra le prime in assoluto apparse sul mercato mondiale del VI secolo a.C. Prova che allora a Cortona, come a Chiusi, arrivava ogni novità, il meglio. Così come oggi arriva il meglio delle collezioni etrusche: la mostra dei tesori dell'Ermitage promette di essere la prima di una serie dedicata agli Etruschi nei grandi musei del mondo. Oggi come un tempo, Cortona è al centro.