martedì 9 settembre 2008

l’Unità 9.9.08
Salò, Napolitano ferma La Russa
A Porta San Paolo il ministro della Difesa omaggia i fascisti della Repubblica sociale
Il Presidente: la Resistenza fu volontà di riscatto, eroico chi rifiutò di aderire alla Rsi: «Chi rifiutò l’adesione alla Rsi è simbolo della volontà di riscatto del Paese»
di Marcella Ciarnelli


LETTURA di parte di una pagina senza equivoci della storia del Paese. Ci ha provato a proporla il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, rendendo omaggio ai militari che aderirono alla Repubblica sociale. Ma a smentirla ha provveduto subito con le
sue autorevoli parole il presidente della Repubblica che ha ricordato come tra gli autentici simboli della Resistenza ci siano stati, oltre ai partigiani, proprio i militari che non aderirono alla Repubblica di Salò e per questo subirono la deportazione.
Porta San Paolo, sessantacinque anni dopo. Cielo azzurro. Palco rosso delle grandi occasioni. Al governo del Paese c’è il centrodestra. Roma è amministrata da un sindaco la cui militanza politica è nota e che proprio nelle ore precedenti alla celebrazione di questo 8 settembre che segnò anche la difesa strenua della Capitale dalle truppe neonaziste, è inciampato nella nostalgia. E in questa sede, tenta ancora una volta di correre ai ripari correggendo il tiro e condannando «senza esitazioni l’esito liberticida ed antidemocratico di quel regime».
Ma ci pensa il ministro a riaprire la polemica. E con che toni. Non ci è riuscito La Russa a non abbandonarsi ad un revisionismo che sembra aver trovato nuova linfa nei successi elettorali. Così il titolare della Difesa, davanti al Presidente della Repubblica che ascolta e riguarda gli appunti del suo intervento in cui è già prevista la puntualizzazione necessaria ad una rilettura distorta della storia, si lascia andare. E ricorda il sacrificio dei militari della Rsi che «dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della Patria». E cioè «quelli della Nembo che si opposero allo sbarco degli anglo-americani meritando, quindi, il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obbiettività alla storia d’Italia».
Ma il presidente Napolitano non ci sta. La sua puntualizzazione storica è netta. Nel cuore del suo discorso invita a ricordare la Resistenza nella sua intierezza, nel suo «duplice segno: quello della ribellione , della speranza di libertà e giustizia che condussero tanti giovani a combattere nelle formazioni partigiane» e «quello del senso del dovere, della fedeltà e della dignità che animarono la partecipazione dei militari, compresa quella dei siecentomila deportati nei campi tedeschi, rifiutando l’adesione alla Repubblica di Salò». Dal Capo dello Stato è così arrivato l’invito a «rafforzare il comune impegno di memoria, di riflessione, di trasmissione alle nuove generazioni del prezioso retaggio della battaglia di Porta San Paolo, della difesa di Roma e della Resistenza» rivolto a tutti, ma per prime, alle forze politiche che sono state esortate ad «animare un clima di condiviso patriottismo costituzionale».
Il discorso di Napolitano viene da lontano. Segue il filo rosso della riflessione e dell’analisi storica che già furono all’origine del discorso che pronunciò a Cefalonia in occasione della commemorazione dei soldati che lì sacrificarono la loro vita e successivamente a Genova, città medaglia d’oro al valore, nell’anniversario del 25 aprile in cui mise in guardia dalle «false equiparazioni». Resta sullo sfondo quella necessità di una memoria condivisa che parta dal riconoscimento del valore della Resistenza i cui valori si ritrovano nella Carta Costituzionale che deve essere punto di riferimento comune, ma di cui debbono essere assunti i valori senza alcun ripensamento o rilettura di parte.
Il ministro La Russa ha perso l’occasione per farlo. Anche se poi ha cercato di minimizzare l’accaduto raccontando che Napolitano, nel breve tragitto dal palco all’auto, non gli avrebbe fatta nessun appunto al suo discorso. Le parole del Capo dello Stato dal palco erano state chiarissime. E, quindi, non avevano bisogno di nessuna aggiunta. Ma La Russa ha insistito «nessun contrasto» mentre cominciavano a fioccare le reazioni alle sue parole. «Il cittadino La Russa può pensare quello che vuole, ma il ministro della Difesa è lì per ricordare la lotta antifascista da cui nasce la Repubblica di cui egli è ministro. Invece la repubblichina di Salò è un'altra cosa» ha detto Massimo D’Alema. Per Piero Fassino «non si possono equiparare libertà e dittatura. L’umana pietà non cancella la storia. «Le affermazioni del ministro La Russa e del sindaco Alemanno - afferma Rosi Bindi - non stupiscono e anzi confermano la fragile cultura democratica della destra italiana incapace di riconoscersi nei valori della Resistenza e della Costituzione». Il segretario di Rifondazione, Ferrero chiede le dimissioni del ministro. La destra, ovviamente, fa quadrato.

l’Unità 9.9.08
Antifascismo. La Repubblica condivisa
di Furio Colombo


«Il Presidente della Repubblica ha ricordato la dignità dei militari italiani che furono deportati in Germania perché rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò. Di diverso avviso il ministro della Difesa». Cito dal Tg 1, ore 20, 8 settembre. In linguaggio deliberatamente piatto non nasconde il fatto certamente eccezionale: il ministro della Difesa La Russa, post-fascista, è di «diverso avviso» sul fascismo.
Infatti la vera frase del ministro è un omaggio alla Repubblica fascista di Salò nel giorno in cui il capo dello Stato stava celebrando, da solo, la Resistenza contro i tedeschi a Roma. C’era anche il sindaco di Roma, alla cerimonia, Alemanno, post-fascista anche lui. Il sindaco aveva detto il giorno prima il suo sentimento di rispetto verso il fascismo. Dunque, per prima cosa, è doveroso inviare da questo giornale un pensiero grato e solidale al Presidente Napolitano che ha celebrato la Resistenza italiana non con le autorità presenti ma insieme a tutti gli italiani che, come lui, credono nella Resistenza e nella Costituzione.
Per i più giovani, forse, è utile un chiarimento.
Che cos’è il fascismo? È un progetto di potere che non bada a spese di vite umane per affermare e rafforzare quel potere. Ha due nemici: chiunque all’interno di un Paese colpito dal fascismo, si opponga. E chiunque (o qualunque altro Paese) fuori dai confini nazionali, sia o diventi ostacolo all’espandersi del regime fascista. Ha tre comandamenti che, in Italia, erano scritti a caratteri immensi su tutti i muri: «Credere, Obbedire, Combattere». Il primo comandamento impone l’accettazione fanatica di una dottrina inventata. Nel caso italiano si chiamava «mistica fascista». I praticanti di quella mistica (cittadini di tutte le età) non avevano scampo. L’intimazione di credere è sempre una intimazione violenta. Significava che un livello superiore, forte abbastanza da lanciare quella intimazione, aveva conquistato potere assoluto con sangue, sottomissione, violenza e complicità.
Obbedire significava l’umiliazione di tutti davanti ai pochi che decidono di vita e di morte. Ci sono sempre, nella storia di tutti i popoli. Sono sempre i peggiori. E cadono fuori dalla storia a causa delle rivolte di libertà. Ma quando comandano non badano a sangue, dolore, umiliazione, morte per farsi ubbidire.
Combattere è il comandamento obbligato. Se sei fascista, o sottoposto al fascismo, c’è sempre qualcun altro da uccidere, persona, famiglia, gruppo o popolo.
Il fascismo per vivere ha bisogno di censura ferrea al fine di impedire anche il minimo alito di libertà. Il fascismo ha bisogno di paura perché ognuno, fascisti e non fascisti, resti al suo posto senza discutere. Il fascismo ha bisogno di miti per organizzare riti che sono sempre evocazioni di stragi. Quei miti sono invenzioni nel vuoto di cultura e di storia, e quei riti sono sempre armati, in attesa che siano pronte nuove vittime da immolare sugli altari della Patria.
La Patria è un mostro al quale, come tributo di grandezza e di difesa dei sacri confini, bisogna sempre tributare un doppio sacrificio: i propri figli, mandati comunque a combattere, dopo aver creduto e obbedito, perché non ci può essere pace fino alla vittoria del fascismo (al di là di un mare di sangue). E il sacrificio di altri popoli, scelti secondo una fantasia arbitraria (il fascismo non deve rendere conto a nessuno) dunque malata, in base a una dottrina di sangue, anch’essa malata che predica: «molti nemici molto onore». Vuol dire che a ogni guerra segue altra guerra, ad ogni persecuzione altra persecuzione.
Il fascismo italiano, giunto a uno dei momenti più alti e pieni del suo mortuario potere (1938) ha visto e identificato gli ebrei, gli ebrei italiani (italiani da secoli, al punto che persino alcuni di essi erano e si dichiaravano fascisti) come nemico finale e mortale.
Nemico da identificare, braccare, catturare, distruggere.
Per sapere quanto il progetto fosse esteso e totale, profondamente fascista e completamente auto-generato dal fascismo, basterà rileggere il pacchetto delle leggi razziali italiane. Da esse non traspare l’impeto brutale e cieco di un momento di barbarie. Si tratta invece di un disegno accurato e giuridicamente impeccabile per sradicare ogni vita, ogni professione, ogni lavoro, dal laticlavio senatoriale al lavoro manuale. L’impossibilità di dare, di avere, di possedere, di lavorare, di restare, di andare via, di essere padri, madri, coniugi, figli, fratelli, neonati, malati, vegliardi morenti, bambini nelle scuole. Tutto chiuso, impedito, escluso, proibito, vietato, ogni porta murata subito e per sempre.
Quando, da parlamentare della tredicesima legislatura, ho scritto, firmato, fatto firmare (anche da deputati di Forza Italia e di An) la «legge che istituisce il Giorno della memoria», questo ho inteso fare: affermare che la Shoah è un delitto italiano. Senza le leggi italiane e il silenzio quasi totale degli italiani, la Germania nazista non avrebbe potuto imporre a tutta l’Europa il suo delitto. Tremendo delitto. Ne è una prova la Bulgaria dove - come testimonia in un suo non dimenticato libro Gabriele Nissim - il presidente del Parlamento locale Dimitar Peshev, uomo di destra in un Paese occupato da tedeschi nazisti e da italiani fascisti, si è rifiutato, insieme alla sua assemblea, di approvare le «leggi per la difesa della razza» scrupolosamente copiate dal modello italiano. I persecutori tedeschi e italiani non hanno potuto toccare un solo cittadino ebreo bulgaro.
«Il Giorno della memoria», vorrei ricordare a chi ne ha discusso su questo giornale ieri, esiste non per dare luogo a una cerimonia, ma per ricordare che gli ebrei italiani e gli ebrei stranieri che avevano creduto di trovare rifugio in una Italia buona, sono stati cercati, isolati, catturati e messi a disposizione dei carnefici tedeschi da fascisti italiani. E tutto ciò è avvenuto nel silenzio di altri italiani che a quel tempo avevano un’autorità e un ruolo. I perseguitati, in Italia, sono stati aiutati e salvati, quando possibile, quasi solo da persone e famiglie che hanno rischiato in segreto la vita, dunque da persone verso cui l’Italia ha un debito immenso (l’Italia, non gli ebrei che non avrebbero dovuto essere vittime), un debito che non è mai stato riconosciuto o celebrato. È anche per questo - ricordare e onorare l’italiano ignoto che non ha ceduto, che non ha ubbidito, che non ha combattuto la sporca guerra della razza, che esiste il «Giorno della Memoria».
Ma esiste anche per ricordare che il Parlamento fascista italiano ha approvato all’unanimità, al grido di «viva il Duce» alla presenza di Mussolini, le leggi dette «per la difesa della razza», articolo per articolo, fra discorsi deliranti, il cui testo si può ancora trovare negli archivi di Montecitorio, e frenetici applausi.
«Il Giorno della memoria» esiste per rispondere a chi osi pronunciare la inaccettabile frase sull’«onore dei combattenti di Salò», per esempio l’attuale ministro Italiano della Difesa La Russa. I combattenti di Salò sono stati coloro che hanno cercato, arrestato, ammassato nelle carceri italiane e poi consegnato alle guardie e ai treni nazisti quasi tutti gli ebrei italiani che nei campi di sterminio sono scomparsi. Sono stati quegli onorati combattenti di Salò a consegnare Primo Levi ai nazisti per il trasporto ad Auschwitz. Negli Stati Uniti, nessuno, per quanto di destra, si sognerebbe di difendere la schiavitù come una onorevole pagina della storia americana. E in nessun paese d’Europa si è mai assistito a una celebrazione di governo verso coloro che hanno collaborato con i nazisti e fascisti che occupavano i loro Paesi.
Le parole del sindaco di Roma e del ministro della Difesa italiano sono più gravi perché riguardano l’immenso delitto della Shoah di cui l’Italia fascista è stata co-autrice e co-protagonista. E’ vero che l’Italia fascista, con il suo codice di violenza, il suo impossessamento crudele delle colonie (di cui Gheddafi, oggi ha chiesto e ottenuto il conto) e la sua relativa modernizzazione dell’Italia ha avuto in quegli anni un suo prestigio e un suo peso in Europa. Ma proprio per questo il delitto razziale italiano si è esteso al peggio di tutta la sanguinosa Europa fascistizzata, e la responsabilità del regime italiano in quegli anni e in quel delitto è stata immensa.
Molti avranno notato che il Presidente della Repubblica, l’8 settembre a Roma, ha parlato da solo a nome dell’Italia libera (libera dal fascismo e dalla persecuzione razziale) nata dalla Resistenza e ha indicato il solo vero valore condiviso: la Costituzione.
È un giorno di tristezza e vergogna per coloro che c’erano, in Italia, quando gli ispettori della razza entravano nelle scuole, quando le brigate nere provvedevano a trovare e consegnare ai tedeschi gli italiani ebrei. Ed è bene ricordare al ministro della Difesa di questa Repubblica, nata dalla Resistenza che gli è estranea, che nella sua Repubblica di Salò i delatori venivano compensati (dai fascisti, non dai tedeschi) con lire cinquemila per ogni ebreo catturato e mandato a morire.
È un giorno di gratitudine verso Giorgio Napolitano che ha detto agli spettatori di sequenze televisive che saranno sembrate un film brutto come un incubo, che è la Resistenza, non Salò, il fondamento dell’Italia democratica, che è la Costituzione antifascista il nostro codice condiviso.
Il resto, aggiungo in nome della memoria che ho cercato di mantenere viva nella legge che porta quel nome, è spazzatura della storia.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 9.9.08
I fatti (assoluti) del fascismo
di Vittorio Emiliani


Il fascismo “male assoluto”, come ha affermato Gianfranco Fini, o male relativo, come ha sostenuto pochi giorni fa il suo confusionario allievo Gianni Alemanno sindaco di Roma? Andiamo a vedere allora i principali guasti prodotti dal fascismo, in dati e cifre.
La soppressione dei diritti e delle libertà
Parte da lontano, con le sopraffazioni delle squadracce fasciste che seminano morte e terrore, con la “notte di fuoco” di Firenze, con la colonna Brandimarte a Torino, col rogo delle grandi cooperative ravennate preludio alla Marcia su Roma. Decine e decine di morti, centinaia di feriti, devastazione di Camere del lavoro e di partiti. Mussolini sa scegliere chi colpire: un parroco, don Giovanni Minzoni, ad Argenta, ucciso a bastonate nel 1923; il socialista Giacomo Matteotti, il più tenace e popolare fra i leaders parlamentari, rapito ed ucciso nel giugno 1924; il liberale Giovanni Amendola, ex ministro, selvaggiamente picchiato a Montecatini, morto nel 1926, come Piero Gobetti, il più giovane e originale fra gli oppositori, che si spegne a Parigi dopo violentissime percosse; il giovane dirigente comunista Gastone Sozzi, torturato e “suicidato” nel carcere di Perugia nel 1928; il liberalsocialista Carlo Rosselli, promotore della partecipazione alla guerra di Spagna («Oggi in Spagna, domani in Italia»), assassinato in Francia assieme al fratello Nello nel 1937; Antonio Gramsci duramente condannato e fatto marcire in carcere fino alla morte, in clinica, nel 1937.
Con le leggi speciali del 1926 vengono dichiarati decaduti i deputati dell’opposizione, abolita la libertà di stampa (il sindacato giornalisti, che resiste, è sciolto d’autorità), soppressi i giornali di opposizione, sciolti i partiti, istituito il Tribunale Speciale e il confino di polizia, ripristinata la pena di morte.
Elezioni abolite
Mussolini va al potere, complice il re, col colpo di Stato della marcia su Roma dell’ottobre ‘22 (l’anno prima ha raccolto pochi voti). Poi si taglia su misura una legge elettorale maggioritaria. Con la quale si vota nel 1924, una parvenza di democrazia. Matteotti, che denuncia, durissimo, alla Camera violenze, intimidazioni e brogli, viene eliminato poche settimane dopo. Si tengono due grotteschi plebisciti sul regime, nel 1929 e nel 1934. Votare “no” su di una scheda trasparente vuol dire venire bastonato fuori dal seggio. Nel 1929 sono 135.773 a votare così. Poi vale soltanto la tessera del Partito Nazionale Fascista senza la quale non si può lavorare, negli uffici pubblici, nella scuola, ma un po’ dovunque. Viene imposto ai docenti universitari il giuramento di fedeltà al regime: in dodici non giurano, altri hanno già perso o perderanno la cattedra per antifascismo (Salvemini, Lionello Venturi, Borgese), altri ancora si mascherano per cospirare.
Tribunale Speciale
Istituito il 5 novembre 1926, durerà fino al 25 luglio 1943. I processati sono migliaia, i condannati circa 4.600 (dei quali 697 minorenni) per oltre 28.000 anni di carcere irrogati complessivamente. In maggioranza si tratta di operai e artigiani, per lo più comunisti. Giovani, sui trent’anni in media. Il trentenne Umberto Terracini, condannato nel 1926, trascorrerà ininterrottamente in galera e al confino circa 17 anni, venendo liberato dopo la caduta di Mussolini nel ‘43. È ebreo e due volte espulso dal Pci per antistalinismo. Giancarlo Pajetta viene processato e duramente condannato a 17 anni appena. Trentuno le esecuzioni capitali. Altre centinaia di antifascisti devono espatriare clandestinamente. Uno dei più importanti fra gli esuli, Filippo Turati, viene fatto fuggire da Sandro Pertini, poi carcerato a lungo, e da altri (l’auto è guidata dall’industriale ebreo Adriano Olivetti).
La politica economica
Vengono soppresse anche le libertà sindacali e vietati gli scioperi. Per tutto il ventennio la compressione dei salari è costante. L’indice delle retribuzioni pari a 127 nel 1921, prima dell’avvento di Mussolini, tocca un minimo storico nel 1926 con 111,6. Per tornare al livello del 1921 bisognerà aspettare il 1949. Il fascismo non applica la nominatività ai titoli azionari, abolisce subito la commissione per i sovraprofitti di guerra, l’imposta di successione e quella sui capitali di banche e industrie, sblocca i fitti, ecc. I salvataggi industriali saranno pagati dalla collettività. Lo Stato corporativo rimane sulla carta.
Leggi razziali
Nel 1938 agli italiani di “razza ebrea” sono vietati tutti gli incarichi pubblici, le scuole statali, il contatto stesso con gli “ariani”, l’esercizio di numerose attività commerciali, compresa la licenza di un taxi, l’ingresso nelle pubbliche biblioteche e così via. Poi la Shoa. I cittadini di origine israelita non sono mai stati molti in Italia. Stavolta muoiono in tanti. La comunità romana registra oltre 2.000 deportati, dei quali appena 16 tornano vivi. Intere famiglie risultano annientate in tutta Italia.
Fra guerra e Resistenza
Il fascismo vuole l’entrata in guerra a fianco di Hitler, pur conoscendo la totale impreparazione del nostro esercito. Risultato finale (oltre a città distrutte, infrastrutture territori devastati): 330.000 militari caduti o dispersi e 85.000 civili deceduti. Circa 650.000 soldati e 30.000 ufficiali italiani vengono internati in Germania (dopo i massacri di massa a Cefalonia e a Corfù) dopo l’8 settembre ‘43. Nella quasi totalità rifiutano di aderire alla Repubblica di Salò e patiscono una dura prigionia, così che oltre 41.400 di essi moriranno nei lager. Una pagina di storia e di amor patrio straordinaria e pochissimo conosciuta.
Alla Resistenza partecipano circa 300.000 fra italiani e italiane: le donne fucilate o impiccate saranno 2.812, oltre mille cadono negli scontri coi nazifascisti. In totale i morti della Resistenza, in combattimento o dopo la cattura, sono oltre 44.000. Altrettanti i militari del Corpo di Liberazione caduti a fianco degli Alleati anglo-franco-americani. Le stragi di cittadini inermi perpetrate dai nazifascisti si contano in oltre 400, per circa 15.000 vittime, da Castellaneta a Bolzano, compiute dalle Ss, da militari della Wermacht in ritirata, col sostegno spesso dei militari di Salò. Ben 695 i fascicoli delle stragi sepolti negli “armadi della vergogna” (come li ha chiamati Franco Giustolisi) e appena una decina i processi. Il sindaco di Roma Alemanno non considera il fascismo il “male assoluto”. Giudicate da voi da questa sintesi estrema di nudi fatti, di crude cifre.

l’Unità 9.9.08
Zeev Sternhell, Professore all’Università ebraica di Gerusalemme:
«La Storia non si riscrive a uso e consumo di interessi del presente»
di u.d.g.


«Il fascismo è stato un fenomeno storico-politico complesso, le cui radici vanno ricercate fuori dell'Italia. Ciò che non è accettabile, né sul piano storiografico né su quello politico, è scinderne un aspetto, per quanto caratterizzante come furono le leggi razziali, con l’identità complessiva del fascismo. La Storia non può essere riscritta ad uso e consumo di interessi del presente». A sostenerlo è Zeev Sternhell, professore di Scienze Politiche all’Università ebraica di Gerusalemme, considerato il più autorevole studioso della destra fascista in Europa. Tra i suoi numerosi scritti in materia, tradotti in decine di Paesi, ricordiamo La terza via fascista (Il Mulino), Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia e Nascita dell’ideologia fascista (Baldini Castaldi Dalai). Il fascismo, rileva il professor Sternhell, fu anche, e soprattutto, un sistema ideologico compiuto, formatosi nella Francia di fine ’800 e che in Italia radicò e rafforzò il suo modo di essere.
Professor Sternhell, è possibile, come fa il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, scindere le leggi razziali dall’insieme dell’esperienza fascista?
«No, non è possibile. Perché vorrebbe dire considerare le leggi razziali del 1938 come una sorta di escrescenza tumorale in un corpo dottrinario per il resto sano. È una operazione riduzionistica della quale posso intendere le ragioni politiche ma che non ha alcun appiglio di carattere storico e culturale. Semmai è vero il contrario di quanto sembra asserire il sindaco di Roma: le leggi razziali rappresentano il coerente sviluppo di quel filone del fascismo radicale che trova fondamento nel pensiero di un filosofo che è stato e a quanto pare resta ancora molto caro ad una parte, non credo secondaria, del corpo militante di Alleanza Nazionale».
A chi si riferisce, professor Sternhell?
«A Julius Evola. Ricordo che su questo aspetto avemmo modo di discutere con l’Unità nei giorni della visita di Gianfranco Fini in Israele. Ricordo che allora mi colpì molto un sondaggio pubblicato da un grande giornale italiano dal quale emergeva che il 61% degli elettori di An considerava “buono” il periodo fascista. Così come mi aveva colpito, ma non stupito, che nelle stesse tesi di An di Fiuggi fosse ben presente lo “spirito” di Evola. Uno “spirito” che ancora attrae i giovani militanti di destra - non solo della destra radicale - e anche chi giovane non lo è più e che oggi ricopre importanti incarichi politici e di governo. E sfido chiunque a negare che il pensiero di Evola non sia permeato di antisemitismo».
Ciò vuol dire che nell’universo della destra italiana non si è fatto fino in fondo i conti col passato. Eppure Gianfranco Fini definì il fascismo “un male assoluto”.
«Da quello che leggo mi pare che questa asserzione sia contestata dal sindaco Alemanno, che certo non può dirsi una figura di secondo piano in An. Resta il fatto che il post-fascismo, di cui lo stesso Fini si è fatto interprete, non è in ogni caso anti-fascismo e che la cancellazione di pagine come quelle della Repubblica di Salò, delle Leggi razziali, dell’assassinio di Matteotti e della carcerazione di Gramsci, richiede un’opera molto più profonda, soprattutto tra gli attivisti di An, quelli che salutavano a braccio teso la conquista del Comune di Roma da parte di Alemanno. Fare i conti col proprio passato identitario richiede un coraggio intellettuale e uno sforzo collettivo che francamente faccio fatica a riscontrare nella destra italiana».
Professor Sternhell, c’è chi pensa che queste polemiche siano datate...
«L’esercizio di una memoria collettiva è un sano investimento sul futuro per una comunità che vuol difendere e rafforzare i suoi caratteri democratici. La demonizzazione dell’altro da sé, il rigetto di ogni diversità come fattore destabilizzante non appartengono al passato ma sono un “virus” del presente. Contro il quale occorre sviluppare una grande battaglia culturale, partendo dal riconoscimento che il fascismo è stato una ideologia autosufficiente. E come tale va analizzata, decifrata, e contrastata».
Resta la polemica politica.
«Che immeschinisce il tutto e riduce la battaglia delle idee ad un mero esercizio di potere, senza anima, senza storia. E dunque, senza futuro».

l’Unità 9.9.08
Celestini: «Le leggi razziali di oggi sono le misure contro i rom»
di Luciana Cimino


«È meglio che Alemanno si occupi delle reggi razziali di oggi ed eviti di parlare di quelle di 70 anni fa». Il consiglio per il sindaco viene da Ascanio Celestini, noto drammaturgo e affabulatore che della conservazione della memoria ha fatto la cifra stilistica della sua arte. E’ facile capire a cosa l’artista si riferisca. «Prendere le impronte digitali agli zingari è una legge razzista perché c’è un accanimento su una categoria che qualcuno reputa diversa dalle altre, eppure i nomadi sono un popolo che non ha mai fatto guerre, non ha costruito né carceri, né manicomi, se commettono reati è giusto che paghino personalmente». L’affondo di Celestini arriva durante la conferenza stampa di presentazione del festival di cui è ideatore e direttore, "Bella Ciao, il balsamo della memoria", la kermesse giunta quest’anno, tra mille difficoltà finanziarie, alle quarta edizione. Spettacoli teatrali, film e musica si alterneranno fino a domenica 14 settembre nelle officine Marconi, ex-complesso industriale in parte recuperato, nel centro sociale per anziani Romanina (dove stasera ci sarà lo spettacolo su drammi e memorie dell’emigrazione di Veronica Cruciani) e nel parco di Villa Sciarra a Frascati. Tra gli eventi più attesi, le rappresentazioni teatrali di Ascanio Celestini e il concerto jazz della pianista Rita Marcotulli. Luoghi periferici perché il festival, nelle intenzioni del direttore, è soprattutto «interazione con il territorio». «Sono posti dove non c’è niente, tutt’al più cinema che fanno film natalizi tutto l’anno». Nel programma anche diversi documentari di difficile distribuzione tra i quali "Zero", l’inchiesta sull’11 settembre di Franco Fracassi, Francesco Trento e Giulietto Chiesa, "Morire di lavoro" di Daniele Segre e la storia di emigrazione di Veronica Cruciani, "Ballare di lavoro". Giovedì 11 settembre, alle 22.30, inoltre, l’attrice Giovanna Mezzogiorno, Johnny Palomba e lo stesso Celestini, tra gli altri, racconteranno alcune storie minime dell’attentato che ha cambiato il corso della storia recente. Precisa l’artista che non è sua intenzione buttarsi nella mischia delle repliche alle dichiarazioni fornite da Alemanno durante il suo viaggio privato in Israele: «Nnon si può affrontare la questione con una dichiarazione o una battuta, l’argomento andrebbe affrontato all’università o a scuola». Altrimenti, secondo Celestini, il rischio che si corre è quello di parlare come gli slogan di note pubblicità. «È come quando si condanna il terrorismo, tutti lo fanno, non solo Bush; perfino Bin Laden è convinto che il suo non sia terrorismo», dice ironizzando.

l’Unità 9.9.08
Manca solo l’insegnante con manganello e fischietto
di Andrea Bajani


Ogni fascia anagrafica ha il suo spauracchio confezionato ad hoc. Per gli adulti, è disponibile l’extracomunitario. È uno spauracchio di comprovata efficacia, estesa applicazione e referenza millenaria. Funziona bene come catalizzatore della frustrazione e dell’odio sociale, provare per credere. Per i giovani in età scolare, invece, da poco è stato lanciato sul mercato il prodotto «bullo». Il bullo è una sorta di «extracomunitario italiano adolescente» che mena le mani contro il prossimo, preferibilmente se portatore di handicap, sovrappeso, ritardato, omosessuale. In entrambi i casi (extracomunitari e «extracomunitari italiani adolescenti») la parola d’ordine è una sola: disciplina. L’ultima conferma l’abbiamo avuta nella nuova riforma della scuola firmata dal Ministro Gelmini, che taglia risorse all’istruzione, mortifica la funzione degli insegnanti, e però invita a dibattere su folkloristici provvedimenti disciplinari, buoni appunto per distrarre e catalizzare l’aggressività sociale. La violenza (dentro e fuori le scuole) si sconfigge con la disciplina. Forse è una strada, però bisogna intendersi sul significato del termine «disciplina», che improvvisamente sembra diventato prerogativa della destra. La disciplina proposta è: bocciatura per l’insufficienza in condotta e grembiulino obbligatorio a scuola. Il che significa declinare sulla fascia anagrafica adolescenti l’istituzione dell’esercito in strada. Ovvero: obbedienza pena la punizione, l’insegnante come vigile urbano seduto dietro la cattedra con manganello, fischietto e in tasca le manette e il taccuino per emettere multe. Ecco, credo semplicemente che quest’idea della disciplina riveli una concezione desolante del cittadino e del rapporto tra stato e cittadino. Il cittadino è relegato a mero esecutore meccanico di un ordine di cui non è tenuto né a capire né a condividere il senso.
Per dirla con Antonio Gramsci, fondatore di questo giornale, è venuto il momento di contrapporre disciplina a disciplina. C’è un tipo di disciplina in cui tutti, semplicemente, pedestramente obbediscono: «i muli della batteria al sergente di batteria, i cavalli ai soldati che li cavalcano. I soldati al tenente, i tenenti ai colonnelli dei reggimenti; i reggimenti a un generale di brigata; le brigate al viceré (…). Il viceré alla regina (…). La regina dà un ordine, e il viceré, i generali, i colonnelli, i tenenti, i soldati, gli animali, tutti si muovono armonicamente e muovono alla conquista». E poi c’è un’altra disciplina. Questa disciplina nasce dalla consapevolezza di essere parte di una collettività, dalla condivisione di un progetto. Soprattutto nasce dalla cultura, che è quello che chiediamo allo stato, agli insegnanti e alla scuola: «La cultura (...)è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri». Ma questo fa paura: meglio le istruzioni che l’istruzione. È più rassicurante avere dei consumatori in grembiulino che dei cittadini consapevoli. Se seguiamo bene le istruzioni, diventeremo uguali alla figura disegnata sulla scatola.
Esce oggi nelle librerie italiane
il nuovo libro di Andrea Bajani: «Domani niente scuola», Einaudi

Repubblica 9.9.08
Maestro unico, si allarga la rivolta
Quaranta istituti proclamano lo stato di agitazione
di Tea Maisto


Un fronte contro il maestro unico alle elementari, la protesta contro il provvedimento del ministro Gelmini si fa sempre più accesa. Il comitato si chiama "Non rubateci il futuro" e riunisce rappresentati di circa quaranta scuole primarie della Capitale. Dalla Iqbal Masih, zona Casilina, che, il 15 settembre - lo stesso giorno in cui la scuola riaprirà - darà vita a una occupazione con docenti, genitori e alunni e che durerà una settimana, alla Gandhi di San Basilio, all´istituto comprensivo di via dell´Archeologia, passando per diversi istituti del secondo e del terzo municipio.
Sin dal primo giorno di scuola dunque la parola d´ordine sarà "protestare" contro la "cancellazione" di circa 1.800 docenti elementari. Gli istituti si stanno già organizzando con volantinaggi, striscioni, fasce scure da portare al braccio in segno di lutto, assemblee con i genitori e lettere aperte, fino all´occupazione della Iqbal Masih, dove le lezioni saranno garantite comunque ma che nel pomeriggio darà vita a numerose attività informative. E l´attività del comitato non si fermerà neppure in questa settimana: per giovedì si sta organizzando un sit in davanti a Montecitorio in occasione della discussione alla Camera della proposta del ministro Gelmini sul maestro unico. Mentre il 16 ci sarà un´assemblea cittadina con "sos precari" all´istituto superiore Galilei.
«In assemblea c´erano rappresentanti anche del VI municipio - spiega Antonietta Carlomagno, maestra della Iqbal Masih - domani (oggi per chi legge, ndr) si riunisce la giunta e quindi abbiamo chiesto di approvare un documento sul provvedimento del ministro». E il municipio ha subito risposto: il consiglio che si riunirà lunedì prossima ha all´ordine del giorno la discussione sul progetto Gelmini. È entrata nel coordinamento anche la scuola Gandhi: «Domani (oggi per chi legge, ndr) si terranno un collegio dei docenti e un´assemblea sindacale per deliberare un documento contro il maestro unico - spiega Carla Corciulo, maestra dell´istituto di San Basilio - e chiederemo al consiglio di istituto di approvare una nostra iniziativa. Infatti, lunedì prossimo noi docenti verremo a scuola indossando una maglietta con lo slogan "il futuro dei bambini non fa rima con Gelmini" e ne prepareremo altre per gli alunni. Per la prima ora vorremmo organizzare un´assemblea aperta per informare i genitori e dalle 14 in poi riunirci in assemblea permanente».
E aggiunge la maestra: «Quando si parla di "centralità della persona" in realtà non vengono presi in considerazione i bisogni dei bambini e le necessità dell´apprendimento, ma solo una logica di risparmio economico. Mentre la presenza di più insegnanti garantisce più punti di vista, più approfondimento». Anche a Tor Bella Monaca c´è fermento: «I genitori sono preoccupati per i loro figli e ci stanno facendo molte domande sul maestro unico - spiega Caterina Trigoti, insegnante dell´istituto comprensivo di via dell´Archeologia - e temono anche per il tempo pieno. Non vogliono che i piccoli siano semplicemente intrattenuti fino alle 16.30 ma vogliono che questa continui a essere una vera scuola».
E lo stato di agitazione si va estendendo anche ad altre scuole che non fanno parte del comitato "Non rubateci il futuro". Come l´Ada Negri di via Latina: «Nei prossimi giorni terremo un´assemblea con i docenti e i genitori contro il maestro unico - spiega la direttrice Rosalia Zene - per informarli su quanto sta avvenendo».

l’Unità 9.9.08
Analfabeti dell’obbligo
di Roberto Volpi


Il dato è questo: tra il 2000 e il 2006 crollano dal 24,8 al 18,9% i quindicenni italiani con capacità di lettura elevate e invece aumentano dal 22,7 al 28,4% quelli con capacità di lettura scarse. Risultato: se nel 2000 c’erano 131 quindicenni con capacità di lettura elevate ogni 100 con capacità di lettura scarse, nel 2006 - vale a dire oggi, praticamente - ci sono appena 80 quindicenni con capacità di lettura elevate ogni 100 con capacità di lettura scarse.
Risultato: se nel 2000 c’erano 131 quindicenni con capacità di lettura elevate ogni 100 con capacità di lettura scarse, nel 2006 - vale a dire oggi, praticamente - ci sono appena 80 quindicenni con capacità di lettura elevate ogni 100 con capacità di lettura scarse. Quanti hanno capacità di lettura scarse non superano il primo livello della capacità di lettura: ovvero, detto in soldoni, non sanno leggere. Questo è lo stato dell’arte in Italia, a questo proposito, nel tempo dell’informazione continua e planetaria.
Vien da dire: complimenti. Un po’ a tutti: ai nostri quindicenni, alla scuola, alle famiglie. E, insomma, all’Italia.
Al Sud la situazione della capacità di lettura dei quindicenni è la seguente: 50 (vale a dire uno su due) hanno capacità di lettura sufficienti, 13 elevate e 37 scarse. I quindicenni che non sanno praticamente leggere sono dunque al Sud ben 37 su 100 (una proporzione da brividi, considerando che si parla di quindicenni, non di bambini dei primi anni della scuola primaria) e sono tre volte più numerosi di quelli che sanno leggere bene.
Il divario Nord-Sud è abissale. Se al Centro-Nord abbiamo 165 quindicenni con capacità di lettura elevate per 100 studenti con capacità scarse al Sud i quindicenni con capacità di lettura elevate sono appena 36 ogni 100 con capacità di lettura scarse.
Che dire? Tutti noi siamo più o meno consapevoli che i nostri giovani studenti balbettano per quanto riguarda la matematica e la capacità di districarsi nel linguaggio dei numeri, della logica e dei problemi matematici. Ma siamo decisamente più impreparati a capacitarci di dati tanto negativi per quel che riguarda la semplice lettura: dicasi, la semplice lettura. I quindicenni, tanto per chiarire, sono quanti hanno alle spalle l’intero ciclo della scuola di base, che hanno portato a termine la scuola dell’infanzia, quella primaria (le vecchie elementari) e quella secondaria di primo livello (la vecchia scuola media), sono insomma dei giovani che se non hanno ancora imparato a leggere hanno un’alta probabilità di non imparare mai più. Sono dati che, non fossero certificati dall’Istat, si stenterebbe a credere. E che dire del loro peggioramento nel tempo? Del loro vero e proprio inabissarsi tra il 2000 e il 2006? Prima alle elementari c’era un insegnante per classe. Una classe, un insegnante. Oggi nella scuola primaria ce ne sono due (uno di italiano e materie collegate e un altro di matematica e materie collegate), più altri ancora che vanno da inglese a educazione artistica. Prima c’erano i programmi ministeriali e stop. Oggi ci sono i POF, i Piani di Offerta Formativa, e ogni scuola si costruisce il proprio piano. L’intento era buono, della realizzazione meglio non parlare.
I POF sono chiamati a organizzare, chiarisce il sito web del ministero della Pubblica Istruzione, i «percorsi personalizzati nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado». E, del resto, basta prendere il primo POF che mi è capitato sotto gli occhi cliccando su Google, quello dell’Istituto Comprensivo di Calcinate (provincia di Bergamo), per imbattersi nell’obiettivo principe della scuola di base che sarebbe precisamente quello di «differenziare la proposta formativa adeguandola alle esigenze di ciascuno», in modo tale da dare a ogni studente «la possibilità di sviluppare al meglio la propria identità e potenzialità».
E intanto, in questo tripudio di personalizzazione dell’insegnamento affinché ogni studente possa subito trovare la sua strada e subito affermare le proprie potenzialità, si è semplicemente persa la strada del leggere, dello scrivere e del fare di conto. È troppo chiedere che qualcuno - dal ministero agli insegnanti - si preoccupi intanto, ma lo faccia davvero, di riportare la scuola italiana su quella strada? Una strada che sarà pure minima e poco ambiziosa, ma senza la quale tutte le altre non appaiono che inconcludenti, fastidiose e pure un poco irresponsabili elucubrazioni?

l’Unità 9.9.08
Eluana, l’ultimo affronto
di Giancarlo Ferrero


La lettera del direttore generale della sanità milanese, dottor Lacchini, al padre di Eluana Englaro va al di là d una mera comunicazione tra un utente del servizio sanitario ed il responsabile di un pubblico istituto: assume il valore e l’efficacia di un atto amministrativo. Come tale deve essere considerato per rilevarne l’eventuale illegittimità e la conseguente sua impugnabilità innanzi al giudice competente.
Certamente di fronte ad una precisa richiesta del padre di Eluana, il direttore aveva il dovere-potere di rispondere. Rientrava, altresì, nei suoi poteri respingere la richiesta motivandola sulla circostanza obbiettiva che le strutture sanitarie regionali non erano attrezzate né deputate a dare attuazione ad un intervento sanitario di quel tipo. Ciò che non poteva giuridicamente fare era definire la natura dell’assistenza sanitaria e soprattutto vietare ai medici di intervenire nel senso richiesto, pena le conseguenze sanzionatorie per la corrispondente violazione dei loro obblighi professionali e di servizio.
In questo modo il direttore generale lombardo si pone in netto contrasto con una decisione di un organo giurisdizionale della cui competenza nessuno dubita. I giudici milanesi, infatti, hanno esplicitamente riconosciuto (anche se con pronuncia impugnata dalla Procura Generale) il diritto del padre di Eluana di far sospendere il trattamento terapeutico che la mantiene artificialmente in vita. È consequenziale che se un comportamento è ritenuto manifestazione di un diritto, il comportamento relativo è assolutamente lecito. I sanitari che in piena loro coscienza vi danno attuazione non commettono alcuna violazione di legge e, quindi, non violano alcuna obbligazione professionale e non possono certamente essere sanzionati.
Un direttore di strutture sanitarie, sia pure al vertice, non può porsi in contrasto con una decisione legittimamente presa da un organo giurisdizionale, con efficacia su tutto il territorio nazionale. Se questo contrasto è contenuto in un atto ufficiale con effetti indeterminati verso un gruppo di sanitari, si realizza un’ipotesi, se non di reato (ma il fatto meriterebbe l’attenzione della locale Procura della Repubblica) certamente di illegittimità amministrativa. Con il dolore che gli pesa sulle spalle non si può pretendere che sia il padre ad impugnare il ricorso al Tar e chieder in via d’urgenza e cautelare l’immediata sospensione dell’atto. Troverà facilmente in altre strutture sanitarie quell’accogliente rispetto della sua pena e del suo diritto che gli è stato così rigorosamente negato, dimenticando che (errore interpretativo a parte) è «la legge ad essere fatta per l’uomo, non l’uomo per la legge».

Corriere della Sera 9.9.08
Torna il classico «Condotta di vita»
L'ombra di emerson influenzò Nietzsche
di Paola Capriolo


Non più tradotta in Italia dal 1923 e ora riproposta in una nuova edizione a cura di Beniamino Soressi (Rubbettino, pp. 310, e 24), Condotta di vita di Ralph Waldo Emerson occupa una posizione di particolare rilievo non solo nella bibliografia del suo autore, ma nella storia del pensiero: quest'opera pubblicata nel 1860 dal padre del trascendentalismo americano ebbe infatti la ventura di capitare tra le mani di un diciassettenne tedesco di nome Friedrich Nietzsche e di esercitare un notevole influsso sulle sue prime speculazioni filosofiche. Influsso che, secondo Soressi, rimarrebbe determinante anche per il Nietzsche maturo, le cui teorie troverebbero nelle pagine di Emerson anticipazioni significative. In effetti, le affinità saltano agli occhi: nei saggi scintillanti di humour e vibranti di accensioni poetiche che compongono Condotta di vita non è difficile veder prefigurate molte tra le idee più caratteristiche del grande filosofo di Sils Maria, da quell'eroico amor fati di cui egli avrebbe fatto anni dopo la sua divisa, alla dottrina del superuomo («Questi milioni li chiamiamo uomini, ma non lo sono ancora. Interrato per metà, scalpitando per esser libero, l'uomo ha bisogno di tutta la musica che si può portargli per estrarlo»), sino al disprezzo delle masse o alla diffidenza per la compassione intesa come forza frenante e ostacolo allo sviluppo. Ma soprattutto, ad accomunarli è la tesi fondamentale che la vita sia «una ricerca della potenza», e che la legge di questa potenza consista nel tendere al proprio infinito accrescimento.
Sarà perché dalle due sponde dell'Atlantico entrambi descrivono lo stesso mondo, quello della tecnica, della modernità giunta al suo pieno dispiegamento, della rivoluzione industriale che proprio allora andava incontro a una vertiginosa accelerazione; ed entrambi possono essere considerati come interpreti, cantori, «giustificatori» filosofici di questo mondo. Nietzsche in modo più sottile e costantemente venato di ambiguità regressive; Emerson con una rude schiettezza tutta americana, come dimostra la sua esaltazione quasi candida della ricchezza, della corsa al profitto, di quella razza di uomini «arditi e duri», traboccanti di un sovrappiù di energie, che hanno «teste piene di martelli a vapore, pulegge, manovelle e ruote dentate» e grazie ai quali «ogni cosa inizia a risplendere di valori».
Qui però le analogie finiscono per lasciare il posto alla più abissale differenza, perché Emerson, pur proclamando che la potenza «non si veste di satin» e tende a calpestare con libertà selvaggia tutti i nostri pregiudizi di uomini civilizzati, non ha il minimo dubbio che essa finirà col trovarsi «in armonia con le leggi morali ». Ai suoi occhi di strenuo conciliatore il male stesso è semplicemente «il bene nel suo farsi», e nonostante ogni apparenza contraria «l'ordine e la sincerità dell'Universo sono assicurati da Dio, che delega la sua divinità ad ogni particella ». Insomma, Emerson è uno degli ultimi e a tratti dei più ingenui epigoni di quella visione risalente a Platone secondo la quale l'universo si dice
cosmos e non acosmía, ordine e non caos, mentre l'importanza cruciale di Nietzsche nella storia del pensiero sta precisamente nell'aver respinto con determinazione tale antichissimo presupposto. Da questa antitesi essenziale discendono tutte le altre, compresa l'opposta collocazione politica dei due pensatori: «reazionario » Nietzsche, decisamente progressista Ralph Waldo Emerson, tanto da battersi contro la schiavitù schierandosi al fianco degli abolizionisti e da venir considerato dalla posterità come «il filosofo della democrazia». Se il primo ci inquieta, dalla lettura del secondo si esce, almeno nelle sue intenzioni, profondamente rassicurati, e se l'uno parlerà sempre al cuore di tutti gli apocalittici, dall'altro trarranno conforto quanti si ostinano a sperare ancora nell'inevitabile trionfo del bene.

il Riformista 9.9.08
L'appello del Papa
Dai movimenti al Parlamento. Politici cattolici, alla fine ci pensa Ruini?
di Paolo Rodari


Non sono pochi i vescovi della Chiesa italiana che ritengono che alle parole pronunciate l'altro ieri dal Papa, secondo le quali serve al mondo della politica «una nuova generazione» di «cristiani impegnati» che con «competenza e rigore morali» cerchino soluzioni di «sviluppo sostenibile», occorra rispondere in fretta. Ma per tutti una cosa è evidente: la risposta non possono più essere quelle scuole di formazione politica che, sul finire degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, provarono a occupare quello spazio che gradatamente lo sfaldamento della Democrazia cristiana stava lasciando libero dietro di sé: le scuole fallirono (erano nate come funghi ovunque, soprattutto nelle parrocchie, negli istituti religiosi, nei centri culturali e nelle diocesi) anche perché - come spiega al Riformista Luca Diotallevi - «la politica è una prassi, non è un episteme, e dunque non s'impara a scuola». Non solo. Secondo Diotallevi il richiamo più importante fatto dal Pontefice domenica risiede nella richiesta «che queste nuove generazione di laici lavorino per il bene comune». In sostanza, è una richiesta che va in scia a quanto il cardinale Camillo Ruini intende debba essere la presenza cattolica in politica: non la fossilizzazione in un unico partito per difendersi dal nemico, quanto una proposta culturale della propria identità a 360 gradi, correndo magari il rischio della contestazione e, a volte, della marginalizzazione.
Dunque il cardinale Ruini: attraverso la presidenza del progetto culturale, sarà lui a continuare la linea intrapresa dalla Chiesa con la fine della Dc: basta col partito unico, sì al bipolarismo e soprattutto a un'opera di riavvicinamento, di ri-affezione dei cattolici al lavoro culturale e quindi anche all'impegno politico.
La risposta alle parole del Papa, insomma, è dal basso che deve sorgere, da dove già ci sono luoghi e persone "vivaci", interessate alla promozione del bene comune e, dunque, all'impegno anche in politica. Sono luoghi non difficili da elencare e che soltanto oggi, dopo i quindici anni di guida della Cei di Ruini, sembrano aver trovato le energie giuste per emergere. Per dire: «Eccoci, i nuovi cattolici in politica siamo noi».
Innanzitutto ci sono le Acli che stanno costituendo una propria fondazione. Si chiama "Achille Grandi" e il suo scopo è quello di creare un circolo virtuoso tra formazione alla cittadinanza e formazione politica. In sostanza, la fondazione vuole creare dei luoghi di incontro, aiuto e formazione permanente non soltanto per i politici, ma per tutti quei laici impegnati nella ricerca del bene comune. È, negli intenti, l'opposto di quelle scuole di formazione politica in voga all'inizio degli anni Ottanta. Il metodo è ribaltato. Si offrono luoghi di sviluppo di tutta la persona ai quali futuri politici e coloro che già sono impegnati in politica, possono attingere forze, energie, idee.
Anche il Movimento politico per l'unità dei focolarini si muove più o meno così: dare un'anima, un'ispirazione, alla politica attraverso incontri nelle sedi parlamentari, regionali, nelle città, convegni e seminari di studio, grandi manifestazioni. Affinché una politica volta all'unità e alla ricerca del bene comune sia messa in campo. È più o meno la stessa scia sulla quale navigano oggi l'Azione cattolica, la Fuci, l'Mcl e tanto associazionismo cattolico.
Simile, ma con sfaccettature diverse, è quella Rete Italia fondata dai politici Formigoni, Lupi e Mauro. I tre ciellini hanno aggregato attorno a sé amministratori locali, studenti universitari, giovani attirati dalla politica e simpatizzanti di vario genere, interessati a essere formati a un certo modo di fare politica. In pratica il modello a cui guardare è quello lombardo da anni nelle mani di Formigoni. I tre hanno messo su anche una scuola dove si apprende "come fare politica" ma, più in generale, anche qui è un luogo che fa da collante tra un certo cattolicesimo impegnato (Cl) e l'attività politica.
A Roma, nel palazzo detto dei "cento preti", un tempo ricovero per i sacerdoti della diocesi, risiedono tre organizzazioni cruciali per il mondo dell'associazionismo cattolico. Non fanno politica in senso stretto ma incarnano alla perfezione l'idea che più che di scuole politiche vi sia bisogno di uomini capaci di influenzare la politica sui temi più importanti. Ai "cento preti" c'è il settore "vita" coordinato da Scienza & Vita, quello "società" da Retinopera e la lobby della "famiglia" coordinata dal forum delle associazioni familiari.


Repubblica 8.9.08
Con Epifani duello sul ‘68:"Epoca del nullismo" Il sindacalista:"No, è stata una stagione di libertà"
Le regole impediscono il dibattito, e Sergio Romano richiama tutti all´ordine


CERNOBBIO - Una nuova tirata contro il ‘68. Ma stavolta Giulio Tremonti ha trovato un degno avversario, un´opposizione netta. Per il ministro dell´Economia, anche qui al workshop Ambrosetti in versione professore di storia, gli anni della contestazione sono da buttare. «E´ stata l´epoca del nullismo, non c´è proprio niente da salvare». Un passaggio fulmineo nel suo lungo speech a porte chiuse. Una voce però lo ha interrotto. «Forse abbiamo vissuto due ‘68 diversi. Da quel movimento sono venute molte novità positive. Per me è stata anche una stagione di libertà. E di riconoscimento di diritti fino a quel momento negati». Tremonti si è voltato di scatto e ha visto che la calorosa difesa veniva dal posto di Guglielmo Epifani, il segretario generale della Cgil. I presenti sono rimasti sorpresi perché la regola di questi seminari è molto chiara: non sono talk show televisivi, non si interrompe (neanche garbatamente come ha fatto Epifani), bisogna limitarsi al proprio intervento e a rispondere alle domande successive. Si poteva aprire un bel dibattito, proprio come all´assemblee di allora, ma ci ha pensato l´ambasciatore Sergio Romano a richiamare tutti all´ordine ricordando le rigide disposizioni del panel.
Il ministro dell´Economia da tempo ha dichiarato chiusa la fase delle ideologie, senza rinunciare a proporne una sua. Epifani ha preso la parola per offrire la sua visione di globalizzazione e produttività. Ma se qualcuno vuole organizzare un confronto vero sul ‘68, finchè siamo ancora nel quarantennale, adesso sa chi invitare. Scopriremo così com´è stato diverso quell´anno per i ragazzi Tremonti ed Epifani. Quando avevano i capelli più lunghi.
(g. d. m.)

Repubblica 8.9.08
Il Papa sferza i politici cattolici "Serve una nuova generazione"
Auspicata la nascita di una classe di cristiani "impegnati e rigorosi" per uno sviluppo sostenibile
Benedetto XVI "Evangelizzate il mondo del lavoro, dell´economia, della politica"
di Marco Politi


CAGLIARI - Giovani politici cattolici cercansi. Competenti e rigorosi. L´appello è di papa Ratzinger, rivolto ai centomila fedeli venuti a partecipare alla messa all´aperto davanti al santuario mariano di Bonaria. In Vaticano è acuta da tempo la preoccupazione per lo scadimento della classe politica. Con il governo il Vaticano è in buoni termini, ma al pontefice e ai suoi collaboratori non sfugge il diffondersi tra la gente di una sfiducia generalizzata verso l´attività politica in quanto tale.
Né in Vaticano sono lieti che all´indomani delle elezioni non si trovino più esponenti cattolici nei posti chiave governativi.
Così, al suo primo intervento in terra sarda, Benedetto XVI ha auspicato una «nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile». Il pontefice si è indirizzato specialmente ai giovani, «assetati di verità e di ideali», perché non si lascino invischiare nel nichilismo. «Evangelizzate il mondo del lavoro, dell´economia, della politica», ha esclamato Ratzinger.
Partecipava alla messa il presidente del Consiglio, venuto anche a salutare il pontefice all´aeroporto (mentre Gianni Letta, da «gentiluomo di Sua Santità» viaggiava nell´aereo papale). In cerca di uno spot, che dimostrasse i suoi buoni rapporti con il Vaticano, Berlusconi si era fatto precedere da un´intervista all´Unione Sarda in cui affermava che il centro-destra era per la libertà d´espressione della Chiesa, mentre solo i comunisti sognano una «Chiesa del silenzio». Ma l´incontro con il Papa nella sacrestia del santuario è durato solo pochi minuti, mentre Benedetto XVI non lo ha nemmeno menzionato salutando genericamente le «autorità civili» all´inizio dell´omelia.
Così è nata una guerra dei saluti. Il Papa, a fine messa, ha improvvisato un saluto al premier e dimenticando il presidente della Regione, scatenando i «buuh» di disapprovazione dei cattolici fautori del governatore Renato Soru. Nel pomeriggio, quando Ratzinger ha rivolto un omaggio al governatore ringraziandolo per il generoso contributo all´organizzazione della sua visita (sembra un milione di euro), le parole del pontefice hanno provocato i fischi dei berlusconiani. Per il ceto politico sardo il breve pellegrinaggio è stato considerato un´occasione per posizionarsi in vista delle elezioni regionali del 2009. Il sindaco Emilio Floris, di onorata famiglia massonica, si è messo a recitare il Pater Noster a braccia alzate come gli antichi cristiani e nel suo benvenuto al pontefice ha elogiato i «principi non negoziabili» della Chiesa.
Benedetto XVI è rimasto al di sopra del teatrino. Ha pregato in sardo un passo dell´Ave Maria, ha lamentato i troppi divorzi e dolori che travagliano le famiglie e ha invitato a pregare per le madri sole. Da Roma intanto, proprio mentre il Papa critica l´equiparazione delle convivenze alla famiglia, con un colpo di scena rimbalzava la notizia che i ministri Rotondi e Brunetta porteranno presto al consiglio dei ministri la riforma delle unioni civili. Ai giovani il Papa ha riservato le parole più appassionate, invitandoli a scoprire le meraviglie della fede e a costruire le famiglie, alimentando l´amore con costanza, responsabilità e senso del dovere. Non fidando solo sul sentimento.

Il Mattino 9.9.08
L’eternità delle cose
Severino e l’elogio della filosofia
Cinquant’anni di ricerca premiati con il Grinzane Il pensatore parla di Chiesa di politica e di tecnologie
di Roberto Carnero


Nato nel 1929 a Brescia, docente di Filosofia teoretica prima alla Cattolica di Milano (da dove se ne andò per divergenze con la dottrina della Chiesa) e poi in quella di Venezia (che nel 2005 l’ha proclamato professore emerito), Emanuele Severino si confronta con Parmenide affrontando l’antico problema ripreso da Heidegger: quello dell’essere e del non-essere.

«La filosofia non è uno dei tanti saperi disponibili, una delle tante voci che possiamo ascoltare all’interno della società. E non è neppure, come afferma qualcuno, un ”genere letterario”. La filosofia è all’origine della razionalità occidentale, e pertanto non è allineabile agli altri punti di vista. Al contrario è il sapere fondativo di tutti gli altri». Con queste parole, nette, forti e cariche di orgoglio per quella che è la disciplina da lui praticata in tutta la sua vita, Emanuele Severino afferma l’importanza e il ruolo del pensiero filosofico nel sistema dei saperi. Severino è uno dei più importanti filosofi italiani. Il suo ultimo libro, Immortalità e destino (Rizzoli, pp. 194, euro 18,50), è una sorta di summa di cinquant’anni di ricerche filosofiche, pensata però in una chiave divulgativa per un pubblico più ampio. Per questo volume domenica Severino ha ricevuto a Santo Stefano Belbo il premio Grinzane Cesare Pavese nella sezione di saggistica. Professore, che cosa può dire oggi la filosofia sulle grandi questioni etiche che dividono la società? Pensiamo al dibattito su dove comincia e dove finisce la vita umana. «Credo che su temi così complessi la filosofia possa dire qualcosa di utile. Spesso in Italia si sente come unica voce portatrice di un’etica quella della Chiesa cattolica. Ma trovo paradossale che la Chiesa, per trattare questi argomenti, si affidi alla scienza. C’è in ciò una contraddizione. La Chiesa infatti parla in nome di una verità assoluta e dunque in maniera dogmatica. La scienza invece oggi quando formula delle tesi, lo fa sempre in modo dubitativo, cioè con il beneficio di una nuova verifica e di una diversa formulazione. Questo perché è stato superato il concetto positivista di scienza come portatrice di verità oggettive». Questo atteggiamento della Chiesa però non sembra una novità. Da San Tommaso in poi essa ha sempre affermato che esiste un connubio tra scienza e fede. Giovanni Paolo II ha scritto un’enciclica intitolata «Fides et ratio» e Benedetto XVI è più volte tornato sulla «ragionevolezza della fede». «È vero, ma San Tommaso viveva in un’epoca in cui ”ragione” era sinonimo di verità incontrovertibile. Dalla fine dell’Ottocento in poi il concetto di ragione si è profondamemte modificato. Questo affidarsi alla scienza e alla ragione da parte della Chiesa oggi mi sembra un po’ una mossa politica, come se il Papa volesse rassicurare le masse, che hanno molta fiducia nella ragione. Eppure, nonostante questa pretesa di ”ragionevolezza”, il cattolicesimo sul piano politico presenta dei problemi». Cioè? «Fermo restando il fatto che in una democrazia, se c’è una maggioranza cattolica, diventa legge ciò che decide quella maggioranza, in genere il politico cattolico vorrebbe che tutti vivessero secondo la morale cattolica, mentre il politico laico tende a riconoscere un più ampio margine alle libertà individuali, lasciando che i singoli vivano secondo le loro convinzioni. Quindi spesso accade che le leggi volute dai cattolici siano meno democratiche di quelle volute dai laici». Come vede la politica italiana? «Come quella di tutti i Paesi occidentali. I politici tendono ad assecondare l’andamento della società. In Occidente la gente ha abbandonato Dio a favore della tecnica. Se Dio prima era il rimedio alla precarietà dell’esistenza, oggi la tecnica, che sembra sempre più onnipotente, ha preso il ruolo di Dio. In realtà stiamo vivendo un’epoca di passaggio dal nuovo al vecchio rimedio. La politica va avanti come se ciò non stesse avvenendo. Anziché cercare di orientare il progresso scientifico-tecnologico secondo la sapienza filosofica, i politici si basano su vecchi parametri etici e religiosi. Come accade ad esempio negli Stati Uniti (ma non solo) con gli integralisti cristiani, che cercano di subordinare la scienza e la tecnologia alla propria visione ideologica». Eppure le religioni sembrano vivere un momento di grande forza, quasi un ritorno all’importanza che avevano un tempo. «Certi ritorni di fondamentalismo islamico o cristiano non sono che momenti congiunturali, all’interno di un percorso la cui direzione mi sembra tracciata con nettezza: la fine dei vecchi sistemi religiosi». A proposito di antichi concetti religiosi, nel suo libro «Immortalità e destino» lei enuclea una nuova idea di eternità. «Nelle religioni tradizionali a essere eterno è Dio, sotto il quale stanno i suoi servi, le creature, gli uomini. L’uomo diventa eterno in virtù di Dio. Io invece affermo un diverso concetto di eternità: eterno è tutto, ogni più piccola cosa acquisisce la propria dignità da un’eternità in cui rientrano tutti i momenti della storia, tutti i luoghi, tutti gli enti, tutti gli eventi e tutte le relazioni tra questi elementi. Ciò esclude ogni concetto di creazione, ma esclude anche la ”lucida follia” di Giacomo Leopardi, di Friedrich Nietzsche e di Giovanni Gentile: cioè che le cose vengano dal nulla e vadano a finire nel nulla. In altre parole, che la realtà sia nulla».

l'Unità 20.8.08
Fermate l’Occidente voglio scendere!
Al giovane senza lavoro fisso che passa da uno stage di formazione all’altro il ricercatore sociale chiede: qual è la categoria sociale che odi di più? La risposta è: la polizia. Domanda ancora l’intervistatore: e poi? Poi, continua l’intervistato, gli insegnanti e gli operatori sociali, perché non ci aiutano né ci proteggono, anzi ci ingannano soltanto: dicono che dobbiamo integrarci in una società che invece è disintegrata, dunque che non esiste. È questo l’unico episodio riportato nell’ultimo libro di Alan Touraine, ma basta da solo a illustrarne il movente e a definirne il paradossale intento: salvare l’idea di società, a costo di decretare la fine di ogni cosa o idea, di ogni discorso che possa chiamarsi sociale, di ogni rappresentazione sociale della società. Quarant’anni fa l’autore ebbe ragione nel coniare il termine «società postindustriale», al punto che ancora oggi pensiamo di stare vivendo all’interno di quest’ultima. Ora si tratta di riconoscere invece l’esistenza della «società postsociale», con tutte le conseguenze del caso.
Da Machiavelli fino a Tocqueville, argomenta Touraine, la realtà sociale è stata descritta ed analizzata in termini politici: ordine e disordine, pace e guerra, re e nazione, popolo e rivoluzione, potere e Stato. Poi due secoli fa, con la rivoluzione industriale, il capitalismo si è liberato dalla tutela politica per porsi direttamente alla base dell’organizzazione sociale, promuovendo in tal modo la sostituzione del paradigma politico con quello economico e sociale, le cui categorie sono quelle oggi più familiari: classi sociali e ricchezza, borghesia e proletariato, sindacati e scioperi, stratificazione e mobilità sociale, disuguaglianze e redistribuzione, concorrenza e investimento. Ma adesso tali categorie non bastano più a descrivere e spiegare il funzionamento del mondo, e ancor meno servono a dar senso alle nostre vite, a render conto a noi stessi delle nostre esistenze. E questo perché nel frattempo, spiega Touraine, è intervenuta la globalizzazione: che non consiste soltanto nella mondializzazione degli scambi e della produzione e nella loro accelerazione, ma è anzitutto una forma estrema di capitalismo fondata sulla completa emancipazione dell’economia da tutte le altre istituzioni, sociali oltre che politiche, ormai del tutto impotenti a controllarne la logica. Il principale effetto di tale processo è stata l’imposizione di un individualismo che ha sradicato i movimenti di massa e reso inservibili tutti i concetti fin qui usati per pensare noi stessi e gli altri, a partire appunto dall’idea di società. Dunque un nuovo paradigma, che proprio al nuovo individualismo va riferito, si va oggi sostituendo a quello sociale: esattamente come a suo tempo quest’ultimo aveva preso il posto del paradigma politico che a sua volta aveva sostituito, all’inizio dell’epoca moderna, la rappresentazione e l’organizzazione religiosa della società. Naturalmente, perché tale interpretazione funzioni bisogna prenderla alla larga e non preoccuparsi di tutti i particolari, non prendere il testo sempre alla lettera. Ad esempio: sarà anche vero, come l’autore sostiene, che rispetto al passato oggi sempre più gente si domanda se il mestiere che esercita ne rispecchia la personalità. Però più difficilmente credibile è che soltanto oggi la gente si chiede se è felice o non lo è: essere in proposito d’accordo con Touraine equivarrebbe a promuovere nostro contemporaneo non dico Jacopo Ortis o qualsiasi altro eroe romantico ma addirittura lo stesso Aristotele.
Scommettere in ogni caso sulle possibilità di comprensione e d’azione dell’individuo al tempo della sua massima influenzabilità e manipolabilità da parte dei gestori dei procedimenti di consumo e comunicazione è gara dura, come si dice, ma è anche gara che per Touraine non presenta alternative. Lo conforta la convinzione (che spartisce con Manuel Castells, il suo più brillante allievo) dell’assenza di ogni determinismo tecnologico all’interno della società dell’informazione: mentre nel mondo di ieri, in seno alla società industriale, la divisione tecnica del lavoro era inseparabile dai rapporti di produzione, nel mondo di oggi i sistemi d’informazione sarebbero dotati invece di una straordinaria flessibilità, al punto da eliminare ogni necessario o meccanico nesso tra struttura produttiva e sua più ampia e generale articolazione in termini sociali. Anzi, ed è il passaggio decisivo: proprio perché viviamo in una società la cui riproduzione dipende non solo da tecniche di produzione ma sempre più da tecniche di informazione, cerchiamo di salvare la nostra singolare esistenza attraverso una sorta di «sdoppiamento creativo» in grado di far nascere accanto all’essere empirico un io individuale portatore di diritti, che proprio nella rivendicazione di quest’ultimi si configura come attore libero. Per molti versi si tratta di una specie di liberazione, poiché a lungo abbiamo proiettato la nostra creatività in qualcosa posto di là dalla nostra specifica esperienza: la nazione, il progresso, la società senza classi, e simili immagini. Adesso la ricerca di noi stessi assumerebbe, fuori da ogni mediazione discorsiva, importanza diretta e centrale, riconfigurando il soggetto sulla base della volontà dell’individuo di essere l’attore della propria esistenza.
Ma cosa garantisce che anche (anzi proprio) tale ricerca non sia alla fine il semplice ed inconsapevole compimento di un programma clandestinamente imposto sulla folla dei potenziali soggetti da chi (e da ciò che) oggi controlla la produzione delle immagini del mondo? Touraine non soddisfa direttamente tale curiosità, ma gli elementi della sua analisi includono la possibilità d’articolazione di una risposta. Al riguardo risulta centrale, tornando per un attimo ai discorsi, l’opposizione tra quello della società e quello della modernità: per il primo le norme sociali risultano fondate soltanto sull’interesse della società stessa, che in tal modo produce da sola il proprio fondamento, la propria legittimità; l’idea di modernità, al contrario, nasce proprio con il riconoscimento e la difesa dell’esistenza di fondamenti non sociali dell’ordine sociale, come prova prima d’altro l’importanza assegnata alla ragione. Tale importanza non dipende soltanto dal ruolo di quest’ultima nel funzionamento della società, anzi essa riflette un carattere universalista che travalica da ogni lato i limiti di qualsiasi singola società, al punto che proprio a tale universalismo è connessa un’idea che nessuna società, preoccupata solo da norme funzionali al proprio interesse, potrebbe concepire: l’idea dei diritti non dei membri della società stessa, ma l’idea, incomparabilmente più generale ed estesa, dei diritti dell’uomo. Ora, esattamente come la modernità che è la sua espressione storica, il soggetto che Touraine ha in mente e cui si rivolge si definisce proprio come portatore dell’adesione al pensiero razionale e al contemporaneo rispetto dei diritti individuali universali, che cioè non sono limitati a nessuna particolare categoria sociale: è il soggetto la cui prima incarnazione ha coinciso, all’inizio dell’epoca moderna, con l’idea di cittadinanza, che ha appunto imposto l’osservanza dei diritti politici universali di là da ogni appartenenza comunitaria, dunque in definitiva l’idea di laicità e della separazione tra Stato e Chiesa. E che oggi, in seguito alla crisi del paradigma politico e del successivo paradigma sociale, si ripresenta nella veste del detentore di quel che Touraine chiama il paradigma culturale: il nuovo, odierno paradigma volto alla difesa di specifici, particolari attributi dipendenti dai differenti esiti delle singole modernizzazioni (cioè dei differenti incontri della modernità con i diversi campi sociali e culturali di cui il mondo si compone) sempre però all’interno di un orizzonte di validità universale della rivendicazione stessa - in definitiva dunque sempre coerente con gli esiti culturali (razionalistici ed universalistici) della modernità occidentale. E poiché si tratta nel complesso del passaggio da una cultura rivolta verso la conquista e l’esterno ad un’altra rivolta verso l’interno e verso la coscienza di sé, sono le donne più che gli uomini a veicolare il paradigma che avanza, al punto che secondo Touraine saremmo già entrati in una società femminile: gli uomini posseggono denaro e potere, e questo resta indubbio, ma più degli uomini le donne detengono il senso delle situazioni vissute, e soprattutto la capacità di formularlo.
Quel che più di ogni altra cosa rassicura in tutto ciò, e risponde alla domanda sopra avanzata, è il carattere di resistenza nei confronti della realtà che si assume il soggetto debba sviluppare nel compimento del proprio processo di «soggettivazione», come Touraine lo designa, nel «lavoro su di sé», avrebbe detto Foucault, cui l’individuo viene chiamato. Per il resto, altre, successive questioni si affollano. Touraine è il primo a riconoscere che il mondo occidentale, «insieme vago ma reale», oggi si è dissolto: per quale motivo dovrebbero invece restare validi i princìpi che risultano dalla sua più recente storia, su cui il paradigma culturale si fonda? Di più: perché dovrebbero riconoscersi in esso culture che, come ad esempio quella islamica, non hanno mai conosciuto, poniamo, il concetto di cittadinanza della nostra modernità? Vale insomma anche in questo caso, in qualche misura, la critica che James Clifford rivolge all’etnocentrismo del pensiero occidentale, alla nottola che per Hegel si alzava al crepuscolo: poiché la Terra è rotonda non può trattarsi del crepuscolo per la Terra intera, ma soltanto del crepuscolo (del pensiero) per un singolo paese. E poi ancora: che cosa davvero si intende con il termine «razionalità», e in quali rapporti il suo contenuto si trova con, poniamo, la ragionevolezza? Tanto più che è lo stesso autore a riservare accenti critici, almeno in un paio di punti, alla validità del concetto di ragione scaturito dal secolo dei Lumi.
Il che non toglie che, se riportata alla situazione europea, l’analisi di Touraine risulti quanto mai convincente, ed oltremodo efficace nella messa a punto di una linea di condotta per l’azione politica in un momento che vede ovunque l’indebolimento delle comunità nazionali e il rafforzamento di quelle etniche, e spesso di conseguenza l’opposizione netta tra cittadinanza, appunto, e comunitarismo: tra il pieno esercizio dei diritti politici in un paese democratico e l’imposizione di pratiche e divieti ai membri della comunità da parte dei dirigenti, che limita il diritto civile degli uomini e delle donne coinvolte e mina seriamente le libertà individuali. Di qui, per Touraine, la necessità della scelta strategica della difesa dei «diritti culturali», che non soltanto sono positivamente legati ai diritti politici ma costringono le stesse democrazie a riflettere su se stesse e a trasformarsi per riconoscerli, analogamente a quanto già compiuto, nei secoli passati e tra aspri conflitti, per garantire i diritti sociali a tutti i cittadini. Una specie di rivoluzione per un paese come il nostro, in cui il discorso politico appare sempre più dominato da ideologie comunitariste ed identitarie, e dove a chi arriva si tende a negare non soltanto il diritto di essere altro ma anche quello di essere come gli altri.

lunedì 8 settembre 2008

l’Unità 8.9.08
Leggi razziali
Non si gioca con la Storia
di Nicola Tranfaglia


È difficile crederlo. Ma Gianni Alemanno, vincitore delle elezioni di aprile e nuovo sindaco di Roma si è dimostrato più fascista del capo di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini. Questi, cinque anni fa, in visita a Gerusalemme, aveva parlato del fascismo come epoca del «male assoluto». Per Alemanno (diventato, grazie ad alcuni dirigenti della comunità ebraica di Roma, vicepresidente della Fondazione del Museo della Shoà fondato nella capitale) le cose non stanno così.
In un’intervista al Corriere della Sera di ieri definisce le leggi razziali come il «male assoluto» ma, nello stesso tempo, giudica il fascismo «un fenomeno più complesso». Se il regime mussoliniano adottò quelle leggi, dice in sostanza Alemanno, fu per un cedimento alla Germania nazista e non in conseguenza di un carattere essenziale dell’Italia fascista.
Per gli studiosi, non solo italiani, le dichiarazioni del sindaco di Roma corrispondono a una visione del fascismo che non ha un effettivo fondamento storico. Chi conosce, sulla base dei documenti a disposizione, la nascita e l’evoluzione del movimento fascista non può avere oggi la visione semplicistica e assolutoria che ci propone il sindaco di Roma.
Innanzitutto ad Alemanno occorre ricordare che una corrente antisemita c’è sempre stata nel movimento fascista dagli anni dell’esordio. Un personaggio come Giovanni Preziosi, direttore della rivista antisemita La vita italiana e negli ultimi anni esponente importante del fascismo trionfante e poi della Repubblica Sociale Italiana, ha militato sempre nel movimento mussoliniano e ha detto con chiarezza fin dagli anni venti che cosa pensava degli ebrei.
In secondo luogo, la campagna di discriminazione razziale non incomincia in Italia nell’ottobre 1938 ma parte, sul piano culturale, almeno quattro anni prima con la circolare di Mussolini del 3 aprile 1934 sulla censura e il sequestro dei libri proibiti: il primo libro sequestrato è il romanzo Sambadù amore negro della scrittrice Maria Volpi alias Mura che mostrava in copertina un’italiana che baciava un africano nero.
L’inizio punta, insomma, sul contrasto tra neri e bianchi che, con l’impresa di Etiopia, provoca decreti razzisti di discriminazione nella nuova colonia italiana che è all’origine dell’impero fascista.
Quanto al 1938, l’Italia fascista anticipa e precorre con le sue leggi razziali la legislazione nazionalsocialista, introducendo divieti e misure che escludono drasticamente dalla società italiana tutti gli ebrei.
Ma, a parte quella che è una ricostruzione, sia pure sintetica, della vicenda italiana che sfocerà qualche anno dopo nella Shoà consumata nell’alleanza con Hitler, ha senso staccare la storia del fascismo da quella del razzismo antisemita?
A nostro avviso non ha nessun senso perché il legame tra fascismo e antisemitismo ha percorso dall’inizio l’evoluzione del movimento mussoliniano e ne ha segnato in maniera tragica la terribile conclusione. In tutta l’Europa dove il fascismo non ha vinto non abbiamo mai assistito a fenomeni di razzismo e antisemitismo paragonabili a quelli dell’Italia fascista e della Germania nazista. E dunque non si può liquidare il fascismo come «un fenomeno più complesso» e non sottolineare il legame tra i due fenomeni. Nè ha senso alcuno difendere il fascismo come se nulla avesse a che fare con l’antisemitismo né liquidare quelli che vi aderirono parlando della loro supposta buona fede.
Alemanno, sempre nell’intervista al Corriere della Sera, non nega di portare sul petto la catena con la croce celtica e si ostina a parlarne come di un simbolo esclusivamente religioso quando l’esperienza storica del Novecento sa bene che quello fu un simbolo dei movimenti fascisti e, in particolare, del nazionalsocialismo.
Reticenze e piccole ambiguità, insieme ad errori storici di fondo, poco si addicono, mi pare, a chi in questo momento è sindaco di una grande capitale come Roma.

l’Unità 8.9.08
Il valore della memoria
di Tobia Zevi


Fascismo, leggi razziali, Olocausto. Termini che vengono continuamente evocati - nel dibattito culturale come nella polemica politica - ma a cui non sempre si è in grado di attribuire il giusto significato. Le dichiarazioni di Alemanno da Israele, che vogliono attenuare quelle di Fini sul fascismo (definito «male assoluto»), inducono a riflettere sul tema della memoria, soprattutto nell’ottica delle nuove generazioni.
Tra le tante ragioni che rendono questa discussione urgente, ce ne è una “tecnica”: anno dopo anno si riduce il numero dei sopravvissuti, ed il testimone passa necessariamente nelle mani di persone che non furono investite direttamente dalla tragedia, e che quindi hanno verso quest’ultima un atteggiamento critico e mediato.
Negli ultimi anni si è assistito ad un proliferare di manifestazioni pubbliche sulla Shoah. Eventi istituzionali, arricchiti dal lavoro prezioso portato avanti nelle scuole da presidi e docenti spesso assai motivati e preparati. Si può affermare che i giovani sono stati interessati da una mole di iniziative sull’Olocausto, favorite dallo spazio che i media dedicano al tema per la Giornata della Memoria (27 gennaio, legge dello Stato). Ovviamente, se da questo punto di vista possiamo essere soddisfatti, conviene però interrogarsi sull’efficacia di questo lavoro, messa seriamente in discussione dalle inchieste che periodicamente evidenziano l’enorme ignoranza dei ragazzi sulla storia di quegli anni.
Almeno tre sono a mio parere i punti critici. In primo luogo è lecito domandarsi se il carattere istituzionale delle manifestazioni pubbliche non allontani da una percezione individuale, empatica e tragica dei fatti narrati. Mentre il contatto con i sopravvissuti consente ai giovani una immedesimazione sincera con le vittime, ciò non sempre accade nelle cerimonie “consacrate”. D’altra parte è opportuno ragionare anche sulla figura del testimone, come ha tra gli altri mirabilmente fatto Annette Wievorka. L’urgenza di avvalersi il più possibile - e giustamente - della disponibilità dei sopravvissuti, li ha però resi assolutamente preponderanti. Alla significativa presenza di ex-deportati nelle scuole non ha fatto riscontro un approfondimento della vicenda storica, delle cause che condussero alla tragedia e delle varie e molteplici responsabilità che la resero attuabile.
E proprio la dimensione delle responsabilità mette in luce il terzo pericolo fondamentale, evidenziato dalle parole del sindaco di Roma. Nel tentativo di edulcorare a fini politici un’epoca - ai postfascisti viene chiesto conto solo dell’antisemitismo, e non del carattere autoritario e dittatoriale del Ventennio - si contribuisce a distogliere l’attenzione da quelle che furono le colpe reali. Si cerca di scaricare interamente sui nazisti il peso della Shoah o a ridurre la portata razzista del colonialismo italiano, invece di indurre i giovani a porsi la domanda più importante: cosa avrei fatto io non al posto della vittima, ma della persona qualunque? Perché è doveroso ricordare i “giusti”, coloro che eroicamente misero a repentaglio la propria vita per salvare esseri umani senza chiedere nulla in cambio; ma non si può omettere che solo dodici (12!) furono i professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al regime, unici a non preoccuparsi esclusivamente della propria carriera accademica. Anche questo fu il degrado etico e culturale che chiamiamo fascismo, frutto di vent’anni di asservimento intellettuale e di privazione della libertà.
Una memoria che sappia guardare al futuro, dunque, una memoria per i giovani, non può essere un monumento, un cristallo: deve essere attualizzata e declinata ogni giorno per i diritti e le libertà di quanti oggi, nel mondo, soffrono persecuzioni ed ingiustizie. Solo se, ragionando sul passato, ci si muoverà con questa stella polare, noi giovani saremo nella condizione di rispondere efficacemente alla più decisiva delle domande: che cosa avrei fatto io? E, dunque, cosa posso fare oggi?

l’Unità 8.9.08
Epifani contro Gelmini: «È la peggiore legge sulla scuola»
Bossi contro Gelmini: «Per fare il ministro bisogna aver insegnato. Prima il federalismo e poi la cambiamo»
di Oreste Pivetta


PROTESTE Mentre la professoressa Gelmini illustrava la sua ricetta (tagli, efficienza, meritocrazia) per cancellare qualche decina di migliaia di maestri delle scuole elementari, senza mai sprecare una sola parola per chiarire quali siano i suoi riferimenti pedagogici a parte Reggio Calabria (chi sceglierebbe insomma tra Montessori, Codignola, Borghi... o Rudolf Steiner, l’inventore delle scuole frequentate dai figlioli del nostro presidente del consiglio), in un altro lato del guardino di Villa d’Este, per il Workshop Ambrosetti, Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, pronunciava parole forti, dopo quelle caute sui contratti, a proposito della nuova riforma scolastica: «La più grave - diceva Epifani - tra le scelte fatte finora dal governo». Con una conseguenza: una protesta molto estesa tra le famiglie. Alla vigilia dell’anno scolastico. «Il ritorno al maestro unico sta generando preoccupazione tra i ragazzi e nelle famiglie. È un problema serio - aggiungeva Epifani - e costituirà il punto di una protesta molto estesa perché sapere se un bambino può restare a scuola dalle 8 di mattina alle 16.30 o meno è una questione che riguarda la vita e la condizione delle famiglie». E finalmente reintroduceva nella discussione il concetto di qualità: «La scuola non può vivere in logiche solo quantitative e dove la qualità non conta mai».
La Gelmini con lo sguardo fisso ripeteva ai più svariati microfoni la stessa solfa: la scuola non è il parcheggio dei disoccupati, la scuola non è un ammortizzatore sociale, il merito in prima linea, non toccheremo il tempo pieno, voglio una scuola con meno professori. Poi via libera all’orgoglio gelminiano: «Questo è un governo rivoluzionario, un governo che vuole rivoltare la pubblica amministrazione come un calzino. Un governo che vuole eliminare gli sprechi e riformare il Paese». Infine la vendetta: «Veltroni non mi pare che abbia un curriculum scolastico per cui possa dare lezioni». Sì, è vero, Veltroni, che aveva ricordato come la Gelmini fosse andata «a fare gli esami per diventare avvocato dove è più facile farli», non è laureato. Walter Veltroni non è tornato sull’argomento. Ha parlato, invece, sottolineando l’assurdità della partenza: si comincia, mettendo mano ad una scuola, quella elementare, che ancora funziona bene. Una scuola, peraltro, fondamentale nell’arco della formazione di un bambino. Tagliare, senza alcuna riflessione sui metodi, sui contenuti: «Mentre sarebbe indispensabile un’idea complessiva di rilancio e il primo passo sarebbe motivare gli insegnanti e restituire sicurezza ai ragazzi».
La sua idea della scuola l’ha esposta anche il ministro Tremonti. Ha scelto una formula da supermercato: «Maestro unico, libro unico, voto». Poi s’è lasciato prendere dalla nostalgia, ricordando i bei tempi in cui il sillabario veniva conservato con cura e trapassato da fratello a fratello, da padre a figlio. Nostalgia non infondata: riveda il ministro le strategie delle case editrici, che cambiano i loro testi scolastici di una virgola, proprio per impedire il riciclaggio. Preso dall’entusiasmo per i tagli riformatori, Tremonti s’è infine lasciato andare ad un giudizio definitivo sulla scuola italiana: «Macchina distruttiva». Giudizio, purtroppo, esatto o quasi, soprattutto se si corre dalle superiori alle università, ai cepu, agli iulm, al degrado che ha coinvolto tanta parte dell’istruzione in Italia. Il ministro s’è fermato allo slogan, avrebbe avuto la responsabilità di indicare le cause di tanta rovina, perché una politica e una cultura di primordine non siano riusciti a dare risposte adatte alla nuova, inevitabile, domanda di scolarità di massa.
Le ore più «calde» della domenica però, per il ministro Gelmini, sono state quelle serali. Da Torino le arriva un attacco fortissimo da parte di Umberto Bossi. Nel corso di una manifestazione della Lega il senatur, dopo aver dichiarato che «un ministro dell’Istruzione deve essere stato prima come minimo un insegnante», ad una donna che lo invitava a «mandare a casa la Gelmnini», ha risposto: «Se comincio a mandare a casa un ministro è facile che si ingrippi il governo. Facci fare il federalismo figliola, poi ci pensiamo». Bossi ha infine aggiunto: «La scuola magari, la prossima volta, la chiederà la Lega, chi lo sa... ». Pronta la replica della Gelmini: «Sono stupefatta della confusione mentale di Umberto Bossi, che a metà agosto ha detto che tre maestri erano troppi e ne bastava uno perché serviva un riferimento unico. Il 7 settembre dice esattamente l’opposto. Si metta d’accordo con se stesso prima di parlare di scuola».

Repubblica 8.9.08
La titolare dell'Istruzione: sulla scuola 30 anni di politica irresponsabile
"Mi dispiace per i 200 mila precari ma il loro futuro non dipende da me"
di Mario Reggio


ROMA - Se non è una vera dichiarazione di guerra ci siamo vicini. Ieri, a Cernobbio, Mariastella Gelmini, da pochi mesi ministro della Pubblica Istruzione, ha lanciato un messaggio chiaro ai sindacati: «Per la scuola è finita un´epoca, non sarà più un ammortizzatore sociale se lo mettano in testa tutti, sindacati compresi se non vogliono risultare impopolari al Paese. Basta melina».
Anche se la Gelmini sa che Cgil, Cisl e Uil stanno affilando le armi contro gli 8 miliardi di tagli nei prossimi tre anni e la cancellazione di 110 mila insegnanti e 40 mila non docenti, ha deciso la linea dura. Ma si troverà di fronte anche i Cobas, che nella storia della scuola hanno spesso trainato la protesta. «Nella scuola c´è troppa ideologia, negli ultimi 30 anni la politica si è comportata in maniera irresponsabile, per troppi anni sindacati e governi compiacenti hanno ribaltato la missione della scuola - continua Mariastella Gelmini - che è fatta per gli studenti e non per pagare una cifra spropositata di stipendi che sono pure da fame, così come gli ospedali non sono fatti per pagare i medici ma per i malati». Passi per Luigi Berlinguer e Giuseppe Fioroni, ma chissà come reagirà Letizia Moratti.
L´atteggiamento è quello di una donna decisa, che non ha paura dei moti di piazza, perché è convinta che l´opinione pubblica sia dalla sua parte. Ma il tour de force al quale si è sottoposta comincia a far affiorare segni di stanchezza. Ogni tanto si toglie gli occhiali e si stropiccia gli occhi. Ma è giovane e a 35 anni le energie si recuperano in fretta.
Eppure il mondo della scuola è molto complesso, difficile da capire, e le riforme fatte dai "ragionieri" hanno il fiato corto, se non altro perché comprende un milione e trecentomila esseri umani, senza contare i quasi 200 mila precari che dovranno cercarsi un altro lavoro. «È un problema molto grave, ma è anche il frutto delle cattive politiche dei decenni passati - risponde Mariastella Gelmini - non dipende certo da me. Dovremo sforzarci di trovare nuove figure professionali dove inserirli».
Passano le ore e lo scontro frontale s´avvicina. Da domani, piano piano, riapriranno le aule, più di 7 milioni di studenti vivranno per la prima volta o proseguiranno un´esperienza storica e irripetibile nella vita: i professori, i libri, le paure, le interrogazioni, la noia, le gioie e le passioni della giovinezza. Scarse le speranze per il futuro. E che scuola troveranno? Una scuola nervosa, insegnanti pronti a spiegare ai giovani quanto le novità che si avvicinano saranno un vero tsunami.
Il ministro della Pubblica Istruzione sembra tranquilla: «L´opinione pubblica è con me, la politica irresponsabile del passato ha rubato il futuro ai giovani della mia generazione, ma sui cittadini italiani del 2020 non si deve scherzare. Il loro destino non può essere oggetto di bassa speculazione politica».
Ma è davvero così tranquilla? La storia racconta come Luigi Berlinguer, quando s´inventò la valutazione degli insegnanti, venne sonoramente sconfitto dalla piazza e questo gli costò caro. Letizia Moratti restò 5 anni, ma la dura opposizione di docenti e studenti sconfisse il suo progetto.
E poi, perché tutta questa fretta di mettere in campo misure così drastiche e traumatiche? «La scuola italiana è al collasso, anche io pensavo che si potesse intervenire con gradualità - risponde - invece non è possibile. È indispensabile agire subito. Le parole che si levano contro di me e il ministro Tremonti sono di chi vuole che nulla cambi e che la scuola rimanga un luogo che scontenta professori e studenti».

l’Unità 8.9.08
Eutanasia e aborto: Zapatero accelera, la Chiesa attacca
Sui due spinosi dossier istituiti comitati di saggi per mettere a punto le riforme. Il premier aumenta del 6% le pensioni minime
di Toni Fontana


A due mesi esatti dal 37° congresso del Psoe e due giorni da un importante appuntamento in Parlamento, Zapatero rilancia sui temi della laicità e apre un nuovo terreno di confronto con le gerarchie ecclesiastiche, sempre più allarmate. Nei giorni scorsi la più giovane delle ministre del governo di Madrid, l’andalusa Bibiana Aìdo, responsabile per l’Uguaglianza, aveva annunciato la costituzione di un comitato di saggi incaricato di individuare i criteri ai quali si ispirerà la nuova legge sull’aborto che l’esecutivo intende approvare e fare entrare in vigore «entro la fine del 2009». Ieri è sceso un campo il titolare del dicastero della Sanità, Bernat Soria che, in un’intervista a El Paìs, ha fatto sapere che la riflessione sull’eutanasia «è già aperta, ma ci vorrà tempo».
Anche in questo caso, come per l’aborto, i ministri di Zapatero non sembrano pressati dalla fretta e anche i dicasteri della Sanità e della Giustizia hanno riunito «un’équipe di esperti» incaricati di lavorare senza clamori e di riferire «in modo confidenziale». L’introduzione dell’eutanasia non è questione di settimane; il ministro ha spiegato che potrebbe avvenire «entro il 2012». Le due iniziative era attese. Il congresso del Psoe, che si è tenuto ai primi di luglio, aveva sancito una nuova svolta «izquierdista» di Zapatero e del gruppo dirigente. Aborto, eutanasia, rimozione dei simboli religiosi dai luoghi pubblici erano stati i tempi maggiormente trattati nell’assise e quelli che avevano attirato l’attenzione dei delegati. La svolta non aveva tuttavia convinto tutti anche tra coloro che sostengono il nuovo corso di Zapatero. La destra ha accusato il leader di puntare sulla laicità per far dimenticare le crescenti difficoltà economiche ed anche un quotidiano attento alle ragioni dei socialisti come El Paìs non ha lesinato le critiche al premier, incerto nella risposta alla crisi economica e contraddittorio sui temi della laicità (il programma del Psoe alle recenti elezioni non menzionava la questione dell’aborto). Tutti comunque, anche gli irritatissimi vescovi, concordano sul fatto che - come ha detto la vice di Zapatero, Maria Teresa Fernandez de la Vega - «l’attuale normativa è superata dagli eventi e in parte può risultare ambigua». Le ricette per superarla ovviamente divergono, ma anche i vescovi che si schierano, manco a dirlo, per una legislazione più restrittiva, pur attaccando Zapatero chiedono «il dialogo». L’attuale legislazione restringe l’interruzione della gravidanza a tre casi: stupro (12 settimane), «gravi tare psichiche o fisiche del nascituro» (22 settimane con parere del medico) e «grave pericolo per la vita e la salute psichica della madre» (senza limiti, ma con parere vincolante del medico). La maggior parte (oltre il 90%) degli aborti che avvengono in Spagna viene giustificato con la terza possibilità offerta dalla legge. Ciò ha scatenato le ire dei conservatori e ispirato alcune inchieste della magistratura che hanno visto molte donne sul banco degli accusati. Anche la legislazione sull’eutanasia è restrittiva. Attualmente le leggi spagnole riconoscono ai malati il diritto di rifiutare le cure, ma puniscono chi aiuta qualcuno a porre fine ai suoi giorni.
In un caso e nell’altro, cioè su aborto ed eutanasia, la Spagna di Zapatero avvia il dibattito, ma prevede tempi lunghi o comunque non brevi per individuare una soluzione. La stampa, con toni diversi a seconda degli orientamenti, rilancia il sospetto che il leader stia cercando di «depistare» il dibattito politico. Il leader però non si scompone. Mercoledì Zapatero parlerà dei temi economici al Congresso dove gli avversari lo stanno aspettando per attaccarlo. Ieri Zapatero ha rivendicato con orgoglio il lavoro fatto dal suo governo «di fronte alle difficoltà economiche» ed ha annunciato che entro il 2009 le pensioni minime saranno aumentate del 6% (del 25% entro il 2012). Zapatero ha soprattutto ribadito che, anche in presenza di una situazione economica sempre più preoccupante, il suo governo «continuerà a portare avanti politiche progressiste». In tal modo ha anche rimproverato il suo ministro del Lavoro Celestino Corbacho che aveva adombrato uno stop alla contrattazione con i paesi di origine degli immigrati per definire le quote. Corbacho, esponente dell’ala moderata del Psoe e membro della delegazione catalana nel governo, era già stato smentito dalla de la Vega e ieri, indirettamente, da Zapatero.

Repubblica 8.9.08
Ignazio Marino, senatore e chirurgo, è promotore di un disegno di legge sul testamento biologico
"Da medico non farei mai quell´iniezione ma in Italia si trascura il dolore dei malati"
di Elena Dusi


L´Italia scossa delle polemiche si aggrappa all´unico scoglio che sembra restare saldo. L´articolo 32 della Costituzione prevede che nessuno possa essere obbligato a un determinato trattamento sanitario. «Ma ora nel nostro paese rischiamo di vedere intaccato anche questo principio» lamenta Ignazio Marino, chirurgo specializzato in trapianti e senatore del Partito democratico.
Lei ha presentato un disegno di legge sul testamento biologico che ha lo scopo di evitare l´accanimento terapeutico. Perché ora teme un passo indietro?
«Esistono altri disegni di legge concorrenti che limitano la libertà di un cittadino di disporre di se stesso. Il mio obiettivo è che una persona lucida e cosciente possa dire: "Questo trattamento non lo voglio". Altre proposte in parlamento vogliono invece imporre la nutrizione artificiale nel caso in cui un malato non sia più in grado di mangiare. Questo stravolge la nostra norma, che da tre legislature cerca di farsi strada in parlamento. È un passo indietro perché si unisce a un uso scarso degli antidolorifici e a una grave mancanza di assistenza dei malati terminali nel sud Italia. Dei 120 hospice presenti nel nostro paese, 103 sono al nord. Questo vuol dire disattenzione di fronte alla sofferenza dei malati. E invece il discorso del ministro della salute spagnolo ruota tutto intorno alla riduzione del dolore».
In Italia si arriverà mai a parlare di suicidio assistito?
«Spero di no. Sospendere una terapia quando non c´è più nessuna speranza è un conto. Praticare un´iniezione letale, anche se su richiesta di un malato, è qualcosa che va oltre il rapporto che si instaura fra un paziente e il suo medico. Da chirurgo specializzato in trapianti di fegato mi sono trovato spesso di fronte alla morte e alle scelte dolorose, ma non sarei mai in grado di praticare un suicidio assistito».
Quindi è contrario alla proposta del ministro Soria?
«Sì, ma due aspetti mi piacciono molto: l´idea di discutere di argomenti così complessi con calma e all´interno di una commissione (purché tutti siano disposti ad ascoltare gli altri). E l´attenzione che si presta alla lotta contro la sofferenza».

l’Unità 8.9.08
«Guerra civile, ancora aspettiamo la verità»
di Maria Serena Palieri


BERNARDO AXTAGA Si è chiuso ieri il Festivaletteratura di Mantova che ha ospitato, tra gli altri, il cinquantenne scrittore basco: «L’inchiesta aperta dal giudice Garzòn per ottenere le liste dei fucilati - dice - forse può aiutarci a scoprire qualcosa in più»

Bernardo Axtaga ha trascorso gli ultimi undici mesi a Reno, nel Nevada, grazie a una borsa di studio offerta dal centro di studi baschi dell’università locale. Nel singolare scenario della città nel deserto ha lavorato a due libri, uno di giorno a l’altro di notte. Ora racconta che un pomeriggio in cui ne aveva abbastanza di scrivere si è messo davanti alla tv a giocare col telecomando, finché la sua attenzione è stata catturata da un documentario. Era Mondovino, il film-inchiesta di Jonathan Nassiter sulle follie della globalizzazione dell’industria enologica. Una visione che il cinquantasettenne scrittore basco ora consiglia a tutti. È lì che ha scoperto, tra l’altro, un surreale scenario custodito in un angolo della penisola iberica: «Nella Rioja, la regione produttrice dei grandi vini, in mezzo a un villaggio di case tradizionali marroncine, si erge l’equivalente di un piccolo Guggenheim: è una scintillante enoteca disegnata, come il museo di Bilbao, dallo stesso Frank O. Gehry» spiega. «Dentro è un bunker. E quale rapporto hanno con essa gli abitanti del luogo? Nessuno. Dobbiamo cominciare ad avere consapevolezza che esiste un mondo dentro il nostro mondo: quello dell’élite che transita dall’aeroporto all’hotel a sei stelle al campo da golf e che per essa si sta disegnando nel pianeta una geografia esclusiva». Atxaga, all’anagrafe iscritto come Joseba Irazu Garmendia, nato nel 1951 ad Asteasu, Guipúzcoa, ha vissuto per diversi anni a Bilbao. Cosa pensa del capolavoro di titanio firmato Gehry col quale, dal 1997, volente o nolente la città basca viene identificata? «In molte città europee oggi ci si cimenta con lo stesso dilemma: in quell’area centrale e dismessa cosa facciamo? Alloggi popolari o un campo da golf o un museo firmato da una star internazionale e finanziato con capitali multinazionali? Sono due ideologie che si confrontano. Nel caso di Bilbao, però, nonostante le mie convizioni, penso che la vecchia città, che ho conosciuto operaia con le sue enormi fabbriche, aveva bisogno di rinascere e con il Guggenheim ha vinto la scommessa».
Atxaga da quasi quarant’anni combatte la battaglia per la sopravvivenza delle diversità culturali scrivendo in euskera, la lingua parlata da meno di un milione di persone e che il caudillo Franco aveva condannato alla cancellazione. Impegno vincente, visto che viene periodicamente inserito nelle liste degli scrittori più importanti del pianeta. E solo con l’ultimo romanzo, Il libro di mio fratello (Einaudi, 2007), e solo in Italia, quest’anno ha conseguito due riconoscimenti di spicco, il premio Mondello e il Grinzane Cavour.
Nel Libro di mio fratello David e Joseba, i due amici fraterni, condividono un’abitudine: si scambiano parole in euskera scritte su rotolini di carta e, messele in una scatoletta, le seppelliscono, perché la lingua non vada perduta. Da quest’anno il Festivaletteratura ha varato la scrittura di un dizionario europeo, le cui voci sono parole multilingui «regalate» dagli scrittori che partecipano. Le hanno rubato l’idea?
«No, ma constato che si allarga la reazione contro l’inglese, il Sole di un sistema dove le altre lingue si sentono relegate al ruolo di pianeta. Su Le Monde Diplomatique un articolo osservava come sia assurdo che un turista francese a Roma chieda informazioni in inglese. E proponeva di cominciare a pensare a una lingua comune per la koiné latina, spagnoli, francesi, italiani. Altri, come già noi baschi, cominciano a sperimentare sulla propria pelle cosa significhi l’omologazione linguistica».
A questo si oppone il gioco di David e Joseba?
«Una scatoletta di parole è anche simbolo di altro: è il libro. Chi scrive, romanziere o giornalista, lotta con le parole. Ci sono poteri molto grandi che si servono di esse. C’è un linguaggio che nasconde e ci sono romanzi e poesie che svelano. In Nevada ho assistito ai funerali di due soldati morti nella guerra in Iraq. Il pastore usava parole come “duty”, “honour”, “sacrifice”. Ma erano due venticinquenni morti in una guerra brutale e senza prestigio, per il petrolio. Lottare con le parole significa parlare della vita nel modo più esatto possibile».
Nel dopo Franco la parola d’ordine in Spagna è stata «riconciliazione». Ora il giudice Balthazar Garzòn ha aperto un’inchiesta per ottenere le liste dei fucilati durante la Guerra civile. E nella narrativa la Guerra torna con insistenza, con lei, Julio Llamazares, Javier Cercas. C’è una verità che ancora va detta?
«Questo mio ultimo romanzo in realtà vuole parlare dell’amicizia tra due ragazzi baschi e autonomisti negli anni Sessanta e Settanta. È l’equivalente di un romanzo ambientato in Italia ai tempi di Autonomia Operaia. E, certo, traccio un filo dalla Guerra Civile a quel dopo. Nella riconciliazione non ho mai creduto. Credo nel conflitto che bisogna cercare di mantenere, però, incruento. Perciò non condivido la linea narrativa riconciliatoria di Cercas. È un fatto, la Destra con Aznar negli ultimi dieci anni ha resuscitato un linguaggio aggressivo come quello dei “nacionales” di allora. Ha minacciato di inviare carrarmati nei Paesi Baschi. C’è una verità da dire, ancora. Quella a cui tra l’altro - Dio a volte scrive giusto, con le righe storte degli uomini...- vuole contribuire giudice Garzòn».
Qual è il suo giudizio sul governo Zapatero?
«Ho votato Izquierda Unida. Zapatero è incomparabilmente meglio di Aznar. Ma gioca in difesa, è lento, iperprudente. Gli do zero, come voto, sulla negoziazione con l’Eta. I seguaci di Batasuna sono giovanissimi sensibili ai simboli: cosa gli sarebbe costato, per esempio, riavvicinare i detenuti politici ora rinchiusi lontanissimo, alle Canarie?»
Cosa ha scritto in Nevada?
«Una riscrittura umoristica e sinistra di Cuore di tenebra di Conrad. Un romanzo sui soldati. È stata un’esperienza di metamorfosi di stile. E cambiare è la cosa più difficile da fare».

l’Unità 8.9.08
LHC, parte il viaggio verso le origini dell’universo
di Cristiana Pulcinelli


TRA DUE GIORNI prova di funzionamento per la macchina più potente costruita dall’uomo. Un’impresa durata 14 anni che impegna 10.000 scienziati. Ci farà capire come si è formato il mondo che ci circonda?

Ci siamo: tra due giorni sapremo se LHC funziona. Mercoledì 10 settembre un primo fascio di protoni farà un giro di prova nell’acceleratore di particelle più potente del mondo. Chi sta lavorando alla costruzione di questa macchina da 14 anni proverà un tuffo al cuore. Ma anche per noi che seguiamo l’avvenimento da spettatori l’emozione sarà forte.
LHC è un progetto del Cern. Il suo nome per esteso è Large Hadron Collider. Large perché è grande, così grande che i fisici sono convinti che una macchina così grande non verrà costruita mai più. Hadron perché accelera protoni e ioni, particelle della materia che rientrano nella categoria degli adroni. Collider perché queste particelle vengono fatte collidere, ovvero scontrare tra loro.
Com’è fatto
A 100 metri sotto il livello del suolo, LHC corre a cavallo tra la Svizzera e la Francia in un tunnel circolare lungo 27 chilometri. Il tunnel era stato costruito per il vecchio acceleratore del Cern, il Lep, che è stato smantellato nel 2000. LHC però è 100 volte più potente del Lep. Al suo interno 2 fasci di particelle circoleranno in direzioni opposte in un vuoto paragonabile a quello dello spazio intergalattico e a una velocità pari al 99,9999991 % di quella della luce. Per ottenere questo risultato LHC utilizza 9000 magneti il cui scopo è mantenere i protoni concentrati in un fascio di spessore inferiore a quello di un capello e far curvare questi fasci. I magneti lavorano al freddo, la temperatura all’interno di LHC è la più bassa che potrete trovare nell’universo: -271 gradi Celsius. Si calcola che se LHC utilizzasse magneti tradizionali dovrebbe misurare 120 chilometri per raggiungere la stessa energia. In quattro punti della circonferenza i fasci vengono fatti scontrare: lì si aprono enormi caverne che ospitano gli esperimenti, ovvero i rivelatori di particelle: ATLAS, CMS, ALICE e LHCb. Anche qui le dimensioni sono enormi: ATLAS è una macchina lunga 46 metri e alta 25, come mezza cattedrale di Notre Dame, mentre il magnete centrale di CMS contiene più ferro della Torre Eiffel.
Cosa cerca
LHC accelera i protoni e gli ioni per poi farli scontrare ad altissima velocità. Nello scontro nascono moltissime particelle che vengono registrate dai rivelatori e analizzate dai fisici. Ma cosa ci possono rivelare queste particelle? Il fatto è che molte cose dell’universo ci sono ancora poco chiare. Ad esempio, perché le particelle elementari sono dotate di massa e perché le loro masse sono diverse le une dalle altre? La fisica teorica ha supposto l’esistenza di una particella, chiamata il bosone di Higgs, che spieghi questo fatto: l’interazione delle particelle con questo bosone determinerebbe la loro massa. Ma purtroppo il bosone di Higgs finora non è mai stato visto. I fisici sperano che LHC ci permetta di provarne l’esistenza.
Un altro mistero da svelare riguarda l’antimateria. L’antimateria è l’immagine speculare della materia: se per strada incontraste un’automobile fatta di antimateria non la distinguereste da quella fatta di materia. Ma se i due oggetti entrassero in contatto l’uno con l’altro, si annichilerebbero a vicenda lasciandosi alle spalle solo energia. I fisici ritengono che al momento della nascita dell’universo materia e antimateria siano state prodotte nella stessa quantità. Quando materia e antimateria si scontravano si annullavano a vicenda. Oggi però il nostro universo è fatto tutto di materia. Dove è finita l’antimateria? E perché la materia ha prevalso? Se potessimo vedere l’antimateria prodotta dal Big Bang, forse ne sapremmo di più.
Sempre in tema di questioni irrisolte, c’è il problema della materia oscura. Secondo i calcoli dei fisici, tutta la materia che noi vediamo è solo il 4% della massa totale dell’universo. Per spiegare alcuni effetti gravitazionali, si deve supporre l’esistenza di una materia oscura e una energia oscura che non possiamo vedere. Si pensa che l’universo sia composto per il 30% da materia oscura. Ma dove sono le sue particelle?
E ancora, alcuni fisici teorici ipotizzano che le nostre quattro dimensioni (le tre conosciute più il tempo) siano troppo poche per descrivere l’universo. Ce ne sarebbero altre che però non possiamo vedere. Aumentando l’energia saremo in grado di individuarle?
Gli esperimenti di LHC cercano risposte a queste domande. Le collisioni tra protoni, infatti, generano un’energia molto intensa, pari a quella che si poteva misurare qualche frazione di secondo dopo il Big Bang, l’evento che 14 miliardi di anni fa portò alla genesi dell’universo. Questo permette a particelle che oggi non ci sono più di tornare in vita. Ma la loro sopravvivenza dura una piccolissima frazione di secondo, poi si disintegrano dando vita a particelle conosciute. Ebbene, gli esperimenti di LHC vogliono vedere queste particelle prima che scompaiano di nuovo.
Chi partecipa
Si dice che sui paesi che collaborano all’esperimento ATLAS non tramonti mai il sole perché gli scienziati vengono da tutte le aree del mondo, escluso l’Antartide. Il progetto LHC impegna nel suo complesso oltre 10.000 scienziati e ingegneri da tutto il mondo. Oltre ai fondi provenienti da moltissime nazioni. I suoi costi, del resto, sono elevati: nel marzo 2007 si calcolava che solo la macchina dell’acceleratore sarebbe costata 3 miliardi di euro, ma le spese sono poi salite. L’Italia ha un peso rilevante, non solo perché in quanto membro del Cern vi investe soldi, ma anche perché molti scienziati italiani partecipano all’impresa. L’Istituto nazionale di fisica nucleare coordina i circa 600 scienziati italiani che lavorano a LHC. Inoltre, l’industria italiana ha prodotto molte componenti di precisione.
I pericoli
Benché la concentrazione di energia nella collisione delle particelle sia la più alta prodotta in laboratorio, in termini assoluti l’energia sprigionata è molto più bassa di quella con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. Tuttavia, LHC riproduce la densità di energia che esisteva pochi istanti dopo il Big Bang. Per questo ci si riferisce alle collisioni come a dei mini Big Bang.
Secondo alcune teorie, nelle collisioni tra particelle possono prodursi dei piccoli buchi neri. Se anche così fosse, dicono i fisici, questi mini buchi neri evaporerebbero molto presto lasciandosi dietro solo radiazioni. E per avvalorare la loro tesi fanno notare che anche i raggi cosmici, che hanno molta più energia di quella sprigionata da LHC, potrebbero produrre buchi neri, ma nessuno ha mai assistito a questo fenomeno.
Il rilascio di radiazioni invece è inevitabile, ma al Cern assicurano che i raggi prodotti nelle viscere della terra non raggiungeranno la superficie.

il Riformista 8.9.08
Osservatore romano. A proposito dell'articolo della Scaraffia
Si muore con la morte cerebrale, non c'è dubbio
I principi di Harvard, accettati dal magistero della Chiesa, oggi non possono essere rimessi in discussione
di Enrico Geraci


La morte cerebrale, intesa come strumento tecnico-scientifico e legale per la determinazione della morte dell'intero organismo, è argomento non solo dibattuto tra esperti di varie discipline, umanistiche e scientifiche, ma anche di grande interesse per l'opinione pubblica. Anche l'articolo a firma di Lucetta Scaraffia, pubblicato nei giorni scorsi dall'Osservatore romano, partecipa a questo dibattito, offrendo un contributo che può ritenersi certamente interessante, se posto nell'ottica di una discussione etica, antropologica e perfino giuridica, ma sul quale si evidenziano varie debolezze e rischi sul piano più propriamente scientifico. Se, infatti, è condivisibile l'intento di riportare la comunità sul confronto costante circa le nuove acquisizioni della ricerca e della scienza, non lo è altrettanto il tentativo di farlo a partire dal mettere in discussione un principio, quello di morte cerebrale definita con i criteri di Harvard.
Infatti una tappa significativa in questo percorso, e storicamente molto nota, avvenne il 5 agosto 1968, quando una commissione ad hoc, istituita l'anno precedente presso la Harvard Medical School, pubblicò il rapporto finale. Nel rapporto si indica l'encefalo come organo critico dell'integrazione corporea e la morte cerebrale come criterio corretto per individuare la morte, intesa come "momento in cui il sistema fisiologico dell'organismo cessa di costituire un tutto integrato". La morte biologica colpisce infatti gradualmente e in modo diverso le cellule dei diversi tessuti sulla base della differente resistenza alla carenza di ossigeno. L'ischemia e l'anossia provocano rapidamente la morte delle cellule cerebrali. La Commissione analizzò anche i diversi metodi clinici e strumentali che permettono di constatare l'arresto irreversibile delle funzioni cerebrali. La dichiarazione di Harvard riconosce nel cervello l'origine di tutti i processi vitali: il respiro, il battito cardiaco, la termoregolazione, la fame, la sete. Quando, a causa di un danno cerebrale, le cellule che generano tali funzioni muoiono, la conseguenza è la morte cerebrale del paziente.
La morte si identifica, quindi, con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo. Le nuove tecnologie, rese disponibili negli ultimi 40 anni per la diagnostica delle patologie cerebrali, hanno costantemente e pienamente confermato tale definizione mostrando che essa non può in alcun modo confondersi con il coma o con lo stato vegetativo persistente. Vi è infatti una fondamentale differenza tra queste condizioni: nello stato vegetativo persistente le cellule cerebrali sono vive e mandano segnali elettrici evidenziati in modo chiaro dall'elettroencefalogramma, mentre nella morte encefalica le cellule cerebrali sono morte, non mandano segnale elettrico e l'encefalogramma risulta piatto.
Le conclusioni della Commissione di Harvard sono poi state confermate da autorevoli istituzioni, da società scientifiche, da gruppi di studio. In un documento sull'argomento approvato dal Comitato Nazionale per la Bioetica il 15 febbraio 1991 si legge che, senza escludere la possibilità di adottare criteri basati su altri parametri, "per quanto riguarda i criteri neurologici, il Comitato ritiene accettabile solo quello che fa riferimento alla cosiddetta "morte cerebrale".
Dal 19 al 21 ottobre 1985 la Pontificia Accademia delle Scienze radunò appositamente un "Working Group on the Artificial Prolongation of Life and the Determination of the Exact Moment of Death". Al termine dei lavori fu adottata una Dichiarazione in cui si legge: "Dal dibattito è emerso che la morte cerebrale è il vero criterio della morte, giacché l'arresto definitivo delle funzioni cardio-respiratorie conduce molto rapidamente alla morte cerebrale". La medesima Accademia confermò tale posizione anche in successive sessioni di studio nel 1989 e nel 2006. Più in generale, il Magistero della Chiesa ha esplicitamente accettato il criterio della morte cerebrale. Tra gli interventi in proposito si può ricordare, come esempio, quanto affermato dal Papa Giovanni Paolo II nel discorso rivolto il 29 agosto 2000 ai partecipanti al Congresso Internazionale sui Trapianti. Ribadendo che la Chiesa non fa opzioni scientifiche, ma si limita a confrontare i risultati proposti dalla scienza con la concezione cristiana della persona, il Papa così si esprimeva: "Si può affermare che il recente criterio di accertamento della morte sopra menzionato, cioè la cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica, se applicato scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica."
Il secondo fraintendimento in cui incorre l'articolo della Scaraffia è quello inerente la definizione della persona in rapporto al corpo, in cui sembra insinuarsi il dubbio che la definizione di morte sia stata adeguata alle esigenze della medicina piuttosto che a servizio della vita e dell'uomo. Ora, la medicina ha come principale obiettivo la cura dell'individuo malato e mai la pretesa di addentrarsi nella definizione dell'uomo in quanto persona, compito che spetta invece ad altri ambiti di studio. Ne consegue che affermare che la morte dell'individuo avviene al momento della morte del cervello non punta a ridurre la persona alle sue sole funzioni cerebrali ma definisce in modo scientificamente comprovato e condiviso l'accertamento della morte dell'individuo.
Infatti, è essenziale ricordare che il momento della morte è soltanto uno, e consiste nella perdita totale e irreversibile dell'unitarietà funzionale dell'organismo. Il criterio della morte cerebrale è quindi compatibile con concezioni della persona umana diverse tra loro, e ciò giustifica il fatto che esso sia accettato da scuole di pensiero assai differenti: è compatibile con la concezione cristiana dell'uomo come "unitotalità di corpo e spirito", ma anche con visioni organiciste dell'uomo, così come con posizioni che vedono nell'attività psichica e mentale il carattere qualificante dell'essere umano. Sgombrato il campo da questi possibili equivoci, rimane aperto lo stimolo alla discussione che va tuttavia affrontata, per il bene comune, con toni sereni e appropriatezza di argomentazioni. Pena, il rischio di arrivare a conclusioni che allontanino, invece di avvicinare, la probabilità di trovare sintesi feconde tra scienza e bioetica.

Presidente dell'Istituto Superiore di Sanità