mercoledì 10 settembre 2008

l’Unità 10.9.08
Gli ebrei e il «fascismo di ritorno». «Non c’è futuro senza memoria»
«Dobbiamo tornare al rispetto: allora, se un ebreo commetteva una colpa la colpa era di tutti gli ebrei. Oggi è lo stesso con i rom»
intervista a Piero Terracina di Umberto De Giovannangeli


Sul braccio porta il marchio indelebile di una ferita che non si rimargina: A-5506. A imprimerglielo furono le SS ad Auschwitz. Piero Terracina, 80 anni, è un testimone di quella tragedia; un testimone, lucido, appassionato, giovane nello spirito, che non accetta che l’oblio della memoria rimuova una Storia che va ricordata perché non si ripeta. Tobia Zevi, ha 24 anni. È un giovane impegnato ma è anche parte di una generazione che si vorrebbe priva di memoria. Ed è proprio il diritto-dovere alla memoria, e il passaggio tra le generazioni, il filo conduttore del nostro incontro. Un viaggio tra passato e presente, tra un dolore che si rinnova e una necessità, spesso inevasa, di conoscere. Di capire, da parte dei giovani d’oggi, cosa c’è dietro quel «A-5506» che Piero Terracina porta con sé, porta su di sé. Voglia di capire. Nella consapevolezza che «senza memoria non c’è futuro». Un futuro di cui i ragazzi come Luca vogliono essere protagonisti. Con l’aiuto di coraggiosi, instancabili, testimoni come Piero Terracina.
L’UNITÀ La memoria del fascismo torna di attualità e incrocia la polemica politica. Ma questa memoria è un peso o è un investimento sul futuro per il nostro Paese?
PIERO TERRACINA È una cosa e l’altra. Comunque difficile. Ricordare è un po’ rivivere. E questo è pesante, molto pesante.
Ma è un sacrificio che noi testimoni dobbiamo fare per trasmettere ai giovani la memoria di ciò che è stato, perché nessuno possa più dire: “io non sapevo...”. E nell’aver ascoltato chi ha vissuto quella tragedia, possano a loro volta diventare testimoni, facendo propri quei fatti. Perché possano dire: “Io lo so, perché ho parlato con un testimone, e lui mi ha raccontato...”. Non è facile rinnovare quei ricordi. A volte nel vedere il turbamento, la commozione dei ragazzi non riesco ad andare avanti. Devo fermarmi, bere un sorso d’acqua, fare finta di pensare. Non vorrei dar prova di debolezza, ma non ci posso far niente. Il dolore del ricordare a volte è insopportabile, anche a distanza di tanti anni. Ma poi mi dico: “Piero, devi farlo, devi andare avanti, anche per tutti quelli che da quei lager non sono più usciti...».
L’UNITÀ. Male giovani generazioni sono pronte davvero ad ascoltare queste testimonianze o le vivono come un fastidio?
TOBIA ZEVI. «Non direi che tra noi giovani ci sia un fastidio o una reticenza ad ascoltare ed apprendere. Piero Terracina e gli altri ex deportati che molto spesso fanno questa esperienza nelle scuole o nei viaggi organizzati con gli studenti, traggano l’impressione di un interesse sincero dei ragazzi. Quello su cui varrebbe la pena interrogarsi è sulla qualità di questa memoria. La sfida per tutti noi è quella di riuscire a declinare l’emozione che si crea nel momento in cui c’è il rapporto diretto con il testimone, organizzando quell’emozione in una pratica di vita quotidiana, civile, sociale, umana in grado di migliorare questa società sulla base della conoscenza delle esperienze, e delle tragedie, del passato. Da questo punto di vista, qualche rischio c’è...
L’UNITÀ Quale sarebbe questo rischio?
TOBIA ZEVI. « Uno è il fatto che, a fronte di tutto questo lavoro, quello che si vede nelle inchieste, o pseudo tali, che vengono condotte su questi temi tra i giovani, a emergere è una ignoranza tremenda, dilagante, a volte tragicomica, quando viene chiesto se sapete cosa è Auschwitz, e la risposta è “una discoteca”, o “La notte dei cristalli” è un “festival”... Il rapporto col testimone non può essere disgiunto da uno studio sistematico, attento, rigoroso della storia ai vari livelli di istruzione, perché è questo il bilanciamento necessario. E per noi giovani comprendere perché quella tragedia si è compiuta, significa ragionare sul fatto che anche se non necessariamente nelle stesse forme o proporzioni, e non necessariamente qui e oggi, quella tragedia potrebbe riaccadere. Come peraltro è gia accaduto , anche se non nella stessa gravità, negli ultimi i cinquant’anni. Primo Levi nei suoi libri parla proprio di questo. L’altro aspetto della qualità, è quello di tradurre questo lavoro di conoscenza in un approccio attivo delle nuove generazioni. Ciò significa dire: io ho sentito questa storia drammatica, ho sentito che c’è stata questa ingiustizia terrificante perpetrata verso miei coetanei dell’epoca, persone innocenti, ebbene, io cosa avrei fatto se fossi stato non tanto una vittima, con la quale è facile immedesimarsi perché non pone sensi di colpa, ma se fosse stato il compagno di banco di quel bambino ebreo che nel 1938 si allontanava dalla scuola perché non poteva più studiare in quella scuola in quanto ebreo?»
PIERO TERRACINA. Nelle scuole deve entrare la Storia, a cui noi testimoni possiamo portare il contributo di una esperienza diretta. Una Storia rigorosa. È quello che la scuola deve pretendere, che tutti noi dobbiamo esigere. E io dico che, tutto sommato siamo fortunati. Ci sono tanti insegnanti che sono motivati e tantissimi ragazzi che vogliono sapere e che non sanno. Quando sono tra loro, vedo nei loro occhi la commozione, tocco con mano il loro interesse...Mi si stringono intorno, vogliono ancora sapere. E mi dicono: “Io non sapevo”. E non sapevano, questi ragazzi, perché questo non fa parte dei programmi della scuola. E invece conoscere il passato è importante. È importante perché certe tragedie terribili che sono accadute, se non si conoscono ci si può ricadere. È importante conoscere, e riflettere, sul passato, perché senza memoria non c’è futuro...».
TOBIA ZEVI: «E c’è chi sul non sapere, imposto, costruisce una sub cultura politica...».
PIERO TERRACINA. «A me è capitato di andare in alcune scuole in cui gli insegnanti mi avevano messo in guardia: “Signor Terracina attento, perché qui i ragazzi sono schierati...Devo dire che sono state le scuole dove ho ottenuto i risultati migliori, dal mio punto di vista. Quando un ragazzo mi dice: “Io non sapevo”, beh, vuol dire che ho raggiunto il mio scopo»
TOBIA ZEVI. Ha ragione Piero a insistere sull’importanza di uno studio rigoroso della Storia. Una Storia studiata seriamente, sulla base di valutazioni scientifiche, di un interesse scevro da strumentalizzazioni politiche, è uno studio che non fa, o non dovrebbe far paura a nessuno, anche nelle possibili verità che talvolta può descrivere. Questo vuol dire fare Storia. Vuol dire attribuire, non sulla base del pregiudizio o sull’ignoranza, ma su una seria ricerca documentale, colpe e ragioni. Il cortocircuito che spesso si crea è il fatto che, in realtà, una verità storica, acclarata non soltanto da valutazioni scientifiche e da racconti di testimoni ma anche ormai da una tradizione consolidata di studi, viene invece presentata, e politicamente strumentalizzata, come la “verità dei vincitori”. Allora si dice: adesso vi diciamo come è andata per davvero... E senza saper nulla, senza leggere nulla, senza studiare nulla, adesso cambio visione. È una scorciatoia molto pericolosa che fa leva sull’ignoranza».
L’UNITÀ. Ma oggi c’è chi vorrebbe diluire fine a cancellare torti e ragioni del ventennio fascista. E questo ci porta alle considerazioni ultime del sindaco Alemanno..
PIERO TERRACINA. «Le leggi razziali in Italia sono state un anello della catena di violenze che c’è stata fin dall’inizio, dalla Marcia su Roma. Altro che fatto isolato! Non ci dimentichiamo che in quell’epoca circolavano canzonacce fasciste, come quella che diceva “fascisti e comunisti giocavano a scopone, e vinsero i fascisti per l’asso di bastone...”. Non era questo insegnare e praticare la violenza? Se non ci fosse stato il fascismo non ci sarebbero state le leggi razziali. Ritornado alla storia, voglio dire che un testimone, quale io sono, e come lo sono tutti i sopravvissuti ai campi di sterminio nazifascisti, noi non ci sostituiamo al lavoro dello storico. Mi limito, ci limitiamo a raccontare la quotidianità della vita e della morte nei campi di sterminio, dove si entrava soltanto per morire. Erano luoghi senza speranza...Sapevamo perfettamente, e i carnefici ce lo ricordavano in ogni momento, che “uscirete soltanto attraverso il fumo dei camini”».
L’UNITÀ Noi abbiamo parlato di diritto-dovere alla memoria. Del ruolo della scuola. E quello della politica quale dovrebbe essere?
TOBIA ZEVI. «Ci sono due richieste: una alla politica, l’altra a noi stessi. Quella alla politica è cercare di darsi, anche se mi rendo conto che è difficile, un respiro un po’ più ampio. Per essere significativa, la politica dovrebbe evitare di parlare troppo spesso alla “pancia” più retriva della gente, di ognuno di noi: quella che, ad esempio, tende a identificare nel “diverso” il primo bersaglio possibile del proprio malcontento. La “bella politica” è quella che è in grado di indirizzare, di guidare anche se questo può voler dire pagare dei prezzi. La politica deve fare i conti con un dato che contraddistingue la mia generazione rispetto. o quella precedente, rispetto alle passate: il fatto che sono crollate completamente non tanto le ideologie come tali quanto gli schemi di comprensione della realtà. Ecco, la politica dovrebbe aiutarci a ricostruire, rinnovandoli se è il caso, questi schemi».
L’UNITÀ. E l’altra richiesta?
TOBIA ZEVI «L’altra riguarda noi giovani. Da giovane interessto alla politica, penso che noi giovani non dobbiamo sempre assumere una prospettiva esclusivamente rivendicativa verso la politica, ma dobbiamo “sporcarci le mani”, impegnarci, provando ad affermare quelle che sono le grande esigenze della nostra generazione ed anche di una società che si stra trasformando ma che ha dentro di sé dei rischi che c’erano nel passato. E qui mi fa piacere ricordare che proprio Piero Terracina, testimone di quell’epoca tragica, è stato una delle rare, e più forti e significative voci che si sono levate nelle polemiche di qualche settimana fa sulla vicenda dei rom. Io penso che su un tema come questo, la tutela dei diritti delle minoranze, noi giovani, soprattutto quelli che si riconoscono in un’area progressista, dovremmo essere protagonisti di una grande battaglia di civiltà...».
PIERO TERRACINA. A proposito di quello che diceva Tobia, io ritengo che bisogna tornare al rispetto degli altri. E particolarmente al rispetto per i “diversi”. Anche qui, la memoria ci aiuta: allora, se un ebreo commetteva una colpa, la colpa era di tutti gli ebrei; ed oggi se un extracomunitaria, un rom, un sinti, commette un reato, questo è colpa di tutti gli extracomunitari, di tutti i rom, di tutti sinti. Questa è un’altra delle cose sulle quali dovremmo riflettere molto. Tornare al rispetto per tutti, e in particolare per i “diversi”. Quelli che noi consideriamo “diversi” ma che poi non lo sono. Perché siamo tutti uguali. E alla politica chiedo anche di contribuire all’educazione dei giovani. Supportando adeguatamente la scuola e le famiglie. Aiutando i giovani a riscoprire quei valori che si sono persi. E non per colpa loro».

l’Unità 10.9.08
Il cuore nero dell’Italia
di Fulvio Abbate


Perché mai il ministro della Difesa, il disinvolto e talvolta simpatico Ignazio La Russa, si ricorda di rendere omaggio ai combattenti della Repubblica Sociale proprio a Porta San Paolo, a Roma, dove la Resistenza ebbe il suo inizio nel settembre del 1943? E ancora: perché mai il sindaco della Capitale, Gianni Alemanno si premura di ridimensionare le colpe del fascismo fra leggi razziali e operato complessivo, ossia “male assoluto sì male assoluto no, manco un po’?”. Già, come mai? Proviamo a mettere sul (o sotto il) tappeto alcune risposte. In grado magari di comprendere sia gli sforzi di completezza dell’uno sia la volontà di chiarezza dell’altro, nella certezza di non fare torno né a Gianni né a Ignazio. Vista, se non altro, la comune provenienza politica, ergo culturale e antropologica. Lo fanno lo fanno lo fanno poiché ritengono che sia giusto così, dunque per un anelito di giustizia nei confronti delle vittime della “loro” guerra, anzi, dei vinti che indossavano la camicia nera. Lo fanno perché è necessario andare avanti con la “pacificazione”, visto che c’è voluta una vita perché si parlasse di “guerra civile”, o no? Lo fanno perché ritengono che il fascismo non fosse poi così schifoso come ritengono alcuni, detrattori, gente prevenuta, sì, proprio prevenuta, mentre c’è del buono, c’è dell’eccellente. Lo fanno perché il fascismo è pur sempre una forma di “Made in Italy”, e, con i tempi che corrono, mica ce poi sputa’ sopra, no? Lo fanno perché c’avevano uno zio che era fascista, ma era personcina per bene, e poi perché Mussolini ha costruito le stazioni e, restando in territorio urbano, ha redento l’Agro Pontino, e pure in questo caso mica ce poi sputa’ sopra, no? Lo fanno perché qualcuno, è successo addirittura all’estero, gli ha detto che non si devono vergognare del fascismo, visto che al tempo del fascio “i treni arrivavano in orario” e, prova a sputacce sopra pure stavolta. Lo fanno perché Berlusconi gli ha detto di farlo, anzi, gli ha intimato proprio così: se non lo dite voi, lo dico io, scommettiamo? Lo hanno fatto perché devono - comprensibile realpolitik elettorale, eddài, provate a mettervi nei loro panni! - altrimenti certuni che credono nella tradizione finisce che votano direttamente Berlusconi, che infatti è capace di dirlo direttamente lui, sì, che è così, tanto a Silvio non gli costa niente, figurati se corre il rischio d’essere accusato di apologia. Lo fanno perché, come narra un vecchio discorso bellico sul risentimento dei veri fascisti contro gli Stati Uniti d’America, l’esercito a stelle e strisce ha sconfitto l’invincibile armata del cosiddetto “Reich millenario” decretando così la “morte dell’Europa”: vedi, in proposito quel vecchio manifesto di Gino Boccasile dove appare un soldato di colore, anzi, “un negro” che si è appena aggiudicato per pochi dollari la Venere di Milo. Oppure, giusto per citare un grande artista italiano rimasto fascista anche dopo la guerra, Alberto Burri: «Non è giusto che Pollock costi quanto costa e Burri non altrettanto...». Noticina necessaria: non per nulla Ignazio, il più scafato fra i due, sempre lì a Porta San Paolo, ha citato il tentativo disperato delle truppe speciali della Rsi di opporsi allo sbarco degli Alleati. Lo fanno perché da qui a qualche anno potrebbe tornare il remake del fascismo, e allora, pensandoci bene, che ragione c’è di stare ancora in campana? Lo fanno perché il problema degli ebrei esiste relativamente, visto che un sacco di persone della comunità, gente che a Roma abita fra il Portico d’Ottavia e via Fonteiana a Monteverde Vecchio, alle ultime elezioni hanno votato per Gianni, se senza neppure porsi il problema che l’uomo porta la celtica al collo. Lo fanno perché credono nella libertà, e se credi davvero nella libertà puoi anche ritenere che il fascismo sia stato una pagina d’oro della storia d’Italia, ma che dico?, d’Europa, anzi, del mondo. Lo fanno perché ritengono di assecondare un sentire comune. Maggioritario. Lo fa (Alemanno, in questo caso) per dare una soddisfazione al suocero. O no?
f.abbate@tiscali.it

Repubblica 10.9.08
Democrazia e fascismo ai tempi della destra
di Ezio Mauro


NON c´è proprio nulla di "vecchio" o di "nostalgico", come si sono affrettati a dire in molti, nella polemica sulla doppia sortita sul fascismo e su Salò di due uomini di prima fila della destra italiana al governo, il sindaco di Roma e il ministro della Difesa: né francamente è interessante sapere se è per fascismo istintivo, naturale, antico, che nascono queste bestemmie istituzionali, o per la nuovissima incultura repubblicana, europea, occidentale che domina il berlusconismo indisturbato e regnante.
Al contrario, quelle frasi parlano di noi e di oggi, di ciò che siamo come Paese e come classe dirigente, come cultura nazionale e come pubblica opinione. Di questo vale la pena discutere, dunque, non delle piccole beghe tra Storace ed Alemanno che secondo alcuni sono l´unico movente e la spiegazione pacifica e rassicurante di una rivendicazione congiunta fatta davanti ai simboli della Repubblica, e non a caso da due "uomini nuovi" (se così si può dire) proiettati in competizione sul dopo-Fini, nel grembo berlusconiano che tutto concede e nulla vieta.
Stanno perfettamente insieme, nel rozzo bisogno di riaggiustare l´identità della destra dopo 14 anni, l´esaltazione dell´eroismo cieco e patriottico (dunque ingenuo e storicamente "innocente") di Salò con la riduzione del fascismo ad esperimento di modernizzazione autoritaria, travolto solo da un "esito" incongruo e tragico dovuto all´errore dell´innesto nibelungico col nazismo, le leggi razziali e la guerra. Si chiarisce l´aspetto tattico della svolta di Fiuggi, per la fretta dell´arruolamento belusconiano e la necessità conseguente di un cambio rapido di parole d´ordine e di riferimenti politici: una svolta appunto politicista, nient´affatto culturale, e tanto meno morale e storica, come confermano gli esiti odierni.
È facile, sotto il mantello, i numeri e la leadership altrui, diventare ministri e presidenti delle Camere. Più difficile diventare democratici convinti: e addirittura convincenti.
Nell´immaturità della svolta, due elementi appaiono soprattutto fragili, e tra loro collegati. L´orrore e la vergogna delle leggi razziali, insieme con la necessità di un accreditamento internazionale, hanno portato Fini e tutta la classe dirigente di An a periodizzare la loro presa di distanza dal fascismo dal 1938. Tutto ciò che è avvenuto in questo senso è naturalmente doveroso e positivo, a partire dal primo incontro tra Fini e Amos Luzzatto, presidente della comunità ebraica italiana, che "Repubblica" ospitò nel 2003 su richiesta dello stesso Luzzatto, perché il leader di An non poteva andare in Israele senza prima aver fatto i conti con gli ebrei italiani. E tuttavia questo forte passo in avanti (nell´assunzione di una responsabilità storica, e nel discostarsene, condannandola) ha un limite se resta isolato. Perché se non c´è una condanna del fascismo come regime ("antiparlamentare, antiliberale e antidemocratico" come disse Mussolini nel ´25) si disconosce la sua stessa "natura", la sua opposizione al principio di uguaglianza attraverso l´elitismo da un lato e il razzismo dall´altro, e dunque si può separare – come appunto fa Alemanno – l´esito tragico del Ventennio dalla tragedia quotidiana che nasceva dalla sua stessa essenza liberticida, dal suo "odio per la democrazia", da quella che Turati chiamò l´"anticiviltà".
Non solo: concentrando il "male" del fascismo nel ´38, la condanna di quel male si risolve in un atto di contrizione personale a Yad Vascem, come se l´orrore supremo dell´Olocausto assorbisse in sé tutti gli altri scempi della democrazia compiuti dal regime, ogni altro gesto di riparazione, ogni legittima aspettativa degli italiani che avevano subito torti, abusi, violazioni della libertà. A partire dall´assassinio di Matteotti, per il quale nessun post-fascista ha sentito il bisogno nell´anniversario, ottant´anni dopo, di esprimere una condanna dal palazzo del governo, dopo che dal palazzo del governo Mussolini aveva impartito l´ordine di ammazzare un deputato d´opposizione.
Questo limite ha tre ragioni evidenti. La prima è la mancanza di un´autonoma necessità democratica degli uomini di An a chiudere per sempre la storia del loro passato, assumendo non solo la democrazia come contesto imprescindibile della vicenda odierna, ma i costruttori della democrazia – a partire dalla Resistenza – come Padri di una Repubblica condivisa e accettata nei suoi valori e nei suoi caratteri fondanti, tradotti nella Costituzione. La seconda è il limite naturale del berlusconismo – una specie di autismo politico – che concepisce la sua grandezza nell´edificazione di sé e non nella costruzione di una moderna cultura conservatrice democratica e occidentale che il Paese non ha mai conosciuto, doroteo o fascista com´è sempre stato a destra. La terza è lo strabismo congenito degli intellettuali liberali e dei loro giornali, che non hanno mai incalzato la destra per spingerla a liberarsi dei suoi vizi storici e dei suoi ritardi culturali, risparmiando con avarizia ideologica evidente quel pedagogismo che per decenni hanno opportunamente dispiegato nei confronti dei ritardi e delle colpe del comunismo: e che esercitano ancora – naturalmente a senso unico – anche oggi che il comunismo è per fortuna morto ed è nata una sinistra di governo riformista.
Anzi, dovremmo dire che proprio le indulgenze della cultura italiana e del suo establishment compiacente, la permeabilità azionaria (salvo naturalmente la golden share berlusconiana) del Pdl dove contano solo fedeltà e rapporti di forza, non scommesse culturali e coraggio politico, la nuova predisposizione italiana verso il politicamente scorretto e il "non conforme", rendono possibile ciò che sta accadendo: non nel pensiero politico, che con ogni evidenza non c´è, ma nella prassi di governo della destra. È come se il contesto italiano di oggi autorizzasse un passo indietro rispetto ai timidi passi avanti di più di un decennio fa. Oggi, in questa Italia, è evidentemente possibile onorare Salò e rimpiangerla. Oggi è possibile rivalutare il fascismo, poi incespicare in una correzione travagliata costruita con due "non" ("comprendere la complessità storica del fenomeno totalitario in Italia non significa non condannare...) per la difficoltà di dire con nettezza qualcosa di chiaro, di risolto, di comprensibile. Dire, soprattutto, cos´è oggi questa destra, in cosa credono i suoi uomini.
Bobbio aveva avvertito su questo possibile esito dello sforzo decennale del revisionismo per affermare un rifiuto dell´antifascismo in nome dell´anticomunismo: una nuova forma "aberrante" di equidistanza tra fascismo e antifascismo. È ciò che stiamo sperimentando in questo inizio di stagione, nella distrazione italiana del dopo-ferie, in un Paese in cui il senso comune – con i suoi pregiudizi – si è sostituito alla pubblica opinione (con la sua consapevole capacità di giudizio), la sinistra è prigioniera della sua subalternità culturale prima che politica, manca un principio di reazione perché non è in campo un pensiero alternativo al pensiero dominante: mentre si allarga ogni giorno, per conseguenza naturale, quella che i vecchi sudditi sovietici chiamavano la capacità di "digestione" della società.
Ma lo stesso Bobbio avvertiva che alla base della repubblica (e probabilmente della sua tenuta nel lungo dopoguerra) c´era un sentimento civile condiviso: un´"idea comune della democrazia". È´ ciò che oggi manca ed è la dominante della fase che stiamo vivendo. Proverei a dare questa definizione: in Italia oggi si contrappongono due diverse idee della democrazia. Non c´è bisogno di giudizi roboanti o di etichette improprie. È sufficiente guardare la realtà. Da un lato c´è un´idea repubblicana, nazionale ed europea che potremmo definire di democrazia costituzionale, che si riconosce nello Stato moderno, nella divisione dei poteri e nel principio secondo cui la sovranità "risiede" nel popolo. Dall´altro lato c´è l´idea di una democrazia che potremmo chiamare demagogica, una sorta di autoritarismo popolare continuamente costituente di un ordine nuovo, quasi una rivoluzione conservatrice che sovverte l´eredità istituzionale mentre la governa: in nome di un populismo che crea se stesso come un potere sovraordinato agli altri, nella prevalenza della decisione rispetto alla regola, anzi nella teorizzazione della nuova libertà post-politica che nasce proprio dalla rottura delle regole, perché il nuovo mondo si gerarchizza spontaneamente nella subordinazione volontaria al demiurgo.
Ce n´è abbastanza (basta pensare ai richiami impliciti ma evidenti del futurismo, del dannunzianesimo, dell´irrazionalismo, del nazionalismo, della restaurazione rivoluzionaria) perché l´istinto fascista nascosto ma conservato voglia fare la sua parte, si agiti sotto la cenere di una fiamma mai spenta, chieda di partecipare al banchetto costituente di questa "destra realizzata" che cerca una forma compiuta in Italia, una definizione che vada oltre l´orizzonte biografico berlusconiano e il limite biologico del suo titanismo. Così come si capiscono le responsabilità di tutto questo. Si capisce meno, se questa è la partita, cosa faccia chi per definizione sta dall´altra parte del campo. Se questo, tutto questo è destra (qualcuno può ancora avere dubbi?) si può rinunciare ad essere sinistra, col Pd, sia pure sinistra finalmente risolta, e capace di parlare all´intero Paese? Non solo: quell´idea comune della democrazia – che in gran parte coincide con la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, dunque è di per sé "costituente" dell´identità civile del Paese – non si può declinare e costruire già dall´opposizione, con il rischio di scoprire magari che quel sentimento è già maggioranza nella coscienza dei cittadini?

Corriere della Sera 10.9.08
Cautela a onorare i «ragazzi di Salò»
Ignazio La Russa sarebbe più prudente se conoscesse la storia di Hans Schmidt
di Gian Antonio Stella


Ignazio La Russa ha mai sentito parlare di Hans Schmidt? Se conoscesse la sua storia, forse ci andrebbe più cauto, prima di stupirsi per le polemiche sul suo omaggio ai soldati di Salò e di lagnarsi di «una forma di razzismo culturale» che impedirebbe addirittura di parlare (bum!) a chi è di destra. Alberto Asor Rosa, anni fa, spiegò benissimo le cose: «Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buona fede, più idealista, c'erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l'Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c'era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, chè di queste non ce ne sono. Non ce ne importa nulla che i bravi "ragazzi di Salò" non sapessero cosa difendevano, insieme con l'onore della patria. Capita, talvolta, nella storia di trovarsi dalla parte sbagliata».
In quel 1944 in cui i repubblichini affiggevano sui muri manifesti grondanti di croci uncinate («Arruolatevi nella legione SS italiana. L'Italia si riscatta solo con le armi in pugno» oppure «Operai italiani arruolatevi! La grande Germania vi proteggerà! »), Schmidt morì nel nome della democrazia, della libertà, della resurrezione dell'Italia occupata dai nazisti.
Hans era un giovane di trent'anni di Treptow-Köpenick, un municipio berlinese e aveva militato giovanissimo nel partito operaio socialista e socialista era rimasto. Sua moglie si chiamava Else, la figlioletta Eva. I nazisti ne diffidavano. Ma ormai, a guerra persa, mettevano in divisa tutti.
Arruolato come marconista, nel 1944 era a Albinea, a una decina di chilometri da Reggio Emilia, dove l'esercito hitleriano aveva un centro di trasmissioni. Fin dal primo giorno, quel ragazzo che portava il più tedesco di tutti i nomi tedeschi, non aveva avuto dubbi sulla parte con cui stare. Era riuscito a mettersi in contatto con i partigiani italiani, aveva passato loro armi, munizioni, informazioni. Finché, nell'agosto di quel penultimo anno di guerra, aveva messo a punto con altri quattro soldati anti-nazisti un piano per consegnare la postazione militare alla Resistenza.
Non si sa chi li tradì. Fatto sta che poche ore prima del colpo di mano, Hans Schmidt, Erwin Bucher, Erwin Schlunder, Karl-Heinz Schreyer e Martin Koch furono arrestati. Hans ed Erwin furono torturati per ore e ore prima di essere finiti con una pistolettata in faccia. I loro amici vennero fucilati. «La domenica del 27 agosto fu una giornata silenziosa», avrebbe raccontato don Alberto Ugoletti, parroco di Albinea, «Nessuno poteva avvicinarsi al Comando. Si tendevano le orecchie, si guardava... Alle sei e mezzo del pomeriggio si udirono tre scariche di mitraglia. (...) Scendevano le tenebre quando si posero i cadaveri nella fossa. Prima di ritirarmi mi sono avvicinato al comandante chiedendo se potevo avere i nomi. Mi rispose seccamente di no. Uscendo un soldato mi si avvicinò: domattina ritorni sulla tomba e sotto le zolle troverà dei biglietti col nome. Sono figli di un dio ignoto, prete».
Così morì, insieme coi suoi amici, Hans Schmidt. Il «nostro » Hans Schmidt. In tutta la guerra non aveva sparato un colpo. Un po' dell'onore tedesco, però, lo salvò lui. E a nessun ministro della difesa di Berlino verrebbe mai in mente di onorare chi, pensando di difendere la Germania, lo torturò a morte.

il Riformista 10.9.08
«Berlusconi è l'erede di Salò»
di di Fabrizio d'Esposito


Senatore, prendiamola dal versante politico-sentimentale. Esiste un diritto alla nostalgia per la destra italiana?
«Ma quale nostalgia. Questa è attualità. Sta venendo fuori la verità i-ne-lu-tta-bi-le sul fascismo. Ma de che parlamo?».
Il senatore Giuseppe Ciarrapico, fascista dichiarato del Pdl, s'infervora subito sulla vampata identitaria di An di questi giorni. Rallenta solo quando scandisce l'aggettivo «ineluttabile» a proposito della sua «verità» sul regime mussoliniano. E continua: «La storia non si può cambiare, è scienza non opinioni. A cominciare da Porta San Paolo». Ossia dalla zona di Roma dove lunedì scorso, a 65 anni dall'Armistizio del Quarantatrè, il capo dello Stato ha ricordato che «qui nacque la Resistenza» con la storica battaglia in cui i partigiani si opposero agli occupanti nazisti.
Senatore, le parole di Napolitano sono state di fatto una replica a quelle di La Russa che nella stessa occasione ha preferito citare i militari della Rsi.
«Ma de che s'incazza Napolitano? S'informasse prima di mettersi lì con le due mani sulle corone. A Porta San Paolo non c'erano partigiani. Anzi sì, ce n'era uno solo, Raffaele Persichetti, e gli hanno dato la medaglia d'oro».
Guardi che Napolitano ha riferito la verità storica. Perché, chi c'era secondo lei?
«C'erano solo reparti fascisti che combatterono contro i tedeschi. In quel momento di sbandamento dopo la vergogna dell'otto settembre gli stranieri erano tutti uguali, i tedeschi come gli anglo-americani. Fu una questione di onore. Ma lei lo sa chi comandò la battaglia di Porta San Paolo?».
Dal suo punto di vista?
«No, dal punto di vista della storia. A difendere Roma furono i granatieri di Sardegna alla guida del generale Gioacchino Solinas, che poi aderì alla Repubblica sociale di Salò. Ma de che parlamo?».
Da fascista sarà contento, allora, delle dichiarazioni prima di Alemanno poi di La Russa?
«An è una piccola casa, un mercatino piccolo piccolo rispetto alla grandezza del fascismo. Io mi sono iscritto al Msi il 7 ottobre 1947, tessera numero 75. Avevo ancora delle ferite rimediate in una manifestazione, dove mi presero a catenate. Adesso però finalmente la storia sta alzando il sipario sulla verità. Ma lei sa che Raitre, che notoriamente non è di destra, ha trasmesso un documentario di cinque ore sulla socialità del fascismo? E Roosevelt. Vogliamo parlare di Roosevelt?».
Parliamone.
«L'idea del New Deal fu presa dal fascismo».
Se An è un mercatino piccolo, Berlusconi che cos'è?
«Berlusconi è una realtà vera. Il suo slogan elettorale, "Rialzati Italia", lo ha ripreso dalla Repubblica di Salò. Berlusconi è una vera forza popolare».
Alcuni giornali scrivono che per lei «era meglio Hitler degli americani».
«Ma chi lo conosce a Hitler! Non è vero nulla. Il patto tra Italia e Germania fu un errore enorme che fece Galeazzo Ciano, un traditore che la storiografia antifascista celebra come un martire. E fu Ciano che volle uscire dal Gran Consiglio con le leggi razziali in tasca, nella riunione convocata per la loro approvazione».
Già, le leggi razziali.
«Io avevo quattro anni e mezzo all'epoca che posso di'? Le leggi razziali furono un'aberrazione. Quello che so, però, è che molte grandi menti ebraiche erano a favore del fascismo. La storia è questa, non si può cambiare. Ripeto, finalmente si sta alzando il sipario sulla verità. Una verità i-ne-lu-tta-bi-le».


l’Unità 10.9.08
«L’Italia spende poco per la scuola»
Il rapporto Ocse rovescia le teorie Gelmini. In pochi si laureano, i prof pagati meno dei coreani


L’ITALIA investe più della media Ocse solo negli alunni delle elementari, ma poi perde terreno e finisce nelle retrovie per le spese per gli studenti di licei e università. All’età di 15 anni, dunque, gli studenti italiani si ritrovano svantaggiati tra i loro coetanei degli altri paesi Ocse soprattutto nelle materie scientifiche, e il loro rendimento è inferiore alla media. Secondo i dati dell’organizzazione, che ieri ha pubblicato il rapporto annuale «Uno sguardo sull’educazione», l’Italia spende 6.835 dollari per ogni suo alunno elementare, contro una media Ocse di 6.252. Si arriva poi all’università con una spesa di 8.026 dollari contro una media di 11.512. In termini più generali, la spesa italiana per l’istruzione si ferma al 4,7% del Pil, contro una media del 5,8%. Così per la spesa pubblica: l’Italia spende per l’istruzione meno del 10%, contro una media del 13%. Negli ultimi anni questo trend si è aggravato: tra il 1995 e il 2005 gli investimenti nei 30 paesi sono aumentati in media del 41%, in Italia solo del 12%. Siamo al sesto posto su trenta paesi per quanto riguarda gli stipendi degli insegnanti. Dopo 15 anni di lavoro, un docente italiano guadagna poco meno di 30mila dollari l’anno, contro una media di 37mila; i colleghi tedeschi e anche coreani di pari grado guadagnano più di 50mila dollari, i colleghi del Lussemburgo arrivano a 90mila. Anche su questo fronte, nell’ultimo decennio (1996-2006) c’è stato un arretramento: gli stipendi italiani sono cresciuti dell’11% contro una media Ocse del 15%. C’è però un dato da ricordare: i maestri elementari italiani lavorano 735 ore l’anno, contro una media di 812. L’Ocse fa notare proprio come l’Italia, a differenza di altri paesi come la Corea, paghi poco un numero elevato di insegnanti.
Il nostro paese si classifica poi tra quelli con le classi elementari meno affollate, con una media di 18,4 studenti. Nelle scuole private le aule sono più affollate. I bambini italiani, però, sono sottoposti a giornate di lezione più lunghe rispetto ai coetanei stranieri: 990 ore l’anno contro una media di 796. Da sottolineare anche che il nostro paese si aggiudica il record di presenza scolastica tra i 3 e 4 anni.
Per quanto riguarda il compimento degli studi superiori, l’Italia si ferma all’85% di successo, contro il 100% di paesi come Germania, Grecia e il 90% della Slovenia. La maglia nera arriva per l’Università: l’Italia è al primo posto per il tasso di abbandono, solo il 45% degli universitari arriva alla laurea contro una media del 69%. Di più: solo il 19% dei ragazzi tra tra 24 e 34 anni ha una laurea, contro il 33% della media e punte del 55% in Canada e Russia. Dato ancor peggiore se si guarda alla fascia di età oltre i 55 anni, dove solo il 9% ha una laurea contro una media del 19% negli altri paesi. Meglio di noi fanno paesi come il Messico e il Cile. C’è però una nota positiva: il tasso di laurea dei nuovi studenti è passato dal 17% del 2000 al 39% del 2006. Un risultato importante che, secondo l’Ocse, «va largamente attribuito alla riforma del 2002», cioè l’introduzione della laurea triennale. Se si guarda alla capacità dell’università italiana di attrarre studenti stranieri le cose non vanno molto bene: la quota di stranieri si ferma sotto il 2% contro il 20% degli Usa, l’11,3% della Gran Bretagna e l’8,9% della Germania. C’è un altro dato interessante: secondo l’Ocse i genitori italiani sono più soddisfatti della scuola rispetto agli stranieri: l’80% contro una media del 77%.
Sul fronte sindacale, la Cgil torna a chiedere la cancellazione del maestro unico, in primo luogo perché, al di là delle parole del ministro Gelmini, il tempo pieno finirebbe per essere drasticamente ridotto. «Lavoreremo unitariamente per una manifestazione nazionale e, se non cambieranno le intenzioni del governo, per uno sciopero generale», ha spiegato il segretario generale della Flc Cgil Enrico Panini. a.c.

Corriere della Sera 10.9.08
Il rapporto Secondo l'Organizzazione, i risultati dei nostri atenei peggiori di quelli del Cile. L'80% dei genitori soddisfatto
L'Ocse boccia la scuola italiana
Pochi laureati, professori pagati poco, fondi spesi male. Bene solo le elementari
di Giulio Benedetti


L'Ocse: Italia peggio del Cile Poche lauree e prof malpagati
Nuovo dossier sulla scuola. Ma l'80% dei genitori è soddisfatto
Le nostre maestre fanno 735 ore l'anno contro le 812 delle straniere. E in Europa si laureano il doppio dei ragazzi

ROMA — Surplus di investimenti alle elementari e drammatica scarsità di investimenti all'università. Che proprio non va. Quanto a produzione di laureati, missione principale degli atenei insieme alla ricerca, siamo peggio del Cile. È la fotografia del nostro sistema formativo realizzata nell'ultimo rapporto Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
La scuola elementare italiana, però, è tra le migliori del mondo. Ma l'indagine analizza l'organizzazione. Il costo per studente diminuisce man mano che si sale nei gradi dell'istruzione. All'università emerge il divario più forte: spendiamo 8.026 dollari per studente contro gli 11.512 della media Ocse.

ROMA — Surplus di investimenti alle elementari e drammatica scarsità di investimenti all'università. Che proprio non va. Quanto a produzione di laureati, missione principale degli atenei insieme alla ricerca, siamo messi peggio del Cile. È l'immagine del nostro sistema formativo che emerge dall'ultimo rapporto Ocse, dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Il tema scuola, intanto, diventa sempre più caldo, nonostante la fine della polemica tra il ministro dell'Istruzione e il leader leghista, che aveva criticato il passaggio dal team al singolo docente. «Bisognava fare un maestro unico, io sono d'accordo », ha precisato il ministro per le Riforme. E poi ha ribadito: «Certo con un maestro unico sbagliato si rischia di rovinare i ragazzi e quindi è meglio avere tanti insegnanti ma costa troppo». La Gelmini ha apprezzato le parole di Bossi. Pace fatta nella maggioranza, ma contro i tagli si preparano a scendere in campo opposizione e sindacati. Il Pd prevede la chiusura di 4000 scuole, di cui mille in Padania. E Walter Veltroni annuncia una mobilitazione per il 26, 27 e 29 settembre, che culminerà con un'iniziativa che coinvolgerà cento città. Il leader della Cgil, Enrico Panini, non esclude lo sciopero generale.
La scuola elementare italiana, però, è tra le migliori del mondo secondo l'Ocse. Si attesta tra l'ottavo e il quinto posto. Ma l'indagine appena pubblicata non tiene conto dei risultati dei bambini. Analizza l'organizzazione, la sua razionalità. E scopre delle contraddizioni. Secondo il dossier, i salari delle nostre maestre si collocano al sesto posto nella graduatoria dei 30 Stati dell'Ocse. Non sono certo i più alti. In cambio, però, le nostre maestre assicurano 735 ore di lezione all'anno contro le 812 delle colleghe straniere. Meno ore, meno costi? No, perché abbiamo tante classi e quindi tanti docenti. Le classi delle elementari sono composte mediamente da 18,4 bambini, contro i 21,5 della media Ocse. I nostri alunni, inoltre, devono restare più tempo nelle aule: 990 ore l'anno contro le 796 ore della media Ocse. Anche per questo occorrono più docenti. Il risultato: nelle elementari l'Italia spende 6.835 dollari l'anno a studente, contro una media di 6.252. Per gli esperti dell'Ocse i conti non tornano.
Il costo per studente diminuisce man mano che si sale nei gradi dell'istruzione. Alle medie il nostro sistema d'istruzione costa 7.648 dollari l'anno contro i 7.804 della media Ocse. Diminuisce ancora al liceo. All'università emerge il divario più consistente: spendiamo 8.026 dollari per studente contro gli 11.512 della media Ocse. Difficile dire se dipenda solo dal minor investimento, ma la produttività del nostro sistema è decisamente tra le peggiori. In fatto di laureati e specializzati siamo superati da Cile e Messico. Occupiamo un posto in fondo alla classifica, in compagnia di Brasile, Turchia, Repubblica Ceca e Slovacchia. In Italia solo il 17 per cento della popolazione tra i 24 e i 34 anni ha conseguito una laurea, percentuale che scende al 9 se si prende in considerazione la fascia di età tra i 55 e i 64 anni. Siamo sotto la media Ocse: 33 per cento di laureati — quasi il doppio — tra i giovani tra i 25 e i 34 anni e 19 per cento — oltre il doppio — tra i più anziani.

Corriere della Sera 10.9.08
Manca un’anima
di Giuseppe de Rita


Chi a diverso titolo guarda ai problemi della formazione e della scuola prova la spiacevole sensazione di non riuscire a contenerli in una interpretazione ben focalizzata, cosicché tutto gli appare scontornato, fluido, sfuggente. Ne parliamo e ne scriviamo tutti, ma non riusciamo almeno a mettere ordine su una crisi ormai profonda, anche perché ha almeno tre grandi motori di spinta.
Il primo è dato dalle incertezze sull'assetto strutturale del sistema: ne sono prova le polemiche sulla fruibilità della scuola materna; sulle scelte dei docenti nella scuola elementare (maestro unico e no); sull'incapacità di creare nel periodo dell'obbligo quello «zoccolo di competenze di base» di cui ragioniamo da Lisbona in poi; sullo squilibrato andamento delle scelte fra licei classici ed istituti tecnici; sulla interminabile vicenda della riforma della secondaria superiore; sul fallimento della riforma 3+2 nell' università, ecc..
Le tante parole spese su questi temi non rendono meno confuso il quadro, che vede in azione un secondo motore di crisi: la disaffezione soggettiva. Sia quella degli allievi, con episodi e logiche di pericolosa decostruzione sociale (si ricordino il bullismo, gli abbandoni entro gli anni dell'obbligo, ecc.); sia quella di una parte del corpo insegnante con episodi e logiche (di impiegatizzazione e di segmentazione corporativa) di pericoloso impatto sulla qualità del rapporto educativo.
Senza contare in terzo luogo che la scuola soffre moltissimo al suo esterno l'evoluzione delle altre agenzie formative: la crisi di funzione educativa della famiglia; la crescita di importanza delle nuove tecnologie di comunicazione che fanno apparire inadeguati ed obsoleti i percorsi scolastici; l'impatto della televisione e degli eventi collettivi sulle emozioni, sugli atteggiamenti culturali, sull'identità dei giovani.
Aver messo in elenco le tre grandi componenti della crisi della scuola permette di dimostrare quanto essa sia profonda e sfuggente, non più padroneggiabile da vecchi canoni di interpretazione e di azione. Per questo si mostrano ogni giorno più irrilevanti i nobili richiami degli opinionisti e dei politici, le tabelle statistiche e i rapporti di enti nazionali ed internazionali, le raffiche delle tante proposte di riforma, le pressioni sindacali e le lotte del precariato. La crisi della scuola italiana è profonda perché è in crisi di ruolo e di anima: di ruolo perché non è più attuale la sua originaria funzione di formazione collettiva a una cultura, una lingua, una coscienza nazionale; e d'anima, perché non sappiamo più quali fondamenti valoriali di base la scuola è tenuta - ed è capace - di dare alle giovani generazioni.
Se così complessa è la crisi, per affrontarla bisogna avere una strategia del dove si comincia, altrimenti si resta nell'indistinto in cui oggi ci perdiamo. Può apparire una indebita semplificazione, ma l'ipotesi che sembra più viabile è quella di «cominciare dal basso».
Dobbiamo far sì che i nostri figli o nipoti non restino prigionieri della successione delle tante emozioni ma siano aiutati a condensarle in una progressiva hillmaniana «educazione dei sentimenti»; non restino prigionieri del disordinato accavallarsi dei messaggi a loro indirizzati ma siano educati a saperli ordinare e sintetizzare; non restino a galleggiare sulla eterodiretta confusione intellettuale di cui tutti noi soffriamo, ma siano aiutati a sviluppare un po' di progressivo senso di responsabilità; non restino spersi nel vuoto spinto tipico della attuale cultura di massa, ma siano aiutati ad apprezzare la piccola virtù della serietà.
Se vogliamo far questo dobbiamo ricominciare dal basso, dalle fondamenta del sistema: da una buona scuola dell'infanzia, naturalmente rinforzata per diffusione territoriale e per qualità delle persone; e da una scuola elementare profondamente ricentrata sulla sua primordiale funzione di formazione dei sentimenti, della sintesi personale, del senso della responsabilità, della serietà del comportamento. Il ritorno all'insegnante unico non deve in questa luce scandalizzare, ha un senso profondo, anzi andrebbe gestito con maggiore concentrato coraggio: solo una personalizzazione forte e continuata del processo formativo iniziale può garantire ai giovani di possedere un solido «tondino di ferro» su cui agglomerare i successivi input formativi.
Cominciare dal basso e rifare le fondamenta del sistema. Immagino che si tratti di un'opzione troppo drastica per una politica scolastica attraversata da centinaia di altre idee, proposte, interessi, poteri.
Ma se non si fa questa scelta si rischia che si accentui la confusione ai piani superiori del sistema; e che la scuola ci sfugga sempre di più, come componente del nostro vivere insieme.
«Troopergate» o, peggio ancora, ha dato di sé un'immagine abietta. Ma i democratici, dal canto loro, a chi hanno indirizzato i loro commossi applausi, per due notti consecutive,
a Denver? Alla famiglia meno adatta, a memoria d'uomo, a occupare non già la residenza ufficiale del vicepresidente, ma la Executive Mansion vera e propria. È assai improbabile che, se e quando i Palin si trasferiranno al Naval Observatory di Massachusetts Avenue, dovremo sorbirci nuove gravidanze indesiderate o matrimoni riparatori. Ricordate che cosa accadde, invece, con i Clinton? A tutti gli amici di Bill venne la faccia bianca o verde per la semplice ragione che, nonostante l'avessero eletto presidente, l'uomo non riuscì a trattenersi. Mi pare davvero incredibile che i democratici possano sprecare un'intera settimana in inutili chiacchiere, come se un argomento così scottante non aspettasse (o chiedesse) altro che di essere tirato in ballo in risposta alla «opposition research», la macchina del fango dell'opposizione.
Intervistato qualche giorno fa dal pastore Rick Warren nella grottesca «megachiesa » di Saddleback, il senatore Barack Obama ha annunciato che Gesù morì sulla croce per redimerlo personalmente. Egli non ha spiegato, tuttavia, come faccia a esserne così sicuro. Ebbene, per lui e i suoi tirapiedi o apologeti sarà quanto mai difficile, ora, mettere in ridicolo Sarah Palin per le sue idee grottesche, originate da un'interpretazione letterale della Bibbia. La Nostra ha affermato, in sordina, che il suo lavoro da governatrice incontrerebbe seri ostacoli «se il cuore del popolo dell'Alaska non è in sintonia con Dio». Nel suo tabernacolo in loco si coltiva, a suon di roboanti proclami, la convinzione che gli ebrei possano essere convertiti a Gesù, e gli omosessuali «curati ». Ah, non vedo l'ora di sentire come Obama e Biden cercheranno di smontare simili idee e bollarle come «decisamente peggiori » o «assai diverse» rispetto al delirante farneticare del pastore di Chicago (cui il primo è legato) o della fedeltà di lunghissima data (da parte del secondo) alla chiesa più anti-choice del pianeta. La differenza, ammesso che ve ne sia una, sta nel fatto che Sarah Palin è probabilmente sincera, mentre il team democratico è quasi certamente malato d'ipocrisia. Lo stesso vale per la tediosa gara a chi sia il candidato più populista, e per l'assai sinistra corsa alla demagogia anti-Washington. Dinanzi al dilagare di tanta immaturità sia nell'uno che nell'altro ticket presidenziale, è persino offensivo sentirsi invitati a scegliere il candidato con maggiore esperienza, o peggio ancora chi tra i due sia il più «pronto».

Corriere della Sera 10.9.08
Fisica Oggi a Ginevra l'acceleratore di particelle dovrebbe svelare l'origine dell'universo, trovando la «Particella di Dio»
Lo scienziato Ha puntato cento dollari sul fallimento del test «Sarebbe molto più emozionante un esito negativo»
La scommessa di Hawking anti Cern
Carlo Rubbia è stato l'ispiratore della super macchina. L'evento pone l'Europa all'avanguardia nelle ricerche sulla fisica
di Giovanni Caprara


GINEVRA — «Ho scommesso cento dollari perché spero che la famosa "particella di Dio", il bosone di Higgs, non riesca a scoprirlo il nuovo superacceleratore che oggi si accende al Cern di Ginevra».
La battuta di sfida è di Stephen Hawking, il più celebre scienziato vivente, il «maestro del tempo» e dei segreti dei buchi neri. Hawking ama le scommesse e non è la prima volta che perde. «L'acceleratore LHC sprigiona un'energia mai raggiunta prima e secondo le teorie dovrebbe essere sufficiente per trovare questa fantomatica particella la quale spiega la massa delle cose, e quindi rappresenta una misura fondamentale per decifrare la materia», ha spiegato lo scienziato alla Bbc. «Ma credo — ha aggiunto il celebre scienziato — che sarebbe più eccitante se non lo trovassimo, il bosone di Higgs. Dimostrerebbe che c'è qualcosa di sbagliato nelle nostre idee e che dobbiamo pensare di più per trovare altre spiegazioni. Per questo ho scommesso cento dollari che non lo troveremo».
Hawking guarda con maggior fascino alla possibilità di scovare traccia della supersimmetria, anche questa prevista dai teorici, la quale dimostrerebbe che esistono delle particelle simmetriche a quelle che conosciamo. In realtà il superacceleratore ginevrino aprirà le porte di una nuova fisica che in parte nemmeno gli scienziati costruttori della macchina possono oggi immaginare. Anzi sperano caldamente di trovare molte cose di cui non hanno mai discusso o ipotizzato.
«La sfida di Hawking è molto interessante ed ha ragione per molti aspetti perché sarebbe affascinante non trovare il desiderato bosone, per le implicazioni che genererebbe» commenta Fabiola Giannotti che dirige Atlas, uno dei quattro esperimenti permessi dall'acceleratore, e con il quale si dovrebbe rivelare la particella di Dio. «Ma in questo caso — aggiunge Fabiola — dovremmo vedere qualche altra particella che ne fa le veci, oppure scoprirla in condizioni diverse da quelle immaginate. Di certo sarà comunque stimolante perché dimostrerebbe come la Natura sia molto più intelligente di noi». La Giannotti è alla guida dei 2.500 scienziati, provenienti da 37 nazioni dei cinque continenti, che da oggi si metteranno alla ricerca della famosa particella.
Intanto Hawking non perde occasione per demolire l'idea che la creazione di micro- buchi neri forse generati dalla macchina possa «distruggere » la Terra. «In natura — conclude — questi fenomeni accadono spontaneamente ogni giorno senza scatenare niente di terribile ». Al grande scienziato britannico che siede sulla cattedra di Newton si può credere perché è stato proprio lui a ipotizzare l'esistenza degli speciali e microscopici buchi neri che forse zampilleranno dalla macchina di Ginevra. Ed è proprio lui a spiegare con la teoria che porta il suo nome (Hawking's ratiation) che evaporeranno all'istante senza guai.
La famosa «particella di Dio», punto centrale dell'esperimento che si avvia oggi nel superacceleratore del Cern di Ginevra — il cui ispiratore fu Carlo Rubbia— venne scoperta da Peter Higgs, scienziato scozzese, negli anni Sessanta e battezzata «particella di Dio» dal premio Nobel per la fisica Leon Lederman. Che venga trovata oppure no, come auspica Hawking, con l'acceleratore l'Europa si pone all'avanguardia nelle ricerche sulla fisica, retrocedendo al secondo posto gli Stati Uniti.

Corriere della Sera 10.9.08
Le riflessioni di Mirko Bevilacqua
E così Boccaccio diventò l’antidante
di Armando Torno


La parodia della «selva oscura» nell'introduzione al «Decameron»

Perché il Decameron di Giovanni Boccaccio racconta storie che ci riguardano? A questa domanda si può rispondere in mille modi, ma se volessimo limitarci all'essenziale basterà ricordare con Vittore Branca che i motivi sono due: sesso e denaro.
I protagonisti delle novelle sono ora l'uno ora l'altro, sovente entrambi, e il Boccaccio ne governa la danza intingendo la penna nell'intelligenza come nessun narratore aveva saputo fare. Certo, v'è anche altro, ma tra questi due poli si agita e prende forma l'uomo moderno, ormai ben rappresentato nel Decameron. Forse per tal motivo l'opera del Boccaccio creò più imbarazzi che consensi e riuscirà ad avere la sua prima edizione integrale soltanto nel Settecento. Sembra incredibile, ma nel Cinquecento — il secolo di Aretino! — conoscerà più censure che lodi: passerà alla storia l'impressione purgata del 1573, alla quale partecipò il sommo linguista e filologo Vincenzo Borghini. Ebbe almeno il merito di salvarne la diffusione.
Ma nel Decameron si possono cercare molte altre risposte. Chi volesse scoprirle può cominciare da un agile libro che stuzzica e attira in una serie di riflessioni di notevole interesse: Leggere per diletto. Saggi sul Decameron
(Salerno Editrice, pp. 100, e 10). L'autore, Mirko Bevilacqua, studioso tra l'altro della novellistica due-trecentesca, aveva pubblicato nel 1995 Il giardino del piacere. Saggi sul Decameron (Edizioni Semar). Ora ritorna con queste sei ricerche che sono altrettanti percorsi di lettura.
Il giardino — nel quale le sette fanciulle e i tre giovanotti si ritrovano e dove nasce l'opera — non è inteso da Bevilacqua come topos medievale e classico di lieu de plaisance (per dirla con Curtius) ma come una struttura ideologico-formale, o architettonico- letteraria, di produzione delle combinazioni narrative. Il giardino dove la vita continua e nel quale la brigata crea e fruisce i racconti, staccato dalla città in preda a peste e morte, diventa «scelta ideologica» e «luogo di sperimentazione linguistica». Di più: Bevilacqua, dopo essersi chiesto origini e cause che hanno motivato la scelta, sottolinea: «Il Decameron è la contrapposizione dialettica alla Commedia dantesca: una antitesi, come superamento rivoluzionario, pratica-terrena (sensistica) al mondo catartico-ascensionale delle cantiche divine. Scontro di ideologie, e di "filosofie" interpretative della realtà esterna». D'altra parte, la parodia della «selva oscura » e della sublimazione all'ascesa verso il Paradiso, si ha già nell'introduzione al
Decameron con la «fatica» del viaggio tra Firenze e la villa- giardino.
Né poteva mancare un percorso tra le cose d'amore. Nella celebre raccolta di novelle si denuda la donna angelicata, o meglio — sottolinea Bevilacqua — «l'aureola cristiana lascia il posto al velo ». L'ordine virginale trecentesco è messo in crisi e trasgredito, anche se allietato «da un sorriso sarcastico (critico) del Boccaccio edonistico ». D'altra parte il piacere intellettuale che corre nelle pagine, parte integrante di una ideologia libertina, non pratica molte genuflessioni: l'amore si libera da qualsiasi vincolo autoritario e si nobilita anche intellettualmente mediante l'atto sessuale.
Non manca nemmeno una bugia del Petrarca (eccola spuntare nelle Senili), che ebbe una frequentazione trentennale con Boccaccio; né un'analisi della brigata che si trasforma in scuola di poetica e circolo di piacere. Ma soprattutto codesta raccolta di saggi aiuta a meglio comprendere il teatro secolare del Decameron, dove la scrittura si attualizza e cancella la narrazione orale del giullare; dimensione nuova nella quale si riflettono esistenze moderne e passioni eterne. Magnifico esempio di letteratura del piacere e del diletto, creata per essere contrapposta a quella permeata di penitenza e pestilenza.

Repubblica 10.9.08
Allo sportello con le regole del Corano
Le banche islamiche preparano lo sbarco in Italia. Il dossier sul tavolo di Draghi
di Ferdinando Giugliano


Rischi di conflitto con la nostra normativa anche su un semplice mutuo

ROMA - Un´opportunità per gli immigrati nel nostro paese, ma anche e soprattutto per le aziende italiane. È la cosiddetta finanza islamica, un insieme di strumenti basati più sull´etica del Corano che sulla religione islamica, e che potrebbe garantire ai mussulmani in Italia un sistema bancario adatto alle loro esigenze, oltre ad avere tutte le potenzialità per diventare un canale preferenziale per gli investimenti arabi nel nostro Paese.
Sono quattro i princìpi cardine del sistema finanziario islamico: il divieto del pagamento di interessi (riba), quello di investire in attività che comportino irragionevole incertezza ed ambiguità (gharar), il divieto di speculazione (maisir) e quello di investire in attività economiche proibite dal Corano, quali armi, pornografia o gioco d´azzardo (haram). Princìpi, questi, che hanno permesso alle banche islamiche di navigare in acque relativamente tranquille durante la crisi dei subprime, proprio per il divieto di commercializzare prodotti particolarmente complessi come i derivati.
Queste stesse norme possono, però, entrare in conflitto con la normativa vigente in Italia. Il rischio non riguarda tanto il caso in cui prodotti di finanza islamica venissero venduti da banche del nostro Paese. «Il problema - spiega Ermanno Mantova, presidente dell´Istituto di Studi Economici e Finanziari per lo Sviluppo del Mediterraneo - riguarderebbe soprattutto la creazione di un vero e proprio "istituto di banca islamica"». Un istituto che, conferma l´ex-direttore generale della banca italo-libica Ubae, Matragna, «potrebbe presentare problemi di tipo normativo e fiscale».
Questo perché, per esempio, la finanza islamica non permette di accendere un mutuo con interesse, ma fa comprare la casa alla banca per poi farla affittare al cliente ad un prezzo che comprende il costo del denaro, fino a quando, corrisposto il pagamento, la casa viene "regalata" al cliente. Così facendo, il problema normativo sorge perché le banche sono di fatto possessori della casa e perciò meno attente alla solvibilità del cliente, andando ad minare uno dei pilastri del sistema creditizio italiano. Quello fiscale, invece, nasce perché il doppio passaggio di proprietà porta le parti a pagare due volte l´imposta di registro, la prima quando la banca compra la casa e la seconda quando la dà al cliente.
Problemi di questo tipo richiedono un intervento da parte del legislatore e delle autorità di vigilanza. «Abbiamo avviato contatti informali con il governo e con la Banca d´Italia, e queste istituzioni - dichiara Hatem Abou Said, incaricato per conto della Islamic International Bank di Londra di costituire una banca islamica in Italia - e credo che non sarà impossibile avere le autorizzazioni necessarie entro il 2008». Non ci sono risposte ufficiali, ma è noto che la Banca d´Italia ha cominciato a studiare l´argomento. L´opportunità è grande, e non solo per gli stranieri in Italia. «Con le banche islamiche - aggiunge Mantova - potrebbero arrivare i petroldollari del Golfo». E, di questi tempi, chi è che direbbe loro di no?

il Riformista Lettere 10.9.08
aaa cercasi preservativo


Caro direttore, gira la notizia che in una farmacia del Cosentino, per motivi religiosi, non sono disponibili in vendita i temibili preservativi. Odio fare il pignolo, ma leggo nel codice deontologico dei farmacisti che è vietato porre in essere iniziative o comportamenti che limitino o impediscano il diritto di libera scelta della farmacia. Inoltre nello stesso codice vi è indicato il dovere del farmacista alla collaborazione, nella sua qualità di operatore sanitario, con le autorità, coadiuvandole nel raggiungimento degli obiettivi istituzionali. Ed è un obiettivo istituzionale in Italia la prevenzione e la lotta contro l'Aids, che, come indica il ministero della Salute, rappresenta una minaccia per la salute dei cittadini, con oltre 3.500 nuovi casi di contagio l'anno, ai quali si devono aggiungere gli oltre 500 mila casi di contagio da malattie sessualmente trasmissibili. Di fronte a tali numeri trovo questo isolato e colorito caso di obiezione di coscienza un atto insensato e irresponsabile.
Roberto Martina e-mail

martedì 9 settembre 2008

l’Unità 9.9.08
Salò, Napolitano ferma La Russa
A Porta San Paolo il ministro della Difesa omaggia i fascisti della Repubblica sociale
Il Presidente: la Resistenza fu volontà di riscatto, eroico chi rifiutò di aderire alla Rsi: «Chi rifiutò l’adesione alla Rsi è simbolo della volontà di riscatto del Paese»
di Marcella Ciarnelli


LETTURA di parte di una pagina senza equivoci della storia del Paese. Ci ha provato a proporla il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, rendendo omaggio ai militari che aderirono alla Repubblica sociale. Ma a smentirla ha provveduto subito con le
sue autorevoli parole il presidente della Repubblica che ha ricordato come tra gli autentici simboli della Resistenza ci siano stati, oltre ai partigiani, proprio i militari che non aderirono alla Repubblica di Salò e per questo subirono la deportazione.
Porta San Paolo, sessantacinque anni dopo. Cielo azzurro. Palco rosso delle grandi occasioni. Al governo del Paese c’è il centrodestra. Roma è amministrata da un sindaco la cui militanza politica è nota e che proprio nelle ore precedenti alla celebrazione di questo 8 settembre che segnò anche la difesa strenua della Capitale dalle truppe neonaziste, è inciampato nella nostalgia. E in questa sede, tenta ancora una volta di correre ai ripari correggendo il tiro e condannando «senza esitazioni l’esito liberticida ed antidemocratico di quel regime».
Ma ci pensa il ministro a riaprire la polemica. E con che toni. Non ci è riuscito La Russa a non abbandonarsi ad un revisionismo che sembra aver trovato nuova linfa nei successi elettorali. Così il titolare della Difesa, davanti al Presidente della Repubblica che ascolta e riguarda gli appunti del suo intervento in cui è già prevista la puntualizzazione necessaria ad una rilettura distorta della storia, si lascia andare. E ricorda il sacrificio dei militari della Rsi che «dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della Patria». E cioè «quelli della Nembo che si opposero allo sbarco degli anglo-americani meritando, quindi, il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obbiettività alla storia d’Italia».
Ma il presidente Napolitano non ci sta. La sua puntualizzazione storica è netta. Nel cuore del suo discorso invita a ricordare la Resistenza nella sua intierezza, nel suo «duplice segno: quello della ribellione , della speranza di libertà e giustizia che condussero tanti giovani a combattere nelle formazioni partigiane» e «quello del senso del dovere, della fedeltà e della dignità che animarono la partecipazione dei militari, compresa quella dei siecentomila deportati nei campi tedeschi, rifiutando l’adesione alla Repubblica di Salò». Dal Capo dello Stato è così arrivato l’invito a «rafforzare il comune impegno di memoria, di riflessione, di trasmissione alle nuove generazioni del prezioso retaggio della battaglia di Porta San Paolo, della difesa di Roma e della Resistenza» rivolto a tutti, ma per prime, alle forze politiche che sono state esortate ad «animare un clima di condiviso patriottismo costituzionale».
Il discorso di Napolitano viene da lontano. Segue il filo rosso della riflessione e dell’analisi storica che già furono all’origine del discorso che pronunciò a Cefalonia in occasione della commemorazione dei soldati che lì sacrificarono la loro vita e successivamente a Genova, città medaglia d’oro al valore, nell’anniversario del 25 aprile in cui mise in guardia dalle «false equiparazioni». Resta sullo sfondo quella necessità di una memoria condivisa che parta dal riconoscimento del valore della Resistenza i cui valori si ritrovano nella Carta Costituzionale che deve essere punto di riferimento comune, ma di cui debbono essere assunti i valori senza alcun ripensamento o rilettura di parte.
Il ministro La Russa ha perso l’occasione per farlo. Anche se poi ha cercato di minimizzare l’accaduto raccontando che Napolitano, nel breve tragitto dal palco all’auto, non gli avrebbe fatta nessun appunto al suo discorso. Le parole del Capo dello Stato dal palco erano state chiarissime. E, quindi, non avevano bisogno di nessuna aggiunta. Ma La Russa ha insistito «nessun contrasto» mentre cominciavano a fioccare le reazioni alle sue parole. «Il cittadino La Russa può pensare quello che vuole, ma il ministro della Difesa è lì per ricordare la lotta antifascista da cui nasce la Repubblica di cui egli è ministro. Invece la repubblichina di Salò è un'altra cosa» ha detto Massimo D’Alema. Per Piero Fassino «non si possono equiparare libertà e dittatura. L’umana pietà non cancella la storia. «Le affermazioni del ministro La Russa e del sindaco Alemanno - afferma Rosi Bindi - non stupiscono e anzi confermano la fragile cultura democratica della destra italiana incapace di riconoscersi nei valori della Resistenza e della Costituzione». Il segretario di Rifondazione, Ferrero chiede le dimissioni del ministro. La destra, ovviamente, fa quadrato.

l’Unità 9.9.08
Antifascismo. La Repubblica condivisa
di Furio Colombo


«Il Presidente della Repubblica ha ricordato la dignità dei militari italiani che furono deportati in Germania perché rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò. Di diverso avviso il ministro della Difesa». Cito dal Tg 1, ore 20, 8 settembre. In linguaggio deliberatamente piatto non nasconde il fatto certamente eccezionale: il ministro della Difesa La Russa, post-fascista, è di «diverso avviso» sul fascismo.
Infatti la vera frase del ministro è un omaggio alla Repubblica fascista di Salò nel giorno in cui il capo dello Stato stava celebrando, da solo, la Resistenza contro i tedeschi a Roma. C’era anche il sindaco di Roma, alla cerimonia, Alemanno, post-fascista anche lui. Il sindaco aveva detto il giorno prima il suo sentimento di rispetto verso il fascismo. Dunque, per prima cosa, è doveroso inviare da questo giornale un pensiero grato e solidale al Presidente Napolitano che ha celebrato la Resistenza italiana non con le autorità presenti ma insieme a tutti gli italiani che, come lui, credono nella Resistenza e nella Costituzione.
Per i più giovani, forse, è utile un chiarimento.
Che cos’è il fascismo? È un progetto di potere che non bada a spese di vite umane per affermare e rafforzare quel potere. Ha due nemici: chiunque all’interno di un Paese colpito dal fascismo, si opponga. E chiunque (o qualunque altro Paese) fuori dai confini nazionali, sia o diventi ostacolo all’espandersi del regime fascista. Ha tre comandamenti che, in Italia, erano scritti a caratteri immensi su tutti i muri: «Credere, Obbedire, Combattere». Il primo comandamento impone l’accettazione fanatica di una dottrina inventata. Nel caso italiano si chiamava «mistica fascista». I praticanti di quella mistica (cittadini di tutte le età) non avevano scampo. L’intimazione di credere è sempre una intimazione violenta. Significava che un livello superiore, forte abbastanza da lanciare quella intimazione, aveva conquistato potere assoluto con sangue, sottomissione, violenza e complicità.
Obbedire significava l’umiliazione di tutti davanti ai pochi che decidono di vita e di morte. Ci sono sempre, nella storia di tutti i popoli. Sono sempre i peggiori. E cadono fuori dalla storia a causa delle rivolte di libertà. Ma quando comandano non badano a sangue, dolore, umiliazione, morte per farsi ubbidire.
Combattere è il comandamento obbligato. Se sei fascista, o sottoposto al fascismo, c’è sempre qualcun altro da uccidere, persona, famiglia, gruppo o popolo.
Il fascismo per vivere ha bisogno di censura ferrea al fine di impedire anche il minimo alito di libertà. Il fascismo ha bisogno di paura perché ognuno, fascisti e non fascisti, resti al suo posto senza discutere. Il fascismo ha bisogno di miti per organizzare riti che sono sempre evocazioni di stragi. Quei miti sono invenzioni nel vuoto di cultura e di storia, e quei riti sono sempre armati, in attesa che siano pronte nuove vittime da immolare sugli altari della Patria.
La Patria è un mostro al quale, come tributo di grandezza e di difesa dei sacri confini, bisogna sempre tributare un doppio sacrificio: i propri figli, mandati comunque a combattere, dopo aver creduto e obbedito, perché non ci può essere pace fino alla vittoria del fascismo (al di là di un mare di sangue). E il sacrificio di altri popoli, scelti secondo una fantasia arbitraria (il fascismo non deve rendere conto a nessuno) dunque malata, in base a una dottrina di sangue, anch’essa malata che predica: «molti nemici molto onore». Vuol dire che a ogni guerra segue altra guerra, ad ogni persecuzione altra persecuzione.
Il fascismo italiano, giunto a uno dei momenti più alti e pieni del suo mortuario potere (1938) ha visto e identificato gli ebrei, gli ebrei italiani (italiani da secoli, al punto che persino alcuni di essi erano e si dichiaravano fascisti) come nemico finale e mortale.
Nemico da identificare, braccare, catturare, distruggere.
Per sapere quanto il progetto fosse esteso e totale, profondamente fascista e completamente auto-generato dal fascismo, basterà rileggere il pacchetto delle leggi razziali italiane. Da esse non traspare l’impeto brutale e cieco di un momento di barbarie. Si tratta invece di un disegno accurato e giuridicamente impeccabile per sradicare ogni vita, ogni professione, ogni lavoro, dal laticlavio senatoriale al lavoro manuale. L’impossibilità di dare, di avere, di possedere, di lavorare, di restare, di andare via, di essere padri, madri, coniugi, figli, fratelli, neonati, malati, vegliardi morenti, bambini nelle scuole. Tutto chiuso, impedito, escluso, proibito, vietato, ogni porta murata subito e per sempre.
Quando, da parlamentare della tredicesima legislatura, ho scritto, firmato, fatto firmare (anche da deputati di Forza Italia e di An) la «legge che istituisce il Giorno della memoria», questo ho inteso fare: affermare che la Shoah è un delitto italiano. Senza le leggi italiane e il silenzio quasi totale degli italiani, la Germania nazista non avrebbe potuto imporre a tutta l’Europa il suo delitto. Tremendo delitto. Ne è una prova la Bulgaria dove - come testimonia in un suo non dimenticato libro Gabriele Nissim - il presidente del Parlamento locale Dimitar Peshev, uomo di destra in un Paese occupato da tedeschi nazisti e da italiani fascisti, si è rifiutato, insieme alla sua assemblea, di approvare le «leggi per la difesa della razza» scrupolosamente copiate dal modello italiano. I persecutori tedeschi e italiani non hanno potuto toccare un solo cittadino ebreo bulgaro.
«Il Giorno della memoria», vorrei ricordare a chi ne ha discusso su questo giornale ieri, esiste non per dare luogo a una cerimonia, ma per ricordare che gli ebrei italiani e gli ebrei stranieri che avevano creduto di trovare rifugio in una Italia buona, sono stati cercati, isolati, catturati e messi a disposizione dei carnefici tedeschi da fascisti italiani. E tutto ciò è avvenuto nel silenzio di altri italiani che a quel tempo avevano un’autorità e un ruolo. I perseguitati, in Italia, sono stati aiutati e salvati, quando possibile, quasi solo da persone e famiglie che hanno rischiato in segreto la vita, dunque da persone verso cui l’Italia ha un debito immenso (l’Italia, non gli ebrei che non avrebbero dovuto essere vittime), un debito che non è mai stato riconosciuto o celebrato. È anche per questo - ricordare e onorare l’italiano ignoto che non ha ceduto, che non ha ubbidito, che non ha combattuto la sporca guerra della razza, che esiste il «Giorno della Memoria».
Ma esiste anche per ricordare che il Parlamento fascista italiano ha approvato all’unanimità, al grido di «viva il Duce» alla presenza di Mussolini, le leggi dette «per la difesa della razza», articolo per articolo, fra discorsi deliranti, il cui testo si può ancora trovare negli archivi di Montecitorio, e frenetici applausi.
«Il Giorno della memoria» esiste per rispondere a chi osi pronunciare la inaccettabile frase sull’«onore dei combattenti di Salò», per esempio l’attuale ministro Italiano della Difesa La Russa. I combattenti di Salò sono stati coloro che hanno cercato, arrestato, ammassato nelle carceri italiane e poi consegnato alle guardie e ai treni nazisti quasi tutti gli ebrei italiani che nei campi di sterminio sono scomparsi. Sono stati quegli onorati combattenti di Salò a consegnare Primo Levi ai nazisti per il trasporto ad Auschwitz. Negli Stati Uniti, nessuno, per quanto di destra, si sognerebbe di difendere la schiavitù come una onorevole pagina della storia americana. E in nessun paese d’Europa si è mai assistito a una celebrazione di governo verso coloro che hanno collaborato con i nazisti e fascisti che occupavano i loro Paesi.
Le parole del sindaco di Roma e del ministro della Difesa italiano sono più gravi perché riguardano l’immenso delitto della Shoah di cui l’Italia fascista è stata co-autrice e co-protagonista. E’ vero che l’Italia fascista, con il suo codice di violenza, il suo impossessamento crudele delle colonie (di cui Gheddafi, oggi ha chiesto e ottenuto il conto) e la sua relativa modernizzazione dell’Italia ha avuto in quegli anni un suo prestigio e un suo peso in Europa. Ma proprio per questo il delitto razziale italiano si è esteso al peggio di tutta la sanguinosa Europa fascistizzata, e la responsabilità del regime italiano in quegli anni e in quel delitto è stata immensa.
Molti avranno notato che il Presidente della Repubblica, l’8 settembre a Roma, ha parlato da solo a nome dell’Italia libera (libera dal fascismo e dalla persecuzione razziale) nata dalla Resistenza e ha indicato il solo vero valore condiviso: la Costituzione.
È un giorno di tristezza e vergogna per coloro che c’erano, in Italia, quando gli ispettori della razza entravano nelle scuole, quando le brigate nere provvedevano a trovare e consegnare ai tedeschi gli italiani ebrei. Ed è bene ricordare al ministro della Difesa di questa Repubblica, nata dalla Resistenza che gli è estranea, che nella sua Repubblica di Salò i delatori venivano compensati (dai fascisti, non dai tedeschi) con lire cinquemila per ogni ebreo catturato e mandato a morire.
È un giorno di gratitudine verso Giorgio Napolitano che ha detto agli spettatori di sequenze televisive che saranno sembrate un film brutto come un incubo, che è la Resistenza, non Salò, il fondamento dell’Italia democratica, che è la Costituzione antifascista il nostro codice condiviso.
Il resto, aggiungo in nome della memoria che ho cercato di mantenere viva nella legge che porta quel nome, è spazzatura della storia.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 9.9.08
I fatti (assoluti) del fascismo
di Vittorio Emiliani


Il fascismo “male assoluto”, come ha affermato Gianfranco Fini, o male relativo, come ha sostenuto pochi giorni fa il suo confusionario allievo Gianni Alemanno sindaco di Roma? Andiamo a vedere allora i principali guasti prodotti dal fascismo, in dati e cifre.
La soppressione dei diritti e delle libertà
Parte da lontano, con le sopraffazioni delle squadracce fasciste che seminano morte e terrore, con la “notte di fuoco” di Firenze, con la colonna Brandimarte a Torino, col rogo delle grandi cooperative ravennate preludio alla Marcia su Roma. Decine e decine di morti, centinaia di feriti, devastazione di Camere del lavoro e di partiti. Mussolini sa scegliere chi colpire: un parroco, don Giovanni Minzoni, ad Argenta, ucciso a bastonate nel 1923; il socialista Giacomo Matteotti, il più tenace e popolare fra i leaders parlamentari, rapito ed ucciso nel giugno 1924; il liberale Giovanni Amendola, ex ministro, selvaggiamente picchiato a Montecatini, morto nel 1926, come Piero Gobetti, il più giovane e originale fra gli oppositori, che si spegne a Parigi dopo violentissime percosse; il giovane dirigente comunista Gastone Sozzi, torturato e “suicidato” nel carcere di Perugia nel 1928; il liberalsocialista Carlo Rosselli, promotore della partecipazione alla guerra di Spagna («Oggi in Spagna, domani in Italia»), assassinato in Francia assieme al fratello Nello nel 1937; Antonio Gramsci duramente condannato e fatto marcire in carcere fino alla morte, in clinica, nel 1937.
Con le leggi speciali del 1926 vengono dichiarati decaduti i deputati dell’opposizione, abolita la libertà di stampa (il sindacato giornalisti, che resiste, è sciolto d’autorità), soppressi i giornali di opposizione, sciolti i partiti, istituito il Tribunale Speciale e il confino di polizia, ripristinata la pena di morte.
Elezioni abolite
Mussolini va al potere, complice il re, col colpo di Stato della marcia su Roma dell’ottobre ‘22 (l’anno prima ha raccolto pochi voti). Poi si taglia su misura una legge elettorale maggioritaria. Con la quale si vota nel 1924, una parvenza di democrazia. Matteotti, che denuncia, durissimo, alla Camera violenze, intimidazioni e brogli, viene eliminato poche settimane dopo. Si tengono due grotteschi plebisciti sul regime, nel 1929 e nel 1934. Votare “no” su di una scheda trasparente vuol dire venire bastonato fuori dal seggio. Nel 1929 sono 135.773 a votare così. Poi vale soltanto la tessera del Partito Nazionale Fascista senza la quale non si può lavorare, negli uffici pubblici, nella scuola, ma un po’ dovunque. Viene imposto ai docenti universitari il giuramento di fedeltà al regime: in dodici non giurano, altri hanno già perso o perderanno la cattedra per antifascismo (Salvemini, Lionello Venturi, Borgese), altri ancora si mascherano per cospirare.
Tribunale Speciale
Istituito il 5 novembre 1926, durerà fino al 25 luglio 1943. I processati sono migliaia, i condannati circa 4.600 (dei quali 697 minorenni) per oltre 28.000 anni di carcere irrogati complessivamente. In maggioranza si tratta di operai e artigiani, per lo più comunisti. Giovani, sui trent’anni in media. Il trentenne Umberto Terracini, condannato nel 1926, trascorrerà ininterrottamente in galera e al confino circa 17 anni, venendo liberato dopo la caduta di Mussolini nel ‘43. È ebreo e due volte espulso dal Pci per antistalinismo. Giancarlo Pajetta viene processato e duramente condannato a 17 anni appena. Trentuno le esecuzioni capitali. Altre centinaia di antifascisti devono espatriare clandestinamente. Uno dei più importanti fra gli esuli, Filippo Turati, viene fatto fuggire da Sandro Pertini, poi carcerato a lungo, e da altri (l’auto è guidata dall’industriale ebreo Adriano Olivetti).
La politica economica
Vengono soppresse anche le libertà sindacali e vietati gli scioperi. Per tutto il ventennio la compressione dei salari è costante. L’indice delle retribuzioni pari a 127 nel 1921, prima dell’avvento di Mussolini, tocca un minimo storico nel 1926 con 111,6. Per tornare al livello del 1921 bisognerà aspettare il 1949. Il fascismo non applica la nominatività ai titoli azionari, abolisce subito la commissione per i sovraprofitti di guerra, l’imposta di successione e quella sui capitali di banche e industrie, sblocca i fitti, ecc. I salvataggi industriali saranno pagati dalla collettività. Lo Stato corporativo rimane sulla carta.
Leggi razziali
Nel 1938 agli italiani di “razza ebrea” sono vietati tutti gli incarichi pubblici, le scuole statali, il contatto stesso con gli “ariani”, l’esercizio di numerose attività commerciali, compresa la licenza di un taxi, l’ingresso nelle pubbliche biblioteche e così via. Poi la Shoa. I cittadini di origine israelita non sono mai stati molti in Italia. Stavolta muoiono in tanti. La comunità romana registra oltre 2.000 deportati, dei quali appena 16 tornano vivi. Intere famiglie risultano annientate in tutta Italia.
Fra guerra e Resistenza
Il fascismo vuole l’entrata in guerra a fianco di Hitler, pur conoscendo la totale impreparazione del nostro esercito. Risultato finale (oltre a città distrutte, infrastrutture territori devastati): 330.000 militari caduti o dispersi e 85.000 civili deceduti. Circa 650.000 soldati e 30.000 ufficiali italiani vengono internati in Germania (dopo i massacri di massa a Cefalonia e a Corfù) dopo l’8 settembre ‘43. Nella quasi totalità rifiutano di aderire alla Repubblica di Salò e patiscono una dura prigionia, così che oltre 41.400 di essi moriranno nei lager. Una pagina di storia e di amor patrio straordinaria e pochissimo conosciuta.
Alla Resistenza partecipano circa 300.000 fra italiani e italiane: le donne fucilate o impiccate saranno 2.812, oltre mille cadono negli scontri coi nazifascisti. In totale i morti della Resistenza, in combattimento o dopo la cattura, sono oltre 44.000. Altrettanti i militari del Corpo di Liberazione caduti a fianco degli Alleati anglo-franco-americani. Le stragi di cittadini inermi perpetrate dai nazifascisti si contano in oltre 400, per circa 15.000 vittime, da Castellaneta a Bolzano, compiute dalle Ss, da militari della Wermacht in ritirata, col sostegno spesso dei militari di Salò. Ben 695 i fascicoli delle stragi sepolti negli “armadi della vergogna” (come li ha chiamati Franco Giustolisi) e appena una decina i processi. Il sindaco di Roma Alemanno non considera il fascismo il “male assoluto”. Giudicate da voi da questa sintesi estrema di nudi fatti, di crude cifre.

l’Unità 9.9.08
Zeev Sternhell, Professore all’Università ebraica di Gerusalemme:
«La Storia non si riscrive a uso e consumo di interessi del presente»
di u.d.g.


«Il fascismo è stato un fenomeno storico-politico complesso, le cui radici vanno ricercate fuori dell'Italia. Ciò che non è accettabile, né sul piano storiografico né su quello politico, è scinderne un aspetto, per quanto caratterizzante come furono le leggi razziali, con l’identità complessiva del fascismo. La Storia non può essere riscritta ad uso e consumo di interessi del presente». A sostenerlo è Zeev Sternhell, professore di Scienze Politiche all’Università ebraica di Gerusalemme, considerato il più autorevole studioso della destra fascista in Europa. Tra i suoi numerosi scritti in materia, tradotti in decine di Paesi, ricordiamo La terza via fascista (Il Mulino), Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia e Nascita dell’ideologia fascista (Baldini Castaldi Dalai). Il fascismo, rileva il professor Sternhell, fu anche, e soprattutto, un sistema ideologico compiuto, formatosi nella Francia di fine ’800 e che in Italia radicò e rafforzò il suo modo di essere.
Professor Sternhell, è possibile, come fa il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, scindere le leggi razziali dall’insieme dell’esperienza fascista?
«No, non è possibile. Perché vorrebbe dire considerare le leggi razziali del 1938 come una sorta di escrescenza tumorale in un corpo dottrinario per il resto sano. È una operazione riduzionistica della quale posso intendere le ragioni politiche ma che non ha alcun appiglio di carattere storico e culturale. Semmai è vero il contrario di quanto sembra asserire il sindaco di Roma: le leggi razziali rappresentano il coerente sviluppo di quel filone del fascismo radicale che trova fondamento nel pensiero di un filosofo che è stato e a quanto pare resta ancora molto caro ad una parte, non credo secondaria, del corpo militante di Alleanza Nazionale».
A chi si riferisce, professor Sternhell?
«A Julius Evola. Ricordo che su questo aspetto avemmo modo di discutere con l’Unità nei giorni della visita di Gianfranco Fini in Israele. Ricordo che allora mi colpì molto un sondaggio pubblicato da un grande giornale italiano dal quale emergeva che il 61% degli elettori di An considerava “buono” il periodo fascista. Così come mi aveva colpito, ma non stupito, che nelle stesse tesi di An di Fiuggi fosse ben presente lo “spirito” di Evola. Uno “spirito” che ancora attrae i giovani militanti di destra - non solo della destra radicale - e anche chi giovane non lo è più e che oggi ricopre importanti incarichi politici e di governo. E sfido chiunque a negare che il pensiero di Evola non sia permeato di antisemitismo».
Ciò vuol dire che nell’universo della destra italiana non si è fatto fino in fondo i conti col passato. Eppure Gianfranco Fini definì il fascismo “un male assoluto”.
«Da quello che leggo mi pare che questa asserzione sia contestata dal sindaco Alemanno, che certo non può dirsi una figura di secondo piano in An. Resta il fatto che il post-fascismo, di cui lo stesso Fini si è fatto interprete, non è in ogni caso anti-fascismo e che la cancellazione di pagine come quelle della Repubblica di Salò, delle Leggi razziali, dell’assassinio di Matteotti e della carcerazione di Gramsci, richiede un’opera molto più profonda, soprattutto tra gli attivisti di An, quelli che salutavano a braccio teso la conquista del Comune di Roma da parte di Alemanno. Fare i conti col proprio passato identitario richiede un coraggio intellettuale e uno sforzo collettivo che francamente faccio fatica a riscontrare nella destra italiana».
Professor Sternhell, c’è chi pensa che queste polemiche siano datate...
«L’esercizio di una memoria collettiva è un sano investimento sul futuro per una comunità che vuol difendere e rafforzare i suoi caratteri democratici. La demonizzazione dell’altro da sé, il rigetto di ogni diversità come fattore destabilizzante non appartengono al passato ma sono un “virus” del presente. Contro il quale occorre sviluppare una grande battaglia culturale, partendo dal riconoscimento che il fascismo è stato una ideologia autosufficiente. E come tale va analizzata, decifrata, e contrastata».
Resta la polemica politica.
«Che immeschinisce il tutto e riduce la battaglia delle idee ad un mero esercizio di potere, senza anima, senza storia. E dunque, senza futuro».

l’Unità 9.9.08
Celestini: «Le leggi razziali di oggi sono le misure contro i rom»
di Luciana Cimino


«È meglio che Alemanno si occupi delle reggi razziali di oggi ed eviti di parlare di quelle di 70 anni fa». Il consiglio per il sindaco viene da Ascanio Celestini, noto drammaturgo e affabulatore che della conservazione della memoria ha fatto la cifra stilistica della sua arte. E’ facile capire a cosa l’artista si riferisca. «Prendere le impronte digitali agli zingari è una legge razzista perché c’è un accanimento su una categoria che qualcuno reputa diversa dalle altre, eppure i nomadi sono un popolo che non ha mai fatto guerre, non ha costruito né carceri, né manicomi, se commettono reati è giusto che paghino personalmente». L’affondo di Celestini arriva durante la conferenza stampa di presentazione del festival di cui è ideatore e direttore, "Bella Ciao, il balsamo della memoria", la kermesse giunta quest’anno, tra mille difficoltà finanziarie, alle quarta edizione. Spettacoli teatrali, film e musica si alterneranno fino a domenica 14 settembre nelle officine Marconi, ex-complesso industriale in parte recuperato, nel centro sociale per anziani Romanina (dove stasera ci sarà lo spettacolo su drammi e memorie dell’emigrazione di Veronica Cruciani) e nel parco di Villa Sciarra a Frascati. Tra gli eventi più attesi, le rappresentazioni teatrali di Ascanio Celestini e il concerto jazz della pianista Rita Marcotulli. Luoghi periferici perché il festival, nelle intenzioni del direttore, è soprattutto «interazione con il territorio». «Sono posti dove non c’è niente, tutt’al più cinema che fanno film natalizi tutto l’anno». Nel programma anche diversi documentari di difficile distribuzione tra i quali "Zero", l’inchiesta sull’11 settembre di Franco Fracassi, Francesco Trento e Giulietto Chiesa, "Morire di lavoro" di Daniele Segre e la storia di emigrazione di Veronica Cruciani, "Ballare di lavoro". Giovedì 11 settembre, alle 22.30, inoltre, l’attrice Giovanna Mezzogiorno, Johnny Palomba e lo stesso Celestini, tra gli altri, racconteranno alcune storie minime dell’attentato che ha cambiato il corso della storia recente. Precisa l’artista che non è sua intenzione buttarsi nella mischia delle repliche alle dichiarazioni fornite da Alemanno durante il suo viaggio privato in Israele: «Nnon si può affrontare la questione con una dichiarazione o una battuta, l’argomento andrebbe affrontato all’università o a scuola». Altrimenti, secondo Celestini, il rischio che si corre è quello di parlare come gli slogan di note pubblicità. «È come quando si condanna il terrorismo, tutti lo fanno, non solo Bush; perfino Bin Laden è convinto che il suo non sia terrorismo», dice ironizzando.

l’Unità 9.9.08
Manca solo l’insegnante con manganello e fischietto
di Andrea Bajani


Ogni fascia anagrafica ha il suo spauracchio confezionato ad hoc. Per gli adulti, è disponibile l’extracomunitario. È uno spauracchio di comprovata efficacia, estesa applicazione e referenza millenaria. Funziona bene come catalizzatore della frustrazione e dell’odio sociale, provare per credere. Per i giovani in età scolare, invece, da poco è stato lanciato sul mercato il prodotto «bullo». Il bullo è una sorta di «extracomunitario italiano adolescente» che mena le mani contro il prossimo, preferibilmente se portatore di handicap, sovrappeso, ritardato, omosessuale. In entrambi i casi (extracomunitari e «extracomunitari italiani adolescenti») la parola d’ordine è una sola: disciplina. L’ultima conferma l’abbiamo avuta nella nuova riforma della scuola firmata dal Ministro Gelmini, che taglia risorse all’istruzione, mortifica la funzione degli insegnanti, e però invita a dibattere su folkloristici provvedimenti disciplinari, buoni appunto per distrarre e catalizzare l’aggressività sociale. La violenza (dentro e fuori le scuole) si sconfigge con la disciplina. Forse è una strada, però bisogna intendersi sul significato del termine «disciplina», che improvvisamente sembra diventato prerogativa della destra. La disciplina proposta è: bocciatura per l’insufficienza in condotta e grembiulino obbligatorio a scuola. Il che significa declinare sulla fascia anagrafica adolescenti l’istituzione dell’esercito in strada. Ovvero: obbedienza pena la punizione, l’insegnante come vigile urbano seduto dietro la cattedra con manganello, fischietto e in tasca le manette e il taccuino per emettere multe. Ecco, credo semplicemente che quest’idea della disciplina riveli una concezione desolante del cittadino e del rapporto tra stato e cittadino. Il cittadino è relegato a mero esecutore meccanico di un ordine di cui non è tenuto né a capire né a condividere il senso.
Per dirla con Antonio Gramsci, fondatore di questo giornale, è venuto il momento di contrapporre disciplina a disciplina. C’è un tipo di disciplina in cui tutti, semplicemente, pedestramente obbediscono: «i muli della batteria al sergente di batteria, i cavalli ai soldati che li cavalcano. I soldati al tenente, i tenenti ai colonnelli dei reggimenti; i reggimenti a un generale di brigata; le brigate al viceré (…). Il viceré alla regina (…). La regina dà un ordine, e il viceré, i generali, i colonnelli, i tenenti, i soldati, gli animali, tutti si muovono armonicamente e muovono alla conquista». E poi c’è un’altra disciplina. Questa disciplina nasce dalla consapevolezza di essere parte di una collettività, dalla condivisione di un progetto. Soprattutto nasce dalla cultura, che è quello che chiediamo allo stato, agli insegnanti e alla scuola: «La cultura (...)è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri». Ma questo fa paura: meglio le istruzioni che l’istruzione. È più rassicurante avere dei consumatori in grembiulino che dei cittadini consapevoli. Se seguiamo bene le istruzioni, diventeremo uguali alla figura disegnata sulla scatola.
Esce oggi nelle librerie italiane
il nuovo libro di Andrea Bajani: «Domani niente scuola», Einaudi

Repubblica 9.9.08
Maestro unico, si allarga la rivolta
Quaranta istituti proclamano lo stato di agitazione
di Tea Maisto


Un fronte contro il maestro unico alle elementari, la protesta contro il provvedimento del ministro Gelmini si fa sempre più accesa. Il comitato si chiama "Non rubateci il futuro" e riunisce rappresentati di circa quaranta scuole primarie della Capitale. Dalla Iqbal Masih, zona Casilina, che, il 15 settembre - lo stesso giorno in cui la scuola riaprirà - darà vita a una occupazione con docenti, genitori e alunni e che durerà una settimana, alla Gandhi di San Basilio, all´istituto comprensivo di via dell´Archeologia, passando per diversi istituti del secondo e del terzo municipio.
Sin dal primo giorno di scuola dunque la parola d´ordine sarà "protestare" contro la "cancellazione" di circa 1.800 docenti elementari. Gli istituti si stanno già organizzando con volantinaggi, striscioni, fasce scure da portare al braccio in segno di lutto, assemblee con i genitori e lettere aperte, fino all´occupazione della Iqbal Masih, dove le lezioni saranno garantite comunque ma che nel pomeriggio darà vita a numerose attività informative. E l´attività del comitato non si fermerà neppure in questa settimana: per giovedì si sta organizzando un sit in davanti a Montecitorio in occasione della discussione alla Camera della proposta del ministro Gelmini sul maestro unico. Mentre il 16 ci sarà un´assemblea cittadina con "sos precari" all´istituto superiore Galilei.
«In assemblea c´erano rappresentanti anche del VI municipio - spiega Antonietta Carlomagno, maestra della Iqbal Masih - domani (oggi per chi legge, ndr) si riunisce la giunta e quindi abbiamo chiesto di approvare un documento sul provvedimento del ministro». E il municipio ha subito risposto: il consiglio che si riunirà lunedì prossima ha all´ordine del giorno la discussione sul progetto Gelmini. È entrata nel coordinamento anche la scuola Gandhi: «Domani (oggi per chi legge, ndr) si terranno un collegio dei docenti e un´assemblea sindacale per deliberare un documento contro il maestro unico - spiega Carla Corciulo, maestra dell´istituto di San Basilio - e chiederemo al consiglio di istituto di approvare una nostra iniziativa. Infatti, lunedì prossimo noi docenti verremo a scuola indossando una maglietta con lo slogan "il futuro dei bambini non fa rima con Gelmini" e ne prepareremo altre per gli alunni. Per la prima ora vorremmo organizzare un´assemblea aperta per informare i genitori e dalle 14 in poi riunirci in assemblea permanente».
E aggiunge la maestra: «Quando si parla di "centralità della persona" in realtà non vengono presi in considerazione i bisogni dei bambini e le necessità dell´apprendimento, ma solo una logica di risparmio economico. Mentre la presenza di più insegnanti garantisce più punti di vista, più approfondimento». Anche a Tor Bella Monaca c´è fermento: «I genitori sono preoccupati per i loro figli e ci stanno facendo molte domande sul maestro unico - spiega Caterina Trigoti, insegnante dell´istituto comprensivo di via dell´Archeologia - e temono anche per il tempo pieno. Non vogliono che i piccoli siano semplicemente intrattenuti fino alle 16.30 ma vogliono che questa continui a essere una vera scuola».
E lo stato di agitazione si va estendendo anche ad altre scuole che non fanno parte del comitato "Non rubateci il futuro". Come l´Ada Negri di via Latina: «Nei prossimi giorni terremo un´assemblea con i docenti e i genitori contro il maestro unico - spiega la direttrice Rosalia Zene - per informarli su quanto sta avvenendo».

l’Unità 9.9.08
Analfabeti dell’obbligo
di Roberto Volpi


Il dato è questo: tra il 2000 e il 2006 crollano dal 24,8 al 18,9% i quindicenni italiani con capacità di lettura elevate e invece aumentano dal 22,7 al 28,4% quelli con capacità di lettura scarse. Risultato: se nel 2000 c’erano 131 quindicenni con capacità di lettura elevate ogni 100 con capacità di lettura scarse, nel 2006 - vale a dire oggi, praticamente - ci sono appena 80 quindicenni con capacità di lettura elevate ogni 100 con capacità di lettura scarse.
Risultato: se nel 2000 c’erano 131 quindicenni con capacità di lettura elevate ogni 100 con capacità di lettura scarse, nel 2006 - vale a dire oggi, praticamente - ci sono appena 80 quindicenni con capacità di lettura elevate ogni 100 con capacità di lettura scarse. Quanti hanno capacità di lettura scarse non superano il primo livello della capacità di lettura: ovvero, detto in soldoni, non sanno leggere. Questo è lo stato dell’arte in Italia, a questo proposito, nel tempo dell’informazione continua e planetaria.
Vien da dire: complimenti. Un po’ a tutti: ai nostri quindicenni, alla scuola, alle famiglie. E, insomma, all’Italia.
Al Sud la situazione della capacità di lettura dei quindicenni è la seguente: 50 (vale a dire uno su due) hanno capacità di lettura sufficienti, 13 elevate e 37 scarse. I quindicenni che non sanno praticamente leggere sono dunque al Sud ben 37 su 100 (una proporzione da brividi, considerando che si parla di quindicenni, non di bambini dei primi anni della scuola primaria) e sono tre volte più numerosi di quelli che sanno leggere bene.
Il divario Nord-Sud è abissale. Se al Centro-Nord abbiamo 165 quindicenni con capacità di lettura elevate per 100 studenti con capacità scarse al Sud i quindicenni con capacità di lettura elevate sono appena 36 ogni 100 con capacità di lettura scarse.
Che dire? Tutti noi siamo più o meno consapevoli che i nostri giovani studenti balbettano per quanto riguarda la matematica e la capacità di districarsi nel linguaggio dei numeri, della logica e dei problemi matematici. Ma siamo decisamente più impreparati a capacitarci di dati tanto negativi per quel che riguarda la semplice lettura: dicasi, la semplice lettura. I quindicenni, tanto per chiarire, sono quanti hanno alle spalle l’intero ciclo della scuola di base, che hanno portato a termine la scuola dell’infanzia, quella primaria (le vecchie elementari) e quella secondaria di primo livello (la vecchia scuola media), sono insomma dei giovani che se non hanno ancora imparato a leggere hanno un’alta probabilità di non imparare mai più. Sono dati che, non fossero certificati dall’Istat, si stenterebbe a credere. E che dire del loro peggioramento nel tempo? Del loro vero e proprio inabissarsi tra il 2000 e il 2006? Prima alle elementari c’era un insegnante per classe. Una classe, un insegnante. Oggi nella scuola primaria ce ne sono due (uno di italiano e materie collegate e un altro di matematica e materie collegate), più altri ancora che vanno da inglese a educazione artistica. Prima c’erano i programmi ministeriali e stop. Oggi ci sono i POF, i Piani di Offerta Formativa, e ogni scuola si costruisce il proprio piano. L’intento era buono, della realizzazione meglio non parlare.
I POF sono chiamati a organizzare, chiarisce il sito web del ministero della Pubblica Istruzione, i «percorsi personalizzati nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado». E, del resto, basta prendere il primo POF che mi è capitato sotto gli occhi cliccando su Google, quello dell’Istituto Comprensivo di Calcinate (provincia di Bergamo), per imbattersi nell’obiettivo principe della scuola di base che sarebbe precisamente quello di «differenziare la proposta formativa adeguandola alle esigenze di ciascuno», in modo tale da dare a ogni studente «la possibilità di sviluppare al meglio la propria identità e potenzialità».
E intanto, in questo tripudio di personalizzazione dell’insegnamento affinché ogni studente possa subito trovare la sua strada e subito affermare le proprie potenzialità, si è semplicemente persa la strada del leggere, dello scrivere e del fare di conto. È troppo chiedere che qualcuno - dal ministero agli insegnanti - si preoccupi intanto, ma lo faccia davvero, di riportare la scuola italiana su quella strada? Una strada che sarà pure minima e poco ambiziosa, ma senza la quale tutte le altre non appaiono che inconcludenti, fastidiose e pure un poco irresponsabili elucubrazioni?

l’Unità 9.9.08
Eluana, l’ultimo affronto
di Giancarlo Ferrero


La lettera del direttore generale della sanità milanese, dottor Lacchini, al padre di Eluana Englaro va al di là d una mera comunicazione tra un utente del servizio sanitario ed il responsabile di un pubblico istituto: assume il valore e l’efficacia di un atto amministrativo. Come tale deve essere considerato per rilevarne l’eventuale illegittimità e la conseguente sua impugnabilità innanzi al giudice competente.
Certamente di fronte ad una precisa richiesta del padre di Eluana, il direttore aveva il dovere-potere di rispondere. Rientrava, altresì, nei suoi poteri respingere la richiesta motivandola sulla circostanza obbiettiva che le strutture sanitarie regionali non erano attrezzate né deputate a dare attuazione ad un intervento sanitario di quel tipo. Ciò che non poteva giuridicamente fare era definire la natura dell’assistenza sanitaria e soprattutto vietare ai medici di intervenire nel senso richiesto, pena le conseguenze sanzionatorie per la corrispondente violazione dei loro obblighi professionali e di servizio.
In questo modo il direttore generale lombardo si pone in netto contrasto con una decisione di un organo giurisdizionale della cui competenza nessuno dubita. I giudici milanesi, infatti, hanno esplicitamente riconosciuto (anche se con pronuncia impugnata dalla Procura Generale) il diritto del padre di Eluana di far sospendere il trattamento terapeutico che la mantiene artificialmente in vita. È consequenziale che se un comportamento è ritenuto manifestazione di un diritto, il comportamento relativo è assolutamente lecito. I sanitari che in piena loro coscienza vi danno attuazione non commettono alcuna violazione di legge e, quindi, non violano alcuna obbligazione professionale e non possono certamente essere sanzionati.
Un direttore di strutture sanitarie, sia pure al vertice, non può porsi in contrasto con una decisione legittimamente presa da un organo giurisdizionale, con efficacia su tutto il territorio nazionale. Se questo contrasto è contenuto in un atto ufficiale con effetti indeterminati verso un gruppo di sanitari, si realizza un’ipotesi, se non di reato (ma il fatto meriterebbe l’attenzione della locale Procura della Repubblica) certamente di illegittimità amministrativa. Con il dolore che gli pesa sulle spalle non si può pretendere che sia il padre ad impugnare il ricorso al Tar e chieder in via d’urgenza e cautelare l’immediata sospensione dell’atto. Troverà facilmente in altre strutture sanitarie quell’accogliente rispetto della sua pena e del suo diritto che gli è stato così rigorosamente negato, dimenticando che (errore interpretativo a parte) è «la legge ad essere fatta per l’uomo, non l’uomo per la legge».

Corriere della Sera 9.9.08
Torna il classico «Condotta di vita»
L'ombra di emerson influenzò Nietzsche
di Paola Capriolo


Non più tradotta in Italia dal 1923 e ora riproposta in una nuova edizione a cura di Beniamino Soressi (Rubbettino, pp. 310, e 24), Condotta di vita di Ralph Waldo Emerson occupa una posizione di particolare rilievo non solo nella bibliografia del suo autore, ma nella storia del pensiero: quest'opera pubblicata nel 1860 dal padre del trascendentalismo americano ebbe infatti la ventura di capitare tra le mani di un diciassettenne tedesco di nome Friedrich Nietzsche e di esercitare un notevole influsso sulle sue prime speculazioni filosofiche. Influsso che, secondo Soressi, rimarrebbe determinante anche per il Nietzsche maturo, le cui teorie troverebbero nelle pagine di Emerson anticipazioni significative. In effetti, le affinità saltano agli occhi: nei saggi scintillanti di humour e vibranti di accensioni poetiche che compongono Condotta di vita non è difficile veder prefigurate molte tra le idee più caratteristiche del grande filosofo di Sils Maria, da quell'eroico amor fati di cui egli avrebbe fatto anni dopo la sua divisa, alla dottrina del superuomo («Questi milioni li chiamiamo uomini, ma non lo sono ancora. Interrato per metà, scalpitando per esser libero, l'uomo ha bisogno di tutta la musica che si può portargli per estrarlo»), sino al disprezzo delle masse o alla diffidenza per la compassione intesa come forza frenante e ostacolo allo sviluppo. Ma soprattutto, ad accomunarli è la tesi fondamentale che la vita sia «una ricerca della potenza», e che la legge di questa potenza consista nel tendere al proprio infinito accrescimento.
Sarà perché dalle due sponde dell'Atlantico entrambi descrivono lo stesso mondo, quello della tecnica, della modernità giunta al suo pieno dispiegamento, della rivoluzione industriale che proprio allora andava incontro a una vertiginosa accelerazione; ed entrambi possono essere considerati come interpreti, cantori, «giustificatori» filosofici di questo mondo. Nietzsche in modo più sottile e costantemente venato di ambiguità regressive; Emerson con una rude schiettezza tutta americana, come dimostra la sua esaltazione quasi candida della ricchezza, della corsa al profitto, di quella razza di uomini «arditi e duri», traboccanti di un sovrappiù di energie, che hanno «teste piene di martelli a vapore, pulegge, manovelle e ruote dentate» e grazie ai quali «ogni cosa inizia a risplendere di valori».
Qui però le analogie finiscono per lasciare il posto alla più abissale differenza, perché Emerson, pur proclamando che la potenza «non si veste di satin» e tende a calpestare con libertà selvaggia tutti i nostri pregiudizi di uomini civilizzati, non ha il minimo dubbio che essa finirà col trovarsi «in armonia con le leggi morali ». Ai suoi occhi di strenuo conciliatore il male stesso è semplicemente «il bene nel suo farsi», e nonostante ogni apparenza contraria «l'ordine e la sincerità dell'Universo sono assicurati da Dio, che delega la sua divinità ad ogni particella ». Insomma, Emerson è uno degli ultimi e a tratti dei più ingenui epigoni di quella visione risalente a Platone secondo la quale l'universo si dice
cosmos e non acosmía, ordine e non caos, mentre l'importanza cruciale di Nietzsche nella storia del pensiero sta precisamente nell'aver respinto con determinazione tale antichissimo presupposto. Da questa antitesi essenziale discendono tutte le altre, compresa l'opposta collocazione politica dei due pensatori: «reazionario » Nietzsche, decisamente progressista Ralph Waldo Emerson, tanto da battersi contro la schiavitù schierandosi al fianco degli abolizionisti e da venir considerato dalla posterità come «il filosofo della democrazia». Se il primo ci inquieta, dalla lettura del secondo si esce, almeno nelle sue intenzioni, profondamente rassicurati, e se l'uno parlerà sempre al cuore di tutti gli apocalittici, dall'altro trarranno conforto quanti si ostinano a sperare ancora nell'inevitabile trionfo del bene.

il Riformista 9.9.08
L'appello del Papa
Dai movimenti al Parlamento. Politici cattolici, alla fine ci pensa Ruini?
di Paolo Rodari


Non sono pochi i vescovi della Chiesa italiana che ritengono che alle parole pronunciate l'altro ieri dal Papa, secondo le quali serve al mondo della politica «una nuova generazione» di «cristiani impegnati» che con «competenza e rigore morali» cerchino soluzioni di «sviluppo sostenibile», occorra rispondere in fretta. Ma per tutti una cosa è evidente: la risposta non possono più essere quelle scuole di formazione politica che, sul finire degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, provarono a occupare quello spazio che gradatamente lo sfaldamento della Democrazia cristiana stava lasciando libero dietro di sé: le scuole fallirono (erano nate come funghi ovunque, soprattutto nelle parrocchie, negli istituti religiosi, nei centri culturali e nelle diocesi) anche perché - come spiega al Riformista Luca Diotallevi - «la politica è una prassi, non è un episteme, e dunque non s'impara a scuola». Non solo. Secondo Diotallevi il richiamo più importante fatto dal Pontefice domenica risiede nella richiesta «che queste nuove generazione di laici lavorino per il bene comune». In sostanza, è una richiesta che va in scia a quanto il cardinale Camillo Ruini intende debba essere la presenza cattolica in politica: non la fossilizzazione in un unico partito per difendersi dal nemico, quanto una proposta culturale della propria identità a 360 gradi, correndo magari il rischio della contestazione e, a volte, della marginalizzazione.
Dunque il cardinale Ruini: attraverso la presidenza del progetto culturale, sarà lui a continuare la linea intrapresa dalla Chiesa con la fine della Dc: basta col partito unico, sì al bipolarismo e soprattutto a un'opera di riavvicinamento, di ri-affezione dei cattolici al lavoro culturale e quindi anche all'impegno politico.
La risposta alle parole del Papa, insomma, è dal basso che deve sorgere, da dove già ci sono luoghi e persone "vivaci", interessate alla promozione del bene comune e, dunque, all'impegno anche in politica. Sono luoghi non difficili da elencare e che soltanto oggi, dopo i quindici anni di guida della Cei di Ruini, sembrano aver trovato le energie giuste per emergere. Per dire: «Eccoci, i nuovi cattolici in politica siamo noi».
Innanzitutto ci sono le Acli che stanno costituendo una propria fondazione. Si chiama "Achille Grandi" e il suo scopo è quello di creare un circolo virtuoso tra formazione alla cittadinanza e formazione politica. In sostanza, la fondazione vuole creare dei luoghi di incontro, aiuto e formazione permanente non soltanto per i politici, ma per tutti quei laici impegnati nella ricerca del bene comune. È, negli intenti, l'opposto di quelle scuole di formazione politica in voga all'inizio degli anni Ottanta. Il metodo è ribaltato. Si offrono luoghi di sviluppo di tutta la persona ai quali futuri politici e coloro che già sono impegnati in politica, possono attingere forze, energie, idee.
Anche il Movimento politico per l'unità dei focolarini si muove più o meno così: dare un'anima, un'ispirazione, alla politica attraverso incontri nelle sedi parlamentari, regionali, nelle città, convegni e seminari di studio, grandi manifestazioni. Affinché una politica volta all'unità e alla ricerca del bene comune sia messa in campo. È più o meno la stessa scia sulla quale navigano oggi l'Azione cattolica, la Fuci, l'Mcl e tanto associazionismo cattolico.
Simile, ma con sfaccettature diverse, è quella Rete Italia fondata dai politici Formigoni, Lupi e Mauro. I tre ciellini hanno aggregato attorno a sé amministratori locali, studenti universitari, giovani attirati dalla politica e simpatizzanti di vario genere, interessati a essere formati a un certo modo di fare politica. In pratica il modello a cui guardare è quello lombardo da anni nelle mani di Formigoni. I tre hanno messo su anche una scuola dove si apprende "come fare politica" ma, più in generale, anche qui è un luogo che fa da collante tra un certo cattolicesimo impegnato (Cl) e l'attività politica.
A Roma, nel palazzo detto dei "cento preti", un tempo ricovero per i sacerdoti della diocesi, risiedono tre organizzazioni cruciali per il mondo dell'associazionismo cattolico. Non fanno politica in senso stretto ma incarnano alla perfezione l'idea che più che di scuole politiche vi sia bisogno di uomini capaci di influenzare la politica sui temi più importanti. Ai "cento preti" c'è il settore "vita" coordinato da Scienza & Vita, quello "società" da Retinopera e la lobby della "famiglia" coordinata dal forum delle associazioni familiari.


Repubblica 8.9.08
Con Epifani duello sul ‘68:"Epoca del nullismo" Il sindacalista:"No, è stata una stagione di libertà"
Le regole impediscono il dibattito, e Sergio Romano richiama tutti all´ordine


CERNOBBIO - Una nuova tirata contro il ‘68. Ma stavolta Giulio Tremonti ha trovato un degno avversario, un´opposizione netta. Per il ministro dell´Economia, anche qui al workshop Ambrosetti in versione professore di storia, gli anni della contestazione sono da buttare. «E´ stata l´epoca del nullismo, non c´è proprio niente da salvare». Un passaggio fulmineo nel suo lungo speech a porte chiuse. Una voce però lo ha interrotto. «Forse abbiamo vissuto due ‘68 diversi. Da quel movimento sono venute molte novità positive. Per me è stata anche una stagione di libertà. E di riconoscimento di diritti fino a quel momento negati». Tremonti si è voltato di scatto e ha visto che la calorosa difesa veniva dal posto di Guglielmo Epifani, il segretario generale della Cgil. I presenti sono rimasti sorpresi perché la regola di questi seminari è molto chiara: non sono talk show televisivi, non si interrompe (neanche garbatamente come ha fatto Epifani), bisogna limitarsi al proprio intervento e a rispondere alle domande successive. Si poteva aprire un bel dibattito, proprio come all´assemblee di allora, ma ci ha pensato l´ambasciatore Sergio Romano a richiamare tutti all´ordine ricordando le rigide disposizioni del panel.
Il ministro dell´Economia da tempo ha dichiarato chiusa la fase delle ideologie, senza rinunciare a proporne una sua. Epifani ha preso la parola per offrire la sua visione di globalizzazione e produttività. Ma se qualcuno vuole organizzare un confronto vero sul ‘68, finchè siamo ancora nel quarantennale, adesso sa chi invitare. Scopriremo così com´è stato diverso quell´anno per i ragazzi Tremonti ed Epifani. Quando avevano i capelli più lunghi.
(g. d. m.)

Repubblica 8.9.08
Il Papa sferza i politici cattolici "Serve una nuova generazione"
Auspicata la nascita di una classe di cristiani "impegnati e rigorosi" per uno sviluppo sostenibile
Benedetto XVI "Evangelizzate il mondo del lavoro, dell´economia, della politica"
di Marco Politi


CAGLIARI - Giovani politici cattolici cercansi. Competenti e rigorosi. L´appello è di papa Ratzinger, rivolto ai centomila fedeli venuti a partecipare alla messa all´aperto davanti al santuario mariano di Bonaria. In Vaticano è acuta da tempo la preoccupazione per lo scadimento della classe politica. Con il governo il Vaticano è in buoni termini, ma al pontefice e ai suoi collaboratori non sfugge il diffondersi tra la gente di una sfiducia generalizzata verso l´attività politica in quanto tale.
Né in Vaticano sono lieti che all´indomani delle elezioni non si trovino più esponenti cattolici nei posti chiave governativi.
Così, al suo primo intervento in terra sarda, Benedetto XVI ha auspicato una «nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile». Il pontefice si è indirizzato specialmente ai giovani, «assetati di verità e di ideali», perché non si lascino invischiare nel nichilismo. «Evangelizzate il mondo del lavoro, dell´economia, della politica», ha esclamato Ratzinger.
Partecipava alla messa il presidente del Consiglio, venuto anche a salutare il pontefice all´aeroporto (mentre Gianni Letta, da «gentiluomo di Sua Santità» viaggiava nell´aereo papale). In cerca di uno spot, che dimostrasse i suoi buoni rapporti con il Vaticano, Berlusconi si era fatto precedere da un´intervista all´Unione Sarda in cui affermava che il centro-destra era per la libertà d´espressione della Chiesa, mentre solo i comunisti sognano una «Chiesa del silenzio». Ma l´incontro con il Papa nella sacrestia del santuario è durato solo pochi minuti, mentre Benedetto XVI non lo ha nemmeno menzionato salutando genericamente le «autorità civili» all´inizio dell´omelia.
Così è nata una guerra dei saluti. Il Papa, a fine messa, ha improvvisato un saluto al premier e dimenticando il presidente della Regione, scatenando i «buuh» di disapprovazione dei cattolici fautori del governatore Renato Soru. Nel pomeriggio, quando Ratzinger ha rivolto un omaggio al governatore ringraziandolo per il generoso contributo all´organizzazione della sua visita (sembra un milione di euro), le parole del pontefice hanno provocato i fischi dei berlusconiani. Per il ceto politico sardo il breve pellegrinaggio è stato considerato un´occasione per posizionarsi in vista delle elezioni regionali del 2009. Il sindaco Emilio Floris, di onorata famiglia massonica, si è messo a recitare il Pater Noster a braccia alzate come gli antichi cristiani e nel suo benvenuto al pontefice ha elogiato i «principi non negoziabili» della Chiesa.
Benedetto XVI è rimasto al di sopra del teatrino. Ha pregato in sardo un passo dell´Ave Maria, ha lamentato i troppi divorzi e dolori che travagliano le famiglie e ha invitato a pregare per le madri sole. Da Roma intanto, proprio mentre il Papa critica l´equiparazione delle convivenze alla famiglia, con un colpo di scena rimbalzava la notizia che i ministri Rotondi e Brunetta porteranno presto al consiglio dei ministri la riforma delle unioni civili. Ai giovani il Papa ha riservato le parole più appassionate, invitandoli a scoprire le meraviglie della fede e a costruire le famiglie, alimentando l´amore con costanza, responsabilità e senso del dovere. Non fidando solo sul sentimento.

Il Mattino 9.9.08
L’eternità delle cose
Severino e l’elogio della filosofia
Cinquant’anni di ricerca premiati con il Grinzane Il pensatore parla di Chiesa di politica e di tecnologie
di Roberto Carnero


Nato nel 1929 a Brescia, docente di Filosofia teoretica prima alla Cattolica di Milano (da dove se ne andò per divergenze con la dottrina della Chiesa) e poi in quella di Venezia (che nel 2005 l’ha proclamato professore emerito), Emanuele Severino si confronta con Parmenide affrontando l’antico problema ripreso da Heidegger: quello dell’essere e del non-essere.

«La filosofia non è uno dei tanti saperi disponibili, una delle tante voci che possiamo ascoltare all’interno della società. E non è neppure, come afferma qualcuno, un ”genere letterario”. La filosofia è all’origine della razionalità occidentale, e pertanto non è allineabile agli altri punti di vista. Al contrario è il sapere fondativo di tutti gli altri». Con queste parole, nette, forti e cariche di orgoglio per quella che è la disciplina da lui praticata in tutta la sua vita, Emanuele Severino afferma l’importanza e il ruolo del pensiero filosofico nel sistema dei saperi. Severino è uno dei più importanti filosofi italiani. Il suo ultimo libro, Immortalità e destino (Rizzoli, pp. 194, euro 18,50), è una sorta di summa di cinquant’anni di ricerche filosofiche, pensata però in una chiave divulgativa per un pubblico più ampio. Per questo volume domenica Severino ha ricevuto a Santo Stefano Belbo il premio Grinzane Cesare Pavese nella sezione di saggistica. Professore, che cosa può dire oggi la filosofia sulle grandi questioni etiche che dividono la società? Pensiamo al dibattito su dove comincia e dove finisce la vita umana. «Credo che su temi così complessi la filosofia possa dire qualcosa di utile. Spesso in Italia si sente come unica voce portatrice di un’etica quella della Chiesa cattolica. Ma trovo paradossale che la Chiesa, per trattare questi argomenti, si affidi alla scienza. C’è in ciò una contraddizione. La Chiesa infatti parla in nome di una verità assoluta e dunque in maniera dogmatica. La scienza invece oggi quando formula delle tesi, lo fa sempre in modo dubitativo, cioè con il beneficio di una nuova verifica e di una diversa formulazione. Questo perché è stato superato il concetto positivista di scienza come portatrice di verità oggettive». Questo atteggiamento della Chiesa però non sembra una novità. Da San Tommaso in poi essa ha sempre affermato che esiste un connubio tra scienza e fede. Giovanni Paolo II ha scritto un’enciclica intitolata «Fides et ratio» e Benedetto XVI è più volte tornato sulla «ragionevolezza della fede». «È vero, ma San Tommaso viveva in un’epoca in cui ”ragione” era sinonimo di verità incontrovertibile. Dalla fine dell’Ottocento in poi il concetto di ragione si è profondamemte modificato. Questo affidarsi alla scienza e alla ragione da parte della Chiesa oggi mi sembra un po’ una mossa politica, come se il Papa volesse rassicurare le masse, che hanno molta fiducia nella ragione. Eppure, nonostante questa pretesa di ”ragionevolezza”, il cattolicesimo sul piano politico presenta dei problemi». Cioè? «Fermo restando il fatto che in una democrazia, se c’è una maggioranza cattolica, diventa legge ciò che decide quella maggioranza, in genere il politico cattolico vorrebbe che tutti vivessero secondo la morale cattolica, mentre il politico laico tende a riconoscere un più ampio margine alle libertà individuali, lasciando che i singoli vivano secondo le loro convinzioni. Quindi spesso accade che le leggi volute dai cattolici siano meno democratiche di quelle volute dai laici». Come vede la politica italiana? «Come quella di tutti i Paesi occidentali. I politici tendono ad assecondare l’andamento della società. In Occidente la gente ha abbandonato Dio a favore della tecnica. Se Dio prima era il rimedio alla precarietà dell’esistenza, oggi la tecnica, che sembra sempre più onnipotente, ha preso il ruolo di Dio. In realtà stiamo vivendo un’epoca di passaggio dal nuovo al vecchio rimedio. La politica va avanti come se ciò non stesse avvenendo. Anziché cercare di orientare il progresso scientifico-tecnologico secondo la sapienza filosofica, i politici si basano su vecchi parametri etici e religiosi. Come accade ad esempio negli Stati Uniti (ma non solo) con gli integralisti cristiani, che cercano di subordinare la scienza e la tecnologia alla propria visione ideologica». Eppure le religioni sembrano vivere un momento di grande forza, quasi un ritorno all’importanza che avevano un tempo. «Certi ritorni di fondamentalismo islamico o cristiano non sono che momenti congiunturali, all’interno di un percorso la cui direzione mi sembra tracciata con nettezza: la fine dei vecchi sistemi religiosi». A proposito di antichi concetti religiosi, nel suo libro «Immortalità e destino» lei enuclea una nuova idea di eternità. «Nelle religioni tradizionali a essere eterno è Dio, sotto il quale stanno i suoi servi, le creature, gli uomini. L’uomo diventa eterno in virtù di Dio. Io invece affermo un diverso concetto di eternità: eterno è tutto, ogni più piccola cosa acquisisce la propria dignità da un’eternità in cui rientrano tutti i momenti della storia, tutti i luoghi, tutti gli enti, tutti gli eventi e tutte le relazioni tra questi elementi. Ciò esclude ogni concetto di creazione, ma esclude anche la ”lucida follia” di Giacomo Leopardi, di Friedrich Nietzsche e di Giovanni Gentile: cioè che le cose vengano dal nulla e vadano a finire nel nulla. In altre parole, che la realtà sia nulla».

l'Unità 20.8.08
Fermate l’Occidente voglio scendere!
Al giovane senza lavoro fisso che passa da uno stage di formazione all’altro il ricercatore sociale chiede: qual è la categoria sociale che odi di più? La risposta è: la polizia. Domanda ancora l’intervistatore: e poi? Poi, continua l’intervistato, gli insegnanti e gli operatori sociali, perché non ci aiutano né ci proteggono, anzi ci ingannano soltanto: dicono che dobbiamo integrarci in una società che invece è disintegrata, dunque che non esiste. È questo l’unico episodio riportato nell’ultimo libro di Alan Touraine, ma basta da solo a illustrarne il movente e a definirne il paradossale intento: salvare l’idea di società, a costo di decretare la fine di ogni cosa o idea, di ogni discorso che possa chiamarsi sociale, di ogni rappresentazione sociale della società. Quarant’anni fa l’autore ebbe ragione nel coniare il termine «società postindustriale», al punto che ancora oggi pensiamo di stare vivendo all’interno di quest’ultima. Ora si tratta di riconoscere invece l’esistenza della «società postsociale», con tutte le conseguenze del caso.
Da Machiavelli fino a Tocqueville, argomenta Touraine, la realtà sociale è stata descritta ed analizzata in termini politici: ordine e disordine, pace e guerra, re e nazione, popolo e rivoluzione, potere e Stato. Poi due secoli fa, con la rivoluzione industriale, il capitalismo si è liberato dalla tutela politica per porsi direttamente alla base dell’organizzazione sociale, promuovendo in tal modo la sostituzione del paradigma politico con quello economico e sociale, le cui categorie sono quelle oggi più familiari: classi sociali e ricchezza, borghesia e proletariato, sindacati e scioperi, stratificazione e mobilità sociale, disuguaglianze e redistribuzione, concorrenza e investimento. Ma adesso tali categorie non bastano più a descrivere e spiegare il funzionamento del mondo, e ancor meno servono a dar senso alle nostre vite, a render conto a noi stessi delle nostre esistenze. E questo perché nel frattempo, spiega Touraine, è intervenuta la globalizzazione: che non consiste soltanto nella mondializzazione degli scambi e della produzione e nella loro accelerazione, ma è anzitutto una forma estrema di capitalismo fondata sulla completa emancipazione dell’economia da tutte le altre istituzioni, sociali oltre che politiche, ormai del tutto impotenti a controllarne la logica. Il principale effetto di tale processo è stata l’imposizione di un individualismo che ha sradicato i movimenti di massa e reso inservibili tutti i concetti fin qui usati per pensare noi stessi e gli altri, a partire appunto dall’idea di società. Dunque un nuovo paradigma, che proprio al nuovo individualismo va riferito, si va oggi sostituendo a quello sociale: esattamente come a suo tempo quest’ultimo aveva preso il posto del paradigma politico che a sua volta aveva sostituito, all’inizio dell’epoca moderna, la rappresentazione e l’organizzazione religiosa della società. Naturalmente, perché tale interpretazione funzioni bisogna prenderla alla larga e non preoccuparsi di tutti i particolari, non prendere il testo sempre alla lettera. Ad esempio: sarà anche vero, come l’autore sostiene, che rispetto al passato oggi sempre più gente si domanda se il mestiere che esercita ne rispecchia la personalità. Però più difficilmente credibile è che soltanto oggi la gente si chiede se è felice o non lo è: essere in proposito d’accordo con Touraine equivarrebbe a promuovere nostro contemporaneo non dico Jacopo Ortis o qualsiasi altro eroe romantico ma addirittura lo stesso Aristotele.
Scommettere in ogni caso sulle possibilità di comprensione e d’azione dell’individuo al tempo della sua massima influenzabilità e manipolabilità da parte dei gestori dei procedimenti di consumo e comunicazione è gara dura, come si dice, ma è anche gara che per Touraine non presenta alternative. Lo conforta la convinzione (che spartisce con Manuel Castells, il suo più brillante allievo) dell’assenza di ogni determinismo tecnologico all’interno della società dell’informazione: mentre nel mondo di ieri, in seno alla società industriale, la divisione tecnica del lavoro era inseparabile dai rapporti di produzione, nel mondo di oggi i sistemi d’informazione sarebbero dotati invece di una straordinaria flessibilità, al punto da eliminare ogni necessario o meccanico nesso tra struttura produttiva e sua più ampia e generale articolazione in termini sociali. Anzi, ed è il passaggio decisivo: proprio perché viviamo in una società la cui riproduzione dipende non solo da tecniche di produzione ma sempre più da tecniche di informazione, cerchiamo di salvare la nostra singolare esistenza attraverso una sorta di «sdoppiamento creativo» in grado di far nascere accanto all’essere empirico un io individuale portatore di diritti, che proprio nella rivendicazione di quest’ultimi si configura come attore libero. Per molti versi si tratta di una specie di liberazione, poiché a lungo abbiamo proiettato la nostra creatività in qualcosa posto di là dalla nostra specifica esperienza: la nazione, il progresso, la società senza classi, e simili immagini. Adesso la ricerca di noi stessi assumerebbe, fuori da ogni mediazione discorsiva, importanza diretta e centrale, riconfigurando il soggetto sulla base della volontà dell’individuo di essere l’attore della propria esistenza.
Ma cosa garantisce che anche (anzi proprio) tale ricerca non sia alla fine il semplice ed inconsapevole compimento di un programma clandestinamente imposto sulla folla dei potenziali soggetti da chi (e da ciò che) oggi controlla la produzione delle immagini del mondo? Touraine non soddisfa direttamente tale curiosità, ma gli elementi della sua analisi includono la possibilità d’articolazione di una risposta. Al riguardo risulta centrale, tornando per un attimo ai discorsi, l’opposizione tra quello della società e quello della modernità: per il primo le norme sociali risultano fondate soltanto sull’interesse della società stessa, che in tal modo produce da sola il proprio fondamento, la propria legittimità; l’idea di modernità, al contrario, nasce proprio con il riconoscimento e la difesa dell’esistenza di fondamenti non sociali dell’ordine sociale, come prova prima d’altro l’importanza assegnata alla ragione. Tale importanza non dipende soltanto dal ruolo di quest’ultima nel funzionamento della società, anzi essa riflette un carattere universalista che travalica da ogni lato i limiti di qualsiasi singola società, al punto che proprio a tale universalismo è connessa un’idea che nessuna società, preoccupata solo da norme funzionali al proprio interesse, potrebbe concepire: l’idea dei diritti non dei membri della società stessa, ma l’idea, incomparabilmente più generale ed estesa, dei diritti dell’uomo. Ora, esattamente come la modernità che è la sua espressione storica, il soggetto che Touraine ha in mente e cui si rivolge si definisce proprio come portatore dell’adesione al pensiero razionale e al contemporaneo rispetto dei diritti individuali universali, che cioè non sono limitati a nessuna particolare categoria sociale: è il soggetto la cui prima incarnazione ha coinciso, all’inizio dell’epoca moderna, con l’idea di cittadinanza, che ha appunto imposto l’osservanza dei diritti politici universali di là da ogni appartenenza comunitaria, dunque in definitiva l’idea di laicità e della separazione tra Stato e Chiesa. E che oggi, in seguito alla crisi del paradigma politico e del successivo paradigma sociale, si ripresenta nella veste del detentore di quel che Touraine chiama il paradigma culturale: il nuovo, odierno paradigma volto alla difesa di specifici, particolari attributi dipendenti dai differenti esiti delle singole modernizzazioni (cioè dei differenti incontri della modernità con i diversi campi sociali e culturali di cui il mondo si compone) sempre però all’interno di un orizzonte di validità universale della rivendicazione stessa - in definitiva dunque sempre coerente con gli esiti culturali (razionalistici ed universalistici) della modernità occidentale. E poiché si tratta nel complesso del passaggio da una cultura rivolta verso la conquista e l’esterno ad un’altra rivolta verso l’interno e verso la coscienza di sé, sono le donne più che gli uomini a veicolare il paradigma che avanza, al punto che secondo Touraine saremmo già entrati in una società femminile: gli uomini posseggono denaro e potere, e questo resta indubbio, ma più degli uomini le donne detengono il senso delle situazioni vissute, e soprattutto la capacità di formularlo.
Quel che più di ogni altra cosa rassicura in tutto ciò, e risponde alla domanda sopra avanzata, è il carattere di resistenza nei confronti della realtà che si assume il soggetto debba sviluppare nel compimento del proprio processo di «soggettivazione», come Touraine lo designa, nel «lavoro su di sé», avrebbe detto Foucault, cui l’individuo viene chiamato. Per il resto, altre, successive questioni si affollano. Touraine è il primo a riconoscere che il mondo occidentale, «insieme vago ma reale», oggi si è dissolto: per quale motivo dovrebbero invece restare validi i princìpi che risultano dalla sua più recente storia, su cui il paradigma culturale si fonda? Di più: perché dovrebbero riconoscersi in esso culture che, come ad esempio quella islamica, non hanno mai conosciuto, poniamo, il concetto di cittadinanza della nostra modernità? Vale insomma anche in questo caso, in qualche misura, la critica che James Clifford rivolge all’etnocentrismo del pensiero occidentale, alla nottola che per Hegel si alzava al crepuscolo: poiché la Terra è rotonda non può trattarsi del crepuscolo per la Terra intera, ma soltanto del crepuscolo (del pensiero) per un singolo paese. E poi ancora: che cosa davvero si intende con il termine «razionalità», e in quali rapporti il suo contenuto si trova con, poniamo, la ragionevolezza? Tanto più che è lo stesso autore a riservare accenti critici, almeno in un paio di punti, alla validità del concetto di ragione scaturito dal secolo dei Lumi.
Il che non toglie che, se riportata alla situazione europea, l’analisi di Touraine risulti quanto mai convincente, ed oltremodo efficace nella messa a punto di una linea di condotta per l’azione politica in un momento che vede ovunque l’indebolimento delle comunità nazionali e il rafforzamento di quelle etniche, e spesso di conseguenza l’opposizione netta tra cittadinanza, appunto, e comunitarismo: tra il pieno esercizio dei diritti politici in un paese democratico e l’imposizione di pratiche e divieti ai membri della comunità da parte dei dirigenti, che limita il diritto civile degli uomini e delle donne coinvolte e mina seriamente le libertà individuali. Di qui, per Touraine, la necessità della scelta strategica della difesa dei «diritti culturali», che non soltanto sono positivamente legati ai diritti politici ma costringono le stesse democrazie a riflettere su se stesse e a trasformarsi per riconoscerli, analogamente a quanto già compiuto, nei secoli passati e tra aspri conflitti, per garantire i diritti sociali a tutti i cittadini. Una specie di rivoluzione per un paese come il nostro, in cui il discorso politico appare sempre più dominato da ideologie comunitariste ed identitarie, e dove a chi arriva si tende a negare non soltanto il diritto di essere altro ma anche quello di essere come gli altri.