venerdì 12 settembre 2008

Repubblica 12.9.08
Fascismo, Bertinotti attacca Fini
di Giovanna Casadio e Giovanna Vitale


"Colpa sua il revisionismo". E Amato rompe con Alemanno
Dopo il discorso di insediamento,dopo quello di La Russa, Napolitano ha parlato da garante

ROMA - Non è che Fini se la può cavare prendendo le distanze dai suoi "colonnelli", dal sindaco Alemanno che derubrica le responsabilità del fascismo e indica solo nelle leggi razziali il male assoluto e dal ministro La Russa che rende omaggio ai combattenti di Salò. Fausto Bertinotti attacca l´ex leader di An e suo successore alla presidenza della Camera. È Gianfranco Fini - ad esempio nel discorso di insediamento a Montecitorio - ad avere aperto la strada a «quegli scampoli» anticostituzionali. Ha proposto «l´a-fascismo, la de-ideologizzazione. Una volta che è caduta la discriminante antifascista, se viene meno questo paradigma che fonda la nostra Repubblica, sono appunto recuperati scampoli che poi naturalmente destano scandalo, e così un ministro si permette di dire quello che ha detto...».
Durissimo nella sostanza, misurato nella forma il "lìder maximo" di Rifondazione, che si è ora defilato dalla politica attiva, e ieri partecipa a un dibattito sull´antifascismo a Villa Tuscolana a Frascati alla Summer School di Magna Carta, il pensatoio liberalforzista animato da Gaetano Quagliariello. Per questo, è intervenuto il Capo dello Stato che «deve fare valere il fatto di essere garante della Costituzione. Il presidente Napolitano difende la Carta contro la costituzione materiale che si sta costruendo». Bertinotti dà lezione: ricorda il valore della memoria («Il rischio maggiore è quello di non ricordare, ho chiamato Duccio mio figlio in onore del comandante partigiano Duccio Galimberti»); ammette che piegare l´antifascismo a un uso politico lo impoverisce: «L´antifascismo è il fondamento dell´unica religione civile di questo paese». Non risparmia "affondi" a Berlusconi né al Pd denunciando «l´erosione della democrazia», il «regime leggero», la mancanza di un´opposizione come progetto alternativo, quel vizio di dire «la scuola, la sicurezza, la sanità non sono né di destra né di sinistra». Come se la politica fosse «amministrazione».
Proprio sull´antifascismo e sui valori della Costituzione c´è stato un chiarimento tra il presidente Napolitano e Fini. Dieci minuti di colloquio privato, un faccia a faccia al Quirinale che sia il capo dello Stato che il presidente della Camera hanno voluto.
E in questo clima surriscaldato dalle polemiche, dopo la bacchettata del capo dello Stato alla destra, Giuliano Amato ha tratto il dado e ha ufficialmente comunicato con una telefonata al sindaco Alemanno la sua retromarcia sulla commissione Attali in salsa romana. «Non ci sono le condizioni politiche né il clima per la mia partecipazione alla commissione per lo sviluppo per Roma», ha detto ad Alemanno. Il sindaco capitolino ha cercato in tutti i modi di dissuaderlo: «Aspetta, questo per me è un grande problema». Già nei giorni scorsi c´erano state molte altre defezioni di personalità di spicco, si era parlato di Renzo Piano e di Andrea Riccardi. Amato resterà solo nella commissione dei giuristi.
Di antifascismo parla anche il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani: «Sui valori della Reistenza non si arretra», avverte. E rispetto alle sortite di Alemanno e La Russa: «Noi non dobbiamo sentire solo l´indignazione ma dobbiamo tornare in piazza e dire non le nostre ragioni ma le ragioni della verità».

l’Unità 12.9.08
Epifani: pronti alla piazza per i valori antifascisti
Non ci sarà un’altra commemorazione sporcata dai rigurgiti revisionisti dei finiani


La promessa della Cgil è chiara: il sindacato è pronto a scendere in piazza se i fatti dell’ultimo 8 settembre si ripeteranno ancora una volta. Guglielmo Epifani lo dice senza giri di parole: «se ad ogni commemorazione da ora in poi il ministro della Difesa dirà che in fondo erano tutti, seppure su fronti diversi, figli della stessa storia, chi combatteva per la libertà e chi combatteva insieme con i fascisti e i nazisti; oppure se possiamo consentire che il sindaco di Roma dica che fino alle leggi razziali il fascismo non aveva commesso fatti esecrabili, noi non dobbiamo sentire solo l’indignazione, ma dobbiamo tornare in piazza a dire non le nostre ragioni, ma le ragioni della verità. Sui valori della Resistenza e della Costituzione "non si arretra», semplicemente.
Il segretario generale della Cgil ieri ha parlato dal palco dell’attivo dei delegati bolognesi cui presentava la mobilitazione prevista in tutta Italia contro la politica economica del Governo Berlusconi. Ma nella città emiliana medaglia d’oro per la Resistenza è inevitabile non rievocare quelle parole del sindaco romano Gianni Alemanno e del ministro Ignazio La Russa, i quali alla prima occasione di commemorazione ufficiale si sono lanciati in un improbabile tentativo di riabilitare il fascismo e la Repubblica sociale. E la reprimenda di Epifani è durissima. D’altronde, spiega il leader Cgil «cosa deve dire un sindacato come il nostro, che fu il primo oggetto degli attacchi del fascismo? Noi abbiamo avuto morti nelle Camere del Lavoro, incendi, distruzioni, l’abolizione della libertà sindacale nel 1926. Dal ’19 al ’26 abbiamo costellato con il sangue di lavoratori e dirigenti sindacali il nostro paese».
Epifani cita Giacomo Matteotti, Giovanni Amendola e «tutti quelli che morirono» prima della promulgazione delle leggi razziali. «Noi - redarguisce - dobbiamo stare attenti, perché in un’epoca come questa il senso della memoria viene in qualche modo molto ristretto. Purtroppo quello che per noi è pacifico, non lo è per le nuove generazioni. Di questo ho paura, non della durezza delle frasi che vengono dette da un ministro o dal sindaco di Roma, ma del fatto che queste frasi cadono su una memoria in cui la forza di valori condivisi non c’è più».
Oltre al fronte delle lotte sociali e per i salari, dunque, gli eredi di Giuseppe Di Vittorio sono pronti a passare in prima linea anche per la difesa dei valori costituzionali e dell’antifascismo. Bruciano troppo quelle dichiarazioni di Alemanno e La Russa che anche il segretario bolognese del sindacato, Cesare Melloni, reputa «gravissime e inopportune, ma non sorprendenti: quando la destra è al Governo si presenta sempre come "il nuovo", ma porta il vento della restaurazione e del revisionismo. Invece l’Italia nuova è quella nata dalla Resistenza e che si basa sulla Costituzione».

l’Unità Firenze 12.9.08
Arci e Anpi contro la libreria che vende libri e cimeli inneggianti al fascismo


«Un’associazione, denominata la Fenice, che fa riferimento diretto alla cultura e all'ideologia fascista» ha aperto nel luglio scorso un luogo di vendita, definendolo libreria, per oggetti come la bandiera con la Croce Celtica, adesivi con il fascio littorio e il simbolo nazista. Lo affermano Arci Firenze e Anpi provinciale definendo questo fatto «grave e preoccupante per una città come Firenze, medaglia d'oro per la Resistenza». I militanti di questa associazione - spiegano Arci e Anpi -, «quasi tutti giovani di età compresa tra i 19 e i 25 anni, si definiscono camerati». La libreria è stata aperta «a pochi metri dall'Istituto Farmaceutico Militare dove il 5 agosto del 1944 si consumò la strage di Castello in cui 10 cittadini innocenti furono fucilati dai soldati tedeschi». «Consideriamo grave e preoccupante - spiegano - che gruppi della destra radicale, come Forza Nuova e Casapound, riescano sempre più a prendere piede a Firenze. La preoccupazione cresce quando si guarda a quanto sta accadendo in Italia: da un lato esponenti del governo e sindaci che non intendono condannare come male assoluto il fascismo e la Repubblica Sociale, dall'altro aggressioni a migranti, ragazzi di sinistra, e omosessuali. Crediamo che le dichiarazioni del ministro La Russa e del sindaco di Roma Alemanno contribuiscano a generare terreno fertile per la proliferazione di idee e pratiche antidemocratiche. Condividiamo l'allarme lanciato dal Presidente Napolitano, sulla mancanza di un’identificazione nei valori alla base della Costituzione Italiana».

l’Unità 12.9.08
Vergassola: Sabina, io ti salverò...
di Toni Jop


SATIRA Non abbiamo badato a spese e abbiamo assunto per Sabina Guzzanti un principe del foro: il professor Dario Vergassola. Egli ci ha esposto la sua linea difensiva da opporre all’ipotesi di reato: ha offeso il Papa oppure no? Leggete...

L’è un lovo, l’è un fogo, l’è un zogo? (Lupo, fuoco, gioco). Scegliere bene, perché dipende tutto dalla risposta. Quando, rilasciando il diaframma ipercompresso come la libertà da questi tempi grigetti, disse al microfono in piazza Navona che il Papa, una volta defunto, sarebbe stato tormentato da «diavoloni frocioni e attivissimi», Sabina Guzzanti commise un reato oppure no? La notizia, secondo noi che non siamo tecnici del diritto, sta nel fatto che il paese sia messo nelle condizioni di affrontare un interrogativo posto esattamente in questi termini. Ovvio che che un magistrato la sa più lunga di noi, ma certo sarebbe strano che Sabina finisse condannata per questioni e proiezioni satiriche che comunque hanno a che fare con una eventuale aldilà. In Italia accade di tutto, specie adesso. Preoccupati, abbiamo chiesto a persona seria e posata, esperta e mentalmente affidabile di rappresentare e difendere gli interessi di Sabina Guzzanti, un avvocato d’ufficio per lei, forte e fragile insieme, furente e insieme gentile. Voi a chi vi sareste rivolti? Noi al professor dottor Dario Vergassola, impagabile, in tutti i sensi.
Allora, dottor Vergassola, lei crede che ci sia spazio per uscirne con la fedina penale pulita, oppure questa volta ci sporcano Sabina?
«Una cosa per volta, prego. Intanto prendiamo in esame la frase incriminata; dunque, ecco: lei parla di “frocioni attivissimi”...Boh! Espressione senza senso, al fondo, poi vediamo. Ma intanto, occorre qui definire la proiezione spazio-temporale cui la nostra assistita ha fatto ricorso. Dice: dopo la morte. Non voglio giocare d’astuzia, né dribblare la giurisprudenza in materia, tuttavia...».
Tuttavia che?
«Ecco non mi risulta, non ci risulta che qualcuno sia tornato indietro da laggiù per dirci come va o in compagnia di chi se la sta passando, se sia finito all’inferno piuttosto che altrove. Mancando una consuetudine concreta, manca un riferimento almeno plausibile di dove possa finire un Papa, una volta che ci ha dolorosamente lasciati su questa terra...».
La seguo. Ma dove porta il suo ragionamento?
«Vede, se non esiste un campo accertato governato da regole particolari di decoro e decenza unanimemente riconosciuti, così come accade dopo la morte, visto che non ne abbiamo testimonianza, non si può nemmeno sostenere che si commetta un reato attribuendo a un Papa, dopo il decesso, una sorte, una compagnia, piuttosto che un’altra».
Quindi, il reato non sussiste, giusto?
«In linea di principio mi pare evidente. Se avesse detto, Sabina, che dopo morto Papa Ratzinger sarebbe finito in una discoteca, una discoteca infernale. Chi avrebbe potuto smentirlo? Chi avrebbe potuto prendere in esame quella discoteca come motore ipotetico di un reato? Chiediamoci anche perché qualcuno avrebbe potuto intraprendere questa strada sotto il profilo giuridico...».
Lei è un genio, dottore. Ma c’è questa questione legata alla parola “frocioni”. Che ne dice? Qualcuno può non gradire...
«Certamente: la definizione non è solo desueta, ma anche talmente nulla-dicente da risultare un banale relitto di archeologia verbale. Nel caso, tuttavia, la si voglia intendere a ogni costo come “contundente”, è del tutto chiaro che ogni ipotesi di risentimento vada comunque attribuito e riconosciuto a chi, infelicemente ed erroneamente si senta male rappresentato da questa definizione. Quindi non certamente il papa da vivo, men che meno una volta defunto. Quel che accadrà in seguito, come abbiamo visto, non è dato di sapere. L’aldilà non è comunque un salotto e non è regolato dalle norme della buona creanza, neanche dalla moglie di Rutelli, chi ha notizie diverse è pregato di farsi avanti...».
Speriamo bene. Poi, forse, benché la giurisdizione non sia mediamente incline ad attribuirgli un ruolo decisivo nelle ipotesi di reato, esiste un contesto...
«Certo: da una parte e dall’altra. Cioè: sia dalla parte dell’ipotetico atto criminoso, sia dalla parte dello sguardo che sintetizza una ipotesi di reato inclinando la legge in direzione di quella che si definisce la “sensibilità dei tempi correnti”...».
Madonna, che difficile...
«Meno di quel che si pensi. Infatti, si può facilmente osservare come l’attenzione e la credibilità siano tributate oggi maggiormente a ciò che sostengono gli autori satirici piuttosto che a ciò che dicono i rappresentanti della politica. È un fatto oppure no, in questo paese?».
Eccellenza, lei è un vero principe del foro...
«Prenda appunti, invece. È vero o no che si tende oggi in Italia a prendere sul serio ciò che dicono i satirici e per niente quel che dicono i politici?».
Sarà vero, anche. Ma questo cosa comporta?
«Comporta che viene chiesto ai satirici di rispondere seriamente dei loro giochi, mentre non si chiede per nulla ai politici di rispondere delle loro affermazioni, promesse etc. etc...Permetta, devo andare, la salveremo».

l’Unità 12.9.08
La Biennale agli architetti. «Adesso costruite utopie»
di Renato Pallavicini


VENEZIA L’arte dell’edificare può davvero fare a meno degli edifici? Nel tunnel dell’Arsenale idee, sensazioni e visioni. Di progetti nemmeno l’ombra. È la linea dettata da Aron Betsky. E Zaha Hadid, Fuksas e Asymptote si adattano

Venezia. Si fa fatica a trovare l’architettura oltre. Sarà perché siamo abituati a un’idea di architettura come costruzione, come edificio (e qui alla Biennale di Venezia di edifici se ne vedono ben pochi) che stentiamo a individuare l’architettura oltre il costruire, come programmaticamente recita il titolo dell’undicesima Mostra Internazionale di Architettura. E del resto il suo direttore, Aaron Betsky (nato negli Usa cinquant’anni fa, formatosi tra Olanda e Stati Uniti, curatore di musei e prestigiose istituzioni internazionali), sostiene che gli edifici sono la «tomba» dell’architettura. E allora, se non edifici, che cosa si trova nel lungo tunnel delle Corderie dell’Arsenale dove è montata la rassegna principale che dà il titolo a questa Biennale 2008: Out there. Architecture beyond Building? Ci trovate idee, memorie, concetti, situazioni, relazioni, sensazioni, visioni, utopie, terreno fertile del linguaggio dell'arte contemporanea: è per questo che la Biennale Architettura assomiglia sempre di più (e la tendenza si è già mostrata nelle edizioni precedenti) alla sua sorella maggiore, la Biennale Arte. Ecco perché Aaron Betsky ha invitato alcuni dei grandi protagonisti dell’architettura contemporanea con il mandato di produrre esclusivamente installazioni pensate per l’occasione e il luogo (site specific si dice) e a lasciare a casa e nei propri studi plastici, modelli, disegni, foto: il campionario del costruito, insomma.
Si entra in questo tunnel di sperimentazioni plastiche e materiche, visive e sonore, incorporee e corporee (Philippe Rham Architects, nel loro spazio, fanno agire corpi nudi di giovani ragazze e ragazzi, come in un happening di qualche decennio fa), introdotti dalla Hall of Fragments, il colpo ad effetto dell’intera Mostra: due pareti concavo-convesse che al passarci in mezzo si animano di suoni e immagini mutanti e cangianti, mentre l’ambiente, immerso nel buio, ci restituisce, attraverso decine di schermi affioranti dal pavimento, sequenze di film celebri che hanno, a loro modo, celebrato l’architettura. Si comincia dal gruppo Asymptote che direttamente dallo spazio digitale scaraventa sul pianeta tre giganteschi gusci per altrettante Case per il subconscio, mentre Coop Himmelb(l)au con Feed Back Space monta un’enorme struttura trasparente: ci si entra dentro, s’impugnano due maniglie e immediatamente battito cardiaco e pressione sanguigna vengono amplificati e tradotti in immagini e colori. Guallart Architects con Hyperhabitat. Riprogrammare il mondo stendono sul pavimento una rete di computer ridotti a scheletri, diafani e trasparenti, di tastiere e consolle (ma perfettamente funzionanti), attraverso i quali muovono su uno schermo-parete oggetti, arredi, parti di edifici. L’architetta anglo-iraniana Zaha Hadid, dal canto suo, coagula in forma di arredi una delle sue tipiche ondulate intuizioni spaziali (ma fa di meglio, nell’altro spazio al Padiglione Italia, esponendo straordinari acrilici e disegni); mentre Massimiliano e Doriana Fuksas allestiscono tre scatoloni verde acido dentro i quali scorrono scene di vita quotidiana: un interno borghese in forme video-olografiche.
Ombre, luci, immagini della mente e del corpo, ma anche aggeggi elettronici, elettrodomestici (il cielo di nuvole-condizionatori d'aria di An Te Liu), giocattoli di plastica riciclati (Greg Lynn Form). Per fortuna che c’è un grande come Frank Gehry (domani riceverà il Leone d'oro alla carriera) che ci riporta alla dimensione dell’artigiano-artista-costruttore svelando il percorso che va dall’idea (i suoi celebri schizzi sono visibili al Padiglione Italia) al modello, all’edificio. L’architetto di Los Angeles qui alle Corderie ha montato un modello ligneo in scala 1:25 di un albergo che il suo studio sta progettando a Mosca: è uno scheletro di legno sul quale, giorno dopo giorno per tutta la durata della Biennale (fino al 23 novembre) verrà applicata dell’argilla a formare la facciata.
Di edifici, come si è detto, nemmeno l’ombra. Eppure di case ce n’è sempre più bisogno, soprattutto da noi. Bene ha fatto, dunque, Francesco Garofalo, curatore del padiglione italiano alle Tese delle Vergini, ad esercitarsi sul tema dell’Italia cerca casa, mostra promossa dalla Parc del Ministero per i Beni e le Attività culturali. Ci ricorda, attraverso una parete zeppa di progetti che hanno fatto la storia dell’edilizia popolare in Italia, che l’architettura è fatta di case. E nella sezione La casa per ciascuno ha poi messo insieme una dozzina di architetti e di studi che qualche edificio, finalmente, ce lo fanno vedere o intravedere: dall’ecomostro riutilizzato per residenze povere (nei materiali) dello Studio Albori alle case economiche da soli 100.000 euro, dall’ecologica e mistica Casa madre di Andrea Branzi ai megaisolati romani di Riabitare il centro dello studio IAN+, fino alla casa costruita, sempre a Roma, dai nomadi del Casilino 900 assieme al gruppo Stalker/Osservatorio Nomade (di cui si parla qui sotto).
Roma è oggetto ancora della sperimentazione di Uneternal City, altra sezione di questa Biennale, che ripercorrendo le tracce della storica mostra Roma Interrotta degli anni Settanta (ed è una bella sorpresa rivederla riproposta per intero, con i disegni di Rossi, Portoghesi, Stirling, Krier, Sartogo e altri), si esercita su utopiche visioni della capitale che verrà, tra aliene apparizioni di megastrutture (la colossale stella-cristallo di Mad Office) e idilliaci giardini lungo il fiume Aniene (del bravissimo studio olandese West8). E non finisce qui, perché bisognerebbe addentrarsi nel Padiglione Italia, sede di altre e numerose «sperimentazioni», e dare un occhiata ai vari padiglioni nazionali ai Giardini di Castello: ma su questo e tanto altro che c’è in questa Biennale avremo modo di tornare.
La mostra curata da Aaron Betsky, interrogandosi sul senso dell’architettura, solleva molte questioni e certamente lo fa in modo efficace e spettacolare. Diverte, nel senso etimologico della parola: porta da un’altra parte, va oltre, come da programma; mostra un futuro, non necessariamente utopico, ma fortemente immaginato. Temiamo che del presente, dovrà tornare ad occuparsi l'architettura del qui e ora: quella che si ostina a costruire edifici.

Corriere della Sera 12.9.08
La religione c'è sempre stata, in alcune fasi è stata latente od oscurata dalle ideologie. Il comunismo era una religione sostitutiva
Il dibattito Su «Aspenia» dialogo sul rapporto tra il credo e la politica, sul «ritorno» della religione dopo la fine delle ideologie
di Giulio Tremonti e Massimo D’Alema


Tremonti, D'Alema e il Secolo Religioso «Era della coscienza». «Laicità a rischio»
Ministro ed ex premier d'accordo: qui la fede non è confinabile alla dimensione privata
Oggi vengono messi in discussione i fondamenti stessi dello Stato laico europeo, perché libertà e cittadinanza non si fondano sulla verità

Il nuovo numero di Aspenia, la rivista trimestrale diretta da Marta Dassù, ragiona di religione e politica: «Il ritorno della religione nel dibattito pubblico, sul piano della politica globale e della politica tout court». Apre il dibattito il dialogo tra l'ex premier Massimo D'Alema e il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, che si confrontano su «Dei, patrie e famiglie». La domanda di partenza è se il XXI secolo si profili come un secolo religioso dopo la crisi delle ideologie. Per entrambi è improprio parlare di ritorno della religione: secondo D'Alema «si presenta in modi e gradi diversi in aree differenti del mondo»; Tremonti giudica «falsa» quest'idea perché «la religione c'è sempre stata, se pure con intensità diverse». Tra i temi toccati anche la «deprivatizzazione» della religione in Europa, su cui D'Alema e Tremonti si trovano concordi nel sostenere che il fenomeno religioso non è mai stato confinabile in una dimensione privata.
Nella sezione Scenario, dedicata a fede e ragione, l'ex premier Giuliano Amato e il presidente della Fondazione Magna Carta Gaetano Quagliariello dialogano su «Il ritorno di Dio».

Aspenia: «Il XXI secolo si profila come un secolo religioso, dopo che la fine della guerra fredda ha segnato la crisi delle ideologie secolari del secolo scorso, non solo il comunismo ma anche le forme estreme di liberalismo economico. Condividete questa impostazione?
MASSIMO D'ALEMA: «Certamente è tramontata l'idea che aveva preso il sopravvento nella fase culminante della secolarizzazione, e cioè che la religione potesse essere confinata in una sfera privata. Il peso che le religioni sono tornate ad assumere nella sfera pubblica è legato al declino delle ideologie e delle grandi narrazioni novecentesche. In fondo, l'ultimo sussulto delle ideologie del Novecento è stata l'ideologia della fine delle ideologie, con la famosa teoria, dopo il crollo del Muro di Berlino, della fine della storia. Inutile dire quanto tale teoria si sia dimostrata fallace. E non c'è dubbio che l'11 settembre abbia aperto un secolo nuovo. Ma non so dire, onestamente, se sarà davvero un secolo religioso. Per la semplice ragione che il ritorno della religione — in quanto bisogno di dare un senso non solo all'esistenza ma alla convivenza umana — si presenta in modi e gradi diversi in aree differenti del mondo. (...) Dominique Moïsi distingue fra tre grandi aree: quella della paura, che saremmo noi, l'Occidente; quella del rancore, e cioè il mondo islamico; e infine l'area della speranza, in cui rientrano la società asiatica e le grandi aree emergenti. È in questa ultima parte del mondo che la religione conta di meno. Naturalmente, l'elemento religioso è comunque importante, per esempio in paesi come l'India; ma quel che voglio dire è che nelle aree emergenti ed economicamente vitali, lo spazio pubblico è dominato da una certa fiducia nel progresso, e quindi nel proprio futuro. La religione, invece, conta moltissimo nel mondo occidentale e nel mondo islamico; nel primo sono nate nuove paure, anche come risultato dei processi di globalizzazione; nel secondo domina la frustrazione».
GIULIO TREMONTI: «L'idea del «ritorno della religione» per me è un'idea falsa. Se l'unità temporale su cui si basa la domanda è quella del secolo, allora non credo proprio che la religione sia mai «scomparsa» e per di più per tutto un secolo, quale che sia il secolo. La religione c'è sempre stata, se pure con intensità diverse: in alcune fasi è stata dominante, in altre latente, in altre ancora — soprattutto nel Novecento— è stata in parte oscurata dalle grandi ideologie, configurate a loro volta come religione sostitutiva. Il comunismo è stato costruito, prospettato e poi vissuto come una religione sostitutiva. Lo stesso partito comunista, del resto, era gerarchicamente e simbolicamente costruito come una chiesa. Tra le tante, una delle follie del nazismo consisteva proprio nella sua cifra di religione pagana. Fuori dalla dimensione temporale (il secolo) c'è piuttosto nella domanda la dimensione dello spazio. Qui, se la dimensione spaziale coincide con la dimensione globale, concordo nel vedere forti asimmetrie e discontinuità. In molte società emergenti, la componente della religione ha, in effetti, una rilevanza abbastanza tenue. Ma non è così in altre parti del mondo. Sarebbe una forzatura dividere il mondo in aree omogenee. Prendiamo per esempio il caso della Cina: pur dentro il nuovo meccanismo comunista/capitalista, la dimensione religiosa è molto forte, l'etica confuciana continua a essere fondamentale.. (...)»
ASPENIA: Benedetto XVI sostiene che «in un mondo senza verità, la libertà perde il suo fondamento e la democrazia senza valori perde la sua anima». Come valutate il messaggio del papa dell'Occidente? È il segno di un'inversione di tendenza, di una sostanziale «deprivatizzazione » della religione nell'Europa postsecolare? L'Europa, insomma, abbandonerebbe il laicismo per diventare più simile all'America, dove la religione è sempre stata considerata una risorsa per la democrazia?
TREMONTI. «L'americanizzazione dell'Europa... lascerei questa formula, un po' novecentesca, a Gramsci e a Ortega y Gasset. Piuttosto, non credo nella separazione tra dimensione privata e dimensione collettiva della religione. Quella della privatizzazione della religione è un'idea laica e perciò un'idea esterna alla religione. La nostra religione, per come è costruita e per come è stata vissuta per secoli da milioni di persone, è sempre stata insieme interna ed esterna: un modo di riferirsi agli altri. Non c'è mai stato, in questa dimensione, l'individuo da solo, ma la persona in rapporto non solo con se stessa, ma anche con la famiglia, e la famiglia in rapporto con la collettività. È stato fatto anche un discorso sul progresso e sulla crisi. In Occidente, il progresso, l'idea del progresso con il crescente benessere che ne è derivato, ha creato un effetto di euforia, a sua volta progressiva. Ora la fase euforica sembra terminata con la crisi. Credo che sarebbe terminata comunque, per il suo stesso eccesso parossistico. Alla fine, quando hai troppe cose e inutili, quando tutto diventa insufficiente in modo paradossale, insufficiente per eccesso, torni a porti interrogativi più fondamentali e per così dire valoriali, sulla tua ragione d'essere esistenziale. Soddisfatta la domanda di beni materiali, torni naturalmente ai valori immateriali. Il crescere del benessere produce prima un'euforia che porta le persone in una dimensione «nuova» rispetto a quella tradizionale. Ma poi, fatalmente, l'euforia termina. La crisi, se c'è, se arriva, accelera solo questo processo. La crisi può rendere evidenti alcuni elementi di rottura, ma al ritorno della religione (che in realtà c'è sempre stata) saremmo arrivati comunque».
D'ALEMA: «Tornerei alla domanda di partenza: se il messaggio del papa sia il segno che il rapporto tra politica pubblica e religione, in Europa, è ormai più simile a quello americano. La mia risposta è semplice: sì. Sono d'accordo con Tremonti quando dice che il fenomeno religioso, in Europa, non è stato mai confinabile in una dimensione privata. Difficile dimenticare, del resto, che il cattolicesimo italiano, in particolare, è stato un grande fenomeno sociale e politico, tanto che ha governato per cinquant'anni l'Italia. Ma oggi, col ritorno della religione nella sfera politica, quella che viene messa in discussione non è la secolarizzazione edonistica. Vengono messi in discussione i fondamenti stessi dello Stato laico europeo, come si è venuto configurando dal XVII secolo in poi. La sfida culturale è a questa altezza. Lo Stato laico europeo nasce infatti dalla considerazione che la libertà non può fondarsi sulla verità. E nasce all'indomani delle guerre di religione, quando si prende atto che la pretesa di fondare la cittadinanza sull'appartenenza religiosa —
cuius regio eius religio — porta alla guerra e da tutto ciò si esce proclamando che lo Stato è laico perché le libertà e la cittadinanza non si fondano sulla verità. Ora, non vi è dubbio che oggi, per la crisi profonda dell'Occidente, che è una crisi culturale e ideale prima che economica, ci troviamo anche di fronte a un ritorno religioso che è legato alla ricerca di senso. Ma esiste anche questa vena integrista, che mette in discussione non l'edonismo, ma il fondamento stesso della laicità dello Stato. E quindi io distinguo tra il ritorno prepotente della fede religiosa come modo per dare un fondamento etico alla propria esistenza individuale, e l'uso politico della religione». (...)
ASPENIA: Di fronte ai dilemmi che pongono la scienza, la biotecnologia, non è un anacronismo paventare una restaurazione del potere temporale della chiesa?
D'ALEMA: «Io non temo la restaurazione del potere temporale della chiesa. È legittimo che i cristiani facciano vivere i loro valori, come disse Aldo Moro all'indomani della sconfitta cattolica al referendum sul divorzio; ma pretendere di imporli per legge urta con la coscienza moderna. Anche perché tutto ciò può rappresentare un impedimento alla libera ricerca scientifica, e questo va evitato. È evidente che il legislatore deve confrontarsi con problemi nuovi, ma il mio timore non è che torni il papa re. La mia paura è un'altra: che in questa sorta di sposalizio con l'Occidente malato, che si volge alla religione in chiave identitaria e che riscopre le radici cristiane in una chiave difensiva, la chiesa rischi di perdere l'universalità del messaggio cristiano. Questa universalità del messaggio cristiano la sentivo di più, devo ammetterlo, nel precedente pontificato, in cui peraltro l'elemento di integrismo religioso era fortissimo e anche molto critico verso gli esiti della globalizzazione, prendendo spesso il posto di una sinistra silente. Mentre nel papato di Ratzinger avverto assai di più il legame con l'Occidente, e l'avverto come un limite all'universalismo cristiano».
TREMONTI: «È corretto iniziare la nostra riflessione su questo punto, proprio, come suggerito, dalla pace di Westfalia, il cui dictum era cuius regio eius religio. Ma appunto: cuius regio eius religio. Religio. Questa parola e non altre. E questo semplice fatto è prova in sé, insieme assoluta e storica, della rilevanza propria della componente religiosa. Nei secoli la "cifra" religiosa sale, scende, viene oscurata, poi riprende, ma non per caso — ripeto — la formula che è usata ancora oggi è cuius regio eius religio, non eius altro. Ciò premesso, una discussione utile va comunque sviluppata, separando la dialettica strumentale da quella sostanziale. La prima utilizza i fatti religiosi in termini polemici. In questi termini, sullo stesso piano degli atei devoti, credo che possano essere messi anche i laici polemici. Zapatero, per esempio, ne è l'eroe eponimo. (...) Detto questo, escludo che, nel tempo presente, ci sia il rischio di un ritorno del potere temporale. La dialettica tra atei devoti e laici polemici, con il relativo apparato di argomenti strumentali, è tuttavia, come dicevo, e per fortuna, relativamente marginale. Sostanziali, sulla dividente "destra"-" sinistra", sono invece altre grandi questioni. Il matrimonio è stato una di queste grandi questioni. E, soprattutto, la scienza. (...) Non ci limitiamo più alla fase gnoseologica, a conoscere la vita, ma agiamo sulla vita, tentando di crearla o di ricrearla. Certo, anche la bomba atomica agiva sulla vita, ma in negativo, la distruggeva. Poneva dilemmi morali drammatici, ma diversi da quelli che si presentano ora. Un conto è infatti distruggere la vita, un conto è crearla. Distruggere la vita è drammatico, ma crearla è diverso e ancora più drammatico. Si sta avverando la profezia di Malthus, la profezia dell'uomo che non dipende da un'origine, ma che è origine esso stesso: la bestiaccia della favola era già la profezia del postumano, la fabbrica di nuovi corpi o di nuovi ectoplasmi. Sono dilemmi che non si pongono solo a destra, si pongono anche a sinistra. Ma è con questo e proprio per questo che la sinistra ha perso un'altra delle sue basi storiche di sicurezza: l'assoluta sicurezza nella scienza come matrice infallibile di progresso. Per come vedo e sento, sono fortemente convinto dell'ipotesi che una maggiore luce della scienza potrà portare con sé una maggiore luce della ragione e, con questa, anche della coscienza. La dialettica profonda è infatti tra ragione e fede, tra scienza e coscienza, sapendo che devono stare tutte insieme». (...)

Corriere della Sera 12.9.08
Conversando con il grande compositore
Le magie di Nyman: la musica dei numeri
di Giulio Giorello


Che privilegio lavorare (e litigare) con Greenaway

«Cinque... dieci... venti... trenta... / Trentasei... quarantatrè». Così esordisce Figaro, l'eroe plebeo di Beaumarchais, nell'opera che Mozart e Da Ponte hanno dedicato alle sue travagliate Nozze. Numeri e suoni scandiscono il tempo, dando ragione a Newton, che ne faceva un attributo di Dio e a Kant, che lo interpretava piuttosto come una condizione di qualsiasi esperienza dell'uomo. Comincia così la mia conversazione con Michael Nyman, protagonista della scena musicale internazionale, domenica prossima all'Auditorium di Roma con la Michael Nyman Band, creatore di «musica minimalista», pianista e fine musicologo. Per la cronaca, proviene da una famiglia ebraica e operaia di Stratford e ha passato la sua fanciullezza nel Nordest londinese. Da ragazzo aveva due hobby: collezionare biglietti dell'autobus e appunto la musica — ma fu espulso dal coro della scuola perché lo avevano dichiarato «stonato come una campana!».
Maestri più sensibili, invece, dovevano fargli abbandonare l'interesse per gli autobus e indirizzarlo a una carriera sempre più prestigiosa. Il grande pubblico lo conosce anche per le colonne sonore di oltre cinquanta film e cortometraggi. In particolare, nel 1982 The Draughtsman's Contract
(in italiano Il mistero dei giardini di Compton House) ha inaugurato la sua collaborazione con il regista gallese Peter Greenaway; qui le musiche di Nyman accompagnavano le complicate geometrie del pittore protagonista della vicenda, assoldato per disegnare dodici vedute di un enigmatico palazzo e destinato a soccombere a intrighi più potenti di tutta la sua arte e scienza. Forse, anche la musica può venire destata da un'esperienza di sconfitta. Quello che Nyman elabora, però, non è un semplice commento, bensì un elemento autonomo, suscettibile di infinite interpretazioni — quasi come una voce disincarnata, che non appartiene a nessun «soggetto» e si intreccia liberamente alle immagini sullo schermo. «Non ho mai pensato che quello che componevo per un film dovesse essere strettamente condizionato dai contenuti. Del resto, anche Peter era uno più interessato alla composizione dei suoi incubi che allo svolgimento della vicenda. E lui mi consentiva di comporre al pianoforte quel che più mi piaceva: lavorare con lui è stato un privilegio». Questo comune senso di indipendenza creativa non ha impedito che, dopo una decina d'anni, venisse meno la collaborazione con Greenaway: «Abbiamo litigato ferocemente ». Resta però la meravigliosa antologia Nyman/Greenaway Soundtracks.
Nyman non ha abbandonato il mondo del cinema: del 1993 è la colonna sonora di Lezioni di piano
dell'australiana Jane Campion. «Se mi chiedi se abbia mai tratto ispirazione — o qualcosa del genere — da questa o quella scena del film, la mia risposta è no. La musica che compongo nasce da una mia disposizione interiore. Da immagini profonde e inconsce, che è compito poi della memoria e della coscienza elaborare ». Ritroviamo qui l'analogia tra matematica e musica: entrambe costituiscono l'espressione elegante e razionale di tensioni drammatiche che lacerano l'animo umano. Keplero ritrovava nell'armonia matematica del mondo l'unica risposta alle sue disavventure su questa Terra. Newton si liberava delle sue ossessioni solo riuscendo a mettere su carta le leggi che reggono «l'elegante compagine del Sole, dei pianeti e delle comete». Il romantico Galois, mentre giocava la sua esistenza tra donne e politica, era consapevole che l'unica sua immortalità era affidata a quelle formule che hanno dato origine alla teoria dei gruppi, chiave di volta della matematica e della fisica...
Ribatte Nyman: «Pensiamo, per la musica, a Mozart. Al Don Giovanni o alle Nozze di Figaro ». La struttura è limpida, ma l'oscuro delle passioni — la materia di cui son fatti i sogni — vi irrompe di continuo. A questo punto, mi ricordo che un'altra colonna sonora per Greenaway — Drowning by numbers, in italiano Giochi nell'acqua —, in cui l'azione è tutta basata sulla scansione numerica del tempo «vero e matematico» da 1 a 100, è costituita da una serie di variazioni mozartiane. «Anche qui amore e morte si intrecciano l'uno all'altra» — e magari sono queste due stesse forze «a muovere il Sole e l'altre stelle». Nessun lieto fine, dunque? Sarebbe conclusione affrettata. Anche se sappiamo che la sfida si rinnova ogni giorno, continuiamo a giocare con numeri e note.

Repubblica 12.9.08
Due secoli di tesori da lunedì a Perugia
Da van Gogh a Picasso a caccia di capolavori
di Paolo Vagheggi


PERUGIA - Da lunedì fino al 18 gennaio 2009 la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia propone, nella propria sede espositiva di Palazzo Baldeschi al Corso, il confronto tra le collezioni degli americani Duncan ed Elisa Phillips e del nobile piacentino Giuseppe Ricci Oddi. Il titolo dell´esposizione, allestita in Corso Vannucci 66, è Da Corot a Picasso, da Fattori a De Pisis. L´orario è dalle 10 alle 18. L´ingresso costa 8 euro, ridotti 6 euro, scuole 3 euro. La mostra è promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, a cura di Vittorio Sgarbi. Catalogo Silvana Editoriale. L´organizzazione è di Civita.
Informazioni e prenotazioni: www. fondazionecrpg. it Telefono 199 199 111 E mail: servizicita. it

Due collezionisti a confronto, due uomini dai gusti simili e al contempo assai diversi: l´americano Duncan Phillips e l´italiano Giuseppe Ricci Oddi. Una selezione delle loro raccolte, assai note al pubblico, viene presentata a Perugia, a Palazzo Baldeschi al Corso, nella sede della Fondazione della locale Cassa di Risparmio che quest´anno festeggia un secolo di vita. L´esposizione, aperta al pubblico dal 15 settembre al 18 gennaio, ha un doppio titolo Da Corot a Picasso e Da Fattori a De Pisis. Dagli Stati Uniti arriva una selezione di opere dei maggiori maestri dell´impressionismo e delle avanguardie europee del Novecento, tra cui Corot, Courbet, Manet, Degas, Monet, Bonnard, Van Gogh, Cézanne, Modigliani, Kandinsky, Braque, Picasso.
Questi grandi maestri si confronteranno con le opere dei protagonisti dell´arte italiana tra Ottocento e Novecento tra cui Fattori, Sartorio, Carrà, Casorati, Campigli, De Pisis.

L´americano Phillips prestò attenzione alle radici della contemporaneità dalla luce candida di Corot ai ballerini di Manet
S´apre lunedì a Perugia un´esposizione che raccoglie le opere di due collezionisti di gusto di differente ma di eguale passione
L´italiano Ricci Oddi prediligeva dipinti d´aria divisionista e simbolista, da Previati a Sartorio, da Pellizza a Tito
Il punto d´incontro tra le due diverse raccolte è nel lavoro di Zandomeneghi influenzato dalla pittura impressionista, specie da Edgar Degas
Da Washington arriva anche una splendida "Natura morta" di Cézanne nella quale lo spazio è franto e moltiplicato

Se da una mostra attendete soprattutto il conforto per lo sguardo e l´incontro con il capolavoro, quella che sarà aperta lunedì a Palazzo Baldeschi di Perugia, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio della città umbra (Da Corot a Picasso. Da Fattori a De Pisis. La Phillips Collection di Washington e la Collezione Ricci Oddi di Piacenza, a cura di Vittorio Sgarbi, catalogo Silvana Editoriale), è la vostra mostra. Fianco a fianco vi sono esposte alcune opere di due storiche collezioni, l´una americana e l´altra italiana, che poco hanno in comune quanto a radici, possibilità economiche e prospettive, ma che sono nate entrambe, tanto tempo fa, dalla passione di due collezionisti, i quali le hanno poi donate generosamente alla collettività. Di Duncan Phillips e Giuseppe Ricci Oddi, che rispettivamente a Washington, una delle capitali del mondo, e nell´appartata Piacenza fondarono il loro sogno e le loro istituzioni nei primi decenni del XX secolo, dice più diffusamente in queste pagine Paolo Vagheggi. Vale qui soltanto ribadire il tratto precipuo che caratterizzò i due uomini, e che si riflette nelle loro vaste raccolte: l´uno, Phillips, volto a prestare orecchio alla contemporaneità più arrischiata, e alle radici d´essa più sbilanciate verso una lingua moderna; l´altro, Ricci Oddi, costituzionalmente alieno dagli azzardi di ogni avanguardia, ed anzi «moderatamente conservatore», come ha scritto Stefano Fugazza.
La selezione oggi compiuta rispetta questa distanza, e porta così a Perugia due gruppi d´opere diversamente orientati. Da Washington giungono alcuni capolavori assoluti, a partire da quelli nati nell´alveo della nouvelle peinture parigina. Muove anzi da una delle formulazioni più antiche del nuovo corso della pittura francese dell´Ottocento, con il prezioso Corot del 1826, Veduta dai giardini Farnese, un piccolo olio ancora dipinto su carta, come era d´uso in epoca neoclassica, seguendo una tradizione che risaliva almeno a Valenciennes, e che richiedeva all´artista di compiere rapidamente il primo studio del suo dipinto all´aperto, su un supporto facilmente trasportabile. Il dipinto risale al primo soggiorno a Roma di Corot (che tornerà in Italia altre due volte), e l´aria tersa, la luce candida e piena che lo imbevono ne fanno, già, un piccolo gioiello indimenticabile. Di qui, con un salto di cinquant´anni, si giunge a un Courbet tardo, risalente agli anni del doloroso esilio in Svizzera del pittore, dopo la Comune. Datato al sesto decennio del secolo, invece, un Daumier che basta a dire del grado in cui il maestro di Marsiglia può aver suggestionato la giovinezza di Cézanne.
Poi un nucleo d´impressionisti e postimpressionisti, introdotto dallo straordinario Balletto spagnolo di Manet, che si disse dipinto dal pittore convocando a studio l´intera compagnia di danzatori che, proveniente dal teatro reale di Madrid, aveva sedotto il pubblico parigino nel ‘62. In realtà qui Manet, che aveva assistito con Baudelaire a un loro spettacolo all´Hippodrome, ondeggia fra realtà e sogno, fra splendore e brutalità, seguendo forse la prima volta sino a tal segno la lezione di Velázquez e di Goya, ad una cui stampa egli s´ispira testualmente per alcune figure. Qui, come nella coeva Lola de Valence, Manet intride il pennello nel nero fiammante che sarà sempre suo, e costruisce con esso gli scoppi di luce del dipinto.
Neve a Louveciennes di Sisley (del 1874, l´anno della prima mostra impressionista) prelude poi alla Strada che porta a Vétheuil di Monet, del 1879: di un tempo in cui Monet può finalmente asserire con orgoglio il suo essere capofila del gruppo, ma insieme comincia a dubitare del dogma della pura impressione ottica.
E´ il tempo, questo, in cui la mostra trova un punto di tangenza fra le due collezioni che la costituiscono: viene dalla Ricci Oddi, infatti, la Piazza d´Anversa a Parigi, tela di Federico Zandomeneghi che usualmente s´ascrive al 1880. Il pittore veneziano era da qualche anno, allora, nella capitale francese, ove risentì subito e profondamente della lezione impressionista, soprattutto di quella di Degas e di Renoir. In questa tela importante, però, che segna un apice della sua produzione, Zandomeneghi sembra in più punti, e soprattutto nell´impianto nuovamente prospettico dello spazio, ascoltare la nuova rivoluzione che sarà portata da Seurat nel linguaggio dell´impressionismo, partecipando all´ultima mostra del gruppo, nel 1886, ed esponendovi la Grande Jatte, uno dei quadri cruciali della vicenda pittorica di quegli anni e dell´intera età moderna, di cui Piazza d´Anversa ripete anche molti particolari.
Resta dunque dubbia la data della stesura ultima del dipinto di Zandomeneghi; ma rimane egualmente certo il suo grande interesse.
Da Washington giungono ancora due Cézanne, fra i quali una splendida Natura morta dei primi anni Novanta, nella quale lo spazio è ormai franto e moltiplicato, in uno sguardo concitato sulla realtà che sarà via privilegiata per i cubisti, e - coevo - un bel Van Gogh, Casa ad Auvers. Poi il nuovo secolo: Rousseau e Modigliani, Kandinsky, Picasso, Braque e Juan Gris, Rouault e Utrillo, altri ancora.
A tanto rispondono, in tutt´altro clima, gli italiani della Ricci Oddi. Fra i quali giustamente s´è voluto sottolineare il rilievo che assume nella collezione piacentina il gruppo di dipinti d´aria divisionista e simbolista: del 1887 sono Le fumatrici di oppio di Previati, poi - a cavallo dei due secoli - la Sirena di Sartorio, La colonna di fumo di Nomellini, il Tramonto di Pellizza, Le ninfe di Ettore Tito, fino a L´alba domenicale di Angelo Morbelli e al Boccioni ancora prefuturista del Ritratto della madre. Negli stessi anni d´inizio secolo, fanno da contraltare a queste quasi astratte eleganze dei due dipinti turgidi di foga, di carnale sensualità e di materia di Antonio Mancini (Donna alla toeletta) e di Giacomo Grosso (Allo specchio). E, quasi a chiusura del percorso cronologico in un´Italia che Ricci Oddi vide aliena da troppo bruschi turbamenti, il bel Ritratto di Bruno Barilli d´un giovane Campigli.

Repubblica 12.9.08
Il Papa nella Francia delle chiese vuote
di Marco Politi


Sette viaggi di papa Wojtyla in Francia non hanno prodotto una svolta. Le chiese rimangono vuote, le messe pressoché deserte, il clero in estinzione.
È la prova che il revival religioso, i successi mediatici, i trionfi delle folle convivono con la secolarizzione. Perché l´eclissi del sacro in Europa è irreversibile dal momento che l´esistenza dei credenti, anche dei praticanti, non è più scandita da un calendario sacro come accadeva nei millenni trascorsi. Nel tempo della secolarizzazione c´è spazio per il ritorno di Dio, la nostalgia del trascendente, la ricerca generica di spiritualità. Ma è uno spazio condiviso con altre istanze, altri bisogni, altri desideri.
Il pellegrinaggio di Benedetto XVI nella Francia del XXI secolo è l’appuntamento più importante del suo pontificato. Perché Ratzinger ha sempre ritenuto fondamentale il ruolo della fede nel Vecchio Continente, culla e colonna della «società cristiana».
L´Europa è il banco di prova del suo pontificato, che aspira a salvaguardare l´integrità della fede e diffondere il messaggio di un cristianesimo gioioso e libero e non un mero fardello di regole.
Parlerà di laicità positiva e di cultura il Papa, che Parigi attende di conoscere da vicino. Insisterà nel dire che la religione deve avere un ruolo nella sfera pubblica. La domanda è: per dire cosa? Perché la caratteristica del cristianesimo e la forza speciale del cattolicesimo è consistita sempre nella capacità di reinventare la configurazione del suo messaggio. E allora cresce l´attesa di quanti intendono capire dopo tre anni di pontificato qual è il discorso con cui Joseph Ratzinger intende afferrare le società occidentali. L´organizzazione del viaggio rivela due pecche. Non c´è un vero incontro con le altre confessioni cristiane, segno della crisi dell´ecumenismo. Non c´è un vero confronto con i musulmani, nel paese che ha la più forte rappresentanza islamica europea.
A Parigi, presenti i rappresentanti dell´Unesco, Benedetto XVI parlerà all´Europa intera. Ma il viaggio sarà l´occasione anche per ascoltare. Non basta il richiamo alle tre radici: Gerusalemme, Atene, Roma. L´Europa, continente dinamico per eccellenza, è molto di più. È il Rinascimento, la Riforma protestante, l´Illuminismo, il pensiero liberale e socialista, la nuova soggettività di massa. E in questo humus in evoluzione c´è anche un Islam, che non è ospite di passaggio ma religione coltivata da milioni di cittadini europei.
Non basta più, in questo contesto variegato, denunciare il relativismo. Perché certamente esiste a livello becero una dittatura dell´egocentrismo, che eleva a massima suprema il faccio-come-pare-a-me. Ma certamente non si può tacciare di relativismo una molteplicità di visioni etiche dotate della propria coerenza.
Se nei territori dell´ex Sacro Romano Impero, della Francia «primogenita» della Chiesa, nella Spagna un tempo apostolica il cristianesimo è minoranza, è l´esito di processi profondi che vanno al di là di un Zapatero, di una Merkel, di un Sarkozy. La carenza drammatica di clero non potrà più essere rimossa per molto con l´esortazione a «distribuire meglio» ciò che non c´è.
Serve un´analisi strutturale della situazione ed una riposta all´altezza dei nuovi, drammatici tempi. Ma soprattutto, nel Vecchio Continente in cui c´è un cristianesimo da re-impiantare, è forse maturato il momento che il Papa senta ciò che pensa il popolo di Dio. Diceva Giovanni Paolo II che non solo i vescovi, ma anche i battezzati hanno il compito di «interpretare alla luce di Cristo la storia di questo mondo». Pensare ad un rilancio del cristianesimo in Europa senza un loro reale coinvolgimento, senza dare spazio a come loro nel quotidiano vedono e vivono la dottrina, l´etica, la morale e il messaggio cristiano, alla lunga non sarà possibile.

Repubblica 12.9.08
L´emergenza immigrati come regola. Tra affari illeciti e sofferenza: viaggio dove l´Italia ha perso la sfida dell´accoglienza
di Giampaolo Visetti


LAMPEDUSA. Quando l´Africa dei poveri si è messa in cammino verso l´Europa dei ricchi, all´Italia è tornato in mente un invisibile scoglio caldo, alla deriva nel canale di Sicilia: Lampedusa. È un´isola lontana, arida, in mezzo al mare. Dalle sue coste si vede la Tunisia e s´intuisce la Libia. L´Occidente, a sud, finisce qui. Nessuno ci crederebbe ma, in una ex caserma in contrada Imbriacole, si è deciso di selezionare e smistare tutti gli africani che scappano su una barca.
Nel centro di soccorso, il più grande del continente, passano oltre ventimila migranti vivi all´anno. Uno su venti scompare prima, tra le onde. I morti in acqua, dall´inizio dell´esodo, sono oltre 22 mila. Il doppio cade durante il viaggio a piedi, che dura mesi e anni, per salpare dalle spiagge dell´Africa.
Quelli che riescono a ripartire per un centro che organizza l´espulsione, spariscono nel fiorente mercato degli schiavi che ci circonda. È la strage, pubblicamente condivisa e documentata, più impressionante dalla fine della seconda guerra mondiale. Eppure, in quindici anni, non ha costruito accoglienza e solidarietà. La vergogna della nostra vita è sommersa da un crescente, redditizio muro di rifiuto e di odio razziale.
Lampedusa, sacrificata all´urto dell´ingiustizia, è il concentrato tragico del vuoto devastante scavato dentro l´identità italiana.
Sui massi del molo riservato agli sbarchi degli africani, subito sottratti alla vista dei turisti, c´è il Paese che si guarda allo specchio. Esso riflette il cinismo dei luoghi comuni che lo travolgono, attraverso le famiglie di pescatori reinventati osti e affitta-tutto. Gli abitanti ormai recitano senza pensarci: in giro non si vedono immigrati e nessuno è xenofobo; nessuno ha qualcosa contro i disperati; tutti, in passato, hanno sfamato e vestito i naufraghi; tutti pensano che vadano aiutati a casa loro. È la penosa verità. Ma tutti, oggi, concludono con un medesimo «però»: l´isola vive di turismo e le notizie degli sbarchi, o dei cadaveri, minacciano gli affari; guardia costiera, Finanza e carabinieri devono smetterla di scaricare nel porto gli africani recuperati in mezzo Mediterraneo; giornali e tivù devono piantarla di parlare di Lampedusa ogni volta che qualcuno annega tra l´Africa e l´Europa. Nella confusione di un minuscolo fronte marino meridionale, dotato di undici caserme e seicento militari, monta il vento anacronistico che soffia fino a Nord, infilandosi nel cuore delle Alpi. Si plasma in questo mare bianco, il profilo nero di una nuova anima nazionale: il razzista accogliente, avido e di buon cuore.
«La prima volta che vidi un turco (africano ndr) - dice la vicesindaco Angela Maraventano, senatrice della Lega fatta eleggere in Emilia Romagna - era il 1993. Ai piedi della madonnina c´era un tappeto scuro. Sembravano cani, o sacchi di immondizia. Poi uno ha alzato una mano». Bossi la chiama "la saracena". Gli isolani hanno affidato a lei, «in sciopero fiscale da sempre», la loro difesa. «Il centro dei clandestini - dice - va trasferito in mare, su una nave militare. Diciotto mesi e poi via, espulsi: vediamo se Gheddafi ce ne manda ancora». Il governo, assicura, in cambio di «un po´ di turchi», le ha promesso un indennizzo di 200 milioni. «Se non arrivano - dice - parte la rivolta: zona franca, o annessione alla provincia di Bergamo, o indipendenza».

Repubblica 12.9.08
Lo straniero, la cultura, la legge
Intervista con Tzvetan Todorov
di Fabio Gambaro


Tzvetan Todorov e il suo nuovo saggio, appena uscito in Francia, in cui lo studioso analizza la paura delle diversità
"È barbarie non riconoscere all´altro la piena appartenenza all´umanità"
"La paura dell´islam è un sentimento dominante. Ma la paura è cattiva consigliera"

«Sono uno straniero. Vivo in un paese diverso da quello in cui sono nato e da sempre sono sensibile al problema delle differenze di cultura. La relazione tra unicità e diversità è inerente alla condizione umana, va quindi continuamente ripensata per combattere la paura che trasforma qualsiasi straniero in una fonte di pericolo».
Con queste premesse, Tzvetan Todorov torna ad affrontare uno dei temi che da sempre gli sono più cari, quello delle relazioni tra le culture, a cui in passato ha dedicato libri importantissimi come La conquista dell´America, Noi e gli altri e Le morali della storia (Einaudi). In Italia esce in questi giorni un suo vecchio saggio, Teorie del simbolo (Garzanti), e in Francia sta per uscire La peur des barbares (Robert Laffont pagg. 310, euro 20), un denso lavoro in cui lo studioso francese di origine bulgara - oltre a polemizzare con Huntington e i suoi numerosi seguaci, i quali immaginano un Occidente assediato dalla minaccia islamica - analizza e discute la paura della diversità che attanaglia la nostra società. «Oggi il problema della relazione tra le culture è diventato centrale», spiega Todorov. «Il dibattito ideologico tra destra e sinistra si è spento, lasciando spazio alla problematica dello scontro tra le culture. La mondializzazione rimette in discussione la tradizionale supremazia dell´Occidente, mentre le popolazioni del pianeta comunicano tra loro molto più facilmente che in passato. La rivoluzione delle comunicazioni e dei trasporti moltiplica i contatti tra le culture. Purtroppo però, più che essere considerati una fonte di arricchimento reciproco, tali contatti vengono vissuti dal mondo occidentale come una minaccia che genera paura. La paura dei barbari».
Chi sarebbero i barbari?
«C´è chi pensa che la barbarie esista solo nello sguardo di chi considera tale l´altro perché non lo capisce. Per il mondo occidentale, i barbari sarebbero gli stranieri, coloro che non conoscono la nostra civiltà e la nostra cultura. Da questo punto di vista, la civiltà coinciderebbe con la nostra tradizione culturale. Sappiamo tutti però che persone che conoscevano benissimo la nostra cultura hanno potuto comportarsi come barbari. Ciò dimostra che barbarie e civiltà non possono essere definite attraverso l´assenza o la presenza di una cultura».
Quindi la barbarie non esiste?
«La barbarie esiste, ma per definirla, al posto di un criterio culturale, è bene utilizzare la nostra relazione con gli altri. È civilizzato chi riconosce la piena umanità degli altri e quindi li tratta nella stessa maniera e con la stessa attenzione che vorrebbe per sé. È un barbaro invece chiunque rifiuti di riconoscere agli altri la piena appartenenza all´umanità, considerandoli inferiori o infliggendo loro trattamenti disumani. La barbarie trascende le culture, non dipendente dall´educazione o dalle conoscenze. Non è una categoria culturale, ma una categoria morale. Le culture, invece, sono categorie descrittive senza alcun valore morale. Il fatto che io parli il bulgaro e lei l´italiano non implica alcun valore particolare né per me né per lei. Non è nella cultura che risiede la civiltà, anche perché nessuna cultura protegge definitivamente dalla barbarie. Così, è barbaro l´islamista che compie un attentato terroristico, ma anche l´esercito americano che uccide i civili o tortura i prigionieri. Purtroppo però larga parte dell´opinione pubblica occidentale continua a considerare barbari coloro che non possiedono la nostra cultura».
Soprattutto chi proviene dal mondo musulmano, nei confronti del quale prevale un sentimento di paura...
«La paura dell´islam è oggi un sentimento dominante. Essa è ampiamente diffusa dai media, ma anche da opere come quelle di Oriana Fallaci. A volte la paura resta sullo sfondo, altre volte si manifesta apertamente, tanto che molti governi la sfruttano per governare. A cominciare dagli Stati Uniti. Certo, gli americani hanno subito un attacco terroristico senza precedenti, ma l´amministrazione Bush ha poi sfruttato la paura dell´islam per mantenere la popolazione in uno stato di stupore acritico e far accettare più facilmente le sue decisioni. Purtroppo la paura è sempre cattiva consigliera, tanto che la paura dei barbari rischia di trasformarci in barbari, spingendoci all´intolleranza e alla guerra. Oggi, per la prima volta nella storia delle democrazie occidentali, la tortura è diventata un atto lecito. E la tortura è un atto barbarico».
Il primo a teorizzare lo scontro tra il mondo occidentale e quello islamico è stato Samuel Huntington. Cosa pensa della sua tesi?
«Per lui, la guerra fredda costituiva lo stato normale delle relazioni internazionali. Quindi, sparito il blocco comunista (anche se oggi dovremmo domandarci se il vecchio nemico sia veramente scomparso), l´Occidente si è trovato un nuovo nemico nel mondo islamico. Si tratta di una visione manichea e semplicistica che considera il mondo musulmano come un unico blocco compatto, dimenticando che le culture non sono entità che si tramandano come essenze platoniche. Le culture non sono blocchi monolitici immutabili nel tempo, sono costruzioni in divenire permanente, realtà meticce al cui interno agiscono numerose sottoculture che si trasformano di continuo in funzione delle loro relazioni e dei contatti con le culture esterne. Parlare di un´unica cultura islamica non ha senso».
Dove nasce la diffidenza nei confronti del mondo musulmano?
«Sono diversi da noi, non li capiamo e allora li consideriamo barbari animati esclusivamente da intenzioni ostili. Non ho alcuna simpatia per gli islamisti, ma è un´assurdità pensare che oltre un miliardo di persone siano esclusivamente determinate dal loro Dna culturale e religioso. Come tutti, i musulmani si comportano in base a una quantità di motivazioni, personali, psicologiche, politiche, sociali, ecc. In Occidente, però continuiamo a immaginarci che essi siano esclusivamente mossi dal Corano. Inoltre, non tutti i musulmani sono islamisti e non tutti gli islamisti sono terroristi. La semplificazione nei confronti del mondo musulmano è profondamente ingiusta, frutto di una pigrizia mentale che si accontenta di facili schematismi. Al manicheismo di questa percezione occorre contrapporre la complessità di un mondo ricco di sfumature. Occorre sfuggire al politicamente corretto ma anche al politicamente abietto».
È per questo che lei cerca di articolare relativismo e universalismo, evitando gli eccessi da entrambe le parti?
«Siamo diversi, ma siamo anche tutti umani. I due termini quindi vanno costantemente articolati. Come ci hanno insegnato gli illuministi, dobbiamo riconoscere l´universalità della condizione umana ma al contempo la varietà delle differenze culturali. C´è chi sostiene troppo semplicisticamente che l´illuminismo abbia segnato il trionfo dell´unità della civiltà. In realtà, l´illuminismo riconosce l´universalità della civiltà, ma sempre all´interno della pluralità delle culture».
Sul piano concreto della relazione tra le diverse comunità, lei ipotizza una soluzione pragmatica, vale a dire che la legge prevalga sempre sui costumi. È così?
«Difendere il confronto e il dialogo tra le culture non implica avere una visione ingenua della realtà. So benissimo che i problemi esistono. Ma più che occuparsi delle identità, occorre affrontare le situazioni specifiche. Le identità non sono barbariche, le situazioni invece sì. Quando, ad esempio, ci troviamo di fronte ai crimini d´onore, all´escissione, alle punizioni fisiche, ecc., occorre fare appello alla legge. Questi crimini riguardano spesso le minoranze musulmane, le quali, in nome di un´interpretazione abusiva del Corano, più patriarcale che musulmana, ledono i diritti delle donne. Nei confronti di tali comportamenti, non si deve mostrare alcuna indulgenza. Per questo è necessario ricorrere alla legge, ma anche aiutare le minoranze a conoscere i codici, la lingua e le regole della vita collettiva».
Chiedere di riconoscere la legge significa imporre a tutti un´unica cultura?
«Assolutamente no. Leggi e cultura vanno separate. Anche se in Occidente viviamo in nazioni che tendenzialmente hanno sempre fatto coincidere lo Stato con la cultura, non credo che tutti i francesi o tutti gli italiani abbiano la stessa cultura. Insomma, occorre accettare le culture degli altri senza paura. Dalla pluralità, infatti, si possono trarre grandi vantaggi. E l´identità dell´Europa risiede proprio nella capacità di aver elaborato regole comuni per gestire la diversità. Una lezione che non bisogna mai dimenticare».

Repubblica 12.9.08
Esce una raccolta di saggi di Jacques Derrida
L’uomo e l’esperienza dell’inventare
di Jacques Derrida


L´invenzione si conviene sempre all´uomo. Non si è mai autorizzati a dire di Dio né dell´animale che inventano, mentre noi possiamo inventare dei e animali
Anticipiamo un brano di "Psychè-Invenzioni dell´altro" di (Jaca Book, pagg. 472, euro 46, primo di due volumi) da oggi in libreria

Che cos´è un´invenzione? Che cosa fa? Viene a trovare per la prima volta. Tutto l´equivoco viene a ricadere sulla parola «trovare». Trovare è inventare quando l´esperienza del trovare ha luogo per la prima volta. Evento senza precedenti la cui novità può essere o quella della cosa trovata (inventata), per esempio un dispositivo tecnico che prima non esisteva: la stampa, un vaccino, una forma musicale, un´istituzione - buona o cattiva -, un congegno di telecomunicazione o di distruzione a distanza, ecc.; oppure l´atto e non l´oggetto del «trovare» o dello «scoprire» (per esempio, in un senso ora antiquato, l´Invenzione della Croce - da parte di Elena, la madre dell´imperatore Costantino, a Gerusalemme nel 326 - o l´invenzione del corpo di san Marco, del Tintoretto). Ma nei due casi, secondo i due punti di vista (oggetto o atto), l´invenzione non crea un´esistenza o un mondo come insieme di esistenti, non ha il senso teologico di una creazione dell´esistenza come tale, ex nihilo. Scopre per la prima volta, svela ciò che già si trovava lì, o produce ciò che, in quanto téchne, certo non si trovava lì ma non per questo viene creato, nel senso forte della parola, ma soltanto congegnato, a partire da una riserva di elementi esistenti e disponibili, in una determinata configurazione. Questa configurazione, questa tonalità ordinata che rende possibile un´invenzione e la sua legittimazione pone tutti i problemi che sapete, la si chiami totalità culturale, Weltanschauung, epoca, episteme, paradigma, ecc. Quale che sia l´importanza di tali problemi, e la loro difficoltà, tutti reclamano una delucidazione di che cosa voglia dire e implichi inventare. (...)
In tutti i casi e attraverso tutti gli spostamenti semantici della parola «invenzione», questa rimane il venire, l´evento, di una novità che deve sorprendere: nel momento in cui sopravviene non poteva essere predisposto uno statuto per attenderla e ridurla al medesimo.
Ma questo sopravvenire del nuovo deve essere dovuto a una operazione del soggetto umano. L´invenzione si conviene sempre all´uomo come soggetto. Ecco una determinazione di grandissima stabilità, una quasi invariante semantica di cui si dovrà tener rigorosamente conto.(...)
L´uomo stesso, il mondo umano, è definito dall´attitudine a inventare, nel duplice senso della narrazione fittizia o della favola e dell´innovazione tecnica o tecno-espistemica. Come collego téchne e fabula, così richiamo qui il legame tra historia ed episteme. Non si è mai autorizzati (ne va proprio dello statuto e della convezione) a dire di Dio che inventa, anche se la sua creazione - si è pensato - fonda e garantisce l´invenzione degli uomini; non si è mai autorizzati a dire dell´animale che inventa, anche se la sua produzione e manipolazione di strumenti assomiglia, talvolta si dice, all´invenzione degli uomini. Viceversa, gli uomini possono inventare dei, animali, e soprattutto animali divini.
Questa dimensione tecno-epistemo-antropocentrica iscrive il senso d´invenzione (da intendersi nell´uso dominante e regolato da convenzioni) nell´insieme delle strutture che legano in modo differenziato tecnica e umanesimo metafisico. Se bisogna oggi reinventare l´invenzione, sarà attraverso questioni e performance decostruttive che vertono su questo senso dominante dell´invenzione, sul suo statuto e sulla storia enigmatica che lega, in un sistema di convenzioni, una metafisica alla tecno-scienza e all´umanesimo. (...)
Che cosa si chiede quando ci si interroga sullo stato dell´invenzione? Si chiede anzitutto che cos´è un´invenzione, e quale concetto conviene alla sua essenza. Più precisamente, ci si interroga sull´essenza che ci si accorda a riconoscerle. Ci si chiede qual è il concetto garantito, il concetto ritenuto legittimo al suo riguardo. (...)
Tanto più che il circolo economico dell´invenzione non è altro che un movimento per riappropriarsi precisamente di ciò che lo mette in movimento, la différance dell´altro.
Che non si ricapitola né nel senso, né nell´esistenza, né nella verità.
Passando oltre il possibile, essa è priva di statuto, di legge, di orizzonte di riappropriazione, di programmazione, di legittimazione istituzionale, oltrepassa l´ordine della commessa, del mercato dell´arte o della scienza, non chiede nessun brevetto né mai ne avrà.
Restando, in tutto ciò, assolutamente mite, estranea alla minaccia e alla guerra. Ma tanto più perciò avvertita come un pericolo.
Come lo è l´avvenire, la sua unica preoccupazione: lasciar venire l´avventura o l´evento del tutt´altro. Di un tutt´altro che non può più confondersi con il Dio o l´Uomo dell´onto-teologia né con nessuna delle figure di questa configurazione (il soggetto, la coscienza, l´inconscio, l´io, l´uomo o la donna, ecc.). Dire che qui sta l´unico avvenire non significa invocare l´amnesia. La venuta dell´invenzione non si può rendere estranea alla ripetizione e alla memoria. Del resto l´altro non è il nuovo. Ma la sua venuta porta al di là di questo presente passato che ha potuto costruire (si dovrebbe dire: inventare) il concetto tecno-onto-antropo-teologico dell´invenzione, la sua stessa convenzione il suo statuto, lo statuto dell´invenzione e la statua dell´inventore.
Che cosa posso ancora inventare, vi chiedevate all´inizio, quando era la favola. E ovviamente non avete visto venire nulla. L´altro, non s´inventa più.
Che cosa vuole dire con ciò? Che l´altro non sarà stato altro che un´invenzione, l´invenzione dell´altro? No, che l´altro è ciò che non si inventa mai e che non avrà mai atteso la vostra invenzione. L´altro chiama a venire e questo è solo a più voci che viene.

il Riformista 12.9.08
Bersani: via il ministro della scuola
«Non può parlare di merito chi ha cercato l'esame facile»
di Sonia Oranges


Bersani: è come affidare la Difesa a chi ha eluso la naja. Ma Mariastella non teme critiche e redarguisce la polizia

«La Gelmini può fare tutto quel che vuole, ma non il ministro dell'Istruzione»: erano giorni che il ministro ombra all'Economia, Pierluigi Bersani, ci rimuginava su. Che Mariastella Gelmini avesse traslocato da Brescia a Reggio Calabria per "garantirsi" l'esame di abilitazione all'esercizio della professione forense, ai suoi occhi era già uno scandalo. Ma leggere poi sul Riformista che il ministro rivendica pure questa scelta («Dovevo fare l'avvocato, la mia famiglia spingeva perché lavorassi presto. A differenza di Veltroni, ne avevo bisogno. Che senso aveva perdere anni in concorsi dove passavano solo i figli di avvocati? Veltroni difende per caso gli ordini professionali? Pensa che sia lì che si valuta il merito delle persone?»), lo ha fatto davvero imbestialire. E, senza fronzoli, spiega il perché.
Dunque, secondo lei, il ministro Gelmini dovrebbe dimettersi?
«A me basta che si scambi il posto con Matteoli: lei va alle infrastrutture e Matteoli alla scuola. Ma non può certo parlare di merito, lei che ha cercato l'esame facile. Qui non siamo di fronte a un fatto personale, ma a una questione politica di primo rilievo. Penso che una persona che ragiona così non ha i titoli per rivolgersi ai giovani dalla poltrona di ministro dell'Istruzione. Si sta perdendo il senso della coerenza tra le parole e i fatti».



Lei che si occupa di economia, perché se la prende tanto per la scuola?
«Questo paese, in termini economici e dunque sociali, si può salvare solamente se si recupera il concetto di spirito civico. Oramai i sistemi non accettano più di essere regolati formalmente. Vincono invece le regolazioni implicite: dunque lealtà fiscale, buone pratiche, meriti premiati».
E la Gelmini che cosa c'entra?
«Trovo inaccettabile che, nel silenzio generale, il ministro dell'Istruzione da un lato ci parli di grembiulini, condotta e merito, e dall'altro dica che ha cercato una scorciatoia, una semplificazione sul suo percorso professionale. Giustificando pure questa scelta. Avrei preferito si scusasse, dicesse di aver fatto una sciocchezza. Qui non si tratta di Gelmini o di Bersani, qui è in ballo il messaggio che mandiamo all'opinione pubblica».
Il ministro però punta il dito contro gli ordini professionali. Sembra quasi che il Pd li difenda...
«Scherza? Io ho seguito da vicino la questione degli ordini, ho proposto una riforma che giace in parlamento e che è stata ostacolata in ogni modo dal centrodestra, tetragono difensore degli ordini. La Gelmini li cerchi in casa sua i fiancheggiatori degli albi professionali. Personalmente, trovo scandaloso che i giovani restino anni negli studi professionali a fare qualsiasi cosa, senza beccare un soldo. Cose che mio padre, che faceva l'artigiano, non avrebbe mai permesso».
Che mestiere faceva suo padre?
«Mio padre faceva il meccanico benzinaio. E se penso che ora il ministro ne fa una questione di figli di papà...».
Torniamo agli ordini professionali...
«Ci sono troppi giovani che aspettano invano la promozione all'abilitazione, rimanendo in un limbo. Credo che la chiave risolutiva sia collegare l'università all'accesso alle professioni, utilizzando gli stage invece che il praticantato selvaggio».
Ha ragione la Gelmini, allora.
«Chiariamoci. È come se il ministro della Difesa facesse l'elogio della naja avendola evitata. Per me la naja era inutile, come i praticantati, ma non ho mai pensato di starmene a casa e lasciare al resto del mondo il servizio militare. Io ho fatto il soldato semplice e posso occuparmi di difesa. Al pari, lei non può occuparsi di istruzione».
Non sarà un po' rigido?
«Lo dica alle decine di migliaia di giovani che hanno atteso cinque, sei anni per superare l'esame di abilitazione, a Brescia, Milano, Firenze, sudando sette camicie e contando sul proprio merito. Secondo il ministro, sarebbero tutti figli di papà e reggicoda degli ordini. Oppure deficienti. Se la Gelmini vuole fare la rivoluzione, cominci col proporre la riforma degli ordini».
Lei però sostiene che il problema travalica i confini di viale Trastevere.
«Certo. Ripeto, è una questione politica. Dobbiamo mandare un messaggio che ravvivi lo spirito civico. Gli ostacoli vanno rimossi non aggirati. E sono sicuro che, nel senso comune della gente, non ha ancora attecchito il principio secondo cui la furbizia è sempre vincente. Il paese è molto più reattivo di quel che pensiamo. Le famiglie di tutti quei ragazzi in attesa, sono scandalizzate, ma non hanno voce. Ma per caso è solamente un problema di Bersani questo? Dove sono gli opinionisti? Pensano che la Gelmini sia nel giusto? Anche voi, perché non le avete chiesto se non si sentiva in contraddizione tra il dire e il fare?».
Ma lei, tutto questo, l'ha detto al ministro?
«Voglio proporle una discussione pubblica. Voglio confrontarmi con lei, capire come può sostenere le sue tesi, casomai svolgendo utilmente qualche considerazione sul valore della coerenza personale nell'esercizio delle funzioni pubbliche».
Se vuole, invitiamo entrambi al Riformista.
«Io ci sto. Non so il ministro».
Il ministro è dunque ufficialmente invitato al confronto. I tempi sono duri per lei, che ieri ha incassato anche le sin troppo caustiche critiche del leader della Cgil, Guglielmo Epifani: «Alcune frasi della Gelmini sono da mettersi le mani nei capelli. Come quando pensava che qualche insegnante di storia o geografia potesse fare la guida turistica». Ma lei non sembra temere le contestazioni. Anzi. Ieri ha chiesto alla polizia di non procedere a controlli e identificazioni «se qualche facinoroso alza la voce, anche perché ho sufficienti argomentazioni per rispondere». E annuncia un tour nelle scuole Italiane «per confrontarmi con i ragazzi, raccogliere proposte e chiedere loro se la scuola così com'è li soddisfi o se sia necessario mettere mano a una riforma complessiva del nostro sistema d'istruzione».

il Riformista 12.9.08
Dopo Salò torna pure il caso Sofri
di Stefano Cappellini


Non si è ancora spenta l'eco della diatriba sulle celebrazioni dell'8 settembre che il dibattito pubblico nazionale, da anni specializzato nell'alternare all'ordine del giorno questioni distanti almeno un terzo di secolo, sembra pronto a ruminare di nuovo un altro eclatante caso di memoria lacerata, contesa, negata. Tutto, fuorché condivisa.
«Desidero muovere la più ferma obiezione a questa considerazione dell'omicidio Calabresi», ha scritto ieri Adriano Sofri nelle prime righe della sua rubrica sul Foglio, in un intervento destinato a far discutere per la ricostruzione (qualcuno dice già: la «giustificazione»), svolta con piglio e argomentazioni in parte inedite, delle ragioni che secondo l'ex leader di Lotta continua portarono all'assassinio del commissario a Milano nel maggio del 1972. Del resto, a garantire sulla portata della polemica sono i suoi stessi protagonisti: Sofri è, secondo una sentenza definitiva della giustizia italiana, il mandante di quell'omicidio, sebbene continui a proclamare la sua assoluta innocenza. E la "considerazione" cui si oppone è quella svolta il giorno prima in una corrispondenza su Repubblica da Mario Calabresi, figlio del commissario, il quale ha partecipato, per poi raccontarlo sul quotidiano, a un incontro fra vittime del terrorismo provenienti da tutto il mondo organizzato a New York dal segretario delle Nazioni Unite.
«Non ci si attenti a definire l'omicidio del commissario un atto di terrorismo», contesta però Sofri. E lo dice da un doppio punto di vista: soggettivo, ricordando che nemmeno la sentenza che lo condanna si fonda sull'accusa di terrorismo, e storico-politico, perché «terrorismo è l'impiego oscuro e indiscriminato della violenza al fine di terrorizzare la parte supposta nemica e guadagnare a sé quella di cui ci si pretende paladini». E indiscriminata, secondo Sofri, la violenza che colpì Calabresi non fu. Su questo punto si produce l'interpretazione destinata a sollevare più polemiche: quel delitto, sostiene Sofri, «fu l'azione di qualcuno che, disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca... i suoi autori erano mossi dallo sdegno e dalla commozione per le vittime».
Difficile dar torto a Sofri quando nega la natura terroristica di Lc, di se stesso che ne era leader, e ricorda che la contestata sentenza lo condanna per «omicidio di privati contro un privato». Più scivoloso è prendere sempre per buona la sua definizione di terrorismo: si farebbe fatica a comprendervi persino via Fani, dato che senza dubbio la «geometrica potenza» brigatista non era né oscura né indiscriminata. E che dire della definizione di «persone non malvagie» attribuita agli assassini di Calabresi? Sulla base delle motivazioni precedenti, della «commozione e dello sdegno» come motore della scelta armata, la si potrebbe applicare a decine di omicidi politici. A meno che con questo giudizio, per la prima volta, Sofri non voglia indirettamente testimoniare la conoscenza diretta dell'identità e dell'animo degli «ex assassini», come li definisce lui, e sempre questa conoscenza intenda confermare quando ricorda di aver avuto in Lc «un ruolo che mi costringe a una responsabilità verso la sua storia intera, anche quando la mia responsabilità personale fu nulla, e così quella penale». E comunque, se davvero non fu Lc in quanto tale a volere il delitto, ma magari sue schegge autonome e in dissenso con la linea di Sofri e della maggioranza, non è logico pensare che lo fecero soprattutto per accelerare i tempi di crescita del partito armato, e quindi del terrorismo?
Resta che il delitto Calabresi «fu un azione terribile» ma quello - aggiunge l'ex Lc - era il contesto, anni di parole e pensieri violenti. Si riaffacciano così a stretto giro le medesime domande del dibattito su fascismo e resistenza appena rilanciato dai casi Alemanno e La Russa. Col paradosso che in questo caso - sia detto senza voler istituire alcun nesso di parentela politica - è l'ultrasinistra sessantottina, quella che si riteneva unica figlia legittima della Resistenza, a sollevare interrogativi di fondo avanzati di solito dai fautori delle "ragioni" saloine. Ovvero: in che conto vanno tenute le ragioni dei vinti, che nel caso specifico sarebbero non solo i responsabili materiali dell'assassinio di Calabresi ma tutti coloro che, convinti a torto di incarnare una giustizia non scritta ma più profonda, «ammettevano per esaltazione o per rassegnazione l'omicidio politico»? Gli anni di piombo furono segnati da una guerra civile? Non in senso stretto, ammette Sofri, ma dopo la strage di piazza Fontana («di cui tutto si sa, salvo che per i servi sciocchi») «molti di noi erano in guerra con qualcuno». Si distinguevano chiaramente in quegli anni una parte della ragione e una del torto? No, risponde Sofri, se è vero che la morte del ferroviere Pino Pinelli («innocente di ogni colpa») negli uffici della Questura di Milano è figlia della «premeditazione e dell'ostinazione» con cui dopo la strage le istituzioni perseguirono la falsa pista anarchica, premeditazione di cui Calabresi «fu attore di primo piano» (anche se «tendo a credere che non fosse in quella stanza»). Nella stagione dell'odio ci sono morti di serie A e di serie B? «Non riesco a impedirmi - scrive Sofri - quando leggo della lettura pubblica della Costituzione svolta dalla signora Gemma Capra al cospetto del Capo dello Stato, di chiedermi se qualcuno, un'autorità qualunque, abbia invitato la signora Licia Pinelli a leggere in pubblico la Costituzione». E ancora: «So che Licia Pinelli non vorrà mai leggere il libro di Mario Calabresi», cioè il fortunato Spingendo la notte più in là, dove il giornalista di Repubblica ha tradotto in lessico familiare la storia pubblica che lo ha privato del padre.
Sofri rimprovera anche agli intellettuali che firmarono l'appello anti-Calabresi di aver trasformato la successiva autocritica in una confessione di «follia collettiva». Quell'appello nasceva «contro una sconvolgente vicenda di terrorismo di Stato e di omertà istituzionali» e per questo, ricorda l'ex lottacontinuista, ancora nel 1998 Norberto Bobbio (filosofo e anche padre di Luigi, tra i fondatori di Lc a Torino) ne ha difeso le ragioni, rimproverando proprio a Sofri, che se ne era scusato con la vedova Calabresi, di essersi fatto indebolire dal carcere. In fondo, nell'autodafé di molti dei firmatari dell'epoca, c'è forse l'unica verità condivisa: in Italia, a scoperchiare il vaso della memoria, si scopre che molti fanno fatica persino a mettersi d'accordo con se stessi, figuriamoci gli uni con gli altri.

giovedì 11 settembre 2008

l’Unità 11.9.08
In rivolta. La lunga marcia dei Sans Papier
Centinaia di cittadini africani in attesa di asilo si sono riversati nelle strade di Roma: 40 chilometri da Castelnuovo di Porto alla sede Rai di viale Mazzini per non essere dimenticati. Con un bimbo in testa al corteo.
«Toglieteci dal nulla» La marcia dei sans papier
di Mariagrazia Gerina


La polizia è rimasta stupita da quella pacifica folla proveniente da Roma nord
Sono partiti senza nessuna organizzazione né un’idea e un obiettivo

Senza documenti, senza permessi, senza nulla, tranne il coraggio e la disperazione. Si sono messi in marcia così, all’alba, e hanno camminato per chilometri e ore, consumando scarpe e ciabatte gettate ai lati della strada. Davanti Abele, che a otto anni ha affrontato tutta la trafila del deserto e del mare per approdare in Italia. Dietro, centinaia di uomini, venuti dall’Eritrea, dalla Somalia, dall’Etiopia, induriti dal viaggio, dalle attese, dalle distanze, dalle sventure. Una massa umana in cammino, che dal centro per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto dove è stata raccolta sbarco dopo sbarco fino a comporre un popolo di 743 anime, risale contromano la via Flaminia, blocca tir e automobili, manda in tilt il traffico e punta ostinatamente verso Roma. Ogni tanto nella doppia fila che corre ai lati della strada spunta una donna, che tiene per mano un bambino, un uomo o un’altra donna partita da sola, senza fratelli e senza marito. La polizia li segue incredula, prova a fermarli: «No stop, no stop», gridano loro. E il blocco salta. L’ordine è di non toccarli, sono pur sempre richiedenti asilo. «Porcomondo - fa un agente -, se non posso fare nulla allora portatemi via in ambulanza».
«Uiascauarait», avanzano loro ritmando il cammino nella lingua di questa marcia mai vista prima sulla capitale. «We ask our right», dicono in inglese. Lo hanno scritto con uno stampino artigianale sulle magliette bianche che la Croce Rossa distribuisce all’arrivo nel numero di due a persona. «Chie-dià-moil-nòstro-dirìtto», provano a scandire facendo le prime prove con l’italiano che non hanno ancora imparato. Qualcuno infatti capisce male e lo rimpasta coniando un inedito: «Vediamo il nostro grido». Che poi è un’immagine perfetta di quello che accade mentre il popolo dei richiedenti asilo ancora senza rifugio e senza risposte dal governo italiano si snoda lungo la via consolare in marcia su Roma. Sono partiti, senza nessuna organizzazione, senza nemmeno un’idea precisa di dove arrivare: forse alla stazione Termini, dove qualcuno si è avventurato già nei mesi scorsi. E sembrano quasi un fantasma collettivo mentre avanzano in t-shirt bianca contromano tra le auto. Ma il loro grido che è stato rinchiuso per tre mesi in una specie di post-moderno villaggio western alle porte della capitale adesso è sotto gli occhi di tutti. E almeno qualche camionista, strombazzando con il clacson, fa cenno di capire. Anche la lingua hanno dovuto improvvissare. Oltre ai cartelli, fatti con scatole di cartone riciclate. Il più bello recita, in italiano: «L’Italia è un paese democratico». Lo portano in processione come una reliquia a cui aggrapparsi.
È per quello che hanno pagato dai mille ai tremila dollari, una fortuna, per arrivare fin qui, in fuga dai loro paesi, fatti a pezzi dalla guerra e da governi autoritari. Ma fino a ieri sono stati un popolo di 700 anime che trasportato da Lampedusa alle porte di Roma vaga nella campagna romana di Castelnuovo tra gli edifici bassi di cemento dismessi da tempo dalla Protezione civile, in attesa di capire come funziona la legge sull’asilo nel «paese democratico» in cui sono sbarcati. «Ricordatevi che siete senza nessun documento e quindi fuori dai confini del centro potete anche essere arrestati», li ha avvertiti la lettera consegnata dalla Croce Rossa all’arrivo insieme a una tessera con su scritto «Ospiti» da appendere al collo. Qualcuno poi gli ha spiegato che la Commissione territoriale per l’asilo li avrebbe convocati per esaminare il loro caso, senza dire quando. Sono andati avanti così per tre mesi nel deserto delle informazioni. Poi l’altro giorno un’altra novità: una sorta di permesso di tre mesi per poter stare in Italia, senza lavorare, in attesa della convocazione della Commissione. E loro hanno tradotto: niente asilo, per altri tre mesi e poi? Quindi da popolo che vaga hanno deciso di diventare un popolo in marcia per i loro diritti.
«Ci hanno preso le impronte, ci hanno fatto le foto, ora se non vogliono darci l’asilo, ci ridiano almeno le impronte, ci lascino andare a cercare i nostri diritti in un altro paese», spiega Idris che ha 32 anni e in Eritrea faceva il giornalista radiofonico. «Perché la Commissione non ci ha ancora ricevuto? Perché nessuno è venuto a spiegarci che succede?», snocciola il suo rosario di rabbia Mohammed, che viene dalla Somalia ed è in Italia dal 25 di giugno. «U.N tieni ascolto al problema», gli scandiscono attorno gli altri. Invocano le Nazioni Unite tra i tir bloccati mentre continuano a macinare chilometri sotto il sole, facendo scorrere tra le auto in sosta forzata cartelli con scritte in inglese. Quello in rosso recita: «Il governo italiano ha dimenticato la Convenzione di Ginevra». «Ginevra dice che la domanda di un rifugiato deve essere accolta o respinta entro venti giorni», spiega l’uomo che lo porta tra le auto. «Noi vogliamo i nostri diritti, non un permesso di tre mesi senza lavorare: al centro ci danno da mangiare, ci danno i vestiti, ma noi vogliamo il resto, una vita normale e mandare i soldi a casa», rivendica Isaac, che ha 32 anni e ha lasciato la famiglia in Eritrea. E Fortune che avanza con un velo in testa lo aiuta a spiegare meglio il concetto: «Non sono venuta qui solo per mangiare e dormire, ho lasciato due figli in Somalia di sette e otto anni e devo lavorare».
La meta come un miraggio si sposta continuamente. Ora è Termini, ora è la sede della Commissione. «We need Commission», gridano i camminanti, estenuati dalla marcia e dall’arsura, specie i musulmani che essendo Ramadan non possono neppure bere. Ma la sede della Commissione non sanno neppure dove sia. E così alla fine tra una sosta davanti al «Circolo canottieri Lazio» e una trattativa con le forze dell’ordine davanti al ministero della Marina approdano al Centro Rai di viale Mazzini. E lì aspettano. Niente delegazioni scelte, niente rappresentanti. La Commissione che non li convoca l’hanno convocata loro. «Non abbiamo capito la legge italiana e non sappiamo più di chi fidarci, vogliamo sentire tutti con le nostre orecchie».
E così avviene, come in un film. Arriva il rappresentante della Commissione, accompagnato da un altro che in realtà si è già fatto un pezzo di marcia cercando di parlare con il corteo impazzito, e cerca di spiegare lui quello che in tre mesi nessuno ha saputo comunicare. Spiega che è stato tutto un equivoco, che quei tre mesi di permesso provvisorio sono una prassi perché l’arretrato è tanto e gli sbarchi sono aumentati. La platea continua a non capire. Poi le autorità usano discorsi più semplici: «Voi avete chiesto asilo, vi sarà riconosciuto attraverso un colloquio. Niente permesso temporaneo, cominciamo domani». La marcia dei senza documenti applaude: si è ripresa almeno il diritto di esistere.

l’Unità 11.9.08
Il Colle: la Costituzione non è ancora di tutti
Da Helsinki il monito del presidente: «Valori e principi, c’è una questione aperta sulla Carta»
di Marcella Ciarnelli


QUESTIONI APERTE Per il Presidente della Repubblica tra quelle che ancora bisogna affrontare in Italia c’è «la piena identificazione che ci dovrebbe essere da parte di tutte le componenti della società nei principi e nei valori della Costituzione». Ed è proprio da questa identificazione che per Giorgio Napolitano «dovrebbe nascere un forte moto di patriottismo costituzionale per il quale credo ci siano le condizioni».
Il Capo dello Stato sta per lasciare la Finlandia al termine di una visita di Stato. Sullo sfondo, per due giorni, ci sono state le recenti polemiche seguite alla celebrazione dell’8 settembre. Conseguenti a tutte le altre che hanno segnato la storia di un Paese in cui ancora c’è, evidentemente, chi non è ancora riuscito a fare i conti con la storia. Quella personale. Quella di tutti.
Le parole del Presidente mettono in evidenza la necessità di proseguire nella riflessione e nell’analisi, anche alla luce di determinati comportamenti che continuano ad esserci nel Paese. L’invito è a ricordare i principi ed i valori che hanno alimentato la fase costituente, per cercare di superare le divisioni. Per arrivare a condividere il concetto della Costituzione come momento fondante. Arrivando a quel «patriottismo costituzionale», appunto, che dovrebbe essere patrimonio di tutti. La Carta è riformabile «nella sua seconda parte» secondo interventi «possibili, necessari e concentrati» precisa Napolitano. Ma l’obbiettivo deve essere quello di un sentire comune ancora non conquistato dato che proprio il presidente ha appena parlato di «questioni aperte» e di mancata «identificazione» da parte di alcuni.
Il botta e risposta con il ministro La Russa che l’8 settembre ha difeso a Porta San Paolo i militari che scelsero di stare dalla parte della Repubblica di Salò mentre altri, ricordati dal presidente della Repubblica, pagarono con la vita la scelta opposta, sono stati l’oggetto della domanda a cui Napolitano ha risposto avanzando la sua preoccupazione per «la questione aperta». Titoli di agenzia e di siti web sintetizzano il concetto. «Non tutti si riconoscono nei valori della Costituzione». Arriva la precisazione del Quirinale. Non c’è corrispondenza con i contenuti delle dichiarazione del presidente che, comunque, ci ha tenuto a puntualizzare che con il discorso dell’8 settembre «ho solo espresso il mio punto di vista. Non ho fatto polemiche con alcuno, né ho tirato per la giacca nessuno, né ho risposto ad alcuno. Ho svolto il mio intervento per ultimo, come era previsto». Peccato che proprio il ministro della Difesa, nel corso di una intervista a tutta pagina riservatagli da Il Giornale, abbia affermato il contrario: «Non potevo far polemiche con il presidente dato che ho parlato dopo di lui». Ieri La Russa, impegnato nelle grane di partito e coalizione, si è limitato a dire che le parole di Napolitano sul problema di una mancata identificazione da parte di alcuni con i valori fondanti della Costituzione non le aveva ancora lette ma «per il presidente ho grande stima».
Al di là delle sintesi nei titoli è evidente che c’è ancora molto da lavorare per superare le questioni aperte cui Napolitano ha apertamente fatto riferimento. «In Finlandia - ha ribadito - sembra che tutto sia stato metabolizzato. Non sono rimaste prigionieri né del risentimento, né di una logica di isolamento, perché hanno saputo attraversare la propria storia». E’ evidente il rammarico per questo cammino ancora incompiuto nel nostro Paese. Il lavoro da portare a termine si mostra ancora accidentato nel suo complesso. - Bene allora, per portare verso l’adesione ai valori costituzionali anche i più refrattari, lavorare con la scuola: «Sono molto favorevole all’introduzione nelle scuole primarie della materia “Cittadinanza e Costituzione”». Deve essere «l’inizio di uno sforzo maggiore della cultura, della politica e dell’informazione». Perché si sta per chiudere l’anno del sessantesimo anniversario della Carta, «e non so se sia stato fatto tutto quello che si poteva fare» per diffonderla. E qualcuno è evidentemente rimasto indietro con il programma. «La prossima volta parliamo d’Italia» ha scherzato con i giornalisti.

Repubblica 11.9.08
Falsi miti e luoghi comuni. Il fascismo negato
Gli interventi del sindaco di Roma e del ministro della Difesa nell'analisi di Emilio Gentile: "Non conoscono la storia"
di Simonetta Fiori


Le uscite di Alemanno e La Russa avvengono in un contesto che le legittima, un terreno concimato da stereotipi diffusi anche tra storici
La dittatura è un fatto accidentale o appartiene alla volontà di Mussolini? Se prevale la lettura accidentale, possiamo riscattare lo stesso Hitler

«È il nostro paese, la nostra cultura nazionale, a non aver mai fatto i conti fino in fondo con il totalitarismo fascista. Le recenti sortite del sindaco di Roma e del ministro della Difesa avvengono in un contesto politico e culturale che le legittima, in un terreno favorevole concimato in questi anni da formulazioni e stereotipi diffusi purtroppo anche in parte della storiografia e nel discorso pubblico». Quella di Emilio Gentile, storico del fascismo tra i più noti sul piano internazionale, è un´antica battaglia culturale. I suoi saggi - tradotti in molti paesi - insistono su questo fenomeno tutto italiano che è la "defascistizzazione del fascismo", lo svuotamento operato sul regime dei suoi tratti liberticidi originari, la negazione del carattere totalitario. «In un mio saggio recente, a proposito di questa inclinazione nazionale all´autoassoluzione, cito la provocazione d´un anonimo secondo cui il fascismo non è mai esistito. Da battuta è diventata profezia».
In Germania è impensabile che il ministro della Difesa elogi il patriottismo delle SS o il suo collega francese pronunci accenti commossi per Vichy. Perché succede da noi?
«In Italia è stato cancellato tutto quello che il fascismo ha rappresentato come distruzione della democrazia e umiliazione della collettività. La defascistizzazione del fascismo nasce da un totale travisamento di quello che il regime è stato. A quest´offuscamento non è estranea la cultura antifascista. Per molti anni è prevalsa a sinistra l´immagine d´un regime ventennale sciolto come un castello di carte, una "nullità storica" con cui in sede storiografica s´è cominciato a fare i conti troppo tardi. A destra gli umori hanno oscillato tra la caricatura e l´indulgenza, fino alla tesi del fascismo modernizzatore: un´interpretazione che dura tuttora».
Per i suoi eredi politici il fascismo è una dittatura nata per caso.
«I neofascisti hanno sempre negato il carattere intenzionale della dittatura, escludendone il tratto totalitario. È la tesi circolata nel Movimento Sociale fino agli anni Ottanta, uno schema interpretativo che si riflette sulle prime dichiarazioni di Gianni Alemanno a Gerusalemme: da una parte il fascismo, fenomeno complesso; dall´altra le leggi razziali, vergogna indotta da Hitler».
Poi il sindaco di Roma ha affrettato una correzione, aggiungendo in modo contorto che non poteva disconoscere l´esito liberticida del fascismo.
«Sì, ha parlato di fenomeno totalitario, categoria negata ancora da molti storici di destra, e non solo. Ma non capisco come possano stare insieme il riconoscimento della natura totalitaria del fascismo con la sua assoluzione fino alle leggi razziali. Gran confusione alberga nella destra postafscista italiana, con un equivoco di fondo».
Quale?
«Partiamo da una domanda essenziale: la dittatura è un fatto accidentale o appartiene all´essenza del fascismo e alla volontà di Mussolini? Le leggi razziali sono estranee a ciò che il fascismo era stato fino a quel momento? Se noi optiamo per una lettura accidentale, le leggi antisemite furono un incidente di percorso dovuto a influenze esterne. Con tutto quello che ne consegue: la buona fede, il patriottismo, i valori di chi servì il fascismo».
È questa la lettura espressa da autorevoli dirigenti di Alleanza Nazionale oltre che importanti cariche istituzionali.
«Ma è un metodo inaccettabile! Con questi stessi criteri si possono riscattare lo stalinismo e il nazismo. Fino al 1941, quando il Führer decise la soluzione finale, il nazismo fece tante cose buone: nessuno potrebbe negare storicamente che fu per patriottismo e non per odio agli ebrei che milioni di tedeschi videro in Hitler il salvatore. Sempre seguendo questo metodo, potremmo dire che De Gaulle e Petain avevano in contrasto solo la linea del fronte: per il resto erano due patrioti francesi...».
Il patriottismo diviene una categoria molto arbitraria. Il ministro La Russa ha reso omaggio al valore dei "patrioti di Salò".
«Quale patria? Una delle caratteristiche del fascismo fin dalle origini fu quella di negare l´esistenza di una patria di tutti gli italiani: esisteva soltanto la patria di coloro che aderirono al fascismo. Anche soggettivamente il patriottismo fascista fu liberticida. È Mussolini che il 4 ottobre del 1922, prima della Marcia su Roma, dichiarò che lo Stato fascista avrebbe diviso gli italiani in tre categorie: gli indifferenti, i simpatizzanti e i nemici. Questi ultimi, annunciò, andavano eliminati. Se si parte da queste premesse, non c´è più una patria degli italiani: c´è solo la patria dei fascisti. Per i seguaci del duce, Amendola e Sturzo non sono italiani. È questa stessa logica che nel 1938 conduce Mussolini ad affermare che gli ebrei sono estranei alla razza italiana e per questo vanno discriminati».
Un altro stereotipo invalso in articoli, libri, interviste su Salò è quello della buona fede dei ragazzi che vi aderirono.
«Per capire storicamente si deve considerare anche la buona fede. Ho scritto anch´io sul patriottismo nella Rsi. Ma la buona fede non può essere un criterio di valutazione storica! Se avessero vinto Mussolini e il Führer, che ne sarebbe stato di questi patrioti idealisti o non fascisti? Che fine avrebbero fatto in un nuovo ordine dominato da Hitler, ancor più totalitario, razzista e nutrito d´odio feroce? Anche i responsabili dei campi di concentramento nazisti come Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, professarono d´essere bravi padri di famiglia e sinceri amanti della patria. Forse lo pensavano anche i guardiani dei gulag».
Perché secondo lei la destra postfascista ha difficoltà a riconoscere una realtà storica così evidente? La condanna di An finora s´è limitata alla vergogna delle leggi razziali: mai una parola sui delitti precedenti, da Amendola a Matteotti, Gobetti e i fratelli Rosselli, Gramsci che muore per la galera. Senza contare le vittime della violenza squadrista, tra il 1920 e il 1922, circa tremila morti. E i ventottomila anni di carcere comminati complessivamente dal Tribunale Speciale agli antifascisti, con una trentina di condanne a morte. E gli eccidi commessi in Africa, più tardi centinaia di migliaia di italiani mandati a morire nella guerra voluta da Mussolini. Su tutto questo un prolungato silenzio.
«Una realtà storica che non si presta a equivoci. Sono persuaso che queste dichiarazioni estemporanee, confuse e contraddittorie, di due importanti esponenti di Alleanza Nazionale siano anche il frutto di scarsa conoscenza delle vicende del fascismo, di quel che ha detto e fatto Mussolini contro la democrazia. Nel neofascismo è sempre prevalsa una visione mitico-nostalgica, che evidentemente sopravvive ancora a dispetto della conoscenza storica».
Su questa visione irrazionale s´innesta la nuova vulgata suggerita anche da tanta parte della pubblicistica che si professa liberale. È innegabile che in questi anni abbia operato nella stampa quotidiana, in tv e in libri di successo un filone neorevisionistico teso a screditare l´antifascismo e a defascistizzare il fascismo.
«Se un autorevole storico come Piero Melograni dichiara al Corriere della Sera che il fascismo non è esistito ma è esistito il mussolinismo, posso contestarlo sul piano storiografico, senza però attribuirgli intenti ideologici. Certo, togliendo al fascismo i suoi attributi originari per i quali fu definito totalitario, si finisce per annacquarlo, facendone un fenomeno riducibile alla responsabilità di un solo individuo. E senza fare i conti con la vera natura del regime - nella complessità della sua origine, del suo svolgimento e della sua fine - sarà difficile affrontare con consapevolezza critica il problema dell´eredità fascista nelle istituzioni, nella politica, nella società e nei costumi degli ultimi sessant´anni. Ma una cosa più di tutto m´indigna».
Che cosa, professore?
«Che il nome di Renzo De Felice venga spesso citato per giustificare la riduzione del male del fascismo alle leggi antisemite e ridimensionare il problema della Rsi al patriottismo in buona fede».
Accanto al De Felice storico c´è un De Felice più incline all´uso pubblico della storia, cui si richiamano alcuni dei suoi eredi.
«A me interessa il grande studioso di storia. Sulle leggi razziali De Felice scrive che la responsabilità maggiore fu di Mussolini, della sua "incosciente megalomania" di trasformare gli italiani "in nome di principi e ideali che erano negazione di ogni principio e ogni ideale". Più chiaro di così. E ancora: "La tragica conclusione del fascismo è nelle sue stesse premesse e nella sua logica, nella sua sostanza antidemocratica e liberticida, nella sua mancanza di rispetto per i valori più elementari della personalità umana". Anche su Salò si espresse in modo inequivocabile, attribuendo alla Rsi l´origine della guerra civile. Non sono opinioni assolutorie».
Professore, non le sembra segno d´un grave ritardo culturale che ora ci troviamo a ripetere sul fascismo considerazioni che dovremmo considerare l´abc d´una coscienza democratica?
«Dopo le grandi passioni ideologiche d´una volta, su una spinta cinica e irrazionale il nostro paese ha forse rinunciato sia all´ideologia che alla conoscenza storica. Appare come svuotato, isterilito sul piano etico e nella coscienza civica. Sull´apologia del fascismo prevale l´apatia, l´insensibilità ai problemi della libertà. Gli italiani sembrano indifferenti alla storia, dunque più esposti alle semplificazioni. Mi chiedo cosa accadrà fra tre anni, quando ricorderemo la nascita dello Stato italiano. Forse riconosceremo che, soggettivamente, avevano ragione Metternich e Francesco Giuseppe nel voler mantenere l´Italia divisa e sottomessa? E invece Mazzini, Cavour, Garibaldi, Vittorio Emanuele II oggettivamente sbagliarono a renderla unita e indipendente?».

l’Unità 11.9.08
Pietro Ignazi: «La sinistra in questo ha sbagliato. Il presidente esprime preoccupazione»
«Destra sdoganata troppo in fretta»
di Eduardo Di Blasi


«È strano che Napolitano faccia un’affermazione così forte. Non è nelle sue corde, notoriamente». Il politologo Pietro Ignazi, si stupisce della durezza delle parole del Capo dello Stato, ma non ha dubbi su chi ne sia il destinatario: «Non è molto difficile vedere a cosa faccia riferimento Napolitano viste le parola di La Russa e degli altri. Sono loro i destinatari di questo messaggio. Anche se, in senso lato, sono molti quelli che non si ispirano ai valori della Costituzione. Penso a tutti quelli che fanno difficoltà ad accettare i principi dell’uguaglianza tra gli uomini. Direi che in Italia non c’è che l’imbarazzo della scelta».
Il Capo dello Stato era già intervenuto sulle questioni sollevate da Ignazio La Russa...
«Quello era un intervento istituzionale. Questo appare più politico. Visti i casi recenti, però, direi che il problema è stato nell’avere sostanzialmente accettato con troppa facilità, soprattutto da parte della sinistra quello che un tempo Eugenio Scalfari definì lo “sdoganamento della destra”. Secondo me quella che si è verificata tra il 1993 e il 1994 è stata un’apertura di credito eccessiva. Non dico che non dovesse essere fatta, ma certamente fu eccessiva. Era certo necessaria per facilitare il passaggio del Msi in An. Però la sinistra è stata troppo indulgente. Quel percorso è stato troppo facile e veloce per essere autentico. Quando i cambiamenti e le mutazioni sono così facili, fatte con gli squilli di fanfara e senza il dramma della sofferenza, non funzionano. E questo negli anni ha trovato qua e là degli strascichi. Soprattutto al livello della base. Quindi è abbastanza sorprendente che queste cose vengano oggi anche dalla leadership...».
Stiamo parlando di una leadership che sta anche lasciando An per un soggetto che punta al «centro»...
«Qui il discorso è più complesso in realtà. Perché ormai An è molto omologata a Fi nel suo conservatorismo. Certo c’è nostalgia del passato nella base, ma se è presente anche a questi livelli è più grave. Sappiamo bene che quando la base di An ha festeggiato l’elezione di Alemanno i simbolismi del ventennio sono stati abbondanti, dai saluti romani all’iconografia successiva. Sappiamo che alla base questo c’è. Stupisce che questo sia emerso anche al vertice...».
Lei affermava prima come fosse insolito per Napolitano prendere prese di posizioni così marcate. Significa che il momento è particolarmente avvertito dal Capo dello Stato?
«Sono in effetti abbastanza stupito. Perché è insolito per Napolitano, al di là della carica che oggi riveste ma proprio per la sua storia politica, esprimersi in maniera così netta, così forte. Evidentemente questa cosa l’ha colpito molto. Del resto Napolitano fa parte di una generazione che ha vissuto in presa diretta quelle vicende, come ricordava anche il presidente Ciampi».
A suo avviso, quello manifestato dalla destra è solo nostalgismo o nasconde un disegno più ampio?
«C’è certamente un progetto culturale molto più ampio che tende, più che a riscrivere, a stendere un velo su molti aspetti della storia del Novecento edulcorando buona parte degli aspetti drammatici con queste operazioni ambigue (“Le leggi razziali sono state il male ma non il fascismo”). Facendo condanne e poi ritornando indietro. Nel gennaio del ’95 Fini si espresse in maniera molto netta nel congresso di fondazione di An affermando come la Resistenza fosse un movimento storicamente necessario per superare il regime autoritario precedente. Affermazioni forti ce ne sono state. Nel lontano ’98 Fini disse a chiare lettere che se fosse stato un giovane nel ’43-’45 non avrebbe aderito a Salò. Poi si torna indietro».

l’Unità 11.9.08
Alemanno riscrive la «memoria»
Eliminate Resistenza e Liberazione dal progetto ereditato da Veltroni


Si chiamava «Noi ricordiamo: memoria, Resistenza e Liberazione»: un progetto che l’Assessorato alle Politiche Educative e Scolastiche del Comune di Roma, durante gli anni di Veltroni sindaco, ha promosso e ampliato progressivamente con encomiabile tenacia, rendendolo un momento caratterizzante dell’anno scolastico per molte scuole di Roma, un evento di riflessione profondamente sentito da studenti e insegnanti; il luogo fisico, etico e sentimentale dell’incontro significativo e toccante tra il prima e il dopo, tra gli ex deportati e i ragazzi delle scuole superiori. Esperienze che hanno letteralmente cambiato gli occhi con cui guardare al mondo e alle cose di ragazzi allevati al culto pagano delle Nike shocks. Il significato della storia toccato con mano, visto con gli occhi, percepito sulla pelle e con le lacrime nelle voci dei sopravvissuti. «Noi ricordiamo: memoria, Resistenza e Liberazione»: un titolo in cui soggetto e verbo - noi, i ragazzi, protagonisti; il ricordo, il riportare al cuore, le immagini di un passato sbiadito e percepito come remoto, ma vivificato attraverso la memoria dei reduci dai campi - si concentravano sui fondamenti della nostra democrazia e della nostra Costituzione, la Resistenza e la Liberazione.
In questi giorni è arrivato il contrordine di Alemanno. Il suo assessore Laura Marsilio ha ribattezzato il progetto inviato ai docenti referenti. La prima variazione è già nel titolo: «Viaggio nella memoria - Per non dimenticare la tragedia del ’900». Cancellate in un sol colpo Resistenza e Liberazione (e sul significato che la giunta Alemanno dà alla memoria non si è più tanto certi, così come resta sospeso cosa sia per loro la tragedia del ’900). Una rimozione abbastanza indicativa e comunque in linea con le dichiarazioni che il sindaco rilasciò in primavera. Ma non solo. Il programma del progetto, che durante gli scorsi anni era già precisamente articolato di questi tempi, è ancora in alto mare; tant’è vero che si fa riferimento ad una giornata di formazione per i docenti coinvolti di cui non si indica data, sede, né - soprattutto - relatori o i «temi intorno ai quali sarà sviluppata la ricerca». Noi insegnanti democratici abbiamo il difetto, forse, di essere un po’ sospettosi; ma a scatola chiusa non amiamo comprare. In questo caso, poi, l’acquisto sarebbe oltremodo incauto. Perché l’assessore Laura Marsilio, proprio lei, mentre diffondeva le date del viaggio ad Auschwitz a cui parteciperà con il sindaco Alemanno e il presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici, si affannava a ribadire il suo pieno appoggio alle dichiarazioni dello stesso Alemanno sulla distinzione tra leggi razziali e fascismo. Non vogliamo - io e le altre due docenti referenti del progetto per il liceo classico Plauto, Patrizia Iacobini e Berardina Ventresca - che i nostri alunni calchino il suolo sacro di Auschwitz accompagnati da chi ha pronunciato una simile offesa alla memoria di milioni di morti, ebrei e non. Di chi, attraverso quella frase, ha profanato la memoria stessa e ha dimostrato di essere non degno di accompagnare coloro che della memoria sono i nuovi destinatari. Non desideriamo che i nostri alunni siano coinvolti nella pietosa trappola della confusione sui morti, delle rivendicazioni egualitarie in nome di schieramenti che con quello che accadde - spesso con la complicità di "italiani brava gente" (le leggi razziali, le deportazioni), sotto lo sguardo disattento dell’Europa e del mondo - e con la comprensione delle ragioni della Storia e della necessità del ricordo non hanno nulla a che fare. Negli anni in cui siamo state referenti del progetto "Noi ricordiamo: memoria, Resistenza e Liberazione" per il nostro liceo abbiamo avuto l’onore di conoscere o ascoltare Aldo Pavia, Piero Terracina, Shlomo Venezia, le sorelle Bucci. Di raccogliere le loro testimonianze del lager e di apprezzare soprattutto la loro profondissima umanità e la loro capacità di rapportarsi con i ragazzi. Di sentire rievocare da Furio Colombo quel giorno del ’38 in cui fu allontanato dalla scuola elementare Coppino di Torino. Quei racconti, quei visi, quel calore umano, quella missione civile e politica nel rafforzamento di coscienza e memoria degli studenti sono antitetiche rispetto alle vergognose parole di Alemanno. Per questo non partecipiamo al loro progetto e ci dimetteremo. Sperando che molti altri insegnanti si associno alla nostra protesta.

l’Unità 11.9.08
Fischi per la Gelmini. E subito interviene la polizia
La ministra contestata in una scuola romana. Gli agenti in borghese identificano chi protesta


NON C’È difesa per lo studente che prenderà 5 in condotta. Bocciato. Per il ministro titolare della riforma c’è invece un modo per bloccare fischi e contestazioni: fare identificare dalle forze dell’ordine chi ha osato dimostrare, anche in modo vivace, di non essere d’accordo con le nuove norme che disegnano la scuola del futuro guardando al passato.
Aula magna del liceo «Newton». Gremita. Gran caldo e ospiti illustri. Per la presentazione del libro di Giovanni Floris, La fabbrica degli ignoranti, non hanno mancato l’appuntamento il presidente Giuliano Amato, nonostante la questione della presidenza della commissione Attali in versione capitolina. Ma anche il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, nell’occhio del ciclone da giorni che, impavida e sicura di sè, affronta una platea che già è scritto che, almeno in parte, le riserverà un’accoglienza non proprio amichevole. D’altronde se viene messo in discussione un posto di lavoro, anche se precario, non è che ci sia proprio da aspettarsi un’accoglienza amichevole.
Ed è andata proprio così. Il ministro compare e il fischio parte. «State portando la scuola allo sfascio» grida una ragazza. «Vergogna» arriva da un’altra parte. «Così non si migliora niente». «Fateci lavorare». Solerti ma discreti agenti in borghese intervengono. Chiedono i documenti, annotano i nomi, allontanano i contestatori. Alla fine sul registro dei cattivi ci finiranno in otto. Mentre il dibattito sui modi di intendere una scuola migliore prosegue, presente l’autore, moderato da Ferderico Geremicca, anche per evitare il prolungarsi della «disfatta» a cui il sottotitolo di Floris fa riferimento, si può assistere ad una imprevista lezione di tenuta dell’ordine pubblico che rischia di scivolare nell’intimidazione. Peccato che in altre occasioni, certamente più pericolose, non ci sia stata la stessa capacità di intervento. Di questi tempi sono evidentemente più pericolosi i precari degli ultras camorristi. Giusto per fare l’esempio più recente.
Il ministro difende la sua riforma «che non guarda al passato» ed «il governo responsabile» di cui fa parte che deve, per necessità, «rivedere le modalità di spesa». L’imperativo è uno: tagliare. A cominciare dai posti di lavoro, ed è una certezza, in cambio di ipotetiche promesse su tempo pieno, migliori remunerazioni e «carte oro» che aprirebbero la via dell’aggiornamento attraverso l’accesso libero a musei, cinema, teatri e tutto quanto fa cultura. Il ministro in cattedra fa anche la lezione al Pd rimproverandolo di avere poca coerenza. «Bisogna fare una scelta: non si può essere riformisti, un partito che guarda al futuro e ai giovani, e poi semplicemente scegliere la mobilitazione senza avanzare proposte». Anzi, contestando chi «protestano contro il piano programmatico senza conoscerlo visto che non l’ho ancora presentato».
Giuliano Amato, professore, non ci sta: «Lo lasci dire a uno di lunga esperienza, il Pd è un partito che le proposte le farà. Non può pensare che sia solo una battaglia contro di lei». E’accorato Amato quando deve riconoscere che «la scuola non riesce ad essere una priorità per nessuno, anzi è una priorità conclamata e non realizzata». Cita Gramsci, la necessità di allargare sempre più la platea fornendo strumenti a tutti, indipendentemente dalle possibilità delle famiglie in cui sono nati e, a proposito dei tagli, ammonisce «non si può dire: voi ve ne andate e basta». Il dialogo prosegue. Il ministro non accenna a fermarsi. Viene preanunciata anche una riforma della scuola media. Il presidente Amato auspica la ripresa del dialogo. Un esercizio che, in questi ultimi quindici anni, condizionato dal berlusconismo e dall’antiberlusconismo ha perso la sua principale capacità che è quella del confronto «senza necessariamente doversi trovare sempre d’accordo». Insomma c’è «un limite oltre il quale la partigianeria politica diventa ottusa e lontana dai problemi del Paese». Vale per la scuola. Ma anche per l’Attali?

l’Unità 11.9.08
Pitigliano, gli ebrei spazzati dal fascismo
di Bruno Gravagnuolo


CINEMA Presentato a Roma, ora in giro per l’Italia, ecco un bellissimo film «Il pane della memoria», di Luigi Faccini, che racconta. Come si passò dalla pace alla fine di una comunità in virtù del «buon» fascismo

A tempo debito esce questo questo bel film documentario sugli ebrei a Pitigliano di Luigi Faccini e prodotto da Marina Piperno per «Ippogrifo Liguria»: Il Pane della memoria (si può richiedere all’editore di Lerici al 34830249). Tempo giusto, perché coincide con le goffe rivalutazioni di un «fascismo pulito» da parte di questa destra al governo in Italia e a Roma, che vorrebbe «smarcare» il ventennio dall’antisemitismo e dalle leggi razziali. E allora cos’è Il Pane delle memoria? È un viaggio struggente nel ricordo di una piccola comunità ebraica, quella di Pitigliano nel Grossetano, della quale rimangono un piccolo gioiello vivente: il Museo nel cuore del «ghetto». Le fonti orali. E poi le ombre del passato, e un cimitero di nuovo oggetto di cure amorose. La straordinaria e toccante eredità, che si protende a noi e rivuole il suo nome, è il soggetto drammaturgico del film. Girato da un regista e narratore ispirato dalla memoria (Dall’antifascismo di Sarzana del 21 al Garofano Rosso). Interpretato da una «custode» d’eccezione: dalla voce e dalla persona di Elena Servi, animatrice del Museo, pitiglianese della piccola comunità ormai dispersa. Tra ricordi che danzano, e immagini a far da contrapunto, si dipana così la vicenda di un insediamento che è un piccolo caso di studio dell’ebraismo in Italia. Un nucleo ebraico che si addensa, fino ad assommare a 400 anime, a partire dal 500. Quando i nobili Orsini consentono agli ebrei in fuga dalla Spagna, o dallo stato pontificio, di soggiornarvi. A motivo delle loro abilità commerciali e finanziarie, interdette ai cristiani, salvo di volta in volta spogliarli e regolare i conti secondo le convenienze. Poi verranno i Lorena e il Granducato di Toscana, che nel secolo dei Lumi protraggono la tradizione: una libertà vigilata illuminista. Che favorisce una buona integrazione senza assimilazione.
La prova di tutto questo? È proprio nella storia familiare che Elena Servi, a lungo maestra elementare, ci narra. Elena viene da una famiglia paterna mazziniana. Famiglia ebrea, ma patriottica, tanto che il padre della Servi è combattente convinto nella Grande guerra, prima di impiantare un negozio di tessuti (venduti a credito ai contadini o in cambio di prodotti della terra). Insomma a Pitigliano, l’antisemitismo cristiano, che lambisce in sottofondo l’Italia cattolica, non passa. E anzi cede il passo a un modello di convivenza tra comunità fuse in una sola comunità, senza che nessuno rinunciasse alla propria identità. Senza minacce, sospetti o ritorni di fiamma, del tipo di quelli che esplodevano endemicamente in Europa contro gli ebrei. Addirittura Elena Servi racconta, come sia stata la cosa più normale del mondo, che lei stessa da maestra elementare abbia insegnato religione, ai bimbi battezzati di Pitigliano. Con il tacito assenso del Vescovo, ed evitando da ebrea di farsi il segno della croce in classe.... Possibile, direte voi?
Possibile in quell’Italia contadina di anteguerra e dopoguerra, e persino più tollerante di oggi nel quotidiano. Impossibile semmai sarebbe in quest’Italia odierna. Con questo Pontefice, le bellurie leghiste sulle «radici cristiane», la destra e quant’altro. Ebbene allora era così. Allora la sapienza popolare e contadina era più «multiculturalista» di tanti raffinati teorici o critici del multiculturalismo, che campeggiano sui giornali. E Pitigliano, con la sua Piccola Gerusalemme, oggi Museo e intrico di viuzze con botteghe, andrebbe studiata proprio per questo. È la dimostrazione storica che il pregiudizio, non attizzato dal potere, si rompe contro la «cultura» intesa come sapienza contadina degli innesti, e coltivazione spontanea delle relazioni umane generate da un destino comune. Fino a quando? Fino a quando lo spirito di rapina acquisitiva e la brama nazionale o imperiale non lacera quel tessuto. Come avvenne a Pitigliano e in Europa, a un certo punto. E qui il racconto di Faccini, si spezza drammaticamente. E si incrina, come accade alla voce pacata di Elena Servi, che spiega come a un certo punto a fine anni Trenta l’incanto si rompa. Sicché anche a Pitigliano gli ebrei diventano problema, scandalo. Elena cacciata dalla scuola elementare, con un gruppetto di correligionari. Esclusione senza parlare, senza capire, accompagnata dalla chiusura del negozio di tessuti. A niente vale l’italianità dei Servi, le medaglie in battaglia, l’amore per quella terra ormai loro. Il fascismo, che pure conviveva con preesistenze civili, spacca l’unità della nazione e giunge al compimento della sua vocazione violenta. E così la comunità di Pitigliano è trascinata a forza nel cono della tragedia. Solitudine certo dei Servi, ma anche solidarietà di tanti «giusti». Che aiutano la famiglia, e tanti ebrei, a nascondersi nelle grotte di tufo durante la caccia nazista. A sottrarsi alla razzia, che in Italia mietè 7.500 vittime accertate, grazie anche agli elenchi della «demorazza», voluti dal Duce nel 1938 e poi passati ai tedeschi dai volenterosi carnefici della Rsi. Oggi è passato tanto tempo, ma simbolicamente le stesse cose ritornano. Eppure la cosa più bella è proprio l’ironia e la capacità di perdono di Elena Servi, reduce dai Kibbutz ma piena di comprensione per i palestinesi. Intelligenza e accoglienza. Senza dimenticanza.

l’Unità Lettere 11.9.08
Il 26 aprile, a Cuneo, gli ebrei furono fucilati. Dai fascisti


Caro Direttore,
il 26 aprile 1945 alcuni ebrei di origine francese, austriaca e non so che altro, fra cui i Futterman, padre e figlio diciottenne, furono fucilati sotto un ponte del fiume Stresa, a Cuneo. Furono i repubblichini di Salò a farlo, non gli spregevoli nazisti. Si può immaginare la vita da braccati, terrorizzati, aggrappati giorno per giorno solo alla speranza di arrivare a vedere il tramonto, poi la notte, poi di nuovo l’alba che devono avere fatto quei poveri disgraziati - per anni ! - colpevoli solo di essere etnicamente ’sbagliati’. Forse è opportuno ricordare di nuovo la data, il 26 aprile 1945, guerra finita, perchè si capisca bene l’ardore e la passione che i bravi ragazzi di Salò mettevano nella difesa della Patria dai banditi, anche se a me viene ancora da pensare che in loro e nelle loro scelte non c’è niente, ma proprio niente, cui rendere omaggio. L’Italia ’nata dalla Resistenza’ non è uno slogan un po’ abusato; è la definizione di un’identità nazionale, profonda, definita, precisa che ha un significato altrettanto preciso: si può dire di No a scelte infami e inumane. Si può rifiutare l’orrore. Ci si può opporre. Per questo penso che non si possa davvero ritenere rispettabile l’ opinione di ministri e sindaci così nostalgicamente farneticanti.
Fabio Della Pergola

l’Unità Lettere 11.9.08
Chi aderiva a Salò sapeva che cosa avveniva


Cara Unità,
sul «Giornale», Giordano Bruno Guerri ha scritto: «Si sa invece che, nella Rsi come nel resto del mondo, quasi nessuno era a conoscenza di quanto avveniva ad Auschwitz, a Dachau e negli altri turpi campi di concentramento nazisti». Forse chi aderiva a Salò non sapeva esattamente ciò che avveniva ad Auschwitz. Ma chi aderiva a Salò sapeva cosa avveniva in Italia, dove in quegli anni migliaia di rom, di sinti, di omosessuali, di handycappati e di appartenenti a minoranze linguistiche venivano letteralmente s t e r m i n a t i in quelli che l’ottimo storico Spartaco Capogreco ha chiamato «I campi del Duce». Dei veri e propri lager, esattamente come Auschwitz e Dachau, dove morirono bambini, donne e vecchi. I nomi erano altri: Gonars, Arbe, Visco, ecc. ecc. Di questi lager di sterminio etnico non si parla in nessun libro di scuola. Per questi lager non è stata istituita nessuna «giornata della memoria». Questo perché il martirio di rom, sinti, gay, sloveni, serbi e croati è ovviamente un martirio di serie B. E poi, hai visto mai, si dovesse mettere in crisi il mito dell’«italiano bravagente», già messo in discussione dai metodi barbari usati in Africa contro libici ed etiopi? .
Marco Guttadauro

l’Unità Lettere 11.9.08
Le insostenibili parole della destra
di Beppe Sebaste


Sono atti linguistici, ma sappiamo bene che in politica “dire è fare”. Il sindaco di Roma Alemanno ha dichiarato che le leggi razziali del 1938 (volute dal fascismo) sono “male”, il fascismo no. Poco dopo, il ministro della Difesa La Russa, a Porta San Paolo per ricordare il 65° anniversario della difesa di Roma dalle truppe di occupazione naziste, che fu anche l’avvio della Resistenza militare e partigiana, ha celebrato chi combatté dalla parte dei fascisti della Repubblica di Salò. «Farei un torto alla mia coscienza - ha detto - se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Rsi, soggettivamente dal loro punto di vista combatterono credendo nella difesa della patria (il corsivo è nostro) opponendosi allo sbarco degli angloamericani». Seguono farneticazioni sul guardare «con obiettività alla storia d’Italia».
Sono frasi sconvolgenti, e molti giornali hanno commentato come si deve queste dichiarazioni: con preoccupazione e sgomento. Aggiungo solo qualche osservazione a uso e consumo della mia parte politica (o forse dovrei dire “civile”).
Si noti l’uso giustificatorio della parola “patria” nelle frasi di Ignazio La Russa. Come se chi combatte per la “patria” sia comunque legittimato, compreso, perdonato (come i mercenari italiani in Iraq?). Il Presidente Napolitano ha ricordato che solo chi combatté contro la Repubblica Sociale di Salò e contro i nazisti furono eroi della patria: l’Italia nata dalla Resistenza. Eppure, ci sono certe parole che è meglio tralasciare - per esempio Patria - malgrado l’insistenza con cui il segretario del Pd fece usò in campagna elettorale dell’inno italiano, che sostituì ogni altra appartenenza ideale. Nell’era della globalizzazione, le idee politiche sono sovra-nazionali o non sono.
Per questo vorrei ricordare le parole di un diplomatico italiano con lunga esperienza all’Onu, specialista di “diplomazia preventiva” e di soluzione dei conflitti. Si chiama Roberto Toscano, e oltre che essere il nostro attuale ambasciatore a Teheran è autore di vari libri di etica e politica internazionale. La sua analisi della violenza di gruppo, fino alla legittimazione della guerra negli Stati che si esonerano dal giudizio etico e politico, mostra il legame con la logica narcisista e infausta dell’identità, come nello slogan patriottico americano My country, right or wrong (il mio Paese, giusto o sbagliato). Per misurarne gli effetti devastanti, scriveva Toscano, basta applicare la stessa pretesa di non applicabilità del giudizio ad altri codici e contesti: Il Mein Kampf di Hitler potrebbe avere come sottotitolo “la mia razza, a torto o a ragione”; la mafia potrebbe fregiarsi dell’iscrizione “la mia famiglia, a torto o a ragione”, e il comunismo totalitario di Stalin potrebbe sottoscrivere il proclama “il mio partito, a torto o a ragione”. Il giudizio politico, come il giudizio morale, occorre rivolgerlo anche alla propria parte, o patria.
Come già per una certa politica securitaria (ricordate le espulsioni dei Rumeni lo scorso novembre?) prolungata dalla destra italiana con ossessiva demagogia, xenofoba e razziale, certi temi, certe forme, certe intemperanze, bisogna lasciarle alla destra e non legittimarle. Mai. È una politica culturale e civile, prioritaria rispetto a ogni “riformismo”. Forse potrebbe essere proprio questo evidente neo-neofascismo della destra italiana - ormai composta di un unico partito, ironicamente definito “della liberta” - a far sì che il centrosinistra possa segnalarsi per una diversa visione del mondo, dei valori, della democrazia. Per un’opposizione, non per una concorrenza.

l’Unità 11.9.08
Nel Cile del dopo Pinochet i registi ombra pesano ancora
di Maurizio Chierici


Forse nessun giornale e nessuna tv ricorderanno l’altro 11 settembre: 35 anni fa a Santiago, dove moriva Salvador Allende travolto dal colpo di stato di Pinochet. Tremilatrecento persone sono state uccise dopo lo sfinimento della tortura. Quasi un milione di cileni hanno preso la strada dell’esilio. Per anni hanno rimpianto da lontano il sogno della democrazia che il piccolo presidente stava costruendo «dalla parte della gente non con la dittatura del popolo». Era un riformista, ecco perché veniva considerato pericoloso. La ragione resiste al tempo; la violenza degli scontri armati alla fine si esaurisce nella sconfitta. L’esempio di Allende poteva diventare devastante. E la Casa Bianca anni 70 si spaventava. Ha risolto con 12 milioni di dollari versati dall’amministrazione Nixon e distribuiti a rivoltosi e killer dal premio Nobel per la pace Henry Kissinger il quale ha preparato con cura colpo di stato e delitti eccellenti per eliminare i generali fedeli alla costituzione.
I documenti segreti resi trasparenti da Bill Clinton prima di lasciare Washington, raccontano la storia esemplare di un grande Paese terrorizzato non dal «comunismo» che a parte le marce cubane ha animato guerriglie perdenti ed élites latino americane, ma dall’idea di perdere potere nel sub continente dove gli Usa regnavano da quasi un secolo. È il timore che ha sconvolto il Cile, paese meno latino delle nazioni latine. Serviva una morte preventiva per raffreddare gli entusiasmi degli altri nazionalismi. Quasi un avviso mafioso. «I bastardi finiscono così»: Nixon batteva un pugno sul palmo dell’altra mano con la soddisfazione di chi ha strappato il dente malato. Lo ricorda l’ex ambasciatore americano a Santiago nel film-documentario di Patricio Guzmann proiettato nei circuiti alternativi. La tranquillità quasi mondana del dottor Kony, bella casa di campagna di un’amica, spiega tutte le storie dell’America inquieta. Nella real politik non c’è posto per i sentimenti. E Kony riferisce dell’incontro che ha deciso la decapitazione di Allende nello studio ovale. Era seduto tra Kissinger e il presidente. Ascoltava e riferisce come un contabile devoto. Non una piega di pietà nella sua voce. I sorrisi di un gentiluomo in pensione accompagnano parole educate ma terribili.
La fine di Allende è la ferita di una generazione che non ha smesso di celebrarlo; adesso comincia a stancarsi. Quanti quarantenni sono cresciuti nelle scuole che ne portano il nome? Sui banchi hanno saputo, ma la memoria svanisce e Allende non c’è quasi più. Tanti libri ad ogni anniversario ma per i 35 anni di nuove memorie ne è uscito appena uno. Bellissimo. «Luis», di Luis Munoz, editore Baldini Castoldi Dalai. Diario di un uomo costretto all’esilio dopo aver visto uccidere la compagna ed aver controllato umiliazioni e dolore sotto tortura. Non parlava, non si arrendeva. Ma davanti alla figlia piccola, ammanettata e stesa nuda su tavolaccio gli è mancato il coraggio. «Se tu resisti cominciamo con lei». Ed ha tradito. Si è rifatto una vita a Londra senza rivedere per 30 anni le due bambine diventate donne con bambini. Ma si è imposto di tornare a casa per accusare in tribunale gli assassini dell’amore perduto e chi lo aveva inchiodato col terribile ricatto. Faccia a faccia davanti colonnello che dava ordini e agli altri che sparavano. Rabbia e dolore e quel tormento per aver lasciato morire i compagni coi quali divideva le speranze.
Questo è il Cile di un passato non proprio finito. Se gli eredi dei fascisti in Italia difendono il fascismo, nel Cile dove nessuno alza la voce e la malinconia accompagna la discrezione delle forme, il voto a volte non basta. Quel voto che ha mandato sulla poltrona di Allende Michelle Bachelet quando l’America Latina è cambiata per la distrazione dell’amministrazione Bush. Bandiere rosa e bandiere rosse annunciano democrazie a volte complicate, e un controllo delle risorse in grado di resistere alle pressioni delle multinazionali. Almeno, per il momento.
Michelle torturata perché figlia di un generale d’aviazione fedele ad Allende. Il suo cuore si è arreso ai ferri dei carcerieri. Michelle che per ricominciare la vita ha girato il mondo. Torna appena Pinochet declina. Fa politica coi socialisti, diventa ministra della difesa nel continente dei generali. Un po’ delle alte uniformi che l’avevano perseguitata sono costrette a giurarle fedeltà: fedeltà al ministro, fedeltà al capo dello stato. Insomma, il Cile volta pagina ma senza ripulire gli angoli sporchi dell’alta borghesia. Tre anni dopo il trionfo, chi ha votato Bachelet si chiede se davvero è cambiato qualcosa o se le tragiche disuguaglianze sociali formalizzate dalla dittatura per conto degli impresari che continuano a far ballare i politici, sono solo un brutto ricordo. Se davvero la fatica del vivere della gente qualsiasi è addolcita dalle nuove regole per le quali la Bachelet sta lottando in un paese dai bilanci prosperi, management che incanta Wall Street e la borsa di Tokyo. Purtroppo la Bachelet, come ogni altro presidente della democrazia ritrovata, è prigioniera di interessi che non le consentono di trasformare l’infelicità nella speranza. La vecchia rete lega le mani di una transizione ormai più lunga della dittatura. Patricia Verdugo, giornalista e scrittrice che ha sfidato i militari ed è stata emarginata fino all’ultimo respiro (morta dieci mesi fa) da un establishment che non intende ridiscutere un solo privilegio; la Verdugo, raccontava nei libri e nelle chiacchiere con noi amici quando andavamo a trovarla per capire l’immobilità della società più moderna del continente; raccontava che ogni legge o progetto deve essere approvato dalla grande economia prima di arrivare sui banchi del parlamento. Tutto è deciso prima che la politica metta il naso. Ammorbidita la volgarità di Pinochet, la sostanza non cambia. Scuole sempre più private. Prosperano le università Cattoliche, di gran moda l’università delle Ande, Opus Dei, e poi laiche e massoniche ( portacenere e t-shirts con triangoli e compassi ). La classe dirigente che coltiva ambizioni può studiare solo lì. Difficile far carriera se la laurea è pubblica. E dalla laurea si scende ai licei: il privato garantisce il futuro negato alle scuole di stato. Ma bisogna pagare e col 36% della popolazione che tira la cinghia malgrado il trionfo di esportazioni e affari, e il 20% che suda la fine del mese, gli emarginati sono sempre gli stessi. E le poltrone e i privilegi passano di padre in figlio. Ecco le rivolte dei «pinguini», bianco e nero delle divise degli studenti. Cariche di polizia, ragazzi in galera o bastonati. Sindacati in allarme perché i conti non tornano.
Spariscono i letti dagli ospedali pubblici; si allungano i letti nelle cliniche private. E la povera Bachelet che con la laurea in medicina aveva provato a trasformare la sanità, rincorre promesse che non può esaudire. Ogni sera radio e Tv dalle proprietà cresciute con Pinochet, e ogni mattina tutti i giornali (meno La Nacion la cui distribuzione non raggiunge la periferia di Santiago) la tengono d’occhio, buone maniere cilene subito dimenticate appena la signora presidente si avvicina troppo alla gente. E la popolarità si assottiglia. E la perplessità si allarga. Bachelet che sostituisce 9 ministri; Bachelet alla cui spalle si affaccia chi ne prenderà il posto a fine mandato: Soledad Alvear, sinistra della democrazia cristiana, l’altra donna della Concertazione socialisti-Dc. Con un passato da ministro degli esteri viene annunciata da un partito i cui contorni si sono spesso confusi con i soliti interessi. Il carattere di una signora che non si arrende dovrà fare gli stessi conti della Bachelet perché i registi ombra del paese non hanno cambiato nome.
Non ci sta Gonzalo Meza Allende, figlio di Isabel (presidente della Camera dei deputati), nipote di Salvador Allende. Alla vigilia del voto che a ottobre sceglierà il sindaco di Santiago e tutti i sindaci del paese, annuncia un libro nel quale critica il modello cileno. Racconta la delusione davanti al governi di prima e ai governi che verranno: «Bisogna dar forza a questo tipo di democrazia altrimenti non cambia niente».
Jaqueline, figlia minore di Pinochet, si candida a sindaco della capitale dove vive quasi metà della popolazione cilena. Non si illude di vincere, ma di contare i voti di chi non ha cambiato idea. Anche lei vuole ricominciare. 35 anni dopo il Cile riparte così.

l’Unità 11.9.08
Il golpe cileno. Così l’Argentina studiò Pinochet
di Enrico Calamai


I colpi di Stato avevano caratterizzato la storia degli stati latinoamericani nel corso di tutto il novecento, ma l’alba dell’11 settembre 1973 annuncia qualcosa di radicalmente nuovo a Santiago del Cile.
Non più lo scambio frenetico di telefonate tra militari golpisti e filogovernativi, per fare la conta delle divisioni di cui ciascuno dispone e negoziare l’indolore uscita di scena del bando più debole.
Per togliere di mezzo un governo eletto democraticamente e che gode dell’appoggio maggioritario di una popolazione fortemente politicizzata, ci vorrà un bagno di sangue.
soffocare sul nascere qualunque tentativo di resistenza. Poi seguiranno le epurazioni di massa, la decapitazione di partiti e sindacati, l’eliminazione dei militanti di base dell’Unidad Popular.
La mattina dell’11 settembre, Santiago viene presa d’assalto dalle forze militari congiunte, al comando del generale Augusto Pinochet. Ma le immagini in bianco e nero del bombardamento del Palazzo presidenziale in cui Allende resiste asserragliato fino alla morte, dei carri armati nelle strade, degli stadi che si riempiono di detenuti, dei giardini delle ambasciate affollati da rifugiati alla disperata ricerca di una via di fuga, non si limiteranno a paralizzare il popolo cileno e a portare i militari al potere. Faranno il giro del mondo, entreranno in tutte le case, susciteranno reazioni di sdegno e unanime condanna nelle opinioni pubbliche dell’occidente democratico. In un sistema mediatico mondiale ormai integrato, l’uso della forza o, meglio, la sua percezione diffusa, si rivolterà contro il generale Pinochet che a livello nazionale riuscirà sì, in poche ore, a impadronirsi del Cile, ma a livello internazionale resterà condannato all’ostracismo come un medioevale vescovo lebbroso.
Il punto, in effetti, è mediatico. L’imponente reazione internazionale ai fatti di Santiago sembra confermare la forza della televisione che, mostrando in tutto il mondo gli orrori della guerra in Vietnam, ha plasmato un movimento di opinione pubblica capace di far arretrare il colosso americano di fronte alla resistenza di una piccola nazione asiatica. Si crede, in fondo, che la capacità di mobilitazione dimostrata dalla rappresentazione della violenza impedirà d’ora in poi agli Stati democratici di farvi ricorso.
È un po’ fare i conti senza la proteiforme adattabilità del potere, senza la sua capacità di penetrazione e manipolazione in qualunque ambito della vita collettiva, per quanto nuovo o innovativo esso possa apparire. Sono, per intenderci, gli anni della P2 e del suo diffondersi nel sistema mediatico, sia della carta stampata che della televisione pubblica e privata, fenomeno, quest’ultimo, che sempre più acquista importanza nel fare informazione e tendenza, a partire da quegli anni.
Ma torniamo all’America Latina, quel cortile di casa in cui gli Usa fanno affidamento sulle forze armate dei singoli Paesi, al fine di prevenire l’affermarsi di movimenti democratici o di spazzarli via nel caso riescano ad affermarsi, come successo ad Allende.
Tre anni dopo il Cile, toccherà all’Argentina. Anche questa volta sarà necessario ripulire a fondo la società, sradicare una volta per tutte il cancro del comunismo e della teologia della liberazione, zittire i sindacati ed eliminare qualunque possibile oppositore presente o futuro, decimare gli elementi migliori di una generosa generazione di giovani decisi a imprimere una svolta democratica al loro Paese. Ma i militari argentini dimostreranno di aver fatto tesoro degli errori del collega Pinochet.
Il 24 marzo 1976, quando il generale Videla prende il potere, Buenos Aires rimane una città tranquilla. Niente carri armati per le strade, qualche posto di blocco, ma niente sacche di resistenza. Niente stadi pieni di detenuti o ambasciate piene di rifugiati. I militari sfilano davanti alla tv, ma questo fa parte del folklore e, caso mai, tranquillizza. I vescovi sono lì a benedire. Uffici e negozi sono aperti, il traffico è quello di tutti i giorni, i ristoranti non tarderanno a riempirsi e così pure cinema e teatro. Fotografi e cameraman provenienti da tutto il mondo se ne andranno senza aver trovato nulla di nuovo per l’opinione pubblica occidentale.
La realtà è diversa, ovviamente. Tutto accade di notte, con gruppi di uomini in borghese che all’improvviso arrivano da macchine e camion senza targa, fanno irruzione in una casa, afferrano un giovane, lo portano in uno dei tanti campi di concentramento clandestini, iniziano immediatamente a torturarlo per strappargli quanti più nomi possibile, perché alla tortura nessuno resiste, perfino nomi di chi con la politica non ha nulla a che vedere, e ripartire di corsa, espandendo a macchia d’olio una caccia all’uomo invisibile e, quindi, non rappresentabile.
Avevano pensato a tutti i problemi logistici dell’immane operazione, i militari. Soprattutto a come liberare i campi dai detenuti dopo che è stata loro estorta tutta l’informazione, e far posto ai nuovi arrivi.
Se nel golpe di Pinochet tutti vedono tutto, in quello di Videla tutto si basa sulla desaparición. Ci vorranno anni prima che si riesca a capire che fine avevano fatto i giovani di colpo portati via alla famiglia. Ci vorranno anni prima che i familiari riescano semplicemente a pensare - molti non ci riusciranno mai - che quei 30.000 giovani sono stati doppiamente uccisi perché fatti sparire. E questo perché in un sistema mediatico mondiale ormai prevalentemente iconografico, tutto ciò che esiste viene rappresentato e, inversamente, ciò che non viene rappresentato non esiste. Perché non ci poteva essere violenza, se le televisioni non mostravano cadaveri nelle strade di Buenos Aires. Perché se le televisioni mostravano una città tranquilla, la città era tranquilla. Perché la società si sgretola nelle sue cellule famigliari, ma riesce ad assorbire ciò che è troppo destabilizzante, se appena può deresponsabilizzarsene, non vedendolo.
Inutile dire, per concludere, che i governi occidentali non potevano non sapere. Ma erano tutti interessati ad evitare il ripetersi dei problemi che si erano verificati nei rapporti col Cile di Pinochet. Tanto più, data la ricchezza e le risorse naturali dell’Argentina che i militari stavano aprendo al liberismo internazionale, agli animal spirits delle multinazionali, al saccheggio di uno stato diventato un enorme campo di concentramento, in cui il terrore avrebbe spento ogni capacità di reagire per almeno una generazione. E anche i governi occidentali preferirono guardare da un’altra parte, lasciando mano libera ai militari argentini che poterono portare a termine, in tutta tranquillità, quello che oggi viene concordemente definito come un genocidio. Un genocidio perfetto, perché invisibile e indimostrabile, negabile e negato. I cui responsabili argentini soltanto adesso, trentacinque anni dopo, cominciano ad affrontare la giustizia. Ma le cui collusioni a livello internazionale, anche in Italia, rimangono ancora tutte da studiare.

l’Unità 11.9.08
Eluana, un nuovo stop dai giudici di Milano
Il sostituto procuratore Pezza chiede di sospendere il decreto. Entusiasti il Pdl e la Binetti


Nuovo stop alla vicenda di Eluana Englaro: il sostituto procuratore generale di Milano Maria Antonietta Pezza ha infatti firmato la richiesta di sospensiva della esecutività del decreto con cui i giudici della prima sezione civile della Corte d’Appello, lo scorso 9 luglio, hanno autorizzato il padre di Eluana, la donna di Lecco in coma da oltre 16 anni, a interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiali che la tengono in vita. Un nuovo capitolo in questa complessa vicenda che si sta giocando, sempre di più, a colpi di sentenze.
E sempre ieri i legali della famiglia Englaro hanno notificato il controricorso in Cassazione con il quale si sostiene infondato e inammissibile il ricorso presentato dal Pg Pezza alla Suprema Corte contro lo stesso provvedimento dei giudici della Corte d’Appello civile. La richiesta di sospensiva, nei prossimi giorni, sarà esaminata dal presidente di turno della sezione feriale Roberto Pallini, che molto probabilmente rimetterà la decisione alla prima sezione civile della Corte d’Appello, però a un collegio diverso da quello che il 9 luglio ha dato l’autorizzazione a interrompere il trattamento vitale a Eluana. Una decisione, quella del Pg di Milano, alla quale plaude il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella: «Si conferma quello che ho sempre sottolineato in questi mesi, ovvero che quel provvedimento non poteva essere eseguito in assenza di una sentenza definitiva». La sospensiva, dice Roccella, «evita così di trasformare il caso Englaro in un gravissimo precedente giudiziario: Eluana rischiava di essere staccata dal sondino che la nutre e la idrata, e quindi di morire, prima di aver ottenuto una sentenza certa e definitiva».
Plaudono alla mossa del Pg anche gli esponenti del Pdl: «Quel provvedimento non poteva essere eseguito per nessun motivo, in quanto nessun giudice può ordinare un’eutanasia per sentenza», incalza Enrico La Loggia, mentre per Isabella Bertolini con la sospensiva si evita la «condanna a morte» di Eluana, e per Gaetano Quagliariello la richiesta di sospensiva è «uno stimolo ulteriore al Parlamento a legiferare sulla materia» del fine vita «senza perdere altro tempo prezioso». Un giudizio positivo sulla decisione del Pg arriva anche dalle parlamentari del Pd Paola Binetti ed Emanuela Baio, le quali auspicano che questo sia il punto di partenza per un dibattito sul Testamento biologico. Camera e Senato, sottolineano, «si sono impegnate a fare una legge in tempi relativamente brevi, anche se riuscirci entro il 2008 appare assai improbabile. Ma deve trattarsi di una legge - precisano - che riguardi le cure di fine vita, che tenendo conto di questa sospensiva rappresenti un’ulteriore opportunità per riaffermare come nutrizione ed idratazione non possono essere sospese».
Dal presidente del gruppo Pd al Senato Anna Finocchiaro, invece, un duro richiamo: «Credo che serva maggiore responsabilità da parte di tutti e mi stupisce che da destra esultino anche oggi per quello che sta avvenendo a Milano. Io credo che invece di esultare sia necessario lavorare al più presto perchè in Parlamento si approvi una legge sul testamento biologico».

Corriere della Sera 11.9.08
Scienza e pensiero. Il Cosmo visto con gli occhi di Spinoza
Le scimmie intelligenti alla scoperta dell'universo
di Giulio Giorello


«La scimmia senza sforzo diventò uomo, che un po' più tardi disgregò l'atomo». Così Raymond Queneau nel 1950. Ma qualche scimmia un po' più intelligente è andata oltre, scoprendo tutto uno zoo di particelle elementari che, nella loro piccolezza, dovrebbero spiegare l'origine del grande Universo!
I fisici non si sono accontentati, però, di studiare le interazioni fondamentali che fanno sì che il mondo sia quello che è: sono alla ricerca, con una passione intellettuale degna di Spinoza, della Grande Unificazione per cui nelle condizioni primordiali del Cosmo tutte le forze erano una sola.
Il tassello mancante è la massa (detto in breve, la materia), in quanto le teorie correnti non spiegano perché certe particelle sono molto più massive di altre. Queste differenze potrebbero venir spiegate introducendo, un nuovo campo in cui sarebbe immerso, come in un grande oceano, l'intero Universo; le particelle che «nuotano in questo mare » acquistano apparentemente massa, un po' come i corpi immersi nell'acqua sembrano acquisire inerzia, e tutto dipende dall'intensità di tale interazione. Speculazioni… non molto diverse da quelle di Newton, che immaginava che il corpo di Dio pervadesse il Tutto! Ma adesso possono essere controllate: come i campi elettromagnetici sono format i da fotoni (i «quanti di luce» di Einstein), così i campi di Higgs sarebbero formati da particelle battezzate «bosoni di Higgs »; e queste potrebbero venire osservate nei detriti delle collisioni prodotte appunto dall'Lhc. Se le cose andassero così, l'evento sarebbe festeggiato da grandissima parte della comunità scientifica. Stephen Hawking spera invece che l'impresa non riesca. Come Pascal, è pronto a scommettere sulla capacità della natura di sorprenderci; come Popper, è convinto che impariamo soprattutto dalle sconfitte.
Poiché si tratta di tecnologie ipersofisticate, l'impresa porterà comunque a importanti ricadute, anche a costo di qualche timore che compaia un «buco nero » che ci inghiotta tutti. Ma credo che per l'ennesima volta i profeti di sventura dovranno ammettere che l'Apocalisse è rimandata… «a data da destinarsi».

Corriere della Sera 11.9.08
Quell'Etica di Spinoza che ci avvicina a Dio
di Armando Torno


EMANUELA SCRIBANO, Guida alla lettura dell'Etica di Spinoza, LATERZA PP. 200, e 16

L’Etica di Spinoza all'inizio era chiamata genericamente «filosofia », perché la comprendeva tutta. Oggi a noi appare come un sistema metafisico. Fu concepita seguendo il modello degli Elementi di Euclide, con definizioni, assiomi, proposizioni (teoremi), corollari e scolii; venne scritta tra il 1661 e il 1665, poi rielaborata tra il 1670 e il 1675. Il suo centro è il concetto di «sostanza» — per Spinoza coincide con Dio — che è infinita, con infiniti attributi, e unica. Di questi attributi conosciamo pensiero ed estensione: le cose del mondo, corpi e anime, sono solo «modi» o determinazioni particolari di essi.
In Italia circolano almeno sei traduzioni dell'Etica, oltre quella compresa nel pregevole Meridiano Mondadori — curato da Filippo Mignini — delle Opere
(non ci sono tutte, mancano l'intraducibile Grammatica ebraica e i frammenti sul calcolo delle probabilità e sull'arcobaleno); né scarseggiano introduzioni o sinossi. Ora vede la luce una Guida alla lettura dell'Etica di Spinoza di Emanuela Scribano: merita la palma ed è degna di attenzione sia per la competenza di questa studiosa, sia per l'analisi che ha condotto. Utilizzando il testo curato da Emilia Giancotti (Editori Riuniti), che segnala sistematicamente le varianti della traduzione dal latino in nederlandese, fatta dagli amici alla morte del filosofo, la Scribano entra nei dettagli delle cinque parti dell'Etica e ne ricostruisce la fortuna. È un libro utile e pratico.
Armando Torno

l’Unità 11.9.08
Sinistra. In piazza l’11 ottobre. Ci sarà Ingrao


ROMA Pietro Ingrao, Fausto Bertinotti, Nichi Vendola, il regista Mario Monicelli. Sono alcuni dei personaggi che hanno firmato l’appello «alle forze politiche in cui si chiede di mobilitarsi affinchè l’11 ottobre la Sinistra scenda in piazza contro il governo Berlusconi». Hanno aderito anche esponenti della Sinistra Democratica (come Leoni e Grandi), della maggioranza di Rifondazione come Ramon Mantovani ma anche della componente vendoliana che ha seguito il suo leader nell’adesione. E poi ci sono le firme di Vittorio Agnoletto, Paolo Cacciari, Pietro Folena, Don Gallo, Heidi Giuliani, Margherita Hack, Citto Maselli, Lidia Menapace, Gianni Minà, Andrea Occhipinti. L’appello, inizialmente proposto dal Movimento per la Sinistra (che raccoglie associazioni tra cui l’ARS di Tortorella, Uniti a Sinistra di Folena e Socialismo XXI) e dal laboratorio fiorentino ’per la sinistra unita e pluralè di Paul Ginsborg, ha raccolto molte firme di personaggi pubblici ed oggi è comparso su «Liberazione». L’appello è rivolto «a tutte le forze politiche, sociali e culturali della sinistra e chiedendo a ognuna di esse di concorrere a un`iniziativa che non sia di una parte sola» ha già raccolto, si sottolinea in una nota, il placet del segretario del Prc Ferrero. Salari, disarmo, scuola e sanità pubbliche, vertenze territoriali (Ponte di Messina, TAV, Vicenza), difesa della contrattazione collettiva, laicità, democrazia, giustizia uguale per tutti, libertà e pluralismo nella comunicazione, no al nucleare sono i punti forti di una vera e propria piattaforma avanzata all’attenzione dei partiti della Sinistra. Un documento, insomma, per una «opposizione efficace» a partire dalle piazze.

l’Unità Roma 11.9.08
La Notte bianca cacciata dalla porta
rientra dalle finestre dei municipi
di Luca Del Fra


Tradizione popolare antica, rielaborata nel gran calderone culturale della postmodernità, la Notte bianca a partire dagli anni ‘90 è dilagata da Berlino a Parigi, da Roma a Riga, da Bruxelles a Madrid. Quella romana è stata scelta dalla giunta di Gianni Alemanno come simbolica vittima sacrificale tra le iniziative promosse in prima persona dalla precedente amministrazione capitolina guidata da Walter Veltroni.
Con la motivazione del poco tempo a disposizione e della mancanza di fondi era stata cancellata: cacciata dalla porta sembra voler a tutti i costi rientrare dalla finestra per iniziativa dei municipi che oggi presenteranno la loro di Notte bianca, in calendario tra sabato e domenica prossima.
«Abbiamo puntato sulla Notte bianca - spiega Ivano Caradonna presidente del V municipio dove si terranno alcune manifestazioni - perché credo rappresentasse e debba continuare a rappresentare un momento di libertà: la gente umile o ricca si trovava ad attraversare Roma senza doversi preoccupare delle macchine, e magari anche fare tante file insieme per assistere a un evento o visitare un monumento. Era un modo per la comunità di incontrarsi per davvero».
Mutato il contesto politico dopo le ultime amministrative, come cambia la Notte bianca? «Le scelte politiche della attuale giunta, soprattutto quelle che non condividiamo come questa sulla Notte bianca, obbligano i municipi a crescere diventando, come dovrebbe essere, piccole città metropolitane. Allo stesso tempo è anche una spinta al territorio a diventare protagonista».
Ascanio Celestini dice: «La Notte bianca di Veltroni era calata dall'alto come la Notte futurista di Umberto Croppi»,l’attuale Assessore alla cultura del comune. E poi Celestini chiede anche agli amministratori di «non pensare alle proprie idee ma andare vedere cosa sta succedendo. È un insegnamento facile facile. Loro stanno lì e discutono del sapore del caffè ma non lo bevono mai. Dovrebbero assaggiarlo e conoscerne il sapore».
«È la direzione in cui ci stiamo movendo - continua Caradonna -: nel V municipio un centro anziani ha organizzato un concerto, i centri sportivi mettono a disposizione le loro strutture».
Insomma, pur mantenendo l’etichetta, l’idea è puntare a qualcosa di diverso, a una nuova Notte bianca? «Non può essere diversamente - conclude Caradonna -: pur rimanendo una iniziativa valida per incentivare il turismo la Notte bianca deve trasformarsi a onore e onere dei territori dove si svolge».

il Riformista 11.9.08
Un ministro al fronte «Spendiamo troppo e male»
«Veltroni non mi spaventa, il '68 ha combinato guai, la scuola italiana non va e noi la cambieremo nel profondo»
Da Bossi a Veltroni, replica agli attacchi: «Non licenzio nessuno, più soldi a chi merita».
intervista di Antonio Polito


«Intendo restare cinque anni in questo ministero»: dal dicastero dell'Istruzione Mariastella Gelmini non si fa intimorire dalle critiche che le arrivano dal Pd come dalla Lega. E rilancia. Sugli insegnanti assicurando che il personale di ruolo non sarà toccato, sui precari spiegando che il suo obiettivo è «commisurare le risorse alla realtà» per non creare nuove sacche d'insicurezza.
E la scuola? La Gelmini punta sull'autonomia: «Le scuole devono trasformarsi in fondazioni e poter scegliere i propri professori». Nessun attrito con Umberto Bossi, vittima di un fraintendimento, un vero idillio con Silvio Berlusconi. Walter Veltroni la sua vera delusione: «La sua campagna elettorale era fondata su cambiamento e riformismo. Ora non riesco a distinguere le sue posizioni da quelle di Rifondazione».
Il ministro conferma che la spesa scolastica è fuori controllo perché il 97% delle risorse se ne va per pagare gli stipendi. E punta il dito contro il '68, che «ha portato il valore positivo della partecipazione», ma anche «il buonismo e l'appiattimento verso il basso che fa restare i talenti al palo».


Avviso ai naviganti: non sottovalutate la Gelmini. È una tosta, una bresciana senza fronzoli, una donna severa, abbottonata fino all'ultimo bottone della camicia, rigorosamente in nero. Se ne è accorto Bossi, che ha tentato di beccarla e si è beccato una rispostaccia. E credo che se ne accorgerà anche Veltroni, che l'ha chiaramente scelta come l'anello debole del governo, e sta imbastendo sulla scuola la sua campagna di inverno. Nell'immenso salone del ministero quasi sparisce un po', minuta com'è. Si vede che soffre la Roma politica, con le sue torme di cronisti affamati che la trascinano in dichiarazioni sugli insegnanti del sud o sui precari da occupare nel turismo, frasi che lei giura di non aver neppure pensato. Ma è giovane, impara in fretta, e soprattutto non molla.
Ministro, ma la scuola italiana è davvero il disastro che emerge dal rapporto dell'Ocse?
«Non c'è confronto internazionale che non ci dica che le cose vanno male. Per quello che spendiamo, i risultati sono scarsi. Dunque, o arriva qualcuno che ci regala risorse che non ci sono o devo usare meglio le risorse che ho. Nel 1999 l'Italia spendeva per l'istruzione 33 miliardi di euro. Nel 2008 quasi 43. Un aumento del 30%. Devo dare ragione a Tremonti: la spesa per istruzione è fuori controllo. E quando il 97% per cento delle risorse se ne vanno in stipendi, cosa resta per migliorare il prodotto, chiaramente inadeguato alla società della conoscenza e alla competitività del paese?»
Per questo vuole licenziare 87mila insegnanti?
«Che demagogia. Guardi che neanche un insegnante di ruolo verrà licenziato. Io devo solo dire quante cattedre serviranno tra tre anni, e se le lasciassi crescere al ritmo attuale allora sì che sarebbero 87mila in più. Ho il dovere di dire a chi aspetta in graduatoria che aspetterà a lungo. Ho il dovere di dire ai precari della scuola la verità. La sinistra si preoccupa così tanto dei precari che ne fa sempre di nuovi. Noi invece commisuriamo le risorse alla realtà e così non creiamo nuovi precari».
Veltroni dice che così chiuderanno le scuole nei piccoli comuni.
«Assolutamente falso. In un piccolo comune isolato, dove ci sono otto-dieci bambini in classe, quella classe resterà, perché altrimenti li costringeremmo a viaggiare, e forse costerebbe anche di più. Ma in pianura padana, se ci sono tre plessi semivuoti vicini con tre direttori, che c'è di male ad accorpare?».
Anche il ritorno al maestro unico deriva da motivi di cassa?
«No. Innanzitutto è una scelta pedagogica. I bambini devono passare dalla mamma a una persona che sia in grado di stabilire una continuità e un legame affettivo, che conosca il bambino e lo tratti come una persona. Poi, certo, c'è anche un'esigenza economica».
Ce l'hanno tutti con lei: Bossi, Veltroni...
«Con Bossi c'è stata un'incomprensione. Non si ripeterà. Mi è umanamente molto simpatico, oltretutto. Lui si preoccupa che se i maestri sono tre, la speranza che uno sia bravo è maggiore. Lo capisco. Ma non è contro il maestro unico. Gli ho risposto in modo un po' sanguigno, io sono fatta così. Forse avrei dovuto telefonargli prima. Veltroni? Mi sta deludendo. Ha fatto la campagna elettorale sul cambiamento e sul riformismo. Ora invece difende posizioni di trent'anni fa, nelle quali non vedo la differenza con Rifondazione. Mi deve dire una cosa: la scuola serve a creare occupazione o a produrre educazione per i nostri ragazzi? Va bene così com'è o deve cambiare? Sulla scuola il Pd si gioca molto della sua capacità di innovazione. E il clima nel paese è cambiato. Appena qualche anno fa un Brunetta non avrebbe avuto la popolarità che ha oggi. La gente, soprattutto i giovani, sta con chi vuole cambiare».
E lei è giovane...
«Certo. Per l'età che ho sono più portata a preoccuparmi del futuro. E come me la piccola squadra di giovani che Berlusconi con coraggio ha portato al governo, gente con cui mi intendo come Alfano, Fitto, la Carfagna. Chi ha cinquant'anni rischia meno, chi rischia oggi sono i giovani. Se Veltroni ha deciso di prendersela con me, sappia che non mi spaventa».
Ritorno del voto, voto di condotta, grembiule. Pensa di curare così i mali della scuola?
«Ovviamente no. Sono indicazioni simboliche, ma che servono a dire una cosa: bisogna tornare all'ordine, al decoro, al rispetto degli altri. È la base, se non si comincia da lì non si cambia niente. Ma certo non basta. La grande idea è ridare senso e identità alla scuola italiana. Concentrarsi sui fondamentali: italiano, matematica, lingue straniere»
Come?
«Dando la più ampia autonomia possibile agli istituti. Penso che le scuole debbano trasformarsi in fondazioni, in cui entrino gli enti locali, che debbano poter reclutare gli insegnanti a chiamata da una lista di abilitati, con una parte di stipendio fisso e una variabile. Penso che le scuole debbano essere valutate, come succede all'estero, e che chi lavora bene debba ricevere di più. È stata dura, ma nella finanziaria ho ottenuto che il 30% delle risorse risparmiate siano utilizzate per premiare il merito».
Dica la verità, lei è tra quelli che pensano che la colpa è del '68.
«Ha avuto grandi responsabilità. Ha portato un valore positivo, quello della partecipazione. Ma anche uno negativo: il buonismo, l'appiattimento verso il basso, un finto egualitarismo in cui chi ha talento resta al palo. In Italia l'ascensore sociale si è bloccato. E la scuola, questo è il problema, non aiuta più i meritevoli a salire».
A proposito di merito: lei ha passato l'esame da avvocato in Calabria, invece che a Milano...
«Io sono fiera del mio percorso scolastico: cinquanta alla maturità classica, cento alla laurea a Brescia. Poi dovevo fare l'avvocato, la mia famiglia spingeva perché lavorassi presto. A differenza di Veltroni, ne avevo bisogno. Che senso aveva perdere anni in concorsi dove l'esperienza mi diceva che passavano solo i figli di avvocati? Veltroni difende per caso gli ordini professionali? Pensa che sia lì che si valuta il merito delle persone?».
Berlusconi la protegge come una chioccia, anche da Bossi. Si consulta spesso con lui?
«Berlusconi è l'unica ragione del mio impegno in politica. Io non sono un ex. Il mio primo partito, se così si può chiamare, è stato Forza Italia. Il premier cerco di non disturbarlo, ha già tanto da fare. Lo chiamo su questioni strategiche, per esempio l'ho avvisato prima delle decisioni sui voti e sul grembiule. Mi ha detto di andare avanti e a giudicare dai sondaggi aveva ragione. Per il resto non sto lì a lamentarmi. Preferisco risolvermi da me le grane».
Chiama Letta, mi dicono...
«E chi non chiama Letta? Letta è un Mozart, conosce le leggi dell'armonia. È sempre lì. E risponde sempre».
È vero che vuol fare il governatore della Lombardia e per questo Bossi la pizzica?
«Non è vero, non ne ho mai parlato con nessuno, è una notizia che destituisco di ogni fondamento. Poi in Lombardia abbiamo già il migliore: Formigoni. Ciò non vuol dire che quando lui lascerà la carica debba per forza passare alla Lega. Il Pdl è forte al Sud ma anche al Nord, e nessuna forza politica delega ad altri la propria rappresentanza. Con la Lega c'è una sana competizione. Per quanto mi riguarda, intendo restare cinque anni in questo ministero».
Sicura, ministro? Questo ministero può far impazzire un santo.
«Io ci provo. La terrò informata. Intanto mi dà qualche consiglio? Secondo lei...»


il Riformista 11.9.08
Non solo grembiulini. Ora serve la fase due
di Mario Ricciardi


Maria Stella Gelmini non vorrebbe essere altrove. Anche se è seduta su una delle poltrone meno confortevoli della politica italiana, il ministro della pubblica istruzione non ha alcuna intenzione di farsi spaventare dalle contestazioni che hanno accompagnato l'apertura dell'anno scolastico, e ancor meno da quelle che si annunciano. Non è difficile immaginare che andiamo incontro a un autunno caldo per la scuola e per l'università italiane, ma a viale Trastevere c'è un'atmosfera serena. La Gelmini appare sicura del consenso di larga parte degli italiani sui primi interventi che ha proposto in materia di scuola. Qualcuno l'ha bollato come un ritorno al passato, ma è evidente che a lei questa scuola che recupera la propria missione e restituisce importanza ai ruoli piace. Un voto espresso in numeri si capisce meglio, non lascia troppo spazio alle interpretazioni. Un sette in condotta ha conseguenze precise, che non si lasciano sfumare forzando un po' i confini del senso. Nel colloquio che abbiamo avuto, il ministro non si limita a difendere queste iniziative, ma rilancia spiegando che questi primi interventi - e gli altri annunciati in questi giorni - non sono iniziative isolate. C'è un progetto sullo sfondo, ed è quello di ritornare al compito essenziale della scuola, ciò che ne giustifica l'esistenza come istituzione che ha uno speciale rilievo pubblico, che è la "formazione". Mettere a disposizione di chi la frequenta gli strumenti per farsi strada nella vita.
La crisi grave della scuola italiana, confermata dal rapporto Ocse pubblicato il nove settembre, è la conseguenza di un lungo periodo di disattenzione pubblica per questi temi, e di quella cultura antimeritocratica che, secondo il ministro, si è diffusa soprattutto dopo la fine degli anni sessanta. Quando accenna ai guasti prodotti dal sessantotto il suo tono di voce cambia in modo percettibile. Non parla più con la misura che ha caratterizzato fino a ora buona parte dei suoi interventi pubblici, ma diventa più personale, quasi si infervora quando dice che "la sua generazione" ha pagato i costi del degrado della pubblica istruzione italiana. C'è una curiosa ironia in questa trentenne che - inconsapevolemente? - riprende un'espressione che evoca una ribellione generazionale, la "my generation" degli Who, per usarla contro gli eredi politici di quella stagione. Forse non è la Thatcher, ma l'avvocatessa bresciana che critica Veltroni perché difende le corporazioni ha in mente un programma che potrebbe trasformare profondamente il sistema dell'educazione in questo paese. Tuttavia, per il momento, gli interventi sono orientati piuttosto a una riorganizzazione della spesa per un migliore utilizzo delle risorse. Non è vero, dice il ministro, che gli insegnanti in eccesso verranno licenziati o destinati ad altre attività (in questi giorni era circolata la voce che alcuni potessero essere impiegati come "operatori turistici"). Non ci saranno gli 86mila licenziamenti per cui alcuni genitori hanno accompagnato i figli a scuola indossando una fascia nera in segno di lutto. Semmai la prospettiva indicata dal ministro è di fare un approfondito esame delle necessità reali della scuola per modulare in futuro le assunzioni sulla base delle esigenze effettive, perché "la scuola non ha il compito di combattere la disoccupazione".
Certo è difficile immaginare che ciò possa avvenire senza intervenire anche sul fronte del reclutamento e della valutazione degli insegnanti e delle scuole. La Gelmini ne è consapevole, e infatti riprende uno dei temi che le sono più cari, quello della promozione del merito. Anzi ci confida un sogno che spera presto si trasformi in realtà: un sistema di valutazione pubblico - cui stanno già lavorando gli esperti dell'Ivalsi - che metta a disposizione di ciascuno on-line i dati relativi a tutte le scuole italiane. Come insegna l'esperienza britannica, la valutazione non è soltanto uno strumento indispensabile per gli utenti. Avere a disposizione dati affidabili serve anche ai responsabili locali delle scuole per fare le proprie scelte in modo oculato quando devono selezionare i propri collaboratori. Qui il "sogno" della Gelmini lascia intravedere un cambiamento radicale in senso liberale della scuola italiana. L'autonomia gestionale si accompagna a quella nel reclutamento sulla base di liste nazionali di idonei. Se ne era già parlato nelle prime settimane di governo, ma poi il tema era passato in secondo piano. Tuttavia, a quanto pare, la titolare del dicastero di viale Trastevere non se ne era affatto dimenticata.
Anche per le università l'autunno si annuncia piuttosto caldo. Infatti, le disposizioni relative al turn-over proposte dal ministro Brunetta per il pubblico impiego dovrebbero applicarsi anche ai docenti universitari, il che comporta una drastica diminuzione dei posti a disposizione per nuove assunzioni. A questo vincolo dovrebbero sfuggire quelle istituzioni che, avvalendosi di una possibilità introdotta di recente, scelgono di trasformarsi in fondazioni. Comunque, quali sono le intenzioni di Maria Stella Gelmini per quel che riguarda l'università si dovrebbe capire tra qualche settimana, quando saranno presentate le linee guida per questo settore. Anche in questo caso non è difficile immaginare che le polemiche fioccheranno.

il Riformista 11.9.08
Il compagno Giulio e l'amico Massimo
Due anni di amore-odio, fino all'ultimo Ballarò
di Stefano Cappellini


Aprile 2008, Massimo D'Alema parla a un convegno di Italianieuropei: «In questo paesaggio politico deprimente è meglio avere una discussione con Tremonti, che è un interlocutore stimolante». Martedì sera, D'Alema incrocia a Ballarò «l'interlocutore stimolante»: «Sono favorevole al confronto ma di fronte a una arroganza e disonestà intellettuale come quella di cui ha dato prova Tremonti...». 17 luglio 2008, Tremonti commenta l'oratoria di D'Alema in occasione del dibattito sulla manovra economica: «Intervento da statista». Martedì sera, sempre Ballarò, Tremonti degrada D'Alema: «Sei l'opposto di uno statista». È l'altalena dell'odio e dell'amore che Tremonti e D'Alema si manifestano a fasi alterne da almeno due anni, pronti a ricominciare ogni volta il ciclo: il corteggiamento dopo il litigio, il litigio dopo il corteggiamento. «Di politici come lui non ce ne sono tanti in giro», diceva a maggio il ministro dell'Economia parlando dell'ex ministro degli Esteri. «Saluto uno dei più bravi e brillanti ministri d'Europa», contraccambiava quest'ultimo in pubblico confronto a Roma, tanto che un incredulo Jean Paul Fitoussi, testimone del cinguettio, commentava mezzo sarcastico mezzo ammirato: «Qui è nata una coalizione».
La coalizione dei migliori, chioserebbero i diretti interessati, perché al di là della comune passione per il dibattito "alto" sui grandi temi,del recente feeling antimercatista e del vezzo antipatizzante, a cementare il rapporto della strana coppia è soprattutto la convinzione di esser ciascuno il miglior del proprio campo, insieme al riconoscimento reciproco della primazia, non fosse poi che i due, ogni qual volta si ritrovano di fronte, non resistono alla tentazione di dimostrare chi sia il migliore in assoluto. Ecco perché anche l'altra sera, a casa Floris, il dibattito è cominciato in un clima da salotto pietroburghese («Mi permetta di...», «Mi sia concesso...») ed è finito in duello rusticano. Ma c'è da giurare che, decantata l'ira, il dialogo a distanza ripartirà, come è ripartito dopo che D'Alema aveva dato a Tremonti di «terrorista», accusandolo di mistificare consapevolmente le proposte fiscali del governo Prodi, e dopo che "Giulio" aveva battezzato la prima intervista di "Massimo" da ministro degli Esteri alla Frankfurter Allgemeine Zeitung rimproverandogli di guardare alle cose tedesche con «stile Telefunken», marca di teutonici tubi catodici che andava forte nel tinello piccolo-borghese italiano degli anni Settanta.
Del resto, l'ambivalenza della relazione sta tutta nel misto di tu e lei con cui i duellanti hanno battibeccato negli studi Rai: Tremonti non si è mai discostato dall'antisessantottesco lei, a D'Alema è scappato due volte il tu, la prima in diretta, la seconda durante l'ultima pausa pubblicitaria, dopo che la discussione si era già parecchio accesa su Ici e dintorni: «Adesso stai esagerando, stai attento...» ha ammonito D'Alema a telecamere spente, ricevendo in cambio dall'avversario un indecifrabile ghigno. Pochi minuti dopo, ripresa la trasmissione, su Alitalia scoppiava il finimondo, e D'Alema perdeva la patente di statista da poco guadagnata. Vedremo nei prossimi giorni se a Tremonti toccherà invece di non essere più considerato «un'altra costola della sinistra», definizione del dalemiano Nicola Latorre, che segue quella storica affibiata dal capo alla Lega, e che è frutto dell'ammirazione per il successo dell'operazione La paura e la speranza, bestseller la cui lettura i tremontiani di sinistra consigliano in primo luogo ai mercatisti a oltranza del Pd.
Perché quest'amore-odio è anche una storia di spiazzamenti e scavalchi, di Tremonti che cita Marx alla Festa nazionale del Pd di Firenze e di D'Alema che su Alitalia gli scaglia addosso un editoriale del Sole 24 Ore, il quotidiano che l'altro, sempre a Firenze, ha spregiativamente buttato nel mucchio dei «grandi giornali del capitale». Quando nel maggio scorso al Foro Italico Tremonti si presentò al dibattito con un ritardo di un'ora e mezza, causa impegni governativi, D'Alema non fece una piega. Poi però lasciò in anticipo il palco, «sennò mia moglie mi fucila, è la famiglia, Tremonti, un valore di destra».
Sempre pronti a scannarsi sulla polemica più spicciola pur di inchiodare l'antagonista alla sconfitta nella contesa di favella, entrambi restano innamorati soprattutto della disputa accademica. Tremonti scrisse una lettera al Corriere della sera, sempre dopo la citata intervista alla Faz, per spiegare che D'Alema, parlando di governo della globalizzazione, aveva pasticciato le interpretazioni da Kant e Schmitt: «C'è un solo pezzo della globalizzazione su cui è impossibile non concordare con il pensiero espresso dal ministro. E' quello sui mondiali di calcio», concludeva Tremonti (si era alla vigilia di Germania 2008). Poteva mancare la replica? Altra lettera, altro giro sul Corriere: «Quell'alternativa tra Kant e Schmitt che Tremonti ha sottolineato con la matita blu non è un'idea mia ma di Jurgen Habermas». E ancora: «Mi inchino di fronte all'autorità filosofica di Tremonti. Si potrebbe anzi proporre uno scambio. Se avessimo potuto qualche anno fa fare di Tremonti il vate della filosofia europea e di Habermas il gestore dei conti pubblici italiani vi sarebbe stato certamente un grande vantaggio. Soprattutto per il nostro Paese».

il Riformista 11.9.08
Così il Papa-professore spiegherà la sua laicità nella patria dei Lumi
di Paolo Rodari


È guardando il College des Bernardins di Parigi che si può comprendere bene quale tipo di discorso Benedetto XVI pronuncerà domani a Parigi di fronte a oltre 600 personalità della cultura francese tra professori universitari e intellettuali, rappresentanti dell'Unesco e dell'Unione europea. L'edificio gotico più prestigioso della città dopo la cattedrale di Notre Dame, infatti, vive dallo scorso 5 settembre una nuova epoca grazie a quei sei anni di lavori di ristrutturazione che alla Chiesa, allo Stato, alla città di Parigi e alla regione Ile de France, sono costati complessivamente 50 milioni di euro. Una cifra importante, seppure giustificata dalla necessità di far sì che l'antico monastero divenga, a soli a due passi dall'Università della Sorbona, un centro di dialogo e di confronto culturale, un luogo - ha spiegato l'arcivescovo di Parigi André Ving-Trois - «in cui intraprendere una riflessione sull'uomo, sul suo posto e il suo avvenire nella società». In sostanza, un luogo in cui quella «laicità aperta» di cui parlerà domani Joseph Ratzinger davanti all'intellighenzia transalpina - al cuore, quindi, di quel pensiero europeo che colloca la propria origine e novità ancora oggi nella sola filosofia dei lumi - possa trovare una sua prima e immediata caduta pratica. Niente a che vedere, insomma, con la modalità tramite la quale, l'anno scorso, una delle più prestigiose università italiane (La Sapienza di Roma) accolse l'ipotesi di ascoltare una lectio papale nel proprio rettorato.
Ma rimaniamo a Parigi. Qui Ratzinger, per la sua lectio di domani, ha scelto il tema della laicità. Il discorso, per aspettative e contenuti, si prospetta della medesima portata della più famosa lectio tenuta esattamente due anni fa - curiosa coincidenza - a Ratisbona attorno al nesso inscindibile di fede e ragione. Era il 12 settembre 2006 e allora, come domani, il Papa giocò sul proprio terreno: il campo della cultura e della scienza.
Il testo del 12 settembre francese pare essere ormai pronto. Il Papa l'ha scritto di suo pugno in tedesco - poi è stato tradotto in francese - e a coloro che solitamente, nella segreteria di Stato vaticana, lo coadiuvano nella revisione e nella stesura dei propri scritti, ha fatto pervenire soltanto alcune bozze contenenti semplicemente gli schemi di quanto egli intende dire. Un segnale, questo, dell'importanza che il Papa ha voluto dare all'evento. Un segnale che dice come a Parigi il Papa-professore non dirà cose scontate. Tutt'altro.
Benedetto XVI indirizzerà il suo discorso sia al mondo culturale, e dunque a tutta la società civile, come anche alla Chiesa e alle sue gerarchie. Le fondamenta attorno alle quali costruire il "suo" modello di laicità, infatti, debbono essere recepite non soltanto dallo Stato e dall'intellighenzia del paese, ma anche dalla Chiesa. E soprattutto dall'episcopato francese troppo influenzato, in passato, da quel modello di laicità tutto transalpino che predica la separazione totale tra Stato e Chiesa relegando, di fatto, la fede (e ogni espressione religiosa) al campo privato.
Quanto allo Stato e al mondo culturale, Benedetto XVI arriva a Parigi memore delle parole con le quali, nel suo discorso al Laterano di qualche mese fa, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha spiegato come debba declinarsi oggi una sana laicità: un concetto positivo che riconosca l'importanza e il valore delle religioni.
Ratzinger sa bene quanto alle parole occorre seguano i fatti - «questo concetto di laicità deve passare a poco a poco nei fatti», ha detto ieri, in un'intervista al quotidiano cattolico francese La Croix, il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone - e proprio per questo motivo andrà a spiegare a Parigi come alla storica concezione francese della laicità occorra contrapporne una che non separi Stato e Chiesa ma che anzi veda il ruolo positivo delle religioni e del cristianesimo - e del cattolicesimo - nel campo sociale quale fondamento della società stessa, quale aiuto nella ricerca del bene comune. Un ribaltamento dovuto se è vero, come è vero, che è anche al cristianesimo che Francia ed Europa devono la propria identità.
Quanto alla Chiesa francese, il ritiro nella sagrestie in nome della non ingerenza nelle cose pubbliche (e dunque dell'indifferentismo religioso) è iniziato negli anni del post Concilio proprio qui (per poi contagiare Olanda, Belgio, Svizzera e la Germania) e con conseguenze disastrose: chiese vuote, vocazioni ai minimi storici e l'eredità incombente dello scisma lefebvriano. È anche uno sprone ai "suoi" quello che Benedetto XVI intende indirizzare domani: la Chiesa non può tradire la propria missione di testimonianza pubblica. Una testimonianza che, proprio in Francia, ha un singolare esempio luminoso: Lourdes, la piccola cittadina nel sud del paese dove la Madonna decise di apparire centocinquanta anni fa e dove il Papa si recherà in pellegrinaggio subito dopo Parigi.