domenica 14 settembre 2008

l’Unità 14.9.08
Governare col trucco
di Concita De Gregorio


Sono arrabbiata. Sono fiera di esserlo. La rabbia aiuta a non abituarsi a tutto. Ho sentito le parole del ministro Carfagna. Diceva: «Io provo orrore per le donne che vendono il proprio corpo per denaro». Parlava forse di un suo calendario? No, parlava delle prostitute o meglio: solo di quelle che stanno per strada. Perché non succede niente? Perché non telefoniamo, chiamiamo, bussiamo, usciamo per strada? Forse ci stiamo davvero abituando a tutto.
Laura Guasti, Firenze

Più che altro stiamo cadendo nella trappola magistralmente ordita in anni di politica televisiva da Berlusconi e dai suoi ministri: discutere dei dettagli, attaccarci agli slogan, accapigliarci su una scemenza di facciata senza arrivare mai alla sostanza delle cose. Il grembiule, il voto, la bella cordata di imprenditori che «vuole salvare la compagnia di bandiera», la tassa abolita, l’immondizia sparita, l’esercito per strada che così sei più tranquillo quando esci la sera. Chi non vorrebbe salvare Alitalia, camminare in strade pulite, pagare meno tasse, avere figli che imparano in classe le regole della convivenza e quando tornano a casa che è buio non debbano imbattersi in prostitute abbrutite? La gente di sinistra, forse? E allora che problema c’è: ecco qua il governo del fare, lasciatelo lavorare. La questione, purtroppo, è che è un trucco. È il gioco delle scatole: una bella scatola col fiocco da esibire, l’altra marcia da nascondere. Le tre carte. I limoni legati col nylon alle piante del G8, la calza sull’obiettivo che maschera le rughe. È sempre quel trucco lì, una toppa, e poi via per settimane a parlare del fiocco.
È evidente che lo scopo della proposta Carfagna non è quello di combattere la prostituzione: è un progetto di decoro urbano, il suo. Una questione di ordine, di eleganza dell’inquadratura. L’obiettivo è mostrare strade sgombre di viados. Guardate che pulizia. Se volesse combattere la prostituzione dovrebbe occuparsi della tratta di essere umani, di mafia del commercio sessuale, di chi fa entrare in Italia milioni di ragazzine senza documenti e poi le riduce in schiavitù, di come faccia e di chi glielo consenta. Dovrebbe poi anche occuparsi dell’altra prostituzione, quella tutta italiana e non di strada: la prostituzione «pulita» delle studentesse che ricevono in studi che sembrano quello del dentista e poi la sera vengono a fare la baby sitter a casa tua, ragazze ben pagate e ben consapevoli della loro scelta, del resto motivata dalla richiesta di un esercito di uomini «per bene» che saldato il conto tornano in ufficio. Non lo fa, naturalmente. Allo stesso modo Gelmini esibisce la sua riforma come quella del grembiule e dei voti in pagella, un bel ritorno all’ordine antico: peccato che tagli 90mila posti da maestro e azzoppi la scuola. La scatola vuota e ben ripulita dai debiti della cordata Alitalia, le tasse comunali che cambiano nome, l’esercito che fa la guardia alle discariche ma si dimentica dei treni dei tifosi. È sparita la camorra, a Napoli? Gomorra era uno scherzo? Certo che no, ma conta la foto. Un bell’annuncio, un bel grembiule blu, quattro soldati con la mitraglietta cosa vuoi che sia se poi alle volanti hanno tagliato la benzina. Devono solo stare fermi, tanto. E poi tutti giù a parlare di estetica, pazienza per l’etica.

l’Unità 14.9.08
Uno strappo solitario
Il gelo dei colonnelli. Alemanno aspetta ore prima di rilasciare un gelido comunicato: «Tutto il gruppo dirigente di An ha elaborato le tesi di Fiuggi»
di Bruno Gravagnuolo


Stavolta lo strappo di Fini col fascismo c’è stato. Impossibile negarlo. Con tutto il fascismo, e non solo con le pagine legate alla Rsi. Netti infatti sono apparsi ieri i giudizi pronunciati dal Presidente della Camera davanti, ai giovani di An. Primo: «La destra deve riconoscersi nell’antifascismo». Secondo, di qui viene una Costituzione fondata su «libertà eguaglianza e giustizia sociale», da assumere in pieno come «valori antifascisti».
Terzo, a parte la buona fede di chi scelse la Rsi, «i resistenti stavano dalla parte giusta, i repubblichini dalla parte sbagliata». Già, e Fini usa proprio il termine dispregiativo «repubblichini», per indicare gli adepti di Salò, lo stesso termine contestato da quanti a destra hanno sempre rivendicato alla Rsi la dignità di un’idea statale e di patria. Certo ne ha fatta di strada quel Fini che a fine anni ‘80 parlava di «fascismo del 2000». Nei primi anni ‘90 di Mussolini come «del più grande statista del 900». E ne ha fatta anche rispetto alla svolta Fiuggi, del 1995. Quando l’antifascismo veniva da lui definito «momento necessario di passaggio, negativo e non valore in positivo». Come pure c’è uno «stacco netto rispetto alla distinzione finiana in Israele tra «male assoluto» nazifascista, e pagine fasciste anteriori, non tutte negative. No, stavolta c’è stato molto di più in Fini. Un vero capovolgimento di Fiuggi: l’antifascismo come valore fondante e positivo. Condito da un’altra, decisiva notazione storiografica, sull’intero fascismo stavolta. E cioè, ha detto Fini, non si possono isolare nel regime alcuni «fotogrammi», ma va dato un giudizio di insieme. E quel giudizio nel Presidente della Camera è globalmente negativo. Per la dittatura, la violenza, la guerra e l’alleanza con nazismo.
Di più. Accennando alla «memoria condivisa», Fini ha citato Ciampi e la sua pedagogia civile. Che privilegia la memoria costituzionale antifascista (non la marmellata delle memorie). All’insegna di una patria democratica, e non del «nazionalismo», che per Fini è male. Dunque occorre dare atto a Fini di onestà e di coerenza. In una col tentativo di ritagliarsi un ruolo decente di leader della destra democratica europea. Anche sotto lo stimolo di una polemica «antirevisionista» contro le ambiguità post-fasciste, che qualche frutto lo ha dato.
Senonché qui nascono i problemi. Dentro An e guardando al futuro Pdl di Berlusconi. Tanto per cominciare già ieri Fini è stato contestato da uno di quei giovani ai quali parlava. Gli stessi ragazzi che portarono fiori sulle tombe dei saloini a Nettuno. «Sei stato chiaro ma non coerente!», ha gridato uno di loro. Mentre altri dissentivano e abbandonavano la sala. Poi, ai lati di An, sono arrivate le proteste furiose di Storace, di Fiore di Fn e di Donna Assunta: «Fomenta le divisioni tra italiani, dà la stura all’antifascismo, ha gettato la maschera, se ne vada se crede...». Ma il vero punto è un altro. Sono le reazioni sbigottite e compresse di due dei colonnelli contro i quali è diretto lo strappo di Fini. Vale a dire Alemanno e La Russa, protagonisti di esternazioni che avevano oltremodo irritato Fini in questi giorni. Il primo - che aveva rivalutato un fascismo «buono» contro Salò - se l’è cavata nel pomeriggio con una dichiarazione che ribadisce il «percorso di Fiuggi». Condiviso ed «elaborato da tutto il gruppo dirigente di An compreso il sottoscritto (Alemanno, n.d.r)». Quasi a voler chiudere in anticipo illazioni e sospetti di dissenso, in realtà per troncare e sopire scontri col leader. La Russa invece, dopo aver dato segni di stupore ed essersi rifiutato di commentare a caldo, ha precisato con disagio che il suo ultimo discorso dell’8 settembre davanti a Napolitano, era solo un intervento sulla «memoria condivisa». E che perciò non c’è alcun problema con Fini.
Dunque una questione aperta c’è in An, a parte l’adesione «convinta» di altri colonnelli come Gasparri e Bocchino. E non mancherà di palesarsi, sia rispetto alla fusione annunciata con Fi, sia rispetto agli equilibri interni, di An. Sia infine rispetto a una platea di militanti ed elettori che già facevano fatica a condividere la timida svolta di Fiuggi. Sicché non è infondato dire, come ha fatto Veltroni a Cortona, che le parole di Fini sono un «grande passo avanti», ma «rientrano in un’evoluzione personale», se raffrontate alla posizioni di Alemanno e La Russa.
Salvate il soldato Fini in An? Vedremo. Al momento però i giochi sono abbastanza incerti, sul destino dell’identità post-fascista in attesa di finire nel Pdl. E, quanto a quest’aspetto, resta aperto un altro tema. Anzi due: il rapporto Fini/Berlusconi. Se il primo, con la sua «revisione», entra alla grande nel Ppe e può aspirare concorrere da Premier, il secondo, proteso al Quirinale, si candida ormai di fatto a vero leader post-fascista. Vanno in tal senso gli umori «anti-antifascisti» del Cavaliere. La sua ostilità alla Costituzione da lui definita «sovietica», il disamore per la Resistenza, la descrizione del fascismo come innocua dittatura. E da ultimo, anche l’esaltazione del genio italico coloniale e dello squadrista Italo Balbo. Regalata guarda caso da Berlusconi proprio ai giovani di An. Fini antifascista moderato e Berlusconi post-fascista e presidenzialista? Sarebbe l’ennesima giravolta dell’Italia di destra vecchia e nuova. Giravolta trasformista. E pericolosa.

Repubblica 14.9.08
Un brutto segnale
L'ex presidente della Camera: Fini è più avanti del resto del partito
Ingrao: "Svolta più netta del ‘95 ma la pancia di An è ancora indietro"
Le uscite di Alemanno e La Russa sono un brutto segnale, la conferma che certe radici con il fascismo non sono state ancora recise
di Concetto Lo Vecchio


ROMA - È sabato pomeriggio e Pietro Ingrao, il Grande vecchio della sinistra italiana (93 anni), legge e rilegge le dichiarazioni di Fini sui dispacci delle agenzie.
Presidente Ingrao, ha letto le dichiarazioni sul fascismo di Fini? Sono una svolta più netta di Fiuggi?
«Mi pare proprio di sì, ma soprattutto quel che colpisce è la presa di distanza da Alemanno e La Russa».
Come se Fini fosse più avanti rispetto al resto del partito.
«Questo è probabile. Con quest´uscita mi sembra che abbia voluto dare un monito, e dire alla sua parte che non è più tempo di traccheggiamenti».
La platea ha accolto con freddezza le sue parole.
«E questo è grave, perché per quanto lodevole, per quanto positiva, la critica di Fini è pur sempre parziale, nel senso che non iscrive il fascismo italiano dentro la tragedia del nazifascismo. Ci faccia caso, non cita mai Hitler, che di Mussolini fu un alleato stretto se non un duro comandante».
Da Fiuggi sono passati tredici anni eppure è come se in An non tutti avessero fatto sino in fondo i conti con il fascismo.
«È un brutto segnale, il segno che certe radici non sono state ancora recise, e che sono più radicate di quel che si pensi, considerate le uscite di Alemanno e La Russa degli ultimi giorni».
Fini dice anche che non tutti gli antifascisti erano democratici.
«Può darsi sia così, può darsi... Non dico che tutti della mia parte fossero santi ed eroi, ma l´antifascismo italiano è pieno di storie, vicende e figure di un´emozione e di un fulgore straordinari. Pensi alla tragica grandezza di Primo Levi, che finisce per uccidersi oppresso da quel che ha vissuto nei lager».
"Non si può equiparare chi stava da una parte e combatteva per una causa giusta di uguglianza e libertà e chi, fatta salva la buonafede, stava dalla parte sbagliata", ha detto il presidente della Camera. Sono parole che Fini avrebbe pronunciato anche da leader di An?
«Non saprei cosa risponderle, ma non sono stupito di queste parole mi pare che già negli anni passati Fini avesse espresso una volontà di riflessione autocritica. E tuttavia mi colpisce il silenzio che permane tuttora sul grande movimento di popolo che in Italia è stata la Resistenza. E forse sull´epopea che è stata la Resistenza italiana, c´è una debolezza anche nella scuola italiana».
È un caso che le uscite di Alemanno e La Russa siano giunte adesso, che la sinistra è stata pesantemente sconfitta?
"Purtroppo non è una stagione felice per la sinistra, c´è stata una riscossa conservatrice, le abbiamo buscate, diciamolo chiaramente. E anche il governo Prodi non è valso a fermare l´arretramento. Ancora adesso non si è sviluppata a sinistra né una riflessione critica adeguata e nemmeno una ripresa del collegamento con le masse. Questa è la questione centrale da affrontare. E c´è l´urgenza di ripartire presto».

Corriere della Sera 14.9.08
Lo storico «Le frasi del presidente della Camera chiudono il percorso avviato nel '96 dall'infausto discorso di Violante su Salò»
Tranfaglia: che sollievo, da Gianfranco importante passo avanti
di Al. T.


C'è una netta contraddizione tra le parole di Fini e quelle dei suoi colonnelli. Resto preoccupato perché con la rivalutazione di Balbo e di altri esponenti fascisti, Forza Italia, che è un partito populista, si sta spostando sempre più a destra. E non solo quanto a nostalgia, ma per le politiche che sta attuando Biografia Lo storico Nicola Tranfaglia ha scritto la biografia di Giorgio Almirante, pubblicata a puntate dall'Unità: il cammino del leader del Msi dall'antisemitismo a Salò, fino al passaggio di testimone a Fini

ROMA — Le origini fasciste della destra le conosce bene. Non solo perché è uno storico di fama, ma anche perché è stato proprio lui, Nicola Tranfaglia, a scrivere la biografia di Giorgio Almirante, pubblicata a puntate a giugno dall'Unità. Una storia nella quale ripercorre il cammino del leader del Msi, dall'antisemitismo alla Repubblica di Salò, fino al passaggio di testimone a Gianfranco Fini. Ora Tranfaglia è soddisfatto dalle parole del presidente della Camera. Ma se da una parte tira un sospiro di sollievo, dall'altra si dice ancora preoccupato.
Sollievo perché?
«Perché le dichiarazioni di Fini possono essere interpretate come un decisivo passo avanti sulla strada dell'acquisizione dell'antifascismo come criterio fondamentale per stabilire la democrazia».
Di recente qualche «colonnello» di An si era espresso diversamente.
«E infatti le sue parole mi sembrano in aperta polemica sia con La Russa sia con Alemanno ».
Preoccupato perché?
«Con la rivalutazione di Balbo e di altri esponenti fascisti, Forza Italia, che è un partito populista, si sta spostando sempre più a destra. E non solo quanto a nostalgia, ma anche per le politiche che sta attuando».
Cominciamo da Fini: il suo giudizio sul fascismo è nettamente negativo.
«Già nel 2003, allo Yad Vashem, disse cose in oggettivo contrasto con quelle che aveva detto fino ad allora. Parlare di male assoluto riferendolo solo alle leggi razziali non tiene conto della natura dispotica del regime, che fece uccidere Gramsci e Matteotti e picchiò fino alla morte Amendola. Ora Fini fa un passo avanti importante».
E Salò? La Russa ha rivalutato chi «combattè in difesa della patria».
«Si trattò di un regime satellite del Terzo Reich che combattè fino alla fine per difendere gli ideali nazisti di Hitler. Bene ha fatto Fini a prendere le distanze».
Ma il fatto che Fini debba intervenire ancora una volta, per sconfessare i suoi, qualcosa significherà.
«In effetti c'è una contraddizione netta tra lui e gli altri dirigenti. Mi sembra che siamo nel caso di un leader che si trova molto più avanti rispetto alle convinzioni della base e ai funzionari».
La Destra di Storace potrebbe avvantaggiarsene?
«Non credo. Sono residui di una destra ormai tramontata che non trova spazio nel Paese. La reazione di Storace è un giusto sigillo alle dichiarazioni di Fini: è l'ennesima speranza di riscossa di un estremismo che però è condannato dalla storia».
Quella di Fini invece è una destra ormai moderata.
«Sì. Mi sembra che ora sia Forza Italia ad aver scavalcato a destra Alleanza nazionale».
C'è ancora qualche resistenza o reticenza da abbattere per Fini?
«Non credo. Mi sembra decisivo riconoscere che l'antifascismo è indispensabile. È il passo fondamentale per uscire dal limbo: finalmente il fascismo non è più la base della destra in Italia. Mi lasci dire un'ultima cosa su Fini».
Prego.
«Le sue dichiarazioni in qualche modo concludono, perché vanno in direzione opposta, il percorso avviato da Luciano Violante nel '96, con l'apertura ai "ragazzi di Salò". Un discorso infausto. E' significativo che ci sia questo rovesciamento di ruoli e che, dopo dieci anni, arrivi la smentita di Fini alle parole di Violante».

l’Unità 14.9.08
«Chi esalta l’oblio uccide due volte»
Gli nterventi di Elie Wiesel. Giorgio Bocca, Predrag Matvejevic
di Umberto De Giovannangeli


Lo scrittore e premio Nobel per la Pace:
«Bisogna ribellarsi ieri come oggi a chi vuole
cancellare la distizione tra vittime e carnefici»

Hanno vissuto pagine incancellabili della Storia. Sono stati testimoni diretti di momenti che hanno segnato i nostri tempi. L'Olocausto. La Resistenza antifascista. La tragedia dei Balcani. Sulla loro esperienza personale, su un vissuto indimenticabile, hanno costruito una elaborazione intellettuale segnata da una straordinaria passione civile. Elie Wiesel, scrittore, premio Nobel per la Pace, sopravvissuto ai lager nazisti, Predrag Matvejevic, saggista, docente universitario che ha cercato di costruire «ponti» di dialogo nell'inferno balcanico; Giorgio Bocca, maestro di giornalismo, autore di numerosi libri sulla stagione della Resistenza, vissuta in prima persona, e del ventennio fascista. Il loro impegno per mantenere in vita una memoria storica che altri vorrebbero cancellare, non è mai venuto meno. Il loro è un lascito prezioso per le giovani generazioni.

Elie Wiesel: «A chi vuole archiviare il passato dico: solo con il ricordo ci può essere vera riconciliazione»

«Dimenticare le vittime significa null’altro che infliggere loro una seconda morte. Una vera riconciliazione, inoltre, non può avvenire che a partire dal ricordo, preservando la memoria di ciò che furono quegli anni. È vero: oggi c’è chi esalta l’oblio, chi ritiene giunto il momento di archiviare il passato. A questa operazione sento il dovere morale di ribellarmi, ieri come oggi: perché per nessuna ragione al mondo è possibile cancellare la distinzione tra il carnefice e la sua vittima. L’Olocausto è stato il Male assoluto. Ecco cosa è stato. Ciò che ha caratterizzato quel periodo fu una determinazione assoluta nel pianificare e condurre a compimento l’annientamento di un popolo. Questo è stato l’Olocausto, in questo consiste la sua novità rispetto al passato: per la prima volta nella storia, si intendeva eliminare completamente dalla faccia della terra un popolo. Gli ebrei non furono perseguitati e sterminati per motivi specifici, perché credevano o non credevano in Dio, perché erano ricchi o poveri, o perché professavano ideologie nemiche: no, gli ebrei venivano uccisi, umiliati, torturati per il semplice fatto di essere tali. Perché erano colpevoli di esistere: questo è l’orrore incancellabile della Shoah. Ed ancor oggi l’Olocausto insegna che quando una comunità viene perseguitata tutto il mondo ne risulta colpito. Queste considerazioni ci portano al tema dell’identità ebraica, della sua specificità che non va smarrita ma che non deve mai essere vissuta come “separazione” dal mondo dei “Gentili”. In uno dei miei libri, “L’oblio”, (Bompiani), il protagonista sintetizza così il suo essere ebreo: “Se sono ebreo, sono un uomo. Se non lo sono, non sono nulla. Solo così potrò amare il mio popolo senza odiare gli altri”. Questo mi ripetevo allora, nei giorni di Buchenwald, quando i nostri aguzzini volevano cancellare la nostra identità, prima di negarci la vita, per ridurci solo a numeri, quelli marchiati a fuoco sulle nostre braccia. Ma non ci sono riusciti: hanno ucciso sei milioni di ebrei ma non sono riusciti a cancellare la nostra identità. Ed è per questo che oggi, posso dire con il mio Malkiel (il protagonista dell’Oblio, ndr.): è proprio perché amo il popolo ebraico che trovo in me la forza per amare quelli che seguono altre tradizioni. Un ebreo che nega se stesso non fa che scegliere la menzogna. Molte volte mi è stato chiesto, mi sono chiesto, se per chi come me ha vissuto l’esperienza dei lager nazisti, abbia un senso la parola perdono. Questa domanda ha accompagnato la mia esistenza di sopravvissuto. Ma parole come perdono o misericordia non trovano posto nell’inferno di Auschwitz, di Buchenwald, di Dachau, di Treblinka.... No, non è possibile perdonare gli aguzzini di un tempo e coloro che ancora oggi ne esaltano le gesta. In questi sessantaquattro anni, ho pregato più volte Dio e la preghiera è la stessa che recitavo quando ero rinchiuso nel lager: “Dio di misericordia, non avere misericordia per gli assassini di bambini ebrei, non avere misericordia per coloro che hanno creato Auschwitz, e Buchenwald, e Dachau, e Treblinka, e Bergen-Belsen. Non perdonare coloro che qui hanno assassinato. Ma questo non vuol dire condannare per sempre il popolo tedesco, perché noi ebrei, le vittime, non crediamo nella colpa collettiva. Solo il colpevole è colpevole».

Giorgio Bocca: «L’Italia disorientata da un relativismo ingannevole che il neofascismo di oggi non ha mai evitato»

«La memoria, per dire la storia, è il fondamento di ogni civiltà. Un popolo, una nazione senza storia, sono semplicemente impensabili, non esistono. E una delle ragioni dell’attuale disorientamento dell’Italia contemporanea è proprio la labilità della memoria. L’incertezza, la confusione, il pressappochismo nel ricordare la nostra storia recente, nell’affidarla a un relativismo ingannevole. Si succedono, da parte dei neofascisti riportati al potere dal berlusconismo, le rivendicazioni di una doppia storia, la storia della Repubblica di Salò e del fascismo superstite da opporre a quella dell’antifascismo e della guerra di liberazione partigiana. Fingendo che abbiano avuto lo stesso peso, la stessa legittimità, la stessa giustificazione, fingendo che un tetro crepuscolo sia la stessa cosa di un’alba di vita e di speranza, che la disperazione della sconfitta sia la stessa cosa di una vittoria. Il ministro della Difesa La Russa, per esempio, ha dichiarato che i combattenti di Salò meritano rispetto e riconoscenza perchè “anche loro pensavano di combattere per difendere la patria”.
Ma scambiare un gesto simbolico, un episodio insignificante nella grande storia della liberazione dell’Europa dal dominio nazista per un’altra faccia della storia è un inganno, una tentazione che il neofascismo non ha mai evitato. Lo stesso che raccontare la battaglia di El Alamein non come la sconfitta definitiva e inevitabile dell’imperialismo nazista, ma come una delle possibili alternative: “se avessimo vinto a El Alamein, tutto sarebbe ancora stato possibile”. Ma la storia seria, documentata, vera, è diversa: El Alamein non fu un gioco della fortuna ma una verifica della superiorità schiacciante della ottava armata inglese.
Dire come La Russa che le due compagnie della X Mas che per pochi giorni combatterono alla testa di ponte di Anzio contro un’armata alleata che disponeva di migliaia di navi e di un dominio totale del cielo, subito rimandate nelle retrovie dal comando tedesco come elemento di disturbo, è capovolgere la storia. Non si scrive la storia falsandola. È un falso quello compiuto da un compagno di strada del neofascismo, il sostenere che il contributo alla guerra contro gli alleati al fianco dei nazisti fu un fatto storico rilevante, la prova che una parte degli italiani era rimasta dalla parte di Mussolini, pronta a combattere coi nazisti: prova ne sia che le forze armate di Salò contarono mezzo milione di soldati. Questo è falsare la storia, non riscriverla, perché tutti sanno che i cinquecentomila e più richiamati alle armi dalla Repubblica sociale, in parte mandati a istruirsi in Germania, abbandonarono i reparti appena rientrati in Italia, oppure rimasero di presidio sulle Alpi occidentali, fuori dalla avanzata alleata, contro il parere di Hitler che mai approvò il loro riarmo, senza accontentare il dittatore fascista che “chiedeva la sua Valmy”, la sua vittoria. La memoria è importante, decisiva nella cultura di una nazione. E può essere anche una memoria critica, da rivedere, ma deve essere una cosa seria, che lascia il segno, che conta nella vita dei cittadini».

Predrag Matvejevic: «Non dobbiamo dimenticare, serve il coraggio di guardarsi allo specchio e dire: non succederà più»

«La memoria ci definisce, determina i nostri atti, condiziona le nostre scelte, dirige i nostri movimenti. Ma non c’è una sola memoria. Ne esistono diverse. Talvolta la memoria è uno stimolo, talvolta è un obbligo, altre volte un peso. Occorre sempre chiedersi a quale memoria pensiamo. Non vogliamo, non dobbiamo dimenticare gli eventi del nostro passato, della nostra vita, della storia del popolo del quale abbiamo fatto parte. Per quanto mi riguarda, non dimentico mai, nel mio impegno politico e intellettuale, che mio padre è stato deportato per quattro anni in un lager nazista. Era un uomo alto, forte, pesava 92 chili. Quando è tornato era l’ombra di se stesso, uno scheletro vivente, pesava 52 chili. Non lo riconobbi. Piansi per tre giorni. Un popolo, una nazione, un partito politico, devono avere una memoria. Ma viene anche il momento in cui occorre difendersi da questa stessa memoria quando essa diviene invadente. Un popolo, una nazione si definiscono come un patrimonio, talvolta, però, è necessario rifiutare una parte di questo “patrimonio” che ci castiga, che diventa negativo. Solo una forte cultura critica potrà riconoscere questo momento cruciale, nel quale invece di difendere la memoria dobbiamo difenderci dalla memoria, invece di proteggere il patrimonio bisogna proteggere noi stessi da questo stesso patrimonio. Vi sono epoche in cui la cultura critica non fiorisce o viene decisamente osteggiata, svilita, repressa. Ogni scrittore, ogni intellettuale dovrebbe redigere un “catechismo” del proprio dissenso. Perché nel momento in cui rifiutiamo quello che attorno a noi è considerato una cosa sacra, un tabù inviolabile, un qualcosa di indiscutibile, noi rischiamo di essere trattati da traditori. Traditori del patrimonio, della tradizione. E non si rendono conto che conservare ad ogni costo certi patrimoni, ci fa precipitare nel baratro di un conservatorismo esiziale. Voler difendere sempre e comunque la tradizione, ci spinge verso un tradizionalismo che blocca l’evoluzione individuale e collettiva. Una cultura critica è quella che sa anche rischiare, impegnandosi. Occorre - e penso a questo ricordando la tragedia dei Balcani - sapersi guardare allo specchio. Sapendo che non basta appartenere ad una civiltà erudita per essere immuni da virus come l’odio razziale, l’antisemitismo, da una visione di sé come razza superiore. La storia della Germania e del nazismo ne è una tragica esplicitazione. Una cultura critica è quella che si batte perché la cultura nazionale non si trasformi nell’ideologia della nazione, come avvenne nella Germania nazista o, per altri versi, nella Russia stalinista. Molte volte non si ha il coraggio di guardarsi allo specchio. Lo vedo attorno a me, nella Croazia in cui sono tornato a vivere. Vedo tanti che non hanno il coraggio di dire in modo forte cosa furono gli ustascia di Ante Pavelic, criminali fascisti addestrati dai fascisti italiani di Benito Mussolini. Penso alla Serbia. Con pochi amici serbi posso ancor oggi parlare del genocidio di Srebrenica: oltre 8mila civili, donne, bambini, anziani, massacrati in due giorni. Una nazione dovrebbe invece essere molto riconoscente verso coloro che hanno il coraggio di mettere la propria faccia di fronte allo specchio, e dire: ecco, siamo stati capaci di fare questo ma non lo faremo più».

l’Unità 14.9.08
Gelmini sfrenata: «Taglierò le ore di insegnamento. E i precari non si illudano»
Fischi per il ministro alla festa Udc. «La spesa è fuori controllo, riduciamo le materie a quelle essenziali: italiano, matematica, scienze, lingua...»


Mariastella Gelmini non fa sconti a nessuno. E la sua legge oggi risuona di un doppio slogan. Primo: meno ore di insegnamento. Secondo: i precari non si illudano. Insomma, il ministro per l’Istruzione - che è stata sonoramente fischiata dall’uditorio della festa dell’Udc a Chianciano Terme - non demorde. La spesa per l’istruzione è «fuori controllo», dice Gelmini, tanto che per risparmiare è pronta anche a ridurre le materie di insegnamento a quelle «essenziali». La ministra ha anche annunciato che venerdì prossimo 19 settembre, presenterà alle parti sociali il piano programmatico che attuerà la Finanziaria basato innanzitutto su una riduzione delle ore di insegnamento.
«È chiaro che non vengono licenziati gli insegnanti di ruolo - ha rassicurato Gelmini - ma la spesa per l’istruzione è aumentata del 33%, è fuori controllo, senza avere aumentato stipendi, senza avere adeguato le strutture. Secondo voi possiamo andare avanti così? Posso raccontare che i soldi aumenteranno? Non sono un prestigiatore: le ricorse sono queste troviamo la modalità per riqualificare la spesa». Il ministro ha ricordato che negli anni la politica sia di destra che di sinistra «ha sovrastimato la capacità della scuola di assorbire posti lavoro creando un numero notevolissimo di precari cui la politica non è in grado di dare risposte. Non voglio essere responsabile nel creare illusioni che poi diventano cocenti illusioni. Non possiamo prendere in giro una generazione, dobbiamo dire le cose come stanno». Tuttavia Gelmini ha parlato della «possibilità di introdurre misure premiali per gli insegnanti, di aumento delle borse di studio, grazie a quel 30% di risparmi contenuti nella finanziaria. Venerdì 19 presenterò alle parti sociali il piano programmatico che attuerà la manovra. È una proposta che si basa su un dato: la nostra scuola ha il maggior numero di ore in Europa, è il caso che le rivediamo e puntiamo sugli insegnamenti fondamentali: italiano, matematica, scienze, lingua straniera». Per il resto, Gelmini insiste nel dire che non verrà toccato il tempo pieno: «Il governo sa perfettamente quanto il tempo pieno sia importante per le famiglie, nessuno di noi si sogna di farlo venire meno», ma la scuola “secondo Gelmini” - dal voto in condotta al maestro unico, passando per la riduzione del monte ore - per il Pd è, come dice Mariapia Garavaglia, «solo una strategia per far quadrare i conti, senza nessun progetto educativo chiaro alla base». Il ministro ombra contrattacca: «È il governo che ne ha fatto solo una questione di bilancio». Applausi. Fischi, invece, per la favorita di Silvio: anche quando la Gelmini prova a conquistare la platea citando Ratzinger e don Giussani, la Garavaglia se la riprende: il fondatore di cl lo chiama, familiarmente, «il gius» e, ricorda, «quella è la mia storia, quelle citazioni non mi impressionano». Infine, il ritorno del voto in condotta. Una scelta, sostiene la senatrice del Pd, «che non tiene conto dei contesti, delle relazioni, delle difficoltà di alcuni quartieri: «Quando avrò bocciato per il voto in condotta un ragazzo di Scampia forse l’avrò perso per sempre. E se perde anche un solo ragazzo in questo modo, la scuola fallisce». Condanne al piano della Gelmini arrivano anche dal ministro ombra del Pd Mariangela Bastico: «È una riforma che attacca l’impianto della scuola di base, sopprimendone il suo carattere fondamentale: il tempo lungo e disteso». «In questo modo -aggiunge la Bastico- si arrecherà un danno incredibile alle donne che lavorano».
Intervenendo successivamente alla festa dei giovani di An a Roma - ossia di fronte ad una platea ben più amichevole nei suoi confronti - la Gelmini se la prenda con la sinistra: «Mi sorprende che la sinistra abbia annunciato manifestazioni e mobilitazioni contro le nostre iniziative prima ancora di conoscere il piano programmatico che verrà presentato la prossima settimana. È questo il confronto che vogliono?». Dice Mariastella che «l’opposizione sta diffondendo un clima di falso allarmismo sui temi della scuola». Ah sì? Provi a chiedere agli insegnanti cosa ne pensano...

l’Unità 14.9.08
«Sapete cosa stanno distruggendo? Una scuola che insegna a pensare»
di Eduardo Di Blasi


Vincenzo D’Elia, che ancora oggi insegna all’Ada Negri, ottantasettesimo circolo di Roma, prese il primo stipendio da insegnante di scuola elementare nel 1969, quasi quarant’anni fa: «Erano 111.345 lire», ricorda. E aggiunge: «Non lo dimentico perchè quando sono andato all’ufficio postale non sapevo se piangere o ridere. Mio padre barbiere e mia mamma sarta, chi mai aveva visto tutti questi soldi assieme? Potevo anche andare all’università alla quale mi ero iscritto ma che non ero sicuro di potermi permettere». Nel 1969, ricorda ancora, «la benzina normale costava 130 lire, mentre la super 150-155. Avevo la Seicento di mia sorella. Non c’era ancora stata la crisi petrolifera del ’73». E la scuola italiana, si direbbe continuando questa cronologia, stava per essere investita della più grande serie di riforme che mai avesse visto. Riforme che ne avrebbero cambiato la forma.
Caterina Tripodi ha iniziato quasi dieci anni più tardi. Dal 1995 insegna in uno dei plessi dell’istituto comprensivo di via dell’Archeologia a Tor Bella Monaca, terra di frontiera nella periferia romana. «Ho fatto esperienza di tutti i tempi scuola - si presenta - Attività integrative, poi tempo normale, modulo e ora sto al tempo pieno. Ho sperimentato tutto ciò che c’era di sperimentabile nella scuola». Caterina e Vincenzo sono preoccupati di come una legge per il contenimento dei costi, spacciata per una riforma della scuola, possa mettere in pericolo il futuro dei bambini italiani, e le conquiste di trent’anni di sacrifici da parte di persone come loro. Per comprendere cosa c’entrino le loro singole vite con la trasformazione della scuola pubblica, ascoltiamo Vincenzo: «Il modello che stiamo cercando di difendere è stato costruito in anni di sacrifici, di impegno, di grande disponibilità personale. In anni in cui gli insegnanti si rimboccavano le maniche e non si parlava nemmeno di fondo di incentivazione. Non c’era nelle scuole. Negli anni ’70-’80 tutto questo è nato con il volontariato. Quello che oggi abbiamo, è frutto del sacrificio di persone che hanno voluto una scuola diversa». Ricorda: «Quando ho iniziato a insegnare sentivo l’esigenza di conoscere perchè sapevo di non sapere niente. Nessuno mi aveva insegnato a insegnare. E allora, spesso e volentieri, andavo nelle altre classi perchè volevo capire. Molti colleghi mi guardavano strano, come a dire: "Chi è questo marziano che si permette di venire a vedere la lezione?"».
Seguendo il filo dei loro discorsi ci viene davanti una scuola che ha preceduto le leggi. Già prima del ’71, quando lo Stato intervenne (legge 820) ad assicurare alle classi l’insegnamento aggiuntivo pomeridiano, in quelle che un tempo erano le attività «parascolastiche» (il famoso «maestro di serie B», stipendiato dal Comune, che riuniva i bimbi di chi, lavorando, non poteva andare a riprenderli da scuola all’ora di pranzo), il volontariato aveva creato una sorta di «modulo» ante litteram, con i maestri titolari che dialogavano con quelli del pomeriggio costruendo percorsi formativi. Stessa cosa accadde con il superamento delle classi differenziali (legge 517 del 1977), cancellate con legge sull’onda di un cambiamento della didattica che permetteva di insegnare «a tutti».
Caterina: «I bimbi portatori di handicap sono un arricchimento della classe. È un bene per il ragazzo ma anche per la classe che lo accoglie. Si instaurano relazioni importanti».
Vincenzo: «Soprattutto si impara a capire che la società è multiculturale e va accettata e sostenuta nelle differenze...».
l’Unità: «Anche i genitori dei bambini sono preoccupati...».
Caterina: «Sono stata contattata ancora prima che iniziasse la scuola da alcuni genitori allarmatissimi perchè hanno sentito le interviste in televisione sull’insegnante unico e non hanno creduto al fatto che rimarrà il tempo pieno. Perché si sono documentati, hanno visto i tagli, e hanno capito che alcuni tempi scuola andranno a morire. Così chiedono dopo tutti questi tagli come si faccia a garantirlo. Potrebbe essere "garantito" il doposcuola non il tempo pieno».
l’Unità: «Che differenza c’è?»
Caterina: «Nel doposcuola c’è un insegnate che fa fare i compiti. I genitori però chiedono che il tempo pieno sia tempo pieno, sia scuola, con approfondimenti, progetti. I genitori di Tor Bella Monaca hanno sempre avuto voglia di migliorare la qualità della scuola. Si sono battuti quattro anni fa per il tempo pieno: hanno occupato la scuola. I genitori ci tengono alla cultura, alla conoscenza. Non vogliono tenerli lì buoni...».
l’Unità: «Come sono rispetto a prima gli alunni?».
Vincenzo: «I bambini non sono più i Pierini buoni di una volta, sono dei diavoletti... Non hanno più la capacità di soffermarsi sulle cose. Imparano mille cose ma non riescono a soffermarsi su niente. Hanno dei flash, e la nostra difficoltà è, ad esempio, quella di allungare i tempi di apprendimento, fare in modo che un bambino apprenda per più tempo senza fermarsi all’intuizione immediata, senza che rimanga in superficie. Sono stimolati da migliaia di informazioni diverse, più stimolanti di quello che può essere la parola del maestro unico che per quanto possa essere creativo non riuscirà mai a competere con questo. Oppure impone le regole come dice il ministro. Ma questo non si può fare. I bambini iniziano a dare i calci, a correre, e vengono fuori tutte quelle caratterialità che noi abbiamo cercato di superare con la fine delle classi differenziali e con il riconoscimento che la caratterialità è una modalità del carattere e che si supera in un contesto interattivo in cui il caratteriale non si senta un diverso».
l’Unità: «Le scuole sono anche un presidio sociale in alcuni luoghi...».
Caterina: «Da noi è così. L’anno scorso nel periodo di Natale è stata danneggiata la scuola media e sono venuti tutti insieme genitori e bambini. Abbiamo avuto scene di genitori e bambini che piangevano assieme. E la domenica successiva tutte le famiglie sono scese in piazza a manifestare».
l’Unità: «Non c’è nessun insegnante "pigro" o "fannullone"...».
Caterina: «I pigri esistono dovunque, ma credo che nella nostra scuola non è possibile ce ne siano. Perchè è una scuola dove o ci si rimbocca le maniche dal primo giorno o non ci si rimane».
l’Unità: «Adesso anche le vostre classi sono cambiate. Nei quartieri dove insegnate la percentuale di immigrati è molto alta».
Vincenzo: «È stato graduale. Gli stranieri fanno molto più richiesta di tempo pieno. Perchè le famiglie sanno che la scuola può dare ai figli quello che loro non possono dare, perchè per una famiglia dove non si parla italiano la scuola rappresenta un canale importante».
l’Unità: «Contrari al maestro unico anche se lo siete stati…».
Caterina: «Sarebbe anche peggio di prima. Quando ero insegnante unica dovevo insegnare italiano, matematica, storia, geografia e scienze. Adesso, nell’arco delle ventiquattro ore settimanali, è da inserire religione, informatica, inglese. Finisce che vado a insegnare meno italiano e matematica di quando ero insegnante unica».
Vincenzo: «Dopo tanti anni di sacrificio non si può buttare tutto. Soprattutto si mette in crisi un modello: quello che la scuola insegni a pensare. A creare dei cittadini consapevoli che sappiano programmare il proprio futuro al di là del bene immediato. Con l’insegnante unico si tornerà all’insegnamento frontale, uguale per tutti, che non tenga dentro i tempi di apprendimento di chi non ci arriva la prima volta. E questo con grande danno delle categorie culturalmente più svantaggiate. E poichè oggi non si può dire che culturalmente svantaggiato sia il povero, possiamo pensare che quelli più trascurati sul piano sociale e familiare saranno quelli che saranno anche deprivati della possibilità di apprendimento».
l’Unità: «Il governo afferma che i tagli al personale faranno aumentare i vostri stipendi...».
Vincenzo: «Io non voglio un aumento di stipendio. A me non me ne frega niente di aumentare lo stipendio. Il nostro livello stipendiale non è granchè, ma quello che prendevamo prima era veramente una miseria rispetto al costo della vita».
Caterina: «Non baratterei una cosa del genere per la fine della scuola primaria dove i maestri lavorano in team e gli alunni possono crescere a contatto con persone diverse, arricchedosi».

l’Unità 14.9.08
Il Papa condanna i falsi idoli: il denaro, il potere e il sapere
260mila francesi alla messa del Pontefice, presenti alcuni ministri. In serata a Lourdes da pellegrino: affido alla Madonna chi soffre
di Roberto Monteforte


«FUGGITE GLI IDOLI. Cercate il vero Dio». Ieri come oggi. Papa Benedetto XVI, dal cuore della «laica» Parigi, indica alla Chiesa e a tutti gli uomini la strada per contrastare gli effetti della secolarizzazione. Da l’Esplanade des Invalides, dove ha presieduto la messa solenne a conclusione della sua visita nella capitale francese, ha messo in guardia dal pericolo dei nuovi idoli, vere tentazioni per l’uomo contemporaneo.
Accolto con calore dagli oltre 260mila fedeli, compresi alcuni ministri, che affollavano la grande piazza e le vie adiacenti, in un’atmosfera di «gioia serena», ha lanciato la sua sfida alla «vana apparenza» della società dell’immagine e dell’apparire che aliena l’uomo. Che lo «distoglie dal suo vero destino, dalla realtà». Lo allontana dalla ricerca di Dio. Non ha dubbi Ratzinger. Il grande pericolo per l’uomo è mettere da parte Dio e volersi sostituire ad esso. È un peccato antico e attuale: l’idolatria, «vero scandalo». «La tentazione -spiega - di idolatrare un passato che non esiste più, dimenticandone le carenze». Come pure quella «d’idolatrare un futuro che non esiste ancora, credendo che l’uomo, con le sole sue forze, possa realizzare la felicità eterna sulla terra». Fa sue le parole rivolte ai Colossesi dall’apostolo Paolo: «La cupidigia insaziabile è una idolatria». E ancora «La brama del denaro è la radice di tutti i mali». Per poi scandire: «Il denaro, la sete dell’avere, del potere e persino del sapere non hanno forse distolto l’uomo dal suo fine vero?». Ma se l’idolatria resta un peccato da «condannare radicalmente», il Papa invita a distinguere il peccato, che resta inaccettabile, dal peccatore: «La persona è sempre recuperabile. È suscettibile di conversione e di perdono».
Torna a porre il tema del rapporto tra fede e ragione. «Mai la ragione entra in contraddizione reale con la fede» afferma. È l’«unico Dio», quello cristiano - assicura - «che ha creato la nostra ragione e ci dona la fede». Mentre il culto degli idoli distoglie l’uomo da questa prospettiva. Ma come cercare Dio? Nel mistero dell’Eucarestia, centrale per la vita cristiana: è stata la sua risposta. Benedetto XVI attento alla sacralità del rito, ieri ha chiesto un momento di riflessione silenziosa dopo la sua omelia. E il silenzio è calato sull’Esplanade del Invalides. Se è centrale l’Eucarestia lo è anche la figura del sacerdote «ordinato dal suo vescovo», l’unico abilitato - lo ha sottolineato - ad amministrarlo. Ma la Chiesa, anche in Francia, si misura con la crisi delle vocazioni. «Non abbiate paura di donare la vostra vita a Cristo» è stato il suo invito ai giovani francesi. Ma le difficoltà della Chiesa d’Oltralpe restano tutte: con le parrocchie sempre meno frequentate. Si attende l’effetto di quella «laicità positiva» evocata, tra non poche critiche, da Sarkozy per recuperare spazi e ascolto nella vita sociale. Ma pesa anche altro. La divisione tra la Chiesa figlia del Concilio, che male ha accolto il Motu proprio con il quale Ratzinger ha aperto al «rito tridentino», e i settori più tradizionalisti del cattolicesimo, entusiasti.
Nel pomeriggio Benedetto XVI, dopo aver pranzato con i vescovi parigini, ha raggiunto Lourdes. Da pellegrino ha dato inizio alle celebrazioni per il 150° anniversario dell’annunciazione della Madonna alla giovane Bernadette. Al termine della processione «aux flambeaux» ha pronunciato un discorso dalla forte intensità spirituale. A Maria ha affidato tutte le sofferenze dell’uomo: le vittime innocenti «che subiscono la violenza, la guerra, il terrorismo, la carestia o che portano le conseguenze delle ingiustizie, dei flagelli e delle calamità, dell’odio e dell’oppressione. Chi subisce "attentati alla propria dignità umana e ai diritti fondamentali, alla libertà di azione e di pensiero”. Coloro che soffrono per la disoccupazione, i malati, gli immigrati e "coloro che patiscono in nome di Cristo e che muoiono per lui"».
Stamane celebrerà la messa con tutti i vescovi di Francia. Parlerà al paese, alla Chiesa e al mondo.

l’Unità 14.9.08
Matilde, la donna che mediò tra Terra e Cielo
di Renato Barilli


L’OMAGGIO Mantova e Reggio celebrano la «comitissa» di Canossa. Tra 1046 e 1115 sovrana d’un mondo dove imperatore e papa si contendevano il potere. E la cui arte somiglia misteriosamente alla nostra

Le Province di Mantova e di Reggio Emilia e il Comune di San Benedetto Po, Abbazia di Polirone, hanno unito le forze per organizzare una serie di mostre attorno alla figura di Matilde di Canossa (forse 1046-1115), la famosa «comitissa» che aveva riunito nelle sue mani un’enorme estensione di terre, dal Lago di Garda al Lazio, e che aveva tentato di arbitrare lo scontro tra il sacro romano impero di specie germanica e il Papato. La posta in gioco era la questione delle investiture, decidere a chi spettasse la nomina dei vescovi, visto che questi allora esercitavano, nelle rispettive sedi, poteri sia religiosi che civili. Lotta senza esclusione di colpi, in cui il papato reagiva con l’arma della scomunica. E uno degli episodi di questo scontro fu appunto la scomunica che si abbatté su Enrico IV, l’imperatore germanico di turno, costringendolo a stare nella neve per tre giorni, a Canossa, feudo principale della «comitissa», in attesa che il Papa Gregorio VII, da lei ospitato, lo ricevesse e lo riammettesse nella Chiesa. Episodio conclamato, ma tutt’altro che risolutivo, la lotta continuò per decenni, prima di concludersi con la dieta di Worms in termini di spartizione delle rispettive sfere. Si tratta dunque di grandi eventi di natura politica, economica, religosa, civile, in cui le opere d’arte hanno un ruolo di contorno. Eppure, non mancano affatto di recare un segno evidente, eloquente. Se cerchiamo di coglierlo, questo segno, ne risulta compromesso il titolo con cui si presenta la sezione mantovana, a cura di R. Salvarani e L.Castelfranchi, Storia, arte, cultura alle origini del romanico. O meglio, tutto sta nell’intendersi su quel riferimento al romanico: se si vuol dire che i fatti qui illustrati, anche coi manufatti artistici, furono attigui a quella stagione, nulla da obiettare. Ma se si vuol dire invece che in quegli accadimenti bollivano i fermenti della grande stagione del romanico, l’arte dice di no, e vale a indicare la vera natura dei tre poteri che allora si scontravano, soprattutto l’Impero e il latifondo matildino: poteri illimitati, indeterminati nei confini, entro cui cose e persone «ballavano», quasi in stato di imponderabilità. Era una situazione proveniente dal disfacimento dell’Impero romano, che invece si era distinto per la creazione di un fitto reticolo di vie di comunicazione, cui in ambito artistico, nei dipinti come nelle sculture, corrispondeva una figurazione dettagliata, di alta fedeltà mimetica. Ma poi il venir meno di quelle coordinate aveva imposto l’astrazione piatta, schematica, generalista dell’arte bizantina, ancora dominante in quell’XI secolo che vede i fatti qui narrati. Le cose stavano per cambiare, ma non per opera della feudalità e dell’Impero, ai quali convenivano perfettamente le forme schematiche, le icone stereotipate e ripetitive. Entro quei vaghi confini le comunità, anzi, i Comuni stavano riattando le vie di comunicazione, i reticoli viari, e dunque avevano bisogno di forme d’arte più determinate, il naturalismo d’antan rialzava la cresta. Ma era molto difficile ritornare al mimetismo nelle manifestazioni pittoriche, dato che queste non erano confortate dall’esempio dei dipinti dell’antichità, andati perduti, mentre era possibile riprendere la forte statuaria antica nelle sculture, richieste dai portali delle chiese. E quello fu davvero l’avvento del romanico.
In fondo, il documento tipico dell’ondeggiare nel vuoto spinto confacente ai tempi matildini sta proprio nell’immagine simbolica di cui si vale la sezione di Mantova, una pagina del codice in cui il Donizone narrava De princibus canusinis, dove Matilde ed Enrico IV appaiono tracciati a larghe linee, piatti come sottilette. E tutti gli altri codici e motivi ornamentali, paramenti sacri, medaglie, sigilli raccolti in mostra si attengono a questa medesima bidimensionalità assoluta. Il fenomeno è tutt’altro che inconsueto, in fondo lo abbiamo visto ripetersi ai nostri tempi, quando le vie di comunicazione sono divenute perfino troppo rapide, ma col risultato analogo di far cadere la ricerca del dettaglio specifico, e di rilanciare l’astrazione. Allora, inutile precisare, bisognava galleggiare in un mare magnum di indistinzione, oggi, abbiamo troppa fretta per poterci soffermare sui dettagli, le icone astratte sono destino comune alle due epoche, seppure per ragioni opposte.
Se ci portiamo alla sede reggiana della mostra (a cura di A. Calzona), non per nulla anche qui siamo accolti in copertina dalla riproduzione di un mosaico animalista, conservato nella cattedrale della città, dove domina il medesimo schiacciamento, la perdita assoluta della volumetria. Ma tra la fine di quello stesso XI secolo e gli inizi del successivo, le cose cambiano, i bravi cittadini vogliono ristabilire relazioni, scambi commerciali, e dunque le immagini devono irrobustirsi, tornare ad essere tangibili, misurabili. Non ci possono essere in mostra le mirabili sculture modenesi di Wiligelmo, ma ci sono le altrettanto vivide e plastiche forme proposte dai capitelli di una località del reggiano, S.Vitale di Carpineti, seppure alquanto più tarde. Roma sta rinascendo, ma non certo per merito delle forze imperiali e del latifondo matildino, che invece erano interessati a mantenere l’umanità immersa in un mondo del pressappoco e dell’indeterminazione.

Corriere della Sera 14.9.08
Omicidio Calabresi. Parla Giordano (Prc): «Bravo Sansonetti Sofri ha sbagliato»
Ammettere una diversa classificazione vorrebbe dire annullare un dibattito che ha permeato ormai persino chi ha praticato la lotta armata
di Paolo Conti


L'intervista «Giusto il passaggio su Licia Pinelli: Stato incapace di riconoscerle lo stesso dolore della famiglia Calabresi»
Giordano: un commissario vale quanto un comunista
L'ex leader del Prc: Adriano? Errore, il poliziotto fu una vittima come Guido Rossa e Bachelet

ROMA — «Il mio è un giudizio politico, nulla a che fare con le sentenze della magistratura. So bene che gli imputati del caso Calabresi non sono mai stati condannati per terrorismo... però dico che quell'omicidio fu un atto di terrorismo. E che valenza terroristica ebbero tutti gli omicidi di cui si macchiarono le Brigate rosse in quegli anni, per citarne solo due Vittorio Bachelet e Guido Rossa».
Parola di Franco Giordano, ex segretario di Rifondazione Comunista dal 2006 al 2008. La sua critica a Adriano Sofri è chiara così come il totale appoggio a Piero Sansonetti, direttore di «Liberazione», che ha attaccato lo scritto dell'ex leader di Lotta continua apparso su «Il Foglio » l'11 settembre scorso.
Piero Sansonetti attacca Sofri: non si può «distinguere in base alla biografia delle vittime », scrive il direttore di «Liberazione».
«Mi ritrovo fedelmente nelle contestazioni di Piero. Quella distinzione di Adriano, anche se maturata in un lungo ragionamento culturale e politico, è sbagliata. Premetto, a scanso di equivoci, di non aver mai creduto alla colpevolezza di Sofri nella vicenda Calabresi. Mi sono sempre battuto per una soluzione politica e continuerò a farlo: Adriano deve poter lasciare, dopo anni, una condizione dolorosa di detenzione che ormai è stata lunghissima. Detto questo, non posso condividere la separazione che lui sembra voler compiere tra un terrorismo di natura stragista, che fa della violenza il fine per gettare nel panico un nemico indistinto, dagli atti di sangue contro i singoli che in qualche modo potrebbero — secondo lui — portare a un recupero, in via drastica, di torti subiti...» Anche quello è terrorismo, dunque?
«Lo ripeto. Senza dubbio. Come potrei maturare un giudizio diverso? Sansonetti parla correttamente di giustizialismo. E io non sono un giustizialista. Non lo sono nella versione vendicativa con cui spesso le istituzioni statali decidono di rivalersi verso una persona che ha sbagliato: sono culturalmente contro l'ergastolo e a favore di pene alternative al carcere. Figuriamoci se posso essere giustizialista nel caso di forme violente, e magari nel nome di una "altra giustizia"» Tornando alla distinzione di Sofri...
«Ecco, ripeto, qui Adriano veramente sbaglia. Prendendo per buono quel distinguo, come ha correttamente argomentato Piero Sansonetti, si potrebbe arrivare a sostenere che l'omicidio di un poliziotto non è un atto di terrorismo. Non sono d'accordo. Io non posso distinguere tra un militante comunista e un commissario di polizia».
Sansonetti arriva anche a un'altra conclusione. Cioè che così si azzererebbero anni di discussione politica.
«Giustissimo. Ammettere una diversa classificazione vorrebbe dire veramente annullare un dibattito maturato a sinistra e che ha permeato ormai persino chi ha praticato la lotta armata negli anni Settanta. Sansonetti paventa possibili disastri culturali e politici, e anche qui concordo con l'analisi. Su un punto, però, sono completamente d'accordo con Adriano. Trovo il passaggio su Licia Pinelli giustissimo. C'è stata incapacità, da parte dello Stato e delle istituzioni pubbliche così come della società civile, di riconoscere alla famiglia Pinelli la stessa intensità del dolore della famiglia Calabresi» In quanto, appunto, al comportamento negli anni della famiglia Calabresi?
«Ho sempre avuto la massima considerazione per loro. Ho conosciuto Mario, il figlio giornalista, negli anni di lavoro alla Camera e ne ho sempre apprezzato la bravura e la correttezza. In quanto alla vedova e a tutti loro, trovo straordinaria la modalità in cui sono riusciti a vivere il loro dolore: indiscutibile compostezza, sempre la ricerca della giustizia e mai della vendetta. Il tutto con profonda sofferenza e non comune dignità».

Corriere della Sera 14.9.08
Sofri e le parole su Calabresi. Critiche da sinistra: ha sbagliato
Sansonetti: pericoloso negare che quell'omicidio fu terrorismo Ma il «manifesto»: no alle equazioni, giusto il suo urlo arrabbiato
Il direttore di «Liberazione»: Sofri reintroduce nel dibattito un'idea totalitaria di innocenza e colpa
di Marco Imarisio


ROMA — «Adriano Sofri (Trieste, 1 agosto 1942) è un ex terrorista, giornalista e scrittore italiano al centro di un controverso caso giudiziario che lo vede condannato in via definitiva come mandante dell'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi». Wikipedia, l'enciclopedia libera online, è tutto fuorché il Vangelo. Ma due giorni dopo la pubblicazione del suo articolo sul Foglio, chi avesse voluto consultarla per saperne di più sull'ex leader di Lotta continua avrebbe trovato quella definizione, «ex terrorista », inserita di fresco da un utente, poi rimossa, poi nuovamente reinserita. Il resto è tutto giusto. Ma quella nuova voce è uno sfregio che davvero dimostra come questi siano argomenti che sopportano male la risposta del giorno dopo. E oltre a Wikipedia, arrivano attacchi a sorpresa anche da sinistra, primo fra tutti quello di Piero Sansonetti, direttore di Liberazione e «sofriano » convinto. Le parole di Sofri — riassumendo brutalmente il suo articolo sul Foglio: la morte di Luigi Calabresi non fu terrorismo, lo Stato si è dimenticato della famiglia Pinelli — hanno però alzato un'onda di reazioni e turbamenti, soprattutto nei suoi settori di riferimento, la sinistra più movimentista e il vasto arcipelago dei reduci di Lotta continua. Lo testimoniano due editoriali di ieri, pubblicati da autori di area molto vicina, ma dai contenuti opposti. Il 20 ottobre 2007 Gabriele Polo e Piero Sansonetti, rispettivamente direttore de il manifesto e Liberazione,
si abbracciavano sul palco di piazza San Giovanni al termine della manifestazione da loro organizzata nel tentativo vano di rianimare e unire la sinistra. Ma su Sofri, saluti all'unità. «I cortocircuiti della propaganda cercano al terrorismo italiano una data d'origine nell'omicidio Calabresi, precipitano così nelle equazioni, cancellano tutte le differenze». Così Polo, sul manifesto, completamente d'accordo con «l'urlo arrabbiato » dell'ex leader di Lotta continua.
«Sofri opera una distinzione tra terrorismo e giustizialismo violento, e rivendica la categoria del giustizialismo per l'omicidio Calabresi, distinzione operata sulle caratteristiche e sulle biografie delle vittime (…). A me questo ragionamento sembra pericolosissimo. (…) Reintroduce nel dibattito politico un'idea totalitaria di innocenza e colpa, e di gradazione del diritto alla violenza, che può portare ai più terribili disastri culturali e politici». Questo invece è Sansonetti, sempre ieri. Come si vede, sul tema ci sono sostanziali divergenze tra il compagno Polo e il compagno Sansonetti.
Non si tratta di una mera polemica di carta. La morte di Luigi Calabresi è argomento urticante per chi visse quegli anni, basta un aggettivo per urtare sensibilità diverse. «Ci fa molto soffrire ancora oggi» dice Giovanni Russo Spena, che nel 2003 da parlamentare di Rifondazione si impegnò in una dura battaglia contro i «giustizialisti» che a suo dire remavano contro la grazia a Sofri. «Adriano non è certo un terrorista. Ma questa volta ha sbagliato, pur all'interno di un ragionamento importante. Non credo che esistano gradazioni alla definizione di terrorismo. E quel delitto rientra appieno nella categoria».
In quel 1972 lo scrittore Gianfranco Bettin aveva 15 anni. Si iscrisse a Lotta continua ad un passo dallo scioglimento, proseguì la sua strada fino a diventare consigliere regionale veneto, com'è oggi. Nel 2003, quando le vittime del terrorismo erano ancora nel cono d'ombra, fu degli oratori al Memory day di Mestre citato anche da Mario Calabresi in Spingendo la notte più in là. «Stando ai giudici, Sofri ha ragione. Lui vuole dire che quel delitto non va iscritto in una strategia che contempla l'omicidio come mezzo per ottenere un risultato politico. E non voleva certo sminuire la colpa di chi ha commesso un atto orrendo. E' una distinzione sottile tra crimine politico e terrorismo. Ma dal punto di vista delle vittime non cambia nulla, è pura accademia. Il suo è un grido, e come tale non proprio meditato». Paolo Cento, che firmò la proposta di legge sulla grazia a Sofri, sta con l'ex leader di Lotta continua. Senza se, con qualche ma, e questa è una novità. «Dice cose giustissime. I toni però sono sbagliati, ma questo fa parte del modo di essere di Adriano».
Ultimo viene lo storico. Giovanni De Luna, anche lui con un passato in Lotta continua. Il suo ragionamento, piuttosto sentito, è influenzato dal mestiere che esercita, dice di cercare la prospettiva lunga. «Può essere controverso, ma apprezzo lo sforzo di Adriano. Nessun Paese può permettersi il lusso di convivere con un passato irrisolto. Non esisterà mai una memoria unica e condivisa, ma spero che prima o poi si riesca a recintare un terreno virtuoso all'interno del quale vi siano certezze, storiografiche e giudiziarie, a cui ancorarsi. Perché i conflitti della memoria, specie se personali, non dovrebbero mai occupare uno spazio pubblico. Altrimenti, a lungo andare le società implodono».

Corriere della Sera 14.9.08
Rifondazione comunista. Ferrero propone la «gestione unitaria» del partito «No» di Vendola: niente scissione, ma stiamo fuori


MILANO — Il neosegretario Paolo Ferrero (foto) propone una gestione unitaria, l'antagonista Nichi Vendola risponde picche. Rifondazione comunista resta ferma al congresso di fine luglio a Chianciano.
«Proviamo a definire una gestione unitaria del partito per rientrare in campo e cominciare a fare politica», ha detto ieri Ferrero al comitato del Prc. Ma la componente di Vendola, che il 27 settembre farà un'assemblea pubblica, conferma la linea: niente scissione ma anche niente ingresso nella segreteria nazionale, eletta con 141 sì e 130 no.

Corriere della Sera 14.9.08
A Modena un tema suggestivo affrontato da pensatori e artisti
Nei meandri della fantasia
Uno strumento di verità della terra che l'uomo imprigiona nel sentirsi mortale
Sulla forma originaria della fantasia si fondano religioni e miti, filosofia, arte, scienza: tutte opere morte dei mortali
di Emanuele Severino


La fantasia è l'insieme delle «immagini originarie», delle «forme di rappresentazione più antiche e più generali dell'umanità»: gli «archetipi» (ad esempio il divino). «Diffusa dappertutto», la fantasia «appartiene ai misteri della storia dello spirito umano». Così scrive Carl Gustav Jung. Platone vede nelle «idee» le immagini originarie di tutte le cose, gli archetipi; così originarie da essere le stesse cose originarie. Ma per lui la conoscenza delle idee non appartiene ai «misteri» dello spirito umano, bensì alla scienza della «verità» a cui solo il filosofo è capace di sollevarsi e che dunque è l'opposto della «fantasia» intesa come evocazione misteriosa, e quindi da ultimo oscura e arbitraria, di mondi.
Eppure è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo a cui l'uomo si sia rivolto lungo la propria storia. Ci si imbatte nella forma originaria della fantasia, di cui tutti quegli archetipi sono derivazioni. Da tempo chiamo «terra» la storia dell'uomo e delle cose che gli si fanno incontro. Infatti si può pensare che la più antica origine di questa parola indichi il venire e l'andare, l'insieme di ciò che va e viene: il seno e la voce materna, la luce e la casa, uomini e dèi, il dolore e il piacere: cose terrestri e celesti, giacché anche il divino raggiunge i mortali a un certo punto della loro vita e poi da molti di essi si allontana. La terra: gli stormi delle cose che vengono e vanno.
Da che cosa è accolta la terra? Da che luogo si allontana? I mortali appartengono alla terra: nascono e muoiono. Ma l'uomo non è un mortale. Egli è il luogo eterno in cui appare ciò che da sempre la verità è destinata ad essere: il «destino della verità del Tutto»; essenzialmente diversa da ciò che i mortali hanno inteso con le parole «destino» e «verità». Nell'uomo sopraggiunge la terra. Ma insieme ad essa sopraggiunge e si fa dominante, la convinzione che l'uomo sia un mortale, e con lui tutte le cose; ed egli vive come se in verità lui e le cose lo fossero. Ma in verità ogni cosa è eterna. Non solo le «anime», come invece pensa Platone, ma anche i «corpi», e tutti gli stati delle une e degli altri. Anche la terra è eterna; e anche quella ingannevole convinzione che separa la terra dal destino della verità.
Com'è lontano questo discorso da tutto ciò di cui sono convinti i mortali! La sua inevitabilità non può essere, qui, neppure lontanamente indicata. Qui si tratta solo di mostrare, da lontano, in che senso è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo evocato dai mortali. Tanto indietro da poter scorgere che sia la «verità» dei mortali sia la loro «fantasia» hanno la stessa anima e che quest'anima è la forma originaria della fantasia.
In una delle sue accezioni più comuni, la fantasia è la capacità di portare alla luce mondi diversi da quello quotidiano o da quello che è ragionevole ritenere esistente. Ma questi due tipi di mondi, cioè di andirivieni, entrambi evocati dai mortali, appartengono alla terra. Essa è il fondamento non solo della sapienza di questo mondo e della sapienza di Dio, ma anche della fantasia. E la terra si inoltra nel luogo eterno del destino della verità. Ma non basta. La maggior parte di coloro che leggono queste righe stanno pensando che esse non abbiano nulla a che fare con la «realtà» e la «serietà della vita».
Fantasie, appunto. Ma anch'essi sanno infinitamente di più di quanto credono di sapere. Sono l'apparire del destino. L'autentica fantasia originaria è cioè la convinzione che la «realtà » con cui noi abbiamo sicuramente a che fare sia, appunto, le cose che vengono e vanno, terrestri o celesti, le cose della terra; e ormai si pensa che tutte le cose vengano dal nulla e vi vadano. Tutto è avvolto dalla morte. Chiudendosi in questa persuasione i mortali vivono nella terra separata dal destino della verità, nella terra che appare sfigurata, irretita, trascinata in basso. La terra dei morti. La fantasia originaria è la separazione della terra dal proprio destino. Una metafora può forse aiutare a comprendere queste affermazioni— purché non si dimentichi che la filosofia autentica non è metafora, ma il pensiero più radicale, essenzialmente più radicale e inevitabile di ogni altra forma di sapere, scienza compresa.
Quando i cacciatori vedono gli stormi di uccelli attraversare il cielo, non è che il cielo non lo vedano più. Non si produce in essi qualcosa come un «oblio» del cielo e del più alto dei cieli — quale invece secondo Platone si spalanca nelle anime che hanno perduto le ali e non riescono più a vedere gli archetipi che appaiono nella «pianura della verità». Quei cacciatori, il cielo, lo vedono ancora, ma son tutti presi dal volo degli uccelli e se qualcuno parlasse loro del cielo direbbero che le sue son fantasie e che sono gli uccelli le cose con cui essi hanno sicuramente a che fare. Son tutti presi dal volo degli uccelli perché non mirano ad altro che a prenderli, gli uccelli; ed effettivamente li prendono, e gettan loro addosso le reti e li sfigurano e, separandoli dal cielo, li trascinano giù in basso e li uccidono.
La fantasia originaria è il volo irretito degli uccelli. L'arte tenta di rievocare il libero volo, ma, per quanto splendente, rimane anch'essa all'interno della rete, mostrando il volto sfigurato della terra. Giacché ora si può capire che, nella metafora, il volo degli uccelli corrisponde alla pura terra, il cielo al destino della verità.
La rete dei cacciatori corrisponde dunque alla volontà di potenza che isola la terra dal destino della verità. Tale isolamento è la forma originaria della fantasia. Su di essa si fondano le forme derivate: religioni e miti, filosofia, arte, scienza: tutti i morti pensieri e le opere morte dei mortali.
Era glaciale L'opera di Marc Quinn, «Ice Age», un olio su tela del 2006. Courtesy of ProjectB Contemporary Art, Milano

Corriere della Sera 14.9.08
Cardiologia Un nuovo metodo di cura, che ora verrà testato sull'Everest
La musica rallenta il respiro e fa star meglio il cuore
di Franco Marchetti


Primi risultati incoraggianti sui sintomi di scompenso
Ricercatori italiani dimostrano che, rallentando il respiro a 6 atti al minuto, migliora l'ossigenazione

Grazie a un piccolo computer, una sorta di iPod, che con la musica induce a respirare più lentamente, i malati di scompenso cardiaco, in cui la funzione di pompa del cuore è insufficiente, vedono in poche settimane migliorare sintomi e qualità di vita. L'osservazione, che sarà pubblicata sulla rivista Circulation, è di un'équipe di ricercatori italiani che hanno preso spunto da studi da loro stessi effettuati sul Monte Rosa, a oltre 4000 metri di quota: avevano osservato come, rallentando la respirazione a 6 atti al minuto, si migliorasse l'ossigenazione del sangue. «Noi ipotizziamo che la respirazione lenta — dice il coordinatore della ricerca, Gianfranco Parati, direttore del Dipartimento di cardiologia dell'Ospedale S.Luca, Istituto Auxologico Italiano — abbia precisi effetti fisiologici». La respirazione lenta è più profonda e recluta tutti gli alveoli (cellette in cui avviene il passaggio dell'ossigeno fra aria e sangue), sfruttando per lo scambio dei gas tutto lo spazio a disposizione, che invece, in condizioni normali, viene usato solo in parte. «Lo scambio dei gas è favorito anche dal fatto che, distendendo molto i polmoni, la respirazione profonda rende più sottili i setti che separano il sangue dai gas» dice Parati. Infine, entra i gioco il il sistema nervoso simpatico, che la respirazione profonda "rilassa". Lo studio ha reclutato 24 pazienti, in due gruppi. Usando il dispositivo computerizzato ( vedi box), in meno di tre mesi i 12 pazienti che facevano la respirazione lenta (15 minuti, 2 volte al giorno) hanno presentato, rispetto a chi era stato trattato con la terapia convenzionale, un sensibile miglioramento della capacità del cuore di pompare, dei livelli di ossigeno nel sangue e dei sintomi, tanto che al termine dello studio i pazienti sono stati assegnati a una classe inferiore di gravità dello scompenso. Ora i ricercatori proseguiranno gli studi in occasione di una spedizione appena partita per l'Everest. «Studieremo individui sani, che però ad alta quota hanno una situazione polmonare molto simile a quella del paziente scompensato» conclude Parati.

Repubblica 14.9.08
A Milano minidosi da 10 euro. Ogni giorno se ne consumano 10mila
La coca in mano ai bambini
Consumi in forte ascesa tra i giovanissimi


Dalle acque depurate emerge che ogni giorno in città si consumano circa diecimila dosi. E nel week end salgono a quindicimila
"La quantità minima una volta costava 70 euro, cifra non bassissima". Ora gli spacciatori hanno messo la droga nelle mani di tutti

MILANO. La cocaina in mano ai ragazzini, questa è la nuova frontiera dello spaccio alla milanese, l´ultima strategia del supermercato dei sogni chimicamente perfetti. «Fammi fare un colpo», «Quanto vuoi per un colpo?».
Un tempo questa frase ambigua avrebbe potuto sottintendere un crimine o un po´ di sesso. Non è più così, nel vocabolario degli adolescenti. Quartiere Greco. Tre ragazze vanno da sole verso un gruppo di giovani neri. Da lontano la scena è semplice.
Uno dei maschi è lo spacciatore, intasca dalla bionda una banconota da dieci euro e infila qualcosa, forse un cucchiaino di plastica, in una bustina trasparente.
I sociologi la chiamano «minidose», lei e le amiche, no: davanti allo spacciatore, la ragazza sniffa, sorride, si è fatta «il colpo». E con il colpo in canna, cioè nel circuito sanguigno, eccola pronta per una serata distratta, se vorrà esserlo, o d´allegria, se deciderà di ridere. Almeno per un po´, in effetti, è così che funziona la cocaina, che però resta un pianeta in parte inesplorato persino per i tossici più incalliti.
La parola benzoilecgonina difficilmente suggerirà qualche cosa a chi non è medico, ma è un metabolide della cocaina, cioè la coca si trasforma in quella sostanza quando passa attraverso l´organismo umano. «Abbiamo analizzato le acque che passano dal depuratore di Nosedo, i nostri lavori del 2006 e del 2007 indicano che ogni giorno a Milano si consumano circa diecimila dosi di cocaina. E nel week end salgono a quindicimila. Abbiamo fatto analoghe analisi a Lugano e Londra. Bene, Milano è la città dove, in percentuale al numero degli abitanti, il consumo è il più alto».
Questa visione di Milano capitale europea del consumo della cocaina non viene proposta da un poliziotto allarmista o da uno scrittore di noir, ma da uno scienziato, Silvio Garattini del celebre istituto Mario Negri. Perché questa città va sempre più a mille e non tutti ce la fanno a reggere i suoi ritmi vagamente ostili. Tanto che «negli ultimi anni - cifre fornite su nostra richiesta dalla Prefettura - si assiste a un incremento di segnalazioni a carico di medici, infermieri, autisti, forze dell´ordine, avvocati». Cioè, durante i controlli (diciamo antidoping) a persone sospette, qualche volta si fa il test antidroga: emerge così questa "trasversalità" della roba. Nel 2004 c´erano state 3069 segnalazioni di persone da inviare poi al Sert, il servizio della Asl che si occupa di tossicodipendenze, ma l´anno scorso sono state 4129: magari la Borsa avesse lo stesso tipo d´incremento.
Milano dunque "sempre più in alto", o sempre più in basso, come raccontano i tantissimi casi di cronaca. Dalla pr della moda che, dopo un festino con amici e poi qualche altra striscia a casa sua, ha preso il bambino appena nato e insieme con lui s´è lanciata dalla finestra. Al giovane diciassettenne sbandato che, più volte aiutato da don Gino Rigoldi, una notte è scappato dalla comunità, s´è preso quanta più coca potesse e ha ammazzato, con un complice, un transessuale, con una violenza inaudita. I segnali esistono, pochi sembrano volerli leggere. Ma è bene sapere che «nel 2010 il numero dei consumatori di cocaina potrebbe aumentare del 40 per cento rispetto al 2007».
Lo sostiene un´analisi della Asl coordinata da Riccardo Gatti (www.droga.net). Ha organizzato un "prevo.lab", una sorta di "stanza delle previsioni", che se sbaglia, sinora ha sbagliato per difetto. Dice Gatti: «La percezione della droga come pericolo e trasgressione è stata progressivamente sostituita» dall´idea che sia un «semplice prodotto - potenzialmente innocuo e controllabile - da assumere liberamente, in qualunque momento e in qualunque luogo», per «una vita diversa per qualche ora». Un sogno chimico a cottimo. Una «polverina magica come quella delle favole». Ma dietro c´è il mercato dello spaccio. Con i pusher che replicano il modello distorto del supermercato per "fidelizzare" la clientela. C´è un conto da fare. Un po´ d´aritmetica applicata alla strada.
Oggi tra i 6 e gli 8 euro puoi prendere un aperitivo alcolico partecipando a un happy hour, che qualche volta più che comunicare "happy", rappresentano il massimo dell´infelicità milanese. Sempre a 8 euro si può comprare una microdose di eroina (0,20 grammi) necessaria a far calare l´eccitazione da coca. A 8,5 euro trovi l´hashish e a 6, quando c´è, la marijuana. L´ecstasy non manca, ma tra i giovani "fuori giri" di Milano è una cosa o da "tamarri" (i fuori moda della periferia) o da sudamericani. Tra i 10 e i 15 euro è possibile, come abbiamo visto, il "colpo", la botta al cervello della cocaina che "sale".
Risultato: gli spacciatori si sono livellati al costo medio della "serata". Un progetto che rende, stando agli studi statistici del dottor Roberto Mollica, sempre della Asl: in Italia nel 2005 i giovanissimi erano il 3,5 per cento dei consumatori, ma nel 2006 sono saliti a 3,9. Nella provincia di Milano erano 3,5, sono arrivati a un bel 4,3. Intorno al vecchio Duomo «sulla popolazione tra i 15 e i 19 anni (pari a 161.580 ragazzi) i consumatori sono 7mila circa», aumentano sempre, sono sempre più giovani.
E mentre scriviamo, Colombia, Bolivia e Perù stanno aumentando anche la produzione. Fabio Bernardi, ora capo della Mobile a Bologna ed ex capo della Narcotici a Milano spiega che questa «produzione è arrivata ormai a 900 tonnellate anno, e il 60 per cento arriva dalla sola Colombia». Sono gli "eserciti" a gestire il traffico, visto che «le famose Farc hanno quasi il monopolio della coltivazione», gli acquirenti in Italia «soprattutto le ‘ndrine calabresi, poi le organizzazioni camorristiche più che quelle siciliane, ma - tanto per spiegare - noi a Milano beccammo il responsabile di un centro per abbronzature che gestiva direttamente il traffico e aveva 70 chili in deposito, insomma se hai la liquidità e non hai paura, puoi rischiare». Negli ultimi giorni, in mano a tre illustri sconosciuti, tre gangster di mezza tacca, sono stati trovati 300 chili di "bamba". Sembra tanta, è solo goccia nel fiume di droga che, tra pub e discoteche, chioschi dei panini e piazze, scorre florido e carsico.
L´affarismo senza scrupoli milanese sa far di conto molto bene. Un chilo di cocaina costa millecinquecento dollari quando lo si compra in Colombia, ma sulla piazza europea vale dai 20 ai 23mila euro, e cioè venticinque volte di più. «Tutti noi dell´antidroga - continua Bernardi - guardiamo Milano perché è la città che detta la tendenza generale, come anche Madrid e Londra, e quello che preoccupa moltissimo è che la dose minima, una volta, costava non meno di 70 o 60 euro, cifre basse, ma non bassissime». Ma poi gli spacciatori, siccome «il mercato europeo della cocaina è in ascesa mentre quello americano è saturo», hanno inventato la minidose, destinata ai più giovani, e mettendo la cocaina nelle mani di tutti.
Solo grazie al tanto criticato pm di Potenza John Woodkock è venuto a galla quel giro di cocaina che per anni ha imperato e prosperato nella zona di corso Como, quasi del tutto indisturbato. Gli interrogatori su veline e soubrette che tiravano "le righe" nei bagni della discoteca vip Hollywood hanno svelato quanto fosse (e sia) un fenomeno di massa. Nell´ultimo mese il repulisti tra i locali della movida milanese è stato continuo. Hanno acchiappato "Paco", ma solo perché ha portato la roba a domicilio a una cliente brasiliana, e stando ad accuse e indagini, l´ha violentata. Poi sempre in corso Como sono stati placcati dai carabinieri due nigeriani che, credendo di non dare nell´occhio, usavano la bicicletta per pedalare da un cliente e l´altro. Arresti, arresti, sempre pochi rispetto alla tanta gente che vende e compra "l´additivo", per innalzare il numero dei giri della propria ingrippata macchina umana.
Nelle interviste ai vip milanesi, ricorre spesso una domanda: «C´era una volta "la Milano da bere", oggi che cosa c´è?». Già allora quella era la Milano non solo della moda, della Borsa e di Bettino Craxi, ma anche di Angelo Epaminonda, detto il Tebano, che aveva il monopolio della cocaina rosa. Un quarto di secolo dopo, non c´è alcun monopolio, c´è solo tanta merce. Chi ne fa un uso autistico, la classica sniffata da solo, prima di vedersi una partita alla tv. Esiste l´uso empatico, per sentirsi tutti insieme. C´è chi la ordina usando "skype", su Internet, che non è facilmente intercettabile. È in mano a tutti, la cocaina, in questa nuova «Milano che si beve l´anima».

sabato 13 settembre 2008

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l’Unità 13.9.08
Il bavaglio, la malattia che uccide i giornali
di Furio Colombo


IL LIBRO In edicola con l’Unità il primo d’una serie di saggi di Furio Colombo. Esordio con un’indagine sulla metamorfosi del mestiere di giornalista. Dal New York Times a Le Monde il cancro è lo stesso

Il nuovo titolo non è una trovata per dare un segno vivace a una nuova edizione. Intende rendere evidente un aggravarsi del sistema delle informazioni in Italia dopo la clamorosa vittoria di Berlusconi nell’aprile del 2008. Con il suo ritorno al governo, che implica anche un progetto di vasta revisione costituzionale, piú o meno condiviso con l’opposizione, Berlusconi riporta al centro dello Stato il peso del suo impero mediatico, sommato al controllo sulla televisione di Stato, che gli è garantito dalla legge Gasparri, rimasta in vigore durante il breve governo del centrosinistra, sommato alla vastità della sua ricchezza, dunque capacità di influenza o potere sui consigli di amministrazione dei più importanti gruppi editoriali italiani. Il problema - in questa fase difficile per le democrazie occidentali, ansiose, insicure e inclini a rinunciare a diritti inalienabili come la libertà di stampa in cambio di una illusione di sicurezza - non è solo italiano, come testimonia Barbara Spinelli su La Stampa del 18 maggio 2008.
«Sono tante le democrazie alle prese con una informazione che fallisce la prova, che al cittadino non rende visibile l’invisibile, che dal potere politico si fa dettare l’agenda, le paure, gli interventi prioritari. Che è vicina alle lobby e ai potenti piú che ai lettori». Basterebbe ricordare lo scandalo del Pentagono che fin dall’inizio della guerra in Iraq ha fatto in modo che ex ufficiali venissero assunti come «esperti militari» dalle maggiori reti televisive americane, in modo da assecondare autorevolmente, in ogni telegiornale o talk show le notizie preferite dal Pentagono. Basterebbe citare lo scandalo del New York Times che per anni ha passato le «veline» della Casa Bianca al New York Times attraverso la principale notista politica di quel giornale (poi scoperta per caso e licenziata, come si narra in questo libro). Basterebbe riferirsi ai tormenti del quotidiano Le Monde, uno dei piú autorevoli del mondo, che non riesce ad uscire da una crisi che in parte è economica e in parte di capacità e volontà di confermare senza compromessi la propria missione.
Ma vede giusto la Spinelli quando aggiunge alla sua dura diagnosi il quadro, peggiore, della situazione italiana: «Quel che ci rende originali (noi italiani, ndr) è il fallire del sistema immunitario che altrove funziona. Non sappiamo liberarci dalle patologie, dalle loro cellule».
L’informazione italiana non produce anticorpi atti a ristabilire un contatto con la società. Il risultato è palese, oggi, e lo storico Adriano Prosperi lo descrive con nitidezza: «Un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e opposizione, un gusto di correttezza, un’aria di intesa e di pace. Fuori, intanto, una guerra tra poveri e pogrom moltiplicati contro Rom e diversi. Il guaio è che anche la stampa è palazzo: incensa serenità politiche ritrovate e scopre, d’improvviso, una società inferocita da tempo, ormai indomabile dalla destra che l’ha sobillata».
Il fatto è che la stampa e la tv, come buoni e fedeli retrievers trovano ciò che devono trovare e lo portano dove lo devono portare, in onda o in pagina, proprio come in una partita di caccia fruttuosa e bene organizzata. Una pesante anomalia in piú a carico dell’Italia e del suo sistema di notizie, che è casta-specchio della casta del potere.
In Italia, di frequente, e anche nel mezzo di drammatiche vicende nazionali e internazionali, i telegiornali aprono con interventi, parole, apparizioni del Papa che non sono notizia, sono buon materiale per i programmi religiosi e per qualche occasione di approfondimento. Invece la capacità della Chiesa cattolica di dirottare il corso delle notizie a vantaggio della propria prominenza si esprime in un vero, incontrastato dominio delle redazioni che il «silenzio stampa» italiano, preso nella doppia morsa del potere commerciale di Berlusconi e del potere religioso della Chiesa, segnato dalla resistenza esangue di un sistema immunitario allo stremo, di una contrapposizione politica fragile e smarrita, è un fatto tristemente evidente. Ma poiché sarà sempre contestato sia dalla malafede di chi - come abbiamo detto - domina la scena (la strategia vincente è sempre quella di farsi passare per parte minoritaria, perseguitata, un underdog che esercita con le unghie e coi denti un diritto alla sopravvivenza), sia da chi, in buona fede, e senza vedere la camera stagna in cui è racchiuso vuole difendere ciò che crede il suo buon, onesto lavoro, potrà essere utile offrire qui, all’inizio di questa breve esplorazione dell’infelice giornalismo italiano contemporaneo, la narrazione e documentazione di un fatto italiano e televisivo di ordinaria amministrazione che però è apparso tanto allarmante quanto esemplare a chi ha ancora memoria di giornalismo libero. È il caso Travaglio, il caso di un giornalista che, invitato ad una intervista giornalistica intesa come occasione mondana, si è preso la responsabilità di trasformarla in occasione politica. La Rai si è scusata con il pubblico, si è dissociata dall’intervistato-ospite, ha dichiarato che l’ospite risponderà personalmente dei danni, come se avesse devastato lo studio invece di raccontare ciò che sa e ha dimostrato di sapere di un personaggio delle istituzioni. Perciò abbiamo ritenuto di aggiungere un nuovo capitolo dedicato a questa strana avventura televisiva che offre una preziosa chiave di lettura per il materiale e le opinioni che seguono sullo stato del giornalismo italiano. Intanto Berlusconi torna a governare e si avvia, con tutto il peso delle sue vettovaglie, verso la presidenza della Repubblica.

l’Unità 13.9.08
Nubi su «Liberazione». Il sindacato chiede garanzie per il lavoro di 60 dipendenti. Esclusa fusione con «Il Manifesto»


ROMA Futuro incerto per 60 dipendenti, di cui 37 giornalisti, del quotidiano Liberazione, la mancanza di trasparenza sullo stato dei conti economici del giornale e della volontà politica del partito-editore, Rifondazione comunista, sul suo futuro, sono stati i temi denunciati dal Cdr della Testata, dal segretario di stampa romana, Paolo Butturini, e dal suo presidente Fabio Morabito, e dal presidente della Federazione nazionale della stampa Roberto Natale. Alla denuncia del sindacato è seguita la risposta del segretario di Rc Paolo Ferrero che ha affermato di condividere le preoccupazioni dei giornalisti e ha smentito ogni voce su un possibile accordo tra il partito e il quotidiano «Il Manifesto» per trasformare «Liberazione» in un inserto del «Manifesto». «Ben consapevoli dei problemi sorti per il partito editore del giornale Rc, in seguito ai risultati dell'elezione di aprile e del particolare momento che sta vivendo il partito stesso dopo il congresso di Chianciano - si legge in una nota - il sindacato chiede che la società editrice si comporti da società pura tenendo fuori Liberazione da qualsiasi problema politico. Il sindacato chiede inoltre garanzie immediate per il futuro per circa i 60 dipendenti».

l’Unità 13.9.08
All’armi son fascisti
di Moni Ovadia


I recenti episodi di riabilitazione della memoria fascista e segnatamente repubblichina che hanno avuto come protagonisti l’apologeta della croce celtica, l’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno e il ministro della Difesa Ignazio La Russa, sono solo l’ultimo e più grave episodio della tossicosi revisionista che ammorba l’ecosistema politico culturale del Belpaese. Da quasi oltre un ventennio, più o meno dalla discesa in campo di Berlusconi, vengono riversati neri liquami tossici nelle discariche televisive per impregnare il terreno del senso comune dei teleutenti sprovvisti di coscienza storica, poco o male informati e di molti giovani che non ricevono una vera formazione. Questa materia inquinata, viene sparsa con abbondanza soprattutto per il tramite delle pompe dell’anticomunismo viscerale, forma virulenta e degradata di un démi penser isterico e strumentale. L’anticomunismo viscerale assomiglia in modo impressionante a certe forme di parossistiche di antisemitismo tipiche di paesi in cui gli ebrei, un tempo numerosi, vi si trovano oggi a poche centinaia.
La doppia esternazione di Alemanno e La Russa è gravissima perché viene da rappresentanti del governo che hanno giurato fedeltà alla Costituzione Repubblicana. La nostra Carta, ha ragione Francesco Storace quando lo fa notare, non è un totem in sé, ma è fondata su principi universalmente sacri che si chiamano uguaglianza, libertà, solidarietà, inviolabilità dell’essere umano, giustizia sociale, universalità. Questi valori, per qualsiasi autentico democratico, sono non negoziabili ed irrinunciabili. Per chi si richiama all’eredità fascista, o anche solo la tollera come veniale, no! Per capirlo e toccarlo con mano non c’è bisogno di ritornare ai tempi del manganello, dell’olio di ricino, del “bivacco per i miei manipoli”, dei roghi delle Case del Popolo e dell’assassinio degli esponenti avversi. È sufficiente ricordare i fatti di Genova del 2001.
Come siamo arrivati a questo disastro? Sì, disastro! In un paese serio, diciamo solo a titolo di esempio, la Germania Federale, i due esponenti della destra avrebbero immediatamente dovuto rassegnare le dimissioni e scusarsi con l’intero paese per le ignobili dichiarazioni. Da noi invece questo non accade, noi siamo arrivati a questo punto per quel turpe vizio nazionale che è la sedicente “moderazione”, pretesa figlia di una presunta bonomia, quella per intenderci degli “italiani brava gente”. Detto carattere italiano, ha avuto facile gioco nel pretendere ed ottenere sottovalutazione e immunità per gli orrendi crimini fascisti, tolleranza verso il revanscismo repubblichino e, dulcis in fundo, la semi beatificazione di uno dei peggiori criminali del Novecento, il vigliacco, opportunista, traditore e razzista per convenienza Benito Mussolini. Tutte le sirene che cantano per il centro-destra, anche le più seducenti, hanno ovviamente sviolinato a più non posso con la scusa di favorire un’altra delle peggiori truffe nazionali, la sedicente “riconciliazione”, ma grave è anche l’atteggiamento pavido di una parte dell’opposizione, sia riformista, sia radicale, che con aria penitente ha accettato il commercio revisionista anche flagellandosi coram populo pur di farsi perdonare la colpa di essere stati comunisti.
La responsabilità più grave, mio parere, ricade invece su alcuni esponenti istituzionali delle comunità ebraiche italiane che, in cambio di quattro moine per il governo di Israele attualmente in carica, hanno deliberatamente ignorato la sarabanda revisionista o, al massimo, reagito con una cordiale tiratina d’orecchi. C’è persino qualcuno che è arrivato a candidarsi con questo centro-destra (e sottolineo “questo”) anche se nell’alleanza c’è un partito di irrisolto orientamento xenofobo e talora frange dichiaratamente neonaziste.
Le parole dure, calunniose e vigliacche ai limiti della denuncia, questi signori hanno preferito riservarle a quei dissidenti, ebrei e non, che democraticamente criticano la politica di occupazione e colonizzazione delle terre palestinesi.
In questa circostanza sento come non appropriato il chiudere le mie riflessioni con accenti negativi.
Ho letto sulla stampa che il Presidente della Camera, on. Gianfranco Fini, è profondamente irritato per il comportamento dei suoi colonnelli. Voglio credere che la sua irritazione sia sincera e che abbia seria intenzione di rimuovere dalla politica italiana le derive nostalgiche. Mi permetto di fargli una proposta: negli archivi Rai giace un film della Bbc intitolato «The Fascist Legacy», L’eredità fascista. La Rai lo ha acquistato tempo addietro e mai trasmesso, sospetto per ovvie ragioni. Fini, che oggi rappresenta la terza carica della Repubblica, chieda che venga messo in onda su Rai 1 in occasione del Giorno della Memoria, in prima serata, con lui in studio per commentarlo come si deve.
Se lo farà, ci saranno probabilmente molte reazioni scomposte, ma alla fine il paese gliene sarà grato.

l’Unità 13.9.08
Domande ai maschi
di Clara Sereni


In prima battuta mi sono chiesta: ma la voce delle donne, che fine ha fatto? Possibile che le donne non abbiano niente di nuovo da dire sulla prostituzione, sull’uso sempre più spregiudicato, proprietario e violento dei corpi, sull’idea di rinchiuderli dentro case che saranno prigioni e lager? Siccome non sono i nostri, e visto che a parlare sembra restino soltanto le brave mogli e brave madri e buone figlie, quelle che hanno vergogna di vedere e preferiscono non sapere, sui corpi venduti e comprati non abbiamo più parole? Siamo talmente affaticate dal vivere che ogni repressione ed emarginazione ci passa sopra senza commenti che non siano di bandiera? Siamo così impaurite dal nostro retrocedere?
Così intimorite che - a parte le donne presenti nelle unità di strada finché non le sopprimono - non ci poniamo più il problema di come relazionarci con chi vive condizioni di massima emarginazione, quando non di vera e propria schiavitù?
Non ho trovato la risposta, ma un’altra domanda mi si è affacciata subito dopo: ma gli uomini, hanno qualcosa da dire? Si pongono il problema di dire qualcosa?
Negli ambienti che frequento vige ancora - fortunatamente - qualche tabù: dire che le donne sono tutte puttane non sta bene, e anche l’inevitabilità del mestiere più antico del mondo non trova buona stampa. Qualcuno certamente pensa ambedue le cose, ma si perita di dirlo e questo lo considero, alla fin fine, un bene. E però...
Fra le persone che conosco, mai ne fosse capitato uno che ammetta di dirsi cliente. Al più ho sentito dire, da qualcuno abbastanza attempato e in imbarazzo, che bisogna pur provvedere alle pulsioni sessuali degli immigrati senza relazioni e senza amori: e senza soldi, aggiungo io, in mancanza dei quali incrementare l’afflusso dei clienti è piuttosto improbabile. Da quel punto di vista, la prostituzione sarebbe tutto un fatto di emarginazione, da una parte e dall’altra, e chiusa lì. Da un giovane, invece, ho sentito raccontare della rinnovata frequenza e passione per i “puttan tour”, quei giocosi assembramenti maschili, generalmente automuniti, in cui si va a sparare con le pistole ad acqua o se ne tira a secchiate, preferibilmente d’inverno, alle prostitute che così si congelano meglio. A me, attonita, che chiedevo un perché, una ragione, è stato risposto: «È divertente...», e il discorso si è incagliato, senza possibilità di riprenderlo in modo minimamente problematico.
Giovani e meno giovani, mai un discorso che valga la pena ascoltare su come gli uomini vivono la propria sessualità. Su come si relazionano, oggi, con le donne, che siano le loro compagne o altre. E invece vorrei sentir confessare e discutere, per esempio, questo bisogno maschile inesausto, anzi evidentemente in crescita, di comperare corpi - giovani più che si può, femminili in prevalenza ma poi anche maschili e transgender. Ci hanno detto che dipende dal ruolo maschile ormai pencolante, che li porta anche a picchiarle e ucciderle, le donne. E questa spiegazione sembra aver chiuso ogni altro discorso, ogni ulteriore problematizzazione. E così, se la prostituzione innegabilmente aumenta, la reazione è come per la grandine: succede, la manda il cielo, ci sono le mutazioni climatiche, che c’entro io?
L’ho già scritto, sono stufa di partecipare a manifestazioni a sostegno delle donne brutalizzate, vendute e comprate, ammazzate. I maschi devono trovare il coraggio di mettersi in gioco, di parlare. Non solo per dire: non nel mio giardino, non davanti a me, non davanti ai miei figli povere creature innocenti. I maschi devono interrogarsi a fondo sulla dicotomia donna(puttana)-madonna che sembra essersi di nuovo impadronita del sentire comune, e che dilaga nei nostri figli. I maschi devono dire “io”, e da lì partire per ragionare, per capire, e solo dopo, molto dopo, per decidere ed eventualmente legiferare. I maschi devono almeno cominciare a rendere conto alle donne di quel che pensano, di quel che fanno. Di come crescono e di come regrediscono.
Una domanda, ancora. L’educazione sessuale nelle scuole è cosa che neanche si nomina più. Il Presidente Napolitano ha apprezzato i nuovi programmi di educazione alla Costituzione. Chiedo: ma quale educazione alla Costituzione si potrà mai impartire, se mancano i minimi presupposti di vita civile, quelli che segnano i rapporti fra i generi? Il nuovo fascismo non è solo nelle affermazioni storicamente assai disinvolte di sindaci e ministri della Repubblica, o nelle singole aggressioni a migranti e diversi. Il fascismo è anche qui, nei nostri “maschi alfa” che da sempre e di nuovo si sentono liberi da ogni vincolo di coscienza e rispetto, anche nei confronti di se stessi. Abbiamo un gran bisogno di antifascismo in piazza, e bene ha fatto ad esempio la Cgil ad impegnarsi in tal senso, ma bisognerebbe cominciare a chiarire cosa significhi anti-fascismo fra le lenzuola, domestiche e non.
Non certo dalla ministra all’Istruzione, che mi appare in tutt’altre faccende repressive affaccendata, ma da qualcuno (maschio) vorrei proprio cominciare ad avere qualche risposta.

l’Unità 13.9.08
Paradosso Gelmini: tempo pieno, casse vuote
di Marina Boscaino


Il ministro promette che il tempo pieno non verrà ridotto
Sarebbe una bella notizia se non fosse per un dubbio: alla luce dei tagli annunciati quali saranno i fondi?

Il ministro Gelmini, intervistata qualche giorno fa a «Radio Anch’Io», ha tirato fuori una buona notizia: «il ritorno del maestro unico non compromette la tenuta del tempo pieno che, anzi, verrà esteso a più classi». Ma non è tutto oro ciò che luccica: tra logiche di risparmio (la conferma del taglio di 87mila posti di lavoro e il ritorno al maestro unico) e clamorose miopie culturali a sfondo demagogico («perché mai il contribuente deve pagare 3 insegnanti per una scuola primaria che funziona benissimo anche con uno solo») è legittimo chiedersi quali fondi saranno destinati all’investimento sul tempo pieno. E quale investimento culturale sarà fatto sulle 40 ore. Alla prima domanda risponde Enrico Panini: «la promessa è negata dal testo del decreto approvato in Consiglio dei ministri, che prevede l’introduzione del maestro unico in prima, seconda e terza elementare senza deroga alcuna, in contraddizione con la legge del 2006 che ripristinava il tempo pieno; in secondo luogo, se le parole del decreto hanno un senso, l’unica possibilità è che, qualora ce ne fossero le condizioni, si arrivi ad un allungamento orario, incrocio tra badantato e tempo scuola». Un modello molto simile, dunque, a quello della Moratti.
L’altra questione, quella dell’investimento culturale, è certamente più complessa. L’ossessione antisessantottina, alla quale questo governo sta dando corpo con un passatismo esasperante e anacronistico, cavalcando gli istinti più banali di una società incapace di affrontare la complessità - e dunque alla ricerca di rassicurazioni immediate e di facile realizzazione e consumo - minaccia di investire luoghi, spazi e acquisizioni che non sono esclusivamente il frutto dell’odiata cultura di sinistra, che pure ebbe l’indiscusso merito di elaborarne principi e modalità; ma soprattutto sono modelli ancora validi e risposte plausibili (per quanto perfettibili) a domande sociali e culturali di cui la scuola è per definizione il crocevia e il punto da cui partire. Il tempo pieno non va difeso solo come conquista di gloriosi anni di lotta e di partecipazione; di interesse per la cosa pubblica; di consapevolezza della funzione portante che l’educazione e la conoscenza, ma anche la socialità e lo stile di vita, hanno nell’emancipazione degli individui. Il tempo pieno va difeso perché - oggi soprattutto - una scuola consapevole, luogo di cura, di relazione, di accoglienza può rappresentare la risposta più inclusiva ed equa alle contraddizioni del reale. Può non solo rendere compiuta la cittadinanza dei figli dei migranti e della marginalità sociale; ma anche ribadire e rinforzare quella di tutti i bambini e le bambine che avranno avuto la fortuna di incappare in uno strano luogo in cui si facciano parti uguali tra coloro che una società sfacciata e impudica sempre più considera diversi. Può configurare un modello di società che non abbiamo il diritto - per noi e per i nostri figli - di considerare tramontato. Può fare tutte queste cose sorprendenti e utili attraverso un modello di integrazione didattica, di laborialità, di pluralità dei punti di vista e delle prospettive, di collegialità vissuta come confronto attivo; attraverso un progetto strettamente culturale che per molti anni ha avuto una straordinaria forza di impatto dando risposte cognitive, educative - e quindi anch’esse culturali - a bisogni sociali. L’impresa è difficile: la ostacolano il calo di motivazione degli insegnanti, il calo di tensione civile dei cittadini, il calo di fiducia in idee e temi che hanno caratterizzato una storia che la liquidità dell’oggi ci fa sembrare lontana anni luce. Ma che era solo ieri. È curioso che Gelmini e colleghi abbiano deciso scientemente di penalizzare con maggiore violenza la scuola elementare, l’ordine più efficace del sistema scolastico italiano; quello la cui esperienza didattica viene considerata esemplare da molti punti di vista. È curioso ma non casuale.
Da queste e da molte altre ragioni è motivato lo scetticismo sulla veridicità delle promesse di Gelmini: grembiule, maestro unico, tagli, provvedimenti antibullismo di facile impatto mediatico ma di probabile inefficacia, cinque in condotta, mal si coniugano con l’ampio respiro che ha dato vita ad una delle esperienze più significative della scuola italiana.

Corriere della Sera 13.9.08
L'ultima rivelazione I dossier del processo e la confessione di un amico della coppia confermano l'iniquità della sentenza
«Ethel Rosenberg innocente»: la verità 55 anni dopo l'esecuzione
Condannata con il marito per aver fornito segreti nucleari all'Urss. «Lui era la spia, lei fu incastrata»
di Ennio Caretto


L'esecuzione avvenne nel '53. Ethel aveva 35 anni Spia Morton Sobell, amico della coppia

WASHINGTON — Nel 1953, quando Julius ed Ethel Rosenberg, sposati e con due figli piccoli, vennero mandati alla sedia elettrica per avere fornito segreti atomici all'Urss, l'Europa, l'Italia in particolare, si divise tra colpevolisti e innocentisti. La spaccatura non si saldò mai: per i colpevolisti l'America, in piena guerra fredda, aveva solo fatto giustizia; ma per gli innocentisti s'era resa complice della caccia alle streghe comuniste dell'estrema destra, il maccartismo. Ieri, con il rilascio di gran parte degli atti processuali e con una intervista al New York Times di un compagno della coppia, Morton Sobell, la verità è finalmente emersa.
Spia sovietica fu unicamente Julius Rosenberg: la moglie Ethel, pur essendo al corrente della sua attività, non vi partecipò. A 55 anni di distanza, la sua condanna a morte, anziché alla detenzione, appare una sentenza iniqua anche ai fautori della pena capitale.
A ottenere il rilascio dei documenti, 41 delle 45 deposizioni al processo, uno dei più controversi della storia americana, sono stati gli Archivi nazionali e la Coalizione nazionale degli storici. Dai dossier, è chiaro che si trattò di una tragedia familiare oltre che giudiziaria: le false prove di spionaggio a carico di Ethel Rosenberg furono infatti addotte dal fratello David Greenglass e dalla cognata Ruth su pressione della Procura, che in cambio risparmiò loro la sedia elettrica.
Il fratello, che lavorava al Laboratorio di Los Alamos, e la cognata testimoniarono di avere fornito ai Rosenberg appunti presi a mano sull'atomica, e di avere visto Ethel batterli a macchina per consegnarli ai sovietici. Un falso dell'ultimo minuto, in contrasto con la loro deposizione iniziale davanti al Gran Giurì, dove avevano accusato solo Julius.
Dell'innocenza di Ethel Rosenberg erano convinti da tempo sia gli Archivi nazionali che la Coalizione degli storici: da documenti della Urss decifrati dalla Cia, risultava che il Kgb, la polizia sovietica, aveva ricevuto gli appunti a mano di David Greenglass e che non esistevano suoi appunti battuti a macchina dalla sorella. Ma ieri l'innocenza di Ethel è stata confermata anche da Sobell, che a 91 anni è l'unico sopravvissuto del clamoroso caso.
Nell'intervista al New York Times, Sobell, un altro ricercatore del Laboratorio di Los Alamos, ha ammesso per la prima volta di essere stato anch'egli una spia sovietica. Ha però sostenuto che il Cremlino possedeva già i segreti atomici e che i dati ricevuti da Julius Rosenberg erano di scarsa importanza: «Quanto a Ethel — ha concluso— ebbe solo la colpa di essere sua moglie ».
Il New York Times ha ricordato che nel 2001 William Rogers, il sostituto procuratore al tempi del processo, celebrato nel 1951, spiegò che Ethel venne incriminata per indurre il marito a confessare e a svelare i nomi di altre spie sovietiche: «Speravamo che di fronte alla minaccia di una condanna a morte della donna, Julius crollasse. Ma i coniugi non collaborarono, continuarono a proclamarsi innocenti».
Secondo il quotidiano, la politica impedì alla Procura di tirarsi indietro. Ne è convinto anche Sobell, che era riuscito a fuggire, ma fu catturato e incarcerato fino al '69: «Ethel sapeva, ma più di una volta si era tenuta fuori dalle nostre conversazioni. Tacque con le autorità per salvare il marito, un reato di omissione».
Tra il 1951 e il 1953 eminenti americani, a disagio per il caso, chiesero invano la grazia per i Rosenberg: il presidente Eisenhower la rifiutò, e la loro esecuzione fu accompagnata da proteste in tutto il mondo. Ricordandolo, uno dei loro figli, Robert Meeropol— dovette cambiare nome — si è detto lieto del riconoscimento dell'innocenza della madre. Ha rilevato lo storico Bruce Craig: «È un'amara lezione per la nostra democrazia. La Procura giudicò i Rosenberg colpevoli prima ancora del processo e non badò ai mezzi per farli condannare. Auguriamoci che non si ripeta più».

Corriere della Sera 13.9.08
Pantelleria Le piante di agrumi protette come nel 3000 avanti Cristo da edifici in pietra
Il Fai riapre il giardino dei Sumeri
di Stefano Bucci


PANTELLERIA (TP) — Potrebbe essere il risultato (finalmente concreto) di una delle tante utopie messe in scena quest'anno da Aaron Beetsky nella sua Biennale dell'architettura di Venezia. Oppure uno dei primi effetti dell'appello per progetti sempre più ecosostenibili e autosufficienti lanciato da Jeremy Rifkin. Il Giardino Pantesco Donnafugata inaugurato ieri in Contrada Khamma, a Pantelleria, è invece il frutto (come la secolare pianta di arancio dolce che lo stesso giardino ospita) di un sogno che parte da molto lontano (la prima rappresentazione di questo edificio si ritrova su una tavoletta sumerica del 3000 a.C.) ma che guarda al futuro. A come, per esempio, si possa utilizzare un modello antico «per soddisfare oggi l'esigenza idrica in assenza di irrigazione e in situazioni climatiche di grande siccità» (qui la pioggia non cade da aprile). L'isola, d'altra parte, sembra già esibire una connotazione ecologica: il 36% della raccolta dei rifiuti è differenziata mentre Pantelleria è «Parco nazionale» ed è in corsa per diventare Patrimonio dell'Unesco.
Tutto è nato dalla collaborazione tra il Fai (quel Fondo per l'ambiente italiano che fino al 30 ottobre ha avviato un censimento «per cancellare le brutture d'Italia» e che in Sicilia si sta già occupando del giardino della Kolimbetra ad Agrigento) e l'azienda vinicola Donnafugata della famiglia Rallo, che ha donato questo giardino pantesco (restaurato da Giuseppe Barbera e Gabriella Giuntoli) che rappresenta al pari dei dammusi uno dei simboli di un territorio «desertus et asperrimus » (secondo Seneca) oppure «infernale e verde» (secondo Cesare Brandi). Si tratta di edifici in pietra a secco (in massima parte a pianta circolare), privi di copertura, con una piccola porta che si apre su uno spazio simile all'hortus conclusus e che ospita poche piante di agrumi (a volte addirittura una sola).
Sono «segni» suggestivi che caratterizzano una realtà fatta di pietra lavica, piante di capperi, vento che spazza, ma anche di fichi e viti rigogliosissime. La loro presenza (circa 400) potrà diventare un elemento di attrazione turistica ma anche un laboratorio di sviluppo e ricerca. Ieri durante si è così cercato di presentare in particolare l'aspetto «moderno» di una proposta non solo ambientale (il direttore generale del Fai Marco Magnifico ha sottolineato che ora l'impegno del Fai abbraccia l'Italia «dalla Valtellina fino a Pantelleria, nel segno di una tutela che è integrazione e miglioramento»). Perché come ha spiegato Barbera (docente di culture arboree a Palermo) «i giardini panteschi proteggono la pianta dal vento, aumentano la riserva idrica del suolo, riducono l'evaporazione». Un'idea che potrebbe anche essere molto utile anche oggi; non a caso il Cnr ha messo questo giardino sotto osservazione. Perché, in fondo, il Sud del Mediterraneo, con le sue infinite realtà afflitte da siccità endemica, può ricevere un buon insegnamento anche da una pianta secolare di arancio nascosta dietro un muro di pietre, nel mezzo di un vigneto sull'isola di Pantelleria.

Repubblica 13.9.08
Ecco il segreto dell´acqua nel giardino di Pantelleria
di Carlo Brambilla


L´umidità del vento si condensa sulla pietra lavica: un microclima miracoloso
Sensori su recinti e piante per capire come usare una fortunata sequenza naturale

Come un nuraghe scoperchiato il torrione di pietra lavica del giardino pantesco sembra una fortificazione militare nel vento che sferza senza sosta l´isola di Pantelleria. Da centrotrenta giorni non scende una goccia d´acqua dal cielo. L´isola non ha sorgenti o falde profonde da cui attingere acqua. Nessuno può irrigare la terra. Ma nell´isola assetata, dietro quel muro circolare, a secco, fatto posando una sull´altra pietre vulcaniche tagliate a mano, porose come pomice, si nasconde una sorpresa straordinaria. Un immenso rigogliosissimo albero carico di arance particolarmente dolci e profumate. Un esempio di agricoltura senza acqua sul quale ha avviato una ricerca il Cnr di Bologna, in collaborazione col dipartimento di Colture arboree dell´Università di Palermo. Siamo all´inaugurazione dell´ultimo gioiello, il più meridionale di tutti, acquisito dal Fai, il Fondo per l´ambiente italiano.
Il giardino pantesco, donato dalla famiglia Rallo, proprietaria dell´azienda vinicola Donnafugata, verrà aperto al pubblico, completamente ristrutturato, nei prossimi mesi estivi. «Questa è la più piccola proprietà del Fai per estensione, ma ne siamo particolarmente orgogliosi - racconta Marco Magnifico, direttore generale culturale del Fai, arrivato sull´isola per firmare davanti al notaio l´atto della nuova donazione - un simbolo della lotta intelligente allo spreco di acqua. Una risorsa preziosa in un mondo che ha sempre più sete. Anche in Italia l´emergenza idrica è spesso una realtà quotidiana fatta di una distribuzione inefficace irrazionale ed inutili sprechi». I muri a secco di pietra consentono infatti un´agricoltura senz´acqua, realizzabile grazie alla condensa dell´umidità contenuta nell´aria marina.
A spiegare il meccanismo nella sua semplicità sono Giuseppe Barbera e Antonio Motisi, del dipartimento di Colture arboree dell´Università di Palermo: «Il vento caldo che sferza l´isola è carico di umidità. A contatto con la pietra lavica, che di notte si raffredda, l´umidità si condensa in tante piccole goccioline d´acqua. La pietra porosa raccoglie l´acqua come una spugna. E la rilascia lentamente al terreno. Consentendo alla pianta di arancio, particolarmente delicata, di crescere perfettamente. Grazie al muro che la circonda, che la protegge dal vento e permette il realizzarsi di un microclima ideale, parzialmente ombreggiato».
Condizioni ottimali che il Cnr intende studiare, applicando una serie di sensori al muro, al terreno e alla pianta. Per capire fino a che punto un´antica sapienza agricola può essere sfruttata al meglio, in futuro, grazie alle moderne tecnologie e ai nuovi materiali. Spiega Antonio Motisi: «Pensiamo a più comodi e leggeri film plastici capaci di far condensare le nebbie. O a particolari reti capaci di catturare l´umidità notturna. Per questo intendiamo studiare il bilancio energetico complessivo, durante tutto l´anno, del giardino pantesco, utilizzando termometri, termografi, strumenti sensibili ai raggi infrarossi. Per capire se questo modello può essere applicato in altre realtà agricole diverse, particolarmente povere di acqua».
Ma il giardino pantesco non interessa solo agli scienziati. Per la sua bellezza, all´interno di un´isola che non ha certo bisogno di presentazioni, è destinato ad attirare il turismo culturale attento alla tutela del paesaggio e delle tradizioni. «A Pantelleria la maggior parte dei giardini panteschi sono vuoti o da recuperare - racconta Giacomo Rallo, fondatore di Donnafugata - con questa donazione abbiamo voluto aprirne per la prima volta uno ai visitatori, nella speranza di tenere alta l´attenzione per tutto ciò che è rivolto a dare un contributo culturale al contesto che ci circonda». «I giardini murati di Pantelleria sono particolarmente importanti - commenta con entusiasmo Luca Mercalli, meteorologo e climatologo - perché sono lì a ricordarci che non bisogna perdere la memoria di quanto forse un domani tornerà utile».

Corriere della Sera 13.9.08
Asia Tour Ma a Milano uno sciopero fa saltare il balletto
La Scala debutta in Cina Applausi anche dai ragazzini
di Enrico Girardi


SHANGHAI — Si conclude oggi con un concerto al National Center for the Performing Arts di Pechino il cosiddetto «Asia Tour» dell'Orchestra Filarmonica della Scala. Iniziata in Giappone (Tokyo, Hyogo, ancora Tokyo) e proseguita in Sud Corea (Seongnam e Seoul), la marcia musicale degli scaligeri ha toccato il suo vertice ieri a Shanghai.
Se infatti Giappone e Corea sono tappe frequenti delle trasferte della Scala e di numerose formazioni europee e americane (i due Paesi rappresentano quasi il 50 per cento del mercato discografico mondiale), per la Scala in Cina si è trattato invece di una prima volta.
La Cina, del resto, è Paese giovanissimo quanto a musica occidentale. A Shanghai, capitale economica della nazione, prossima sede dell'Expo, di stagioni di musica sinfonica se ne organizzano solo da tre anni. In compenso, quando si muovono i cinesi lo fanno seriamente. Investono. E pur avendo 3000 teatri destinati agli spettacoli tradizionali, hanno costruito auditorium avveniristici per architettura e tecnologia. Tale quello di Pechino. E tale quello di Shanghai, un gigantesco edificio a forma di farfalla quasi soffocato dai grattacieli circostanti: in un'ala la sala per l'opera, nell'altra la Concert Hall da 1950 posti, nel corpo un'altra sala per la musica da camera, uffici, sale prova, persino una scuola di musica per bambini (10.000 allievi di pianoforte nella sola Shanghai). Le poltrone sono care (120-180 euro) ma si sa che la trasformazione di un sistema comunista in uno capitalistico ha costi sociali pesanti: più vale l'orchestra, più costa il biglietto.
Qui ieri, all'Oriental Art Center, sotto uno striscione che recitava «La prima serata di gala della Scala a Shanghai», i Filarmonici sono stati accolti da un pubblico giovane, con tanti bimbi, non esperto ma curioso e attento.
Ecco dunque anche il perché di un programma metà e metà: da una parte una Sinfonia di Ciajkovskij, la Quarta; dall'altra una quasi ovvia carrellata di brani d'opera: le Sinfonie da L'italiana in Algeri e dal Tell di Rossini, da La forza del destino di Verdi e l'Intermezzo da Manon Lescaut di Puccini. Bello che sia l'una sia l'altra parte siano state accolte con uguale entusiasmo. Bello che fosse un entusiasmo composto, nulla di sguaiato. Segno di un'ammirazione autentica.
Con l'orchestra un Myung-Whun Chung visibilmente felice, lui coreano, di traghettare la Filarmonica Scala in Oriente. Mai lo s'era visto così partecipe e sorridente. Sul podio però è sempre lui: gesto essenziale e chiarissimo, fraseggi molto accurati (anche quelli risaputi, seguivano un periodare con tanta «punteggiatura»), gusto per la cantabilità ma anche espressività trattenuta e colori accesi ma non troppo. Un bel concerto, di livello superiore a quello che le orchestre occidentali producono mediamente in tournée.
Entusiasmo all'estero, qualche problema a Milano: a causa di uno sciopero — indetto come atto di protesta contro la mancata conferma di alcuni lavoratori a tempo determinato — la Scala ha annullato la recita del balletto Serata Petit di martedì.

Repubblica 13.9.08
La visita di Benedetto XVI tra scetticismo e simpatie. Libé: "Missione impossibile"
Nel paese della chiese vuote "Qui non può fare miracoli"
di Giampiero Martinotti


PARIGI - "Missione impossibile" ha titolato ieri mattina Libération: «Benedetto XVI non farà miracoli in Francia, non rilancerà una chiesa che perde terreno». Il tono è più severo di quello di altre testate, ma la constatazione è unanime: il Papa visita un paese secolarizzato, malgrado due terzi dei suoi cittadini si dichiarino cattolici. E questo Pontefice così diverso dal suo predecessore, poco conosciuto dai francesi che lo considerano come un teologo poco comprensibile e molto conservatore, non potrà fare granché per nascondere le chiese vuote, le vocazioni in vertiginosa caduta, il materialismo imperante. Giovanni Paolo II poteva far dimenticare tutto ciò: nel 1997, centinaia di migliaia di giovani lo avevano acclamato sul Campo di Marte. Stavolta, come ha sottolineato L´Express, l´arcivescovado ha preferito la più piccola spianata degli Invalidi per la messa pontificale: «Paragonando le due cerimonie, se ne sarebbe dedotto che i fedeli erano molto invecchiati», ha detto l´arcivescovo della capitale.
La visita del papa ha però suscitato poche polemiche. Le protesta dei giornalisti della rete pubblica France2, che hanno lamentato lo slittamento del telegiornale delle 13 a causa della diretta da Orly e dall´Eliseo, fa soprattutto sorridere. E le proteste politiche sono state ridotte ai minimi termini. Tutti i commentatori hanno sottolineato la prudenza di Benedetto XVI, la moderazione delle sue parole, l´assenza di parole o concetti che potessero irritare la suscettibilità di un paese gelosamente attaccato alla laicità.
In fondo, a suscitare commenti politici è stato soprattutto Nicolas Sarkozy, che ha di nuovo parlato di «laicità positiva». Aggiungendo un aggettivo che non piace a molti. Il segretario socialista, François Hollande, lo ha accusato di discostarsi dal suo ruolo di guardiano delle istituzioni: «Confonde il suo ruolo di presidente della Repubblica con le sue convinzioni personali, confonde il rispetto dovuto alle religioni e il posto che si deve accordare loro nella Repubblica». Ma nessuno ha polemizzato con il Pontefice, accolto anzi con fervore dai parigini assiepati lungo il percorso della papamobile.

il Riformista 13.9.08
«Ora et labora» Il Papa indica all'Europa la via dei monaci
Il Papa ha detto che senza i monaci non ci sarebbe stato neanche Voltaire
di Paolo Rodari


Nella laicissima Francia, nel paese che, da Voltaire in giù, è per il mondo intero la "patria dei Lumi", Benedetto XVI ha vestito, in occasione della sua visita a Parigi (poi seguirà quella a Lourdes), davanti alle autorità del paese adunate all'Eliseo, i panni del professore di storia che spiega come attorno al concetto di «laicità positiva» Chiesa e Francia, lui e il presidente Sarkozy, possano viaggiare su binari mai così vicini e sintonici. Un tema, questo, secondo un diverso accento affrontato anche nell'attesissimo discorso del pomeriggio, quello tenuto al College des Bernardins davanti a 700 rappresentanti del mondo della cultura. Anche qui, il Papa, ha voluto vestire i panni del professore di storia per indagare sulle radici cristiane dell'Europa, la genesi insomma di un continente dove oggi «per molti - ha detto - Dio è diventato veramente il Grande Sconosciuto». Un discorso che non ha voluto spiegare all'intellighenzia transalpina quali siano i valori a cui un continente cristiano dovrebbe richiamarsi, quanto l'origine della sua stessa identità cristiana: il monachesimo che nel medioevo seppe creare dei luoghi di aggregazione culturale dove non soltanto la teologia (fede) ma anche le scienze (ragione) vennero indagate e poterono progredire senza frizioni e separazioni.
Anche il presidente Nicolas Sarkozy ha promosso nei suoi interventi di ieri il concetto di laicità positiva, mostrando come lui e il Papa si trovino sostanzialmente d'accordo sul rapporto tra Chiesa e Stato, sul delicato tema della laicità, e su come le due istituzioni possano e debbano interagire.
Benedetto XVI ha anticipato il suo pensiero fin dalla breve conferenza stampa tenuta nell'aereo che in mattinata lo ha portato in Francia. «È ovvio - ha detto - che la laicità non è in contraddizione con la fede». Parole alle quali ha replicato Sarkozy già all'aeroporto dove con Carla Bruni ha accolto il Pontefice: «Privarsi delle religioni - ha detto l'inquilino dell'Eliseo - sarebbe una follia, un errore contro la cultura e contro il pensiero». Per il Papa, infatti, «i valori cristiani sono fondamentali per la costruzione dello Stato e della società». Anche perché, certamente, si tratta di «due sfere che devono rimanere aperte l'una verso l'altra».
Touché, direbbero in Francia. Bersaglio centrato, potremmo tradurre in Italia: la sintonia tra il Papa e Sarkozy, canonico onorario di San Giovanni in Laterano, ha toccato in questo modo la sua più alta espressione pubblica. Anche padre Federico Lombardi, portavoce vaticano, lo ha riconosciuto: «Questo viaggio si presenta sotto i migliori auspici». Auspici poi confermati anche dai lunghi applausi che il discorso di Ratzinger ha ottenuto all'Eliseo, dalla standing ovation del College des Bernardins e, infine, dagli applausi della folla lungo le strade parigine.


«I due interventi tenuti ieri da Benedetto XVI a Parigi avevano finalità diverse. Il primo era proiettato a riflettere sullo storico rapporto esistente tra la Francia e la Chiesa cattolica. Il secondo, invece, era indirizzato a mostrare - ed è significativo che l'abbia fatto nella patria dei Lumi - come si sia formata la cultura europea: attraverso lo studio operato dal monachesimo della parola di Dio è nata la teologia, la filosofia, e sono nate le scienze. I monasteri medievali erano luoghi che riproponevano sempre quel nesso inscindibile di fede e ragione e Benedetto XVI, parlando proprio di questo nesso, ne ha voluto mostrare anche il fondamento storico. Questo intervento, a mio avviso, è un distillato ratzingeriano, un testo musicale e armonico, che nel suo progredire ha mostrato il proprio scopo. E cioè come attraverso lo studio della parola di Dio si sia sviluppato il sapere umano».
Carlo Cardia, professore di Diritto ecclesiastico e di Filosofia del diritto all'Università di Roma Tre, spiega così al Riformista il senso della prima giornata di Benedetto XVI a Parigi, Cardia conosce bene le dinamiche Stato-Chiesa, avendo lavorato come esperto dell'allora Pci e come consulente per il governo italiano nella revisione del 1984 dei Patti Lateranensi e nella successiva regolazione del finanziamento alla Chiesa italiana. Oggi fa parte della commissione paritetica italo-vaticana per l'applicazione del Concordato.
Professore, rivolgendosi alle autorità francesi il Papa ha elogiato le aperture di Sarkozy a un modello di laicità positivo. È così?
«Benedetto XVI mi sembra abbia voluto recuperare il rapporto con la Francia, che è sempre stata considerata "figlia dilettissima" della Chiesa. Anche l'accenno alle difficoltà del passato è in secondo piano rispetto al fatto che oggi il rapporto corra su buoni canali».
Quali?
«La Francia è un paese da sempre attento al rapporto tra i popoli. Il Papa le riconosce questa caratteristica e dice che su questo tema la sintonia con la Santa Sede può migliorare. Certo, Sarkozy facilita questa sintonia tra Chiesa e Francia. Egli, infatti, ben prima di diventare presidente della Repubblica, aveva parlato della necessità di mettere in campo una laicità positiva e, singolarmente, lo aveva fatto grazie alla sua conoscenza del mondo islamico, come spiega nell'ormai famoso libro-intervista La République, les religions, l'espérance . Parole come queste rappresentano per la Francia una rottura netta col passato».
Le medesime cose Sarkozy le disse il 20 dicembre del 2007 in San Giovanni in Laterano…
«Il discorso del Laterano fu in questo senso mirabile. Si sentiva, infatti, l'orgoglio francese proiettato al recupero della cattolicità della stessa Francia».
Tre giorni fa però il cardinale Bertone ha detto, in un'intervista concessa a La Croix e in riferimento alle aperture di Sarkozy sulla laicità, che «alle parole debbono seguire i fatti»…
«Benedetto XVI ne ha fatto un breve cenno nel discorso della mattina quando ha spiegato che, già dal 2002, le cose erano iniziate a cambiare grazie all'istituzione di una sorta di tavolo d'incontro scaturito anche qui dal bisogno del presidente francese di coinvolgere il mondo musulmano. Certo, come ha detto Bertone le cose possono e debbono migliorare, ma già qualche passo in avanti si è fatto».
Al College des Bernardins il Papa ha invece parlato di fede e ragione.
«Ha parlato del rapporto tra fede e ragione alla luce della storia. Dunque fede, ragione e storia. Benedetto XVI, cioè, non ha voluto parlare dei valori cristiani che stanno alla base del continente europeo, ma è voluto partire dalla genesi della cultura cristiana in Europa, e quindi dal nesso inscindibile di fede e ragione così some storicamente si è formato. E lo ha voluto fare, significativamente, davanti all'intellighenzia del paese dei Lumi».
Cosa c'entra il monachesimo in tutto questo?
«Ascoltando il Papa parlare ci si domandava perché citasse i monaci e quello che nel medioevo facevano: lo studio della parola, dei classici, della musica. E poi il fatto che gli stessi monaci per la prima volta abbiano nobilitato il lavoro togliendogli il carattere servile e rapportandolo alla dignità dell'uomo. Ma si è capito poi, ascoltandolo, dove volesse arrivare. Voleva parlare del fatto che l'Europa, le sue scienze, le sue teologie, si sono formate proprio nei monasteri. Erano dei centri di irradiazione culturale che hanno permesso il formarsi del nostro continente, anche delle scienze. Le radici della cultura occidentale stanno in questi centri di cultura». (P. Rod.)

il Riformista 13.9.08
I 700 professori. L'esame degli intellos
Il parterre laico, missione impossibile
di di Luca Sebastiani


A guardar bene la scena non si capiva con precisione chi fosse ospite di chi. Se fosse Benedetto XVI a essere in udienza dagli intellettuali francesi o il contrario. Ieri il confine tra i ruoli era decisamente poroso al College des Bernardins dove il Papa aveva convocato settecento rappresentanti del mondo culturale d'oltralpe per rivolger loro un discorso su fede e ragione, religione e laicità. Per declinare di fronte ai guardiani della Francia secolarizzata un ragionamento sui rapporti tra Chiesa e Stato. Che di fronte all'intellighenzia parigina è come pretendere di rubare in casa del ladro. Non a caso Benedetto XVI, per non irritare la suscettibilità parigina, ha soppesato le parole con estrema cautela, come di fronte a una commissione d'esame.
A eccezione dell'ex presidente della Commissione europea Jacques Delors, il parterre che ha ascoltato il Papa era completamente sprovvisto di rappresentanza politica. C'erano scrittori noti come Daniel Pennac e meno noti come Pierre Micron. Scienziati, storici, accademici di Francia come Marc Fumaroli e poeti come François Cheng. E registi, scultori, giornalisti e universitari di ogni campo.
Si sa che in Francia l'aristocrazia intellettuale più o meno engagé ha sostituito da tempo la vecchia aristocrazia di sangue. La casta intellettuale ha un ruolo di primo piano nella République, subito accanto al monarca repubblicano. Candidato alla presidenza, il parvenu Nicolas Sarkozy spese non poca energia per cooptare dalla sua parte qualche intellettuale di primo piano che gli permettesse di penetrare in un modo a lui ignoto ma necessario per entrare all'Eliseo. La mossa gli riuscì e dopo il nouveau philosophe André Glucksmann, uno a uno fecero coming out in suo favore parecchi prestigiosi esponenti dell'Accademia. Compreso lo storico e accademico di Francia Max Gallo, che da ex socialista e ispiratore della nuova «laicità positiva» alla Sarkozy, ieri sedeva tra i primi ranghi ad ascoltare le parole del Papa.
Ma il mondo intellettuale francese, contrariamente alla fronda sarkozista, è profondamente attaccato alle prerogative sul magistero intellettuale che gli sono attribuite dalla stretta separazione tra Stato e Chiesa. E Benedetto XVI era perfettamente conscio della difficoltà della prova. Ma il suo era un passaggio obbligato. Certo il presidente della Repubblica ha concesso più di un'apertura alla Chiesa cattolica, in particolare rivendicando le radici cristiane della Francia e auspicando un maggiore spazio nella vita pubblica per la religione. Ma i veri guardiani del dibattito pubblico, in Francia, sono gli intellettuali e se si vuole pesare è attraverso loro che bisogna farlo. Non è un caso che il Papa li abbia incontrati subito dopo essere stato ricevuto da Sarkozy. Il discorso al College des Bernardins era tutto mirato alla riconquista dell'egemonia culturale in un paese tra i più secolarizzati d'occidente.
Per ridare visibilità e peso alla Chiesa e al cattolicesimo è in primis agli intellettuali cattolici che il Papa si è rivolto. L'obiettivo era quello di spingerli ad assumere in maniera militante la loro fede. A questo proposito non sfuggiva la presenza nella platea di uno storico come Jacques Juillard o di uno scrittore come Philippe Sollers, intellettuali che hanno sempre tenuto la loro fede relegata nella sfera privata. E non sfuggiva neanche la presenza del filosofo Regis Debray, l'ex guerrigliero trotzkista che dopo aver combattuto al fianco di Che Guevara è tornato a Parigi per occuparsi di religione.
Per riuscire nel suo intento Benedetto XVI aveva una serie di carte da giocarsi. Innanzi tutto ha potuto farsi accettare in quanto membro a pieno titolo del mondo intellettuale. Il tema del rapporto tra fede e ragione è stato al centro della sua vita di studioso e quindi ne ha parlato ai parigini nelle vesti di esperto. Dall'altro Benedetto XVI poteva vantare una certa conoscenza dell'universo culturale francese. Il Papa parla un francese senza accento ed è oltretutto un grande lettore di François Mauriac, Paul Claudel e Georges Bernanos. Proprio per questo non gli sarà sfuggita la situazione di isolamento che gli intellettuali cattolici hanno sempre scontato oltralpe. Da aristocrazia del sapere, l'intellighenzia francese gode di un'ottima posizione e di una grande autonomia. Tornare sotto il magistero della Chiesa, qualunque essa sia, per ora non dovrebbe interessarla. Non a caso Libération, in relazione alla scommessa del Papa, titolava: «Missione impossibile».



Repubblica 13.9.08
Restare se stessi in terra straniera è la sfida dell´era delle diaspore
di Zygmunt Bauman


Stiamo vivendo la terza fase delle migrazioni, quella che più di ogni altra ci impone il tema della convivenza
La nuova incarnazione dei diritti umani è il diritto a preservare l´identità anche nei paesi ospitanti

Le città, ed in particolare le metropoli, sono come pattumiere in cui i problemi della globalizzazione vengono gettati. Sono anche laboratori in cui l´arte di vivere con questi problemi (pur non risolvendoli) è sperimentata, messa alla prova e (speriamo) sviluppata. Mi concentrerò su un aspetto del processo di globalizzazione: e cioè, il mutamento di alcuni aspetti della migrazione globale.
Si possono individuare tre distinte fasi migratorie nell´epoca moderna. Quella attuale, la terza, tuttora in pieno vigore e slancio, ci porta nell´era delle diaspore: un arcipelago planetario di insediamenti etnici/religiosi/linguistici ha indotto una logica della redistribuzione planetaria delle risorse umane. Le diaspore sono disseminate, diffuse, si estendono in molti territori sovrani, ignorano le rivendicazioni territoriali per la supremazia di richieste e doveri locali, sono schiacciate dal doppio (o multiplo) legame della "doppia (o multipla) nazionalità" e doppia (o multipla) lealtà.
La nuova migrazione pone un punto interrogativo al legame tra identità e cittadinanza, individuo e luogo, vicinato e appartenenza. I confini del proprio "quartiere" sono porosi, è difficile identificare chi vi appartiene e chi è un estraneo. Che cos´è ciò a cui apparteniamo in questa località? Che cos´è ciò che ognuno di noi chiama casa e, quando ricordiamo e ripensiamo a come siamo arrivati qua, quali storie condividiamo? Vivere come noi in una diaspora tra diaspore ha imposto alla nostra attenzione il tema della "convivenza con la diversità". È probabile che avvenga solo una volta che tale differenza non sia più percepita puramente come una "irritazione temporanea", e così, diversamente dal passato, urgentemente bisognosa di interventi specifici, insegnamento e apprendimento. L´idea dei "diritti umani", si traduce oggi nel "diritto a essere diverso".
Un po´ alla volta, questa nuova interpretazione dell´idea dei diritti umani, tutt´al più, semina tolleranza; deve cominciare seriamente fin d´ora a seminare solidarietà. La nuova interpretazione dell´idea di diritti umani scardina le gerarchie e distrugge l´immagine di una "evoluzione culturale" verso l´alto (progressiva). Forme di vita galleggiano, si incontrano, scontrano, precipitano, si aggrappano l´una all´altra, si fondono, si separano (per parafrasare George Simmel) con uguale gravità specifica. Le fisse e monolitiche gerarchie e le linee evolutive sono state sostituite da interminabili lotte per il riconoscimento, endemicamente inconcludenti; o al massimo da scale gerarchiche rinegoziabili.
Potremmo dire che la cultura è nella sua fase liquido-moderna, fatta a misura della libertà di scelta individuale. E dovrebbe sostenere tale libertà; assicurarsi che la scelta sia inevitabile: una necessità vitale e un dovere. La cultura contemporanea si basa su offerte, non norme. Come già notato da Pierre Bourdieu, la cultura vive secondo la seduzione, e non regole normative; secondo relazioni pubbliche, e non mantenimento dell´ordine; creando nuovi bisogni/desideri/volontà, non coercizione. Questa nostra società e una società di consumatori, e proprio come il resto del mondo è vissuto da consumatori, la cultura si trasforma in un magazzino di prodotti pensati per il consumo – in cui ognuno di essi compete per catturare l´attenzione di potenziali consumatori nella speranza di attirarli e trattenerli per un attimo. Abbandonare i rigidi standard, assecondare la mancanza di discriminazione, servire tutti i gusti non privilegiandone alcuno, incoraggiare la discontinuità e la "flessibilità" e romanticizzare l´instabilità e l´inconsistenza, è questa la "giusta" strategia da perseguire.
L´attuale fase di progressiva trasformazione dell´idea di cultura dalla sua originaria forma ispirata all´Illuminismo verso la sua reincarnazione liquido-moderna è stimolata e gestita dalle stesse forze che promuovono l´emancipazione dei mercati dagli impedimenti di natura non-economica – cioè da quei legami sociali, politici ed etici. Perseguendo la propria emancipazione, l´economia, focalizzata sul consumatore liquido-moderno, fa affidamento sulle offerte in eccesso, sul loro invecchiamento accelerato, e sul rapido declino del loro potere seduttivo – cose che, tra l´altro, la rendono un´economia di dissipazione e spreco. Dal momento che non è dato sapere in anticipo quali offerte si riveleranno sufficientemente attraenti da stimolare il desiderio consumistico, l´unica soluzione è quella di costosi tentativi.
La cultura sta diventando ora come uno di quei reparti del tipo "tutto ciò che ti serve e che puoi sognare" dei grandi magazzini in cui il mondo abitato da consumatori si è trasformato. Come in altri reparti di quel magazzino, le mensole strapiene sono rifornite giornalmente di merci, mentre i banchi sono addobbati con le ultime offerte commerciali destinate a scomparire immediatamente, assieme alle attrazioni che pubblicizzano. Le merci e le pubblicità allo stesso modo sono pensate per accrescere i desideri e stimolare le volontà (come George Steiner ha notoriamente descritto – "per un massimo impatto e un immediato invecchiamento"). I commercianti e i copywrighter contano sul connubio tra il potere seduttivo delle offerte e la radicata "arte di primeggiare", il desiderio di "ricavarsi uno spazio" proprio dei potenziali consumatori. La cultura liquido-moderna, differentemente dalla cultura dell´epoca del nation-building, non ha persone da acculturare. Ha invece clienti da sedurre. E, diversamente dai suoi predecessori "solidi moderni", non vuole più lasciare che le cose si risolvano da sole, il suo compito oggi è rendere permanente la sua sopravvivenza – rendendo temporali tutti gli aspetti della vita dei suoi precedenti protetti, ora rinati come clienti.
(Traduzione di Silvia Sai, testo elaborato in occasione del primo Festival delle Culture "Uguali-Diversi" a Luzzara e Novellara dal 12 al 14 settembre)

Repubblica 13.9.08
Una ricerca Israele-Usa pubblicata su Science "La memoria è come un videoregistratore"
Il replay della mente così i ricordi nutrono il cervello
di Elena Dusi


A ogni immagine che si forma nella nostra testa si attiva un mosaico di neuroni

Un neuroscienziato sa cosa pensa un uomo prima ancora che lui se ne renda conto. Quando un´idea o un ricordo iniziano a sbocciare nella testa, dei sensori elettrici possono coglierla prima che raggiunga la superficie della coscienza. Lo hanno dimostrato dei ricercatori americani e israeliani in un esperimento pubblicato su Science. Il risultato in realtà lascia un po´ l´amaro in bocca, perché finisce con il paragonare la nostra mente a una sorta di videoregistratore. Semplificando molto, è come se bastasse attaccare una spina elettrica per "osservare" le immagini che scorrono nella nostra testa, nel momento in cui ricordiamo il volto di una persona incontrata ieri o il film visto la sera prima. E se il sensore elettrico è piazzato al punto giusto in quella "centralina" della memoria chiamata ippocampo, raccogliere il ricordo è questione di un attimo: gli scienziati di fronte al video impiegano addirittura uno o due secondi in meno rispetto a quanto non faccia la coscienza di chi ricorda.
Un esperimento come quello guidato da Hagar Gelbard-Sagiv del Weizmann Institute di Rehovot, in Israele, e da Itzhak Fried dell´università della California a Los Angeles può essere tentato solo su individui gravemente ammalati di epilessia in attesa di un intervento chirurgico. In ogni caso, prima dell´operazione, a questi pazienti va inserita una minuscola sonda che arrivi nelle profondità del cervello, laddove si trova un´area a forma di virgola chiamata ippocampo. È qui che i ricordi vengono immagazzinati alla rinfusa appena arrivano, in attesa di essere scomposti e spediti nelle aree del cervello deputate alla loro conservazione a lungo termine.
Con la sonda posizionata nell´ippocampo di tredici pazienti, i neuroscienziati hanno osservato uno per uno i circa cento neuroni che si attivavano mentre sullo schermo di una tv scorreva una scena dei Simpsons o di un altro telefilm capace di stimolare attenzione e umorismo. Lo stesso esperimento è stato ripetuto mostrando agli individui con l´epilessia delle foto di animali o cartoline con la torre Eiffel o paesaggi diversi. A ogni immagine corrisponde un mosaico di neuroni che si attivano.
L´ippocampo registra questo schema nel momento in cui guarda la foto o la scena del film. Un´ora più tardi, quando ai pazienti viene chiesto di richiamare l´immagine dalla loro memoria, la sonda ha osservate esattamente gli stessi neuroni che si riaccendevano. Ricordare, dunque, è un po´ come rivivere. O più banalmente, come premere il tasto "replay" su un videoregistratore. Ma nonostante il fascino straordinario di riuscire a osservare il nostro cervello mentre lavora con la definizione del singolo neurone, la spiegazione degli scienziati israeliani e americani scatena più domande di quante non ne soddisfi. Dove per esempio viene conservato lo "schema" di accensione dei neuroni relativo a Homer e dove quello che caratterizza Lisa. E come la memoria a breve termine viene processata e trasformata in memoria a lungo termine, in aree lontane dall´ippocampo.

Repubblica 13.9.08
Remo Bodei racconta l´idea che anima la rassegna
Il dono di vedere un mondo che non c´è
di Ilaria Zaffino


"La gente è stanca del fast food intellettuale fornito dalla tv. Ha voglia di approfondire. Divertendosi"

Accade a tutti di immaginare chi saremmo potuti essere se non avessimo conosciuto quella persona, se non ci fossimo trovati in una determinata situazione, se non fosse capitata una certa occasione. La fantasia è una facoltà che possediamo sin dall´infanzia. Sfruttata dai bambini nei giochi, sperimentata di notte nei sogni e ogni giorno nel formulare ipotesi. Da un lato è legata all´idea di arbitrio, di velleitaria fuga dalla realtà. Dall´altro svolge una funzione vitale nel non vedere il mondo com´è e nel promuovere la creatività artistica, scientifica. Persino le scelte nella vita di tutti i giorni». Remo Bodei, supervisore scientifico del Festival della Filosofia, che per l´ottavo anno animerà durante il prossimo fine settimana le città di Modena, Carpi e Sassuolo, spiega la scelta del tema guida di quest´anno: la fantasia, appunto. «Quello strumento» come lo chiama lui «che è un antidoto alla finitezza di ogni esperienza individuale e viene utilizzato per sognare una vita diversa; per rendere la nostra vita più ricca e soddisfacente, intrecciandola con quella degli altri, conosciuti o non conosciuti, vicini o lontani, nel tempo e nello spazio». E proprio a "La vita degli altri (e la nostra)" è dedicato uno degli interventi di Bodei al festival. Insieme a lui si confronteranno col pubblico grandi maestri del pensiero contemporaneo.
«Ad esempio Giacomo Rizzolati, il padre dei neuroni a specchio, racconta come funziona il "teatro della mente". Isabelle Stenger, assistente del premio Nobel per la Chimica Ilya Prigogine, illustra la pratica dell´invenzione nella scienza, l´importanza cioè dell´immaginazione scientifica. E, ancora, il francese Marcel Detienne parla dei miti di ieri e di oggi, dall´antica Grecia fino al mito della Padania. Ma si discuterà anche di proiezioni immaginative della maternità, di Second Life, del rapporto tra verità e finzione, e dei risvolti che questo ha sul cinema e sulla moda. C´è molta attenzione al momento dell´imparare divertendosi, con uno spazio dedicato ai bambini, come i "lettini parlanti" dove si possono ascoltare le favole o le bolle di sapone tanto grandi da contenere una persona. C´è il teatro, con Massimiliano Finazzer Flory che propone una pièce su Borges. L´arte, e tanta musica».
Cosa c´è dietro al successo di un festival che ha per oggetto una disciplina vecchia di 2.500 anni?
«La gente è stanca del fast food intellettuale fornito dalla tv. Ha voglia di imparare, di approfondire nozioni scolastiche, vedere persone di cui ha sentito parlare e di cui ha letto libri, ha voglia di stare insieme. Di festival ce ne sono tanti: qui non vogliamo dare pillole di saggezza, ma discutere su un tema che coinvolge la vita di tutti. Quest´anno ci sono 40 lezioni magistrali e 200 appuntamenti gratuiti per dimostrare che la filosofia non muore mai. Anzi rivive a ogni stagione, perché corrisponde a bisogni di senso che vengono continuamente riformulati».
Come si presenta oggi la scena filosofica italiana? E quella internazionale?
«Cominciamo dall´estero: la filosofia italiana inizia a circolare, a essere apprezzata all´estero. Le filosofie europee, e sulla scia di queste quella italiana, sono molto studiate: vengono tradotti molti libri, ad esempio Vattimo o io stesso. In Italia il discorso è più complicato. Dall´Umanesimo la nostra è stata una filosofia civile. Una filosofia della ragione impura, che non si rivolge ai filosofi, ma ai cittadini colti, con la funzione di educare le élite. Una filosofia che ha dato il meglio negli aspetti legati alla realtà: la politica, ad esempio, con Machiavelli o Gramsci; la storia con Croce. Però ora questo modello è entrato in crisi: si è indebolito l´impegno politico, molti filosofi sono diventati concessionari di filosofie straniere. Non è che manchi il pane teorico ai filosofi, bisogna solo aspettare che passi questo momento di transizione.E intanto cresce la preoccupazione per il futuro e per i grandi temi come l´ecologia, i disastri climatici: la natura è tornata protagonista come ai tempi della filosofia greca delle origini. Solo che si è creato un antidestino: prima la natura era immodificabile. Oggi la possiamo cambiare: le donne possono avere figli dopo la menopausa. Fino all´estremo che si possa arrivare a donne e uomini di allevamento».

Repubblica 13.9.08
"Oltre l´almeno", divagazioni d´autore (e d´attore) sul tema della fantasia
Alla fonte dell´immaginazione
di Alessandro Bergonzoni


Attore e autore teatrale,è al Festival della Filosofia domenica 21 settembre (alle ore 21, Modena, piazza Roma) con lo spettacolo "Il pensiero orda e sue convulsioni:la fantasia incontra Bergonzoni":una serata di divagazioni e invenzioni linguistiche. Di seguito un estratto del suo intervento

La Fantasia lì nasce. È il cambio che si danno i mondi durante il turno delle cose. (Oh mania vergine, fammela scaturire!). Il planare conserva la terra un attimo in più del precipitare.Chi dice che una scure di giorno (precipitare), di notte non si travesta da piuma per provare nuove armonie (planare)? La Fantasia.
Con Ella si tratta o non si tratta. Si tratta di sibili mnemonici impercettibili, di rivelazione (poi, solo dopo, azione e rivoluzione!). Si tratta di starnuti sessuali, di angurie al sangue, di geometria delle fiamme, di rosari senza spine, della decenza fatta di dieci sottili bordi (bordelli), di sfiniture, di indugi vascolari, di allettame,di ostriche che non son altro che orecchie fossili (mettile davanti agli occhi e sentirai il mare); si tratta di avvertire il dolore di non venire se c´è gia sofferenza, di far scoppiare le cariche dello stato (delle cose). La Fantasia parla di se stessi: se stessi per guarire? Se stessi per stridere? Se stessi per stanare? Se stessi per rimpinguare? Se stessi per umettarmi? E adesso afroditemi: posso tornare ad esser dea? Altrimenti torno venia e chiedo asilo alle dita che tengo sempre nella fondina delle mani. Regalatevi un anello prima che diventi di nuovo una linea, prima del suo decerchiarsi. Dal punto di vista filosofico, la ragion d´essere, la ragion pura e la ragion veduta centrano? Certo: la pura veduta ce l´hai solo dall´essere! Prendi esempio dalle ciglia: cadi e vedrai ! Si tratta di altre metereoligiche, è questione di invento, d´altro. Invece certuni (nel senso unico di troppo certi) continuano a voler medaglie sul petto quando ormai è solo ora di cambiare il petto, liberarlo dalla gabbia toracica, per farsi contagiare dal fiato delle statue, scrutando il cielo dei passi col capo-volto, il mare in uno sputo, gli inguini di confine, le vitali morie, le orde anomale, il pulviscolo esoterico, la stagione in cui fioriscono gli attaccapanni pensando contemporaneamente a cosa prova un bottone quando entra nell´asola.
Invece, ancora certuni, continuano a parlare di storie decise a tavolino che nemmeno il tavolino avrebbe pensato, di temi scelti dal visto (per non andare da nessuna parte), sceneggiature da pavida cosmesi (per far buon viso), romanzi per rassicurare. Oh Fantasia falli! Incominciare a smettere di volersi riconoscere in quello che vedono e sentono, di cercare solo l´attuale, gli eventi reali (ne re ne ali)! Chetorni! Il creare come la prima delle volte, le volte dell´architettura, dell´immaginazione cruenta, le ampie volute, potute e dovute. Dicono: e la verità? Filosoficamente, nell´arte, la verità va detta o basta scoprire che ne esistono altre? Mistero: per calcolare l´aria della fantasia bisogna moltiplicare frase per altezze e tutto sommato non dividere niente. Per tutto ciò, devo qualcosa?
Devo pensare alla distanza che c´è tra l´ugola e il Natale (non parlare solo delle sue vacanze). È un esempio d´esempio. Devo intuire quel che prova la modestia quando indossa un uomo (non saperne di più attraverso un film sulla timidezza). Un altro esempio d´esempio. Devo scoprire cosa pensa il litro, a prescindere dal suo liquido, quando resta per anni dentro una bottiglia (non sentirmi raccontare ancora cosa dimostra la chimica o cosa dicono le storie sul vino).
Fantasia, dacci dentro! (Ci abbiam dato troppo fuori!).